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XXV CONVEGNO SISP UNIVERSITÀ DI PALERMO
8 - 10 SETTEMBRE 2011
SEZIONE RELAZIONI INTERNAZIONALI
Panel 3. L’international systems change: il mutamento degli attori e le sue implicazioni
Globalizzazione immaginaria, le sirene del pensiero
analogico
MARCO MAYER – ELENA ZACCHETTI
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI FIRENZE – FACOLTÀ DI SCIENZE POLITICHE
Prima bozza. Si prega di non citare.
1
Sono benvenute osservazioni e commenti: [email protected]; [email protected]
Premessa
Il paper si inserisce in un più ampio progetto di ricerca pluriennale che stiamo
conducendo sui processi di globalizzazione: “La Rivincita degli Stati. Il paradosso della
globalizzazione multipolare”. Il progetto è strutturato in due sezioni: la prima è dedicata ad
un’ampia rassegna critica delle più rilevanti analisi teoriche in materia di globalizzazione; la
seconda si concentra sui risultati della ricerca empirica. L’ambito temporale della ricerca è il
periodo 1991-2009. Le unità di analisi sono le interrelazioni tra i paesi G20 e le relazioni con i
maggiori attori non governativi.
In questo paper ci proponiamo di affrontare due domande: a) perché gran parte della
letteratura e del dibattito pubblico hanno erroneamente previsto che la globalizzazione
avrebbe prodotto il declino del ruolo degli Stati nella politica internazionale?1 b) perché non si
è compreso che i processi di globalizzazione avrebbero favorito un nuovo assetto multipolare
della politica internazionale? Data la loro rilevanza, l’attenzione si concentra prevalentemente
sugli aspetti economici. L’ipotesi che intendiamo proporre è che questa miopia cognitiva derivi
dall’approccio analogico che ha dominato gli studi sulla globalizzazione contemporanea.
Introduzione. La fragilità dell’approccio analogico
Per la rapidità con cui è sopraggiunta la globalizzazione contemporanea, e non per pigrizia,
le scienze sociali hanno teso ad analizzare i processi per analogia, estendendo automaticamente al
mondo globale termini, concetti e teorie abitualmente utilizzati in ambiti spaziali più limitati.
L’irrompere dei processi di globalizzazione ha spinto ad aggiungere l’aggettivo “globale” a concetti
teorici largamente accettati, quali, ad esempio, mercato, libertà, sicurezza, dando per scontato che
mercato globale, sicurezza globale, libertà globale abbiano lo stesso significato e possano
1 Citiamo per tutti Paul Kennedy secondo cui: “il tema della perdita di rilevanza degli Stati nazionali è ormai da anni al centro del dibattito accademico e politico e nella stessa considerazione popolare sembra venir meno la fiducia nello Stato”?. Per una sintetica a e puntuale rassegna critica della letteratura sulla globalizzazione contemporanea si può fare riferimento a Mauro F. Guillen, Is Globalization Civilizing, Destructive or Feeble? A Critique of Five Key Debates in the Social Science Literature, in “Annual Review of Sociology”, Vol. 27, (2001), pp. 235-260.
2
funzionare secondo la stessa logica che connota questi concetti in più ridotti ambiti spaziali, in
diversi contesti storici, in singoli domini disciplinari.
Numerosi studiosi hanno così inconsapevolmente applicato la tesi di Ulrich Beck secondo
cui siamo di fronte ad una “politica interna globale”, perché “con la globalizzazione la distinzione
tra il nazionale e l´internazionale su cui si era basata la nostra visione del mondo è cancellata”.2
L’abuso dell’aggettivo “globale” ha accentuato il “caos terminologico” o la “Torre di Babele”3 che
contraddistingue le scienze sociali.4
Altrettanto rapidamente il termine “globale” è entrato nel linguaggio comune. Tutti scrivono
e parlano di mercato globale, economia globale, società globale, sicurezza globale, libertà globale,
politica globale. La galassia del pensiero “globalista” da un lato, la “Torre di Babele” dei linguaggi
delle scienze sociali dall’altro, hanno avvolto i processi di globalizzazione in una cortina fumogena.
Niente di nuovo sotto il sole; come accade in ogni fase storica, la globalizzazione contemporanea ha
prodotto le proprie ideologie, i propri ideologi e il relativo lessico.5
L’immagine del “villaggio globale” rappresenta l’emblema di questo processo: l’estensione
analogica non è solo di ordine spaziale (dal domestico al globale), ma amplia il significato di una
formula fortunata nata nell’alveo funzionale delle scienze della comunicazione. “Villaggio globale”
è la metafora ideata da Marshall McLuhan nei primi anni sessanta per segnalare un fenomeno
rilevante. Per effetto delle comunicazioni in tempo reale a grande distanza, il mondo è diventato più
“piccolo”.6
2 Ulrich Beck, Che cosa è la globalizzazione. Rischi e prospettive della società planetaria, Carocci, Roma, 1999.3 G.Sartori, The Towers of Babel, Working Paper 5, Committee on Conceptual and Terminological Analysis, International
Political Science Association. University of Hawaii, 1972. . L’abuso dell’aggettivo ‘globale’ è una patologia del linguaggio scientifico che Alberto Marradi ha definito “sfilacciamento semantico per stiramento” ?. Il dilagare del termine ‘globale’, e più in generale la babele dei linguaggi che caratterizza la letteratura sulla globalizzazione, inducono facilmente in errore. Anche le più autorevoli e radicate convinzioni teoriche possono inconsapevolmente incorporare sottili pregiudizi e indirizzare su false piste le indagini empiriche. Alberto Marradi, Linguaggio scientifico o torre di Babele?, in “Rivista Italiana di Scienza Politica" Vol. XVII, No. 1, aprile 1987, pp. 135-156.4 Al Congresso di Monaco (1970) della International Political Science Association, Giovanni Sartori lanciò un appello ai politologi sensibili alla crescente confusione terminologica delle scienze sociali e desiderosi di combatterla. Tra gli studiosi più accreditati presenti al Congresso, solo due condivisero appieno le preoccupazioni e i propositi del politologo italiano: Fred Riggs e Henry Teune.5 La fine dell’ideologia tradizionale è diventata un’espressione centrale in grado di sintetizzare una delle più forti tendenze del nostro tempo. Dennis Wrong, Reflections on the End of Ideology, Funk & Wagnalls, New York 1968 (http://writing.upenn.edu/~afilreis/50s/end-of-i-wrong.html).6 “After three thousand years of explosion, by means of fragmentary and mechanical technologies, the Western world is imploding. During the mechanical ages we had extended our bodies into space. Today, after more than a century of electric technology, we have extended our central nervous system itself in a global embrace, abolishing both space and time.. The human family now exists under conditions of a global village. We live in a single constricted space”. Sull’origine dell’espressione è interessante la testimonianza del figlio Eric: “I have often been asked about the origin of the term 'global village' in my father's work. I know that it has been variously attributed, to Teilhard de Chardin, for example. He did not get it from Teilhard, however.. As far as I have been able to establish, it comes either from James Joyce's Finnegans Wake or else from P. Wyndham Lewis's 'America and Cosmic Man' if it comes from anywhere but his own imagination Joyce published Finnegans Wake in 1939. In it he uses two phrases, both allusive of the Pope's annual Easter message to the City (of Rome) and the World, "Urbi et Orbi." Joyce turned this into "urban and orbal" in one place in the Wake, and into "the urb, it orbs" in another. Wyndham Lewis and my father were friends in the 40s and 50s. Lewis published America and Cosmic Man in 1948 (Britain) and 1949 (US). Here is the eleventh paragraph of Chapter Two of that book: If you look
3
Tale immagine descrive efficacemente l’interconnettività tecnologica del mondo, la
riduzione relativa dello spazio e del tempo, la concentrazione “costrittiva dello spazio mediatico,
anche se la sua estensione può ingenerare un’illusione ottica sui risvolti economici, etici, politici e
sociali della globalizzazione. Il mondo “senza distanze siderali” – per usare ancora le parole di Mc
Luhan – resta un mondo pieno di antiche e nuove distanze. Rispetto alle dinamiche di un “villaggio
normale”, nel “villaggio globale” crescono, ad esempio, in modo esponenziale sia la distanza del
“potere di scambio” fra gli attori di mercato, sia la distanza tra governanti e governati. Nel primo
caso aumenta significativamente la distanza tra grandi corporations e lavoratori, tra mega aziende e
consumatori, tra cartelli finanziari e piccoli azionisti; nel secondo i governati sono sempre più
distanti dai governanti perché ridotti a (tele) spettatori7 (o ancor peggio perché colpiti dalla
sindrome della digital addiction)8 quando i social network creano l’illusione di poter partecipare
senza dar vita a movimenti di azione collettiva.
Dalla fiera del borgo di campagna al villaggio globale
In campo economico, per descrivere la distanza tra le logiche convenzionali del mercato ed
il funzionamento del mercato globale, si può nuovamente ricorrere all’immagine del “villaggio”.
Questa immagine è utilizzata in modo brillante da Luigi Einaudi per spiegare agli studenti cos’è il
mercato. In questo caso Einaudi non ricorre al linguaggio metaforico, ma utilizza un lessico
realistico:
“Siete mai stati in un borgo di campagna in un giorno di fiera? Quella fiera
è un mercato. Sulla fiera si offre di tutto e molti offrono la stessa cosa. Migliaia di
compratori desiderosi di rifornirsi delle masserizie e cose che a loro mancano.
Arrivano a torme e di bonora i compratori perché sanno che dove c’è grande
concorso è sempre più facile trovare ciò di cui si ha bisogno e trovarlo alle migliori
at North America on the map of the world, you see a very uniform mass. It is more concentrated and uniform than any other land mass. You see an immense area full of people speaking one tongue: not a checkerboard of "united states" at all but one huge State. "United States" is today a misnomer. And since plural sovereignty anyway--now that the earth has become one big village, with telephones laid on from one end to the other, and air transport, both speedy and safe--must be a little farcial, the plurality implied in that title could be removed as a good example to the rest of the world, and the U. S. A. become the American Union. Now, my father was a great fan of Joyce's and had read the Wake closely for years. Also, he and Lewis discussed these and related matters frequently during the years of their association. And he had marked the phrases in Joyce and the paragraph in Lewis's book, and pointed them both out to me at one time or another. But I think the truth of the matter simply that he was thinking along those lines and came up with the phrase and found it echoed in both writers after the fact.” Mc Luhan, Eric, in “Mac Luhan Studies” http://projects.chass.utoronto.ca/mcluhan-studies/v1_iss2/1_2art2.htm. Vedi anche Mc Luhan Marshall, Letter to Elsie Mc Luhan, Molinaro et alia 1987, p. 448. Come capita alle espressioni che hanno un grande successo (cliccando su Google si ottengono cinque milioni di links, di cui ben 65.000 in Google books), il termine “villaggio globale” ha ampliato rapidamente la gamma dei suoi significati, diventando una delle parole chiave negli studi e nelle discussioni pubbliche sui temi della globalizzazione.7 Giovanni Sartori, Videopolitica, in “Rivista italiana di scienza politica”, Vol. 19, No. 2, 1989, pp. 185-198.8 La digital addiction venne già diagnosticata nel 1996: Michael O’Reilly, Internet Addition: The New Disorder Enter the Medical Lexicon, in “Canadian Medical Association Journal”, Vol. 154, No. 12, giugno 1996, pp. 1882-1883. Vedere anche: Kimberly Young, Internet Addiction: The Emergence of a New Clinical Disorder, in “CyberOsycology and Behavior”, Vol. 1, No. 3, 1996, pp. 237-244.
