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Wolfgang Borchert - Ventisette coniglietti tra le macerie della guerra

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 Wolfgang Borchert

 

 Ventisette coniglietti

tra le macerie della guerra

 

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Traduzione dal tedesco a cura di Nicola Spinosi ([email protected]).

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Presento la traduzione di alcuni dei testi componenti Die Hundeblume,

un'opera narrativa di Wolfgang Borchert (1921-1947). Si tratta di una

testimonianza contro la guerra, scritta da chi alla guerra '39-'45 aveva

partecipato come soldato. Ai tempi si parlò di letteratura delle rovine, dinarrativa delle macerie; la ragione di ciò si comprende riflettendo sullo

stato di devastazione radicale che la Germania ebbe da fronteggiare dal

1945 in poi. Si pensi del resto al film di Rossellini, “Germania anno

zero”.

I miei sentiti ringraziamenti vanno alla Dott. Angela Storjohann per 

quanto mi ha aiutato ed incoraggiato a questo lavoro.

Nicola Spinosi

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 Voci nell'aria, nella notte.

Ma di notte i topi dormono.

Il pane.

Questo martedì.Fratello viso pallido.

Lungo la strada.

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 Voci nell'aria, nella notte.

Il tram avanzava nella nebbia del pomeriggio, giallo nel grigio. Era

novembre, vie vuote e silenziose, solo il giallo nuotava isolato nelpomeriggio nebbioso. Dentro sedevano al caldo, respirando inquiete,

solo cinque o sei persone sfuggite alla nebbia, sotto le gradevoli luci

basse, tutte da sole - scampate all’umido. Il tram viaggiava vuoto, erano

solo in cinque, tutti da soli. Il bigliettaio era il sesto, in quel tardo

solitario pomeriggio nebbioso, là con i suoi rassicuranti bottoni d’ottone,

a disegnare facce storte sul vetro umido. Il tram giallo arrancava dentro

il novembre. I cinque scampati sedevano, il bigliettaio stava in piedi, ed

ecco che il vecchio con le enormi occhiaie riattaccò a farsi sentire: “Sono

nell’aria, nella notte. Sono nella notte. Perciò non si dorme. Solo per 

questo. E’ solo colpa delle voci, mi credano, è solo a causa delle voci”. Il

 vecchio si piegò in avanti. Le occhiaie gli tremavano, e quel suo dito

indice troppo chiaro s’agito sul petto cadente dell’anziana signora

seduta di fronte. Lei, soffiando rumorosa dal naso, fissò inquieta l’indice

chiaro. E continuava a soffiare affannata, non poteva farne a meno, era

afflitta da un incredibile raffreddore novembrino, certamente

polmonare. Il dito del vecchio la inquietò. Le due ragazze dall’altro lato

ridacchiavano. Non si guardavano, dal momento che lo sapevano già,

delle voci notturne. Era tutta colpa delle voci. Per prima cosa. Anche gli

altri ridacchiavano imbarazzati, infatti sedevano uno davanti all’altro. E

il bigliettaio disegnava facce storte sul finestrino guarnito di nebbia.

C’era anche un giovane, teneva gli occhi chiusi ed era pallido,

pallidissimo sotto la luce bassa. Teneva gli occhi chiusi, oppure dormiva.

E il tram giallo nuotava a fatica attraverso la solitaria nebbia

pomeridiana. Il bigliettaio disegnò una faccia storta nel vetro e disse al

 vecchio con le occhiaie: ”Sì, chiaro, ci sono le voci. Soprattutto la notte,

è naturale”. Le due ragazze provarono imbarazzo, nascostamente, e si

trattennero dal ridacchiare; una disse: la notte, soprattutto la notte.

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Il vecchio con le grandi occhiaie allora spostò il suo dito chiaro dal

petto dell’anziana signora raffreddata e lo agitò verso il bigliettaio:

”Ascoltate quel che dico! Ci sono le voci. Nell’aria. Nella notte. Signori

miei - spostò l’indice dal bigliettaio e ora lo drizzò in alto - sapete checosa c’è nell’aria? Le voci, di notte, le voci. E sapete perché, vero?”.

Le occhiaie tremavano. Dall’altra parte il giovane pallidissimo teneva gli

occhi chiusi, oppure dormiva. “Sono i morti, i numerosissimi morti –

sussurrò quel vecchio con le occhiaie – i morti, signori miei. Ce ne sono

tanti. Di notte salgono nell’aria. Sono numerosissimi. Non hanno dove

stare. Perché il cuore ne è colmo, strapieno. E soltanto nel cuore

possono stare, è sicuro. Ma sono troppi: dove stare? Non lo sanno.”

Gli altri smisero di respirare, mentre il giovane pallido con gli occhi

chiusi, come se dormisse, respirava a fatica.

Il vecchio agitò l’indice chiaro contro i suoi ascoltatori, uno per volta.

 Verso le ragazze, verso il bigliettaio e verso l’anziana signora. E poi di

nuovo mormorò: “Per questo non si dorme, solo per questo. C’è una

quantità di morti nell’aria. Non hanno dove stare. Di notte parlano e

cercano un cuore. Perciò non si dorme, perché i morti di notte non

dormono. Ce n’è una quantità. Specie di notte. Loro di notte parlano,

quando tutto tace. La notte, quando non c’è null’altro. Di notte quindi

hanno voce. Perciò si dorme tanto male”.

L’anziana signora con il raffreddore tirò su l’aria fischiando e fissò

inquieta le rugose occhiaie tremanti del vecchio. Invece le ragazze

ridacchiarono. Conoscevano voci notturne, ma d’altro genere, vive come

una mano calda di uomo sulla pelle nuda, lieve o invece prepotente,

specie di notte. Ridacchiarono imbarazzate una davanti all’altra. E non

sapevano, nessuna delle due, che anche l’altra sentiva la voce, nei sogni.

Il bigliettaio disegnò facce sul finestrino umido di nebbia e disse: “Sì, ci

sono i morti. Parlano nell’aria. Nella notte, sì. E’ chiaro. Le voci sono

questo. Volteggiano nell’aria, sopra il letto. Di conseguenza non si

dorme. E' chiaro”.

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L’anziana signora tirò su con il naso fischiando e annuì: “I morti, sì, i

morti: le voci sono questo. Sopra il letto. Oh sì, sempre sopra il letto”.

Le ragazze sentirono strane mani di uomo, segretamente, sulla pelle, e

arrossirono, in quest’orribile pomeriggio. Il giovane, quello pallido emolto solo nel suo angolo, invece teneva gli occhi chiusi, oppure

dormiva. Là, verso quell’angolo dove quel giovane pallido sedeva, piazzò

il suo dito chiaro il vecchio con le occhiaie, e mormorò: “Eh, i giovani!

Riescono a dormire. Di pomeriggio, di notte, in novembre, sempre. Loro

non sentono i morti. I giovani, loro si perdono le voci segrete, dormendo.

Solo noi vecchi abbiamo le orecchie sveglie, di notte i giovani han poco

orecchio per le voci. Loro riescono a dormire”.

L’indice s’agito sprezzante verso il giovane pallido, e tutti presero fiato

con rabbia. Allora il giovane aprì gli occhi, si alzò di scatto e s’avvicinò al

 vecchio. L’indice si rattrappì nella mano, e quel vecchio con le occhiaie

si calmò. Quello pallido, il giovane, strinse la faccia del vecchio e disse: ”

Oh, per favore, non buttate via la sigaretta, datela a me per favore, che

mi farà bene: ho un po' di fame, date qui, fate il buono, che mi sento

male”.

Le occhiaie s’inumidirono, tremarono rugose, penosamente, dallo

spavento. E il vecchio disse: “Eh sì, lei è molto pallido, ha una cattiva

cera. Non ha un cappotto? Siamo in novembre.”

“Lo so, lo so - disse il giovane pallido – mia madre me lo diceva ogni

mattina, dovevo metterlo, era novembre. Lo so. Ma è morta da tre anni, e

non sa che non ho un cappotto. Ogni mattina lo diceva, mia madre: è

novembre. Ma non può saperne niente, è morta.”

Il giovane prese la sigaretta accesa e uscì barcollando dal tram. Fuori

c’era la nebbia, il pomeriggio, il novembre. E in questo solitario tardo

pomeriggio un giovane camminava - un uomo molto pallido con una

sigaretta. Aveva fame. Non aveva cappotto. Dentro il tram stavano gli

altri, e trattenevano il respiro. Quel vecchio con le occhiaie tremava

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penosamente. E il bigliettaio dipingeva facce storte nel finestrino. Le sue

facce storte.

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Ma di notte i topi dormono.

La finestra incavata nel muro solitario s’apriva colma di rosso e azzurro,

 verso il tramonto. Tremavano nuvole di polvere tra i resti alti deicomignoli. Le macerie desolate sonnecchiavano. Lui teneva gli occhi

chiusi. D’un tratto si fece più scuro. Sentì che era venuto qualcuno e che

ora gli stava davanti. Ora mi prendono! – pensò, socchiuse gli occhi, ma

 vide solo due misere gambe dentro un paio di pantaloni. Gli stavano

davanti piuttosto arquate, tanto che riusciva a guardare oltre, tra loro.

Gettò una breve occhiata al di sopra dei pantaloni e distinse un uomo

anziano. Aveva un coltello e un cesto. E un po’ di terra sulla punta delle

dita.

Ci dormi bene qui? - domandò l’uomo guardando dall’alto quel cespuglio

di capelli. Juergen ammiccò al sole attraverso le gambe dell’uomo e

disse: No, non dormo. Ci devo fare la guardia. L’uomo annuì: così è per 

questo che hai quel gran bastone, eh? Sì, rispose ardito Juergen, e lo

strinse forte. A cosa la fai, la guardia?

