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Vol 1 Scritti Inediti (1890-1924) Pag 1-330

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COLLANA DI STUDI STURZIANI DIRETTA DA GABRIELE DE ROSA

3.

COMITATO DI REDAZIONE

GIUSEPPE ROSSINI - FRANCESCO MALGERI - CLAUDIO VASALE

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LUIGI STURZO

SCRITTI INEDITI VOLUME lo : - 1890-1924

a cura di FRANCESCO PIVA

prefazione di GABRIELE DE ROSA

EDIZIONI CINQUE LUNE ISTITUTO LUIGI STURZO

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Sovraccopertina di Rocco Coronese

.Proprietà artistica, e letteraria riservata

Copyright 1974 - Casa Editrice « 5 Lune » Roma, Piazzale Luigi Stum, 24-25

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PREFAZIONE

I tre volumi di documenti sturziani che vedono la luce, non raccolgono tutte le carte dell'Archivio Luigi Sturzo, ma solo qzaelle che ci sono apparse utili e importanti per una ricerca storica. Sturzo, come si sa, era un meticoloso racco- glitore di carte, sin da giovane: carte d'ogni genere, appunti, memorie, schemi di discorsi e relazioni, lettere, abbozzi di lettere, risposte di corrispondenti, modesti o importanti, tutti assieme. In questa raccolta si sono seguiti i criteri che valgono sempre per lavori del genere: non si è trascurato alcun foglio che in qualche modo appaia utile alla compren- sione della personalità dell'autore o di un evento a lui legato. Due dei curatori, Francesco Piva e Francesco Malgeri,, hanno conoscenza sicura dell'archivio, avendolo esplorato per la

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intelligente biografia di Sturzo, edita in questa collana. Franco Rizzi ha al suo attivo buoni saggi sul movimento cattolico e sul prete calatino in esilio.

Nell'archivio Sturzo ha raccolto tutte le sue carte o solo quelle che lo interessavano? Le ha discriminate, sot- traendo alla curiosità del futuro ricercatore le cose pih ghiotte e scottanti? Insomma, egli ha operato una scelta per preco- stituire una certa immagine di sé, piuttosto di un'altra? Sono domande che potrebbero ripetersi per ogni archivio, ad esempio, per quelli di Giolitti e di Meda, e non mi sembra che abbiano molto fondamento. Naturalmente il solito vezzo o pregiudizio anticlericale potrebbe insinuare il sospetto di un calcolo machiavellico nel prete Sturzo, per fuorviare i futuri biografi. La vicenda modernista si è portata con sé un bagaglio di rancori, di odi, di veleni, che si prolungano sin nelle pagine di chi, avendo veste di storico, dovrebbe esserne lontano. Sospetti del genere, invero, trasformereb-

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bero lo Sturzo, prima che in una figura meschina e bigotta, in un ingenuo calcolatore che ignorasse come ogni archivio, integro o meno, "epurato" o no che sia, non fa storia, non dà né quantitatiuamente né qualitativamente il giudizio sto- rico, non indirizza la ricerca in un senso o nell'altro. Vi è sempre la possibilità e il dovere nello storico dell'integra- zione; vi è sempre l'obbligo di un'altra lettura e di un'altra -

cifra per leggere questa o quella carta; vi è il riferimento costante ad una documentazione che si costruisce fuori da ogni intenziondità, nel rapporto con misure non archivistiche, ma di scavo storico: condizioni ambientali, mentalità, so- cietà e cultura ed altro che possa nascere da questa esigenza d i interpretare e ricondurre il tutto a pura dimensione sto-

a

rica. M;, oltre ogni polemica, valga o chiarire le idee, la .breve storia di questo archivio, ancora poco nota. Esso non fu sempre e tutto nelle mani di Sturzo. I fascicoli del pe- riodo caltagironese non furono mai mossi dalla Sicilia, non seguirono Sturzo né a Roma, dopo la prima guerra mon- diale, quando fondò il P.P.I., né nell'esilio. Furono trasfe- riti a Roma, al convento delle Canossiane, in via don Orione, quando Sturzo rirntrò dall'America. Qui, per la prima volta vidi e studiai i fascicoli sturziani. Che questi siano rimasti per lungo tempo nell'isola fu buona ventura, perché se in qualche modo si fossero confusi con i fascicoli relativi' al partito popolare avrebbero fatto una ben triste fine. I docu- menti e le carte del P.P.I., messi in casse, nascosti in uno scantiizato, finirono nelle acqzre del Teuere in una inonda- zione: cosj raccontava Sturzo. Fatto sta, la. documentazione del P.P.I. andò tutta perduta durante il fascismo. In qualche parte essa poté essere ricostruita e utilizzata dal sottoscritto .con i fondi dell'Archivio centrale dello Stato e con quelli .privati dei collaboratori e amici di Sturzo: da Filippo Meda a Rufo Ruf fo della Scaletta a Secco Suardo.

Ma il più resta ancora da compiere. Nessuna meraviglia, .

pertanto, che l'archivio di Sturzo sia lacunoso proprio nella parte che più avrebbe interessato lo storico. Nei fascicoli che rimasero in Sicilia non si trova documentazione rile- vante sulla crisi modernista; poche le lettere scambiate con

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- Romolo Murri. La cosa non dovrebbe suscitare meraviglia: dalle stesse carte Murri non emerge una corrispondenza con- ttnuativa e nutrita con Sturzo. Pressoché inesistente il nomc di Sturzo nelle carte dei modernisti maggiori, da Buonaiuti a Minocchi. Il che conferma come il prete di Caltagirone si sia tenuto fuori dalla battaglia modernista: passò ad essa vicino, ma ne rimase sostanzialmente estraneo, non si com- promise, per convinzione o per timore non ha molta impor- tanza in questa sede. Resta il fatto, confermato dalla lettura dei fascicoli degli anni del pontificato di Pio X , che Sturzo non recitò alcuna parte di rilievo nella storia del modernismo. Ricchi di corrispondenze i fascicoli d,ell'esilio, soprattutto quelli degli anni londinesi: materiale prezioso, che in molti casi getta luce sui rapporti di Sturzo con l'emigrazione anti- fascista laica, con gli ex popolari Donati, Ferrari e Stragliati. La corrispondenza con Stragliati è in gran parte nuova. Fa spicco la corrispondenza con gli antifascisti spagnoli: I'ap- porto di Sturzo alla battaglia liberale e autonomistica dei baschi è degna di rilievo. Questo materiale fu già utilizzato dal sottoscritto, da Malgeri e da Rizzi in scritti qui citati q noti. Non ne staremo a rilevare l'importanza.

Nel primo volume sono inseriti testi, interi o parziali, di commedie redatte da Sturzo negli anni della sua milizia .cattolica calatina. Non più di una curiosità, che però va spiegata nell'ambito di quella storia della letteratura popo- lare e di propaganda, che ancora attende da noi i suoi stu- diosi. %rivevano commedie, racconti e poesie a cavallo del secolo, Sturzo e suo fratello Mario, il lfuturo vescovo di Piazza Armerina, Murri, Monterisi, Meda, Giuseppe Sac- chetti con i suoi racconti tetri, antimassonici e auueniristici nella pur prestigiosa Lega Lombarda, Scipione Fraschetti,

- con l'amore per le trame cabalistiche e semipoliziesche. Scri- vevano commedie e racconti i socialisti, per gli iscritti di base al loro partito. Insomma qualcosa di più e di molto diverso da una moda o da un capriccio giovanile. Si trattava di lavori che nascevano dal bisogno di contestare anche al livello dell'opinione pubblica la diffusione dei modelli dt vita della cultura e della pubblicistica positiuistica e agno-

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stica o anticlericale; si trattava, come nel caso di Sturzo, di garantire agli iscritti ai circoli cattolici e alle casse rurali, rappresentazioni di propaganda ispirate ai principi della mo- rale cattolica. Non quindi lavori destinati al grande pubblico della borghesia urbana, ma agli ambienti di quella sagrestia e di quei circoli sociali, che vivevano vicino al popolo. ine- rudito. e semplice.

Diversi aspetti e momenti critici della vita di Sturzo riescono lumeggiati da queste carte. Ad esempio, la sua par- tenza per l'esilio. C'è una lettera a mons. Pizzardo del 28 set- tembre 1924, che sembra sia da considerare un atto uffi- ciale, in cui l'ex segretario del P.P.I. chiede, per ragioni di studi, il permesso di passare qualche tempo all'estero. In altra lettera del 18 ottobre 1924 si ricava che Sturzo parti per Londra « per desiderio della nota persona » (il cardinale Gasparri). Da essa risulta anche che Sturzo riteneva che si sarebbe trattato di soggiorno più o meno lungo, ma non di esilio, e che i motivi della sicurezza personale si univano alle ragioni di studio. In altra lettera a De Gasperi, più tardi, e già utilizzata in altro mio scritto (L'utopia politica di L. Stur- ZO), Starzo sembra dare maggiore importanza al « desiderio dello nota persona D. Particolare curioso: anche De Gasperi, come si deduce da una lettera a Sturzo del 30 gennaio 1926, accarezzava l'idea di passare il mare: C Sto imparando l'in- glese. Se non ci sartmno altre soluzioni, passeremo il mare ».

Le introduzioni di Piva, Rizzi e Malgeri ai tre volumi dell'Arcbivio chiariscono i criteri della scelta, agevolano la lettura dei documenti con riferimenti e richiami biblio- grafici essenziali, mettono in evidenza le parti più impor- tanti e nuove delle lettere.

Dalla raccolta sono stati esclusi lettere e documenti o molto privati o di particolare delicatezza o per i quali non fu concessa dagli interessati l'autorizzazione a pubblicare.

All'lstituto Luigi Sturzo e al suo presidente, prof. Giu- seppe Spataro, che ha consentito con la massima liberalità l'esame dei fascicoli dell'Archivio, il nostro più vivo rin- graziamento.

g. d. r.

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INTRODUZIONE

Questo primo volume di inediti di Luigi Sturzo offre una . raccolta di scritti e discorsi che risalgono agli anni 1890-1924;

vi è quindi compreso tutto il periodo dell'impegno attivo del prete sicili~no* dagli anni di Caltagirone al Partito Popolare.

E' questo il peuiodo pizì conosciuto: ampie difatti sono le opere che raccolgono i testi di Sturzo relativi all'arco di tempo contemplato .anche da questa antologia. Già nel 1906 la « Società Nazionale di Cultura », diretta da Romolo Murri, pubblicò la prima ediziong di Sintesi Sociali, una raccolta di saggi e discorsi che 'Sturzo elaborò nei primi anni del secolo, nella fase della massima espansione della prima democrazia cristiana, fino alla crisi del lzlglio 1904. Il corpo pizì rilevante della raccolta è osti- tuito dalla teorizzazione delle unioni professionali di classe come acquisizione qualificante del movimento sociale democratico-cri- stiano; altri articoli, pubblicati originariamente sulla Cultura So- ciale, si riferiscono alle polemiche tra conservatori cattolici e democratici cristiani, al movimento municipale e all'organizzazione elettorale dei cattolici nel Mezzogiorno. V i fu aggiunto il famoso discorso I problemi della vita nazionale dei cattolici italiani, tenuto J Caltagirone il 29 dicembre 1905 ( 1 ) .

Alla conoscenza dell'attività e delle idee del prete siciliano negli anni antecedenti la democrazia cristiana ha dato un decisivo contributo la selezione degli articoli apparsi sulla Croce di Co- stantino, il periodico fondato a Caltagirone nel marzo 1897. L'an-

(1) I1 volume Sintesi Sociali è stato cipubblicato, con alcune modificazioni, nell'ambito dell'opera Omnia cuiata da Zanicheiii, Bologna 1961.

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tologia, curata da Gabriele De Rosa ed edita dalle Edizioni di Storia e Letteratura di Roma nel 1958, offre la possibilità di valu- tare le prime elaborazioni politiche del prete siciliano e le moti- vazioni della sua azione per diffondere l'Opera dei Congressi in Sicilia.

La stessa antologia 2 importante anche perché - accanto agli articoli sulla Croce di Costantino e a discorsi propagandistici sul- l'Opera - contiene alcune relazioni sulle autonomie comunali: I1 programma municipale dei cattolici italiani, innanzitutto, esposto nel novembre 1902 a Caltanissetta, quando per opera di Sturzo, fu fondata l'Associazione dei consiglieri cattolici siciliani; seguono altre relazioni tenute nell'ambito dei congressi dell'Associazione Nazionale dei Comuni Italiani, di cui Sturzo fu prima membro del consiglio direttivo e, nel 1915, vicepresidente.

I tre volumi I1 Partito Popolare Italiano, editi da Zanichelli nel piano dell'o~era Omnia, raccolgono invece i discorsi e le pa- gine più fondamentali riguardanti tutta l'esperienza del Partito Popolare e i primi anni di antifascismo, abbracciando un arco di tempo che va dal 1918 al 1926.

'La presente antologia si inserisce quindi in un quadro edito- riale molto ampio, che ha ormai delineato le caratteristiche fon- damentali del pensiero sturziano negli anni del movimento so- ciale di Leone X I I I prima, e del Partito Popolare poi.

I documenti qui pubblicati hanno tuttavia il compito di inte- - grare la conoscenza di alcuni aspetti non ancora approfonditi o,

. se pur intuiti, non ancora verificati. La raccolta non segue perciò un tema unico ed omogeneo;

I'unico ordine osservato è quello strettamente cronologico. La scelta dei documenti - offerti dal materiale conservato nellJarchi- vio dell'lstituto L. Sturzo - è avvenuta quindi con il solo cri- terio di selezionare testi inediti rizuardanti aspetti e vicende della personalità sturziana aperti a più precisi accertamenti.

Due parole sulle caratteristiche dell'archivio, cioè sulle possi- bilità e limiti di scavo che esso offue allo studioso. Le osservazioni riguardano naturalmente il fondo che va dal 1890 al 1924, cioè la parte selezionata per questo primo volume. Anzitutto è da dire

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che le carte vennero archiviate la prima volta sotto la guida diretta di Sturzo. Il criterio seguito è largamente cronologico, nel senso che i documenti sono ordinati per periodi; all'interno di ciascun periodo, le carte sono divise in fascicoli riguardanti i diversi mo- menti di impegno attivo del leader siciliano: attività municipale a Caltagirone, Opera dei Congressi e movimento cattolico 152 Sici- lia, direzione regionale della « Nicolò Tommaseo D, organizzazione elettorale nell'isola, giunta centrale di Azione Cattolica, Partito Popolare, e così via. La nuova archiviazione, curata dall'lstituto e non ancora completata, segue di massima la stessa impostazione.

In secondo luogo è da sottolineare che il materiale conservato è piuttosto vasto. Tuttavia, ci pare che esista uno squilibrio tra l'ampiezza del fondo e l'effettivo interesse storico delle fonti. Ciò è dovuto al fatto che Sturzo conservò con esasperante pignoleria una quantità di corrispondenza e di carte anche di scarso rilievo. Per dare un'idea, basti dire che sono regolarmente conservati e numerati biglietti ferroviari, conti d'albergo, fatture di spese mi- nute, montagne di raccomapldazioni.

In terzo luogo, il corpo archivistico pizì importante arriva fino al 171 8, con netta prevalenza di materiale riguardante l'Opera dei Congressi e l'organizzazione elettorale nell'isola. Esigua e poco rilevante è invece la documentazione sul Partito Popolare e, pih in generale, sulle vicende sturziane all'indomani della prima guerra mondiale: come anticipa De Rosa nella prefazione, l'archivio del P.P.I. andò distrutto.

Siamo quindi di fronte a un fondo per così dire sicilia- no. Questa specializzazione, se ha limiti facilmente intuibili, of- fre tuttavia una ricchezza insolita per uno studio, ad esempio, sul movimento cattolico siciliano a cavallo del secolo, studio che vo- glia affrontare il fenomeno non solo attraverso le vicende del grup- po dirigente, ma dall'ottica della base organizzata e dei dirigenti locali. Ci spieghiamo meglio. La pignoleria con cui Sturzo con- servò ingenti plichi di corrispondenza proveniente da oscuri inter- locutori dei pizì svariati paesi dell'isola, protagonisti sconosciuti delle lotte tra cattolici e socialisti e liberali, questa pignoleria, dice- vamo, ha il merito di aver reso disponibile una quantità di mate- riale che offre degli spaccati interessanti sulle condizioni materiali

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e sulle contraddizioni economico-sociali delle masse cattoliche e. pii+ in generale, della vita sociale siciliana.

Notevoli anche le tracce sulla formazione intellettuale del giovane seminarista e poi sacerdote caltagironese. Si tratta di carte difficilmente pubblicabili in un'antologia, perché o insignificanti se prese individualmente o confuse e prolisse: quaderni liceali, schemi di prediche, appunti di esercizi spirituali, registrazioni di libri, etc. Complessivamente, invece, permettono di chiarire le matrici del pensiero sturziano.

In conclusione, il fondo ha una composizione molto etero- genea e, per alcuni versi, squilibrata. Da un lato, infatti, la docu- mentazione conservata si presenta varia e complessa, ma, nello stesso tempo, frammentaria e insufficiente a sviluppare unJunica tematica. Dall'altro, rimangono per così dire scoperti alcuni mo- menti importanti della vicenda sturziana, primo fra tutti il P.P.I. Alla stessa stregua, rimarrebbe deluso chi cercasse in questo ar- chivio particolari corrispondenze con personalità politiche, cultu- rali ed ecclesiastiche, contemporanee alle diverse esperienze di Sturzo. De Rosa, nella prefazione, ha ricostruito il travagliato cammino dellJarchivio e ne ha illustrato i colpi subiti. Forse altri elementi potranno venire nlla luce quando anche l'ultima parte del fondo sarà ordinata, oppure quando saranno pubblicati i car- teggi di personalità contemporanee al prete siciliano. D'altra pat- te, i silenzi di un archivio non possono essere esclusivamente im- putati a perdite materiali o a sottraziod ~olontarie. I silenzi di un archivio possono addirittura aiutare la comprensione di tcna personalità, nella misura in cui ne riflettono i limiti di ambienta- rione politica e culturale. E per Sturzo, si ha tutta l'impressione che, sino alla vigilia della prima guerra mondiale, egli si sia mosso essenzialmente all'interno delle organizzazioni cattoliche siciliane, con scarsi rapporti verso il mondo politico e culturale esterno, sia cattolico che laico.

I pregi e i difetti dell'archivio si riflettono ovviamente sulla struttura della raccolta. La composizione di questa non poteva non risultare eterogenea, poiché il materiale disponibile, come si è detto, difficilmente permette di sviluppare la documentazione per tematiche omogenee. Tanto piir che gli scritti editi sono molto

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numerosi ed hanno già focalizzato le caratteristiche essenziali del pensiero e dell'azione di Sturzo nel periodo considerato da questo volume. Pubblicare altri documenti non molto diversi sugli stessz srgomenti (ad esempio, discorsi sull'Opera dei Congressi, sulle ~utonomie municipali, etc.) poteva risultare più organico, ma, for- se, meno stimolante.

Seguendo l'ordine cronologico, si è voluto invece portare alla luce documenti fra loro eterogenei ma piu origindi, come le note sul clero meridionale e i pronunciamenti interventisti. Accanto a questi, di sicaro e immediato rilievo, sono posti altri scritti, a pri- ma vista meno significativi, ma capaci di ricostruire l'ambiente culturale e sociale in cui Sturzo si mosse. In questa prospettiva, ad esempio, sono pubblicati la lettera del 2890, due copioni tea- trali, una predica d'inizio secolo, i comizi elettorali: anche questi documenti sono utili allo studioso per inquadrare più analitica- mente e fuori di ogni retorica la personalità di Sturzo e alcune caratteristiche dell'ambiente cattolico siciliano.

Delineate brevemente le possibilità dell'archivio, esponiamo ora i caratteri essenziati di questa antologia. Il primo gruppo di documenti o f fre ulteriori acquisizioni alla conoscenza dei primissimi anni di attività di Sturzo, quale animatore del movimento catto- lico siciliano. La lettera al vescovo Gerbino (doc. I ) , il discorso sul potere temporale dei papi (doc. 2), le dissertazioni sulle casse rurali (doc. 4 e 7), confermano che Sturzo assimilò progressiva- mente le tematiche della piu ortodossa polemica intransigente: la difesa del papa "prigioniero" e della chiesa "assediata" dalla mas- soneria e dal socialismo, lo spirito di rivalsa e di crociata per la "riconquista cristiana" della società. Sono tematiche non originali e che il giovane Sturzo apprese nell'ambiente familiare; non si spiega altrimenti la lettera del 1890 (doc. 1).

Questo primo gruppo di documenti conferma, dunque, che, fino alla fine del secolo, Sturzo si mosse senza alcuna riserva all'interno dei canoni più rigidi dell'oltranzismo Paganuzziano: Tali canoni risultarono utili al prete calatino per delineare un'alterna- tiva al clerico-moderatismo isolano e alla subordinazione cliente- lare del clero siciliano; così come lo schema della riconquista cristiana del sociale costituì la spinta alla promozione del movi-

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mento cooperativo-mutualistico a favore della piccola borghesia contadina. Un esempio si può trovare nei discorsi sulle casse rurali (doc. 4 e 7)) dove la confessionalità delle casse di credito è pro- clamata senza esitazioni: « Onestà e buona fede - egli scrisse - saranno nomi vani ove non siano sorrette dalla religione cattolica, apostolica, romana. (...) Né vi è costrizione morale mutare il ere- dito in opera confessionale » poiché « se alcuno che frequentava la bettola o la bisca, che lavorava alla domenica o bestemmiava, per usufruire della cassa rurale, si corregge e si emenda, noi avre- mo fatto un gran bene allJindividuo e alla società D.

Il suo progressivo interessamento alle condizioni concrete del- la piccola borghesia rurale - significativa, a pesto proposito, la lettera a Toni010 del 1898 (doc. 5) - scaturl dunque da questa matrice integrista, che attribzliva in esclusiva alla chiesa la rige- nerazione sociale del mondo contadino. Ricomposizione socio-poli- tica della piccola e media borghesia dei campi e reing<esso della chiesa nel sociale delinearono due facce di una medesima prospet- tiva d'azione. - .

Concretezza operativa e integrismo si fusero dialetticamente nel prete di Caltagirone e trovarono espressione anche in alcuni testi teatrali scritti a cavallo del secolo. E' noto che Luigi Sturzo - accomunandosi in questo al fratello Mario - rimase sempre legato ai giovanili interessi letterari. E' noto anche che scrisse alcuni copioni drammatici e libretti per opere liriche, il piu fa- moso dei quali, I1 ciclo della creazione, non si possono definire opere d'arte nel senso stretto del termine. I due copioni che qui pubblichiamo - I1 duello (doc. 8) e La mafia (doc. 10) - non sono presentati al lettore per i loro pregi teatrali e letterari. Assumono invece altra rilevanza se valutati come tentativi esco- gitati da Sturzo per fare anche del teatrino parrocchiale unJocca- sione di educazione ideologico-politica, cioè presentaje emblema- ticamente i personaggi concreti della vita economica ed eletto- rale Gciliana o per dare corposità alla contrapposizione ideale tra cristianesimo puro e "scristianizzazione del secoloJJ. I1 testo La mafia è stato pubblicato, anche se incompleto, perché sembra essere il più esemplare e il più significativo, soprattutto se para- gonato al melenso filone della filodrammatica cattolica di quegli

XIV

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anni dove le gesta di crociati, di re cristiani e di santi martirizzati, abbondano.

Il secondo gruppo di documenti riguarda la stagione più in- tensa della democrazia cristiana, dai stlccessi del 1900 alla crisi . del 1904. Nell'analisi delle condizioni dei contadini siciliani, Stur- zo riesce ad individuare alcune cause strutturali a monte della disgregazione sociale delle masse piccolo-borghesi, contadine e artigianali, del Sud. Nei due saggi scritti nel 1901 per conto della Società italiana di studi, scientifici (doc. 12 e 13), Sturzo dimostra una dettagliata conoscenza dei rapporti produttivi allora vigenti nell'agricoltura siciliana e attacca l'assenteismo della grande pro- prietà terrieua e gli sviluppi parassitari del clero e di larghe frange della borghesia. La terapia è sempre destinata ai piccoli e medi conduttori attraverso l'azione cooperativo-mutualistica. Il prete calatino non arriua a svelare le divisioni di classe nascoste dal- l'apparente uniformità contadina e le condizioni reali di semi- proletariato vissute da molte di quelle figure sociali formalmente piccolo-conduttrici. Né egli allarga il discorso alle fasce braccian- tili, confermando la sua estraneità ai problemi di questa classe e alle organizzazioni di resistenza, che pure il mouimento cattolico cominciava a sperimentare in altre zone d'Italia.

La stessa tensione socio-politica si dipana negli schemi di un discorso meridionalista pronunciato a Bologna nel novem- bre 1903, durante i lauori del congresso nazionale dell' Opera (doc. 15 e 16), dove radicalizzò la rivendicazione delle autonomie regionali in un "far da séJJ del Mezzogiorno.

E' stato più volte sottolineato che in Sturzo si realizzò lo stacco decisivo tra la vecchia opposizione legittimista dei catto- lici del Sud e il nascere di una nuova coscienza civile di denuncia dello Stato protettore del gabelloto, della proprietà assenteista e della mafia. La verifica si ha nella polemica contro i cattolici) borbonici, all'indomani dello stesso congresso d i , Bologna. Nello scritto che pubblichiamo (doc. 17), egli separò nettamente la que- stione romana dalle pretese dinastiche delle famiglie reali spo- destate e suuotò il legittimismo delle istanze populiste con lo stesso argomento del suo discorso d i Bologna: non dal governo, sia esso di un tipo o di un altro, bisogna attendere la rinascita del

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Mezzogiorno; al contrario « ci vuole la coscienza e l'energia di un popolo per salvare se stesso D .

Nella stessa linea demistificatrice di una mitica libertà go- duta dalla chiesa nei passati regimi assolutistici, si inserisce la conferenza del 1904 su Chiesa e Stato sotto i Borboni (doc. 19). Il manoscritto non offre tesi particolarmente originali sulle con- dizioni del clero e della gerarchia ecclesiastica del Sud nntece- dentemente l'unità nazionale. Non troviamo l'acutezza e la viva- cità di analisi sui rapporti tra chiesa e potere civile, tra clero e borghesia, riscontrabili nelle pagine di altri osservatori, pure di parte cattolica come il Nicola Monterìsi. Tuttavia, come sugge- risce De Rosa, è comune a Sturzo e al Monterisi il convincimento che il regalismo borbonico caricò il Sud di un bilancio disastroso, riducendo « i l clero a contare solo le candele da porsi nelle feste sugli altari » ( 2 ) e separandolo dalle classi popolari.

La conferenza è inoltre significativa perché ci testimonia che fin dagli inizi del secolo Sturzo pensava di stydere uno studio sui rapporti' tra Chiesa e Stato, studio realizzato poi in esilio e pubblicato la prima volta in francese nel 1937, in inglese nel 1339, e ora collocato nellJOpera Omnia.

L'esame delle condizioni del clero meridionale occupa un altro scritto di questo periodo; si tratta dell'articolo Giornalismo ed educazione nei seminari (doc. 14): Può essere interessante paragonare la lettera del 1890 (doc. I ) con questo saggio, per uerificare il mutamento di prospettiva in ordine alla formazione dei chierici.

E' da ricordare infine lo schema di discorso Due papi e l'ora presente (doc. 18) perché è il' reperto dove, sia pure in forma concisa, sono espresse precise valutazioni sul modernismo. A tale proposito, ci sembra importante fare una puntualizzazione sulla vicenda sturziana nel primo decennio del secolo, in base a

'tutto il materiale archivistico relativo a questo periodo. I docu- menti qui pubblicati e, piu ancora, gli scritti rimasti inediti per i loro limiti documentari, attestano che il prete calatino fu appena sfiorato 'dai fermenti teologici e filosofici agitati da Murri e dagli

(2) Cfr. G, DE ROSA, ~escov j , popolo e magia nel Sud, Napoli 1972, pp., 206-239. - . ,

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esponenti pih qualificati della Cultura Sociale, cosi come rimase estraneo alle complesse istanze religioso-culturali sintetizzate dal fenomeno modernista. Tutto sommato, la cultura intransigente di fine secolo, articolata sul piano filosofico dal neotomismo ro- mano della Gregorzana e sviluppata sul piano sociale fino ai limiti consentiti dall'interclassismo toniolino, rimase l'esperienza formativa pih determinante del pensiero sturziano fino all'esilio. Si spiegano cosi gli equivoci teorici e le incertezze sui rapporti tra dimensione religiosa e ambito civile, tra chiesa e regime politico, che si possono riscontrare nei numerosi schemi di discorsi, arti- coli, interventi, raccolti nell'archivio e risalenti al primo quindi- cennio del secolo.

Tutto ciò non contraddice il contributo dato da Sturzo al superamento dei ghetti confessionali. In realtà, la battaglia sulla laicità del partito dei cattolici - formulata fin dal 1905 nel famoso discorso di Caltagirone - scaturi non da riflessio- ni teologico-culturali sui rapporti dianzi indicati. Era piuttosto il 'frutto di una immediata sensibilità e concretezza: da un lato la preoccupazione, sollecitata dall'esperienza siciliana, di salva- guardare la chiesa-istituzione dalle compromissioni politiche; &l- l'altro l'intuizione che l'interclassismo leoniano e il composito tessuto economico-sociale sviluppatosi sul solco del vecchio tn- transigentismo, erano ormai in grado di operare l'identificazione di larghi settori medio e piccolo borghesi senza il bìsogno di etichette confessionali. A monte di queste intuizioni, restavano però irrisolti nodi teoricz che investivano in ultima analisi l'atteg- giamento dei cattolici verso le libertà democratico-parlamentari e l'assetto sociale pluralista.

Il terzo gruppo di documenti abbraccia il periodo che va dal 1905 al 1915, cioè dal superamento della crisi dell'opera alla prima. guerra mondiale. Gli scritti pih rilevanti sono forse la nota sul clero meridionale (doc. 22) e la conferenza ai chierici di Piazza Armerina (doc. 23), rispettivamente del 1906 e del 1907. Assieme al già citato articolo sull'educazione nei seminari (doc. 14), questi due manoscritti costituiscono un blocco unitario, fin'ora inedito, riguardante l'analisi sturziana del clero meridio- nale. La denuncia delle miserie e delle liti dei preti del Sud si

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accompagna tuttavia alla speranza di convertire il clero meridio- nale ad un disegno di rinascita non solo religiosa ma anche civile, a conferma che in Sturzo il richiamo all'ortodossia romana, con- tro la "pietà magica e rumorosa" (vedi doc. 23)' faceva tutt'uno con le sue prospettive politiche di riscatto del Sud.

L? documento 41 è stato pubblicato non per la sua rilevanza complessiva, ma perché contiene un brano che non lascia dubbi sul giudizio positivo di Sturzo nei confronti della guerra libica.

L'ultima parte dellJantologia va dal 1915 al 1924; come si è detto, questo periodo rimane quasi completamente scoperto, con la comprensibile delusione dello studioso che sperava viva- mente di trovare nell'archiuio personale di uno dei maggiori pro- tagonisti del primo dopoguerra ulteriori elementi sulle vicende del mondo cattolico nella crisi dello Stato liberale.