4
condizioni di prezzo. Giungono numerosi e puntuali anche i venditori perchè sanno
che dove c’è grande moltitudine di gente desiderosa di comprare è sempre più
agevole vendere la merce e venderla bene. I compratori desiderano acquistare a
buon mercato ed i venditori di vendere a caro prezzo. Spinti da motivi opposti, essi
si affrettano verso lo stesso luogo, verso la fiera, il mercato.”9
Nella fiera del borgo di campagna si trova la descrizione di come si forma il prezzo di
mercato in un regime di libera concorrenza: dal libero e trasparente incontro tra la domanda di tanti
consumatori che vogliono comprare e l’offerta di tanti venditori che vogliono vendere lo stesso
prodotto. La fiera si avvicina all’idealtipo di mercato in equilibrio (efficienza) che è alla base delle
più influenti teorie sulla concorrenza. 10
Il contesto della fiera, così come descritto da Einaudi, presuppone che sia i compratori che i
venditori dispongano di informazioni omogenee e di un potere di scambio tendenzialmente simile.
La prima condizione è che nessun produttore possa permettersi di abbassare il prezzo entro una
certa soglia e nessun compratore abbia interesse a comprare sopra una certa soglia. Questa
condizione implica a sua volta che non vi siano differenze significative nelle quantità delle merci
disponibili da parte di ciascun venditore e che i costi della merce per i venditori siano simili. Lo
stesso vale per i compratori: per esempio che i costi di recarsi alla fiera di un borgo più lontano
dove i prezzi sono più bassi compensino il differenziale di prezzo (oppure alle stesse condizioni di
prezzo si possa ottenere una migliore qualità del prodotto). Nella realtà non è vero che i compratori
seguono uno schema razionale in termini costi/benefici. Presupponiamo tuttavia che sia così,
9 Luigi Einaudi, Lezioni di politica sociale, Eianudi Editore, Torino 1965, p. 10Fernand Braudel, Civilisation matérielle, économie et capitalisme, XVe-XVIIIe siècle, Armand Colin, Parigi 1979; Fernand Braudel, La Dynamique du capitalisme, coll. Champs, ed. Flammarion, 1988. Vedere anche: Stefano Costa, I mercati contendibili tra concorrenza classica e neoclassica, Serie Working Papers del Dottorato di Ricerca in Economia Politica, No. 7, gennaio 2003. Costa sostiene che: “La teoria della contendibilità fornisce incidentalmente un esempio delle conseguenze della confusione tra due diverse accezioni del concetto di concorrenza. In particolare, si è detto che secondo la scuola classica la concorrenza è una gara, una condotta che unisce e pervade l’intero sistema economico (o ampie parti di esso come i diversi settori). Nella misura in cui essa favorisce lo sviluppo del paese – è questo uno degli insegnamenti di Smith – va sostenuta rimuovendo gli ostacoli che le impediscono di manifestarsi, ovvero eliminando le barriere all’entrata. La teoria marginalista, e in particolare il paradigma cournotiano, nel ricondurre lo studio della concorrenza alle dimensioni e al numero delle imprese presenti in una data attività, sposta invece l’attenzione dallo studio del comportamento allo studio delle caratteristiche di una determinata situazione di equilibrio perfettamente concorrenziale (e spesso tende a rivisitare in tal senso l’economia classica). La tensione tra queste due nozioni di concorrenza emerge anche nella teoria dei mercati contendibili, generandovi alcuni punti di debolezza. Gli autori di tale approccio in effetti propongono un’analisi di equilibrio parziale, fanno uso di curve di costo medio e marginale non in antitesi con quelle marshalliane e si avvicinano a un’accezione di concorrenza come configurazione industriale. Tuttavia, il fatto che l’ipotesi di ceteris paribus propria dell’analisi parziale coinvolge più mercati, che i rendimenti decrescenti di scala hanno un’importanza irrilevante nella logica del modello, e che la configurazione risultante è compatibile con una serie di effettive dinamiche di mercato, suggerisce di considerare l’equilibrio presentato da Baumol, Panzar e Willig come il caso limite di un processo concorrenziale di tipo classico e non come la generalizzazione della concorrenza di stampo neoclassico.” Ibidem, p. 22.
5
ponendo un “velo di ignoranza” sulla componente emotiva (inscindibile dal calcolo aritmetico) che
influenza in modo rilevante i comportamenti degli agenti economici.11
Passiamo ora ad analizzare cosa succederebbe se per analogia si estendesse questo idealtipo
di mercato (astratto in quanto razionale) dalla fiera del borgo di Luigi Einaudi al “villaggio
globale”. In teoria più si allarga la scala spaziale del mercato per effetto dell’innovazione
tecnologica ed organizzativa più si riducono i costi (economie di scala) e di conseguenza
dovrebbero ridursi i prezzi aumentando l’efficienza; ma questa ultima condizione non è
necessariamente vera. L’ampliamento spaziale del mercato provoca, infatti, un importante effetto
collaterale: l’aumento dell’asimmetria nel rapporto di scambio tra venditori e consumatori. Il potere
di mercato del mega venditore (o del mega compratore) aumenta e quello del consumatore
diminuisce: perché?
Quanto più grande è il mercato tanto più grande deve diventare la capacità dell’impresa di
vendere per mantenere e possibilmente ampliare i propri profitti. Questa necessità crea un primo
aspetto critico: è sempre in agguato il rischio di un sovradimensionamento dell’offerta. L’aspetto
più rilevante è che questo imperativo organizzativo spinto dal progresso tecnico spinge verso un
impetuoso processo di crescita dimensionale e/o di concentrazione tra imprese, una loro drastica
riduzione nonché un ampliamento orizzontale delle aziende ad una gamma sempre più vasta di
comparti produttivi e finanziari.12 La Teoria dell’Organizzazione e l’International Political
11 George A. Akerlof and Robert J. Shiller, Animal Spirits: How Human Psychology Drives the Economy, and Why It Matters for Global Capitalism, Princeton Univerity Press, 2009; Herbert Simon afferma: “Boundedly rational agents experience limits in formulating and solving complex problems and in processing (receiving, storing, retrieving, transmitting) information", Herbert Simon, Models of Man: Social and Rational, John Wiley and Sons, New York 1957. Vedi anche M. Pugno “…La recente ricerca interdisciplinare che si propone di passare dall’Homo Economicus ad una rappresentazione dell’uomo più vicina alla realtà (Rabin 1998; Elster 1998; Rabin 2002; Tirole 2002; Brocas e Carrillo 2003). Tuttavia, è ancora molto forte la consapevolezza di essere lontani da una nuova e robusta teoria, e pertanto, come dice Tirole (2002:642), “lasciamo che fioriscano mille fiori”. La ricerca sta infatti prendendo diverse direzioni. In particolare, la cosiddetta “economia comportamentale” tenta di integrare la teoria classica della scelta razionale con nuove ipotesi prese a prestito dalla psicologia, e in particolare dalla psicologia sperimentale (Mullainahtan e Thaler 2000). Il motivo di questo tentativo è dovuto alla incapacità della teoria classica di cogliere importanti aspetti delle scelte umane, che emergono dunque come delle “anomalie”, e che appaiono come “irrazionali”. In psicologia, invece, sembra esserci la tendenza a trovare un senso in ogni comportamento umano, e quindi le “anomalie” non sarebbero “irrazionali” (Legrenzi 2003). Un altro tentativo, pur meno recente, di allontanarsi dall’Homo Economicus attingendo agli studi di psicologia è l’approccio della “razionalità limitata” di Herbert Simon. In questo caso, com’è noto, la definizione di razionalità (procedurale) è più ampia di quella classica (sostantiva), e dunque comportamenti che la teoria classica avrebbe definito come irrazionali, non lo sono per questo approccio (Simon 1982; 1985). Studiare cosa include il termine irrazionalità non appare dunque meno interessante che studiare cosa include il termine razionalità, che di solito ha invece costituito il centro dell’attenzione. Dalla letteratura di economia e psicologia economica si può osservare che tra le motivazioni umane non razionali quelle più studiate sono dovute alle “emozioni” e agli “istinti”. Nonostante che questi termini siano stati usati con diversi significati, sembrano comunque essere sufficientemente precisi per indicare che gli individui hanno stati soggettivi caratteristici, osservabili, e apparentemente spiegabili, pur non deliberati, che influenzano le decisioni in modo significativo. Sembra infatti che le “emozioni” e gli “istinti” possano indurre a comportamenti apparentemente contrari all’autointeresse o addirittura autodistruttivi. Dal punto di vista della teoria classica della scelta, sembra che le “emozioni” e gli “istinti” possano spiegare sistematici errori decisionali, o equilibri sotto-ottimali. Sarà poi compito della economia comportamentale respingere le critiche più tradizionali, mostrando che le anomalie riscontrate sono rilevanti, che non costituiscono “rumori”, e che non sono eliminabili con l’apprendimento o con l’operare del mercato (Rabin 2002; Shafir e LeBoef 2003)”. Maurizio Pugno, Razionalità e motivazioni affettive: nuove idee dalla neurobiologia e psichiatria per la teoria economica, Discussion Paper No. 1, Università degli Studi di Trento, Dipartimento di Economia, 2004: http://www.performancetrading.it/Documents/Pugno/Pug_Introduzione.htm12 P. Sylos Labini, Oligopolio e progresso tecnico, Einaudi Editore, Torino 1967.
6
Economy hanno analizzato in profondità il nesso tra le logiche organizzative ed il potere di mercato
di un’impresa rispetto ai profili dimensionali.13
Kenichi Ohmae – uno dei più importanti sostenitori dell’idea della fine della centralità dello
Stato nella globalizzazione e indicato dall’Economist uno dei 5 guru mondiali del management –
sembra tuttavia ignorare completamente l’influenza di questa rilevante dimensione organizzativa e
di potere quando afferma:
“Il potere sull’attività economica migrerà inevitabilmente dai governi
centrali degli Stati-nazione alla rete senza confini formata dalle innumerevoli
decisioni individuali prese a partire dalla realtà del mercato”.14
Cosa accade invece alla concorrenza quando si allarga la dimensione spaziale del mercato?
La concorrenza continua ad agire, ma il tipo di concorrenza cambia pelle. L’incontro tra domanda e
offerta si svolge in condizioni profondamente diverse perché i compratori hanno sempre meno
informazioni a disposizione e sempre meno voce in capitolo per effetto della crescita dimensionale
ed intersettoriale delle imprese, della loro concentrazione (Me/Aq)15 e della conseguente riduzione
del loro numero (figura 1).