Questo non posso dirlo. E strinse forte la mano sul bastone.

Soldi? L’uomo mise giù il cesto e si strofinò il coltello sui calzoni.

No, non certo ai soldi, disse Juergen sprezzante. A qualcosa di

completamente diverso.

 Allora a cosa, dai.

Non posso dirlo. A qualcos’altro.

 Va bene, allora no. E naturalmente nemmeno io ti dico che cosa ho qui

nel cesto. L’uomo tenne un piede sul cesto e richiuse il coltello.

C’arrivo da solo, a cosa c’è nel cesto, affermò sprezzante Juergen, cibo

per conigli.

Porca miseria, è vero! Disse l’uomo stupito, sei davvero un tipo sveglio.

Quanti anni hai?

Nove.

Oh, pensa, appena nove. Allora lo sai quanto fa tre per nove?

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Sicuro, disse Juergen, e per guadagnare tempo disse: è facilissimo.

Guardò oltre attraverso le gambe dell’uomo. Tre per nove, no? Domandò

di nuovo, ventisette. Lo sapevo benissimo.

Bravo, disse l’uomo, e io ho esattamente ventisette conigli. Juergen restò a bocca aperta. Ventisette?

Li puoi vedere. Sono ancora piccolini. Vuoi?

Non posso mica, disse Juergen incerto, ho da fare la guardia.

Di continuo? – domandò l’uomo, anche di notte?

 Anche di notte. Di continuo, sempre. Juergen guardò in su le gambe

arquate. E’ da sabato, mormorò.

Ma allora a casa non ci vai proprio? Però dovrai mangiare.

 Juergen alzò una pietra. Sotto c’era una mezza pagnotta. E una scatola

di latta.

Fumi?- domandò l’uomo, c’hai la pipa?

 Juergen strinse forte il suo bastone e disse esitante: mi arrotolo le

sigarette. La pipa non mi piace.

Peccato, l’uomo si chinò verso il suo cesto, avresti potuto

tranquillamente vedere i conigli. Soprattutto quelli piccoli. Avresti

potuto sceglierne uno. Invece qui non avrai nulla.

No, disse Juergen triste, no, no.

L’uomo prese su il cesto. Allora, se devi restare qui, peccato. E si girò

per allontanarsi.

Se non mi tradisci, disse veloce Juergen, questa è la via dei topi.

Le gambe arquate fecero un passo indietro.

Sì, mangiano i morti. Persone morte. Ci campano.

Chi lo dice?

Il nostro insegnante.

E tu fai la guardia ai topi? - domandò l’uomo.

Non ai topi, e poi disse pianissimo: a mio fratello, che sta anche lui

sottoterra, là. Juergen indicò con il bastone il muro solitario. La nostra

casa s’è beccata una bomba. Una volta andò via la luce della cantina, e

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lui pure. L’abbiamo chiamato. Era molto più piccolo di me. Appena

quattro anni. Doveva essere ancora qui. E’ molto più piccolo di me.

L’uomo guardò dall’alto il cespuglio di capelli. E poi disse brusco: ma il

 vostro insegnante non ve l’ha detto che di notte i topi dormono?No, mormorò Juergen, e guardò tutto assonnato, non ce l’ha detto.

Che maestro è, disse l’uomo, che non sa che i topi di notte dormono?

Di notte potresti tranquillamente andare a casa. Di notte dormono

sempre. Quando fa buio. Sicuro.

 Juergen fece con il bastone piccole buche nella polvere dei detriti.

Tutti lettini sono, pensò, tutti lettini.

 Allora l’uomo disse (e le sue gambe arcuate tremavano tutt’e due): sai

che? Ora alla svelta do da mangiare ai conigli, poi quando fa scuro ti

 vengo a prendere. Magari ne posso portare uno, uno di quelli piccini,

che ne pensi?

 Juergen fece piccole buche nella polvere dei detriti. Tutti piccoli conigli.

Bianchi, grigi, grigio bianchi. Non lo so, disse piano, e guardò verso

le gambe arcuate, se dormono per davvero, di notte.

L’uomo s’arrampicò per il sentiero tra i resti del muro verso la strada. E’

certo, disse, che il vostro insegnante se ne deve andare, se non sa queste

cose. Allora Juergen si alzò e domandò: e ne potrò avere uno, magari

bianco?

 Vedremo, gridò forte l’uomo mentre camminava, ma devi aspettare qui.

Poi andiamo insieme a casa tua, eh? Lo devo dire a tuo padre che ci sarà

da costruire una gabbia da conigli, lo deve sapere.

Sì, gridò Juergen, aspetto. Devo ancora far la guardia fino a quando

 viene scuro. Aspetto di certo. E gridò: oltretutto a casa abbiamo anche

delle tavole, una cassetta fatta di tavole, gridò: ma l’uomo non sentiva

più nulla. Camminava con le sue gambe arcuate contro sole. Era una

sera rossissima, e Juergen poteva vederla splendere attraverso quelle

gambe, tanto erano storte. E il cesto andava su e giù. Dentro c’era il cibo

per i conigli. Verde, ma un po’ impolverato dai detriti.

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Il pane.

Di colpo si svegliò. Erano le due e mezzo. Si chiese perché s’era

svegliata. Ah, ecco! In cucina qualcuno aveva urtato una sedia. Si misead ascoltare dalla parte della cucina. Niente rumori. Troppo silenzio,

allora spostò la mano di fianco, nel letto, e trovò vuoto. Mancava il

respiro di lui, ecco cos’era tutto quel silenzio. S’alzò e andò a tentoni

nell’appartamento buio verso la cucina, dove s’incontrarono. L’orologio

segnava le due e mezzo. Vide qualcosa di bianco vicino alla dispensa.

 Accese la luce. Si trovavano uno davanti all’altra in camicia da notte.

 Alle due e mezzo. In cucina.

Sopra il tavolo c’era il tagliere del pane. Lei vide che lui aveva tagliato

delle fette. Il coltello ancora vicino al tagliere. E sulla tovaglia sparse

delle briciole. Quando la sera andava a letto, lei lasciava sempre la

tovaglia pulita. Ogni sera. Ma ora sulla tovaglia erano sparse delle

briciole. E il coltello. Sentì il freddo del pavimento salire pian piano

dentro di lei. E guardò verso il tagliere.

“Io credevo di sentire qualcosa, di qua”, disse lui, e guardò in giro nella

cucina.

“Anch’io”, replicò lei, contemporaneamente valutando che lui di notte in

camicia pareva proprio un vecchio. Proprio com’era. Sessantatré anni. Di

giorno sembrava più giovane, a volte. Lei sembra molto vecchia, pensò

lui, in camicia aveva un aspetto davvero vecchio. Forse dipendeva dai

capelli. Di notte con le donne è sempre un fatto di capelli, questo le fa di

colpo così vecchie.

“Ti saresti dovuta mettere le scarpe. Così a piedi nudi sul pavimento

freddo. Ti raffreddi.”

Lei non lo guardava, infatti non riusciva a sopportare che lui mentisse.

Che mentisse dopo trentanove anni di matrimonio.

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“Credevo di sentire qualcosa di qua”, disse un’altra volta lui

all’improvviso, e di nuovo guardò in giro in modo totalmente assurdo.

“Cosa sentivo di qua, stavo a pensare.”

“Anch’io. Ma non c’era proprio nulla”. Alzò il tagliere dal tavolo e tirò via le briciole dalla tovaglia. “No, non c’era proprio nulla”, le fece eco

lui, incerto.

Lei gli venne in aiuto: “Su, vieni. Era da fuori che veniva. Vieni a letto. Ti

raffreddi. Sul pavimento freddo.”

Lui guardò verso la finestra.”Sì, dev’essere stato fuori, forse. Credevo

che fosse qui.”

Lei alzò la mano verso l’interruttore della luce. Devo spegnere la luce,

ora, altrimenti sono costretta a vedere il tagliere. Non devo vederlo.

“Vieni”, disse, e spense la luce, “sarà stato fuori. Con il vento la grondaia

sbatacchia sempre contro il muro. Possibilissimo che fosse la grondaia.

Con il vento sbatte sempre.”

Tutt’e due andarono a tentoni per il corridoio al buio verso la camera da

letto. I loro piedi nudi tonfavano sul pavimento.

“Sì, è il vento”, fece lui. “Ha tirato un gran ventaccio tutta la notte.

Quando furono sul letto, lei disse:”Sì, ha tirato un ventaccio tutta la

notte. Possibilissimo che fosse la grondaia”. ”Sì, io stavo in pensiero che

fosse qualcosa in cucina. Possibilissimo che fosse la grondaia”. Disse

queste parole, lui, come già mezzo addormentato.

Tuttavia lei considerò come suonava falsa la sua voce, ora che lui stava

sul letto. “E’ freddo”, disse, e sbadigliò piano, “io m’infilo sotto la

coperta. Buonanotte.”

“Notte”, rispose lui, e poi:”sì, fa freddo, proprio un gran freddo”.

Poi tacquero. Dopo parecchi minuti lei si accorse che lui, attento e

silenzioso, masticava. Respirò con intenzione in modo profondo e

uniforme, perché lui non dovesse sforzarsi di non svegliarla. Ma il suo

masticare era così metodico che lei lentamente ci prese sonno.

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Quando la sera dopo lui venne a casa, lei gli mise davanti quattro fette di

pane. Di solito ne poteva mangiare solo tre. “Puoi mangiarne quattro

tranquillamente”, disse lei, e s’allontanò dalla luce della lampada. “Io

non lo sopporto, questo pane. Su, mangiane una in più. A me non mipare così buono.”

Lo guardò come si piegava profondamente sul tagliere. Non vedeva

nulla. In quel momento le fece pena.