Ci sono tuttavia documenti di indubbio interesse perché chiariscono un tema .della vita di -Sturzo rimasto fin'ora abba- stanza incerto e oscuro. Vogliamo riferirci all'atieggiamento del leader siciliano di fronte alla prima guerra mondiale. I due di- scorsi del 1918, La liberazione di Gerusalemme (doc. 43) e Resistenza Spirituale (doc. 45) provano in modo indiscutibile che egli fu un deciso interventista. Il panegirico sulla Resistenza spirituale sviluppa temi e tonalità che sfiorano quelli delle cor- renti nazionaliste. In realtà, gli elementi individuabili sono pii9 complessi: la tradizionale critica cattolico-federalista al processo di unificazione nazionale si intreccia al violento antigiolittismo, reali-rzatoue di quell'integrazione tra accumulazione capitalistica e organi statali che il Sud pagava economicamente e politica- mente; la guerra - di cui Sturzo arriva ad esaltare il significato "rigeneratore" e ''purificatore" - è allora vista come l'occasione di un grosso rimescolamento di carte capace di favorire l'avanzata delle forze sociali emarginate dall'equilibrio giolittiano. Parados- salmente, in questo momento al leader siciliano sfuggiva che proprio l'economia bellica avrebbe accentuato l'intreccio tra accu- mulazione industriale e burocrazia statale. L'ossessiva volontà di contrapporsi ai socialisti si accompagna all'evidente preoccupa- zione di controbattere la campagna propagandistica, intensificatasi tra la fine del '17 e l'inizio del. '18, contro il disfattismo del clero e delle masse contadine egemonizzate dalle organizzazioni

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bianche: in vista della nascita di un partito, ormai data per certa negli ambienti clericali, l'operazione sturziana vuole legittimare l'acquisita vocazione nazionale e di fedeltà allo Stato del movi- mento cattolico, quasi ponendo una pietra tombale sulla passata polemica anti-unitaria; il tutto nell'intento di rassicurare, con i propositi d'ordine del futuro partito, quei ceti borghesi, soprat- tutto agrari, con cui Sturzo manteneva stretti rapporti attraverso la Società degli Agricoltori Italiani.

Questo discorso è certamente importante e, in concomi- tanza alle esperienze vissute dal prete siciliano nel periodo bellico, segna un momento definitivo del lungo vinggio dall'originario antistatalismo intransigente all'accettazione dello Stato liberale.

Nella stessa prospettiva vanno collocati altri due documenti (doc. 44 e 46) che illuminano le linee di politica agraria elaborate da Sturzo per il dopoguerra. Le dissertazioni e le polemiche sulla quotirzazione del latifondo siciliano dimostrano che Sturzo non può certo essere considerato un antesignano di quella che sarà l'occupazione delle terre mentre l'originario mito sul valore palin- genetico della piccola proprietà appare ridimensionato. Dall'eli- minazione del latifondo egli rivendica innunzitutto lo sviluppo di grandi aziende capitalistiche gestite da una nuova borghesia im- prenditoriale, mentre le piccole conduzioni, destinate alle colture specializzate e industriali, vengono limitate alle aree vicino ai centri abitati. Il discorso al congresso agrario siciliano è un docu- mento importante per intendere la preoccupazione di Sturzo di fronteggiare e prevenire in qualche modo l'ondata delle rivendi- cazioni contadine del primo dopoguerra.

Gli ultimi documenti - relativi ai rapporti tra P.P.I. e go- verno fascista - hanno minore interesse perché nulla aggiun- gono a quanto già è stato scritto. Tuttavia è una pagina umana la lettera di Francesco Luigi Ferrari dopo le sue dimissioni dal P.P.I.

Le altre lettere accertano defiiiitivamente che Sturzo, nella campagna elettorale del 1924, si adoperò per portare la direzione del P.P.I. sul fronte dell'opposizione antifascista contro gli equi- voci del centro-destra del partito, capeggiato da Longinotti; quel Longinotti un tempo alleato di Sturzo nella battaglia interventista contro il pacifismo migliolino.

XIX

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Concludendo, nonostante i limiti chiariti, ci pare che questo volume antologico abbia una sua giustificazione nel senso che permette di dilatare il discorso su Sturzo oltre le sole vicende del mondo cattolico. Lo studioso può trarre elementi ed ipotesi di un complesso mosaico - dai rapporti clero-contadini nel Sud all'interventismo palingenetico - che meglio verificano l'inne- starsi dell'azione e del disegno politico sturziano nell'ltalia gio- littiana e prefascista.

FRANCESCO PIVA

ABBREVIAZIONI

A.L.S. = Archivio Luigi Sturzo, presso l'Istituto « Luigi Sturzo », Roma.

C. = carta f . = fascicolo fs. = fuori scatola; si tratta di documenti non ancora ordinati

,. . N.d.S. = Nota di Sturzo L'opera di G. DE ROSA, Storia del movimento cattolico in

Italia, vol. I : Dalla ,restaurazione all'età giolittiana e vol. 11: Il Partito Popolare, Bari 1966, è stata abbre- viata in DE ROSA, I e DE ROSA, I1 perché assunta come testo base sulle vicende del movimento cattolico nel periodo considerato dall'antologia.

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STURZO A MONS. GERBINO l (f.s.)

Caltagirone, 14 aprile 1890

Ecc. Rev.ma

incomincio con chiedere scusa a S.E.R. della mia arro- ganza, nel venire con la presente a parlar di cose che non mi appartengono per uffizio, ma che so mie per intimo sentimento che m'infiamma del bene di tutti. Io giuro innanzi al cielo e alla terra che nessuna altra causa mi spinge a far ciò che non vorrei, ossia levarmi come consigliere di S.E.R. Ma Dio me ne guardi! io non aspiro a tanto, perché non posso, e perché non devo aspirarvi, ed in questa io non intendo altro che umi- lissimamente esporre i miei pensieri, perché o impedisca un male, almeno come sembra agli occhi miei, o pure gli effetti di esso.

Vorrei apporre il mio nome, ma tre cose mi ritengono, e S.E.R. mi avrà per iscusato, primo il poter, sapéndosi dispia- cermi molti [sic] secondo il poter sembrare che mi pungesse a far ciò ambizione o che so qualche altra cosa, terzo che forse S.E.R. non apprezzerebbe più il mio pensiero, conoscendomi

ecome persona non da tanto, come almeno io mi tengo. Ad ogni modo se vedrò, come spero, il mio pensiero seguito, io tosto verrò a manifestarmi di presenza.

Entriamo in argomento. Ho inteso buccinare da varie per- sone, che quest'anno i chierici del suo Seminario daran gli esami alle scuole pubbliche sia quei di Terza Ginnasiale, sia quei di

1 Come risulta dal testo, si tratta di una lettera anonima che Sturw, d o r a chierico, inviò al vescovo di Caltagitone, mons. Savetio Getbino.

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Quinta. A tale notizia ebbi alquanto dolore per più ragioni; essendo quest'esame alle scuole pubbliche causa di scioglimento di disciplina, di perdita di vocazioni, nonostante il vigile sorve- gliamenio dei superiori. Ed invero ecco i mali che apporra l'idea di esame alle scuole pubbliche, mali non compensati da bene alcuno. Primieramente s'introducono in Seminario, anche senza volere, idee secolaresche, che allettando gli animi ancora ignari, incomincia a far breccia nei cuori anche di quei che han vera vocazione, e così a poco a poco da prima entra l'uggia delle cose di pietà; da poi, sotto pretesto di licenza si fan leciti leggere certi libri; e la van vagheggiando, l'idea di licenza, come una cosa che li appagherà nei loro desideri: quindi, se pria andavan ritenuti, ora più liberi nel fare, dicendo fra sé, se otterrò la licenza, poi potrò esser libero e fare a.testa mia; appresso an- cora, con questa ideaccia nialnata si perde la subbordinazione ai superiori, specie ai prefetti: più ancora, i giovani di una scuola si comunicano tra loro, perché uno manifesta le idee al compagno, e ecco che a poco a poco novelle idee frullano nel capo dei giovani, sempre idee punto amiche allo stato ecclesia- stico, dove è d'uopo uno spirito lontano dallo spirito del mondo, il quale fatto piccino piccino entra nei loro cuori, e così se resi- duo di spirito ecclesiastico vi era, il caccia totalmente. Ma questo è nulla, E.R.; in riguardo a quel che siepe, questi è l'embrione, che a poco si poco si svilupperà in ben fatto corpo. Si approssi- mano gli esami; da cui ne viene la relazione dei giovani secolari coi chierici. Ecco il male peggiore: lo stato dei chierici è che non san tante cose del cattivo mondo, né deile seduzioni dei cattivi compagni; specie quei di Terza, che più teneri come sono, poco conoscono il mondo ...

Pure dalla tendenza che abbiamo al male, si forma in loro una specie di reazione e, come awiene dei chierici che dimet- tono l'abito, che per reazione di quel tempo passato in Semi- nario, fra santi esercizi, divengon, salve le debite eccezioni, più scollacciati, e più cattivi degli stessi laici, così ora, che han un po' di largo di secondar la natura, i più la secondano, eccitati sempre dai laici; ora con discorsi cattivi, ora con seduzioni, ora con altri argomenti, sì che i più son sempre, se non trasci- nati al male, 'o dimettere l'abito, almeno intiepiditi nel fervore,

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vacillanti nella vocazione, più propensi a secondare le perverse tendenze. E se mai mi appongo, veda Mons., veda i fatti, e gliene reco assai. Vero è che il primo anno, 1888, che si intro- dusse tal usanza malaugurata, non vi fu tutto quello che io asserisco, pure non andò scevro da varii fatti pericolosi; ai quali non vorrii di certo esposti i giovanetti di 3". Lasciado stare che P. dimise l'abito, io credo più per la licenza che per altro, poiché per quanto ic l'abbia conosciuto, oltre che era modello in costumi, mostrava molti segni di vocazione. Imperocché, sa V.E.R. quante seduzioni, quante lusinghe i compagni non usa- rono? Pure lasciando stare, poiché poteva esser che non avesse vocazione, vi andarono inoltre M., Sturzo L. e I., i quali, a tanti discorsacci e a tan:e altre cose non cedettero, perché, da gran tempo chierici, ben educati, si fecero sordi, ma pure essi ne risentirono gli effetti, ché scemaron alquanto nella pietà ed ebbero, come io ho saputo, forti tentazioni di lasciar l'abito. Se l'avessero seconcando T sicl , V.E.R., avrebbe perduto tre, che han vera vocazione, e, colla grazia di Dio, potran fare tanto bene. Io sto parlando di costoro, ma perché non parlo degli altri dell'anno scorso 18892 Io posso affermare di V. e di G. che vennero da Noto due singioli, e che si mantennero buoni fino al principio deil'ottantanove, fino cioè che non ebbero pen- siero di iicenza. Ma, come entrò questa nei loro cuori, mercé l'in- sinuazione della bucna lana di C., costoro variaron da quelli che erano stati e V.E. può domandare ai prefetti che li ebbero sotto, e vedrà se io mi appongo male. A poco a poco in costoro venne meio la pieti, la disciplinatezza, venne in odio la tunica chiericale, nei loro discorsi entrò sempre lo svestirsi, l'esser li- bero, il goder dei oiaceri del mondo, le letture divemer di libri cattivi, si corruppero il cuore e si svestirono.

Niente a dir poi dello scandalo che nel corso degli esami diedero, niente a dir delle seduzioni forti che fecero al povero V. essi chierici e i laici. Che non fecero, che non dissero, V. va- ciilò, e se non fosse stata l'esortazione di un buon amico, e un momento di luce che tra tante tenebre ebbe, V.E. anche V. avrebbe perduto. Pure ancora non è tutto il male che produce questo maledetto esame; ce n'è ancora. Come perdon la disci- plina i giovani che hanno a far la licenza così la perdon gli altri,

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per una conseguenza necessaria; poiché costoro seducono gli altri colla parola e coll'esempio come awenne l'anno scorso in questo Seminario, e ben lo sa V.E.R. che niente disciplina, che amicizie particolari, che seduzioni; M., D., G. ed altri furon persuasi dai Quintisti a far l'esame fuori e ad agire contro gli ordini di V.E.; potrei citare tanti fatti, che forse a V.E.R. i prefetti per mondo zelo non appalesarono, tutti fatti di assoluta mancama di disciplina, causa questo esame.

Questa mancanza di disciplina, e per questa cagione, si è osservata nei seminarii di Noto e di Acireale, e potrei portar evidenti fatti, ma taccio.

A tutto questo mio favellare si possono opporre tre ra- gioni sul contrario, ch'io a poco a poco scioglierò col permesso di V.E.R.: 1' ragione che si suo1 dire si è, con questo: col pun- golo dell'esame i giovani studiano di più; ed io provo coi fatti alla mano che studiano meno. Ed invero studiano meno poiché non temono il professore, poiché questi non li dovrà esaminare in fine d'anno; così rispondevano certi giovani dell'anno scorso al professore, che li minacciava di riprovazione: io altronde non

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sarò da lei esaminato, quindi poco m'importa, purché all'esame passi. Poi non si studia, poiché all'esame si ha speme nelle tesi, che vengono di &&i, ed invero fu massima vergogna l'anno scorso, i chierici far ;so di tesi.

Dunque perché anticamente si studiava, che uscivan dal seminario di Caltagirone tanti dotti, e qui fiorì un clero assai dotto, del quale ancora ne rimane qualcuno, forse aveano il pungolo della licenza? Che poi se pungolo si vuol cercare per far studiare i giovani, il primo è l'emulazione, che il prof.re deve destare, il secondo è la spessa visita del Superiore, il terzo è la premiazione generale in fine d'anno, non che il rigore del prof.re specialmente negli esami, con riprovare chi non si merita promozione, cosa che tante volte si trascura. Una 2" ragione oppongono e si è: con questo esame chi ha da continuare nello stato ecclesiastico vi continua, chi non vi ha vocazione, si sveste; ed ecco che il Seminario è divenuto non già un luogo dove si crescono giovani per faticare nella vigna del Signore, ma invece un collegio di educazione, dove si dà occasione ai lupi d'entrare, col pensiero di farsi gli studii e poi svestirsi dopo la licenza;

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ecco una comodità di poter facilmente, in qualche momento di dispetto, aprir la via a chi si sente chiamato al santuario di uscir- ne fuora.

Questa è una delle cagioni perché i Seminarii moderni in generale mancano di disciplina, e di quello spirito eccle5iastic0, di cui eran tanto ripieni gli antichi.

3" ragione si è l'onore del Seminario, ma io vorrei chiamar vergogna, jmperocchk i professori delle scuole pubbliche tendon sempre a schiacciar l'opera delle scuole private, e specialmente dei Seminarii. Una chiara prova l'esame dell'anno scorso; C. fu pròmosso a primo esame perché s'era appoggiato al Prof. M. e aveva detto che si sarebbe svestito e tante altre cose per corol- lario. V. e G. furon riprovati, mentre avean fatto gli istessi com- piti e meglio risposto. V.E.R. si deve ricordare quando a11'88 fecer esame Sturzo e M. che F. solo si oppose alla determinazione dei Prof. di disapprovare a priori.

Ho parlato molto, e certo l'ho stancata, mi abbia per iscu- sato: pel bene quindi del Seminario prego V.E.R. a impedir tan- ti danni, col proibire questo esame; quei che avran vocazione ri- marranno, quei che non ne han se ne andranno; e se ne vadano pure, il Seminario si purgherà di tanti che l'infettano, se ve ne stanno. Che se il potesse ritirare la concessione fatta nel program- ma che scrisse, il che no1 credo, imiti come certo farà, imiti un suo predecessore Maniscalco, il quale fatto accorto da certuni che una sua sentenza non andava tanto bene, la cancellò subito. Nel che fu ammirato da l' intera Caltagirone l'umiltà del Ma- niscalco =.

M. E.mo, domando scusa e perdono della mia arroganza; solo I'amor del bene di tutti mi ha fatto prender la penna; V.E. farà dei miei pensieri quell'uso che crederà opportuno, ch'io sem- pre sarò .contento e pago alle decisioni di S.E.R. Mi prostro al bacio dell 'hello e chiedo la Pastorale Benedizione.

Giuseppe Maria Maniscalco, già padre generale deiì'ordine dei minori conventuali, fu vescovo di Aveiiiio fino al 1854, quando venne spostato alla diocesi di Caltagirone, dove morì i'anno appresso, il 10 aprile 1855. Cfr. S. LEONARDI, Cenni storici sulla gratissima città di Caltagirone, libro I : Gli uomini illustri, Caltagirone 1891, pp. 59-90,

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BREVI CONSIDERAZIONI SUL POTERE TEMPORALE DEI PAPI l

(f. 166, C. 20)

Egregi giovani,

I. sono entrato in mezzo alla questione agitata per tre sedute in questa Sezione intorno al Potere Temporale dei Papi non per definirla, ma per sottomettere alla vostra intelligenza alcune con- siderazioni; e per dare fine a tale questione, lasciando ciascuno libero sugli apprezzamenti storici e giuridici. Dico di dar fine, affinché primo con animo pii1 pacato ciascuno studi da sé la questione; secondo perché non si divulghi presso il popolo una idea che corre, cioè che noi vi abbiam chiamato a queste riunioni per convincervi che i! nostro re debbaWessere il Papa. L'azione dei cattolici invece si deve restringere ad ubbidire il Papa non solo come Maestro infallibile dei doinmi e della morale, ma an- che come supremo Gerarca. Di questo ne parlerò & fine: cornin- cio ora ad esporre le mie brevi considerazioni, lasciandovi libertà a notare ciò che crederete poco esatto o esagerato.

1 Discorso manoscritto datato 12 ottobre 1895. Sotto il titolo Sturzo annota: « Secondo le dispute tenute nella Sezione Giovani S. Filippo Neri in 'Caltagirone e recitato il 13 ott(obre) (18)95 nella detta sezione ». Alla sinistra del titolo sono pure registrate le iniziali di Mario Sturzo; la grafia del testo non è uniforme, anche se le parti più rilevanti .sono sicuramente deila mano di Luigi. La sigla di Mario presumibilmente si spiega con il fatto che Luigi, in questi anni, sottaponeva i suoi scritti all'esame del fratello maggiore; ia firma dello stesso Mario appare infatti anche in altri scritti che sono senza alcun dubbio di Luigi. I1 testo che pubblichiamo risulta dali'integrazione di due manoscritti, ambedue incompleti.

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11. a) Tralascio la questione sotto il lato storico, perché vi è molto da disputare, solo è d'uopo che conveniate meco: 1' che da Costantino, cioè da quando la religione di G [esù] C [risto] fu anche accettata dalle nazioni come religione civile, il Papa fu solo in Roma, con sovranità indipendente e assoluta nelle cose spirituali e nelle attribuzioni temporali, tranne quella del fisco, rappresentato dal duca greco .in Roma o dall'esarca di Ravenna. E quando i Greci o gli Eruli o i Goti o i Longobardi vollero dettar leggi in Roma, il Papa fu ostacolato nel suo ministero spirituale, incarcerato, ucciso; valga a conferma di quanto dico l'esempio di Giovanni I, e gli aiuti domandati ai Franchi da Gre- gorio e da Zaccaria; se non avevano autorità temporale, non era- no in diritto di domandare aiuto ai re cattolici, contro gli invasori.

2'. Che Pipino fece formale dedizione ai Papi nella sua seconda guerra contro i Longobardi, perché i Greci non difendevano colle armi la libertà del Papa. 3' Posto il caso che la dedizione di Pipino fosse falsa, XI secoli di dominio legale 6 politico danno un diritto di possesso incontrastabile. Dunque storicamente il dominio di Roma appartiene ai Papi.

b) Tralascio inoltre la questione dal lato giuridico; solo noto, e in ciò non credo di trovar discrepanze di pareri, che se è per diritto di natura che il popolo può chiamare al governo un altro re, cioè se è per diritto di natura la sovranità del po- polo, non può esser diritto di natura che il re resista colla forza a un popolo che vuole mutar governo. O è l'uno o è l'altro diritto di natura, perché in natura non vi sono diritti che'non corrispondano a doveri; per cui se io ho il diritto certo di pas- saggio pei fondo del mio vicino, il mio vicino non può avere il diritto certo di contrastarmi il passaggio, ma invece il dovere di cedermi il terreno per aprirvi una via o una callaia. Così se il governo legittimamente costituito può resistere ai rivoltosi, io non posso ribellarmi; se io ho il diritto di liberamente eleggere un governo più che un altro, non posso essere colpito dalla leg- ge. Anzi, se la natiira mi dà questo diritto, non può la mag- gioranza infrenare ia minoranza, perché la libertà non può essere pregiudicata dal numero, ma dal dovere, perché se badiamo al numero:

<< infinita è la turba degli sciocchi » (Petr.)

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Aggiungerò ancora che se il diritto del voto è diritto di natura, deve essere d;. ogni libero cittadino, non di pochi, tran- ne che non si voglia dir secondo natura la distinzione di Lace- demoni e di Iloti. Quindi o oggi sono libero di volere re il Prin- cipe di Caserta, o ieri non eran? liberi i siciliani a chiamare dal Piemonte Vittorio Emanuele; o oggi il governo non si può opporre ad ogni libera manifestazione dei cittadini contraria alla dmastia, o ieri non si dovevano accusare di tiranni i governi che reprimevano i moti rivoluzionari. Se infine si oppone che un governo può demeritare la fiducia dei liberi cittadini, certo che anche il Sabaudo l'ha demeritata, io dico, che in ogni go- verno vi saranno i malcontenti, come gli affezionati, perciò o il mondo deve stare sempre in continue rivoluzioni, cosa contro il diritto di natura, o i cittadini non sono liberi di mutare i governi. Onde par si debba conchiudere che i plebisciti e le votazioni non hanno il diritto di mutar governi, e ordinamenti di stato; quindi non giustificò la violenta usurpazione di Roma il plebiscito del 2 ottobre 1870, anche che fosse stato unanime come i liberali vogliono dimostrare.

111. Solo adunque considero il lato ecclesiastico. Perché adunque sono incompatibili in una città l'autorità suprema della Religione Cattolica e il Re d'uno stato civile? Bisogna premettere: lo che gli stati moderni si basano sulla libertà dei culti, sulla libertà del voto, suìla libertà di stampa e di parola. 2' Che uno stato per quanto potente egli sia, può, per. variar di fortuna, avere guerre e subire sconfitte. Ciò posto io prima parlo in astratto, poi in concreto.

a) il Pontefice d'una Religione Cattolica, cioè universale, deve avere relazione con tutti gli stati sia coi sudditi, sia coi sovrani. In ciò deve essere libero perché non sia ostacolato nel- esercizio del suo ministero. Supposto adunque che lo stato in cui, anche colla legge di guarentigia, stia un Papa, venga in guerra ed in inimicizia con una nazione straniera, non permetterebbe certo la corrispondenza del Papa né coi Vescovi, né coi sudditi, né coi sovrani, temendo inganni e tradimenti. Ed ecco una nazione allontanata dal Supremo Pastore infallibile, necessario per la cattolicità della Chiesa, per la regolarità della disciplina, per la

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elezione dei Vescovi, per definire le questioni, per pubblicarvi encicliche, lettere, decisioni di congregazioni e tutto ciò che spetta la legge divina ed ecclesiastica. Non solo, ma la nazione nemica a quella in cui il Papa ha sede, temerebbe che il Papa, dalle pres- sioni del governo, di cui si deve dir suddito, manderebbe in momenti supremi, R forza, decisioni e decreti che la potrebbero osteggiare. Anzi più: la guerra può a tale prodursi da venir asse- diata la stessa città capitale. Ed ecco interrotte le comunicazioni con tutta la cristianità, così il capo sarebbe diviso dalle membra e ne verrebbe per tutta la chiesa quanto si è detto di una sola nazione. Ed anche in via ordinaria, lasciando la supposizione d'una guerra sempre possibile, dovrebbe temere lettere mutilate, impedite per vendette pubbliche o private, comunicazioni inter- rotte, vigilanze e perquisizioni. Ciò non è mia fantasia, ma è confermato dal fatto: Pio IX dice ai Cardinali il 29 settembre '70: « Ciò viene confermato da un fatto, recentemente accaduto ai dì passati, quando cioè coloro che uscivano dalla soglia del nostro domicilio furono sottoposti a perquisizioni, spiando i soldati del nuovo governo se mai nascondessero alcuna cosa sotto le vesti ». Né credo Pio I X un menzognero, uno che esageri; del resto il fatto viene attestato da molti. Ma ciò anche avvenne in febbraio '78 dopo la morte di Pio IX; peggiore scandalo apparì quando la Riforma nel 1887 pubblicò una nota secreta ai Nunzi Pontificii non pubblicata dai tipi cattolici perché non consegnata; come mai l'ebbe la Riforma? Dai Nunzii no certo, né dalla Segreteria di Stato; dunque o dal Ministero dell'Interno di cui è organo offi- cioso, o da privati ufficiali delle poste che la copiarono. Lo stesso anno giunse in Vaticano una lettera importantissima coi suggelli rotti, Crispi fece carpire un documento agli Archivi di Propaganda Fide e fece spiare I f i vita di un Cardinale: potrei citare molti fatti su ciò: ed anche che fossero esagerazioni dei cattolici, ciò è sempre possibile; dunque è un pericolo per la disciplina della Chiesa. Non parlo poi degli oltraggi fatti ai pellegrini forestieri in Roma; valgano per esempio il pellegrinaggio di Spagna il '93 e quello di Francia il 2 ottobre '92. In quest'ultimo si parla di una provocazione francese: il fatto è smentito; ma posto che fosse vero che un francese abbia scritto nell'albo dei nomi del Panteon W il Papa Re, se ciò era offesa di lesa maestà dovevano

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catturare il mal capitato francese e non destare sì violenta cac- ciata '. Ad ogni modo torto o ragione sono sempre incompatibili due autorità supreme in una città sola. Ma pure infine supposto che tra la nazione in cui il Papa si trova e il Papa corressero buone relazioni, non dovrebbero le altre nazioni temere di parzialità, di pressioni in vie amichevoli, non diffiderebbero del Papa non in ciò che è dommatico, perché in tale materia è infallibile, ma in ciò che è disciplinare e politico? Supponete un momento che il Papa se ne andasse in Parigi (e già lo ha detto nel concistoio segretissimo del '92, che se durassero le cose in tal modo lascerà Roma) e che il Papa fosse non nemico della Francia, ma amico: dite avrete tutta quella fiducia agii atti suoi, non dornmatici, ma politici, civili e disciplinari? Non temete la preponderanza per via di pressione e di amicizia che avrebbe la Francia nella Cri- stianità, come nei settant'anni d'Avignone?

p) Ma non basta: delineamo [sic] le relazioni che devono passare tra queste due autorità: l'uomo non è solo spirituale, ma corporale, e nulla pub percepire senza il ministero dei sensi: ciò posto è necessario il culto esterno all'interna religione; onde nella città dove risiede il Supremo Pastore, tutto deve rispec- chiare la città per eccellenza santa. Come pei Maomettani la Mecca, pei Russi Mosca, per gli antichi ebrei Gerusalernme, pei moderni giapponesi Ieddo, pei cattolici è Roma la Città Santa, dove risiede la suprema autorità. Or che ne dite della Città Santa, se ivi non vi è tutto l'organamento ecclesiastico, la gerarchia, lo splendor dei tempi. delle processioni, la pubblica decenza e mora-

2 Evidentemente Sturzo sbaglia data perché il pellegrinaggio in questione è del 1891. Nel settembre di quell'anno, a pochi mesi dalla promulgazione deila Rerum Novarum, si registrarono diversi pellegrinaggi di operai 'cattolici francesi in omaggio al papa. Gli anticlericali italiani giudicarono la venuta dei cattolici francesi, proprio in coincidenza deli'anniversario della presa di Roma, una provocazione. La tensione scoppiò quando, il 2 ottobre, tre pellegrini della Jeunesse catholique scrissero u W il papa » sul registro dei visitatori del Pantheon: i tre giovani furono arrestati, vi furono dimostrazioni di piazza ron lancio di pietre contro l'ambasciata f t incese e il treno dei pellegrini. Leo- ne XIII, per evitare nuovi incidenti, sospese i pellegrinaggi. L'incidente ebbe uno strascico in Francia quando i1 governo repubblicano tent0 di far ricadere sui vescovi la responsabilità del fatto. Cfr. A. DANSETTE, Histoire religieuse de lo France contemporaine sous la 111 République, Paris 1951, pp. 135-138.

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lità, insomma tutto ciò che rappresenta il luogo centro della reli- gione? Che ne dite voi se il Papa non può uscir libero di suo palazzo, senza incontrar colle ovazioni gli insulti? Senza vedere affissa la sua veneralida effigie, con sacrileghe indecenze su per le porte di Gargiulo o di Edoardo Perino? Passare di Piazza Campo di Fiori e vedere Giordano Bruno, un libero pensatore, eretico, morto impenitente e condannato dal suo tribunale (come si dice) colla famosa iscrizione: A Giordano Bruno - il secolo da lui divinato - qui dove il rogo arse? Passare per via Trinità dei Monti e leggere la famosa epigrafe a Galileo? Vedere tolta la Croce e profanato un luogo dal sangue dei martiri reso santo? Passare dal Campidoglio e veder tolta la Croce postavi da Costan- tino, andare al Gianicolo e trovare Gavazzi, monaco spretato, Garibaldi, il furibondo nemico dei Papi? Andare al collegio romano e vedervi sfregiato e tolto il SS. Nome di Gesù. E le pubbliche chiese protestanti e le indecenze e sconcezze della stam- pa e la libertà del mal fare? I1 Papa sarebbe rispettato dalle forze del Governo. Sicuro, ne è prova la notte del 13 luglio quando tentarono gettare la salma di Pio IX nel Tevere e quando i catto- lici che la difesero riportarono insulti e ferite in quella notte di inferno. Ricordate il centenario di Voltaire all'Apollo, quanti vituperi alla religione ed al Papato. Liverani che al '92 grida allo sferisterio: abbasso e morte a Dio; alla celebre litania avanti il Panteon: « Gregorio VI1 fu Papa D gridava uno, e la folla « sia maledetto »; « Giovanni VI11 fu Papa » ; « sia maledetto D; « Simon .Pietro fu Papa ... sia maledetto »; « Gesù Cristo primo Papa ... D. Cari giovani, quello che rispose la folla non lo dicono i demoni, i quali al nome di Gesù tremano ed adorano sforzata- mente; l'infame processione al Colosseo con l'apoteosi di Satana, la bandiera coll'insegna di Satana portata a Piazza Campo di Fiori e a Porta Pia, l'insediamento della Massoneria in Roma, nel Palazzo Borghese; le bestemmie di Colaianni contro 1'Imma- colata Concezione in pubblico Parlamento; Petruccelli della Gat- tina che il 18 gennaio '77 in Parlamento dice « Tu Pio IX come il tuo antecessore S Pietro menti, menti, menti; anatema sit D! E l'on. Mussi il 4 dicembre '76 disse alla Camera senza che il Presidente lo richiamasse d'ordine: Il vèro Dio del creato è l'intelligenza, nulla si è giammai creato nell'universo. I1 deputato

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Bertani il 9 dicembre '76 proponeva che le ossa delle Catacombe servissero per concimare l'agro Romano. Crispi, capo del governo il 20 settembre '95 al Gianicolo predica l'opera del Papa e s'im- panca a Maestro di Religione e proclama che alla Chiesa basta il solo Apostolato, come se un trigamo e un buffone di ministro ignorante di Religione possa dar legge e decidere delle cose della Chiesa.