L’abuso del potere dominante e la conseguente mancanza di concorrenza nei mercati interni
è un fenomeno che da molti anni preoccupa gli economisti e le autorità di governo dei paesi
avanzati. Con la globalizzazione il problema peraltro si è ulteriormente complicato perché
l’adozione di misure punitive (di per sé giustificabili in sede domestica) può indebolire la
competitività di una grande impresa sui mercati mondiali. Il tema ha molte sfaccettature; nel settore
dei beni di largo consumo, la grande distribuzione con i prezzi fissi, l’offerta predeterminata di
prodotti e le campagne pubblicitarie offrono vantaggi in termini di prezzo rispetto al tradizionale
commercio al dettaglio, ma a differenza della fiera (dove i prezzi sono comunque vantaggiosi) i
compratori sono ridotti a soggetti passivi. Anche nel settore del risparmio gestito non c’è
contrattazione, non si impara a comprare negoziando, impera la ferrea logica del prendere o
lasciare. La capacità di comprare e di vendere cessa di essere un’arte popolare per rinchiudersi nei
13 John H Dunning e Christos N Pitelis, The Political Economy of Globalization – Revisiting Stephen Hymer 50 Years On,Munich Personal RePEc Archive: http://mpra.ub.uni-muenchen.de/23184/1/Dun.Pit.pdf; Michel Crozier, A new rationale for American business, in “Perspectives on Business” Vol.98, No.1, gennaio 1969, pp.147-158; Mary Jo Hatch e Ann L. Cunliffe, Organization Theory: Modern, Symbolic, and Postmodern Perspectives, Oxford University Press, 2006; Scott Morton, Michael S., Scott Morton, Michael S., Thurow, Lester C., The Corporation of the 1990s:Information Technology and Organizational Transformation, Oxford University Press, 1991; B. Kogut e U. Zander, Knowledge of the firm and the evolutionary theory of the multinational corporation, in “Journal of International Buisness Studies”, Vol. 34, 2003, pp. 516-529.14 Kenichi Ohmae, La fine dello Stato-Nazione e la Crescita delle Economie Regionali, Ed. Baldini & Castaldi, 1996, pag. 67-69.15The Art of M&A, Fourth Edition: A Merger Acquisition Buyout Guide, Stanley Foster Reed.
7
circoli esclusivi degli addetti ai lavori. In questo nuovo contesto e ben al di là del settore dei beni e
servizi rivolti ai consumatori, l’avvento delle grandi corporations consente di esercitare un
crescente potere di imporre prezzi e condizioni contrattuali sia ai fornitori che ai distributori.
Nel mercato globale non solo non esiste traccia di una antitrust mondiale correttiva, ma
l’immensità del mercato, la frammentazione della domanda, la concentrazione monopolistica e/o
oligopolistica dell’offerta tendono ad allontanarsi anni luce dal modello idealtipico di mercato così
ben rappresentato dalla fiera del borgo di campagna di Luigi Einaudi. Una teoria economica del
libero mercato globale fondata sull’assunto determinista del declino del ruolo degli Stati può
davvero spiegare perché i processi di globalizzazione producano effetti tanto differenziati in paesi
con caratteristiche simili? Naturalmente anche uno Stato può scoraggiare il libero mercato e
peggiorare le condizioni economiche di un paese; la differenza è che in ambito nazionale questo
dipende dalle circostanze politiche, mentre a livello globale l’asimmetria del potere di mercato è
“allo stato degli atti” una condizione “esistenziale”, potremmo dire una proprietà costante dell’arena
economica e finanziaria globale. Nell’arena globale l’esercito degli “imprenditori di se stessi”
appare un esercito disarmato che è (o quantomeno si percepisce) costretto a trattare in condizioni di
inferiorità con le grandi multinazionali private o pubbliche. Siamo, come si può vedere, molto
lontani dalla “rete senza confini formata dalle innumerevoli decisioni individuali” immaginata da
Kenichi Ohmae.16
In altri termini l’acquisizione di potere di mercato di un attore non trova alcuna barriera
globale in grado di arrestare la sua corsa per l’acquisizione della sua posizione dominante nella
forma di monopolista. Gli unici ostacoli che il monopolista globale si trova sul proprio cammino
sono le autorità antitrust nazionali e quelle di cui si è dotata l’UE. Il paradosso è che – nonostante la
retorica globalista – sono gli Stati da soli o in forma “associata” a difendere il mercato
concorrenziale.
Mercato globale: equilibrio o massima asimmetria?
Parlare genericamente, come accade nell’approccio analogico, di “mercato globale” rischia
di essere fuorviante perché omette la differenza radicale tra due opposti idealtipi di mercato. La
correlazione tra aumento della dimensione spaziale ed aumento dell’asimmetria tra gli attori di
mercato ha, infatti, una importante conseguenza: nel “villaggio globale” il grado di asimmetria nel
potere di mercato tende a raggiungere il massimo (almeno sino a quando non nascerà un mercato
16 Ohmae (1996), op. cit., pp. 67-69.8
interplanetario). Ma questa asimmetria (definita da Raghuram Rajan con l’ossimoro “equilibrio
insostenibile”17) – nonostante contraddica in modo plateale le premesse del pensiero economico
tradizionale (efficienze delle economie di scala in un quadro di equilibrio tendenziale) – non è
oggetto di riflessione critica sulle nuove dinamiche indotte dalla globalizzazione. Anche Danilo
Zolo, quando analizza in profondità i processi di globalizzazione, sembra assumere come scontata
la correlazione positiva tra aumento della dimensione spaziale ed aumento dell’efficienza del
mercato:
“non si può negare che l’efficienza di mercato è tanto maggiore quanto più
ampie sono le dimensioni dei mercati, più libere le transizioni economiche e
più rapida la circolazione dell’informazione.”18
Ma proprio la dimensione globale può essere il tallone di Achille della teoria del libero mercato di
un ipotetico mondo senza confini.19
La globalizzazione del rischio è un ottimo esempio per illustrare cosa succede quando si
avvera la profezia di Kenichi Ohmae a cui abbiamo già accennato. Una serie di istituzioni bancarie,
parabancarie e di shadow banking and insurance hanno agito in modo aggressivo aumentando in
modo esponenziale l’offerta di credito a basso costo, creando strumenti finanziari che consentono di
frazionare e diluire nel mercato globale i rischi di eventuali perdite di un credito immobiliare ad alto
rischio. Ciò deresponsabilizza il finanziatore rispetto al concessionario del mutuo, elimina la
necessità di selezionare i debitori, di correlare il tasso di interesse al rischio del singolo debitore ed
infine di calcolare l’entità del prestito erogato ad un valore prudenziale delle garanzie prestate. Già
agli inizi degli anni novanta in Thailandia si era fortemente surriscaldato il mercato immobiliare
(ogni porzione di terreno era aumentata dalle 4 alle 10 volte il suo valore), e questa classica bolla è
uno dei primi esempi di trasmissione o meglio di esportazione globale di crisi finanziaria che ha
un’origine tecnica nel comparto immobiliare e del credito immobiliare.
Non a caso, al pari di numerosi altri politologi ed economisti, Robert Keohane e Joseph Nye
richiamano l’importanza premonitrice di quella piccola bolla immobiliare del 1997:
17 Raghuram Rajan, Strategie di vendita per il ribilanciamento globale, in Project Syndicate. A World of Ideas, 7 settembre 2010, http://www.project-syndicate.org/commentary/rajan9/Italian18 D. Zolo,op.cit, pag19 Paradossalmente, è proprio una voce autorevole del mondo degli studi economici – il professore Milton Friedman – a sottolineare come il rapporto tra mercato globale e formazione di monopoli globali meriti un’attenta investigazione. In un’intervista poco conosciuta egli afferma di avere ripensato la propria posizione sul monopolio nel contesto dei monopoli e della competizione globale. Simon J. Evenett, Alexander Lehmann e Benn Steil, Antitrust goes global: what future for transatlantic cooperation?, Royal Institute of International Affairs, Brookling Instituitions, 2000, pp. 1-26. Il fatto che nel biennio 2002/2003 il grande tema dei “monopoli globali rispetto alla competizione globale” sia oggetto di riflessione per Friedman non muta certo la sua impostazione neo-classica, ma problematizza il futuro della globalizzazione che egli aveva precedentemente presentato in una chiave esclusivamente rosea.
9
“Another illustration of network interconnections is provided by the impact,
worldwide, of the financial crisis that began in Thailand in July 1997.
Unexpectedly, what appeared first as an isolated banking and currency crisis
in a small ‘emerging market’ country, had severe global effects”.20
Globalizzare tra una miriade di agenti economici la responsabilità del prestatore originario può
consentire per anni una espansione globale del credito che stimola artificialmente la domanda e
surriscalda i prezzi oltre ogni ragionevole limite. Tuttavia quando le cose iniziano ad andar male è
impossibile disporre di informazioni sulle potenziali insolvenze perché diluite in una marea di titoli
di debito di cui si ignorano contenuti, quantità e distribuzione mondiale. Non è certo difficile creare
marchingegni finanziari per trasferire e frazionare il rischio tra gli agenti economici del mercato
globale. Ma a forza di passare di mano, i rischi si infiltrano come un virus invisibile nei gangli più
vitali dell’economia mondiale caratterizzata, come abbiamo già visto, da processi di concentrazione
economica e finanziaria senza precedenti.
In questo contesto, i meccanismi di cessione del credito, che in teoria dovrebbero ridurre il rischio
frazionandolo tra tanti operatori di tutto il mondo, finiscono per produrre un effetto boomerang
perché a loro volta determinano un’offerta opaca che erode progressivamente la fiducia sui pilastri
del sistema. Ciò non avviene tanto per la dimensione quantitativa (peraltro ignota) delle insolvenze,
ma quanto per l’incapacità di determinarle così come per l’impossibilità di distinguere le posizioni
illiquide da quelle insolventi. L’asimmetria informativa (la nuova Torre di Babele, il “grande
Ziqqurat”) investe gruppi bancari e assicurative di tali proporzioni che se perdono il parametro
qualitativo della fiducia sono in grado di produrre un sisma di proporzioni sistemiche. In altre
parole, il rischio ceduto e trasmesso dai creditori originari si trasforma in un moltiplicatore di
sfiducia che come l’onda di uno tsunami rischia di travolgere colossi finanziari sparsi per tutti i
continenti. Invece di diminuire il rischio globalizzandolo, si moltiplicano - o meglio si globalizzano
- il panico e la sfiducia.21
L’asimmetria informativa, ed ancor peggio il succedersi di black out informativi che caratterizzano
l’affollatissima arena globale, è incompatibile con la teoria del libero mercato sia perché essi
20 Robert O. Keohane e Joseph S. Nye., Governance in a Globalizing World, Brooklings Institution Press, 2000. Sulla crisi in
Thailandia c’è una vastissima letteratura; ci limitiamo a segnalare questa lettura che è un interessante punto di vista da discutere: vedasi http://www.frbsf.org/news/speeches/2007/0206.pdf.21 Su come le banche hanno utilizzato la cessione del credito sin dall’accordo di Basilea I del 1988 si veda: Bryan Balin, Basel I, Basel II, and Emerging Markets: A Nontechnical Analysis, per la John Hopkins University, maggio 2010: http://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=1477712.
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impediscono di cogliere i segnali di mercato (economici e extra economici22) sia perché l’equilibrio
tra domanda ed offerta nella formazione dei prezzi presuppone un modello in cui tutti gli operatori
abbiano tendenzialmente pari opportunità di accesso alle informazioni.