“Tu però non puoi mangiare solo due fette”, disse lui. “Ma sì! La sera

non mi fa bene, il pane. Su, mangia, su.”

Dopo poco si sedette a tavola sotto la lampada.

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Questo martedì.

La settimana ha un martedì

L’anno una cinquantinaLa guerra ha molti martedì

Questo martedì

 A scuola si sono esercitate con le maiuscole. La maestra aveva occhiali

con lenti spesse. Con la montatura leggera. Così spesse che gli occhi si

 vedevano poco.

Quarantadue ragazzine guardavano la lavagna nera e scrivevano in

lettere maiuscole:

IL VECCHIO FRITZ AVEVA UN BICCHIERE DI LATTA. LA GROSSA 

BERTA COLPI’ PARIGI. IN GUERRA OGNI PADRE E’ SOLDATO. <La

“grossa Berta” è un tipo di cannone>

Ulla spingeva la punta della lingua verso il naso. Proprio allora la

maestra le dette un buffetto. Hai scritto guerra con una erre, Ulla.

Guerra si scrive con due erre, come terra <nell'originale il gioco di

parole è naturalmente diverso: Krieg (guerra) si scrive, dice

l'insegnante, non Chrieg, ma con la “g” come Grube (fossa)>. Quante

 volte l’ho ripetuto? La maestra prese un registro e fece un segno accanto

al nome di Ulla. Per domani scriverai la frase per dieci volte da quel

punto, bella ordinata, hai capito? Sì, disse Ulla, e pensò: lei e i suoi

occhiali. In cortile le cornacchie mangiavano il pane che era stato

buttato.

Questo martedì

Il sottotenente Ehlers fu nominato comandante di battaglione.

Signor Ehlers, vi dovete togliere la sciarpa rossa.

Come, signor maggiore?

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Ma sicuro, Ehlers. Nella seconda compagnia non gradiscono cose del

genere.

 Vado nella seconda?

Sì, e loro non amano cose del genere. Lì con la sciarpa rossa non ci venite. La seconda è abituata alla correttezza. Con la sciarpa rossa non

farete nessun passo avanti. Cose del genere il capitano Hesse non le

indossa.

Hesse è ferito grave?

No, s’è dato malato. Si sentiva non bene, ha detto. Da quando è capitano,

quell' Hesse, s’è un po’ rammollito. Non capisco. Di solito era così a

posto, sempre. Su, Ehlers, vedrete che con la compagnia andrà benone.

Hesse ha educato bene i subalterni. E levatevi la sciarpa, chiaro?

Gnorsì, signor maggiore.

E badate ai subalterni con la sigaretta, che stiano in campana. A un

tiratore scelto che si rispetti gli prude l’indice, quando vede queste

lucciole ronzare in giro. La scorsa settimana abbiamo avuto cinque teste

saltate. Insomma, adeguatevi un pochino, eh?

Sissignore, signor maggiore.

 Andando alla seconda compagnia il sottotenente Ehlers si tolse la

sciarpa rossa, e si mise in bocca una sigaretta. Comandante di

compagnia Ehlers, gridò.

E ci fu lo sparo.

Questo martedì

Il signor Hansen disse alla signorina Severin: bisogna mandare qualche

altra cosa a quell’Hesse, cara la mia Severin. Da fumare, da mangiare.

Un po’ di letteratura. Un paio di guanti o cose simili. Ai ragazzi laggiù

gli tocca un inverno dannato, so quel che dico. Per forza.

Hoelderlin forse, signor Hansen?

 Assurdo, cara la mia Severin, assurdo. No, qualcosa di più sereno, un po’

più tranquillo. Tipo Wilhelm Busch <noto soprattutto per le storie

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(illustrate) di Max und Moritz>. Di certo Hesse era più per il genere

leggero. E’ contento veramente, quando ride. Del resto voi lo sapete. Dio

mio, cara la mia Severin, quanto sa ridere, questo Hesse!

Sì, disse la signorina Severin, sa ridere.

Questo martedì

Portarono il capitano Hesse in barella al centro disinfestazione. Sulla

porta un cartellino:

GENERALE O GRANATIERE

LA RAPA E’ DI DOVERE

Fu rapato. L’addetto aveva dita lunghe e sottili. Tipo zampe di ragno. Le

nocche un po’ arrossate. Lo sfregavano leggermente, sapevano di

farmacia. Dopo, le zampe di ragno gli sentirono il polso e scrissero su un

gran registro:temperatura 41,6.Polso 116. Privo di conoscenza.

Probabile febbre petecchiale. L’addetto mise giù il registro. Ospedale

Smolensk per malattie infettive, ci stava scritto sopra. E sotto: 114 letti.

I portantini sollevarono la barella. Per le scale gli oscillò la testa che

spuntava dalla coperta, di qua e di là a ogni gradino. Rapata. Eppure

aveva sempre riso dei russi. Uno dei portantini aveva il raffreddore.

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Questo martedì

La signora Hesse suonò alla vicina. Quando la porta si aprì cominciò a

sventolare la lettera. E’ diventato capitano. Capitano e comandante di

compagnia, scrive. 40 gradi sotto zero, hanno. La lettera ci ha messonove giorni.

 Alla signora del capitano Hesse lui aveva scritto queste cose. Lei sollevò

la lettera aperta, ma la vicina non ci guardò. 40 sotto zero, disse. Poveri

ragazzi. 40 sotto zero.

Questo martedì

Il maresciallo medico domandò al primario dell’ospedale Smolensk per 

le malattie infettive:

Quanti ce ne sono al giorno?

Una mezza dozzina.

Mostruoso, disse il maresciallo.

Sì, mostruoso, disse il primario.

Ma non si guardarono.

Questo martedì

Era in programma Il flauto magico. La signora Hesse si dette il rossetto.

Questo martedì

L’infermiera Elisabetta scrisse ai suoi genitori: senza l’aiuto di Dio non

ne veniamo fuori.

Poi quando venne l’aiuto primario si alzò in piedi. Camminava così curvo

attraverso la sala che pareva reggesse sulla schiena la Russia intera.

Gli devo dare ancora qualcosa? Domandò l’infermiera. No, rispose l’aiuto

primario, piano, come se si vergognasse. Dopodiché portarono fuori il

capitano Hesse. Fuori c’era un rimbombare continuo, uno sbattere.

Perché non erano capaci di metter giù i morti per bene. Li fanno cascare

in terra, e sbattono sempre, disse uno. Il suo vicino cantò sottovoce:

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forza, evviva,

lesta va la fanteria

L’aiuto primario andava di letto in letto. Ogni giorno. Giorno e notte. Per giornate intere. Di notte. Procedeva curvo. Pareva che trascinasse per la

sala l’intera Russia. Fuori due portantini con una barella vuota

incespicarono. E 4, disse uno di loro. Aveva il raffreddore.

Questo martedì

La sera Ulla si mise a sedere e scrisse sul quaderno in maiuscole:

IN GUERRA OGNI PADRE E’SOLDATO.

IN GUERRA OGNI PADRE E’SOLDATO.

Dieci volte lo scrisse. In stampatello. E guerra con due erre come terra.

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Fratello viso pallido.

Non c’era mai stato niente di così bianco come questa neve. Quasi

cangiante nell’azzurro. Azzurro verde. Bianca da far paura. Il sole astento osava esser giallo davanti a questa neve. Nessuna domenica

mattina era mai stata così tersa. A parte che dietro s’alzava una

montagna scura. Ma la neve era fresca e pulita come un occhio di

animale. Nessuna neve era mai stata così bianca come questa domenica

mattina. Nessuna domenica mattina era mai stata così tersa. Il mondo,

questo nevoso mondo domenicale, sorrideva.

Ma da qualche parte c’era una macchia. Era un uomo che giaceva

scomposto nella neve, a pancia sotto, in divisa. Un mucchio di stracci.

Un misero mucchietto di pelle, ossa, cuoio e stoffa. Sporco di sangue

rosso annerito. Capelli senza vita, morti, addomesticati come una

parrucca. Scomposto urlava l’ultimo grido alla neve, abbaiava, se non

pregava: un soldato. Macchia in quel bianco di neve mai visto nella più

tersa delle domeniche mattina. Quadretto di guerra suggestivo, pieno di

sfumature, allettante spunto per pittura all’acquarello: sangue, neve e

sole. Fredda, fredda neve con dentro del sangue. E l’amato sole al di

sopra di tutto. Il nostro caro sole. Tutti i bambini del mondo dicono: il

caro, caro sole. E il sole illumina un morto che urla il grido inaudito di

tutte le marionette morte: il pauroso muto muto grido! Chi di noi,

fratello pallido, eh, chi di noi ferma il grido muto delle marionette,

quando staccate dal filo giacciono sparse sul palcoscenico, stupide,

disarticolate? Chi, eh, chi tra noi tollera il muto grido dei morti? Solo la

neve lo ferma, gelida. E il sole, il nostro amato sole.

Davanti alla marionetta straziata stava una marionetta ancora intera.