Potrei citare all'infinito gli oltraggi che il governo fece e fa alla Religione ed al Papato; basta leggere gli atti ufficiali della Camera. Solo aggiungo che sotto Mancini la parrocchia di S. Am- brogio in via Merulaila fu sequestrata e vi lasciarono dentro il SS. Sacramento, senza messe, senza adoratori, senza lampade, sino alla corruzione delle specie; le dimostrazioni settarie del '72 alla Scala Santa, l'occupazione forzata di molti templi e la laiciz- zazione della Basilica di S. Vitale, dei SS. Nerei ed Achille, delle Chiese di S. Maria detto tempio di Vesta, del Panteon, e della maggior parte degli antichi monumenti mutati in Chiese; le scuole atee e irreligiose, gli istituti, gli spedali laicizzati, proibite le processioni del Coipus Domini, l'accompagnamento del Viatico, e lo scorso aprile io mi trovavo ll in Roma e fui testimonio di tale scelleraggine.

Si può chiamare Roma sede del Cattolicesimo? Possono stare così due autoriti così opposte, il Papa e la Massoneria a cui anche appartiene il Re Umberto? Voi vi maravigliate, ma il Re Umberto appartiene alla Massoneria. Sentite il documento; non è un giornale cattolico, ma la rivista del mondo massonico, seme- stre primo: vi si legge al n. 4, se non mi ricordo male: « La ri- spettabile loggia Le silence sotto l'ubbidienza del grande Oriente del Messico, all'oriente di Tampico, avendo indirizzato all'illu- stre fratello Umberto di Savoia Re d'Italia una tavola di felicita- zione per la sua eroica condotta mentre infieriva il colera a Napoli, ha ricevuto dal reale fratello una graziosa risposta, colla quale egli ringrazia la loggia Le silence dell'onore che essa gli ha fatto iscrivendo a lettere d'oro all'oriente del Tempio di quell'officina P.

E posto che non sia vero, 300 e più, dice il Margiotta, erano lo scorso anno i niassoni al Parlamento; massoni sono Crispi, Carducci, Bovio, Villa; massoni erano Rattazzi, Mancini, Lanza e molti altri. Sono liberi i governi nella religione, dite voi; dato

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e non concesso, che ve ne parrebbe se nella città di Maometto s'insediasse un re cristiano vicino al Sultano Pontefice di Mao- metto, e ivi si direbbe è la città di Maometto, ma se tutta la città, eccetto le moschee, a cui si toglierebbero però le rendite, avesse l'aspetto di Cristiana? Sarebbe la più amara irrisione, come sta divenendo irrisione Roma, la capitale del mondo cattolico.

IV. Ma ho detto l'esterno; è poco: il Papa è il Capo Spi- rituale della Religione, libero, come dicon le guarentige. Sia pure: un capo deve avere le braccia e le altre membra per essere coadiuvato nel suo ministero, voi ne convenite; però in Roma sono soppressi gli ordini religiosi, i veri soldati del Papa: per- che? perché il governo italiano è un governo cattolico; in Roma tutti i giovani van soggetti alla leva, quindi meno il numero dei sacerdoti [sic]; in Roma chiusi i Seminari, in Roma tolti i beni alle congregazioni, alle opere pie, al collegio di Propagandn Fide, che pensa a dilatare il regno di Cristo per le lontane regioni, tolte le rendite alle Romane Congregazioni, ai Cardinali, al Papa, a cui con amara irrisione offre i 3 milioni, che il Papa ha sempre con dignità rifiuiato. Onde è necessario l'obolo dei fedeli, detto denaro di S. Pietro, su cui il nostro religioso governo propose in Parlamento, per mezzo del furibondo Mancini, la tassa di ricchez- za mobile (non ricordo se dal Senato o dal Parlamento stesso rigettata).

Ma ancora: la città di Roma è la sede del Papato; però il governo ha per base la libertà del voto: oggi può essere che vi sia un Rudinì moderato, domani un Mancini o un Crispi vio- lento. Le relazioni tra Papa e re non dipendono dalla volontà di ambidue, ma dalle passioni del parlamento e dalla politica del ministero. Bonghi parlò a favore delle guarentigie, ma Petro- ni al1781 volle che si abolissero le guarentigie. Mancini caldeggiò nel '77 e fece votare dal parlamento, respinta dal Senato, la legge contro i preti. Tutti ricordiamo le celebri circolari Nicotera al '76 per la proibizione delle processioni, giudicate dalla Cassa- zione di Torino illegali, le circolari del Prefetto di Roma contro i frati e le monache, la legge Mancini per l'abolizione dell'inse- gnamento religioso nelle scuole liceali, ginnasiali, tecniche e ncr- mali, la circolare Nicotera contro i pellegrinaggi per festeggiare

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il giubileo di Pio IX, il codice penale Zanardelli. Pio I X pronun- ciò un'allocuzione ai cardinali contro gli usurpatori della Srantal S[ede] e il progetto di legge contro gli abusi del clero e Mancini il '77 emana una scandalosa circolare, comandando di non ubbi- dire ai precetti del Papa, e permette fin che si parodiasse l'allo- cuzione predetta con invereconde illustrazioni. Tutti ricordate la circolare Mezzacapo sul matrimonio religioso, piena di errori contro la nostra fede, il progetto di legge Villa sulla precedenza del matrimonio civile, il decreto di Pel lou o di altro che non ricordo, firmato dal re, che dichiarava concubinato il solo matri- monio religioso dei militari.

Mancini il 19 agosto '77 tenta di rendere popolare la elezione dei parroci, contro i canoni del Concilio Tridentino, e Crispi che porta a Bismarck il progetto di legge per aver l'approvazione se ne torna colle pive nel sacco. Non racconto con ordine perché scrivo come mi ricordo. Tutti sapete il governo Crispi, le leggi sulle opere pie, le decime parrocchiali, i soldati attorno il Vaticano, temendo la fuga del Papa, I'incameramento dei beni di propa- ganda, ed altro che ho già detto. Se ho esagerato lo vedrete leg- gendo non gli storici cattolici, come il Bonetti, il Balan, il Ma- miani, il Margiotta, il Carletti, il Petroni, il Cantù e mille altri, ma gli atti ufficiali della Camera, il bollettino delle leggi, i gior- nali liberali; o quando andrete a Roma potrete per le vie della città santa, sede del Cattolicismo, accorgervi ch'è mutata in città laica ed empia.

Si dice infine, e lo disse Crispi al Gianicolo nel suo tanto famoso quanto infelice discorso, che il Papa in questi 25 anni ha avuto gloria superiore di quando teneva il temporale.

Rispondo, che la Prowidenza .avrà voluto colmare di gioie i pontefici, d'obbrobri e vituperio dai governi e dalla plebe colma- ti [sicl non fa meraviglia: ma questo non toglie che lo stato della Chiesa è anormale; tranne che non si voglia dire stato normale della Chiesa i trecento anni sotto gli imperatori di Roma, quando i Pontefici e la chiesa nascente dovette fug& la luce e trovar riparo nelle catacombe, e milioni (...) a.

La parte rimanente del testo & tratta dal secondo manoscritto, probabii- mente una prima bozza, anch'essa incompleta.

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Riepilogando: la libertà concessa agli Stati moderni del voto, della stampa, dei parlamenti, delle scuole, è una libertà che giuridicamente non può stare nella città santa dei cattolici, e vada l'una altrove u l'altra. E' necessario uno Stato libero al Papa; sarà piccolo, deve essere però un centro del mondo, ove meno difficilmente possano andarci i cattolici. Come i greci sci- smatici richiamerebbero i loro diritti se Mosca divenisse capitale di un regno cattolico, come i Maomettani cercherebbero di ripren- dere la Mecca se vi s'insediasse un governo ateo o buddista o cristiano, come gli antichi ebrei difesero mille volte la loro Geru- salemme, cosl i cattolici di tutte le nazioni hanno un diritto in Roma, diritto che non sarà mai perduto, se non quando cesserà la religione di Gesù Cristo.

Dunque han ragione i papi di protestare contro la presente occupazione del governo italiano, non solo dal lato politico ma

' dal religioso; ancora hanno diritto i vescovi dell'orbe cattolico, hanno diritto tutti i cattolici, si chiamino clericali, antisemiti [sic] o con altri termini, perché è un diritto comune.

Adunque, stando così le cose, noi cattolici siamo in dovere, quali esse siano le convinzioni storiche o giuridiche, di non stac- carci dalle prescrizioni che i nostri Pastori e il Papa ci danno, cioè l'astensione dalle urne politiche, il propugnare le opere cat- toliche, il non consentire alle usurpazioni dello Stato. Noi non siamo chiamati a definire la questione, né a ribellarci al governo, cose proibite per noi; solo a ubbidire al Papa. La questione la scioglierà Dio quando e come vorrà, e se noi sarem chiamati a parte dell'opera divina, vi accorreremo.

I1 potere temporale dei Papi non è uno domma di fede, quindi non siamo obbligati a crederlo ciecamente, ma è una verità naturale collegata alla verità di fede. E' verità di fede che il Papa deve essere libero nell'esercizio del suo ministero; ora per essere libero è stato dimostrzto che nello stato attuale di cose deve avere un libero Stato. Dunque questa conseguenza si collega con una verità d'ordine superiore. Del resto noi siamo soggetti al Papa; quando egli dirà che alla Chiesa per l'esercizio del suo ministero non è più necessario il potere temporale, e ci darà facoltà di accor- rere alle urne, noi saremo i primi ad accorrere perché l'Italia non cada sotto il peso deli'iniquità.

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Ho tracciato la condotta dei veri cattolici in questa scabrosa questione, perché non si dica che noi facciamo mistero degli obbli- ghi che v'incombono. Non sarete obbligati a credere al potere temporale, ma solo a sottostare ai comandi del Papa. Egli è su- premo duce; dal suo lato sono tutti i vescovi e tutto il mondo cattolico; se sbaglieremo, avremo l'onore di sbagliare col Papa, coi vescovi, coi cattolici, con Dio.

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PER IL lo ANNIVERSARIO DELLA SEZIONE OPERAI S. GIUSEPPE

E PER L'INAUGURAZIONE DELLA COMPAGNIA DEL VEN. N. SULPRIZIO IN CALTAGIRONE l

( f . 149, C. 14)

Eccellenza, Signori,

I. Oggi è un anno, e nella sagrestia di S. Giorgio, dietro I'impulso del Comitato Interparrocchiale di questa città, si adu- navano diciotto operai non illustri per natali e per censo, dalle mani incallite al lavoro, ma di una fede viva e ardente, e di un cuore che sente l'amore per la religione e l'umanità; i quali unen- dosi coraggiosamente all'opera dei Congressi e Comitati Catto- lici, che in venti anni ha invaso l'Italia, ed anche in più luoghi ha soggiogato la Massoneria, costituivano la Sezione Operai S. Giu- seppe del Comitato Interparrocchiale S. Giorgio.

Nessuno che seppe di questa istituzione moderna s'imprp metteva veri frutti di bene; però i ferventi operai che la compon- gono, guardarono nell'esempio dei loro fratelli d'Italia, fermi nel loro proposito di combattere per la fede di G[esù] CCristoI, si sono incarninati [sic] per una via d'azione che fa molto sperare. Avete già udito la relazione che ne ha fatto il Segretario; franca professione religiosa, istruzione, disciplina, carità fraterna reg- gono gli animi di questi buoni operai; i quali dopo un anno, ben pensando alla generazione che viene, hanno istituito una Compagnia di fanciulli; che, educati nella religione e nella virtù,

1 Discorso manoscritto datato: Caltaguone, 24 settembre 1896; alla fine del manoscritto Sturzo annota: « letto li 27 sett[embre] 1896 nella Chiesa del S.S. Crocifisso avanti l'Ecc. Vescovo, il Vicario, il Comitato e la Sez[ione] e la Compagnia Venrerabile] N[unzio] Sulprizio e gli invitati m.

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tenuti lontani dai cattivi compagni con giuochi ', ispirato nel loro animo lo spirito d'azione, saranno i futuri campioni di que- sta Sezione. Operai. La ricorrenza adunque della fondazione della Sezione, e la inaugurazione di questa Compagnia di fanciulli stasera si celebra e voi che onorate di vostra presenza questa nascente istituzione e ne incoraggiate i passi, mi permetterete che vi parli deit'educazione del popolo e del fanciullo all'azione cat- tolica, come la speranza viva della riforma sociale. E voi, buoni operai, membri deila Sezione, nel ricevere questa sera il dovuto plauso d'opera vostra, pensate, che se a grandi fini vi ordina la Provvidenza, vi dovete rendere ben degni di compierli con l'azione costante ed assidua. Questo plauso e questa festa non sia per voi che sprone a meglio istruirvi e disciplinarvi alle lotte che si dovranno sostenere per la religione e per la patria '.

11. Signori, l'indifferenza religiosa è la piaga della nostra Sicilia; forse per tradizione di tempi, nei quali non alla lotta per la fede degli avi ', ilia ad, una vita domestica e casalinga erano gli animi educati '; ai mutamenti sociali ci trovammo impari alle nuove sorti, e poterono i pochi audaci di tutto osare, per togliere dai nostri cuori l'avita religione. E sin oggi, benché l'esempio dell'Italia, e la voce di qualche fervente cattolico ci apprendesse quanto possa l'azione coraggiosa e costante ', a nulla valse a destare dal torpore gIi animi scoraggiati e affranti. Tutto cedette senza contrasto alla Massoneria trionfante; ed ora lagrimando ci accorgiamo quanto ci sia stata amara la inerzia di tanti anni. E

" A margine si legge: « e con aitre ricreazioni B. Questa e le successive annotazioni a margine sono apposte da un medesimo correttore, molto proba- bilmente ii fratello Mario, la cui sigla appare a fianco del titolo.

3 A margine si legge: «Trapasso stentato. Si muti costrutto per evitare simmetria inopportuna >>.

4 Brano cancellato: « Se le mie forze non corrisponderanno all'altezza del- l'argomento, spero dalla bontà vostra, o Signori, un largo venia ». A margine si legge: « I1 punto a cui si lega, cioè la prep., è troppo lontano. Onde pare accademico e retorico. Si tolga n.

Brano cancellato: u amata e custodita P. A margine si legge: u è su- perfluo e fuori posto *.

Brano cancellato: u 'al riposato viver lieto' erano indirizzati i cuori, e l'educazione dei nostri pari era un'educazione domestica e tranquilla B.

A margine si legge: « contro il mal inteso progresso, tuttavia n.

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oggi che all'appello forte del Supremo Pastore alcuni anche tra noi vogliono a prova mostrare l'ubbidienza ai voleri della Sede Apostolica, e discendere sull'arena a combattere le nuove batta- glie del Signore, e organizzarsi, unirsi in comitati, anche oggi sorge ostacolo potente al buon volere dei pochi, l'indifferenza. Anche buoni cattolici, che spesso vanno in Chiesa a pregare ', si negano ascriversi al Comitato Parrocchiale, perché (essi dicono) non vogliono pigliarsi noie e brighe soperchie O. Bisogna insistere, scuotere questi inerti, che non conoscono che il cristiano ha il dovere per quanto put di propagar quella fede che lo rende tale.

Sì, scuotere quest'inerti: perché l'indifferenza ha tra noi profonde radici; perché l'indifferenza f un male che non mostra il brutto suo aspetto e molti inganna; perché l'indifferenza è un male quanto è male il vizio. Anzi S. Agostino diceva che l'apatia, per cui nessuno affetto si sente, è peggiore dello stesso vizio. L'indifferenza è come l'acqua non battuta che appesta l'aria e uccide il viandante; perché là dove è bisogno di vita e moto, l'inerzia è morte: onde a ragione il CardinaI Rampolla diceva anni or sono che la sua Sicilia è mare morto.

Quale pietà invero, quale religione può essere in questi spi- riti morti, ai quali i mali presenti, le catastrofi awenire non fanno orrore, e si cullano in una speranza inefficace di bene, in- vocando la Prowidenza?

Male all'uopo invocata, perché il Signore ha detto che sarà coronato chi combatte; male all'uopo invocata quando nessuno può pretendere il divino aiuto senza cercarlo. Queste anime fred- de o non conoscono i mali che loro sovrastano, o non sanno i doveri che loro incombono, o credono che il cattolico sia sol buono a lamentarsi dei tempi. I tempi siamo noi, o Signori; se siamo buoni, buoni saranno i tempi; e se cattivi e indifferenti al male, cattivi i tempi. Oggi è tempo di scuotersi; e d'imitare nel bene quanto i nostri nemici han fatto di male lo: ecco i tempi presenti, pel cattolico. Lo ha detto il Papa, lo han ripetuto i Ve- scovi, lo han mostrato a prova le migliori città d'Italia; gli effetti

8 A margine si legge: « e si accostano non di rado alla S. Messa D. Q Brano cancellato: u E se oggi vi dicono SI per amicizia, domani vi

piantano senza che abbiano onorato di lor presenza i Comitati ». 'O A margine si legge: u Bello! B.

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di questa azione sono salutari, i beni che derivano alla religione e alla società immensi; la lotta è già ingaggiata, e noi dobbiamo rispondere. Ecco i nostri tempi.

Però, o Signori, è necessario che vi manifesti una mia idea: io credo sia vano far conto per I'opera nostra del cattolico indif- ferente, colla speranza si scuota e si metta all'azione. Forse cin- que, dieci, venti, che conservano viva la fede, si metteranno al- I'opera: non spero altro. La stampa, le conferenze, l'esempio, i frutti che potrà dare l'azione cattolica, tra noi così incipiente, poco o nulla varranno a destare quell'apatia, che la stampa cattiva, pasto quotidiano dei nostri cattolici, che le abitudini inveterate, che le agiatezze di famiglia, che il vivere riposato, han già da lunga pezza nel loro animo prodotto.

Che si speri da costoro, o Signori, è vaneggiamento, è sogno. Lasciamo che i morti seppelliscano i morti. Se vengono, che siano i benvenuti; se ci aiutano, accettiamo di gran cuore i loro aiuti: ma che si fondi su costoro la nostra speranza di azione, oh! non mai. Cani muti che non sapranno latrare, sotto velo di prudenza, si nasconderà l'inerzia; sotto il manto di religiosità, si avrà solo l'egoismo, che domina in Italia la classe colta.

Guardiamo piuttosto le vive forze che ci rimangono, esami- niamole bene e facciamo conto di quelle.

111. Ai nostri giorni non vi è più l'antica aristocrazia: essa mancò 'al mandato datole dalla Prowidenza, e le maledizioni piowero sul suo capo. E a parlare della nostra città, vediamo tut- tora gli effetti delle fatidiche parole dello Spedalieri: chi ha perduto gli averi, chi è morto senza eredi, e chi ramingo esulò da Caltagirone tentando nuove sorti in Catania, Palermo, Napoli e Parigi. Questa classe adunque o manca affatto, o costretta dalle nuove istituzioni si è accomunata alla borghesia dominante.

La borghesia, cresciuta sui ruderi delle antiche istituzioni, coi suoi delitti, coi suoi inganni, coll'avere sfruttato le nazioni, si è resa esosa: disconobbe la religione che perseguitò; chiamò patria il proprio egoismo; ora sta per cadere sotto i colpi del popolo rivendicatore. La via è preparata, e molti discendono al popolo colle associazioni democratiche. In Sicilia la borghesia

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tuttora conserva il doppio carattere d'irreligiosità e d'egoismo. Già ho tolto dalla statistica gl'indifferenti

« a Dio spiacenti ed ai nemici suoi D.

Devo togliere gran parte della presente studentesca, irnbe- vuta dei principi del liberalismo che muore l'. E mi resta un pugno di buoni cattolici borghesi e studenti, in molte parti uniti in Comitati; il popolo e la generazione nascente. Ecco le nostre forze. I1 pugno franco dei cattolici borghesi servirà di puntello alla nostra azione; servirà di guida coi lumi della scienza, di mezzo coi danari, di esempio col nome. Questo è il suo mandato: però essi soli non sono la forza, ma la speranza dell'opera nostra. Bisogna riedificare l'edificio sociale cattolico che il liberalismo ha in breve tempo distrutto.

IV. Lo scopo dei nostri Comitati e delle nostre Sezioni, voi lo sapete, o Signori, è fare ridestare nelle famiglie e nella società lo spirito cristiano, che la rivoluzione, o meglio la Massoneria, ha tentato spegnere nei nostri cuori. A noi non è stato mandato tentare le rivendicazioni sociali colle spade, o la dinamite, ma di penetrare fino l'intimo delle sociali istituzioni colla croce di G. Cristo neUe mani; con quella croce stessa, o Signori, che la massoneria tolse dalle aule scolastiche colile dalle aule dei gover- nanti; con quella stessa croce che l'on. Salvi avanti i suoi fanciulli delle scuole elementari voleva gettare in acqua bollente; con quel- la stessa croce che posta da Costantino sul Campidoglio ad indi- care il trionfo di Cristo sulle barbarie del paganesimo, fu dai con- siglieri romani dopo millecinquecento. più anni tolta per porvi il pagano simbolo di Minerva con I'elmo, l'asta e lo scudo. Insen- sati! l'elmo, l'asta e lo scudo della Minerva moderna, hanno a prova mostrato in ,Africa quanto siano irruginiti e fragili! Questa croce adunque scandalo ai giudei e pazzia ai gentili, a noi però gloria e salute, deve ritornare a brillare dal tugurio del povero alle corone dei re.

11 A margine ,si legge: « Questa conclusione così a colpo e che poco si lega al precedente, non istà bene. Né certo quest'indifferenti sono l'aristocrazia che non C';, o la borghesia che s'è dipinta awersa alla relig[ione] D.

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Però questo compito non è dell'aristocrazia che è sparita, non della borghesia che lo ha demeritato, ma del popolo. Forza latente il popolo, a cui fu promesso l'età dell'oro, dai disinganni e dalla miseria che I'opprime, sorge invocando nuovo ordine di cose. E siccome è facile agli entusiasmi 12, è sempre stato stru- mento dei mestatori e dei metti male. Sente però nel cuore la religione dei nostri padri; quella religione che gli rende dolce il lavoro delle braccia, che gli al!ieva il dolore e l'ambascia, che lo solleva a maggiori speranze, quando dopo il lavoro si trova senza il pane da sfamare i figliuoletti. E quand'anche il popolo non abbia istruzione soda della religione, ne ha il sentimento e lo spirito; che può per lo spesso offuscarsi; che dalle passioni può farsi tacere; ma che nei momenti supremi ritorna vivo nel cuore. Se oggi io dicessi che un pastore protestante sia venuto in Calta- girone a disseminare errori, il professionista, il borghese, il catto- lico indifferente si stringerebbero le spalle, e direbbero fra' denti: troppo zelo! Ma se lo dicessi al popolo 13, o Signori, potrebbe forse eccedere.

Questo elemento adunque bisogna istruire ed educare. Istruirlo nella religione, che benché senta " non la conosce appieno, e non è in grado di poter evitare gli attacchi dei liberali e dei massoni; istruirlo non solo per una conoscenza privata l5 che gli regoli la coscienza e la famiglia, ma per una conoscenza pubblica, perché possa nel momento che il popolo è chiamato ad esercitare i suoi diritti, farla rispettare; perché sappia propagarla come i primi cri- stiani, non più tra gli eculei e gli olii bollenti, ma nelle officine tra i frizzi dei compagni, nelle associazioni tra le irrisioni dei liberali, nelle amministrazioni tra il livore dei massoni.

I1 popolo, o Signori, è con noi, e sente che la sola religione lo salverà; poiché, quantunque poeta, è insieme logico, e vede che il liberale lo ha sfruttato, che il socialista non fa che ripetere sotto nuova forma le auree promesse già fatte dal liberale: la sola reli-

l* A margine si legge: « e si fa guidare dal più largo promettitore (che sempre è il più manchevole) n.

l3 Brano cancellato: « per la fede dei padri n. A margine si legge: « Oscura collocaz[ione] e costm[ione] n.

l4 A margine si legge: « scorretto n. l5 A margine si legge: « Conoscenza privata? poco proprio D.

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gione, che non mente, non viene a dare speranze di regni e di beni, non jnganna con la menzogna e col dolo, non dipinge a rosei colori un awenire impossibile per ingannare le turbe; ma seguendo i tempi, migliora le istituzioni, indirizza le menti, forma i cuori, ed apre in cielo guiderdone ai lavori [sic] e all'onestà.

La religione adunque non stia come sequestrata in Chiesa, ma come salvò la famiglia e la società nelle monarchie pagane, salvi ora la famiglia e la società nei regni costituzionali e nelle repubbliche apostatate da Dio. E l'empio detto di Cavour, libera Chiesa in libero Stato, per forza dell'azione costante del popolo cattolico si muti in quell'altra: lo Stato nella Chiesa. Come non può dividersi l'uomo in corpo indipendente dall'anima, come non deve dividersi l'anima in volontà indipendente da ragione, così non può né deve dividersi il cittadino dal cristiano. Ma come ognuno ha diritti nella famiglia che lo stato non può impedire 16, ma deve rispettare, cosi ha diritti nella Chiesa, che lo stato non deve conculcare, ma proteggere.

Lungo è il cammino e lontana la meta, non c'illudiamo; e mal si appone chi crede fabbricare in un giorno un nuovo edifizio sociale. Ma quanto la lunghezza del tempo e la fortezza degli ostacoli ritarderanno la vittoria, tanto dobbiamo con maggiore energia organizzare il nostro popolo, istruirlo, indirizzarlo agli alti e santi fini del cattolicismo militante, guidarlo all'azione: allora potremmo sperare nella Prowidenza che si avvicini l'ora della rivendicazione legale del cattolicismo.

V. Pure ancora un altro passo. L'uomo è anima e corpo; e se per I'anima aspira a quel

cielo che i liberali han cercato chiudere ai cuori dei popoli, pel corpo ha bisogno della terra, che i liberali hanno sfruttato con le tasse, colle banche, col monopolio 17. L'uno e l'altro, lo spirito e il corpo, han bisogno di guida; e alla religione corrisponde non le usure dei liberali giudaizzanti, non la dinamite degli anar- chici o il collettivismo dei socialisti, ma il lavoro e I'onestà. Sì, il lavoro e I'onestà: non sarà mai che l'uomo si liberi in questa

'6 A margine si legge: « circoscrivere o violare S.

l7 A margine si legge: « non sarebbe meglio plurale? improprio e oscuro D.

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terra dalla pena da Dio inflitta ad Adamo prevaricatore: in sudore vultus tui vesceris pane. Però oggi che per dissennate am- ministrazioni e gjudaiche usure il popolo languisce nella mise- ria, solo l'onestà dei cattolici, che chiamano il popolo in associa- zioni di mutuo, in cooperative di consumo, in casse rurali, in banche cattoliche, in monti frumentari, può risolvere la crisi sociale, che mal si argomentano tentar di sciogliere i socialisti. Con tali associazioni il popolo, se da una parte potrà godere in più eque condizioni dei beni che la natura provvida ci ha dato, potrà anche scuotere il giogo morale dell'usura, che mentre stroz- za le fatiche dell'operaio, ne toglie la libertà dei propri convin- cimenti. Sì il bisogno

« tiranno signore dei miseri mortali >>

è il peggior consigliere che spesso fa mettere in non cale onestà e religione. E gli ebrei, gli usurai, i faccendieri delle banche ne usano e ne abusano ls per pervertire il popolo, per soggiogarlo ai loro voleri, per farne forte strumento delle passioni politiche a danno della Chiesa e della Patria. Ma quando con tali istitu- zioni di credito e di previdenza viene tolto il popolo dal giogo dei liberali, sarà più libero e meno impacciato dai bisogni della vita nella lotta che si deve intraprendere per la Chiesa e per la Patria.

Non posso non ricordare a proposito il tirannico atto del conte Paolo Camerini in Piazzola sul Brenta, che giorni or sono, alla fine del secolo detto della libertà vieta ai suoi dipen- denti, colla minaccia di dar loro disdetta, di ascriversi alla Cassa Rurale cattolica. Però bisogna confessare che questa intolleranza liberale va producendo la riscossa del popolo che si è diviso in due forti schiere, cgttolici e socialisti. Gli uni, i cattolici, che stentando sulla terra, guardano con occhio di speranza' il cielo; gli altri i socialisti, che lasciano la [...l le e guardano con occhio livido i ricchi, sognando tesori. Le due organizzazioni, la prima che ha per mira il cielo, pur avendo bisogno della terra, la secon- da che ha per mira la terra lasciando il cielo, saranno quelle che si contenderanno palmo a palmo l'awenire. I1 trionfo sarà nostro,

ls A margine si legge: u Usar del bisogno? non proprio S.

lo Parola illeggibile.

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o Signori, perché da noi sta la verità, perché da noi sta i . Papa, Vicario infallibile di G[esù] C[ristol , perché da noi sta la Croce, trionfatrice del mondo; in hoc signo vinces: ma bisogna prepa- rarci [sic] alla lotta, e prepararvi le generazioni nascenti.

VI. Si, o Signori, le generazioni nascenti. Da poco tempo ridestati dalla inerzia di quasi mezzo secolo non troviamo che rovine, e bisogna cominciare da capo. 1 liberali hanno con grande impegno invasa l'educazione, che un tempo era in mano del prete; e questi fu cacciato dai convitti e dalle cattedre; la reli- gione fu tolta dalle scuole secondarie e solo rincantucciata, se i padri lo vogliono, nelle classi elementari.

Posero invece del prete maestri atei e massoni; diedero in mano ai giovanetti libri cattivi e giornali pessimi. Han fatto della scuola la politica per discreditare i Papi, la religione, per mettere in ridicoli i dommi. Quindi frutti della scuola laica i fanciulli delinquenti. suicidi, duellanti, immorali, irreligiosi. Non mi fer- mo su questo quadro spaventevole: la statistica dei delitti della gioventù moderna è raccapricciante; onde molti presidenti di tribunali, come quelli di Torino, Napoli, Palermo, nell'inaugu- rare l'anno giuridico, ebbero a confessare che non si può scom- pagnare la religione dalla moralità.

Ma che dico i presidenti dei tribunali? fin le stesse gaz- zette liberali nei loro lucidi intervalli han dovuto. alla vista di tante nefandezze negli anni più teneri ripetere con Lamartine: « Nulla awi di più schifoso e di più empio di un potere civile che si colloca tra Dio e l'anima di un popolo ». E giorni [or] sono la Trzbuna, pur con fini maligni, scriveva: « la cronaca della criminalità è semplicemente esorbitante; ...q uesto fenomeno tur- ba profondamente l'economia morale ciel nostro paese, e lo awi- lisce (ponete mente a queste parole) e lo avvilisce, se è possibile ancora di più, di fronte a tutti gli altri paesi civili >>'O. E bene a ragione, perché, come diceva Gioberti: « L'età moderna è aliena dal Cristianesimo, non in quanto è civile, ma in quanto è tutta- via barbara ».

20 Cfr. La Pubblica Sicurezza in « La Tribuna P del 13 settembre 1896. L'articolo lamenta le carenze del governo e della questura di Roma di fronte ali'espandersi della criminalità.

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Ah! se i cattolici fossero stati uniti in associazioni e aves- sero avuto cura della gioventù, che con cinismo o incoscienza ha dato in mano ai liberali ed ai massoni, già avremmo una genera- zione adulta di cattolici franchi, e non saremmo così stremati di numero e di forze. Ma è d'uopo rassegnarsi, e più che lamentare il passato, pensare all'aweniie.