L’asimmetria del potere di mercato è un fenomeno osservabile (percepito benissimo da tutti
gli operatori economici), non presenta particolari incongruenze logiche ed è oggetto di politiche
pubbliche raramente efficaci (normative di vigilanza ed autorità antitrust). Esso, tuttavia, per quanto
sia parte integrante della realtà economica globale, resta un concetto ed un termine indeterminato
perché non si riesce a definirne l’unità di misura. John Kenneth Galbraith sintetizza il tema con
queste parole:
“Il paradosso del potere nella tradizione classica è ancora una volta che,
benché tutti siano d’accordo che il potere esiste, esso non esiste in linea di
principio”.23
Come vedremo meglio nei prossimi paragrafi il paradosso è che gli immensi costi
generati dalla globalizzazione del panico e della sfiducia vengono poi ri-
nazionalizzati (a carico dei contribuenti) perché solo con gli interventi delle Banche
Centrali ed il salvataggio delle istituzioni (cosiddette too big to fail) i governi
nazionali sono in grado di fermare la sfiducia ed il crollo inarrestabile della domanda
domestica e globale. Andrew Sheng nel paper “Too Big to Fail, Too Big to Jail”, presentato il 9
aprile 2011 a Bretton Woods24, attribuisce all’esistenza di tre elementi la ragione principale della
violazione del principio del “level playing field for markets”:
“The reality is that with high levels of proprietary trading, the global
financial industry has three fundamental characteristics that violate the
principle of level playing field for markets. The first is that network effects
22MJ: Yes. The obvious sign that this system wasn't going to last was the Asian meltdown in 1997/98. You had these very successful smaller countries—Thailand, Malaysia, and so on—collapsing, really because we'd stuffed a massive amount of money in there—money they basically didn't need, because they had a very high savings rate—and then when we'd overheated their economy we withdrew the money, all over about a 12-month period. So you then had this international theory of globalist economics applied to them with a vengeance, what I call "crucifixion economics," you know, you get put on gruel and are forced to wear hair shirts and to self-flagellate, and they're supposed to come out of it cleansed, reborn. And after a year of this the prime minister of Malaysia, Mohamed Matahir, said, 'We're not going to do that. We're going to raise tariffs, and freeze our currency, and block capital flight.' And everybody looked away in horror and then a year later they were doing better than anyone else. Four years later Matahir was invited to make the opening speech at Davos during which he lacerated globalization—and they gave him a standing ovation!http://motherjones.com/politics/2005/11/collapse-globalism?page=2 23 L’analisi di Galbraith è parte di una riflessione assai più ampia contenuta nel suo celebre libro del 1967, The New Industrial State. Una buona sintesi è contenuta nel sito: http://www.economictheories.org/2008/08/galbraith-power-of-technostructure.html. 24 La conferenza, organizzata dall’Institute for a New Economic Thinking (INET), Dr.Robert A. Johnson, aveva l’obiettivo di creare una comunità che rinsaldasse la fiducia negli economisti e ristabilisse la legittimità della professione come credibile e rilevante nel mondo contemporaneo. http://ineteconomics.org/initiatives/conferences/bretton-woods
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drive concentration, so that some players will eventually emerge that are
global in life and larger than nations. Concentrated markets are not fair
markets. By sheer size, no single country can afford to pay for LCFI failures.
They are too large to fail, too complex to manage and regulate and too
important to jail. The second factor on top of excessive concentration is that
the global finance industry can create fiat money that is currently neither
monitored for monetary stability nor for financial stability purposes. This is a
global collective action trap that has not yet been resolved. Thirdly, LCFIs
can actually take positions that not only are unfair to small (non-guaranteed)
counterparties, but also affect whole nations in terms of stability. Imagine if
one or more of the giants were found to have (individually or collusively),
through their proprietary trading, to short one of the larger emerging market
currencies, that affect the credit rating and bring about the collapse of a
largish economy. Who is to take action to investigate and prosecute such
behaviour? The host regulator who may be captured? The home regulator
who does not have sufficient resources nor legal powers to investigate this
behaviour that may be launched offshore?”
A nostro avviso l’analisi del potere e dei poteri (economici, politico-miltari e delle idee) è il
punto di maggior debolezza che contraddistingue i paradigmi delle scienze sociali rispetto ai
processi di globalizzazione.25 Un indicatore per misurare l’asimmetria di potere tra gli attori
economici utilizzato dagli economisti ed applicato nelle prassi delle autorità antitrust è la
definizione della quota di mercato che un’impresa è in grado di controllare. Questo indicatore si
rivela utile per valutare il posizionamento di un’azienda sul mercato oppure l’eventuale violazione
delle normative antitrust, ma non ci dice abbastanza sul suo potere presente e futuro. Neppure la
capitalizzazione delle imprese quotate è un indice utilizzabile per la volatilità intrinseca del mercato
finanziario. Indeterminatezza che George Soros sintetizza efficacemente con queste parole:
“C’è una fondamentale differenza tra i mercati finanziari ed i mercati di
merci e servizi. I secondi si occupano di quantità conosciute, i primi si
25 Rona (Rhye) Ysais, Redefining Globalization and Power in the 21st Century, M.A. International Studies, Miriam College, settembre 2001: http://www.scribd.com/doc/37412167/Redefining-Globalization-and-Power-in-the-21st-Century.
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occupano non solo di quantità non conosciute, ma di quantità impossibili da
determinare”.26
Una teoria sul mercato globale che omette un dato di realtà come l’asimmetria di potere tra
gli attori ha scarse possibilità di interpretare efficacemente il mondo della globalizzazione e le sue
dinamiche. Tuttavia, senza un’unità di misura del potere, parlare di grado di asimmetria, anche se si
può facilmente intuire con l’osservazione dei sensi, può indicare una tendenza, ma non produce
risultati falsificabili in termini empirici. Per il momento la definizione di mercato globale come
modello o idealtipo della “massima asimmetria” resta una congettura, quanto sensata sta ai lettori di
valutare.
Economia e politica nella fiera e nell’arena globale
Milton Friedman non si è mai stancato di ricordare che freedom is a rare and delicate
plant.27 Proprio perché è una pianta rara e fragile essa non può nascere e crescere dappertutto, tanto
meno in un deserto istituzionale, ma neppure nel piccolo microcosmo di una fiera paesana. Luigi
Einaudi descrive con chiarezza le condizioni minime in cui il libero mercato può funzionare:
“Tutti coloro che vanno alla fiera sanno che questa non potrebbe
aver luogo se, oltre ai banchi dei venditori ed oltre alla folla dei compratori,
non ci fosse qualcos’altro: il cappello a due punte della coppia di
carabinieri che si vede passare sulla piazza, la divisa della guardia
municipale che fa tacere due che si sono presi a male parole, il palazzo del
municipio, con il segretario ed il sindaco, la pretura e la conciliatura, il
notaio che redige i contratti, l’avvocato cui si ricorre quando si crede di
essere a torto imbrogliati in un contratto, il parroco, il quale ricorda i doveri
del buon cristiano doveri che non bisogna mai dimenticare nemmeno alla
fiera” 28
Questo “qualcos’altro” (distinto, cioè, dagli attori di mercato e dalle loro interazioni
dinamiche) di cui tutti i compratori e venditori conoscono perfettamente l’esistenza non sono altro
che le autorità impersonate dai personaggi che popolano il borgo dove si svolge la fiera: il sindaco
ed il segretario comunale, il pretore, i carabinieri, le guardie municipali, l’arbitro, il notaio,
l’avvocato e, almeno per Einaudi, anche il parroco. Per Einaudi il “qualcos’altro” si riferisce al 26 George Soros, on Globalization, Public Affairs, 2005 27 Milton Friedman, Capitlism and Freedom, University of Chicago Press, 2002, p..28 Einaudi. L. Lezioni di politica sociale, Giulio Einaudi Editore, 1944, p.
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potere dello Stato e delle autorità locali che hanno il compito di imporre le disposizioni di legge ai
governati (nel caso specifico ai cittadini/venditori ed ai cittadini/compratori). Perché Luigi Einaudi
definisce l’autorità conditio sine qua non del mercato? Perché solo in queste condizioni la fiera può
avvicinarsi al modello ideale di concorrenza perfetta, modello che presuppone libertà di scambio
reciproco tra gli attori di ogni singola transazione e leale competizione tra i venditori che prendono
parte alla fiera. La formazione del prezzo di equilibrio tra domanda ed offerta può realizzarsi solo se
le istituzioni pubbliche sono in grado di imporre effettive condizioni di libertà, ordine pubblico e
lealtà29 nella concorrenza.
E’ evidente che le condizioni di libertà e di concorrenza sono tanto più difficili da garantire
tanto più aumenta l’estensione dell’arena, la crescita dimensionale delle imprese e la conseguente
asimmetria tra gli attori del mercato. Per ridurre l’asimmetria che – come abbiamo suggerito – nel
mercato globale sfiora la sua punta massima, ci vorrebbe “qualcos’altro” di ben più potente dei
personaggi di autorità che popolano il borgo di Einaudi. Non basterebbero il sindaco, il segretario
comunale, il pretore, i carabinieri, le guardie municipali, l’arbitro, il notaio, l’avvocato e neppure il
parroco. Almeno sino ad oggi (e presumibilmente sino a quando la terra non sarà invasa da
popolazioni extraterrestri) non esiste alcuna istituzione globale che disponga di autorità e di poteri
coercitivi non diciamo analoghi, ma neppure lontanamente assimilabili a quelli che le istituzioni
locali e statali possono esercitare sui compratori e venditori che popolano la fiera di Einaudi.
Con il rapido succedersi di crisi dal 1997 al 2008 la debolezza del pensiero analogico è
emersa sempre più nitidamente. L’idea che globalizzando il mercato si potesse mantenere la
trasparenza e l’equilibrio di una “fiera di campagna” ha generato aspettative illusorie che si sono
trasformate in un coro di proteste contro il cosiddetto globalismo “neo liberista” (sottolineo
“cosiddetto” perché in realtà si è fondato su politiche pubbliche espansive e con tassi di interesse
vicini allo zero).
La simultanea interazione di singoli squilibri tra domanda e offerta (squilibrio di squilibri)30
potrebbe essere un sintomo della asimmetria che caratterizza l’arena economica globale. Ma
29 Su cosa si debba intendere per fair competition esiste una vastissima e controversa letteratura.30 Il 5 novembre 2008, nel pieno di una delle più drammatiche fasi della crisi mondiale, efficace portavoce dell’opinione pubblica è stata la Regina Elisabetta II, durante la cerimonia di inaugurazione della nuova sede della London School of Economics la regina ha chiesto polemicamente:‘‘It’s awful - Why did nobody see it coming ? if these things were so large, how come everyone missed them?” La provocazione ha colpito nel segno provocando un’aspra discussione culminata nel forum indetto il 17 giugno 2009 dalla Royal British Academy for Humanities and Social Sciences allo scopo, come ha dichiarato Peter Hennesy “to provide the basis of an ‘unofficial command paper’’. Dal forum è scaturita una lettera indirizzata alla Regina in cui si è riconosciuta l’incapacità della comunità mondiale degli economisti di prevedere il rischio globale determinato dalla interconnessione di molteplici squilibri di mercato ciascuno dei quali era stato analizzato separatamente. L’aspetto essenziale che ci interessa evidenziare è che anche gli esperti della Corona britannica sottolineano che l’interconnessione complessiva degli squilibri non è vigilata da un’unica autorità (“a series of interconnected imbalances over which no single authority had jurisdiction”), ma da molteplici soggetti pubblici le cui decisioni (o non decisioni) - scoordinate e potenzialmente in conflitto - si ripercuotono sull’arena economica globale.
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l’aspetto essenziale che qui ci interessa evidenziare è che l’interconnessione complessiva degli
squilibri non è vigilata da un’unica autorità, ma da molteplici soggetti istituzionali le cui
valutazioni e decisioni (o non decisioni) “glocali” si ripercuotono sull’arena economica globale.