 Ancora funzionante. Davanti al soldato morto stava un vivo. In questa

tersa domenica bianca di neve mai vista prima, il Ritto tenne addosso al

Giacente lo spaventoso muto discorso che segue:

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Già già già. Hai chiuso con le tue spiritosaggini, caro mio. Con le tue

solite spiritosaggini. Ora non parli proprio più, eh? Ora non ridi più

tanto, eh? Se quelle tue donne lo sapessero, che sguardo penoso hai,

caro mio. Da far pietà, senza le tue spiritosaggini. E poi in questastupida posa. Perché hai le gambe così tremendamente rattrappite sul

 ventre? Ah, già, te ne sei beccato uno nelle budella. Ti sei imbrattato di

sangue. Non c’hai un aspetto appetitoso, caro mio. Ti sei sporcato tutta

la divisa. Sembri macchiato di vernice nera. E’ bene, che quelle tue

donne non ti vedano. Ti davi sempre un’aria, con la tua divisa. Ti vestiva

proprio come un guanto. Diventato caporale, portavi solo stivaletti di

 vernice. Lucidati con la cera per delle ore, quando la sera c’era da

andare in città. Ma ora non ci vai più in città. Le tue donne se la godono

con altri. Tu ora non cammini più per niente, lo capisci? Mai più, caro

mio. Mai mai più. Ora non ridi più per niente, con le tue solite

spiritosaggini. Ora stai lì, come se tu non sapessi contare fino a tre. Non

lo sai più. Non puoi più per niente contare fino a tre. E’ grama, caro mio,

grama all’ultimo stadio. Ma va bene così, molto bene. Capita che non

starai più a dirmi “ecco il fratello viso pallido, eccolo con la sua palpebra

mezza chiusa”. Mai più, ora, caro mio. Da ora in poi basta. Tu no, fine. E

gli altri la finiranno di aizzarti, e di ridere di me quando mi dici “ecco il

fratello viso pallido, eccolo con la sua palpebra mezza chiusa”. E’ una

cosa che conta molto, per me, lo sai? Te lo posso dire, è una cosa che per 

me conta un sacco. A scuola mi hanno parecchio denigrato. Come

pidocchi mi stavano addosso. Perché il mio occhio aveva quel piccolo

difetto, e perché la mia palpebra stava mezza chiusa. E perché la mia

pelle è così bianca. Pare formaggio. Dicevano sempre, eccolo un’altra

 volta il nostro viso pallido nato stanco. E le ragazze mi domandavano se

dormivo, con quel mio occhio mezzo chiuso. Dormiglione, dicevano,

dormiglione, caro te. Io vorrei sapere chi di noi due ora è il dormiglione.

Tu o io, eh? Chi è ora “il fratello viso pallido con la sua palpebra mezza

chiusa”. Eh? Chi, dunque, mio caro, tu o io? Io, per caso?

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Quando chiuse dietro di sé la porta del rifugio una dozzina di facce

ingrigite gli si avvicinarono. Una era la faccia del maresciallo. Signor 

capitano, l’avete trovato? – domandò quella faccia ingrigita,paurosamente ingrigita.

Sì. Vicino all’abete. Colpito al ventre.

Dobbiamo andare a prenderlo?

Sì. Vicino all’abete. Sì, certo. Bisogna raccoglierlo. Vicino all’abete.

La dozzina di facce ingrigite sparì. Il capitano sedette vicino alla stufa di

ferro e iniziò a spidocchiarsi.

Come ieri, preciso. Ieri sera si sentiva veramente in forma. Uno doveva

andare al battaglione. Miglior cosa, il capitano, cioè lui stesso. Mentre

s’infilava la camicia, sentì. Si sparava. Non si era mai sparato così. E

quando il portaordini aprì la porta, il capitano vide la notte. Valutò che

non c’era mai stata una notte tanto nera. Il sottufficiale Heller cantava.

Poi continuò a raccontare di quelle sue donne senza smettere un minuto.

Infine questo Heller, con il suo solito spirito, aveva detto: signor 

capitano, io al battaglione non ci andrei. Prima di tutto farei domanda di

doppia razione. Ci si può suonare lo xilofono, sulle nostre costole. E’ una

 vera pena, il vostro aspetto. Così aveva detto Heller. E nel buio forse

tutti avevano sogghignato. E uno doveva andare al battaglione. Il

capitano aveva detto: su, Heller, cercate di smorzare un po’ le vostre

solite spiritosaggini. Ed Heller disse: signorsi. E fu tutto. Di più non si

dissero. Solo: signorsi. Quindi Heller era andato. E poi non era tornato.

Il capitano si tirò la camicia sulla testa. Sentì che fuori gli altri

tornavano indietro. Con Heller. Non mi dirà mai più “ecco il fratello viso

pallido con la palpebra mezza chiusa”, mormorò il capitano. Non

l’avrebbe più detto, d’ora in avanti.

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Un pidocchio gli capitò sotto l’unghia del pollice. Scricchiolò. Il

pidocchio era morto. Sulla fronte il capitano aveva una piccola goccia di

sangue.

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La lunga strada.

Sinistr’,due tre quattro, avanti Fischer! Sinistr’,due, avanti, Fischer!

 Veloce, Fischer! Tre quattro, respira profondo, Fischer! Avanti, Fischer,sempre avanti, forza, due tre quattro, lesta va la fanteria, forza, in alto i

cuori! Lesta va la fanteria...

Sono ancora in cammino. Due volte sono già caduto in terra. Voglio

prendere il tram. Devo. Due volte sono già caduto in terra. Ho fame. Ma

devo prendere il tram. Devo. Due volte sono già caduto in terra... Tre

quattro, sinistr’, due tre quattro, ma io devo, tre quattro, forza, tre

quattro, evviva la fanteria ...

Cinquantasette ne han sepolti a Woronesch <o Voronesch: città russa

situata a sud rispetto a Mosca, da cui dista più che non dal confine

dell'Ucraina, a ovest>. Cinquantasette che non avevano assolutamente

previsto di morire, nemmeno lì per lì. Hanno pure cantato, prima. Forza,

forza, in alto i cuori! E uno ha scritto a casa: dopo ci compriamo un

grammofono. Ma da quattromila metri lontano gli altri hanno ordinato

di premere un pulsante. C’era un fracasso come se un camion carico di

barili vuoti passasse su un acciottolato: il rumore dei cannoni. Dopo ne

han sepolti cinquantasette a Woronesch. Prima avevano cantato. Poi più

detto nulla. Nove meccanici, due giardinieri, cinque impiegati, sei

commessi, un parrucchiere, diciassette contadini, due maestri, un

pastore, sei operai, un musicista, sette liceali. Sette liceali. Sepolti a

 Woronesch. Senza averlo previsto. Cinquantasette. Me mi hanno

dimenticato. Non ero ancora proprio morto. In alto i cuori! Ero ancora

quasi vivo. Ma gli altri sono sepolti a Woronesch. Cinquantasette.

Mettici anche uno zero. Cinquecentosettanta. Ancora uno zero e ancora

uno. Cinquantasettemila. E ancora, ancora. Cinquantasette milioni.

Sepolti a Woronesch. Non l’avevano previsto assolutamente. Mica lo

 volevano, non l’avevano voluto affatto. E prima avevano cantato una

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 volta di più. In alto i cuori! Poi più detto nulla. E quello non aveva

comprato il grammofono. L’han sepolto a Woronesch e con lui gli altri

cinquantasei. Cinquantasette pezzi. Solo io, io, non ero ancora

 veramente morto. Devo andare a prendere il tram, la strada è grigia. Mail tram è giallo. Giallo, una chicca. Devo andare a prendere il tram. Solo

che la strada è tanto grigia. Due volte sono già caduto per terra, forza,

avanti, Fischer! Veloce, Fischer! Sinistr’,due, a passi distesi, tre quattro.

Forza, in alto i cuori! Lesta va la fanteria. Sinistr’, due tre quattro,

invece impera la fame, la miserabile fame, sempre, sinistr’, due tre

quattro...

 

Se almeno non ci fossero le notti. Se almeno non ci fossero le notti. Ogni

rumore è una bestia. Ogni ombra è un uomo nero. Mai cala la paura che

danno gli uomini neri. Tutta la notte i cannoni tuonano sul cuscino: è il

battito del polso. Non avresti dovuto lasciarmi mai solo, madre. Ora non

ci ritroviamo. Mai più. Mai avresti dovuto farlo. Tu hai conosciuto

certamente le notti. Hai certamente saputo delle notti. Eppure mi hai

chiamato fuori da te. Da te e in mezzo a questo mondo con queste notti,

mi hai chiamato. E da allora ogni rumore è una bestia nella notte. E

nell’angolo scuro gli uomini neri fanno paura. Madre, madre! Gli uomini

neri sono dappertutto. E ogni rumore è una bestia. Ogni rumore è una

bestia. E il cuscino è così torrido. I cannoni tuonano sul cuscino per 

tutta la notte. E i cinquantasette sono sepolti a Woronesch. E l’orologio

incespica come una vecchia in ciabatte, avanti avanti. Incespica,

incespica, e nessuno lo ferma. E le pareti s’avvicinano sempre di più. E la

coperta si fa sempre più spessa. E il suolo, il suolo ondeggia, è un’onda,

il mondo. Madre, madre! Perché mi hai lasciato solo, perché? Ondeggia,

il suolo, ondeggia il mondo. Cinquantasette. Brum! E voglio andare fino

al tram. I cannoni rombano. Il terreno ondeggia. Brum. Cinquantasette.

E io sono ancora quasi vivo. E voglio andare fino al tram. Che è giallo

nella strada grigia. Una chicca, giallo nel grigio. Ma non ci arrivo. Due

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 volte sono già caduto in terra. E ho fame. E il suolo ondeggia. Ondeggia

talmente, giallo, una chicca, ondeggia il mondo. Ondeggia il mondo,

dalla fame che ho. Mondondeggia, mondo fame giallo tram.

Ora uno m’ha detto: buongiorno signor Fischer. Sono io, il signor 

Fischer? Posso essere il signor Fischer, semplicemente di nuovo il signor 

Fischer? Dopotutto ero il capitano Fischer. Posso essere ora di nuovo il

signor Fischer? Posso essere il signor Fischer? Buongiorno, ha detto

quello. Ma non sa che ero il capitano Fischer. M’ha augurato un

buongiorno – per il capitano Fischer non c’è più buongiorno. Lui non l’ha

augurato a me.