L'avvenire è nostro, ma quante volte si svolgerà lo sguardo alla gioventù; l'avvenire è nostro, ma quante volte si avrà a cuore l'educazione del fanciullo; altrimenti i nostri Comitati e le nostre Associazioni cattoliche non potranno sperare che per loro suoni l'ora della vittoria. E qui vorrei la lena e l'efficacia di un oratore, e vorrei gridare ai cattolici, anche agl'indifferenti: par vero che in Caltagirone non si sia mai cercato sul sodo di fondare un istituto di gesuiti o di salesiani per la gioventù? Par vero che in Caltagirone, città numerosa e sin poco tempo fa pia e fervente, non avesse cercato stabilire un oratorio festivo per gli artigiani? A che valgono mai, o Signori, i nostri sforzi; a che le nostre feste e le nostre pompe religiose, quando è trascurata la religione proprio allora che entrando in teneri e innocenti cuori, può determinare al bene le cognizioni di uno scienziato, la coscien- za di un professionista, l'onestà di un operaio?

Chi la religione non l'apprese fanciullo, come la insegnerà nelle cattedre di maestro, come la difenderà nelle aule dei muni- cipi, come indirizzerà la famiglia, come regolerà la società?

Signori, mi si schianta il cuore: è un fatto ormai innegabile che la Massoneria cerca i giovani per accrescere le proprie fila: e i nostri giovani, da bambini educati senza Dio e senza catechi- smo, cresciuti tra le seduzioni di una rea lettura, imbevuti dei filosofemi dei sedicenti scienziati, o ascritti a società liberali e a circoli politici, finiranno per dare il nome alla Massoneria. E anche che non si arrivi a questo termine, Signori, a voi, a cui sta a cuore l'avvenire della nostra patria, domando: Che sarà della terra nostra quando cessati di vivere coloro che, già avanzati in età, soli o con pochi conservano l'antica fede e l'educazione sobria e intemerata dei padri nostri, alla generazione presente, che prova gli effetti di trentacinque anni di corruzione e di errori, verrà una gioventù cresciuta tra il cattivo esempio dei padri, gli errori della scuola, la corruzione della società? Che sarà mai? Se ora

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piangiamo gli effetti di uno scompigliato progresso, e la famiglia traballa dalla saldezza dei suoi vincoli, le amministrazioni crolla- no dalla mala coscienza degli amministratori e il popolo perisce dalla ferocia dei suoi strozzini, che sarà domani se il riparo non è pronto, efficace, che sarà quando la presente gioventù salirà al comando?

VII. Da queste considerazioni costretto, un plauso si solleva dal mio cuore a questa Sezione Operai S. Giuseppe. E' un anno che è sorta, e tra difficoltà di ogni parte, ha mostrato l'energia del carattere cristiano ed il sentimento religioso. Ed oggi s'incam- mina con nuovi auspici per una via non battuta fin qui, nuova per noi, ma sicura e che riuscirà alla vittoria. Però la sua cura principale è stata la gioventù popolana, abbandonata da tutti e stimata come l'infima parte della società. Pur questi fanciulli, questi giovanetti, hanno un cuore come il nostro, anzi p i ì~ inno- cente; hanno un fine soprannaturale come lo abbiamo noi, e perché deboli e ignoranti delle vie della religione e della società però più degni d'aiuto. Perciò la Sezione Operai cominciò lo scorso anno insegnare il catechismo nella parrocchia S. Pietro; ma vedendo come è necessario non so10 istruire la mente ma for- mare il cuore della gioventù, istituì questa Compagnia sotto la protezione del Ven [erabile l Nunzio Sulprizio.

Giovanetto napolitano nella prime metà di questo secolo Nun- zio Sulprizio visse oscuro in un'officina di fabbro ferraio, dileg- giato dai compagni e dal crudele patrigno, una vita di lavoro e di sacrifizio, e a diciotto anni volò al premio del cielo. Questi, o Signori, sono gli eserripi da dare al nostro popolo non i Garibaldi, e i 'Caservio; a questa disciplina e virtù vogliamo educato il popolo, con questa istruzione potremo sperare rigenerare la società, infralita nei vizi e nella corruzione, che la Massoneria a larga mano ha disseminato. E costoro saranno i campioni della azione cattolica. Popolo e gioventù presi di mira dalla Massoneria devono essere il nostro esercito contro la Massoneria. E' già scoc- cata l'ora della riscossa, e le nostre campane sicule devono suo- nare nuovi vespri, non contro un popolo oppressore, ma contro la massoneria tiranna delle coscienze.

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Volgete, o Signori, lo sguardo a Trento; la città del Concilio che sfolgorò Martin Lutero, è ora la città del Congresso che sfol- gora la Massoneria. Ivi s'inaugurò tra il plauso delle nazioni che gemono sotto l'incubo dell'idra infernale, coi rappresentanti dei cattolici di tutto il mondo " sotto l'impulso del grande Leone XIII e il plauso di tutto I'episcopato cattolico; ivi i campioni dell'azione cattolica, ivi i massoni convertiti sono accorsi, e si sono stretti al Vaticano per gridare: la Massoneria: ecco il nemico 22.

Società perfida, tenta paganizzare il mondo e tirarlo all'empio culto di Satana, la Massoneria, arrivata all'auge della sua potenza, sarà il colosso di Nabucco, che cadrà al lieve urto del sassolino. Nessun cattolico adunque neghi di pigliare le armi contro il verde vessilio della Massoneria; nuovo islamismo che ha invaso l'Europa, anzi il mondo; nessuno dica d'avere faccende soperchie, nessuno accusi i tempi per scusare la propria inerzia.

Tempo verrà, non è profezia quella che faccio, ma argomento certo, dedotto dall'esempio delle generose città d'Italia, che anche Caltagirone, se lo zelo vostro o cattolici che mi ascoltate non sarà meno di quello degli avi, potrà anch'essa scuotere il giogo masso- nico che la tiene oppressa. Grandi sono le difficoltà, non lo nego, poiché, per nostra sventura, Caltagirone, la città di Maria del Ponte, di Maria de Cunadomini, di S. Giacomo e della B. Lucia, è. una delle principali sedi della Massoneria sicula.

Erta adunque è la via, mancano i mezzi, molti sono gl'indif- ferenti e i Nicodemi che cercano Gesìi di notte; ad ogni opera che imprendiamo ci attraversa un ostacolo: ma chi la dura la vince. Generosità, costanza, fiducia in Dio; e se Dio è con noi, chi contro di noi? Guardiamo gli altri fratelli della Sicilia, che fra giorni si aduneranno anch'essi in congresso a studiare i mezzi

21 Brano cancellato: anche deil'irnperatore d'Austria Ungheria D. 2' Si tratta del I congresso internazionale antimassonico celebrato a Trento

dal 26 al 30 settembre 1896. I1 congresso, promosso da personalità del mondo cattolico italiano e austto-ungarico, si articolò in quattro' sezioni: dottrina massonica, azione massonica, preghiera, azione antimassonica - Cfr. «La Voce della Verità n del 26 e del 30 settembre 1896. Da pane italiana, il maggiore animatore del congresso fu Guglielmo AUiata, già presidente nazionale della Società della Gioventù cattolica, fondatore dell'unione Anti-massonica e della a Rivista Anti-massonica n. Cfr. F. MAGRI, L'Azione Cattolica in Italia, Milano 1953, vol. 11, pp. 21-22.

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per combattere ed eccitare tutti allo zelo e all'azione 23 ivi io son certo di portare il vostro affetto e la vostra adesione; ivi tempre- remo le armi per le nuove battaglie del Signore. Uniamoci, adun- que, tutti, stretti al Papa, ai Vescovi, ai Parroci nell'opera dei Congressi.

I1 Papa ha parlato, e per lui Dio; conosciamo la volontà del Signore; coraggiosi per la religione e per la patria impugniamo la Croce al grido: Dio lo vuole, Dio lo vuole!

23 Stuno si riferisce al I1 congresso cattolico siciliano celebrato a Girgenti ai primi d i ottobre del 1896. Cfr. « La Sicilia Cattolica D del 9-10 ottobre 1896.

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PER LA SOLENNE INAUGURAZIONE DELLA CASSA RURALE DI PRESTITI

S. GIACOMO l (f. 149, C. 3)

Eccellenza, Presidente, Signori, I. Dopo quattordici mesi di studio e di lavori sono lieto di

potervi annunziare che la Cassa Rurale di prestiti S. Giacamo in Caltagirone non è pih un sogno, non un fantasma suscitato da calda fantasia, non una cosa di là da venire, ma una realtà. Sì, il Comitato Diocesano che s'è fatto promotore efficace di bene nella città e nella diocesi, con zelo pari alla sua importanza, oggi, secon- dando il movimento sociale cristiano della penisola, fonda e inaugura la cinquecento quarantesima prima Cassa Rurale.

E per questo io son qui a parlarvi: né vi dovete maravigliare che un sacerdote, lasciando per poco le alte regioni della teologia, scenda a discorrere di economia politica e di società commerciali. E' finito il tempo che noi stavamo rincantucciati in sagrestia; ma oggi, stretta la mano al laico, siam venuti in suo aiuto, per portare Gesù Cristo tra il vecchio egoismo dei liberali che van scemando, e il nuovo ardire dei socialisti che montano. Agli uni e agli altri apportatori di pace, se la vogliono; contro le teorie degli uni, uniamo i cattolici intimiditi in franche associazioni; contro le teorie degli altri, cerchiamo nelle nuove istituzioni i mezzi per sostenere la turba che grida: pane e lavoro! Quindi il prete, la cui alta missione è quella di chiamar tutti a Dio, nulla perdendo col farsi aiutare dai laici, tutto acquista col divenir padre dei

1 Discorso tenuto in Caltagirone il 3 gennaio 1897 e pubblicato io apposito opuscolo dalla tipografia Andrea Giustiniani, Caltagirone 1897.

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poveri: e laddove i liberali mettono ardimentosi le mani nelle banche, sudore dei popoli, il prete promuove invece delle Casse, ristoro dei popoli; e quando i socialisti, anelanti al potere, mutano la zappa in ferro, per ferire e distruggere, il sacerdote muta il da- naro in zappa, per tornare fertili i campi e salvare.

Ecco adunque, o Signori, presentarvi stasera la Cassa Rurale di prestiti S. Giacomo, come un piccolo, ma forte sasso dell'edificio che i cattolici van mai? mano innalzando, contro il liberalismo che domina e il socialismo che minaccia: udite.

11. Signori, prima d'entrare in argomento è d'uopo ch'io divida la società in classi, secondo la ragione, onde ciascuno trae i mezzi di sostentamento; e mettendo da parte i ricchi possessori, i capitalisti e i grossi impiegati, che abbondano nell'oro; io credo che la maggior parte della società si possa dividere in poveri, operai e braccianti, in piccoli possessori, locatari e commercianti. Ai poveri è necessaria la beneficienza, dal soldo d'elemosina ai grandi stabilimenti di ricovero; agli operai e ai braccianti è neces- sario il lavoro come nei campi, così nelle officine; al piccolo pos- sessore, al locatario e al commerciante è necessario il capitale, per trarre dalla terra, dalle industrie e dai commerci i frutti necessari al sostentamento della vita e al miglioramento delle condizioni economiche. '

Però, poiché se si ha il capitale, si ha il lavoro; e dato il lavoro, ne viene il risparmio; e col risparmio si migliora la be- neficienza; fa mestieri trovare quel capitale che per lo spesso manca o si ottiene a grande usura.

Per andar oltre, restringo la quistione all'agricoltura, come quella che è la principale sorgente di ricchezza nelle nostre con- trade, della quale perciò interessa in ispecial modo studiare i bisogni; e anche come quella che è la meno curata dagl'istituti di credito e dalle banche commerciali. Non perciò la Cassa Rurale restringe le sue operazioni all'agricoltore, escludendo l'operaio o il commerciante; ma soddisfacendo a questi ultimi, ha più di mira i bisogni del precipuo e più trascurato fonte di ricchezze. Onde ben comprenderà ognuno che se io ragiono di agricoltura, non per ciò le altre industrie s'intendono omesse o trascurate.

Dicevo adunque che, al piccolo possessore, al mezzadro, al

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locatario, manca per lo spesso il capitale; onde delle due l'una, o cade nelle mani dello strozzino che l'ingoia, o non può trarre dal campo i dovuti frutti. E' chiaro che per uscire da tale crudo e straziante dilemma, deve avere del credito personale o reale, onde ottenga il danaro che gli manca. I1 credito, cioè quella facoltà di disporre di capitali ricevuti da altri sotto l'obbligo della restitu- zione, questo credito, mentre è alto nel commercio, è assai caduto in basso nell'agricoltura. L'agricoltore per lo spesso non ha credito reale, onde possa con ipoteca sui suoi beni trovare chi gli dia il necessario danaro; ma come il commerciante, gli è d'uopo del credito personale, cioè di quel credito per cui assicuri una banca o chi altri volete, che egli dal lavoro delle sue braccia o dalla sua terra caverà tanto, da poter fedelmente rendere a suo tempo le somme ricevute. Sin tanto che non si può trovar modo di formare il credito agrario, per cui i capitali possano affluire nell'agricoltura, noi correremo inevitabilmente a due terribili conseguenze; da una parte al capitalismo distruttore delle piccole proprietà, dall'altra alla turba miserabile di ventidue milioni, che in Italia traggono il diretto sostentamento dall'agricoltura. Ma come formare il cre- dito agrario, o Signori, se poco o nulla si presta a garanzia di que- sta industria? I1 commerciante ha una bottega di merci, che tuttodì rivende, per cui le grandi case lo provvedono di capitali circolanti; ma l'agricoltore, che ha esso mai da poter dare a garen- zia se non la terra, che spesso tiene in fitto, e il lavoro; terra e lavoro, che in condizioni normali, data l'agricoltura così primi- tiva e niente progredita, non possono dare che dal 6 al 10 per cento e anche meno?

Ecco il problema che cerca risolvere la Cassa Rurale. Questa istituzione chiama gli agricoltori di una o più parrocchie e li unisce insieme con vincolo solidale a responsabilità illimitata. Mi spiego: pesti piccoli possessori, mezzadri, gabellotti, i quali presi uno ad uno non hanno tanto di credito personale o reale, da poter avere dei capitali circolanti, secondo i loro bisogni; si stringono insieme, chiamandosi responsabili con tutti i loro averi delle ope- razioni della Cassa. Così queste piccole proprietà unite, formano una grande possessione, che può vantare il più sicuro credito che esista. Dico il più sicuro credito, perché la responsabilità dei soci, solidale in faccia ai terzi, ha solo quei limiti che essi soci s'impon-

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gono e che i terzi accettano. Onde se un depositante o mutuante dà alla Cassa L. 2000, la Cassa con tutti gli averi dei soci deve rispondere di quelle 2000 lire. Qui sta una differenza interessante tra la banca e la Cassa Rurale. Quella, formata per azioni, è respon- sabile col capitale sottoscritto, dei depositi che accetta e dei mutui che contrae; terminato quel capitale, o trasformato per incanto da proprietà sociale a proprietà individuale, secondo i celebri sistemi della Banca Romana e di mille altre, anche di nostra cono- scenza, chi si è visto, si è visto; e chi non si è visto, può andar limosinando. Nella Cassa Rurale invece il depositante o il mu- tuante per riavere il suo capitale, può procedere contro la Cassa e contro i singoli responsabili, sino all'estinzione del suo credito.

111. A questo punto mi accorgo che sorge nella vostra mente una grave difficoltà, che m'impedisce d'andar oltre, se tosto non ve la sciolga. Voi dite; questa responsabilità è condizione così grave e impossibile che delle due l'uno, o i soci di questa Cassa sono tutti agricoltori di poco conto, e la Cassa non potrà prestare loro il danaro necessario, perché non presenta sufficiente credito reale; o vi sono anche dei forti possessori, e costoro non si piglie- ranno addosso una responsabilità illimitata delle operazioni della Cassa con tutti i propri averi. Prego di prestarmi la massima atten- zione, perché trattiamo di cosa che decide della vita o della morte di questa istituzione. Io sono per la vita, ed ecco le ragioni. Se tutti i soci sono piccoli possessori, e allora la Cassa avrà un cre- dito assai limitato, ma avrà sempre un credito. Cento soci, per esempio, dei quali ciascuno possegga L. 500, formano il credito di L. 5000; ma posto che nessun mutuante voglia darne 5000 ma 4000; e posto ancora che non tutti, ma solo i due terzi dei soci abbisognino di danaro, ne viene che un socio non possa avere dalla Cassa che L. 65 in circa. Ciò poco monta; lasciate che il socio con quelle poche lire possa aumentare in parte il proprio avere, e ne sarà così accresciuto il credito della Cassa. Del resto l'agricoltore ha bisogno di piccole somme; se io ho un ettare di terreno, e il frumento costi L. 60 la salma per semenza non ho

2 Misura di capacità per aridi usata in Italia e particolarmente in Sicilia prima deli'adozione del sistema metrico decimale; la salma siciliana corrispon-

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bisogno che di L. 15. Onde se un agricoltore in un anno potrh -

avere dalla Cassa due o trecento lire, egli sarà dei più fortunati. A ogni modo questo caso è così raro che lo chiamo impossibile.

Non vi è paese 41 mondo, che non vi siano quei buoni prc prietari, i quali vedendo le condizioni miserrime dell'agricoltura, non si prestino in favore della piccola possessione, che va rapi- damente scomparendo da per tutto, ma più in Sardegna, in Sicilia e nelle Puglie, dove, maraviglia a dire, vi sono agricoltori (e non son pochi) che per non avere chi loro mutui poche lire, cadono sotto l'unghie dell'usuraio o del fisco, che vale lo stesso.

Ma la responsabilità illimitata, voi dite, non vi par nulla? chi è quel proprietario che voglia rispondere delle operazioni della Cassa con tutti i suoi averi? Signori, potrei sciogliere la vostra difficoltà col fatto che, dal 1849 che [sic] Raiffeisen 3, germano, piantava in Flammersfeld la prima Casa Rurale a base della respon- sabilità illimitata, sin'oggi 1897, che la Germania conta quattro- mila e più Casse Rurali, la Francia cinquecentocinquanta circa, l'Austria più di trecento, il Belgio una cinquantina e la nostra Italia circa seicento; molti sono stati quei ricchi possidenti, non dico che si sono ascritti alle Casse Rurali, ma che ne hanno pro- mosso con ogni zelo la fondazione. A parlare solo della nostra Sicilia, o meglio di quelli che io conosco, il barone Mendola in Favara, .l'ingegnere Lamonica in Castiglione, il signor Mammano in Agira, il barone di Crotone in Cerarni, il notaro Francesco Luigi Sagone, il Can. Luigi Tasca e molti altri in Caltagirone non

deva a 1. 275,08. In Sicilia si chiamava pure salma una misura di superficie che equivaleva a metri quadrati 17.462,59.

3 FRIEDRICH W. RAIFFEISEN, nato a Hamm a. d. Sieg il 30 marzo 1818 e morto a Neuwied 1'11 mano 1888, fu tra i primissimi ideatori e organiz- zatori di cooperative agrarie di credito. Borgomastro in alcune città della Ger- mania e a diretto contatto delle condizioni dei piccoli propiietari e . fittavoli, fondò nel 1846-47 le prime casse rurali a Meyerbusch e Heddersdorf e divenne tra i più noti teorici cattolici dei piccoli istituti di credito agrario. Alle sue idee - che egli diffuse nella rivista « Landwirthschaftliches Genossenschafts- blatt B - fece riferimento anche il sacerdote veneziano Luigi Cerutti, noto propagandista delle Casse Rurali all'interno delllOpera dei Congressi. Cfr. A. GAMBASIN, Il Movimento Sociale nell'opera dei Congressi (1874-1904), Roma 1958, p. 428. La figura di Raifeisen fu ampiamente divulgata dalla « Civiltà Cattolica n, quad. 1064 del 20 ottobre 1891. Vedi, anche, l'edizione italiana deila biografia di Raiffeisen; FRANZ BRAUMANN, Un uomo vince la mi- seria, Edizioni 5 Lune, 1968.

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han temuto questa responsabilità illimitata. Ma più che questo argomento che ~otrebbe indicare l'audacia di molti (del resto non privi di sagacia e di prudenza), prima di venire alle ragioni, voglio portarvi un'altra prova di fatto assai più valevole. Dal 1849 sino oggi cioè in 48 anni, proprio quando la disonestà bancaria ha invaso le società per azioni, specialmente in Italia (il paese della usura e dei fallimenti, come è chiamata all'estero); nessuna delle cinquemila e più Casse Rurali d'Europa, fondate sulla responsa- bilità illimitata solidale, è mai fallita. Questo fatto maraviglioso, tra le gesta dei cassieri volanti per ignote regioni e i commenda- tori e deputati di Regina Coeli, forma l'ammirazione di quanti, amici e avversari, conoscono questa istituzione.

Ma lasciamo i fatti, che pur dicono assai, passiamo a cercarne la natura; voi tosto vedrete che questa responsabilità illimitata non è quel terribile fantasma che altri crede. Ecco adunque; essa non vincola i beni dei soci, i quali possono liberatamente donare, vendere, far testamenti, cessioni ed altri contratti consentiti dalle leggi; solo obbliga i soci a non far parte di altre società a respon- sabilità illimitata, perché con tutti e gli stessi beni non si può rispondere delle operazioni di due società di credito della stessa natura (Cod[ice] di Comm[ercio] art. 112).

Secondo, dà diritto ai soci di stabilire essi i limiti della loro responsabilità; la quale si chiama illimitata solo per indicare che non ha un termine imposto dalle leggi o dai capitali versati; ma può dai soci essere ristretta a poche centinaia di lire o estesa a più milioni, secondo il loro volere e i loro beni. Onde se voi al prin- cipio dell'esercizio dell'anno volete rendervi responsabili solo di lire cinquemila, e non più; gli amministratori non possono affatto passare quella cifra e se presteranno più di quanto fu stabilito, loro danno; sono essi e non voi i responsabili di quelle operazioni. Ad un tal limite, che forma la maggiore delle sicurezze della Cassa e di voi, se ne aggiunge un altro: io dico il limite che l'as- semblea di tutti i soci assegna, determinando il massimo dei prestiti da accordarsi ad ogni singolo socio.

Dissi ad ogni singolo socio, perché la Cassa non può fare operazioni con altri che non sia tale. Questa disposizione è una salvaguardia e un bene. I1 socio, cioè uno ammesso a far parte della Cassa dopo studio, prova e conoscenza, su cui grava la respon-

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sabilità delle operazioni e che è interessato al benessere di essa, soggetto alla vigilanza del Consiglio di Presidenza e della Commis- sione di Sindacato, soggetto alla legge commerciale sulle società cooperative in nome collettivo, e agli statuti e regolamenti della società, il socio in condizioni normali offre un credito personale, che vale tante volte più dello stesso credito reale. Ma del resto, credete forse che si presteranno danari alla cieca, così al primo richiedente, senza un awallo, un pegno, un'ipoteca? Si vuole aiu- tare il piccolo possessore, si vuole rialzare il credito agrario; ma chi ha mai preteso che un istituto commerciale o rurale di cre- dito [sicl voglia rovinare proprio per venire in soccorso del non abbiente? Ma non è tutto, o Signori; la nostra istituzione, lo dissi in sul principio, aiuta i piccoli possessori e locatari, i quali non abbisognano che di piccole somme. Onde sono vietate le opera- zioni aleatorie o d'azzardo, i grandi affari, che sono per lo spesso la rovina delle banche.

E v'ha ancora di più: lo statuto della nostra Cassa stabilisce che i pochi utili netti non si dividano fra i soci; ma si serbino per fondo di cassa o per opere cattoliche.

Fo notare che i soci non comprando azioni che la Cassa non vende, e solo versando lire 2 di quota sociale per una sola volta, non han diritto a ripetere i lucri della cassa. Questo disposto im- pedisce quella ingordigia di danaro, quel desiderio di lucroso divi- dendo, quell'impegnarsi in affari rischiosi, che darebbe la morte ad una istituzione di credito come la nostra. Onde il socio, re- sponsabile delle operazioni della Cassa Rurale e non sollecitato da grandi utili, non cercherà altro che la sicurezza degli affari, il benessere dei soci, la prosperità dell'istituzione. Strette le cose in questa cerchia di ferro, io domando, o Signori, se più vi faccia paura, o se invece non debba credersi una salvaguardia, un bene, un mezzo di prosperità la responsabilità illimitata.

Ma so che alcuni dei più ritrosi dicono che tra noi questo spirito di associazioni solidale e di mutua vigilanza manca del tutto, e sarebbe meglio fondare una banca per azioni. Signori, non è così; in quanto al meglio o al peggio, io credo che sempre possa dirsi: ogni istituto ha le sue qualità. Ma se si vuole aiutare non il ricco commerciante, che domanda le dieci, le venti e anche

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le centomila lire, ma l'agricoltore, è necessità fondare una Cassa Rurale. Quanto all'altro, che lo spirito di associazione e solida- rietà tra [noi] non s'intenda, io ho il bene di rispondere, che se lo scopo e la natura della società tocca i nostri interessi vitali, un tale spirito si desterà ben tosto. E' l'amore e l'interesse (celeste o terreno) che ci unisce: l'amor di Dio unisce il monaco nei conventi; I'amor di patria o l'amor dell'oro i laici nelle associazioni elet- torali; quanto il fine è più alto, tanto meglio unisce e affratella. Del resto, chi mi ha seguito in questo arido ragionare, .si sarà accorto, che il vincolo della responsabilità illimitata, mentre per nulla può mettere a repentaglio le nostre sostanze, esso solo forma il credito agrario, ed è la migliore sicurezza dell'istituzione.

IV. Ancora un altro passo: l'agricoltore non trae dalla terra in condizioni normali che dal 6 al 10 per cento di guadagno; onde per poterla durare ha bisogno dei capitali al più mite interesse. Questa è cosa o Signori, quanto interessante, altrettanto barba- ramente trascurata. L'usura, parola che corre per tutte le bocche, è un flagello che affligge la società demoralizzata; è un vampiro che dissangua l'agricoltura e l'industria; è un male che elude la legge umana, che non sa rimediarvi, e si ride della divina, che non sempre paga al sabato. E intanto il povero colono cade nelle unghie spietate degIi usurai, che COI riso ma1 celato, mutuano danaro, sangue dei poveri, a prezzo di nuovo sangue. E spesso accade che al termine dei lavori ei si trovi più misero di prima, aggravato di maggiori debiti e di quelli che chiamano i frutti del danaro, il venti, il trenta, il cento, il duecento per cento. Non è rara, ma comune, ma di tutti i giorni questa usura spaventevole in Italia; i liberali la vedono e non sanno o non vogliono rimediarvi; perché dopo che hanno fatto loro dio il danaro, dopo che han dilapidato le private e le pubbliche amministrazioni e le banche e i comuni e lo stato, lasciano le città ormai esauste, e corrono essi liberali anelanti alle campagne, che danneggiano coll'usura, per arrivare alle sognate ricchezze di Creso. Onde si veggono questi signori novelli, più o meno commendatori o deputati, surti dalla miseria, scorrere le vie delle più popolose città, come gli antichi Torlonia e Borghese.

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E i socialisti intanto, nulla recando di bene alle popolazioni, eccitano il malcontento tra i miseri spolpati e ridotti all'osso, e armandoli di rivoltella, gridano loro: ucciditi, o uccidi!

Se si dovesse far la statistica della miseria dell'Italia Una (classica terra degli usurai) ci sarebbe da inorridire. Solo chi non vive in mezzo al popolo, chi non è a parte dei dolori degli agri- coltori, chi non è, come il sacerdote, il confidente delle miserie altrui, può cufiarsi nella sciocca apparenza di benessere sociale, e creder segno di prosperità i nuovi palazzi dei Prati di Castello in Roma, i monumenti di coloro che han peggio servito la patria, disseminate nelle cento città d'Italia e i teatri aperti alle pubbliche immoralità. Vane apparenze, che coprono la più squal- lida miseria, della quale abusa il mestatore e il fazioso alle urne elettorali, mentre il popolo redento si riversa numeroso in America a cercarvi l'oro mutato, come per incanto, tra noi in carta straccia.

Ebbene, le Casse Rurali, che non hanno altro scopo che venire in aiuto del piccolo possessore sfruttato e misero; che non divi- dono tra i socii i lucri, che non intraprendono affari per aumentare a costo altrui il capitale sociale, sono le istituzioni di che oggi abbisogniamo. Vero rimedio dell'usura, danno il danaro al più mite interesse; favoriti dalle leggi, sono nel primo quinquennio le cambiali esenti di tasse di bollo, e il prestito attivo di ricchezza mobile; aiutate dai migliori cattolici, vengono amministrate gra- tuitamente; per questo è che i saggi d'interesse dei prestiti attivi non vanno oltre il sei per cento, netti da qualunque altro gravame. Ecco l'opera umanitaria! così il piccolo proprietario, il mezzadro, il colono acquista quel credito che non aveva. e usufruisce del danaro al più mite iilteresse.

V. Ancora un altro vantaggio: l'agricoltura non è come l'in- dustria e il commercio; essa ha bisogno di capitali a tempi deter- minati, e a lunghe scadenze. Oggi, per esempio, è tempo di semi- nare il grano; chi piglia del danaro per comprar la semenza, non può ridarlo dopo tre o sei mesi, ma al raccolto. E se invece io voglio comprare un vitello per venderlo bue, deve trascorrere per la scadenza del prestito due o più anni. E così fate voi per le

. 'coltivazioni delle viti e dei giardini e simili industrie. Dunque le

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scadenze dei prestiti devono essere determinate dall'uso che il richiedente vorrebbe far del danaro. Ecco un altro bisogno, inte- ressante oltre modo, al quale poco o nulla possono prowedere gli altri istituti di credito. Onde vedete, che se un agricoltore ottie- ne per tre o per sei mesi del denaro da una banca, e l'investe in armento; quando ancora non ha potuto trarre nulla dal capitale investito, è forzato a rendere la somma. Ma dove trovare il danaro? domani, per esempio, la cambiale scade, non si ammettono pro- roghe; l'effetto può essere protestato ... Dalla padella si cade nella brage: ed è gioco forza dar nelle unghie dell'usuraio.

Ma dite voi, oggi il mutuario o l'avvallante si trova in condi- zioni da poter soddisfare a tempo il suo debito. Domani un rove- scio di fortuna, e tutto è finito. E la sicurezza della Cassa è andata a monte. Così parrebbe; o Signori; però la Cassa nei suoi statuti fondamentali ha stabilito che il prestito si effettui per via di cam- biale da rinnovarsi ogni tre mesi. Né ciò porta gravezza, perché non vi è tassa di bollo sulla cambiale, né aumento di interesse, né provigioni [sic] da parte della Cassa. Però è una sicurezza, perché se il mutuario dopo i tre mesi si trova in condizioni tali da infir- mare il credito, la presidenza, non rinnovando la cambiale, può richiedere il rimborso. Ciò par duro, ma la salvezza della Cassa esige in caso eccezionale, ciò che una banca vuole in via ordi- naria. I1 danno di un solo non può paragonarsi al danno di molti, che traggono tanto bene da questa istituzione.

Del resto bisogna osservare che questi casi son rari; un rove- scio di fortuna può darsi, ma non si dà sempre; e non sempre quando si dà, si è immuni da negligenza o da colpa. Ad ogni modo o per negligenza o per colpa o per la mano di Dio la Cassa Rurale cerca ripararvi in parte con due beni che possono venire da essa, il risparmio e il lavoro da una mano, la beneficenza dall'altra.

VI. Io dissi in sul principio che dato il capitale, ne verrà il risparmio. Se io ho a mite interesse e a larga scadenza delle somme da poter impiegare nei mio campo, potrò a1 ricolto ridare il capi- tale e mettere a risparmio quel poco che avanza, che altrimenti andrebbe sciupato alla bettola o alla bisca.