Libero mercato ed economia del potere
L’idea che si possa analizzare il mercato globale per analogia rischia dunque di mettere in
ombra un aspetto basilare: il mercato della libera concorrenza è un meccanismo molto fragile che
può funzionare solo se adeguatamente protetto. La necessità di proteggere il libero mercato trova
una delle sue più efficaci espressioni nelle parole di Karl Popper:
“Benché la teoria politica che chiamo protezionismo.. sia fondamentalmente
una teoria liberale io penso.. che il termine possa essere usato per indicare
che, per quanto liberale, essa non ha niente a che fare con la politica di
stretto non interventismo. Liberalismo e intervento statale non sono tra loro
in antitesi. Al contrario, qualsiasi genere di libertà è chiaramente
impossibile se non è garantita dallo Stato.”31 “Abbiamo bisogno della
libertà per impedire che lo Stato abusi del suo potere e abbiamo bisogno
dello Stato per impedire l’abuso della libertà”.32
Se il mondo globale come l’abbiamo descritto si presenta, per riprendere la terza e lucida
immagine di Kenneth Waltz, sostanzialmente come un’arena caratterizzata da “no system of law
enforceable”, esso costituisce un condizionamento (che la maggior parte degli autori definisce
“strutturale”, ma che preferiamo definire ambientale utilizzando il linguaggio della Teoria
dell’Organizzazione33); un condizionamento ai comportamenti degli attori economici, allo spazio
della libertà di mercato ed alle dinamiche della concorrenza. Nel mondo globale non c’è un attore
globale (organizzazione) che si incarichi di fermare i processi di concentrazione del potere
economico ( e/o politico-economico) o per riprendere ancora un’espressione di Einaudi non c’è
“gendarme” in grado di garantire il libero mercato.
Cosa può accadere in un’arena economica globale prevalentemente connotata da una
asimmetria informativa e di potere? La crisi mondiale del biennio 97-98 può essere un ottimo punto
31 K. R. Popper La società aperta e i suoi nemici. Vol. I: Platone totalitariohttp://www.armando.it/cms/sito/prodotto.asp?id=171932 K. R. Popper La lezione di questo secolo, Marsilio, Venezia 1992.33 vedi Crozier, Simon
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di partenza per trarre lezioni benefiche.34 Quando un paese si apre al mercato globale deve
prepararsi strategicamente a due conseguenze solo apparentemente contraddittorie: da un lato i
rilevanti benefici delle maggiori opportunità di crescita, dall’altro i costi delle maggiori probabilità
ed intensità delle crisi importate dall’esterno che richiedono un aumento della spesa pubblica nel
welfare. Per parafrasare una frase famosa potremmo concludere che se non è possibile realizzare le
condizioni di libero mercato in un solo paese è altrettanto impossibile creare un libero mercato
globale se gli Stati non sono in grado di mitigare all’interno dei propri confini e indirettamente
all’esterno l’abuso illiberale della posizione dominante degli attori economici (siano essi pubblici o
privati, domestici o globali). Il libero mercato presuppone in ogni caso l’esistenza di poteri
coercitivi in grado di imporre regole e sanzionare i trasgressori: garantire i diritti di proprietà,
combattere le truffe, la contraffazione e le altre molteplici forme di criminalità economica, stabilire
standard di sicurezza per i prodotti alimentari, riscuotere tasse, tutelare il risparmio, emanare il
diritto societario ed assicurativo (legislazione anti-trust compresa), regolare e vigilare banche e
assicurazioni, regolare la borsa ed il mercato del lavoro. Queste sono osservazioni di buon senso –
per quanto siano estremamente difficili da realizzare in termini operativi – rasentano l’ovvietà.
L’elemento fondamentale che resta in ombra è che le caratteristiche ambientali dell’arena
globale sono tali – come ha sottolineato tra i tanti Alessando Roncaglia – da condizionare le
strategie ed influenzare i comportamenti degli Stati e dei sistema-paese. Il condizionamento
ambientale (dell’arena globale) sul comportamenti degli attori fa si che il mondo globale possa
restare “stritolato” tra Scilla e Cariddi: da un lato c’è il rischio che “spinti dalla crisi gli Stati
adottino misure protezionistiche generalizzate” con tutti i pericoli derivanti da una esasperazione
neo mercantilistica. Dall’altro i processi di globalizzazione possono accentuare “una concorrenza al
ribasso tra sistemi di regolazione nazionale di cui si sono fatti forti i fautori della
deregolamentazione” che favorisca la posizione oligopolistica di attori globali non governativi.35
Sembra la quadratura del cerchio: nessuno sa bene come uscire da questa tenaglia senza cadere
“dalla padella nella brace”. Ma non è detto che le complesse interazioni tra Stato/mercato nel nuovo
contesto della globalizzazione debbano per forza configurasi come relazioni a somma zero.
La fine del Terzo Mondo
34 P. Kraugman, The Return of Depression Economics, W.W. Norton, New York 1999.35 A. Roncaglia, Economisti che sbagliano, Laterza 2010, pag.102.
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Numerosi studiosi – a cui si sono ispirati i movimenti no global – hanno interpretato la
globalizzazione come un processo dominato dagli Stati Uniti, dai loro alleati e dalle multinazionali.
Sul fronte opposto il globalismo neoliberale ha promesso – sin dagli inizi degli anni ottanta – che
l’abbattimento delle barriere, la riduzione dell’intervento pubblico, la liberalizzazione del flusso di
capitali, la deregulation avrebbero indotto una forte crescita dell’economia mondiale nell’interesse e
per il benessere di tutti.
A più di venti anni di distanza ambedue le teorie sono state smentite. La globalizzazione non
ha annullato distanze e disuguaglianze e non ha favorito una riduzione della frequenza delle crisi;
allo stesso tempo, ha consentito a quasi un miliardo di persone di uscire dalla condizione di povertà
ed ha mutato la geografia del potere mondiale a scapito dei paesi più ricchi. La globalizzazione
agisce, sia pur con rilevanti costi sociali, come stimolo alla crescita soltanto nelle economie
nazionali che sono in grado di raccogliere la sfida esterna e di rilanciarla a loro volta su altri
mercati.36 Ciò dipende in larga misura dalla capacità degli Stati di agire strategicamente nello
scenario globale.37 Gli Stati non spariscono dalla scena; al contrario, a determinate condizioni,
possono utilmente controbilanciare la dipendenza da altri paesi e l’eccesso di potere monopolistico
di grandi gruppi multinazionali.
Per tutte queste ragioni, se le tendenze dell’ultimo decennio dovessero continuare, la
geografia economica del potere mondiale potrebbe ulteriormente modificarsi a favore delle potenze
emergenti e riemergenti (Russia) che, a parte alcune eccezioni quali la Germania, appaiono meglio
attrezzate a continuare la sfida (cosi come indica la proiezione 2005-2025 illustrata dalla figura 2).
La nuova geografia della ricchezza e del potere economico è stata descritta da Robert Zoellick
durante una conferenza a Washington dal titolo: “The End of the Third World?”. Il Presidente della
Banca Mondiale mette in evidenza una svolta storica: l’emergere di una nuova economia globale
multipolare.
“For decades, students of security and international politics have
debated the emergence of a multi polar system. It’s time we recognize the
new economic parallel. If 1989 saw the end of the “Second World” with
Communism’s demise, then 2009 saw the end of what was known as the
36 Per le aziende vedi: Michael A. Hitt, Beverly B. Tyler, Camilla Hardee and Daewoo Park, Understanding Strategic Intent in the Global Marketplace, in “The Academy of Management Executive (1993-2005)”, in “Vol. 9, No. 2, Careers in the 21st Century (May, 1995), pp. 12-19. Per gli Stati un buon esempio è il Brasile, http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2010-10-02/paese-guadagnato-ruolo-trainante-080219.shtml?uuid=AYzonpVC&fromSearch37 Ciò che Joseph Stiglitz ha definito “managed globalization”. Stiglitz J., Globalization and its Discontents, W.W. Norton, 2002.
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“Third World”: We are now in a new, fast-evolving multipolar world
economy where North and South, East and West, are now points on a
compass, not economic destinies…The world economy is rebalancing. We
are witnessing a move towards multiple poles of growth as middle classes
grow in developing countries, billions of people join the world economy, and
new patterns of integration combine regional intensification with global
openness.”38
Le persistenti disuguaglianze sociali in termini di PIL pro-capite (PPA) non possono
oscurare la rilevanza storica del cambiamento indotto dalla globalizzazione: l’economia mondiale
multipolare. Il binomio globalizzazione/multipolarismo è un fenomeno inedito che non si presta ad
analogie storiche.39 A differenza delle globalizzazioni passate, che si sono sviluppate sotto l’egida di
dominazioni imperiali, la globalizzazione contemporanea assume un assetto di potere policentrico.
Si tratta, per riprendere l’espressione di Zoellick, di un’economia fondata su multiple poles of
growth, in cui, come ha scritto l’Economist “is no longer clear who depends on whom”.40
La riscossa dei paesi emergenti sarebbe stata impossibile senza globalizzazione del mercato:
essa ha creato il campo di gioco, determinando un riequilibrio dell’economia mondiale (re-
balancing). Diversamente da quanto sostenuto da Klaus Schwab – da sempre l’animatore del World
Economic Forum Di Davos41 –gli Stati hanno svolto un ruolo rilevante negli ultimi venti anni. Si
tratta di un modello di economia mista o di "soziale Marktwirtschaft”42 non lontano da quelli che
hanno reso possibili i boom economici del dopoguerra in Europa occidentale e Giappone.
38 Robert B. Zoellick, The End of the Third World? Modernizing Multilateralism for a Multipolar World, 14 aprile 2010: http://web.worldbank.org/WBSITE/EXTERNAL/NEWS/0,,contentMDK:22541126~pagePK:34370~piPK:42770~theSitePK:4607,00.html39 Questo discorso è valido per la pace, ma non per la guerra (Neil Ferguson, Impero)40 Rethinking the “third world” Seeing the world differently, “The Economist”, 10 giugno 2010: http://www.economist.com/node/1632944241 Nel corso del 2011 anche il World Economic Forum ha cambiato prospettiva: “Governments are among the largest, most important organizations in the world and require decision-makers and administrators of the highest calibre, equipped with the mindset and skills for innovation and adaptation". “...Governments have been catapulted back to their central position during the past few years amid economic crises and large-scale challenges including healthcare, ageing populations and climate change.” www.weforum.org/reports/future-government.42 Barry Eichengreen ha sostenuto con solide argomentazioni questa ipotesi: “The analogy with Europe in the 1950s and 1960s is direct. I myself have characterized the European social compact in this period as a willingness to trade wage restraint and accept lower levels of consumption in return for faster investment and export growth rates that promised to deliver significantly higher living standards down the road. Other authors (e.g. Ohkawa and Rosovsky 1973) have emphasized the role of the same factors in the high-growth period in Japan. Exchange rates that were increasingly undervalued as the period progressed were integral to this process.” Barry Eichengreen, Global Imbalances and the Lessons of Bretton Woods, The National Bureau of Economic Research, NBER Working Paper No. 10497, maggio 2004: http://www.nber.org/papers/w10497.pdf.
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Sorprende che tutta l’attenzione degli economisti e degli sherpa del G-20 sia rivolta
all’esistenza dei global financial imbalances, senza tener conto del processo re-balancing
sottolineato da Zoellick e da tanti altri autori. Lo squilibrio più rilevante in realtà è tra la tendenza al
riequilibrio dell’economia mondiale e la contemporanea crescita degli squilibri finanziari globali.
In un paper intitolato emblematicamente “Shifting Economic Power”, John Whalley prevede
un ulteriore rapido spostamento del potere economico verso i paesi non OCSE. Alcuni economisti
ritengono che gli squilibri globali esistenti siano alla radice della recessione mondiale iniziata nel
2008.