E il signor Fischer va per la strada. Per la lunga strada. Che è grigia.

 Vuole andare fino al tram. Che è giallo. Una chicca, così giallo. Sinistr’,

due , signor Fischer. Sinistr’, due tre quattro. Il signor Fischer ha fame.

Non smette più di camminare. Vuole sempre il tram, che è così giallo,

nel grigio è una chicca. Due volte è caduto, il signor Fischer. Ma il

capitano Fischer comanda: sinistr’, due tre quattro, avanti signor 

Fischer! Svelto signor Fischer! Deciso, signor Fischer! Comanda il

capitano Fischer. E il signor Fischer marcia per la strada grigia, la grigia

lunga strada. La Muelleimerallee, l’Aschkastenspalier, il Rinnsteinglacis,

gli Champs Ruinés, la Muttschuttschlagindutt Broadway, la

Truemmerparade. E il capitano Fischer comanda. Sinistr’,due

sinistr’,due. E il signor Fischer, il signor Fischer marcia, sinistr’, due

sinistr’, due avanti avanti avanti...

La fanciulla ha le gambe sottili come dita. Come dita d’inverno. Sottili

livide e arrossate, tanto sottili. Sinistr’, due tre quattro, fanno le sue

gambe. La fanciulla continua a dire, e il signor Fischer le cammina

accanto, continua a dire: buon Dio, dammi un po’ di minestra. Buon Dio,

dammi un po’ di minestra. Solo un cucchiaio. Un cucchiaio. Soltanto. La

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mamma ha i capelli senza vita. Tutti senza vita da parecchio tempo. La

mamma dice: il buon Dio non può darti un po’ di minestra, non può, no.

Perché il buon Dio non può assolutamente darmene, di minestra? Non

ne ha nemmeno un cucchiaio. Non ce l’ha. La fanciulla cammina, gambesottili come dita, sottili livide gambe d’inverno, accanto a lei sua madre.

E accanto a loro il signor Fischer. I capelli della madre sono senza più

 vita. Sono diventati completamente estranei. E la fanciulla danza

tutt’intorno, e sua madre intorno al signor Fischer, vicino. Dio non ha

proprio un cucchiaio di minestra. Proprio nessuno. Nessun cucchiaio,

nemmeno uno, niente. E dunque danza la fanciulla intorno. E il signor 

Fischer cammina dietro. Mentre ondeggia tutt’intorno il mondo.

Mondondeggia. Ma il capitano Fischer comanda: sinistr’, due, alé,

avanti, deciso, signor Fischer, sinistr’, due, mentre la fanciulla canta:

Egli non ha veramente nessun cucchiaio di minestra. E due volte il

signor Fischer è caduto. Caduto per la fame. Egli non ha proprio nessun

cucchiaio di minestra. E l’altro comanda: in alto i cuori! Evviva la

fanteria, la fanteria, la fanteria...

Cinquantasette ne han sepolti a Woronesch. Io sono il capitano Fischer.

M’hanno dimenticato. Non ero ancora veramente morto. Due volte sono

caduto in terra. Sono ancora il signor Fischer. Ho venticinque anni.

 Venticinque moltiplicato cinquantasette. E li han sepolti a Woronesch.

Soltanto io, sono ancora in cammino. Devo ancora andare a prendere il

tram. Ho fame. Ma il buon Dio non ha proprio un cucchiaio di minestra.

Ho venticinque moltiplicato cinquantasette anni. Mio padre m’ha tradito

e mia madre m’ha espulso da sé. M’hanno gridato contro e stop. In un

modo tremendo e stop. Abbandonato. Ora cammino per la lunga strada.

Che ondeggia come ondeggia il mondo. Ma uno suona il pianoforte.

Quando mio padre vide mia madre – uno suonava il pianoforte. Quando

sono nato – uno suonava il pianoforte. Per la festa in memoria degli eroi,

a scuola – uno suonava il pianoforte. Quando, venuta la guerra, ci siamo

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permessi di diventare eroi – uno suonava il pianoforte. All’ospedale – uno

suonava il pianoforte. Quando la guerra è finita – uno suonava ancora e

sempre il pianoforte. Sempre ne suona uno. Sempre suona un

pianoforte. Lungo tutta la lunga strada.

La locomotiva fischia. Tim dice:piange. Quando si guarda in alto,

tremano le stelle. Di continuo fischia la locomotiva. Ma secondo Tim

piange. Di continuo. Tutta la notte. Per tutta la notte, questo è certo.

Piange, è dentro lo stomaco che lo fa, quando piange così, secondo Tim.

Piange come fanno i bambini, dice. Avevamo un vagone carico di

legname. Profumava come la foresta. Niente tetto, nel nostro vagone. Le

stelle tremano, quando si guarda in alto. Fischia ancora. Hai sentito,

dice Tim, piange di nuovo. Io non capisco perché piange. Ecco cosa dice

Tim. Come dei bambini, dice. Tim dichiara: non avrei dovuto spintonare

il vecchio giù dal vagone. Io non ho spintonato il vecchio giù dal vagone.

Tu non lo avresti permesso, dice Tim. Io non l’ho fatto. Piange, hai

sentito come piange, dice Tim, tu non avresti permesso di farlo. Io non

ho spintonato il vecchio giù dal vagone. Non piange. Fischia. Le

locomotive fischiano. Piange, secondo Tim. E’ caduto da solo giù dal

 vagone. Tutto da sé, il vecchio. Dormiva, dormiva, te lo dico io. E’ caduto

da sé, dal vagone. Tu non avresti permesso che si facesse una cosa del

genere. La locomotiva piange. Tutta la notte, di sicuro. Tim dice: non è

permesso che un vecchio sia spintonato giù dal vagone. Non l’ho fatto.

Dormiva. Tu non avresti permesso una cosa così, dice Tim. Dice che in

Russia una volta ha dato un calcio nel sedere a un vecchio. Perché era

lentissimo. E prendeva solo pochi pezzi alla volta. Loro si erano spinti

 vicino alle munizioni. Aveva dato dunque un calcio nel sedere al vecchio.

Il vecchio s’era messo lì. Piano piano, dice Tim, e l’aveva guardato con

un’aria tristissima. Tutto qui. Ma aveva un’espressione che assomigliava

a mio padre, dice Tim. Esattamente come suo padre, questo dice Tim. La

locomotiva fischia. Qualche volte si sente come se urlasse. Tim

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addirittura crede che pianga. Forse ha ragione. Ma io non ho spintonato

il vecchio giù dal vagone. Dormiva. Cioè, è caduto da solo.

Effettivamente dava gran scosse, il treno in movimento. Quando si

guarda in alto, tremano le stelle. Il vagone ondeggia come ondeggia ilmondo. La locomotiva fischia, piange, fischia. E le stelle tremano.

Perché è il mondo, che ondeggia.

Ma io sono sempre in cammino. Due, tre, quattro. Verso il tram. Due

 volte sono caduto. Il suolo ondeggia come ondeggia il mondo. Dalla fame

che ho. Ma io sono in cammino. Sono da così tanto tempo in cammino

per la strada tanto lunga. La strada.

Il ragazzino stende la mano. Io gli lascio prendere i chiodi.

Il fabbro conta i chiodi. Per tre, signore? Chiede. Papà ha detto per tre,

signore.

I chiodi gli finiscono in mano. Il fabbro ha dita spesse e larghe. E molto

sottili, il ragazzino, che si piegano sotto il peso dei grossi chiodi.

E’ lui, quello che dice d’essere figlio di Dio?

Il ragazzino annuisce.

Continua ancora a dire d’essere figlio di Dio?

Il ragazzino annuisce. Il fabbro prende in mano altri chiodi. Poi li lascia

cadere nelle mani del ragazzino. Le piccole mani si piegano ancora. Poi

dice il fabbro: eh già.

Il ragazzino si allontana. I chiodi sono belli lucidi. Il ragazzino corre.

Così i chiodi fanno rumore. Il fabbro prende il martello. Eh già, dice.

Quindi il ragazzino sente alle sue spalle: pink pank pink pank. Martella

ancora, pensa il ragazzino. Fabbrica chiodi, lucidissimi chiodi. Perché ne

han sepolti cinquantasette a Woronesch. Io sopravvivo. Ma ho fame.

L’Impero, il mio, fa parte di questo mondo. E il fabbro ha fabbricato i

suoi chiodi inutilmente, evviva la fanteria, inutilmente, i lucidi bei

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chiodi. Perché ne han sepolti cinquantasette a Woronesch. Pink pank, fa

il fabbro .Woronesch, pink pank. Pink pank moltiplicato per 

cinquantasette. Pink pank fa il fabbro. Pink pank fa la fanteria. Pink 

pank fanno i cannoni. E uno suona il pianoforte di continuo pink pank pink pank...

Ogni notte cinquantasette arrivano in Germania. Nove meccanici, due

giardinieri, cinque impiegati, sei commessi, un parrucchiere, diciassette

contadini, due insegnanti, un pastore, sei operai, un musicista, sette

studenti. Cinquantasette vengono ogni notte intorno al mio letto, e

chiedono ogni notte: dov’è la tua compagnia? Woronesch, rispondo io.

Sepolta, rispondo. Sepolta, Woronesch. E uno per uno i cinquantasette

domandano: perché? E io per cinquantasette volte resto muto.

Cinquantasette vanno di notte dal padre. Cinquantasette e il capitano

Fischer. Io sono il capitano Fischer. Cinquantasette domandano al

padre: perché? E lui resta per cinquantasette volte muto. Gela nella sua

camicia da notte. Ma viene con noi.

Cinquantasette vanno di notte dal capo dell’amministrazione locale.