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La cura di educare il nostro agricoltore al risparmio, quando la Cassa accetta fin mezza lira, è una delle precipue [sic] che ha questa istituzione. E poiché essa non ha bisogno, anzi rifiuta le grandi somme, fa conto delle poche lire di deposito, pagando il tre per cento a conto corrente, il tre e mezzo o il quattro per le somme vincolate a semestre o ad anno. Educando alla previdenza e al risparmio, invogliando sempre più il socio a recare in depo- sito quel che in fin d'ogni settimana gli avanza, diviene in certo modo un buon riparo contro ai funesti e inevitabili colpi di fortuna.

Al risparmio si aggiunge il lavoro'che, ove i capitali abbon- dano, anch'esso si moltiplica, togliendo dalla miseria molte migliaia di braccianti, padri di numerose famiglie, che altrimenti cerche- rebbero invano all'albeggiare d'ogni di chi li conduca. Lo dissi: il problema sta nel trovare i capitali, o meglio, nel formare il credito; il resto viene da sé, come necessaria conseguenza.

Ma abbiamo inoltre la beneficenza; non solo la beneficenza privata, perocché chi ha trovato il capitale, lavora, risparmia e anche dona, ma la beneficenza collettiva della. Cassa. Uno degli articoli dello statuto stabilisce che il tenue guadagno, detratte le spese necessarie e formato un mediocre fondo di cassa, non vada diviso tra i socii, ma che invece venga .erogato ad opere cattoliche; come a dire, l'istruzione religiosa dei fanciulli, o le cucine econo- miche o i monti frurnentarii o qual altra lo zelo dei socii e le cir- costanze vorrà che sia caldeggiata. Ed ecco le Casse Rurali basate sul principio cristiano dell'aiuto scambievole e non sull'egoismo liberale o sul sovversivo comunismo, trovare il mezzo ad associare le grandi ricchezze colle piccole proprietà, i modesti capitali col- l'assiduo lavoro, i giusti risparmi colla generosa beneficenza; pro- prio quando i doppi nemici che ci tocca combattere, nell'ordine economico han portato lo scompiglio delle ruberie e delle miserie; e nell'ordine sociale I'ismodato desiderio di ricchezza senza lavoro, di capitali senza crediro, di beneficenza senza bisogno.

VII. Signori, arrivato qui, mi appello a voi, uomini e cri- stiani, e domando: su qual fondamento stabiliremo la nuova istituzione perché prosperi sempre? Sulla sola scienza dell'econo-

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mia politica o commerciale? Ma, o Signori, fallirebbe chi il crede; e son sicuro 'che no1 crede nessuno: non mancava certo acume e studii ai direttori e agli azionisti della fu Banca Romana; né essa o il Credito Mobiliare o il Banco di S. Spirito o le mille istituzioni di simil natura si disfecero per ignoranza o ,negligenza dei nove- cento e più cavalieri, dei trecento e più commendatori o simil conio, che dalla costituzione del beatissimo regno d'Italia sin oggi, sono stati processati per furti e ladrérie. La scienza sola non basta, se si scompagna dall'onestà. Onestà! parola rimasta quasi solo nel vocabolario, dopo che abbiamo assistito alla danza ma- cabra dei cassieri fuggitivi per altri mondi, ai milioni scomparsi dalle tasche dei cittadini e dalle Casse pubbliche, ai deplorari di Regina coeli, alle celebri commissioni dei sette e dei cinque, ai fondi pel terremoto, ai monopoli per. la felice campagna africana. Onestà! parola che par debba sonare altrimenti, da che abbiam visto soggiogati popoli e regni da quel Iiberalismo, che in religione ammette libertà di culti, in morale il divorzio, in istruzione le scuole laiche, e che in finanza, costretto dalle conseguenze, deve ammettere il furto.

Tolto di mezzo nelle relazioni dell'uomo con Dio e con la famiglia il decalogo, è necessità che venga meno anche nelle rela- zioni colla società. E il settimo: nolz rubare, deve cadere quando è tolto il primo: adorerai il Signore Dio tuo; non avrai altro Dio avanti di me. Poiché il cercare onestà senza religione è lo stesso che volere religione senza Dio. Adunque prima, essenziale base delle istituzioni economiche si è, non il liberalismo ateo che ruba i danari, né il socialismo ateo che distrugge la proprietà; ma il cattolicismo, che adorando il vero Dio, ingiunge anche di rispettare i danari e le proprietà altrui. Questo è il vero sostegno, su cui si fonda la Cassa Rurale: l'onestà e la buona fede. Ma onestà e buona fede saranno nomi vani, ove non siano sorrette dalla religione cattolici, apostolica, romana. Nessuno pertanto che non sia franco e praticante cattolico potrà essere dei socii, né trarrà dalla Cassa utile alcuno.

Dissero molti, e s'impegnò lunga disputa tra i1 Luzzatti, oggi ministro del Tesoro, lo Schiratti e il P. De Besse da una parte, il Don Cerutti e la Civiltà Cattolica dall'altra, che questa è una condizione non equa se si vuol far del bene, bisogna farlo a tut-

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ti '. Vero! Ma quando un'istituzione per non cadere deve re- stringersi ad una sola cerchia di persone, non fa torto ad alcuno, ma esercita un diritto innato, il diritto della propria conserva- zione. E certo verrebbe meno questa istituzione, se [caldesse in quelle stesse mani, che han rovinato le aziende comunali, le opere pie, le banche di credito e le casse dello Stato.

Ma, si replica; non accettando a soci che solo i cattolici pra- ticanti, fomentate l'ipocrisia e il bigottismo; voi così mutate il credito in opera confessionale, usate e abusate della costrizione morale, per attirare a voi il povero che cerca pane e lavoro. Così

La « disputa », cui Sturzo si riferisce, fu aperta da un articolo di LUIGI LUZZATTI pubblicato su « Credito e Cooperazione », organo dell'associazione fra le banche popolari, il la gennaio 1895. In tale articolo, il celebre economista e deputato proponeva la collaborazione fra le banche popolari, egemonizzate dai liberali, e le casse rurali cattoliche, per impostare una lotta comune contro l'usura. Contro questa proposta si schierò un discepolo deilo stesso Luzzatti, Gaetano Schiratti, che accusò le casse rurali cattoliche di essere strumenti antipatriottici della politica clericale e, come tali, non dovevano essere aiutate. Cfr. Polemica religioso-sociale in « Credito e Cooperazione » del 15 gen- naio 1895. Nello stesso articolo, Luzzatti, affermando di aprire la più grande polemica del secolo, consentì con Schiratti nel considerare la confessionalità degli istituti di credito un fatto patologico, ma ribadì la tesi deila collabora- zione anche per disintegrare in questo modo l'intransigenza cattolica. La discus- sione, continuata nei numeri successivi del « Credito e Cooperazione », si accen- tuò quando, il 10 marzo 1895, la rivista liberale pubblicò una lettera del religioso francese p. Ludovico De Besse che condannava la confessionalità delle istituzioni economiche clericali. «La Civiltà Cattolica » entrò in polemica con Luzzatti-Schiratti definendo intoccabile i1 principio confessionale e attribuendo alle casse mrali cattoliche maggiore sicurezza economica delle banche popo- lari; il periodico dei gesuiti accusò poi il De Besse di prestarsi ai nemici del Papa per dividere il mondo cattolico. Cfr. Le casse rurali cattoliche e la grande controversia in « La Civiltà Cattolica », quad. 1075 del 6 aprile 1895. Per i cattolici, intervenne anche Luigi Cerutti con un articolo pubblicato su « Coope- razione popolare D, n. 6, aprile 1895.

La polemica continuò. Luzzatti, in un discorso ai suoi elettori, lamentò lo scadimento della discussione e si pronunciò contro « il credito deila Chiesa D. Cfr. Polemica religioso-sociale in « Credito e Cooperazione » del 1 maggio 1895. Inoltre, il congresso delle banche popolari, tenuto a Bologna il 19-20 ottobre 1895, deliberò di riunire le forme di previdenza promosse dai liberali contro socialisti e cattolici. Cfr. Ai nostri lettori in « Credito e Cooperazione del lo gennaio 1896. La rivista dei gesuiti, a sua volta, rispose polemica- mente riaffermando le tesi della confessionalità e deiia lotta all'economia liberale. Cfr. Le Casse rurali e un'altra grande controuersia. Un po' d i storia in u La Civiltà cattolica D, quad. 1102 del 16 maggio 1896; Lo spirito delle Casse rurali secondo Federico Guglielmo Raiffeisen, quad. 1105 e 1107 del 4 luglio e del 1 agosto 1896.

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ha blaterato più volte il giornalismo massonico, nella speranza di farci desistere. La costrizione morale! Signori, non vi è più cieco di chi non vuol vedere. E non è questa costrizione morale quella che governa il mondo in tutti gli ordini sociali, privati e pubblici? I1 fanciullo che studia pel timor del castigo o per I'allettativa del premio, l'adulto che non si vendica dell'offesa per non dar nelle mani del giudice, l'onesto impiegato che va assiduo al suo banco, per la promozione che aspetta, sono tutti costretti moralmente al dovere. I1 paradiso, a cui aneliamo, l'in- ferno che temiamo, sono vere costrizioni morali al ben vivere. Onde Davide diceva: inclinavi cor meum ad faciendas iustifica- tiones tuas in aeterngm propter retributionem ( P . 118). Chi ose- rebbe accusar d'ingiustizia il premio, perché non si dà a tutti? ovvero di violenza la promessa, perché in certo modo costringe a un fine? O secolo sciocco, che volendo togliere ogni timore e ogni speranza, ogni premio e ogni castigo, riduce l'uomo allo stato di bestia! ma si cela il reo intento, declamando ai quattro venti, che bisogna fare il bene solo per sentimento del bene! E quando il cattivo esempio, gli empi discorsi, le oscene letture, dal Lucrezio Caro al Zola, hanno spento il sentimento del bene, che resta? I1 suicidio e i peculati per puro sentimento di bene!

Ah Signori, via gl'inganni! Se tutto quanto ci circonda non è che leggi, limiti, costrizioni morali a ben fare (per usar questo termine), parrà strano che un istituto di credito abbia anch'esso la missione di costringer moralmente al bene? Voi dite che così d'ogni uomo ne facciamo un bigotto; peggio per chi s'infinge, o Signori, ma la finzione non dura a lungo; dai frutti si capisce l'albero. Pur, questi sono i casi rari: il nostro popolano sarà sca- duto dall'avita bontà ma tuttavia è credente. Ma se alcuno che frequentava la bettola o la bisca, che lavorava la domenica o che bestemmiava, per usufruire della Cassa Rurale, si corregge e si emenda, noi avremo fatto un gran bene all'individuo e alla so- cietà. Leggevo in un giornale, non è molto, che un gabellotto si trovava nella brutta condizione di doversi ridurre alla miseria; i1 padrone gli aveva detto chiaro, o paghi o ti mando via. Soleva costui ubbriacarsi spesso, onde non era stato ammesso alla Cassa rurale del villaggio: in quelle strette andò dal Parrocq pregan- dolo di intercedere per lui presso la Presidenza. I1 parroco ri-

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spose: se per tre mesi non andrai alla bettola, né ti ubbriacherai, io ti farò iscrivere socio alla Cassa; ma frattanto, se lo prometti da vero, pregherò il padrone a lasciarti ancora per tre mesi la gabella del fondo. 11 contadino tenne la promessa, ebbe i danari dalla Cassa, restò ai servigi di quel signore, né più si ubbriacò mai; e tutta la sua famiglia con lui benedice alla istituzione che ha per base la così detta costrizione morale. Via adunque le lustre di argomenti falsi, coi quali si vorrebbe tirar noi cattolici dalla parte viziata, e sfruttarci e gettarci via come limoni spremuti.

VIII. No, no; abbiamo gran tempo sofferto e taciuto, cre- dendo che non le istituzioni fossero cattive, ma gli uomini mal- vagi; si è sperato invano tempi migliori: si credette, semplici che siamo stati, che la rivoluzione, dopo i primi sfoghi d'ira e di rabbia, si sarebbe rabbonacciata; e senza nostro sforzo, sareb- bero d'un tratto tornati i beati tempi antichi. Folli! Ci siam de- stati come da un sogno e ci siam trovati spogliati d'ogni bene. in mezzo a due nemici formidabili, io dico il liberalismo e il socialismo.

Che ci resta che non abbiano mandato a male? Nulla; tutto si deve riedificare, dai conventi soppressi, agl'istituti di benefi- cenza soggetti al concentramento, alle scuole senza Dio, alle ban- che senza fondo, alle amministrazioni senza onestà. E' una lega la nostra, anzi una santa crociata, sempre nei limiti consentiti dalle leggi, contro il liberalismo e il socialismo, i quali non sono né lo Stato, né la Nazione, né la Patria, ma la rovina di tutto. Sottratti adunque gli operai e gli agricoltori cattolici con un istituto di credito dalle indecorose pressioni dei faccendieri della politica e dei partiti, allontanati dal pericolo socialista, resi liberi dalla Cassa Rurale, potranno professare apertamente e francamente quella Fede, che rendendoli più che uomini li awicina a Dio. Ecco l'ultimo nostro scopo, a cui si subordina tutto: Dio. Per tornare l'operaio e il colono a Dio, sono questi nostri sforzi; per tornare a Dio la società apostata da Lui, abbiamo dedicato danaro, po- tenze, vita. Questo sublime ideale come campeggia nelle scuole catechistiche da noi impiantate, nelle pratiche da noi iniziate per ottenere l'insegnamento religioso nelle scuole elementari, nella lega contro la bestemmia, nella diffusione della buona stampa,

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nelle biblioteche cattoliche circolanti, nelle opere di beneficeriza a pro' dei poveri, si manifesta, è anzi il movente della istituzione della Cassa Rurale. E' quello spirito che muovea Davidde a dire al Signore: Ti confessino Dio tutte le genti, perché la terra ha dato i suoi frutti; è quello spirito che mosse S. Gaetano a fondare il Banco di Napoli; è quello spirito che solo ha la Chiesa del Signo- re; pel quale mentre si guarda coll'occhio sinistro questa terra che ogni giorno ci fugge, col destro si guarda il cielo che ogni giorno ci si avvicina.

Signori, io conchiudo, ben certo che anche voi dal profondo dell'animo fate un vivo e caldo augurio a questa istituzione no- vella, alla Cassa Rurale di prestiti S. Giacomo: che viva di una vita rigogliosa, al bene della classe agricola, operaia, commerciale; alla gloria di quel Dio, che dà la ricchezza alla terra, la forza al lavoro, la prosperità ai commerci, la vita all'universo intero.

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STURZO A 'TONIOLO (f. 145, C. I)

[Roma, maggio 18981

Ill.mo Professore,

perdoni se ho l'ardire di dirigerle la presente per chie- derle dei consigli; mi affida l'interesse e lo zelo che lei sempre dimostra per le istituzioni cattoliche a favore delle classi popolari.

Prima di andar oltre è d'uopo ch'io mi faccia un po' cono- scere da lei. Sacerdote siciliano, mi son dato sin dai primi giorni del mio sacerdozio alle opere di azione cattolica nella mia diocesi, dove ho impiantato l'opera dei congressi, varie associazioni agri- cole e operaie per gli interessi professionali, 4 casse rurali e due casse di mutuo soccorso e un giornaletto locale. Venuto a Roma, ho seguito tutte le sue conferenze del 1897-98, e proprio ieri sera desideravo parlarle, anzi le offrii il numero del quindici mag- gio del Popolo Italiano e lo accompagnai sin da Mons. Radini Tedeschi l .

E' molto tempo che penso istituire un'opera qualsiasi per sollevare la condizione dei contadini della mia diocesi, che

1 Negli anni di permanenza a Roma presso la Gregoriana, S t u m si iscrisse al Circolo dell'Imrnacolata, di cui era presidente Augusto Grossi Gondi e assi- stente mons. Giacomo Maria Radini Tedeschi, futuro vescovo di Bergamo e allora animatore di tutta l'azione cattolica romana. Al circolo dell'Immacolata, che promuoveva cicli ,di conferenze di cultura sociale, Sturw seguì attentamente le lezioni del Toniolo, che risultano puntualmente annotate nelle carte d'archivio. Sulla figura di Radini Tedeschi cfr. A. RONCALLI, Mons. Giacomo Radini Tedeschi, Roma 1963; M . CASELLA, Giacomo Radini Tedeschi, L'Opera dei Congressi e il movimento cattolico romano in « Rivista della Storia della 'Chiesa in Italia D, XXKV (19TO), pp. 129-175.

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prendendo in fitto i latifondi, sono in cento guise sfruttati e angariati. A questo fine mi decisi pubblicare un articolo nella Cooperazione Popolare del 23 Aprile di quest'anno che le spe- disco insieme con questa '.

Aggiungo all'articolo le seguenti osservazioni fattemi da un mio amico, dopo averlo letto.

1) Che anticamente in Sicilia si davano i lotti dei latifondi agli agricoltori, da un fittabile intermediario a mezzadria (e ciò si conserva in qualche parte della Sicilia); così che il primo anno il colono seminava le fave, il cui intiero raccolto andava a lui stesso; gli altri due anni seminava graminacee, e il raccolto veniva diviso fra il colono e il fittabile e questo contratto si chiama dal siciliano stnzzumari.

Oggi invece è invalso l'uso del fitto, sia con un solo, sia con più fittabili o intraprenditori intermediari.

2) Fra le altre condizioni angariche (del 25% di utile e del 5 % di perdita sulla semenza, degli interessi sulle anticipazioni, detti aiuti) vi è quella della misura del terreno. I1 fittabile nel calcolare i lotti del terreno che distribuisce ai coloni, vi aggiunge l'aumento del 25 per cento; di guisa che quattro ettari di ter- reno, nel contratto vengono dichiarati cinque ettari

Da ciò ella veda quanto sia necessario un istituto qualsiasi, che sostituisca questi vampiri dell'agricoltura.

Avrei pensato ad una cooperativa di lavoro fatta per azioni dai soli agricoltori, se non credessi che non potria mai riuscire della portata di pigliare dei feudi in fitto, e dar sufficienti garanzie al padrone. Ho proposto nell'articolo suaccennato una banca agri- cola, formata per azioni dai nostri cattolici possidenti; ma le dif- ficoltà mi preoccupano; e non mi voglio avventurare a fare un'ope- ra, che possa riuscire di danno anzi che di utile.

Quindi prego la S.V. a manifestarmi il suo pensiero in pro- posito e a consigliarmi sul da fare.

Cfr. L. STURZO, Un'idea fantastica? in « La Cooperazione popolare », n. 8 del 23 aprile 1898. La « Cooperazione popolare D, fondata da Luigi Cerut- ti, era l'organo ufficiale delle casse rurali e d d e cooperative cattoliche italiane.

Brano cancellato: « A questa angarica condizione si prestano anche gli agricoltori D.

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Per non darle questa noia, mi ero rivolto a qualcuno dei siciliani, che pur Ella conosce, ma, (oltre che non godono quella opinione in queste materie, che è pur necessaria, perché io possa presentare questo progetto ai cattolici di Caltagirone e farlo da loro accettare), non mi hanno sin oggi risposto, per quella ma- laugurata divisione, che regna in Sicilia, nel nostro campo. Essen- do io stato dei propugnatori di un nuovo giornale quotidiano re- gionale, (non come fu poi presentato nel progetto), e perché nel mio giornaletto che dirigo (La Croce di Costantino) ho accusato la Sicilia cattolica, di parteggiare per [...l " (il che fu vero).

Lei che è superiore a queste miserie, e che cerca il bene dei cattolici e del popolo, non sdegnerà rispondere ad un umile ma ardente lavoratore nel campo cattolico e ad un suo caldo ammiratore.

Certo dell'alto favore, la ringrazio di cuore; torno a doman- darle scusa del disagio che sono per darle, e mi raccomando alle sue orazioni, mentre ho l'onore di dichiararmi.. .

[P. S.] In vista di queste difficoltà, prego la S.V. ad addi- tarmi una via sicura per riuscire nell'intento; e spero nella sua bontà, che non lascerà insoddisfatti i desideri di chi con tutto il cuore si è dedicato a sollevare la condizione misera del nostro popolo.

4 Parola illeggibile. Al 30 congresso regionale dei cattolici siciliani - cele- brato in Acireale nell'agosto 1897 - Stuno partecipò ai lavori deiia sezione stampa: qui attaccò l'indirizzo clericemoderato della « Sicilia Cattolica », organo deiia curia palermitana, e fu tra i sostenitori di un nuovo giornale cattolico, più puro e battagliero. Cfr. A.L.S., f. 115, S.£. 2, C. 54. L'auspicato giornale, dopo lunghe vicis- situdini, uscì solo nel 1901 col nome di « Sole del Mezzogiorno ». Su queste vicende cfr. A. SINDONI, Un frutto tardivo dell'opera dei congressi in Sicilia: Il Sole del Mezzogiorno (1901-1903) in « Rivista di Studi Salernitani D, n. 3, gennaiegiugno 1969.

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TONIOLO A STURZO (f. S.)

Pisa. 28 maggio 1898

Egregio Signore,

debbo domandarle scusa se anche a Roma non sempre fui cortese con Lei, perché nella confusione di quei fuggevoli ritrovi spesso scambio persone e cose. Di poi le vicende dolorose di questi giorni distrassero l'attenzione mia anche dalle -ordinarie occupazioni. Intanto mi congratulo del Suo zelo intelligente ed operoso.

Conosceva sommariamente le condizioni dei contratti agrari della Sicilia dall'articolo, che nella Rivista scrisse già il compianto mons. Carini l . In altri paesi il rimedio potrebbe trovarsi, come già si fece in Irlanda nel divieto per legge di subaffittire i lati- fondi e insieme nell'obbligo di ripartirli in mediocri o piccoli poderi. Ma nell'attuale circostanza il Suo concetto in massima di interporre fra il proprietario ed i mezzadri una Banca mi pare accettabile. Le difficoltà, che Ella accampa, sarebbero poi atte- nuate, sviluppando e maturando quell'ordinamento delle Casse rurali, che già esiste altrove.

I1 TONIOLO si riferisce a un saggio di mons. Isidoro Carini su La que- stione sociale in Sicilia apparso sulla « Rivista Internazionale di Scienze Sociali e discipline ausiliarie D, a. 11, fasc.li XV, XVI, XVII del marzo, aprile e maggio 1894. I1 saggio, scritto sull'onda delle impressioni provocate dai moti dei fasci sici- liani, comprende un'analitica descrizione delle condizioni contrattuali agrarie vigenti in Sicilia. Su mons. Carini, primo assistente ecclesiastico del circolo S. Rosalia di Palermo, più noto per i tentativi conciliatoristi del 1894-95, cfr. F. Fom.1, Crispi e lo Stato di Milano, Milano 1965, pp. 94-95, 275-276, 377.

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In primo luogo bisognerebbe moltiplicare al più possibile le Casse rurali sui vari punti del territorio. In secondo luogo stringerle in federazione in modo che tutte le Casse concorressero alla fondazione di una Cassa centrale, come è a Parma. Quest'ul- tima, risiedendo in un grosso e ricco centro, come Palermo, e ispi- rando quella fiducia, che sempre accompagnò le istituzioni cat- toliche, potrebbe attrarre a deposito discreti capitali, con cui ef- fettuare non solo i sussidi alle Casse rurali, ma inoltre assumere in qualche misura altre operazioni, compresa quella dei contratti di affitto verso i proprietari di latifondi e quelli di mezzadria ver- so i contadini.

La responsabilità economico-giuridica della Cassa centrale verso i proprietari non dovrebbe essere gravissima, bastando che essa sopperisca alla differenza eventuale tra il prezzo di affitto e quei contributi in natura dei mezzadri, che in qualche caso fos- sero ritardati o venissero meno. Piuttosto la difficoltà può con- sistere nella custodia dei prodotti in natura consegnati dai con- tadini e nella sorveglianza assidua esercitata sovr'essi. Ma questa difficoltà sarebbe attenuata, affidando questa responsabilità alle piccole Casse rurali, che si trovano nei punti del territorio. Questi i pochi pensieri generali, i quali purtroppo, rebus sic stantibus, rimarranno campati in aria, richiedendosi, come si fa, una attiva propaganda delle Casse locali ed un favore del pubblico e del governo, contro cui si oppone l'attuale momento di persecuzione. I n ogni modo io gradirò che Lei continui in questi studi e poiché vedo che Ella se ne occupa con intelligenza, La pregherei fin d'ora a volersi iscrivere come socio della Unione cattolica per gli studi sociali.

Mi creda con la maggiore stima Dev.mo

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PROGETTO PER LA COSTITUZIONE DI UNA BANCA POPOLARE A CALTAGIRONE1

(f. 126, C. 77)

Incaricato da questa Giunta federale delle Casse Rurali della Diocesi di Caltagirone di studiare il progetto di una Banca per azioni a capitale illimitato da fondarsi in Caltagirone e da servire come Cassa Centrale della Federazione, per quanto le mie cono- scenze sul credito siano limitate, presento stamane il modesto risultato del mio studio.

1. Nulla dirò sulla necessità di istituire, e presto, in Cal- tagirone una Banca popolare, che aiuti specialmente l'industria agricola e manifatturiera e il commercio di questo circondario; perché tutti siamo convinti dell'impellente necessità, alla quale non possono sopperire le Casse Rurali, il cui funzionamento ha limiti troppo ristretti.

E a noi cattolici, che oggi specialmente, nel continuo e pro- gressivo sfacelo di ogni risorsa materiale e morale del popolo, abbiamo la missione di riedificare tutto, a noi incombe il dovere di sollevare i corpi per poter sollevare le anime del popolo. Onde è necessario sin dal principio assodare la base dei nostri istituti economici con la cosi detta confessionalità; anche la Banca che vorremo fondare deve essere cattolica, e portare l'impronta del cattolicesimo puro, perché questo carattere toglie la morale pos- sibilità della bancarotta, l'agio di esercitare l'usura con i denari

1 Manoscritto datato 3 gennaio 1899. I1 progetto fu realizzato nell'aprile 1902, quando fu aperta la sottoscrizione per una Banca Cattolica Federale in Cal- tagirone. Cfr. Statuto della Banca Cattolica Federale in Caltagirone, A.L.S., f. 114, C. 115.

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affidati alla banca, il commodo [sic] di servirsi della Banca per scopi elettorali e per fini politici e per mene indegne.

Quindi necessità somma che gli azionisti sieno cattolici; e poiché tutti, a dritto o a torto si fregiano di questo nome, con- viene che in linea di massima gli azionisti siano soci dei nostri Comitati; così si rafforza anche la nostra propaganda e aumentano le nostre fila, e lo spirito e l'indirizzo morale della banca sia [sicl al lume dei principii religiosi.

Quindi credo proporre che la Banca abbia per l'indirizzo morale il suo assistente Ecclesiastico, e dipenda nell'indirizzo mo- rale dal Comitato Diocesano, come la nostra Cassa Rurale. Questo non toglie che non possano usufruire della banca facendo con essa operazioni contro pegno di valori o di titoli, scontando cambiali, assegni cambiari ecc., anche coloro che non siano soci dei Comi- tati ed opere annesse, basta che non siano apertamente contrarii alla Religione cattolica. Però a costoro, credo che non si pos- sano accordare prestiti sull'onore, tranne che la cambiale non sia avallata da un azionista.

Per questa ragione conviene stabilire delle norme tassative pel passaggio delle azioni per vendita, donazione, testamento da un possessore all'altro in modo che non debba accadere che uno che non appartenga ai Comitati ecc. divenga azionista. A questo punto si solleva la difficoltà del personale.

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IL DUELLO DRAMMA I N TRE ATTI '

(f. 126, C. 79)

Personaggi

GIACINTO, contino di TORREMARE - figlio del conte di Torremare

Conte di TORREMARE SILVIO - vecchio servo del Conte Avv. GIULIO FALCONI

1 amici di Giulio

Marchese GIANNOLFO Duchino LUIGI di ROCCAFERRATA MARIO GIACOMAZZI GIORGIO FUMI Cav. ENRICO D'ALLORO giovani dell'alta società GUGLIELMO BELFIORI GIACOMO dei conti LORISIO Sindaco di . vallefiorita Assessore di Vallefiorita Trattore Dottore Tre cavalieri - un Lacchè

L'azione è a Milano - epoca presente (verso il 1861)

Manoscritto datato 5 ottobre 1899.

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ATTO I

Interno di un caffé di campagna a cinque ore da Milano - tavolini rotondi - banco con sopra bottiglie, bicchieri, bricchi ecc.

Scena l

Az;v. Giulio Falconi - Roberto Aquilino - Adolfo Tornabene in abito di viaggio

GIUL. (entrando): Trattore! trattore! dove diavolo sei! trat- tore, dico.

RoB.: Ma oggi, caro Giulio, devi essere proprio di cattivo umore. Prima è il vetturale che ti dà noia, poi il facchino, adesso il trattore.. .

ADOL.: La dev'essere proprio così; anche la tua facezia hai perduto.

GIUL.: Eh! noie non ne mancano. RoB.: E si cacciano via. Tutti abbiamo delle noie, ora sono i

parenti che non mandmo denari, domani una fanciulla che ti abbandona o una cambiale che ti scade ... è questa la vita. Biso- gna pigliarla allegra, sai.

GIUL.: LO SO, lo so. (Siede seccato a un tavolo. Siedono anche Roberto e Adolfo) E il trattore non viene (Batte sul tavolo) Trattore! per tutti i diavoli! ... vieni o non vieni?

Scena I I

Trattore e detti

Tratt. (di dentro): Vengo, vengo. GIUL.: Alla malora! dove abiti, nelia luna? Tratt. (entrando): Scusino le loro signorie, ero di là ... per-

donino. Mica no1 faccio per dire, per lo più vengono quà a pigliar . un boccone degli operai e dei villanzoni ...

RoB.: E tu li lasci gridare a posta loro come cani.. ah! ah! ah! GIUL.: Via, porta tre tazze di caffè. Biscotti ne hai?

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Tratt.: Qui c'è tutto, signori; biscotti, ciambelle, caffè, ver- muth, cognac ... vero che la mia l'è una trattoria di campagna, ma i signori come loro ...

ROB. : Grazie! Tratt.: ... che vanno dalla Svizzera a Milano, passano di qua

e si fermano in questa trattoria che no1 faccio per dire, l'è buona. Faccio anche l'oste, l'albergatore, servo di pranzo, di cena... in- somma un po' di tutto.

GIUL.: Uff! basta; fa presto. Tratt. : Dunque, comandano? GIUL. : Tre tazze di caffè, con dei biscottini e una bottiglia

di vermuth. Capisci? e fa presto. Tratt. : Subito. (via)

Scena 111

Tutti meno il trattore

RoB.: L'ho detto che hai le lune a rovescio. Ma via, ricordati che sei fra due cari amici, compagni dall'infanzia, allegroni per natura, alrneno io ...

ADOL.: E io. RoB.: ... che pigliano le giornate come vengono: vento, ven-

to; pioggia, pioggia; sole, sole. GIUL.: Già, non bisogna avere nervi. ADOL.: I nervi ce li abbiamo tutti; e poi non siam mica le

giovanette. RoB.: Sicuro; il mio Giulio viene da Parigi, dove sono di

moda i nervi. Come si fa a farsi amare dal sesso gentile senza i nervi?