Nel nuovo contesto storico prodotto dalla globalizzazione economica contemporanea
(economia multipolare) non c’è più un centro egemonico e una periferia (a parte ovviamente i paesi
LDC’s). E’ questo il contesto economico-politico in cui devono essere esaminati gli squilibri
finanziari globali. Come ha spiegato Luigi Spaventa, se essi sono stati certamente un fattore
concorrente, nessuno è stato in grado di provare che siano stati egualmente la causa principale della
grande espansione del credito, dell’indebitamento e del rischio finanziario che ha caratterizzato
l’economia americana nel decennio 1998-2007.
Verso una macroeconomia multipolare?
Non solo il grande pubblico, ma neppure gli economisti avrebbero scommesso sul tipo di
squilibri finanziari come quelli che si sono manifestati nell’ultimo decennio. Nel maggio 2007,
durante una conferenza a Città del Messico, Olivier Blanchard43 ha ammesso che dalla globalizzazione
del mercato dei capitali si aspettava un esito radicalmente diverso (figura 3):
“If I had to guess ten years ago the implications of capital market
integration, most would have guessed: Emerging countries. Low wage,
access to technology, so high investment. Good growth prospects, low saving.
Large current account deficits. Rich countries Lower investment, higher
saving. Large current account surpluses. We are seeing just the opposite:
Flows go from emerging to rich countries”44
43 Dal 2008 Chief Economist del IMF.44 Olivier Blanchard, Global Imbalances, maggio 2007: econ-www.mit.edu/files/762.
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Se Blanchard non si aspettava l’ingente flusso dei capitali dai paesi emergenti verso gli Stati
Uniti e verso gli altri paesi avanzati, a Barry Eichengreen questo comportamento, viceversa, appare
naturale:
“As emerging markets grow, they naturally accumulate foreign
reserves as a form of self-insurance”45
Tuttavia, nello specifico contesto storico della fine degli anni novanta l’adozione di una
strategia di self insurance era una strada obbligata. I paesi emergenti che avevano vissuto (o anche
semplicemente osservato) gli effetti negativi della liberalizzazione dei capitali di portafoglio durante
le grandi crisi del biennio ‘97-‘98 sapevano di poter contare soltanto sulle proprie forze e/o andare in
cerca di nuovi partner e nuove alleanze.
Da dove nasce la miopia? Probabilmente si tratta innanzitutto di miopia cognitiva. All’inizio
degli anni novanta il Washington Consensus si è fondato sul binomio macroecnomic stabilisation/
microeconomic liberalisation, come se si potesse avverare la profeziala profezia di Kenichi Ohmae:
“Il potere sull’attività economica migrerà inevitabilmente dai governi centrali degli Stati-nazione
alla rete senza confini formata dalle innumerevoli decisioni individuali prese a partire dalla realtà
del mercato”.46 Giulio Tremonti, nella voce “Geofinanza” dell’Enciclopedia del Novecento della
Treccani, ha descritto il mondo della globalizzazione in termini non dissimili, ma aggiungendo
l’esigenza di una giurisdizione universale.47 La visione globale di Tremonti presupponeva che le
istituzioni di Bretton Woods, ed il FMI in particolare, esercitassero veramente il ruolo di autorità
globali in grado di imporre una politica di liberalizzazione finanziaria e valutaria (one size fits all)
agli Stati inadempienti o recalcitranti.48
Nel mondo globale multipolare la stabilità (o instabilità) macroeconomica cambia nel tempo
in relazione al variare dell’interazione tra poli. Si crea così un dinamico intreccio di relazioni tra
Stati, tra soggetti privati e tra Stati e soggetti privati. Nell’arena globale nessuna autorità ha il potere
di agire globalmente sui tassi di interesse (per contrastare l’inflazione), sulle politiche fiscali (per
stimolare o frenare la domanda aggregata) o sul bilancio pubblico (correlando il PIL al debito).
45 Barry Eichengreen, The Dollar Dilemma, in “Foreign Affairs”, settembre/ottobre 2009: http://www.foreignaffairs.com/articles/65241/barry-eichengreen/the-dollar-dilemma.46 K. Ohmae (1996), op. cit., pp. 69-70.47 La soluzione positiva dei nuovi problemi morali va trovata nella diffusione di forze culturali e morali capaci di spingere verso nuove autorità politiche sovranazionali e verso una nuova morale internazionale e nella controspinta che si verificherà quando sarà evidente che il fattore ‛giuridico' è un fattore competitivo di per sé ‛positivo'. Quando, in particolare, sarà chiaro che un'area economica bene ordinata ha maggiori possibilità di attrarre e produrre ricchezza. Enciclopedia Italiana Treccani, “Geofinanza”, approfondimento di Giulio Tremonti: http://www.treccani.it/enciclopedia/geofinanza_%28Enciclopedia_Novecento%29/.48 Un ministro particolarmente zelante e creativo come Domingo Cavallo, allievo della scuola di Chicago, ci ha provato seriamente in Argentina, ma come è noto la sua si è rivelata una missione impossibile anche perché in ogni caso una politica macroeconomica di quel tipo non si può applicare in un solo paese.
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Neppure nell’Unione Europea – caratterizzata da mercato e moneta unica – esistono le condizioni
per implementare la stessa politica di stabilizzazione macro economica per tutti gli Stati membri.
E’ in questa tendenza multipolare – in cui gli Stati hanno conservato un ruolo rilevante – che
si deve inquadrare il tema dei financial global imbalances (figura 4). I financial global imbalances
sono oggetto di complessi ed estenuanti negoziati tra i G-20, perché i criteri, i parametri operativi, il
metodo di calcolo ed i benchmarks prescelti possano favorire o penalizzare gli interessi ed i margini
di manovra degli Stati e delle rispettive economie nazionali coinvolte nel negoziato. I contrasti di
interesse ed i risvolti politico-negoziali di questa partita non hanno un contenuto sostanzialmente
tecnico, anche se i leader politici hanno l’interesse a farli apparire tali, almeno in questa fase in cui
soprattutto in occidente la globalizzazione sta diventando impopolare.49
La grande sfida macroeconomica non è solo ridurre gli squilibri finanziari, ma come convivere con
questi squilibri in un‘economia mondiale che si sta ribilanciando. Consapevole della complessità
degli interessi in gioco e dell’alto grado di sensibilità politica della materia, Mario Draghi ha
dichiarato:
"Convivremo con gli attuali squilibri per molto, molto tempo e un sistema
finanziario più resistente è essenziale per fronteggiare gli squilibri globali
che ci accompagneranno ancora per molti anni, per questo completare la
riforma della regolamentazione finanziaria deve essere una priorità"50
D’altra parte nessuno può aspettarsi che sull’altare dell’equilibrio “globale” e dei valori del
libero scambio gli Stati possano ignorare i propri interessi nazionali (in termini di riduzione del tasso
di disoccupazione, crescita della produttività, vantaggio economico comparato, stabilità economica e
politica) e neppure le loro esigenze più specifiche dettate dall’agenda politica interna,
particolarmente nei regimi democratici soggetti a frequenti cicli elettorali.
Per gli Stati la globalizzazione dell’economia rende più complesso conciliare le esigenze
domestiche ed i propri interessi economici verso l’esterno. Anche la politica macroeconomica –
49 Un sondaggio condotto dal Washington Post indica che il consenso alla globalizzazione è passato dal 60% del 2001 al 36% del 2011: voices.washingtonpost.com/...numbers/.../americans_increasingly_view_gl_1.html.
50 Il Presidente di Bankitalia Mario Draghi – in qualità di Presidente del Financial Stability Forum – ha coordinato il 4 marzo 2011 a Parigi i lavori di discussione sulle riforme alla finanza mondiale e ai sistemi di controllo. http://economia.bloglive.it/draghi-no-a-squilibri-e-si-a-politiche-sovrannazionali-2831.html.
21
come la politica estera – ha assunto sempre di più le caratteristiche che Robert Putnam ha definito
come “gioco a due livelli”.51
L’arena globale tra anarchia ed interdipendenza
Come si determinano condizioni di stabilità in un’economia caratterizzata dalla globalizzazione
multipolare? Per impostare correttamente la domanda può essere utile riflettere su un’immagine nata
nell’alveo della scienza politica: l’arena globale come “struttura anarchica”. L’anarchia definisce
un’assenza: è il pilastro della teoria neorealista di Kenneth Waltz. In virtù delle caratteristiche
anarchiche dell’arena, la partecipazione alla competizione globale comporta una maggiore
esposizione ai rischi: cresce la vulnerabilità, il pericolo contagio e l’aumento, più o meno
simmetrico, della dipendenza dagli altri. In uno spazio non organizzato su basi gerarchiche e privo
di autorità e di regole cogenti, gli Stati, come del resto le imprese multinazionali, tendono a
difendersi dai pericoli globali perseguendo le strategie di self-insurance di cui ha scritto
Eichengreen.
Nonostante l’arena anarchica, le crisi cicliche e strutturali e le tensioni competitive in campo
commerciale, finanziario e valutario, l’economia multipolare si caratterizza per un relativo grado di
stabilità e di crescita economica. L’ipotesi che intendiamo discutere è che gli Stati – al di là delle
loro intenzioni – costituiscano nel loro insieme gli equivalenti funzionali del global system of law
enforceble. E’ vero che quando un’economia nazionale diventa più aperta l’efficacia degli
stabilizzatori (o lo “Stato assicuratore” per dirla con Fitoussi) perde colpi, ma gli Stati reagiscono
con misure di protezione. Per quanto riguarda gli anni ottanta e novanta gli studi di Camerun e
Rodrick hanno documentato empiricamente una correlazione tra la maggiore apertura di un paese al
mercato globale e l’aumento della spesa pubblica.52 Essi hanno interpretato il fenomeno come una
forma di protezione preventiva e compensativa dei rischi sociali connessi alla globalizzazione.
Approfittare dell’opportunità offerte dalla globalizzazione per crescere, ma
contemporaneamente difendersi da crisi di liquidità (o insolvenza) e da improvvise cadute
dell’export è il filo conduttore che caratterizza le politiche dei grandi paesi emergenti e riemergenti
nell’ultimo decennio: lo si può registrare nello sviluppo dei fondi sovrani, nei negoziati del WTO,
51 Robert Putnam, Diplomacy and Domestic Politics:the logic of two-level games, in “International Organization”, Vol.42, No.3, 1988, pp. 427-470. 52 Cameron, David R. (1978). The Expansion of the Public Economy: A Comparative Analysis, in “American Political Science Review”, Vol.72, 1243-126; Rodrik, Dani (1997). Has Globalisation Gone Too Far?, Institute for International Economics, Washington, DC; Rodrik, Dani (1998), Why Do More Open Economies Have Bigger Governments?, in “Journal of Political Economy”, Vol. 106, 997-1032, Ottobre 1998.
22
nella stipula di accordi commerciali bilaterali Sud Sud, e – come già accennato –
nell’accumulazione di consistenti riserve (per la verità non solo nei paesi emergenti, ma anche in
Germania e Giappone).
Il rafforzamento della funzione protettiva degli Stati contribuisce alla crescita alla stabilità
complessiva dell’economia globale, ma crea a sua volta nuove tensioni, soprattutto quando le
traiettorie di crescita sono divergenti. Le grandi crisi degli anni novanta hanno messo in luce i rischi
dell’indebitamento a breve connessi con i rischi valutari. Debiti in valute forti e cambi fissi sono
stati una miscela esplosiva perché hanno lasciato alcuni paesi in balia della volatilità del mercato dei
capitali e delle banche straniere creditrici.