Cinquantasette, il padre e io. Cinquantasette gli domandano: perché? E

lui resta per cinquantasette volte muto. Gela nella sua camicia da notte.

Ma viene con noi.

Cinquantasette vanno di notte dal prete. Cinquantasette, il padre, il capo

dell’amministrazione locale e io. Cinquantasette gli domandano: perché?

E lui resta per cinquantasette volte muto. Gela nella sua camicia da

notte. Ma viene con noi.

Cinquantasette vanno di notte dal maestro di scuola. Cinquantasette, il

padre, il capo dell’amministrazione locale, il prete e io. Cinquantasette

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gli domandano: perché? E lui resta per cinquantasette volte muto. Gela

nella sua camicia da notte. Ma viene con noi.

Cinquantasette vanno di notte dal generale. Cinquantasette, il padre, ilcapo dell’amministrazione locale, il prete, il maestro di scuola e io.

Cinquantasette gli domandano: perché? E il generale, be’, il generale

non si volta neanche una volta verso di noi. Allora il padre lo fa fuori. E il

prete? Il prete resta muto.

Cinquantasette vanno di notte dal ministro. Cinquantasette, il padre, il

capo dell’amministrazione locale, il prete, il maestro di scuola e io.

Cinquantasette gli domandano:perché? Il ministro s’è preso paura e si

nasconde dietro una cesta di spumante. Da lì dietro alza il calice e

brinda in direzione sud, nord, ovest ed est. E poi risponde: per la

Germania, camerati, per la Germania, ecco perché. E i cinquantasette si

guardano tra loro. Muti. A lungo, muti. E guardano in direzione sud,

nord, ovest ed est. Infine domandano:per la Germania, per questo? E non

si guardano più tra loro. Cinquantasette giacciono di nuovo a Woronesch

nelle loro fosse. Hanno vecchie misere facce da donna, da madre. E

dicono per sempre: per questo? Per questo?

Cinquantasette ne han sepolti a Woronesch. Io sopravvivo. Sono il

capitano Fischer. Ho venticinque anni. Voglio andare fino al tram. Voglio

andare in tram. Sono in cammino da moltissimo tempo. Solo che ho

fame. Ma devo. Cinquantasette sepolti: perché? E sono sopravvissuto.

Sto marciando lungo la strada, lunga e poi ancora lunga. In cammino.

Un uomo. Il signor Fischer. Sono io. Ma il capitano si ferma dall’altra

parte e comanda: sinistr’, due tre quattro, sinistr’, due tre quattro, forza,

in alto i cuori! Due tre quattro, sinistr’, due tre quattro, la fanteria, la

fanteria, pink pank pink pank, tre quattro, pink pank pink pank, tre

quattro, pink pank, tre quattro lungo la lunga strada, pink pank sempre

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lunga, sempre, per questo sono sepolti, Woronesch, per questo, pink 

pank, lungo la lunga strada. Un essere umano. Venticinque anni. Io! La

strada. La lunga. Io. Casa casa casa, muro muro, latteria, giardinetto,

odore di vacca, porta d’ingresso.

Dentista

Il sabato solo su appuntamento

Hilde Bauer è una scema

Il capitano Fischer è muto. Cinquantasette domandano perché. Muro

muro muro, porta, finestra, vetro vetro vetro, lampione, vecchia signora,

occhi rossi, profumo di patate al forno, casa casa, lezione di piano, pink 

pank lungo l’intera strada, i chiodi sono talmente lucidi, i cannoni sono

talmente lunghi, pink pank lungo tutta la strada, bambino bambino,

cane, palla, automobile, macadàm, testa, pink pank, pietra pietra, grigio

grigio, violaceo, macchia di benzina, grigio grigio lungo la lunga strada,

pietra pietra, grigio, blu scolorito, scolorito, talmente grigio, muro

muro, smalto

Difetti della vista guariti ben

Secondo piano - Ottico Terboben

Muro muro muro, pietra, cane cane, bau bau, alza la zampa, albero,

anima, sogno di cane, automobile, suona la tromba, altro cane che

scorreggia nonostante il clackson, selciato, cane rosso, morto, cane

morto, muro muro muro, lungo la lunga strada, finestra, muro, finestra,

muro, finestra finestra, lampada, gente, luce, persone, sempre di nuovo

persone, lustre facce come chiodi, talmente lustre, delle chicche...

Cent’anni fa giocavano a skat. Già giocavano. E ora continuano a

giocare. Sempre a skat. I tre uomini dalle lustre facce per bene.

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<battute intraducibili tra i tre giocatori di skat>

Quando battono sul tavolo il pugno, c’è un tuono. Come una cannonata.Come cinquantasette cannoni.

Ma la finestra più oltre una madre siede con tre foto vicine a lei. Tre

uomini in divisa. A sinistra il marito. A destra il figlio. E in mezzo il

generale. Il generale da cui dipendono il marito e il figlio della donna. E

quando a sera la madre va a letto, dispone le foto per vederle da distesa.

Il figlio, il marito, e il generale. Quindi legge le lettere che il generale

scrisse.1917. Per la Germania – recita la prima. Per la Germania – recita

la seconda. Non legge oltre, la madre. Ha gli occhi tutti rossi. Talmente

rossi.

Ma sopravvivo. In alto i cuori! Per la Germania. Sono sempre in

cammino. Verso il tram. Due volte sono caduto per terra. Per la fame. In

alto i cuori! Ma devo andare avanti. Il capitano comanda. Sono già in

cammino. Da molto tempo.

Là in un angolo scuro sta un uomo. Nell’angolo buio ci sono sempre

uomini. Uomini scuri. Là uno spinge avanti una scatola e un cappello.

Piramidone!, latra l’uomo. Piramidone!, sono venti compresse.

Sogghigna, quando l’affare va in porto. E l’affare va. Cinquantasette

donne, donne dagli occhi rossi, che comprano il piramidone. La scatola

si svuota. E il cappello si riempie. E l’uomo sogghigna. Ne ha motivo. Lui

non le vede, le 57 donne dagli occhi rossi.

Ma io sopravvivo. Sono già in cammino. E la strada è lunga. Così

orribilmente lunga. Ma io voglio andare al tram. Sono sempre in

cammino. Lungo cammino.

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In una stanza siede un uomo. L’uomo scrive a inchiostro sulla carta

bianca. E recita, verso la stanza vuota:

Sopra il terreno bruno

S’agita verde un’erba.

Un fiore azzurro

Umido di mattino.

Lo scrive sulla carta bianca. Lo legge alla stanza vuota. Cancella tutto

con l’inchiostro. E recita, verso la stanza:

Sopra il terreno bruno

S’agita verde un’erba.

Un fiore azzurro

Ogni rancore scioglie.

Questo scrive l’uomo. Lo legge alla stanza vuota. Cancella tutto con

l’inchiostro. Quindi recita, verso la stanza:

Sopra il terreno bruno

S’agita verde un’erba.

Un fiore azzurro

Un fiore azzurro

 Azzurro

L’uomo si alza. Cammina intorno al tavolo. Continua a camminare

intorno al tavolo. Rimane in piedi:

 Azzurro

 Azzurro

Sopra il terreno bruno

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L’uomo continua a camminare intorno al tavolo.

Cinquantasette ne han sepolti a Woronesch. Ma la terra era grigia e

sembrava di pietra, no s’agitava alcuna erba verde chiara. C’era la neve,

come di vetro, e niente fiori azzurri. Neve, milioni di volte neve, e nessun

fiore azzurro. Ma l’uomo nella stanza non lo sa, lo ignora del tutto.

Continua a vedere il fiore azzurro, soprattutto il fiore azzurro. Eppure ne

han sepolti cinquantasette a Woronesch, sotto la neve vitrea. Nella

sabbia grigia come cenere. Senza verde e senz’azzurro. Sabbia gelata e

grigia. E la neve era come di vetro. La neve non scioglie alcun rancore.

Perché a Woronesch ne han sepolti cinquantasette. Cinquantasette.

E non è ancora nulla, davvero, fa il caporalmaggiore armato di

stampella. L’appoggia sopra la punta del suo unico piede e prende la

mira. Stringe un occhio e prende la mira dalla punta del piede. Non è

ancora nulla, dice. Ne abbiamo sistemati ottantasei in una notte sola, di

Ivan. Ottantasei Ivan con un mitra, caro mio, con un fucile mitragliatore

solo. Li abbiamo contati la mattina dopo. Erano ammonticchiati,

ottantasei Ivan. Uno aveva la bocca ancora aperta, molti anche gli occhi,

già, molti avevano ancora gli occhi aperti. In una notte sola, caro mio. Il

caporalmaggiore prende di mira con la stampella una vecchia signora

che siede sulla panchina di fronte. Prende di mira una vecchia signora e

ne colpisce ottantasei, di vecchie signore. In Russia, tuttavia. Lui non lo

sa, ma va bene, che non lo sappia. Cosa dovrebbe fare? Ormai è calata la

sera.

Io soltanto, lo so. Io, il capitano Fischer. Cinquantasette ne han sepolti a

 Woronesch, ma io non ero morto del tutto, e sono ancora in cammino.

Due volte sono già caduto in terra, per la fame. Perché il buon Dio non

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ha un cucchiaio di minestra. Ma lo stesso voglio arrivare fino al tram. Se

soltanto la strada non fosse così piena di madri! Cinquantasette, ne han

sepolti a Woronesch, e il caporalmaggiore ha contato ottantasei Ivan, la

mattina dopo. E con la stampella ha sparato a morte su ottantasei madri.Ma questo lui non lo sa, va bene. Eppure dovrebbe saperlo. E il buon Dio

non ha un cucchiaio di minestra. Van bene, i poeti che fan sbocciare fiori

azzurri, va bene quando qualcuno continua a suonare il piano, va bene,

se si gioca a skat. E la vecchia signora con le tre foto sul letto, il

caporalmaggiore con la stampella, e gli ottantasei Ivan morti, la madre

della fanciulla che chiede una minestra, e Tim, che ha spintonato il

 vecchio sul vagone? E loro?