GIUL.: Oh! per questo, non sono uno zerbinotto da caffè io. RoB.: Non dico mica; ma insomma, si può sapere che mai ti

tormenta questa mattina? GIUL.: Sai, con le tue ciarle mi riesci noioso e stucchevole. RoB.: E' la prima volta che me lo sento dire. ADOL.: E da un amico come Giulio! ... Ma già mi sembra

essere nel caffè dell'eternità. I1 trattore non torna.

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ROB. (con satira): Doveva andare a Milano di certo a com- prare i biscottini.

( I l trattore viene con l'occorrente - dispone tutto sul tavolo) Tratt . : Comandano altro? GIUL. : Un limone. Tratt.: Subito è servita (tra sè). Questo signore (indicando

Giulio) non ha una buona cera. Vorrei sapere ... (via) RoB.: Un limone? GIUL.: Sì, perché ci ho ancora un travaso di bile ... ADOL.: Ma sù; infine, se siam degni della tua confidenza,

puoi dirci quel che soffri; è parecchie ore che ci siamo incontrati alla frontiera svizzera, e ci stai lì con un muso, una cera... Hai forse avuto cattivo viaggio da Parigi?

GIUL.: Pessimo. RoB.: Hai lasciato a Parigi qualche cara persona? (I l trattore porta il limone, dà uno sguardo e via)

GIUL.: NO; piuttosto una odiosa che forse mi recede nella via di Milano.

RoB.: Un rivale? GIUL. : E dei più fieri. ADOL.: Chi mai? GIUL. : L'avv. Giacinto Torremare. RoB.: I1 figlio del conte Torremare? ADOL.: Quel giovane alto, di facile parola e di modi squisiti? GIUL. : Squisiti? Villani. RoB.: Sarà questione di puntiglio? GIUL. (animandosi a poco a poco): No; è questione seria,

questione dalla quale oramai dipende il mio avvenire. Io e lui non possiamo più stare insieme in questo mondo.

RoB.: Ah! ah! l'è troppo largo sai. A ogni modo se valgo, son pronto ad aiutarti; mi conosci del resto. Ma, pardon, si potreb- be sapere ...

GIUL.: Si, si può sapere ... perché oramai Milano ne sarà piena Costui, l'aw. Giacinto Torremare, sembra che sia il mio genio malefico,, l'ombra che mi perseguiti. Sin da quando eravamo com- pagni in iscuola, egli mi contendeva sempre il primo posto, poiché, si sa, era figlio del conte, che si ricordava spesso dei maestri. Di idee, di sentimenti affatto contrarii, lui quasi clericale, per 16

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meno bigotto, io liberale di principi e di pratica, sempre eravamo in contesa e... ci odiavamo cordialmente.

ADOI,.: Ricordo, quantunque in diversa classe dalla tua; si- curo ricordo ... ma

GIUL.: Ma; laureati in legge, lui con lode s'intende, forte di protezioni e di aiuti ab alto, io penso avviarmi per la carriera diplomatica. Colgo l'occasione di un posto vacante al ministero degli esteri, e in attesa di un concorso, che si diceva prossimo, brigo per entrarvi ed acquistarvi in qualsiasi titolo. Lo sa Giacinto e tenta anche lui. Chi può combattere con l'oro e i titoli di nobiltà; l'ingegno non conta, e Giacinto piglia posto a Torino, al ministero degli esteri. Ciò è un anno.

RoB.:' Che vuol dire non essere filosofo, caro Giulio! Tu ancora non conosci il mondo ...

GIUL.: LO conosco, pur troppo. Senti Roberto, e poi con le tue facezie dammi sulla voce. S'indice ultimamente a Parigi un concorso internazionale per un posto importante nella carriera diplomatica. Io corro, fidando nel frutto dei miei studi, che mi hanno sciupato i più begli anni; e chi vedo a concorrere con me?

ADOL. : Giacinto Torremare? GIUL.: Sì, questo mio persecutore; ma mi confortava il

pensiero che a Parigi non eravamo in Italia, e infine i Torremare non son potenti dappertutto. Studio giorno e notte, metto in mezzo protezioni, dacché così va il inondo; ero proprio sicuro dell'esito favorevole del concorso, che mi apriva una carriera ono- rata nel mondo e mi poteva aprir la via per ottener la mano di una donzella, che da più anni amo, promessami dal padre, se vincevo il concorso.

ROB. : Ebbene? GIUL.: Tre giorni fa si seppe l'esito del concorso. I o fremo

al solo pensarvi; Giacinto, proprio di nuovo lui, ha attraversato la mia sognata felicità, lui, lui ha ottenuto il posto, ed io torno a Milano con l'animo pieno di fiele, deciso a farla finita; avvenga che può [sicl.

RoB.: Ma te l'ho detto io; piglia le cose come vengono, se no, la sbagli.

ADOL.: Compatisco il tuo dolore, amico, ma infine, che torto vuoi fare a Giacinto se concorre anche lui?

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GIUL.: Torto? Ma se egli ha deciso attraversarmi i passi? Egli ricco, figlio di un conte stimato in tutta Milano, a che pro cercare posti e tentare concorsi? Lasci a noi questa via che abbia- mo bisogno di formarci una posizione, della quale gli è stata, a torto, larga la natura ... Infine, se si trattasse di meriti veri d'inge- gno, non gliene farei torto; ma vincere perché è ricco e blasonato, non lo tollero. Non posso soffrire il suo sguardo, il suo disprezzo; lo vidi quando c'incontrammo, dopo l'esito, dal conte D'Alanibres, lodato, corteggiato, mirarmi con l'occhio di compatimento, dopo aver tenuto dietro ai miei passi, per correre a Torino o a Parigi, dov'è ch'io vada, per sopraffarmi. Ah! il mondo è grande per tutti e due; e se non ci può contenere, son deciso, o io o lui.

RoB.: Eh! bubbole! ci starete tutti e due, lo scommetto. Infine, un po' di sangue freddo, la rabbia passa dopo una fumata e si provvede al meglio.

Scena IV

Trattore e detti

Tratt.: (toglie le tazze, i bricchi): Comandano altro? ADOL.: IO quasi quasi vorrei far dejeuner; altre cinque ore di

viaggio a stomaco mezzo vuoto non fan bene, sai; son circa le nove di mattina, che ne dite?

RoB.: IO sarei intimamente d'accordo; e se Giulio ... GIUL.: IO no, non ho fame. Voi fate pure il vostro comodo,

assisterò per tenervi compagnia. RoB.: Al piacer tuo; senza però tener il muso lungo. Ebbene:

due bistecche di manzo, vino frutta. Ne hai? Tratt.: Qui non manca niente; (tra sé) stamane la giornata

comincia per benino. (S i avvicina alla porticina di lato): Amalia, prepara due bistecche. (Torna a prender i vassoi del caffè) E loro vanno a Milano?

ROB. : Sicuro. Tratt.: Gran bella città Milano: io ci ho passato i miei begli

anni, e mi ricordo le cinque giornate, mi ricordo. Adesso è un fer- mento; impiantar cose industriali, allargar la città ... eh! loro son giovani e ne vedranno, ne vedranno ...

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ADOL.: E come la passate in questo caffè di campagna? Tratt.: Ecco: (posa i vassoi in un altro tavolo) discretamente

bene. Gli operai che vanno in Isvizzera passano di quà e anche per lo spesso ci vengono dei signori. E' questa l'ultima tappa d'un

-viaggio lungo e noioso; e qui si riposano e ristorano uomini e ca- valli. E poi, non faccio per dire, tengo ben fornita la mia trattoria, e tutti ne van via contenti.

RoB.: E pelati. Non è vero? Tratt.: Eh! no1 faccio per dire, i miei prezzi sono discreti. Le

pare, a cinque ore e più da Milano ... ADOL.: (imitando): no1 faccio per dire, la vostra mi sembra

la trattoria dell'eternità. Con la vostra chiacchiera le bistecche si attenderanno per questa sera.. .

Tratt.: Non dubiti; ci ho una moglie che, no1 faccio per dire, cucina bene; del resto il tempo ci vuole, non si fan mica d'un soffio. (rumore dalla porta d'entrata). Oh! Ecco gente. (si fa alla porta)

GIUL.: Uff! Tutto mi annoia. Hai un giornale (ad Adolfo) ADOL. : Il Corriere detla Sera. GIUL.: Un buon sonnifero. Dammelo. (legge e fuma una

sigaretta)

Scena V

Avv. Giacinto Torremare - Duca Luigi Roccaferrata ( in nbiti da viaggio) e detti.

Tratt: (facendo un inchino): Signori! GIAC.: Adesso poche ore e saremo a Milano. Mi tarda mille

anni arrivarvi. LUIGI.: Cinque ore altre. Trattore, porta due bistecche, del

pane e del vino, s'intende, frutta e poi due ciotole di caffè. Tratt.: Serviti, Signori. (tra sé) Stamane la va proprio bene.

(via) GIUL.: Chi vedo? I1 diavolo me lo porta fra i piedi! (conti-

nua a leggere e fumare) (Giacinto e Luigi siedono alla tavola opposta, salutando

gli altri) .

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GIAC. e LUIGI: Buon giorno, Signori. ROB. e ADOL. : Buon giorno. RoB.: Ci siamo. GIAC. (pensoso - a sé): Qui Giulio? Oh! Dio, egli mi odia.

Sembra che proprio io cerchi attraversargli la via della fortuna. Ma se mi vedesse il cuore! Pare che il destino ci abbia congiunti per essere due emuli; pure io non lo sento; e se potessi dirgli una parola benevola (pensa)

LUIGI: Che pensi? GIAC.: Nulla. LUIGI.: Sei stanco? GIAC.: Alquanto. Abbiamo fatto in poco un lungo viaggio

e precipitato su certi calessi, Dio ne guardi i cani ... LUIGI. : Potevamo fermarci a mezzo cammino, per ristorarci. .. GIAC.: NO, no; mi preme tornar presto a Milano. I1 padre

sta in pena per me e tua sorella Adele che tanto amo, soffre della mia assenza, come del resto soffro io; e poi mi interessa non differir più gli sponsali.

LUIGI: Di certo; ella giorno e notte pensa e si strugge di te. Piena di timori, come sa temere una che ama, non è felice se non quando ti è allato [sic]. Le ho subito telegrafato l'esito del con- corso più che mai splendido, e prevedo, sento la sua gioia ...

GIAC.: Anima celeste, per poco ancora e i nostri cuori saranno uniti da un nodo santo e indissolubile.

GIUL.(U sé): La sua gioia mi fa male, vorrei uscir di quì ... ma no, non si dica che son debole e sfuggo il suo sguardo di di- sprezzo (si morde le labbra).

ROB. (guarda Giulio - ad Adolfo): Prevedo burrasche. ADOL.: E quella bestia di trattore non spunta. LUIGI: Quando penso alla gloria che ne verrà alla mia fami-

glia, ora che stai per impalmare mia sorella, dai tuoi meriti, mostrati a Parigi in modo splendido ...

GIAC.: Ma che dici, amico? La Roccaferrata ha tante glorie da non poter aggiungere nulla le mie miserie. Via, lasciamo questo discorso.

LUIGI: E dire che quel tipaccio dell'aw. Falconi preten- deva ... Sta là con un muso...

ROB. : Trattore! Trattore!

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GIAC.: Non dir così; ogni uomo tenta il suo meglio e fa bene ... LUIGI: Ma non calunnia, né ... basta, so quel che mi dico. (Viene il trattore) RoB.: Insomma? o presto le bistecche o vado via. Tratt.: Son pronte; che vuole? come si fa a servire a tanti

d'un fiato? ADOL.: Già, nella tua trattoria ben provvista, che no1 faccio

per dire. .. (marcando) Tratt.: Perdoni: non credevo che stamane avrei avuto tanti

avventori. (via)

Scena V I

Sindaco e Assessore, di Vallefiorita con cappelli a cilindro e detti

Sind. ( d i dentro): A me, sindaco di Vallefiorita, non si parla così. (entrando) Sempre villana, zotica questa gente. I1 sindaco di Vallefiorita paga sempre bene. Assessore, venite a rifocillarvi.

RoB.: Oh! Oh! Sentiamo quest'originale! Giulio, lascia i tuoi pensieri adesso c'è da ridere.

( I l trattore va e viene, servendo alle diverse tavole) GIUL.: Non ne ho voglia; Sind. (facendo una scappellata): Signori, illustrissimi, ho il

piacere e l'onore di riverirvi. Tutti meno Giulio: Piacere e onore il nostro. Sind.: E con me vi presento il mio assessore della polizia

urbana e rurale, uomo onesto e leale, benché non sia all'altezza dei tempi. Ha viaggiato poco. E' la prima volta che viene a Milano.

Ass. (inchinandosi): Sicuro. RoB.: E lei sarebbe, se non le dispiace ... Sind.: Anzi: sono il sindaco di Vallefiorita, e vado a Milano

col mio assessore chiamato dal Prefetto per affari urgenti. ROB. : Affari elettorali? Sind.: Eh! non so; dice la lettera (la piglia e la legge) « La

prego di recarsi domani in Milano al palazzo della Prefettura, per trattare di affari urgentissimi o.

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Ass. (che ha accompagnato le parole della lettera col capo): S' icuro.

RoB.: Fortunato della sua conoscenza. Ella sarebbe dunque il sindaco di ...

Sind.: ... Vallefiorita, comune di circa duemila anime, distante da Milano dieci ore di vettura. E' un anno che mi elessero ad unanimità sindaco. Eh! non avrebbero potuto scegliere altri che me. Non è vero assessore?

Ass.: Sicuro. Sind. (al trattore): Trattore, due portate di lesso, due di

arrosto, vino buono; presto, una per me e una per l'assessore. Quando si viaggia si mangia.

Tratt.: Servito. (via) GIAC. (a Luigi): E' proprio un originale costui. LUIGI (a Giac.): Zitto; mi piace, sai; ci ho gusto. Sind. (a Roberto): I1 suo nome? Scusi: io ho gran piacere

di far conoscenze: già ne ho un mondo. Nell'ultimo viaggio che feci, allora ero sindaco da pochi mesi, ebbi l'onore di trattare alla amichevole con conti, marchesi e deputati. E mi son rimasti amici. Si acquista molto viaggiando.

RoB.: Il mio nome, certo non di conti o cavalieri, è Roberto Aquilino di Milano.

Sind. : Fortunato di conoscerla. GIUL. (con satira): Ma non dubiti; fra noi vi sono conti e

duchi. Sind.: Fortuna per me; ella forse? GIUL.: NO; io sono il ... miserabile avvocatuccio GiuIio

Falconi. GIAC. : Troppa satira! ADOL.: A v v ~ ~ a t u ~ ~ i o per dire; ma gode fama anche a Parigi. Sind.: Allora sarà per troppa modestia. GIUL.: NO, no; è la verità. I1 conte è lì, l'aw. Giacinto Torre-

mare, fortunato (marcando) vincitore di concorsi nazionali ed esteri.

GIAC.: L'awocato, credo, non vorrà farmene un capo d'accusa. GIUL.: Ma le pare! io l'ammiro. Sind. (con grande inchino): Signor Conte. (all'assessore)

Ma fate pure riverenza, per bacco!

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Ass.: Sicuro. (fa un inchino goffo) Signor Conte. ROB. (ad Adolfo): C'è .da ridere! Questi (presentandolo) il

signor Adolfo Tornabene, di famiglia patrizia. Sind.: Piacere e fortuna. E lei? LUIGI: I1 Duca Luigi di Roccaferrata. Sind.: Che combinazione! Che fortunata combinazione! Mi

permetta che le stringa la mano. E vanno tutti a Milano? RoB.: Si, tutti; a godere della patria natia. (Il trattore serve il sindaco e l'assessore) Sind.: (Dopo aver beuzito un bicchieve di vino - a Giacinto):

Dunque il signor conte viene da Parigi? GIAC.: Sì. Sind.: Gran bella città Parigi! e scusi, per che ha concorso ella? GIAC.: Per un posto nella carriera diplomatica. Sind.: Sicché lei ora si può dire un diplomatico. Avrà certo

avuto molti competitori? GIAC.: Sì, molti, eravamo cinquanta e più. Sind.: E lei ha superato tutti? GIAC. (con un sorriso): Pare. L ~ I G I : No1 dico perché è mio amico e promesso a mia sorella;

ma il contino è proprio un ingegno privilegiato. GIUL. (a sé): Io fremo. ROB. (ad Adolfo): Fa presto e andiamo: la non va bene. Sind.: Io non so chi ringraziare d'avermi fatto imbattere in

lei e conoscerla. E' stata la mia buona stella che mi ha fatto arri- var qui proprio a quest'ora. Non è vero assessore?

Ass. (scuotendosi dal mangiare): Sicuro. ROB. (ride e finge col gomito Adolfo): E' da fotografare quel

tomo di assessore; ah! ah! ah! ADOL.: Zitto là. Sind.: E dica; io ho piacere di sentirla parlare; il concorso

fu difficile? GIAC. : Molto difficile. LUIGI : Difficilissimo. Sind.: E lei vinse? GIUL: IO muoio dalla rabbia ... Sind.: Ah! lasci che le stringa la mano; me ne rallegro assai,

ne godo, come di cosa mia. Vinse un milanese a un concorso inter-

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nazionale a Parigi; un milanese vuol dire un mio quasi concitta: dino. (stringe la mano a Giacinto).

GIAC: Grazie, grazie; obbligatissimo. (a sé) Mi duole per Giulio. Poverino, soffre.

GIUL: (scattando): Sì, vinse un milanese, ma un altro mila- nese doveva vincere, non egli.

LUIGI: Che dice? Sind.: Chi? Egli? GIAC.: Compatisco al tuo dolore. GIUL.: NO, non ho bisogno di chi mi oltraggi con l'insulto,

dopo aver giurato di impedirmi ogni passo in avanti e attraver- sarmi ogni via; non ho bisogno dell'insulto di un compatimento, di chi non sa far valere altro che i suoi titoli di nobiltà e la potenza del suo oro.

ROB. : Giulio, per carità ... Sind. (imbarazzato) : Ma signore. LUIGI: Giacinto; andiamo. GIAC.: NO, ben altri che i Torremare mettono in mezzo

protezioni comprate dall'oro o dal blasone; e se fortuna mi ha arriso o meglio la provvidenza, non per questo hai ragi'one di offenderti di me.

GIUL.: Sì. RoB.: Ma Giulio, cessa ti dico. GIUL.: Sì, ne ho ragione; la tua boria, il tuo fasto, la tua

millanteria mi offendono. Oh! non sono io stato qui a sentirti contare i tuoi miracoli, numerare i tuoi allori, incielare [sicl la tua vittoria? Qui proprio qui, innanzi a me, non rispettando al dolore profondo di chi meglio di te meritava un posto agognato, dopo stenti e studi, e rapitogli più che dalla tua ambizione, che rispet- terei, dai tuoi raggiri.

LUIGI: Ritira quella parola, o ti farò pagar caro l'insulto. GIUL.: E lei, che c'entra lei? LUIGI: Ne ho ragione, perché Giacinto mi appartiene come

futuro cognato. Sappia che l'avv. Torremare non ha mai usato raggiri o calunnia come ha fatto I'avv. Giulio Falconi. Basta, andiamo di qui, se no...

GIUL.: (acceso) Se no? Che vuol dire se no? Si unisca pure al mio persecutore, non vi temo.

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GIAC. (dolce): No, Giulio, non sono stato, nè sono il tuo persecutore. Io conosco il tuo ingegno e l'ammiro; non ti disprez- zo ma ti stimo; né mi sento offeso dalle tue parole, benché suo- nino offesa al mio onore, perché il dolore ti fa velo alla mente.

Sind.: Oh! che imbrogli! Ma che sciocco volersela pigliare con un conte! Non è vero, assessore?

Ass.: Sicuro! GIUL. (con satira): Offesa? Al tuo onore? Bisogna dimo-

strare se ne hai. ADOL.: Via Giulio, sii calmo, te ne prego. GIAC.: Le tue offese sanguinose le rigetto e le disprezzo. I1

mio onore mi vieta di protrarre più a lungo un disgustoso inci- dente, che turba la tranquillità di questi signori.

Sind.: Ma via, signor conte, Ella ci perde di dignità. GIUL.: Sicuro, di dignità, uno che ha vinto un concorso in-

ternazionale diplomatico a Parigi. Via buffoni. GIAC.: Misura le parole. GIUL.: Le ho misurate fin troppo; ora ho diritto ed esigo

una riparazione. GIAC.: Devo riceverla e non darla la riparazione; del resto,

son superiore a tanto, e non la voglio. GIUL.: La voglio io: a Milano ce ne parleremo. LUIGI: A Milano ti farà conoscere quanto sei vile. RoB.: Ma signore ... GIUL.: (inviperito): Vile, a me vile? Domani mi conosce-

rete sul campo dell'onore: ecco i miei padrini, Adolfo Tornabene e Roberto Aquilino; scegliete come vi pare la spada o la pistola; vi sfido ambidue, il contino che mi satireggia e il duchino che mi offende.

Sind.: Oh! che imbrogli! spade! pistole! Oh che imbrogli! (all'assessore). Vorrei andar via; non è vero assessore?

Ass.: Sicuro. GIAC.: IO non accetto partite d'onore; perché ne ho abba-

stanza e ben tutelato. GIUL. (c.s.): NO, non ne hai. Ti rifiuti di batterti perché

vuoi serbare sana la tua pelle ai gaudii della vita. GIAC.: HO tanto d i coraggio da sfidare la morte; e lo sai

che l'ho incontrata per ben due volte per salvare la vita ai miei

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simili. Ma ch'io accetti un duello, no; la coscienza e la religione me lo vietano.

LUIGI: Ti farò fare io il millantatore e ti farò ben pagare le offese e i torti. Sì, io accetto; non ho gli scrupoli dell'avv. Tor- remare.

GIAC.: Non sono scrupoli; è il dovere. Del resto sono io l'offeso e gli perdono.

GIUL.: Non mi oltraggiare di più ... RoB.: Ma via, lasciate gli oltraggi e i perdoni; tutti e due

avete ragione e torto. Sind.: Già, tutti e due avete ragione e torto. Non è vero

assessore? (all'assessore). Ass. : Sicuro! GIAC.: (nobile): No, signori; il mio torto è uno, un solo;

l'aver vinto il concorso. GIUL. (con forza): E il mio quello di essere stato vinto. Eb-

bene! a Milano vedremo chi è il vincitore e chi il vinto. E se rifiuti di batterti in duello, se hai tanta paura della spada, saprà Milano, l'Italia e la Francia che uno addetto alla diploma- zia dei conti di Torremare si è rifiutato di battersi sul campo del- l'onore.

GIAC.: Non ti temo né colla spada, né colla penna. LUIGI: A Milano ci parleremo. (Roberto e Adolfo a stento conducono fuori Giulio - E'

già accorso l'oste - Luigi piglia a braccio Giacinto) (Via). Sind. (dopo zln tratto): Oh! che imbrogli! oh! che imbrogli! ...

(va a sedere) Mangiamo il povero lesso che è già freddo. Non è vero assessore?

Ass.: Sicuro! (cala la tela)

Fine del I atto

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ATTO 2'

Scena I

Stanza di Giacinto nel Palazzo dei Torremare a Milano

Conte avv. Giacinto Torremave e Duchino Luigi di Roccafer- rata

GIAC. (seduto vicino a un tavolo - sta pensoso - scuoten- dosi): Dunque, sei risoluto di batterti?

LUIGI (passeggia, si ferma, lo guarda): E me lo domandi? GIAC.: Ma pensa, Luigi, pensa che il dovere, la coscienza ...

(si alza) LUIGI: Torni a ripetermi le stesse ragioni? E' inutile ogni

tuo dire; ho accettato e non posso rifiutarmi; se ancor sono cava- liere onorato.

GIAC.: Ma Luigi, tu educato nei principii religiosi da quel- l'angelo di tua madre, tu che hai sempre ascoltato la voce della coscienza, vuoi tu ora ribellarti ad esse, per rispettare un costume barbaro e inumano?

LUIGI: Oh! credi tu che non debba curare il mio onore, e farne getto alla spensierata, cofne fai tu?

GIAC.: Bel modo di salvare l'onore assalendo a sangue freddo un tuo simile, ferendo o restando ferito, esponendo la pro- pria vita senza ragione, quella vita che deve esser utile alla fami- glia e alla società! Non par vero che col tuo ingegno e il tuo ani- mo superiore ...

LUIGI: Non par vero che col tuo ingegno e il tuo animo su- periore, tu l'abbia a pensare nel modo più originale e singolare che mai. Così vorresti fare il monaco in cella, che si accetta an- che gli schiaffi per amor di Dio. Via, fammi il piacere ...

GIAC.: E ti par poca virtù quella, o Luigi? Non la cambie- rei io per il pregiudizio di un mondo fanatico, che non sa far altro che dar la prevalenza al dominio della forza su quello della ragione? Che acquisti tu di ragione ferendo l'avversario, e che perdi se rimani ferito? Che cosa dirime un duello?

LUIGI: Ma che torto o ragione? Tu mi riesci questa sera un eccentrico senz'altro. I1 duello non pesa ragioni; solo dà un'ono-

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rata soddisfazione ad ambe le parti che pretendono tutte e due aver ragione, senza l'umiliazione di una scusa o d'un perdono. Ma via, Giacinto, non ho voglia di discutere teco. Son venuto per dirti che tu ti devi battere; non invertiamo le parti. Io ho accettato la sfida, tengo al mio onore e mi batterò.

GIAC.: Ed io non mi batterò; le mie convinzioni sono su- periori al pregiudizio della società.

LUIGI: Ma si può bene fraintendere; credendo che tu voglia vestir la debolezza d'animo del manto della religione e del do- vere.

GIAC.: Chi mi conosce, mi crederà e approverà il mio ope- rato. Che non l'approvi la società non curo; non ne ho mai cer- cato il plauso, non ne temo il biasimo.

LUIGI: Ma Giulio ne menerà scalpore assai grande, e avrj. la soddisfazione di poterti chiamare un vile ...

GIAC.: Non lo curo. LUIGI: I1 tuo cinismo mi fa arrabbiare. GIAC.: E il tuo pregiudizio mi fa piangere. Luigi, no, non

credo che tu non senta, che tu soffochi la voce della coscienza. LUIGI: Giacinto mio, non mi mettere nelle torture. Quando

mi son deciso, ho avuto una buona ragione per decidermi, e non voglio mutar consiglio. Infin dei conti, vivo nella società, e non nel deserto.

GIAC. (passeggia - pensd - si ferma, guarda a lungo Luigi): Vivi nella società! ... anch'io ci vivo ...

LUIGI: Sarai un essere eccezionale ... Ti ammiro, se vuoi ... Ma, lasci che te lo dica, tu non hai pensato alle conseguenze del tuo rifiuto.

GIAC.: Ci ho pensato e non temo l'avvenire. Infine, infine mi crederanno di animo debole? Tu sai che ho esposto due volte la vita per salvare una fanciulla che annegava nel Po, e una car- rozza con dei passeggeri che stava per precipitare nella valle del Brenta ... Non feci che . mio dovere ...

LUIGI: Se lo so io, non lo sapranno altri. Che vuoi che si sappia o si pensi cose già dimenticate da più di un anno.

GIAC. : E non me ne importa ... LUIGI (incalzando): Ma t'importerà di tuo, di mio padre, di

Adele ...

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GIAC.: Che intendi tu dire? LUIGI (fermandosi): Intendo, che mio padre educato alla

cavalleria potrebbe avere a male il tuo rifiuto ... l'affare del ma- trimonio con mia sorella ... che so? per ora egli non sa nulla, Ma se la cosa si risaprà ...

GIAC.: E si vedrà chi ha ragione e chi ha torto ... Via, Luigi, non tentare di persuadermi con lo spettro di uno schianto del mio cuore. Adele è mia e nessuno me la toglierà. E tu mi fai torto a dirmelo.

LUIGI: Non per contristare i1 tuo cuore, ma per l'affetto che porto a te e alla mia Adele, devo manifestarti i miei timori. Nes- suno certo vorrebbe dar la figlia a chi sarà dalla società stimato, anche a torto e ingiustamente, un vile.

GIAC.: Credi tu così irragionevole tuo padre? L'è uomo e sa bene come va il mondo.

LUIGI: E sa bene, che il torto è tuo nel non accettare una sfida, che s'impone per la natura dell'oltraggio e la qualità del- I'oltraggiatore. Anzi non potrà egli scusarti quando saprà che io, io pel tuo onore concultato, vilipeso da quella canaglia, presi le tue difese e accettai la sfida.

GIAC.: Non mi mettere la febbre addosso, Luigi. Vedi il torto che mi fai, accettando?

LUIGI: Vedi il danno che tu fai a te, a mia sorella, non ac- cettando?

GIAC. (passeggia e pensa): Ma non potresti tu? ... LUIGI: Che cosa? GIAC.: Non potresti, dico, venire a un qualsiasi onorato ac-

comodamento ed evitare il duello?

Scena II

Conte Torremare e detti

Conte (entrando): Figlio, è ora di andare al soirè del mar- chese Giannolfo, e se il duchino il permette ...

GIAC. (a sé): Che contrattempo!

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LUIGI: Ma le pare! sarò forse stato involontariamente ca- gione di farla attendere alquanto, e me ne duole.

Conte: No, no, caro; e tu ci verrai? LUIGI: Forse a tarda ora; un affare d'importanza mi chiama

altrove. Lì verrà il padre con la Adele. Conte (a Giac.): E tu sei ancora stanco? GIAC.: Alquanto, ma non monta, andiamo. (a sè) Bisogna

fingere allegria e tranquillità. Conte: Sì, sì, andiamo; questo è giorno di festa e bisogna

terminarlo bene. Ti presenterò alla migliore società, onorato di un titolo d'ingegno, superiore a quello del blasone; ti farò cono- scere il marchese Giannolfo, gentiluomo perfetto, sai, che dopo aver passato i migliori suoi anni a Londra, tornato a Milano, si gode con sfarzo nobilesco i frutti dei suoi onorati sudori.

GIAC. (stentato): Ne ho piacere.

Scena I11

Mario Giacomazzi e detti

MARIO (alla porta): Si può? Conte: Avanti. Oh, Mario! entra, entra pure. GIAC.: Caro Mario ( lo abbraccia) MARIO: Giacinto mio, le mie congratulazioni sincere, affet-

tuose. Oh! che gioia nell'abbracciarti. E stai bene? GIAC.: Sì, e tu? MARIO: Sempre bene, a mio modo. GIAC. E i tuoi affari? MARIO: A meraviglia. Pochi minuti fa seppi del tuo arrivo

e son venuto di filato ... GIAC. : Oh! grazie.. . MARIO: Eravate per uscire? Forse per andare dal marchese

Giannolfo? Conte: Per l'appunto. E tu sei fra gl'invitati? MARIO: Sì; c'è mezza 'Milano invitata. Ebbene, andiamo. Conte: Andiamo (si avviano)

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[Mutazione di scena1

Nel Palazzo del marchese Giannolfo: Sala da giuoco - tavo- lini da giuoco con steariche accese - contigua a destra è la gran sala dove si tiene soirée - a sinistra sala del bigliardo - grande sfarzo d'illuminazione - gli attori sono vestiti in abito di società.

Scena IV

Enrico D'Alloro e Giacomo Lorisio siedono a giuocare agli scacchi - Giorgio Fumi e Guglielmo Belfiore giuocano a carte - Dalla sala attigua a destra si sentono le ultime note di un canto accompagnato dal piano - I giuocatori stanno muti - Termi- nato il canto, dietro le quinte scoppia una salve di applausi pro- lungati - Qualche signore che entra nella sala da giuoco per fu- mare! guarda il giuoco e passeggia - Lacchè che passa in fondo.