Quali sono queste tensioni? La scelta dei paesi emergenti (Cina in primis) di privilegiare
l’acquisto di dollari come riserve in valuta estera provoca un apprezzamento del dollaro che
penalizza l’export di prodotti americani: aumenta il deficit corrente della bilancia dei pagamenti
USA e migliora quello cinese. All’inverso, le operazioni di quantitative easing della FED per
stimolare l’economia americana puntano al deprezzamento del dollaro, danneggiando gli interessi
cinesi. Questi fenomeni, accanto all’anarchia dell’arena globale, mettono in luce la forte
interdipendenza in campo valutario, finanziario, creditizio e delle politiche di indebitamento (e
investimento) pubblico.
Per riflettere su questi meccanismi di interdipendenza può essere utile prendere spunto da
una teoria coniata in ambito politologico da Robert Kehoane e Joseph Nye, i maggiori esponenti
della scuola liberale neo istituzionalista: la teoria dell’interdipendenza complessa. Essa descrive il
funzionamento della politica internazionale come “a system composed of multiple linkages and an
absence of hierarchy among issues”.53 Keohane e Nye giungono a conclusioni diverse rispetto a
quelle di Kenneth Waltz. Waltz dalla definizione di anarchia (mutuando analogicamente
dall’equilibrio di mercato) trae l’ipotesi dell’equilibrio di potenza, mentre Kehoane e Nye
dall’interdipendenza l’“imperativo” della cooperazione. Lasciando da parte queste conclusioni, che
affondano le radici in specifici contesti storici, e che se generalizzate presentano ambedue i rischi di
un approccio deterministico, a livello analitico esse possono consentire la costruzione di un nuovo
framework teorico per comprendere le dinamiche della globalizzazione contemporanea.54
53 Robert Kehoane e Joseph Nye, Power and Interdependence, Longman 2000, p. 22.54 E’ utile precisare che per Kehoane e Nye i linkages dell’interdipendenza non hanno una gerarchia settoriale (economico versus militare, ecc).
23
Nel celebre saggio Globalization: What’s New? What’s Not? (And so What?), Kehoane e
Nye definiscono la globalizzazione come un particolare tipo di interdipendenza:
“Globalism is a state of the world involving networks of
interdependence at multicontinental distances. Interdependence refers to
situations characterized by reciprocal effects among countries or among
actors in different countries. Hence, globalism is a type of interdependence,
but with two special characteristics. First, globalism refers to networks of
connections (multiple relationships), not to single linkages. Second, for a
network of relationships to be considered “global,” it must include
multicontinental distances, not simply regional networks.. The point is that
the increasing thickness of globalism –the density of networks of
interdependence – is not just a difference in degree. Thickness means that
different relationships of interdependence intersect more deeply at more
points. So what really is new in contemporary globalism? Intensive, or thick,
network interconnections that have systemic effects, often unanticipated..
Globalization shrinks distance, but it does not make distance irrelevant. And
the filters provided by domestic politics and political institutions play a
major role in determining what effects globalization really has and how well
various countries adapt to it.”55
Le interconnessioni che provocano un effetto sistemico non sono osservabili direttamente.
La globalizzazione economica intensifica l’interdipendenza in modo esponenziale al punto che la
moltiplicazione delle combinazioni tra moltitudini di attori e moltitudini di settori finisce per
oscurare agli occhi degli osservatori non solo le interconnessioni importanti, ma anche la rilevanza
delle asimmetrie e le asimmetrie di potere più rilevanti. Per questo l’interdipendenza è stata
percepita diffusamente quanto impropriamente come sequenza di immagini analogiche quali
“Villaggio Globale” “Reti senza Confini”, “Borderlesst World”, “Flat World”, “Global Level
Playing Field”.
Un’altra analogia relativa all’interdipendenza ha involontariamente contribuito a confondere
le acque. Il celebre titolo della conferenza tenuta da Edwards Lorenz nel 1972, “Può il battito di una
55 Robert O. Keohane and Joseph S. Nye, Jr., Globalization: What's New? What's Not? (And So What?), in “Foreign Policy”, No. 118, primavera 2000, p. 104-116.
24
farfalla in Brasile provocare un tornado in Texas?” è il leitmotiv utilizzato dalla letteratura
divulgativa per enfatizzare la rilevanza dei processi di interdipendenza nel mondo della
globalizzazione. Siamo di fronte ad un altro esempio di analogia depistante: si è accreditata l’idea
che economia e politica funzionino con le stesse dinamiche di un ecosistema climatico. In economia
ed in politica non tutte le farfalle sono uguali, né tanto meno uguali sono gli effetti nello spazio e nel
tempo dei loro battiti. Il problema non è che minime differenze iniziali possano portare ad effetti del
tutto imprevedibili. Il problema è identificare nel mare magnum delle interrelazioni globali quali
sono gli attori rilevanti ed i linkages rilevanti che, mitigando gli effetti dell’anarchia, funzionano da
driver della stabilità economica globale.
Studiare l’interdipendenza significa partire dal presupposto che non tutte le economie
nazionali aperte abbiano la stessa rilevanza, non tutte le monete e le banche centrali siano uguali,
non tutti i tassi di interesse producano gli stessi effetti, non tutti i governi siano in grado di produrre
effetti globali, non tutti gli attori di mercato abbiano lo stesso potere, non tutte le piazze finanziarie
abbiano la stessa influenza, ecc. Il fatto che la competizione economica globale sia caratterizzata da
una vastissimo intreccio di legami tra attori pubblici e privati che si condizionano a vicenda non ha
niente a che fare con la stabilità. L’interdipendenza di per sé – né più né meno dell’anarchia – può
incentivare instabilità e conflitto. Come ha scritto Kenneth Waltz “Interdependence promotes war as
well as peace”.56
Sin qui si è evidenziato come l’economia globale multipolare presenti le seguenti
caratteristiche: a) è priva di system of law enforcement (anarchia); b) gli Stati surrogano in parte
questa assenza assicurando la stabilità, ma perseguendo comunque i propri interessi nazionali; c) gli
attori non governativi di rilevanza globale sfidano le capacità di controllo degli Stati; d) i linkages di
interdipendenza tra gli attori globalmente rilevanti in certe condizioni producono squilibri.
In alcune fasi storiche – caratterizzate da uno o due attori dominanti – il mix di anarchia e di
interdipendenza che caratterizza l’arena globale favorisce la cristallizzazione di legami e gerarchie
di fatto durevoli nel tempo, favorendo una relativa stabilità economica globale. I problemi nascono
quando i linkages si allentano (o si trasformano), e/o entrano in gioco nuovi attori, mutando le
interdipendenze e determinando fasi di stallo. E’ quanto accaduto nell’ultimo ventennio di
transizione, che può essere descritto nei termini già citati dall’Economist “it is no longer clear who
56 Kenneth N. Waltz, Structural Realism after the Cold War, in “International Security”, Vol. 25, No. 1, estate 2000, p. 14. pp. 5–41
25
depends on whom”. Questo, in estrema sintesi, è l’enigma dell’economia globale multipolare che si
sta configurando.
Conclusioni. Dal “mito del villaggio globale” al “mondo dei grandi Stati”
La teoria macroeconomica nasce dal presupposto che un’economia nazionale aperta funzioni
per grandi aggregati e che segua una propria logica che non equivale alla pura somma delle singole
unità “microeconomiche” che la compongono. Anche la “macroeconomia globale” non può limitarsi
alla somma ed alla comparazione delle variabili macroeconomiche che caratterizzano le singole
economie nazionali; un’economia sempre più “globalizzata” costituisce qualcosa di più e di diverso
delle parti che la compongono. Tuttavia, quando gli economisti usano l’espressione “global
macroeconomics”, questa distinzione non appare sempre così nitida. Nelle semplificazioni
giornalistiche, ma anche a livello accademico, si tende spesso a descrivere l’economia del mondo
per analogia, limitandosi ad aggiungere l’aggettivo globale, come se si trattasse di un’unica ed
immensa “economia nazionale aperta”.
All’inizio degli anni novanta i dettami del Washington Consensus sono stati formulati
all’insegna del binomio macroeconomic stabilisation/ microeconomic liberalisation come se
esistesse davvero l’ “immenso mercato senza confini” preconizzato da Kemichi Omahe o – per
citare l’espressione di Ulrich Beck – la possibilità di una “politica interna globale”. In questo
orizzonte ai guardiani dell’ortodossia (US Treasury, istituzioni di Bretton Woods e WTO) era
assegnato il compito di imporre un unico modello di politica economica (one size fits all) a tutte le
“province” del mondo ed in particolare a quelle inadempienti o recalcitranti.
Per effetto della grande crisi del 2008, qualcosa di profondo sta mutando anche nella ricerca
macroeconomica. E’ interessante osservare in primo luogo che nella tradizionale discussione tra
ruolo dello Stato e del mercato il pendolo si è spostato a favore del primo. In questo clima si è
registrata per la prima volta un’apertura del FMI sul tema del controllo dei capitali di portafoglio. Si
può notare inoltre una tendenza ad allargare lo spettro della macroeconomia ad ambiti disciplinari
sinora trascurati.
Più precisamente, la ricerca economica più recente tenta di ridefinire il significato di stabilità
macroeconomica globale includendo nuove variabili politiche che integrino gli indicatori
tradizionali (volumi di emissione di moneta, tassi di interesse, ecc.). Ci riferiamo alla
regolamentazione pubblica del credito e della finanza (le macro prudential policies tante volte citate
da Mario Draghi), nonché all’analisi delle interazioni tra politiche di crescita, fiscali e redistributive.
L’Economia finanziaria, la finanza pubblica, l’economia comportamentale e l’economia dello
26
sviluppo, ma anche discipline non economiche (come le Relazioni Internazionali, gli studi strategici,
la teoria dell’organizzazione e l’analisi delle politiche pubbliche) sono chiamate a concorrere a
questo sforzo per giungere ad una nuova e più accurata definizione delle condizioni di
stabilità/instabilità economica e politica globale.
Nella visione interdisciplinare e multidimensionale che si sta affermando, il rapporto tra
domanda aggregata ed offerta aggregata, la stabilità dei prezzi, il controllo dell’inflazione non
sembrano costituire più l’epicentro dell’analisi macroeconomica, ma una tessera importante di un
mosaico più ampio in cui altri ambiti economici, politici ed istituzionali acquistano crescente
rilevanza ai fini dell’analisi economica. A livello prescrittivo è probabile che questa estensione
multidimensionale della macroeconomia suggerisca la necessità di un potenziamento delle capacità
di regolazione e di intervento pubblico in campo economico e finanziario – una prospettiva
decisamente in controtendenza rispetto al leitmotiv del declino degli Stati. Osserviamo per inciso che
anche i primi risultati della ricerca empirica che stiamo conducendo su venti anni di globalizzazione
confermano che per partecipare con successo alla sfida globale gli Stati devono disporre di maggiori
capacità di regolazione, nonché di risorse finanziarie che consentano da un lato di accrescere la
propria competitività in termini di ricerca e di sviluppo, dall’altro di arginare con politiche sociali
appropriate i contraccolpi interni e gli effetti indesiderati della globalizzazione (ammortizzatori
sociali, ecc..).
Inoltre, solo in tempi recenti la rilevanza delle grandi organizzazioni (i “Grandi Stati” e le
“Grandi aziende”) il loro grado di interdipendenza e le loro dinamiche inter-organizzative sono
diventate oggetto specifico della ricerca macroeconomica, a partire dal settore finanziario.