Eppur devo andare lungo la lunga strada. Muro muro porta lampione

muro muro finestra muro muro e manifesti colorati a stampa.

Siete correttamente assicurati?

Offrite un felice Natale a voi e alla vostra famiglia,

stipulate un contratto

presso

Urania – Assicurazioni ramo vita.

In cinquantasette non hanno assicurato la loro vita correttamente, e

nemmeno gli ottantasei Ivan morti hanno offerto un felice Natale alle

loro famiglie. Gli hanno offerto occhi rossi di pianto, nient’altro. Perché

non erano assicurati con l’Urania? E io sono coinvolto da occhi rossi di

pianto e di singhiozzi, occhi di madre, di donna. Perché non si sono

assicurati, i cinquantasette? Nessuna assicurazione, hanno stipulato, per 

le loro famiglie. Solo occhi rossi, e ciò nonostante migliaia di manifesti

colorati Urania, Urania, Urania...

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Evelyn canta al sole, il sole su di lei. Traspare tutto, da sotto il vestito, le

gambe e il resto. Canta con voce nasale e rauca, canta appena un

pochino. Stanotte è rimasta a lungo sotto la pioggia, e cantando lei mi

eccita tantissimo, sto ad occhi chiusi. E quando li riapro vedo le gambee, sopra, il resto. Evelyn canta, e agli occhi mi si confonde tutto. Canta il

dolce disfarsi del mondo. Canta la notte e l’acquavite infida e bruciante,

sospiro del mondo ferito in pieno. Canta la fine, la fine del mondo

dolcemente in mezzo alle sue gambe nude e scarne di fanciulla:

celestiale caldissimo disfarsi del mondo. Ecco, Evelyn canta come erba

umida, tanto greve di odori e di voluttà, tanto verde. Verde scuro, verde

bottiglia, sulla panchina dove stasera le sue ginocchia spuntano pallide

come la luna dall’abito, e mi eccitano tantissimo.

Canta, Evelyn, cantami morto, canta il dolce disfarsi del mondo, canta

una bruciante acquavite, un fumo verde prato. Evelyn stringe la mia

mano fredda come erba tra le sue ginocchia pallide come luna, e mi

eccita tantissimo.

Evelyn canta, viene maggio e prospera, l’amato maggio, canta e mi tiene

la mano fredda d’erba tra le ginocchia. Viene l’amato maggio e colora di

 verde le fosse. Questo, canta Evelyn. Viene l’amato maggio e colora di

 verde i campi di battaglia, tu colora le macerie e l’immensità delle

rovine, falle verdi come il mio canto, il mio canto del disfarsi dolce

d’acquavite. Evelyn canta sulla panchina una canzone torrida e febbrile,

e mi gela. Viene l’amato maggio e di nuovo gli occhi si fanno lucidi,

canta Evelyn, e mi tiene la mano tra le ginocchia. Canta, Evelyn, cantami

sotto l’erba verde bottiglia, dov’ero sabbia, argilla, terra. Canta, Evelyn,

canta per me di macerie e di campi di battaglia e di fosse comuni, da

dentro il tuo dolce torrido segreto di fanciulla, sbornia lunare. Canta,

quando marciano le mille compagnie nella notte, canta, quando i mille

cannoni arano e concimano i campi con il sangue. Canta, quando dalle

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pareti si staccano i quadri e gli orologi, cantami l’ebbrezza verde grappa

nel tuo dolce disfarsi del mondo. Cantami, da dentro la tua vita di

fanciulla, della tua segreta notturna emozione, è così dolce da eccitarmi,

da ridarmi ancora l’ardore della vita. Viene l’amato maggio e coloral’erba di verde, verde bottiglia, verde Evelyn, canta!

Ma c’è una fanciulla che non canta, perché ha la pancia tonda. Troppo

tonda. Tutta la notte sulla banchina della stazione, deve stare, perché

uno dei cinquantasette non era assicurato. Conta i vagoni tutta la notte.

Una locomotiva ha diciotto ruote, un vagone passeggeri otto, un merci

quattro, e la ragazza con la pancia tonda conta vagoni e ruote – ruote

ruote ruote – settantotto, dice una volta, che bello! Sessantadue forse

non basta: allora centodieci sono sufficienti. Si lascia cadere davanti al

treno, una locomotiva, sei vagoni viaggiatori e cinque merci, che fanno

ottantasei ruote. Bastano, e la fanciulla con la pancia tonda non c’è più,

mentre il treno è passato con le sue ottantasei ruote. Non c’è più, tutto

qui. Neanche un po’, c’è più, neanche meno di un po’. Senza fiori

azzurri, senza qualcuno che suoni il piano, senza qualcuno che giochi a

skat con lei. E niente minestra dal buon Dio. In compenso sotto la

banchina passano molte belle ruote. Dove altro avrebbe dovuto andare,

lei? Cos’altro avrebbe dovuto fare, se il buon Dio non ha neanche un

cucchiaio di minestra? Ora non le resta niente, niente.

Soltanto io. Sono in cammino, lunghissimo cammino. La strada è lunga,

cammino e non sento la fame. Lunga fame, lunga strada, lungo

cammino.

 A tratti smettono di gridare, a sinistra dal campo di calcio, a destra dal

grande edificio. Smettono a tratti di gridare. La mia strada passa nel

mezzo, io sono il capitano Fischer, venticinque anni, ho fame, vengo

direttamente da Woronesch, sono in cammino da molto tempo. Sinistra,

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campo di calcio, destra, grande edificio. Dentro mille, duemila, tremila.

Tutti in silenzio. Davanti fanno musica e alcuni cantano. I tremila non

dicono una parola. Tutti belli puliti, capelli in ordine, camicia di bucato.

Sono dentro la grande casa <chiesa> e si abbandonano allacommozione, o si lasciano edificare, o intrattenere. Distinguere non si

può. Belli ripuliti si fan commuovere, ma ignorano la mia fame, non lo

sanno che ho fame. E che sono qui appoggiato al muro, io, quello che

 viene da Woronesch, in cammino sulla lunga strada, affamato da lungo

tempo, che sto appoggiato al muro perché dalla fame non ne posso più.

Ma loro non possono saperne niente. Il muro, grosso e stupido, ci

separa, e io ci sto dietro mentre le ginocchia mi tremano, e loro sono

dall’altra parte belli puliti di bucato e si fan commuovere domenica dopo

domenica. Si lasciano rovistare dentro l’anima per dieci marchi,

rivoltare lo stomaco, addormentare i nervi. Dieci marchi, che sono tanti

da far paura, per la mia pancia. Ecco perché sta scritta la parola

PASSIONE, sul foglio che loro ricevono in cambio di dieci marchi.

PASSIONE DI MATTEO. Tuttavia, quando il gran coro canta BARABBA,

urla BARABBA, assetato di sangue, ubriaco di sangue, loro non cadono

mica dai banchi, le migliaia in camicia di bucato. No, e non piangono

neanche, e neanche pregano, e le loro facce, le loro anime vere non sono

 visibili affatto, quando il gran coro urla BARABBA. Sui biglietti c’è

scritto PASSIONE DI MATTEO, dieci marchi. Ci si siede proprio davanti

alla passione, dove la passione vien sofferta a voce alta, o anche un po’

dietro, dove vien sofferta più piano, smorzata. Ma è lo stesso. Le loro

facce vere non si vedono, quando il gran coro urla BARABBA. Tutti

restano belli calmi, davanti della passione. Non un capello fuori posto,

per l'angoscia, per la pena. Echeggiano per dieci marchi, l'angoscia e la

pena, cantate e sviolinate là davanti. E chi urla BARABBA, finge,

dopotutto viene pagato per urlare. E il gran coro urla BARABBA. Madre!,

grida il capitano Fischer lungo la strada senza fine. Sono io, il capitano

Fischer. BARABBA!, urla il gran coro dei ben ripuliti. FAME!, abbaia la

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pancia del capitano Fischer. Che sono io. RETE!, urlano le migliaia dal

campo di calcio. BARABBA!, urlano da sinistra. RETE!, urlano da destra.

 Woronesch!, urlo io nel mezzo. Ma le migliaia mi urlano contro.

BARABBA!, da destra. RETE!, da sinistra. A destra recitano la passione,a sinistra il calcio. E io nel mezzo, il capitano Fischer, venticinque anni,

giovane, vecchio di cinquantasette milioni di anni, anni Woronesch, anni

madre, anni strada. Da destra BARABBA!, da sinistra RETE!, e nel mezzo

io, senza madre, sull’onda del rotondeggiante, solo senza madre.

 Venticinque anni. Sono quello che sa dei cinquantasette che han sepolto

a Woronesch, ignari, che non volevano, io li conosco, giorno e notte.

Come gli ottantasei Ivan che giacevano di mattina mitragliati, a bocca e

occhi aperti. So della fanciulla senza minestra, so del caporalmaggiore e

della sua stampella. BARABBA!, si urlano a vicenda nelle orecchie ben

lavate laggiù a destra, dieci marchi. E so della vecchia signora con le tre

foto sul letto, e della fanciulla con la pancia tonda, che si buttò davanti

al treno in arrivo. RETE!, urlano da sinistra, cento volte rete! E so di

Tim, insonne perché ha spintonato il vecchio, so delle cinquantasette

signore con gli occhi rossi che comprano dal cieco il Piramidone, due

marchi alla scatoletta. Il biglietto costa passione, passione a dieci

marchi, là a destra. Incontro valevole per la Coppa, sta scritto sui

biglietti, quattro marchi, azzurri, azzurri come fiori, là a sinistra.