Questa scena sarà condotta a tempo, come usano i giuoca- tori.

GIORGIO (terminati gli applausi): Finalmente! A me la mu- sica fa l'efretto di un sonnifero!

ENRICO: IO vado ai soirès per giuocare, non per sentir mu- sica.

GUGL.: Già giuocare o far la corte. GIORGIO: Ci si intende

f pausa)

ENRICO: Scacco al re. Questa volta te l'ho fatta. GIACOMO: Credi con uno scacco al re d'aver vinto la par-

tita? (pausa)

GIORGIO: Punto re di spada. GUGL.: Che t'infilzerà le budella. Qua le carte.

GIORGIO: A me una donna, e ho vinto. GUGL.: (trionfando - getta le carte sul tavolo): La donna

è mia.

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GIORGIO: Sorte crudele! ENR.: Eh! Eh! non ci stordire con le tue sorti crudeli. Ci ba-

sta la musica che c'introna le orecchie. .GIORGIO: Ma quando si perde? GUGL.: Si punta di nuovo... e si vince.

(pausa)

ENRICO: para, para quest'assalto di alfiere. GIAC.: (gzlarda lo scacchiere): Sì, con la pedina. ENR.: Ve'! non me n'ero accorto.

GUGL.: Sai nulla, Enrico? ENRICO: Che cosa? GIACOMO (stizzito): Ma bada al giuoco, cospetto! ENRICO: Si, si. (a Guglielmo) dunque? GUGL.: Fa carte. E' tornato da Parigi il contino di Torre-

mare, vincitore del concorso internazionale di diplomazia. ENRICO: Sì? Oh ci ho piacere: un giovane d'ingegno ... GIORGIO: Si, dici bene: ma a quanto ho inteso pusillanime

e vigliacco. ( i due signori che fumano si avvicinano per sentire) GIACOMO: Scacco alla regina. ENRICO: Perché vigliacco? GIORGIO: A me carte. Perché ha rifiutato una partita d'onore. ENRICO: Ma non ci credo, sai. Scacco al re. Io lo conosco

il contino, e non ci credo. GIACOMO: E lascia ciarlare. Non è scacco al re. ENRICO (guarda con attenzione lo scacchiere): Hai ragione;

ma non monta: il tuo cavallo è perduto.

ENRICO (ripigliando): Di grazia, Giorgio, con chi si do- veva battere?

GIORGIO: Punto asso d'oro. Con I'avv. Giulio Falconi, suo competitore.

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GUGL.: L'è proprio così. Me l'ha assicurato mio cugino Adolfo Tornabene, uno dei padrini dell'avv. Falconi.

ENRICO: Mi fa meraviglia, sai ... un giovane come lui. Edu- cato alla cavalleria.. . rifiutare di battersi.. .

GUGL.: Con la scusa del dovere e della coscienza. Ah! ah! Ne ha troppo coscienza ...

GIORGIO: Hai ragione.. .

ENRICO: Levo le pedine e conto ... Quattro. GIACOMO: Conta pure; raggiungerò il tuo re fosse in capo

al mondo. ENRICO: Cinque. Più ci penso e più mi sembra impossi-

bile che Giacinto ... Non è vero Giacomo? GIACOMO: Anche a me sembra impossibile. ENRICO: Sei.. .

(pausa) GUGL.: E te ne ho vinto tre partite! GIORGIO: Giuochiamone una quarta. Fa carte.

(I due signori vanno via a destra dicendo: buon giuoco!)

Scena V

Giulio - Roberto e detti

GIUL.: E COSI? RoB.: Vuoi fare una partita? GIUL.: Al piacer tuo: giuochiamo agli scacchi? RoB.: IO passerei di là (a sinistra) per una partita al bi-

gliardo. Poi ritorneremo a sentire un po' di musica. GIUL.: Sai ... (lo tira avanti un po') GIACOMO: Non puoi muovere il re. ENRICO (trionfando): Allora è stallo! GIACOMO: Sciocco che sono stato (rimettono i pezzi a posto

per una nuova partita). GIUL.: Sai; dopo lo sfogo di stamane mi sento meglio.

Vediamo se il valoroso contino si batterà. Già, se si batterà,

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spero d'infilzarlo per bene; se no, potrò in faccia alla societa but- tarlo nel fango. Nell'un caso e nell'altro, sono vendicato.

RoB.: Meno male che questa sera non te la pigli calda; se no, ti piantavo. I n quelle scenate, lo sai, non ci ho gusto; io me la piglio un tanto alla calata; e mi duole aver accettato di farti da padrino.

GIUL.: (risentito): Come? Un amico par tuo, che vede vilipeso, oltraggiato, perseguitato l'amico, e la pigli così fredda?

RoB.: Basta, basta: hai ragione. Andiamo a giuocare. ENRICO (voltandosi): Oh! Roberto! e ben venuto! ROB. (gli stringe la mano): Ben trovato. Si vince? ENRICO: Si vince e si perde. E dì, sai nulla del duello

dell'avv. Torremare? Dicono che si è negato a una partita di onore.

RoB.: Gli è proprio così. ENRICO: E lo sai certo? ROB. : Ero. presente, e son padrino dell'offeso. ENRICO: Chi è mai il rivale? RoB.: L'avv. Giulio Falconi, che ho l'onore di presen-

tarvi. ENRICO: Onore il nostro. Signor Avvocato. GIUL.: Tutto mio. RoB.: Questi è il cav. Enrico D'Alloro (Giulio gli stringe

la mano) e il compagno di giuoco Giacomo dei conti Lorisio. GIORGIO: Noi ci conosciamo, avvocato. Ti auguro fortu-

na nel duello. RoB.: Nei duelli. GIORGIO: Come, come? RoB.: Ha sfidato per la stessa ragione il duchino dei Roc-

caferrata, il quale ha accettato. ENRICO: E Giacinto, no? L'è grossa (a Guglielmo). GIORGIO: Scusa amico; questi è il mio caro Guglielmo Bel-

fiori, che vince sempre. GIUL. (stringendo la mano): Le auguro fortuna costante. ENRICO (con interesse): Ma perché Giacinto ha rifiutato

di battersi? GIUL. (satirico - con intenzione): Dice che la coscienza ...

il dovere..

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Tutti: Ah! ah! ah! GIORGIO: Cospetto! l'è un caso nuovo... GIACOMO: E desterà molto scalpore nella buona società ... ENRICO (c.s.): E non è egli venuto al soirè? RoB.: Non saprei; non l'ho già visto. GIACOMO: Gli rimorde la coscienza. GIORGIO: L'ha così delicata! ENRICO (a sè): Povero. amico ... ne ho pena ... ma l'è grossa! RoB.: Addio Enrico; signori, mi permettano; vò a fare

una partita a bigliardo con l'avvocato. ENRICO: Fa pure. Buon giuoco. GIORGIO: Fortuna, avvocato, nel giuoco' e nei duelli. GIUL. : Grazie. Signori! GUGL e GIACOMO: A rivederla (Giulio e Roberto via). GIACOMO: Un giovane a modo, l'avvocato Falconi. GIORGIO: Gentilissimo. Fa presto, a tirare ci vuole un se-

colo, caro Guglielmo. GUGL.: Un secolo! ma vorresti che perda?

ENRICO: Para, para questa. GIACOMO: I1 giuoco non va bene ... ENRICO:. Va bene ... eccolo. Scacco matto! Questa volta

l'ho vinta. GIAC.: E' la prima. Quel Signore mi ha fatto distrarre. ENRICO: Già, già, distrazione. Quando si perde è distra-

zione, e quando si vince, perizia.

(pausa)

Scena VI

Marchese Giannolfo e detti

March.: Si giuoca eh! e chi vince? (i giuocatori si levaio in piedi) No, no; stiano commodi. Mi fa piacere il loro giuoco. Ciò mostra che hanno gradito l'invito fatto loro, e usano libe- ramente, preferendo i1 giuocar alla musica.

ENRICO: Grazie alla squisita cortesia del Signor Marchese.

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March.: Ma le pare; ho piacere vedere la mia casa ono- rata del fior fiore della gentilezza che vanti Milano. Questo costume dei miei padri, ritornato dopo lunga assenza da Lon- dra, l'ho ripigliato ancor io. Questa sera poi avremo il piacere di sentir cantare la celeberrima signorina Patti, pregata da me stesso personalmente. E non tarderà a venire. Poscia vi sarà ballo. E mi gode l'animo che questa sera il numero dei signori e delle signore l'è straordinario.

GIORGIO: E chi non accetta gl'inviti di si nobile e gentile Marchese?

March.: Grazie del complimento. La gentilezza è in chi fa e in chi accetta l'invito; anzi più in chi l'accetta che in chi lo fa.

GIACOMO: Troppo gentile. March.: Torno in sala. Buon giuoco, signori; buon giuoco!

(via). Tutti (si levano da sedere): Devotissimi (siedono). GUGL.: Fior di nobiltà, il signor marchese! GIORGIO: Splendido, addirittura! ENRICO: Non v'ha a Milano chi lo pareggia..

(pausa) GIAC.: Bravo! adesso il colpo è fatto. Vediamo come sal-

verai la tua disgraziata' regina. ENRICO: Eh! la salverò, la salverò. (Silenzio - ripiglia la musica per poi cessare - applausi

e battimani in fine).

Scena VI1

Giacinto e detti

GIAC. (entra un po' turbato - si avanza alquanto): Io sof- fro.. . io fremo ... quegli sguardi. .. quelle parole sussurrate al- l'orecchio.. . quel disprezzo.. . Adolfo, Adolfo Tornabene que- sta sera mi vuole compromettere ... sarebbe meglio andar via ... si finga (passeggia)

GIORGIO: I1 contino Giacinto Torremare? GUGL. : Quelio?

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GIAC. (accorgendosi di Enrico, gli si avvicina e fingendosi tranquillo): Caro Enrico, come stai?

ENRICO (senza levare gli occhi - secco): Bene (continua a guardare con attenzione la scacchiera)

GIORGIO (a Gugl.):Ma l'è un'audacia venir quì. GIAC. (dopo aver guardato un po' il giuoco, accende una

sigaretta, si volge a dae giaocatovi e) : Buon giuoco (torna a pas- seggiare) (a sè) La va male ... Ah! Dio ...

GUGL. (a Giorgio): Fuma il contino! o ci disprezza o... finge.

GIORGIO: Ci disprezza? GIAC. (a sè): No ... non vi temo ... non vi curo... GIACOMO: Quel vile mi fa dispetto: io smetto di giuo-

care e vado a sentire la Patti. GIORGIO: Anch'io. GUGL.: E io. GIACOMO (levandosi): Enrico, compiremo la partita una

altra volta (via e dopo lui Giorgio e Guglielmo, senza salutare Giacinto, gettandogli un'occhiata di disprezzo)

ENRICO (guarda a lungo Giacinto): Povero amico! GIAC. (chiamandolo con affetto): Enrico?! ENRICO (si avvicina lesto a Giacinto e all'orecchio gli dice):

Giacinto, qui non istai bene; è imprudenza durarla ancora; va via, ten prego.

GIAC. (con dolore): Son forse un appestato?

Scena V I I I

Giacinto solo

(si guarda attorno): Solo? ... mi han lasciato solo ... mi fuggono ... E qual delitto ho io commesso da esser così esecrato dalla società? ... Forse le mie mani stillano sangue di poveri? ... o nel mio volto porto il marchio dell'obbrobrio di una vita libertina? ... Chi mi guarda con occhio di compatimento ... altri di disprezzo ... molti mi sfuggono ... Non dovevo venirci ... ah! non credevo che tanto pesasse, che fosse così insoffribile il vilipen- dio della società ... Ho visto amici, amici cari, fingere di non

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vedermi e volgere altrove lo sguardo (cammina a passi incerti e di tratto in tratto si ferma) Dunque è tale delitto il rifiuto di una partita d'onore da non trovar neanche perdono? ... ( fre- mendo)

Si onora l'usuraio in veste di gentiluomo, si accoglie il viveur, si applaude al dongiovanni che narra le sue vituperevoli avventure, s'inneggia al politicastro che congiura ai danni della patria; ... e chi vuol compiere intero il suo dovere, chi non si vuol macchiare di sangue umano e tentare all'altrui vita, si disprezza, si caccia, si calpesta. Vergogna!. . . E devo soffrirlo 2 . . . E devo tacere? ... E devo fuggire? ... (pensa) E che, Giacinto? Vacilli forse? Dio, dammi forza!

Scena I X

Mario e detto

MAR. (entrando): Giacinto, sei quì? GIAC.: Mi cercavi? MAR.: E dì, è vero? GIAC.: Che cosa? MAR.: Non so bene ... dicono che, sfidati tu e Luigi di

Roccaferrata, quegli ha accettato la sfida e tu ... GIAC.: Mi sono negato. Ebbene? MAR.: Ma perché ti sei negato? GIAC.: Perché non ammetto il duello e lo stimo un de-

litto. MAR.: Un delitto?! ... Ma, Dio mio, fare simili sciocchezze

e poi, sereno e tranquillo, venir qua? Non ti sei accorto che quanti sanno il fatto, ti sfuggono? ... E là dentro se ne parla.

Ci è chi ha interesse a propalare la cosa... I giuocatori ti hanno lasciato solo, perché ... perché ... m'intendi?

GIAC. : Perché mi credono un vile ... , MAR.: E ti par poco?

GIAC : POCO no, ma infine ... ognuno. la pensa come vuole. MAR.: E la pensino pure come vogliano; ma, intendi bene

che qui non puoi, non devi stare. Un qualsiasi affronto (già ti basta quello che hai avuto) ma un qualsiasi affronto in faccia

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a tuo padre, al tuo futuro suocero, in faccia a Adele ... Giacinto, vieni con me, andiamo.

GIAC. (lo guarda fisso): Andiamo? (pensa)

Scena X

Giulio, Roberto (che passano da sinistra) e detti

GIUL. : Qui Giacinto? RoB.: E' con Mario Giacomazzi; pensa, è agitato. E i

giuocatori? GIUL. : Sono andati via ... MAR.: Ma Giacinto?! GIAC. (scuotendosi): Ebbene ... Andiamo. Per mio padre,

. per Adele; ad evitare un affronto, andiamo. Si fugga una so- cietà che comanda il delitto e rispetta la canaglia! (per andare - si ferma)

GIUL.: Ah! ah! ah! (forte) Senti Roberto? Bisogna es- sere una canaglia per essere rispettati. Ah! ah! ah!

GIAC.: Giulio, qui? GIUL. (auanzando): Sì son qui e non mi fuggi. ROB. (trattenendo Gizllio): Ma no, ma no... in casa d'altri.

(Giulio si diuincola) GIAC.: Son qui e non ti fuggo nè ti temo. GIUL.: Non mi fuggi e non mi temi! E non dicevi poco

fa al cavaliere Mario Giacomazzi, si fugga una società che co- manda il delitto! Va, va pure a farti romito, quando non hai né il coraggio di batterti, né quello di sostenere una convin- zione, presa ad imprestito per ammantare la tua vigliaccheria.

GIAC.: Sfoga, sfoga pure a tuo talento, ma almeno rispetta la casa che questa sera ci accoglie.

GIUL.: Mi piace il pretesto per cavartela, il rispetto alla casa che ci accoglie. Sì, la rispetto meglio di come non la ri- spetti tu, che ci sei venuto, quando l'atto tuo disonorante non si conosceva, per farti ammirare vincitore di concorsi diplo- matici a Parigi ... Ma ti han conosciuto!

RoB.: Ma via, finiamola! GIAC.: Giulio, non mi conosci. Non ho cercato il plauso

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ai miei studi, non temo il biasimo alla mia condotta. I1 dovere mi ha guidato sempre nelle mie azioni, e disprezzo i frizzi di chi vive di pregiudizi, calpestando i doveri. Lo so, tu il cercavi il momento di potermi irnpunemente oltraggiare in pubblico, perché la società ti darà ragione. Fa pure, a me basta la mia coscienza.

MAR.: E via, amico; andiamo (lo prevedevo)

Scena X I

Marchese Giannolfo e detti. Sopravvengono Giorgio, En- rico, Giacomo, Adolfo, Guglielmo e altri signori

March.: Che è? che è mai? Scusino, signori, ma... GIUL.: L'avv. Giacinto Torremare ha dei conti con me... March.: Da potere trattare altrove. In casa mia accolgo

tutti e le mie riunioni sono come la tregua di Dio; debitori e creditori, emuli e rivali qua si stringono la mano.

GIUL.: Perdoni, quante volte si può stringere. I1 contino non merita che nemmeno Ella gli stringa la mano.

GIAC.: Scusi, marchese; gli perdono anche quest'altra of- fesa sanguinosa. I1 brusco incidente non provocato certo da me...

GIUL.: Da lui, sì da lui ... Marci?.: Ma insomma si può sapere ... GIAC.: L'awocato Falconi ha il bisogno di sfogare il suo

dispetto, perché a Parigi nel concorso internazionale di diplo- mazia ebbe poca fortuna.

GIUL.: Ed egli oggi con la peggiore burbanza [sic], inde- gna di un gentiluomo, narrava il fatto, proprio avanti a me, oltraggiandomi. '

GIAC.: Non l'ho mai offeso. GIUL.: Sì, mi ha offeso, onde l'ho sfidato a duello. Ed ,

ora egli si rifiuta ... GIAC.: Mi son rifiutato e mi rifiuto, perché la religione e

la coscienza mi vietano di battermi. Del resto, sono stato io l'offeso e gli perdono.

GIUL. (irritato): Quella parola perdono aggiunge lo scher-

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no alle beffe. Non voglio da te, non voglio né compatimenti, né perdoni. Del resto, giudichi Ella, signor marchese, giudichi questa accolta di gentiluomini la mia e la condotta del contino. Ho sfidato lui insieme col duchino Luigi Roccaferrata, per la stessa ragione, alle stesse condizioni, con gli stessi padrini. Que- gli accetta la sfida ...

GIAC.: Ed io no; che monta? ADOLFO (forte dal fondo): E' la coscienza che gli vieta

di accettare. GIORGIO (c.s.): Quando si ha paura, si invoca la coscienza.

Ah! ah! 'ah! GIAC. (punto): No; la legge della coscienza non è la legge

della vigliaccheria. Avrei mille volte sofferto la morte, prima di non avere qui un pubblico affronto ed esser giudicato un vile dai vostri pregiudizii.

GIACOMO: Ragioni, ragioni! GIAC.: Pregiudizi. E ci vuol molto coraggio e sento di

averlo, di affrontare la così detta pubblica opinione ... senza paura, più che esporre una vita, che può divenire penosa e crudele. Ma no, là dove suona la voce della religioiie, dove la coscienza vieta un atto iniquo, dove il dovere comanda di non attentare all'altrui vita, là disprezzo la pubblica opinione, il così detto dovere di società, il fanatismo della forza e della ipocrisia, che mi vuol fingere un nemico che mirò a soprafar l'avversario, prima del duello, un amico che gli stringa la mano, dopo.

GIUL.: Si vede che sei buon oratore come cattivo cava- fiere. Le frasi retoriche possono sorprendere e 'destar meravi- glia nel popolo, non nella classe colta!

March.: Signori! me1 perdonino, se uso dell'autorità che mi dà l'essere padrone di casa, col pregarvi di cessare ormai dalle offese. Mi duole che le mie idee siano assai diverse da quelle del contino Torremare, perché apprezzo il duello come uso di perfetto cavaliere, ammesso da tutta la buona società. Però per la mia qualità e per l'affetto che nutro verso i buoni ingegni, senza volere, perché no1 posso, pesar le ragioni e i torti, v'invito a stringervi la mano, e dimenticare i disgusti della giornata, che onoreremo col ballo.

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MARIO, ENRICO e signori: Benissimo. GIAC. Eccomi pronto: jo dimentico tutto e non gli porto

alcun rancore. GIUL. (a sé: non sia mai!) (al Marchese): Anch'io sarei

pronto, se le nostre partite non fossero lunghe e i conti sommati da parecchi anni, divenuti difficili. I1 perdonerà il marchese alla mia franchezza. Non posso, non ho il costume di fingere come altri; il dovere mi vieta di promettere oggi avanti lei, che ri- spetto, amicizia al contino, per continuar domani ad essergli nemico.

GIAC.: LO sapevo purtroppo, e men duole; ma non mi rimuto. La società mi guarda come chiedendomi cosa farò; sen- to il suo imperi0 sopra di me, sento che mi comanda di accet- tare la sfida, sento che, negandomi, mi copre di disonore ... ma no. Non cedo alle mie convinzioni. Vado via, perché forse non mi credete degno del vostro onore, vado via colmato di obbro- brii, ma son forte abbastanza per resistere. Credetemi pure un vile; quella parola mi sarà glorioso ricordo di aver superato la forza del pregiudizio di una rea società.

(S i abbassa la tela)

Fine del I1 Atto

ATTO 3'

Stanza del Conte nel Palazzo dei Torremare a Milano

Scena I

Conte d i Torremare solo

(Sta a lungo pensoso - indi passeggia agitato): Non è pos- sibile altra uscita; o tale onta si lava o non sono più il conte Torremare. (pausa) ... E come vivere, star tranquillo, mostrarsi in società, farsi rispettare dopo l'affronto di ieri sera in casa Giannolfo?! ... (pensa - si agita mano mano) Ma fu sogno o realtà? ...

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Mi pare di vederlo fra molti cavalieri, dal sorriso di scherno e dall'aria di disprezzo, essere affrontato, vilipeso, oltraggiato ... e lui, lui venirne fuori con quelle scuse da donnicciuola. (pausa) Vile? ... Vile un Torremare? .. . vile mio figlio? ... No, non può es- sere... E pure ieri sera ho usato preghiere e rigori ... mi ha visto non prender cibo ... Mi ha sentito tutta notte agitato ... ed egli ... egli ... Oh! Dio, non ci posso pensare ... non credo più ai miei occhi ... io trasogno. (pausa) Ingrato! Dopo che ti ho cresciuto con mille sagrifizii, dopo che ti ho educato quale ad un Torre- mare si conveniva, nel momento che dovevi divenir la mia glo- ria, la mia felicità, quando si apparecchiavano splendide feste alle vittorie del tuo sapere e alle nozze con la più nobile don- zeUa che vanti Milano, oggi affoghi me e te, il mio e il tuo onore, la gloria passata della famiglia, tutto nella peggiore delle vergogne! Ah! ingrato, ingrato Giacinto (è commosso). Piange un Torremare ... Si piange, ma di vergogna, di rabbia! ... (siede e pensa) Ma si tenti di nuovo, si soggioghi questa anima; ... chi sa? ... forse la notte gli avrà dato consigli ... (suona il campa- nello) forse il timore ... il rimorso ... l'indignazione paterna.. . ah! Giacinto si batterà ... si batterà ...

Scena I I

Silvio e detto

Conte: A me il contino. SIL.: (s'inchina e parte) Conte: E se non vuole? (pensa) L'obbligherò (s i alza e

passeggia - si ferma) E se resiste? (pausa-risoluto) Ah, lo co- stringerò; lo voglio, deve battersi.

Scena I I I

Giacinto e detto

GIAC. (mesto, turbato si appressa a passi incerti - si avvi- cina al conte e o mezza uoce ...) : Padre ...

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Conte (passeggia agitatissimo - quando parla si ferma - Questa scena ~i svolge con un crescendo accentuato): Non mi chiamar con quel nome...

GIAC.: Anche tu, padre? Conte: Anch'io. L'affronto di ieri sera... GIAC. : Non ne ho colpa. Conte: Ce l'hai, e tutta, e tale da non poter più vivere se

non si cancella col sangue. Perché rigettasti la sfida? GIAC.: Te l'ho detto; perché il dovere ... Conte: Lo so; il dovere, la coscienza, la religione ... belle

scuse. Perché rigettasti la sfida? GIAC.: Non mi credi? SI, .il dovere, la coscienza, la reli-

gione. Domandami la vita, padre te la dono. Sul campo di bat- taglia son pronto a finire i miei giorni per difendere i diritti della patria; ma nell'arena d'un 'duello non ci scendo; la mia coscienza me lo vieta.

Conte (irritato): Così parli a tuo padre? Ha anche lui la sua coscienza, ma non è una donnicciuola. Poche parole: l'onore del casato. le glorie del blasone, la stima della società dove si vive, con i suoi pregiudizii, se vuoi, che infine son leggi per un cavaliere, ti impongono di batterti. T'aggiusterai come t'ag- grada con la tua coscienza. Prima dell'affronto di ieri sera, pubblico e vituperevole, (capisci?!), potevasi forse combinare in modo la cosa, da non sdegnare una pace onorevole; oggi non più; oggi l'unica via è il duello ...

GIAC. : Ma, padre, senti: vuoi dunque ... ? ' Conte: Voglio e non ammetto repliche, non discussioni; vo-

glio, e la mia volontà è ferma e irremovibile che tu ti batta. Lo vo- glio e lo comando.

GIAC.: (Dio che angoscie!): Padre, è la prima volta che il tuo Giacinto, che sin da bambino ha appreso da te come debba essere la virtù e fuggire il vizio; il tuo Giacinto che sempre ti ha obbedito, anzi seguito ogni cenno, prevenuto ogni desi- derio; quel Giacinto che vorrebbe darti la vita per manifestarti meglio l'amore, la gratitudine, la venerazione che ha per te; che oggi, in un momento dei più angosciosi di sua vita ... non può seguire i tuoi voleri.

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Conte (infuriato): Ed è vero quello che sento? E sei tu che lo dici? Proprio tu? E non ti cale dunque -1'onor della famiglia? E non ti senti commosso, angosciato dall'affronto di ieri sera? Non hai giusto risentimento per l'insulto lanciato a te e a me, quando ti chiamano vile? Ed hai coraggio di tornare in mezzo alla società, in cui devi vivere, col marchio della ver- gogna sulla fronte? ... Io non reggo, io non posso dunque vi- vere dopo tanta vergogna. Io non ho preso cibo, io non ho dormito, io fremo ... io impazzisco, ingrato..

GIAC.: Ma padre, per pietà, ti calma ... senti mi... Conte: E come posso calmarmi, quando sei così ostinato?

Guarda il tuo avvenire, fosco e turbato; pensa che dopo tale onta la tua carriera verrà intralciata, quella carriera che più all'ingegno, tiene alla stima dell'alta società presso la quale ha sue funzioni. Pensa che il tuo matrimonio con Adele potrà andare, anzi è assai probabile che vada a monte, e che ti si chiuderan le porte delle famiglie nobili ed 'onorate al par della tua; ... pensa infine che io non potrò vivere dopo tanto af- fronto. (Lunga pausa)

GIAC. (leva gli occhi al cielo, gonfi di lacrime) Conte (riscuotendosi, dopo aver guardato a lungo Giacin-

to): Ebbene? GIAC. : Padre, per pietà, non insistere.. . Conte (Gli lancia uno sguardo terribile)

* GIAC. : (straziante): Padre, non mi torturare l'anima.. Conte: (pausa lunga): Attendo la tua risposta. GIAC. (C. sopra): Padre, non mi fare. infelice!. (gli si ingi-

nocchia avanti) Conte (lo alza): Alzati (pausa) Ma che pretendi? GIAC.: Che tu mi lascia nel mio dolore, che tu non mi

parla più del duello. Conte: Dunque, ancora persisti? GIAC.: Ma se non posso ... Conte (incalzando): Non puoi? ... GIAC. (si copre il volto con le palme) Conte (passeggia agitato - si ferma): Non puoi, 'mi hai

detto?

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Scena IV

Silvio e detti

SIL. : I1 Cavalier Giacomazzi. Conte (pensa a lungo): Passi. SIL.: (fa un inchino e via) Conte (a Giacinto): Va, pensaci; fra un'ora sceglierai fra

il tuo capriccio e il tuo e mio onore. Pensa al dovere cavallere- sco, al tuo awenire, alle smanie del padre, che non soffrirà mai un'ignominia.

GIAC.: (a sé): Dio m'assisti! (via) Conte (passeggia pensoso e lentamente facendo di tratto in

tratto dei gesti nervosi).

Scena V

Il Conte e Mario Giacomazzi

MARIO: E' permesso? Conte: Passi pure. MARIO: Scusi, cercavo del contino e mi fu detto che ... Conte: Non monta; fra poco verrà. Ho bisogno di parlar-

. ti da solo. Siedi. MARIO: Pronto ai suoi ordini. (Mario e il conte siedono) Conte (pensa): Mario ... mi devi levare da una grande an-

goscia ...; tu 'sei amico del mio Giacinto ... forse, chi sa, le parole di un amico. ..

MARIO: Per quanto io posso; parla forse del brutto inci- dente di ieri sera?

Conte: Per l'appunto: lo sai tu? MARIO: Per mia disgrazia fui presente e non feci a tempo

ad impedirlo. Ed ero proprio venuto per offrire il mio qualsiasi aiuto, per togliere il contino da una posizione oramai insosteni- bile in società.

Conte (si alza): Ah! tu sei del mio parere? Sicuro; insoste- nibile in società. E chi oggi non parlerà in Milano dell'awocato

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Giacinto Torremare, e chi non lo biasimerà acremente, giudi- candolo quel ch'egli non è, timido e... (siede).

MARIO: Capisco che ... insomma il contino no1 fece per po- co coraggio; ma.,. andate a persuader la gente che egli ... Ci vor- rebbe, anzi ci vuole ad ogni costo che oggi accetti la malaugura- ta sfida, e faccia vedere all'avv. Falconi, che egli come lo vince per ingegno, non gli è secondo nel trattar la spada.

Conte (si accende a poco a poco): E pure il credi? il credi Mario mio? Dopo il duro affronto di ieri sera, che avrebbe scos- so l'animo più timido e renitente, e Io avrebbe indotto a qual- siasi partita d'onore, alle peggiori condizioni, dopo il mio severo contegno, anzi la mia emozione, il mio parossismo ... io non ci posso pensare senza fremere (si alza), dopo le minacce, il quadro nero del suo awenire ... non l'ho ancora persuaso. Mi ha resisti- to ... mi ha detto e ripetuto chiaro: non voglio, non posso ... Io fremo, minaccio, mi dispero ... non ho aperto bocca, non ho dor- mito ... e lui fermo, duro, impuntato ...

MARIO (si alza): Ma insomma, quali ragioni potenti egli adduce, che lo costringano alla più irremovibile negativa? Egli sa bene di scherma, è forte e aitante della persona ...

Conte: ... e ha mostrato più volte il suo coraggio e sangue freddo, salvando una fanciulla che annegava e una carrozza che correva al precipizio.. .

MARIO: Dunque proprio è la religione? Conte: Così dice; ma io ... non so... ci vedo sotto un mi-

stero ... MARIO: Anch'io in fin dei conti sono religioso; ma in certi

casi, via, bisogna essere più sciolti. Conte (pensa): Mario, mi affido a te; se riesci a persuadere

Giacinto, se me io salvi il mio unico figlio ... in questi momenti angosciosi non so cosa dirti ... ma la mia gratitudine, credimi, non avrà misura.. .

MARIO: Ma che dice? .... io amo Giacinto e stimo lei quanto merita ...