L’espressione “Intensive, or thick, network interconnections that have systemic effects” di Kehoane
e Nye si è estesa innanzitutto al ruolo degli attori i finanziari (pubblici e privati) “misteriosamente”
assenti nei tradizionali modelli macroeconomici. Come ha ricordato Luigi Spaventa, fino al 2008 i
modelli macroeconomici non ne tenevano conto:
“Un interessante filone di letteratura sui bilanci delle banche, sui cicli della leva
finanziaria degli intermediari, sugli effetti di improvvise variazioni della liquidità non ha mai
trovato posto adeguato nei modelli macroeconomici. I modelli più in voga ignorano le attività
finanziarie e gli intermediari e non possono ammettere l'esistenza di agenti eterogenei, asimmetrie
informative, problemi di agenzia, carenze di coordinamento e così via (per questo si è detto che non
vi è nulla in quei modelli che possa interessare i banchieri centrali). Non è agevole spiegare la
mancata inclusione delle variabili finanziarie nei moderni modelli macroeonomici: forse la comoda
accettazione della ipotesi forte di mercati efficienti e dei teoremi di neutralità; forse l'illusione che
27
la volatilità dei mercati finanziari fosse giunta al termine con la Grande Moderazione; forse i
problemi pratici derivanti dalla necessità di mantenere i modelli gestibili e facili da utilizzare.”
Oggi il linguaggio macroeconomico utilizza sempre più spesso quattro parole chiave:
“Systemically Important Countries”, “Systemically Important Firms”, "Systemically Important
Payment Systems”, “Systemic Risk”; la ricerca rimane tuttavia allo stato embrionale. Il Fondo
Monetario Internazionale ha recentemente confermato quanto sia difficile trovare una definizione
operativa dell’espressione “rilevanza sistemica”. Ciò non deve sorprendere, perché essa allude ad
una dimensione più legata alle dinamiche di potere che alle logiche del mercato :
“There is no clear, universally accepted definition of “systemic importance”. Systemic
importance is not a binary concept but can be measured along a continuum, using different criteria.
Distinguishing between different countries on the basis of whether or not their financial sectors are
“systemically important” is thus fraught with difficulty” .
E’ tuttavia promettente che il concetto di “Systemically Important Countries” (non lontano
da alcuni assunti del realismo strutturale) si stia affermando nella letteratura economica più recente.
Esso “obbliga”, infatti, ad inserire il multipolarismo politico come una delle chiavi di lettura della
globalizzazione economica contemporanea. Alcuni analisti giungono alla conclusione che le
istituzioni politiche hanno un ruolo centrale nei processi di globalizzazione. Martin Wolf – ad
esempio – sostiene che “il futuro della globalizzazione non dipenderà tanto dalla combinazione tra
forze di mercato e rivoluzione tecnologica, quanto dalle consapevoli decisioni degli Stati di
perseguire il proprio benessere economico”. 57 Questa tesi i è sostenuta con forza anche da Silvye
Brunel:
“Loin d’abolir le rôle des Etats, la mondialisation leur redonne au
contraire tout leur sens : seule la puissance publique peut réguler la
mondialisation en fixant des normes, en redistribuant les richesses, en
aménageant le territoire. Tentations du protectionnisme, fermeture des
frontières, mise en œuvre de législations contraignantes, la mondialisation
s’accompagne paradoxalement du grand retour des Etats. Le libre-échange
est contesté dès lors qu’il compromet certaines questions jugées essentielles,
comme l’emploi, la sécurité, la santé ou l’accès à l’énergie. Les zones
d’influence se reconstituent par le biais des accords bilatéraux.”58
57 Wolf, Martin. "Will the Nation-State Survive Globalization?" Foreign Affairs 80 (January–February 2001): 178–19058 http://www.scienceshumaines.com/qu-est-ce-que-la-mondialisation-_fr_15307.html
28
Il mondo multipolare che è davanti ai nostri occhi costituisce la sfida della macroeconomia
globale. Il bipolarismo era un assetto internazionale molto più semplice da analizzare: livelli minimi
di interdipendenza economica tra i due blocchi; competizione interna alle economie di mercato in
cui il motore dell’economia americana operava nell’ambito di una gerarchia consolidata sin dai
tempi di Bretton Woods anche se dagli anni settanta costretta a fare i conti con le ambizioni dei
paesi OPEC. Il multipolarismo si presenta, viceversa, come uno scenario molto più incerto e
rischioso, perché con l’aumento del numero dei giocatori si moltiplica il numero delle possibili
combinazioni. Il linkages di interdipendenza che si determinano nell’arena globale anarchica si
fondano su tensioni competitive, gerarchie di fatto ed alleanze a geometria variabile molto più
mobili e precarie.59
Per sottolineare la diversità con la fase precedente possiamo concludere citando il legame
gerarchico più durevole nel tempo: l’assetto valutario mondiale con lo status speciale del dollaro
così come si è configurato nel secondo dopoguerra ed in particolare dal 1971ad oggi. Cinquanta anni
fa, Valéry Giscard d’Estaing – Ministro delle Finanze di De Gaulle – definì polemicamente lo status
speciale del dollaro un "privilège exorbitant…, Car cela a permis aux USA d’exporter ses déficits
chez les autres grâce au statut de monnaie de réserve internazionale”; John Connally, suo collega
americano, gli rispose per le rime: "the dollar is our currency, but your problem". Lo status speciale
del dollaro come valuta di riserva e come principale moneta di scambio internazionale rappresenta
storicamente un legame gerarchico durevole nel tempo che ha contribuito ad assicurare la stabilità
globale per decenni, a prescindere dell’andamento quantitativo dell’offerta e della domanda e del
suo variabile andamento nel mercato valutario.
Non si deve inoltre dimenticare che alcuni profili della globalizzazione economica
contemporanea affondano le proprie origini proprio nella decisione politica unilaterale di eliminare
la convertibilità del dollaro in oro decisa dall’amministrazione Nixon nell’agosto del 1971. Questa
decisione – oltre a prende atto della non sostenibilità del Dollar Exchange System (il cosiddetto
“Triffin dilemma”) – non è stata finalizzata soltanto a prevenire il rischio di insolvibiltà di Fort
Knox60, ma all’obiettivo strategico di continuare ad assorbire risparmio dal resto del mondo allo
59 Per sottolineare la diversità con la fase precedente possiamo concludere citando il legame gerarchico più durevole nel tempo: l’assetto valutario mondiale con lo status speciale del dollaro così come si è configurato nel secondo dopoguerra ed in particolare dal 1971ad oggi. Cinquanta anni fa, Valéry Giscard d’Estaing – Ministro delle Finanze di De Gaulle – definì polemicamente lo status speciale del dollaro un "privilège exorbitant…, Car cela a permis aux USA d’exporter ses déficits chez les autres grâce au statut de monnaie de réserve internazionale”; John Connally, suo collega americano, gli rispose per le rime: "the dollar is our currency, but your problem". Lo status speciale del dollaro come valuta di riserva e come principale moneta di scambio internazionale rappresenta storicamente un legame gerarchico durevole nel tempo che ha contribuito ad assicurare la stabilità globale per decenni, a prescindere dell’andamento quantitativo dell’offerta e della domanda e del suo variabile andamento nel mercato valutario.
60 http://web.archive.org/web/20080201051024/http://www.ustreas.gov/education/fact-sheets/currency/fort-knox.html29
scopo di finanziare la crescita degli Stati Uniti in una fase di serrato confronto bipolare ed in un
periodo particolarmente difficile della sua storia.
Non è un caso che il governatore della banca centrale cinese Zhou Xiaochuan – durante un
importante discorso del 23 marzo 2009 dal titolo “Reform the International Monetary System” –
abbia affermato che la crisi globale degli anni 2007/09 riproponga all’attenzione del mondo i nodi
irrisolti che Triffin ha evidenziato nel lontano 1960.
Le teorie sulla predominanza dell’egemonia americana che hanno contraddistinto l’inizio del
nuovo millennio si sono dimostrate infondate e ciò pone nuovi interrogativi sul futuro ruolo del
dollaro. In un contesto internazionale radicalmente mutato dopo la caduta del muro di Berlino, il
conflitto tra US interests ed il ruolo degli Stati Uniti come global provider di public goods
(sicurezza e stabilità economica ) si ripropone con forza. Are We Prepared for a Multipolar World
Economy? Questo articolo di Justin Yifu Lin e Mansoor Dailami va al cuore del problema, come
emerge chiaramente dal seguente brano:
“Since the end of World War II, the US- centred global economic
order has been built on a complementary set of tacit economic and security
arrangements between the United States and its core partners. In exchange
for the US assuming the responsibilities of system maintenance, serving as
market of last resort, and accepting the international role of the dollar, its
key economic partners, Western Europe and Japan, acquiesced in the special
privileges enjoyed by the US – seigniorage gains, domestic macroeconomic-
policy autonomy, and balance-of-payments flexibility. An increasingly
multipolar global economy is likely to change the way the world conducts
international business. For now, the US dollar remains the most important
international currency. In Global Development Horizons 2011, the World
Bank presents what it believes to be the most probable global currency
scenario in 2025 – a multicurrency arrangement based on the Dollar, the
Euro and the Remimbi.”
L’estensione analogica delle teorie sull’equilibrio di mercato ed espressioni metaforiche
suggestive quali i “Villaggio globale”, “One World” “Rete senza confini”, “Tramonto degli
Stati”, “Effetto Farfalla”, “Società aperta globale”, ma anche “Impero delle multinazionali,
“Americanizzazione e Macdonaldizzazione del mondo, “Omologazione Occidentale”
30
rappresentano una sequenza di rappresentazioni il cui grande successo presso il pubblico è pari alla
loro grande distanza dai fatti.
Nella globalizzazione multipolare che si sta delineando sempre più nitidamente la moneta e
la spada – tradizionali prerogative dei poteri sovrani – sembrano conservare tutta la loro importanza
politica e simbolica. Per quanto attiene alla moneta due diverse traiettorie si intravedono
all’orizzonte. La prima ipotesi (formulata dalla Banca Mondiale ) di una tripartizione tra dollaro,
euro e remimbi è quella maggior mente di moda tra gli economisti. Essa tuttavia si presta a due
fondate obiezioni. La prima è squisitamente politica: Giappone, Russia, India e Brasile possono
accettare passivamente una retrocessione di rango dello yen, del rublo, della Rupya e del Real? La
seconda, viceversa, è di carattere tecnico-economico. Può reggere un’economia globale multipolare
priva di un’unità di misura di riserva e di scambio in cui la maggioranza degli attori può
riconoscersi? La tripartizione potrebbe accentuare l’asimmetria informativa trasformando l’arena
economica globale in una vera e propria torre di Babele o peggio in una guerra monetaria di tutti
contro tutti.
La seconda ipotesi, caldeggiata dalle autorità monetarie cinesi, è l’idea di riprendere a più di
sessanta anni i di distanza il progetto del Bancor per cui Lord Keynes aveva strenuamente
combattuto come capodelegazione del Regno Unito alla conferenza di Bretton Woods. Per quanto
razionalmente fondata, essa tuttavia trova tuttora un ostacolo insormontabile nelle dinamiche della
politica americana. Abbiamo già visto le conseguenze del downgrading di Standard e Poors. Non è
difficile immaginare cosa accadrebbe se il ruolo globale del dollaro, come principale moneta di
riserva e di scambio, fosse archiviato da un accordo multilaterale.
I dilemmi che circondano l’assetto monetario internazionale costituiscono l’emblema
dell’incertezza che caratterizza il futuro della globalizzazione multipolare. Per le scienze sociali si è
aperto uno straordinario fecondo campo di indagine; economisti e politologi in particolare hanno un
immenso lavoro da svolgere, ciascuno nell’ambito di propria competenza, ma cercando di elaborare
un linguaggio comune.
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Figura 2
Fonte: Intelligence National Council
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