BARABBA!, urlano da sinistra, e il cieco seguita a latrare: Piramidone!

Io nel mezzo, solo, solo senza madre sul mondondeggiante, solo con la

fame che mi latra dentro. E so dei cinquantasette, sono il capitano

Fischer. Quelli urlano RETE e BARABBA in coro. Solo io sono

sopravvissuto, orribilmente, ma va bene che quelli là, i ben ripuliti, non

sappiano dei cinquantasette di Woronesch. Come farebbero altrimenti a

resistere davanti alla Passione, davanti alla partita di coppa? Solo io

ancora sono in cammino, da Woronesch a qui, affamato, in cammino da

lungo tempo. Perché sono sopravvissuto, gli altri sepolti a Woronesch, a

me mi hanno mancato: perché solo con me non ci hanno preso? Ora

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davanti ho soltanto il muro, che mi regge. Devo andare lungo il muro.

Rete!, urlano qua dietro. Lungo la lunga strada, e già non ce la faccio

più, ma proprio più, con davanti il muro e basta, perché mia madre non

c’è. Ci sono soltanto i cinquantasette, le cinquantasette milioni di madricon gli occhi rossi, che orrendamente mi sono dietro. Lungo la strada.

Ma il capitano Fischer ordina: sinistr’, due tre quattro, sinistr’, due tre

quattro, forza, Barabba, il fiore azzurro è talmente umido di pianto e

sangue, dai, dai, in alto i cuori, seppelliam la fanteria, sotto il campo di

calcio, sotto il campo di calcio.

Già sono esausto, ma il vecchio con l’organino fa una musica che

rincuora, lieta vi sia la vita, canta lungo la strada, lieta per voi di

 Woronesch, in alto i cuori, tanto lieta vi sia, fino a che il fiore azzurro

sanguina, lieta vi sia la vita fino a che il suono dura...

Canta fesso come una bara piena, il vecchio dell’organino, lieta vi sia,

fino a che, canta talmente fesso, fino alla fossa, la verminosa, la terrosa,

così fino a Woronesch, canta, lieta vi sia, fino a quando rimane accesa la

bugia, finché sanguinano le bende!

Sono il capitano Fischer! Urlo io. Sono sopravvissuto, sono in cammino

già da tempo lungo la strada, e cinquantasette ne han sepolti a

 Woronesch, io li conosco.

Lieta vi sia, canta quell’uomo.

Ho venticinque anni, urlo io.

Lieta vi sia, canta.

Ho fame, urlo.

Lieta vi sia, canta, e i suoi burattini dondolano, arlecchini semoventi - ha

un pugile che scuote i pugni lustri arlecchinati e grida: boxo!, mentre si

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muove da maestro. Ha un ciccione con sulle spalle un sacco lustro

arlecchinato zeppo di soldi. Governo!, grida il ciccione, mentre si muove

con maestria. Ha un generale dalla lustra uniforme arlecchinata.

Comando!, continua a gridare, comando, comando!, mentre si muove conmaestria. E ha un dottor Faust con il camice lustro arlecchinato, e

occhiali neri, che non grida, non urla, ma si muove, si muove

orrendamente.

Lieta vi sia, canta quell’uomo, e i suoi burattini dondolano

orrendamente. Hai dei burattini belli, gli faccio. Lieta vi sia, lui canta.

Ma cosa fa l’occhialuto in camice bianco?, gli domando: non grida, non

boxa, non governa, non comanda, cosa fa, lui che si muove così

orribilmente? Lieta vi sia - pensa, canta l’uomo con l’organino, pensa,

cerca e inventa. Cosa cerca, dunque, l’occhialuto, quando si muove così

orribilmente? Lieta vi sia – cerca di fabbricare una polvere, una polvere

 verde, verde speranza. Ma cosa si fa con la polvere verde, quando lui si

muove così orribilmente? Lieta vi sia, canta l’uomo, con un cucchiaio di

polvere verde speranza si può far morire perfino cento milioni di uomini,

quando il soffio è colmo di speranza. L’occhialuto inventa, inventa,

inventa. Lieta vi sia la vita lungamente, canta. Inventa!, urlo io. Lieta vi

sia la vita lungamente.

Sono il capitano Fischer, venticinque anni, ho rubato all’uomo con

l’organino il burattino in camice bianco, lieta vi sia la vita lungamente,

gli ho staccato la testa, lieta vi sia la vita, gli ho storto via le braccia,

all’occhialuto in camice bianco, al burattino della polvere verde, lieta vi

sia la vita, l’ho spezzato in due, l’inventore verde speranza, ora non

mescola più nessuna polvere, non scopre più nessuna polvere, l’ho

spezzettato in due.

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Perché hai rotto il mio bel burattino?, grida l’uomo, era così intelligente,

saggio, saggio da non credere, intelligente, inventivo, perché mi hai

rotto l’occhialuto?, domanda l’uomo con l’organino.

Ho venticinque anni, urlo, sono ancora sulla strada, ho fame, urlo, ecco

perché l’ho rotto. Noi abitiamo catapecchie fatte di legno e di speranza,

ma viviamo. Davanti ci crescono rape e rabarbaro, patate e tabacco. Noi

si ha paura!, urlo. Si vuole vivere!, urlo, nelle catapecchie fatte di legno

e di speranza, e patate e rabarbaro crescono ancora. Ho venticinque

anni, ecco perché ho spezzato il burattino in camice bianco, ecco perché,

ecco perché...

Lieta vi sia, canta l’uomo, lieta vi sia la vita lungamente, e tira fuori da

quella sua orrida grossa cesta un nuovo burattino occhialuto in camice

bianco, con un cucchiaio, sì, colmo di polvere verde speranza. Lieta vi

sia, canta, lieta vi sia la vita lungamente, ne ho ancora tanti, di uomini in

bianco, tanti da far paura. Ma si muovono in modo orribile, grido io, ho

 venticinque anni, abito in una catapecchia fatta di legno e di speranza, e

patate e tabacco che crescono ancora.

Lieta vi sia la vita lungamente, canta l’uomo.

Ma si muove in modo orribile, urlo io.

No, che non si muove, lui viene mosso, viene.

E chi lo muove, allora, chi lo muove?

Io, dice orribile l’uomo, io, io!

Ho paura, urlo, stringo il pugno e colpisco in faccia l’uomo con

l’organino. E invece no, non lo prendo, perché non mi riesce di trovargli

il muso orrendo. L’ha talmente alto sul collo, che non ci arrivo con il

pugno, e lui a ridere orrendo. Non ci arrivo, non ci arrivo, poi quel muso

s’allontana e ride, orrido ride.

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Per la strada una persona corre, ha paura, sua madre l’ha lasciata sola,

ora sta gridandole dietro. Perché, urlano i cinquantasette di Woronesch,

perché? La Germania, urla il ministro, BARABBA, urla il coro,Piramidone, urla il cieco, e gli altri urlano, rete! Cinquantasette volte

rete. E l’occhialuto in camice bianco si muove orribilmente, e inventa,

inventa, inventa, e la fanciulla non ha neanche un cucchiaio di minestra,

mentre l’occhialuto in camice bianco uno ne ha. Tocca la stessa fine a

cento milioni. Lieta vi sia la vita, canta l’uomo.

Una persona corre per la strada, lungo la lunga strada, ha paura, corre

per il mondo con la sua paura, per il mondondeggiante. Io sono quella

persona, venticinque anni, e sono in cammino da tanto e ancora e

sempre, voglio andare al tram, devo andare sul tram, tutti sono dietro di

me, orribilmente dietro di me.

Una persona corre per la strada con la sua paura, sono io, una persona

scappa via dalle grida, sono io, un uomo pensa patate e tabacco, sono io,

una persona salta sul tram, il buon giallo tram, sono io. Viaggio in tram,

il giallo buon tram, dove andiamo?, domando agli altri, al campo di

calcio, alla Passione di Matteo, alle catapecchie fatte di legno e di

speranza, con le patate e il tabacco? Dove andiamo?, domando agli altri.

Nessuno apre bocca, ma là siede una signora che in grembo tiene tre

foto, e tre uomini siedono vicini per il loro skat, e c’è anche l’uomo con

la stampella, e la fanciulla senza minestra e la fanciulla con la pancia

tonda. E uno disegna le facce sul vetro, e uno suona il piano, e

cinquantasette marciano accanto al tram. Forza, in alto i cuori, svelta

andò la fanteria, Woronesch, in alto i cuori. In testa il capitano Fischer,

che sono io, e mia madre dietro, cinquantasette milioni di volte dietro di

me. Dove andiamo?, chiedo al controllore, che mi dà un biglietto verde

speranza. MATTEO-PIRAMIDONE, vedo laggiù. Tutti dobbiamo pagare, e

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allunga la mano. Cinquantasette, signore!, gli grido. Ma dov’è che

andiamo, domando agli altri, lo dobbiamo ancora sapere, dove? Dice

Timm: ancora non sappiamo, lo sa quella troia, e tutti annuiscono, e

strepitano, lo sa quella troia. Intanto viaggiamo, tingeltangel,scampanella il tram, e nessuno sa per dove, ma tutti viaggiano, e il

controllore fa una faccia incomprensibile di vecchio controllore con

centomila rughe, indistinguibile, un controllore buono, un controllore

cattivo? Ma tutti lo pagano, e tutti viaggiano, mentre nessuno sa: cattivo

o buono?, e nessuno sa per dove. Tingeltangel, scampanella il tram, e

nessuno sa per dove, tutti vanno, e nessuno, nessuno, nessuno...

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