Conte (interrompendolo): Comprendi; io son padre e son conte di Torremare: il mio Giacinto, la mia fortuna, la mia glo- ria, il mio amore (animandosi), figlio unico datomi da quelI'an-

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gelo di sposa che fu la contessa, allevato con tutte le cure, cre- sciuto per l'onore e per la gloria, vederlo ora che entra cinto di speranze e di onore nel cammino della vita, vederlo oltraggiato e calpestato da un miserabile avvocato, da un vile borghesuccio senza nome, il quale si può impunemente vantare in faccia alla società, di avere vilipeso un Torremare, anzi il mio Giacinto; è cosa che soffrir non la posso ... non la voglio, no, non la voglio.

MARIO: Si calmi, Signor conte, io spero ... chi sa. .. mi lasci parlar con Giacinto.

Conte: Si, e digli che io non potrò più vivere dopo tale af- fronto.

MARIO: Non dubiti; cercherò tutti gli argomenti, per in- durlo.. .

Conte: Digli, che se non si batte, non vedrà più la mia faccia ...

MARIO: Ma via, non disperi ... Conte: Digli che io ... (fa un gesto come per dire: lo male-

dico, ma si lascia cadere su un seggiolone). MARIO (gli si avvicina per confortarlo) (dopo una lunga

pausa): Signor Conte, si faccia animo; Giacinto lo ama, e se non s'indurrà per altro, lo farà per lei, ne son certo, lo farà per non farla soffrire tanto ...

Scena VI

Silvio e detti

SILVIO: (dalla porta): I1 cavalier Enrico D'Alloro. Conte: Passi. SILVIO: Cerca del Contino. Conte: Fallo entrar qui. SILVIO: (s'inchina e via). MARIO: Forse sarà venuto per la stessa ragione che mi

mosse a venire. Conte: Gli amici han più cura dell'onore di mio figlio, che

non egli stesso. '

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Scena VI1

Cav. Enrico D'Alloro e detti

ENR.: Signor Conte (gli stringe la mano) Conte (si alza): Cavaliere, segga, segga pure. ENR.: Grazie. Addio Mario (m.) MARIO: Addio. Conte: E' ella venuto per Giacinto? ENR.: Da parte del Duca di Roccaferrata e di Luigi suo fi-

glio; comprenda che. .. Conte: Ho già compreso prima che si spieghi, e ne doloro ... ENR.: Dunque Giacinto persiste nel non volere accettare il

duello? MARIO: Ma non c'è poi da disperare; Giacinto si batterà;

me ne rendo garante per l'antica amicizia che corre fra noi. Del resto speriamo che Luigi lo ferisca per bene quel briccone; e Giulio ne avrà parecchio da guardare il letto. Potrà essere che ...

Conte (risentito): No, no; quand'anche Luigi si batta pri- ma di Giacinto, voglio che Giacinto accetti la sfida ora. Si bat- terà da qui a due o tre giorni o anche più, ma deve accettare -la sfida prima del duello di Luigi. Che si dirà se accetta quando Giulio sarà per caso rimasto ferito? Che Giacinto, che mio figlio, temeva Giulio e dopo che il conobbe debole ed imperito accettò la sfida. No, deve essere ora, ora stesso ... Cavaliere spero che sarà del mio awiso.

ENR.: D'accordo; e con lei la sente anche il Duca di Rocca- ferrata che mi manda. O ripara l'oltraggio, mi disse, e tosto, o Giacinto non porrà più piede in casa mia. E credo che non ci sia tempo da perdere perché Luigi si batterà oggi stesso, posso as- sicurarlo perché sono uno dei suoi padrini, non avendo voluto Giulio Falconi tardar d'un giorno la partita; perché, com'eglj dice, ha serii impegni a Torino. A proposito, io temo che non vada all'ambasciata francese a riferir tutto ... Povero Giacinto, mi fa pena, l'ho sempre stimato, ma non so spiegarmi la sua in- sueta fermezza.. .

Conte: Avevo prewisto [sic] tanti mali; ah! perché non son morto prima?

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MARIO: Signor Conte, ma le pare ... non son poi mica le cose a questo stato.

ENR.: IO son sicuro che Giacinto, se ama Adele, si piegherà di certo. La sentiste, quell'angelo ! Piange, geme, supplica, non ha gustato cibo, si è fatta pallida, nel volto è sfigurata. Mi ha par- lato con le lagrime e i singhiozzi. Teme, se accetta il duello, per- ché Giacinto si espone a un pericolo; teme, se non accetta, per- ché il padre (lo conosco quanto è ferreo nei suoi voleri il duca di Roccaferrata) non si piegherebbe a consentire al suo matrimo- nio per tutto il mondo ... E Luigi ... lo manda a pregar tanto ... Luigi.. .

Conte (risoluto): Ebbene, si chiami Giacinto (suona il cam- panello). Sappia, conosca la sua sorte e decida.

SILVIO (entrando fa un inchino) Conte: A me il contino. SILVIO ( f a un inchino e via) MARIO ed ENRICO (si alzano) Conte (passeggia) MARIO: Bisogna che Ella si calmi; ENR.: Forse ... io crederei che ... Conte (si ferma): Io non starò presente a questo colloquio.

Sento di non poter resistere. Io vado. Mario, cavaliere, mi rac- comando a voi. Pregate, minacciate, usate di tutti gli argomenti possibili che l'antica amicizia con Giacinto e le angoscie paterne *

vi detteranno. Per quanto avete di più caro, di più sacro, toglie- temi da quest'inferno. (Via dalla porta opposta donde verrà Gia- cinto)

ENR.: Povero padre, lo compiango. Ma l'ostinazione di Giacinto la comprendi tu?

MARIO: Per me è un enigma.

Scena V I I I

Giacinto e detti

GIAC.: (entra, si ferma sull'uscio): E il padre? MARIO (gli si avvicina e gli prende la destra): Amico. ENR. : Giacinto.

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GIAC.: Mi voleva il padre? MARIO: Sì, verrà fra poco (lunga pausa). GIAC.: Oh! Mario! Sono infelice! MARIO: Ma coraggio, Giacinto! Bisogna pigliare il mondo

pel suo verso. Non parliamo del fatto di ieri sera; si sarebbe do- vuto evitare; ma ora si cerchi un rimedio qualsiasi, consentito dall'onore, e tutto è finito. Io, a dirtela sincera, sono del tuo pa- rere, odio i duelli, ma in certe circostanze ... bisogna farsi corag- gio e... .

GIAC. (punto): Credi tu ch'io abbia paura? ch'io tema la morte? Capisco, son giovane; la vita è o dovrebb'essere tutta rosa per me; l'avvenire mi si appresenta [sic] brillante; ma infine so anche morire pel dovere, per una causa nobile e... cre- do averne dato delle prove ...

ENR. : Dunque? GIAC.: Dunque sarà pure una causa nobile o un dovere .

ciò che è pregiudizio volgare anzi delitto condannato dalla na- tura e dai codici?

MARIO: Là, là, Giacinto; giù la filosofia, codice e parliamo schietti: qua si tratta di tutt'altro, tu lo sai. Ti sono amico e ti parlo con la sincerità di amico unicamente e solamente pel tuo meglio.

GIAC.: Ti conosco e ti amo. Ebbene? MARIO: Senti: sarà il pregiudizio, l'usanza cattiva, la so-

cietà malvagia quella che comanda il duello, sarà quel che tu vuoi; non ho voglia in questo momento di discuter teco; ma consentirai con me che la tua posizione è assai critica e per mille ragioni devi uscirne. La tua carriera io la credo molto compro- messa e...

GIAC. : La carriera? ... Mi ci sento potentemente inclinato, l'ho scelta di tutto genio e la seguirò ... Ma infine ...

MARIO: Comprendo che tu non devi mendicare un pane; è l'onore, che ti spinge, e l'onore specialmente per un Torremare è più del pane. E l'onor tuo, caro Giacinto, mi perdoni se te lo dico, o per equivoco o...

GIAC. (interrompendolo come aiutandolo a dire): chiaro: l'onore presso la cosi detta società l'ho perduto.

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ENR.: E ti par poco? E non daresti la vita per conservare l'onore?

GIAC.: Per l'onore vero, che procede dalle buone azioni, si, mille volte sì; per quella stima che si acquista a costo dei pro- prii doveri, barattando colla propria coscienza ... no. Subisco le umiliazioni e gli oltraggi, come quelli di ieri sera; ne sento tutto il loro peso, incontro anche gli strazii che mi amareggiano I'ani- mo... l'ira di un padre ... di un padre amato ...

MARIO (serio): Giacinto; non credo che la tua strana filo- sofia voglia condurti a far soffrire al padre tuo quel che io non voglio neanche pensare. E' troppo se sagrifichi [sicl alle tue con- vinzioni, che mi sembrano un mistero, la carriera, l'onore, il blaso- ne, ma sagrificare anche la, pace della famiglia, e forse la salute del padre ...

GIAC.: Ah! taci, taci amico; che mi si spezza il cuore. Se vedessi, o padre, l'animo mio piagato, esulcerato, se sapessi quanto sono per te infelice.. .

ENR.: LO vuoi essere, e non prevedi a qual altra infelicità ti conduce la tua ostinazione. Io vengo da parte del duca di Roc- caferrata, Luigi e di Adele ...

GIAC.: Da parte loro? e mi rechi? ... ENR.: Quel che vuoi a tua scelta; felicità o sventura ... GIAC.: Oramai son sacro alla sventura! Non parlare, amico,

ti ho compreso ... I1 mio cuore soffre ... (pausa). Ma no, parla, parla, che dice la mia Adele?

ENR.: Ma è inutile dirti cosa che puoi supporre. Dacché sei irremovibile nel tuo proposito.. .

GIAC.: NO, parla, crudele, parla. ENR.: La tua Adele soffre e martira per te; il padre è ir-

removibile: o Giacinto si batte e lava l'onta col sangue, o non porrà più piede in casa. Sono le sue parole, che m'incaricò di ri- ferirti; e io ti porto questo angoscioso dilemma insieme alle pre- ghiere di Luigi, alle lagrime di Adele, che proprio sul punto di divenire tua sposa, si vede da te barbaramente strappata, delusa nel suo amore, con la via chiusa alla speranza.

GIAC.: Oh Dio! Oh Dio!

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ENR. (incalzando): E non c'è tempo da perdere per una de- cisione; Luigi si batterà oggi stesso, ed io che gli son padrino in- vano ho tentato di protrarre di un'ora il duello ...

GIAC. (SCOSSO): Luigi si batterà? ... Tu gli sei padrino? og- gi stesso? Tutti congiurate contro di me? Infelice Luigi, per me, per me, sacrifichi il dovere e la coscienza ... e forse? ... oh! voi m'ingannate, voi volete tradirmi, e trascinarmi a macchiare le mie mani di sangue. Andate! andate, crudeli, ingiusti uomini senza cuore! No, non è possibile che Luigi non venga lui a par- larmi. Io lo persuaderei, io tenterei ... corro, corro da lui ...

MARIO: Ferma, dove vai, Giacinto? Non pensi che il pa- dre attende la tua risposta? E poi è inutile, Luigi non puoi per- suaderlo ora che tutto è deciso; né credere che noi si ha voglia, d'ingannarti. Sono Adele e suo padre che ci han qui mandati e la nostra amicizia.. .

GIAC.: Perdonate alle mie angosce, ai miei sfoghi; ... ah! dunque è vero che sopra la verità sta il pregiudizio, e sopra la virtù la colpa! (pausa) E tu Adele, m'abbandoni anche tu? Ah! non è possibile. In uno dei momenti più belli e più sacri di no- stra vita ci giurammo amore e fede; ti conosco, Adele mia, so- gno delle mie notti, palpito ardente dei miei giorni, so il tuo af- fetto, l'animo pio e virtuoso, non vorrai che il tuo sposo diven- ga un volgare assassino.

ENR. (a sé): E' sempre a un punto; ,mi sembra Eissato ... MARIO: Ma non è lei; è suo padre ... ENR.: E tu conosci il Roccaferrata, uomo di ferrea volontà,

che non si piega ... GIAC. (abbattuto): Lo conosco sì ... lo conosco... (passeg-

gia agitato) Oh! Dio dammi forza, coraggio ... virtù ... io vacillo ... io vengo meno... Mi hanno assalito nel più debole dell'animo ... mi hanno ferito il cuore... padre ... Adele ... pietà, io non reggo ... io muoio ... (si getta su una sedia).

MARIO (dopo lunga pausa, si avvicina a Giacinto): Via, Giacinto, sii ragionevole, cedi una buona volta ... non ti ostinare contro il volere di tutti, nel tuo proposito. Non vedi come tuo padre soffre e smania, non vedi come tu ostinandoti perdi Ade- le? Per quell'amore che loro porti, Giacinto, per non renderli con te infelici, infelici per sempre, per loro fa un sagrifizio, del

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quale, per quanto costi alle tue convinzioni, essi son degni, e lo desiderano, e lo vogliono, e te lo comandano ...

GIAC. (dopo aver guardato Mario fisso, scoppia in pianto - pausa - indi si alza): Mario, va, non mi tentare, non assalire più questo cuore debole e affranto dalle emozioni ... lasciami, lascia- mi solo ... solo, abbandonato da tutti, vilipeso da tutti ... solo con la mia coscienza ... col mio dovere ... con Dio! (ricade nella sedia)

Scena IX

Silvio e detti

SILVIO (a Mario): I1 signor Conte desidera tosto lei e il ca- valiere, che gli rechi la risposta del contino. Smania, sbuffa, fre- me, passeggia agitato ... Mi ha detto e ripetuto che vuole un sì, che lo vuole ad ogni costo.

MARIO: Dì al barone che vengo subito. SILV. (fa un inchino e via) ENR. (a Mario): Io non so più che tentare ... Mi sembra im-

possibile che.. . MARIO (si avvicina a Giacinto): Giacinto, che risposta por-

terò a tuo padre, che aspetta?, GIAC. (lo guarda e non risponde) ENR.: Pensa che è la risposta che dai pure ad Adele.

MARIO: TUO padre attende; che risposta gli porterò? GIAC.: Quella che gli ho dato io stesso. ENR.: E sarebbe? '

GIAC. (fucendo uno sforzo): Che non mi batto. ENR.: Amico sconsigliato, e dimentichi che a questa rispo-

sta è legata la pace e l'avvenire della tua famiglia? GIAC.: L'ho pensato ... lo vedo ... ma ditemi, mi abbando-

nerà Dio? MARIO (fa le spallucce): Questa non è risposta e non la por-

to a tuo padre. No, io soffro più di te nel vedere tuo padre in questo stato crudele, io non la porto.

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GIAC. (si alza): Tu soffri, amico, tu soffri, ma io martiro. Non reggo a tante angosce ... non ho la forza di sopportare il pe- so delle mie sventure; forse ne morrò ... ma battermi non posso.

ENR.: Non puoi? ma sappi, amico infelice, che su te, sul tuo capo pesa la responsabilità delle più gravi sventure che dal tuo no piomberanno su due case, ove sono i tuoi più cari, quelli che da te aspettano amore e felicità, il padre e la sposa; non in- crudelire davvantaggio [sic] contro di loro, assai han sofferto e

, soffrono ... GIAC.: Cessate, crudeli, dal martirizzare l'animo mio; sen-

to le loro angosce, il loro pianto, i loro dolori perché li amo quanto e più di me stesso ... ma rinnegar la mia coscienza, non posso. Al padre ditelo, che mi ha educato a seguire gl'impulsi della coscienza e a temere Dio più che gli uomini, la sua legge più che la legge dell'onore, i suoi giudizi più che il disprezzo so- ciale. Sì, diteglielo, e ditegli che l'amo, ditegli che l'amo e che. niuoio di dolore. Dite alla mia Adele, che lei sola ho amato e amo; nessun altro amore di donna entrerà nel mio petto, nessuna altra mano di donna sarà mia. Lei anche quando non potrò più vederla, quando dovrò andare misero e rietto pel mondo, quan- do un muro insormontabile s'innalzerà tra' noi; le sono fedele sino alla morte. Diteglielo, e dite loro le mie smanie, le mie an- goscie, il mio martirio, dite che forse verrò meno a tanti affan- ni, che invoco la tomba ... ma... oh! Dio dammi il tuo aiuto, la tua forza ... no, non posso, non devo battermi.

Scena X

Conte e detti

Conte (entrando): E non ti batterai (tableau) Mario, Cava- liere, recate da parte mia il guanto di sfida all'avv. Giulio Fal- coni. Mi batterò io per lui; salverò io l'onore dei Torremare cal- pestato da chi più non chiamerò mio figlio (per andare)

GIAC. (gli si getta ai piedi): Padre! ah! padre ferma, pietà di me, di te ...

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Conte: Via; meno chiasso, meno pianti, meno storie. Ti proibisco di seguirmi. Mario, Cavaliere, vi prego, accompagna- temi.

(Conte, Mario ed Enrico vanno via muti e commossi. Gia- cinto li segue con gli occhi sin che vanno via. Poi si copre la fac- cia colle palme e cade su un sofà. Tableau! Cade lento il sipario).

Fine dell'atto 3

ATTO IV

Stanza del conte come nell'atto precedente o, per commodo dei palcoscenici piccoli per la mutazione della scena, stanza

del contino Giacinto Torremare come nel I I atto

Scena I

Giacinto solo

(Sta a lungo appoggiato a un tavolo - come riscuotendosi): E' sogno il mio o realtà? E vivo ancora? Padre, padre mio, dove sei? ... che fai? ... che tenti? ... (si alza come in delirio) Ah! ferma Giulio, ferma il tuo braccio, non lo ferire il padre mio, egli non ha colpa ... egli non ti offese ... eccomi ai piedi tuoi ... ti cedo il po- sto ottenuto al concorso e ti placa ... (pausa). Ah! delirio! o po- vero Giacinto! ... sento ancora le sue parole amare: salverò io l'onore dei Torremare calpestato da chi non chiamerò pizì fi- glio ... Ah! non è vero, egli non le dette queste parole, non le poteva dire ... (pausa). Ma io che faccio qui in questa stanza? ... mi ha proibito di seguirlo ... ma no, si vada, si corra... e dove? ... No1 so; ma andrò, parlerò, pregherò, mi getterò ai suoi piedi ...; ma come vincerò me stesso avanti quel guardo fulmineo, a quel- la voce che mi suona terribile? ... (pausa) Dio, Dio! che mi rigetti la società, che mi scacci dal suo seno, che mi disprezzi, lo tollero, lo subisco; ma che mi rigetti il padre, che non mi voglia chia-

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mare suo figlio, che metta in pericolo la sua vita per vani pun- tigli, che macchi la sua coscienza di doppio delitto ... Andrò, mi frammetterò ai combattenti per pregarli o cadere ferito da dop- pia spada. Sì, è meglio morire che vivere questa vita d'inferno ( f a due passi - torna al tavolo - suona il campanello).

Scena I I

Silvio e detto

SILVIO (entrando): Comandi. GIAC.: Dov'è mio padre? SILVIO: Che so? è uscito di casa poco fa col cavaliere D'Alloro

e il signor Mario Giacomazzi, dicendo che non ritornerà in pa- lazzo.

GIAC.: Non ritornerà? E dove vai, padre infelice? e come abbandoni così il misero Giacinto? (pausa) Ha detto che non ritornerà? E non sai altro? Silvio, per pietà, parla, levimi da queste angosce, parla al disgraziato figlio, non sai altro?

SILVIO: Nulla, signore ... ma io temo. Oh Dio! la casa della felicità si è in breve tramutata in casa di pianto ... io son vecchio, e servo il conte da molti anni, e prima servivo il conte padre e mi creda, non ricordo un giorno simile a questo. Per carità, si- gnor contino, faccia contento il padre; scusi, sa ella, se le dico questa parola; ma io ... amo... venero il signor conte, e non vor- rei ... ero tanto agitato ... tanto ... (si commuove e si asciuga le la- grime).

GIAC.: Ma parla, parla, Silvio, per amor di Dio ... io corro subito ... io volo ... sarà dal duca di Roccaferrata? ... sarà dal zio, il barone Silori? ... Oh Dio! Mi han lasciato solo ... mi hanno ab- bandonato.. . Luigi, Mario, Enrico, amici, parenti.. . nessuno che mi oda ... nessuno che mi comprenda ... nessuno che mi compati- sca. A che sei ridotto misero infelice Giacinto! ... Va, Silvio, man- da i servi ad informarsi dove sia il padre, ch'io ci vada ... Vero è che mi ha proibito di seguirlo, ma no, non starò immobile a tan- ta sciagura ... Va, Silvio, corri, t'aspetto.

SILVIO: Oh! Dio che giornata! (via)

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Scena I I l

Giacinto solo, poi Silvio

GIAC. (sta a lungo muto come esausto delle patite emo- zioni): Quanto tarda a venire! ... mi è impossibile aspettare ... forse è meglio che io stesso cerchi dello zio, perché eg li... tenta egli una via ... (pausa) Sì, andiamo (in atto di preghiera) Dio, che

, appresi ad amare qual padre, che abbondi nelle tue misericordie, pietà ti prenda di me, del padre ... in te mi affido, nelle supreme angosce di questo cuore.. . nella terribile tentazione che mi tra- vaglia ... nel martirio che mi tormenta. ..

SILVIO ( in fretta): Una lettera d'urgenza ... (gli porge un foglio suggellato)

GIAC. (conv~lso): Una lettera? e da chi? (la piglia tremante) SILVIO: Non so, è venuto un giovane che l'ha consegnata al

portiere e via di corsa. (via) GIAC.: Forse nuove sciagure? (legge con voce interrotta,

agitata) « Caro Giacinto, Io vado a battermi » (gzlarda la firma) Luigi!

Amico infelice! « spero di vendicarti del tuo nemico ». Ah! no! non voglio, non ho nemici. « Ma se le sorti mi fossero avverse, se la mia vita dovesse correr pericolo, se ... ti raccomando mia sorella Adele. Pena per te, soffre, piange, martira » (è commosso e si ferma, poscia ripiglia) perché oramai sono quasi spezzati i vincoli di amore che doveano congiungere i vostri cuori dalla tua pertinacia e dalla inesorabile volontà paterna. Non la lasciar venir meno e morire di dolore quell'angelo; non sarai cosi crudele di abbando- narla. Se 1.a ami ancora, se ti è cara, per la sua vita ti prego, ti scongiuro in questi supremi istanti, di cedere alle esigenze della società, ti prego di non farla morire. Tuo Luigi D.

Di non farla morire? ... Lei? la mia Adele? ... Io? - Io la faccio morire? ... Adele ... Adele mia! (pausa) E tu vai a batterti per me, amico mio Luigi? ... Sconsigliato! ... Era meglio che non fossi nato ... che non fossi andato a Parigi ... che non avessi vinto il concorso.. . Ed ora? ... Padre, Luigi, Adele, io più non vi vedo ... più non vi odo.. . son divenuto crudele con tutti.. . sono.. . (scuotendosi) Si tenti ... ma che cosa? Si vada? ... ma dove? ... Luigi, vengo, ch'io

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ti par li... ch'io ti stringa la mano, che io ti abbracci prima che tu esponga la tua vita ... Padre, ... Adele ... E' meglio ch'io muoia, che più non so di vivere ... è meglio che si spenga la mia penosa esi- stenza ... è meglio che ... vacillo ... tremo ... pavento ... dispero ... Si esca da quest'inferno! (via)

Mutazione di scena

Villa vicino Milano - in fondo degli alberi e lo spiazzale di un v2lliizo - Arena per duellazti

Scena IV

In fondo, a ragionevole distanza, Enrico D'Alloro e Giorgio Fumi padrini di Luigi di Roccaferrata con le spade sguainate in mano; Roberto Aqzrilino e Adolfo Tornabene, padrini di Giulio Falconi anchJessi con le spade sguainate e il dottore in medicina.

Avanti Luigi e Giulio, con i giubbotti levati e le camice inami- date come s'usano nei duelli, il guanto e le spade.

Come si muta la scena, i duellanti già si battono da parecchio tempo con pari valore e sicurezza. La scena è muta; i padrini sono attenti ad ogni minimo movimento.

A zln tatto per un movimento falso, Luigi non pura un colpo e viene ferito di punta al petto; i padrini grida80 l'alt e si avvicinano per la constatazione della ferita. A un tratto Luigi diviene paliido e grida: Io muoio. (gli cade la spada di mano).

ENR. (corre a sostenerlo) Dott. (osserva la ferita e dice a voce sommessa a Giorgio che

si è avvicinato): E' grave. Pigliate una sedia. GIORGIO: Dio che sventura! (corre al villino per pigliare

una sedia) LUIGI: IO ... muoio. (smarrisce per poco i sensi) GIUL. (mentre avvengono questi rapidi movimenti, resta

immobile, con la mano nell'elsa della spada puntata a terra, guar- dando come trasognato. Come vede Luigi impallidire e perdere i sensi grida): Son perduto! (caccia la mano sinistra nei capelli)

(Rob e Adol. gli si sono avvicinati)

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ROB. (LO piglia per la mano e mesto gli dice): Vieni, amico. ADOL.: Vieni. GIORGIO (intanto è tornato colla sedia; gli [sic] adagiano sopra

Luigi; il dottore appresta le prime sollecite cure; le azioni e i guardi di tutti devono indicare lo smarrimento dell'arzimo e la conf usione)

GIUL.: NO, lasciatemi: voglio morire (alza la spada per ferirsi)

(Rob. e Adol. lo trattengono, gli levano la spada e lo con- ducono via di forza, mentre Roberto agitato dice):

ROB. : Giulio, Giulio, ti calma, è nulla. GIUL. : Lasciatemi, scostatevi.. . voglio morire.. . (Via Giulio, Roberto e Adolfo dalla parte opposta del vil-

lino, fra gli alberi)

Scena V

Luigi, Enrico, Giorgio e il Dottore

GIORGIO: Dottore, che ne pensa? Dott.: La ferita è in pieno petto e pericolosa assai; forse

potrebbe sperarsi.. . ENR.: Oh! Dio che sventura! Povero Luigi, nel fior degli

anni e delle speranze! Dott.: Zitto, si riscuote ... LUIGI: (dopo aver guardato incerto con voce fioca): Dove

sono? ... E il padre? ... padre dove sei? Dott.: Stia calmo, duchino; non è nulla, ma non bisogna

agitarsi ... ENR. : Luigi?. . . LUIGI: Ah! Enrico! ... e il padre mio? ... voglio i1 padre ... ENR. : SI, i1 padre verrà; ti acquieta ... verrà perché lo vuoi ...

ma di qui a poco potresti andarvi tu ... LUIGI: IO? ... io muoio ... è finita per me... Oh Dio che bru-

ciore! .. . Povera Adele ... (ricade alquanto) Dott.: Se si agita, si fa male ... vedrà AdeIe, il padre, ma

non ora. ..

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LUIGI (con sforzo): E mai ... io soffro ... Ah! soffro! ... che orrendi spettri! ... non mi perseguitate ... il mio delitto ... il mio delitto ... ah! voglio il padre! Gli dirò ... gli dirò ... ora vedo che Giacinto ha ragione.. .

GIORGIO: Luigi mio, il parlare ti affatica e ti fa male.

Scena V I

Giulio seguito da Roberto e Adolfo che gli vorrebbero impedire di entrare e detti

RoB.: Ma Giulio, sii prudente; vedi che ... GIUL.: Invano mi rattieni; sento il bisogno di stringergli

la mano. (per avvicinarsi a Luigi) Dott.: scusi, sa; il momento. .. GIUL. (interrompendolo): Inutile! sento un rimorso ... una

disperazione non mai provata ... non dovevo uccider lui, no... non era egli il mio nemico.. .

ADOL.: Ma via ... GIUL. (si appreJta a Lzligi gli piglia la mano e gliela stringe.

E' commosso) LUIGI (10 guarda - fa uno sforzo per parlare): Sei vendicato,

ma... GIUL. : Vendicato, no; tradito. Non ho più ,pace.. . l'inferno

mi brucia nel cuore... mi perdoni, Luigi? LUIGI (lo guarda a lungo, poi gli dà a grande stento la mano,

che Gizllio stringe di nuovo): e tu ... non perseguitar più ... Gia- cinto! (ricade)

(I,! dottore e Roberto allontanano Giulio) GIUI,. (al lato opposto della scena - vicino gli sono Roberto

e Adolfo): Giacinto! Ah! genio malefico, che hai turbata tutta la mia esistenza, tu che ora sei pago ... sei vendicato ... Eccomi ridotto misero ... divorato dal rimorso di aver a torto ucciso ...

LUIGI: Padre ... Adele ... Giacinto ... RoB.: Taci, amico ... fuggi ... GIUL.: Fuggo ... si fuggo ... la giustizia mi cercherà ... mi per-

seguiterà ... fuggo. Non mi resta che scegliere fra la vita randagia

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e il carcere... fuggo: ho perduto parenti, amici, patria, avvenire, pace ... Maledetto ...

ADOL.: Giuiio, coraggio ... animo forte alle sventure ... ROB. : Andiamo. GIUL. : Oh! disperazione! (Giuiio, Roberto e Adolfo via) LUIGI: Crudeli, non mi tenete ... io voglio parlare ... col

padre ... ENR. : Verrà, verrà tosto... LUIGI: Padre ... non perché io muoio ... ma ora... ora .... vedo

che ho commesso... un delitto ... Sento un... rimorso nel cuore... Sento.. . (ricade)

Dott. : (dice all'orecchio di Enrico e Giorgio): Temo. .. temo assai.

ENR.: Infelice (si copre il volto) GIORGIO: Amico!

Scena VI1 e altima

Giacinto e detti

GIAC.: (entra in fretta e turbato - movimento nella scena - straziante): Amico?! ... Luigi! (gli si avvicina e gli prende la mano)

LUIGI (si scuote, lo guarda - lo conosce - si solleva): Gia- cinto!. .. (ricade)

GIAC. (a sé): Oh! Dio! così dovea trovarlo? (a Luigi) Per- donami, Luigi ... io son la causa... io ... di tanto male!

LUIGI (fa uno sforzo - quasi acquista nuovo vigore, il vigore che precede 'la morte e si solleva): Giacinto, non dir cosl ... sento.. . sento un rimorso ... la mia coscienza grida contro di me... Perdonami ... Dio ... perdonami ...

GIAC. (singhiozza - cade in ginocchio e gli bacia e ribacia la mano)

LUIGI: Dì ... dì a mio padre, che io muoio,rassegnato ... digli ch'io ho bramato vederlo ... digli ... io soffro ... io vengo meno...

Dott.: Non si affatichi ...

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LUIGI: Digli ... che perdo la vita ... nel fior degli anni ... ma che valga almeno a distrurre un costume barbaro ... a porre un argine a delitti ... Oh! Dio sento ... sento il rimorso che mi tormenta.. .

GIAC.: Ti conforta amico ... Dio ... Dio ... ti perdona. LUIGI (risollevandosi): Dirai al padre che non sia crudele

con la sventurata Adele ... digli che lo voglio come ultima volon- tà ... di un figlio infelice ... che muore pel pregiudizio della ... fami- glia ... (pazlsa) ... Me1 ... prometti, Giacinto?

GIAC.: Si ... te1 prometto ... LUIGI : Enrico.. . Giorgio. .. perdonatemi.. . Siate testimoni.. .

della mia volontà ... Padre ... oh! padre io muoio ... e non poterti ... vedere (ricade)

ENR.: Sì, sì, amico ... (il singhiozzo gl'interrompe la parola e si allontana)

LUIGI: Enrico ... Giorgio ... me1 promettete? ... io muoio ... Padre mi benedici ... Adele ... Giacinto ...

GIORGIO: Quale schianto! LUIGI: ... io muoio.. . io ... per.. .do...no GIAC. : Luigi! Luigi! LUIGI (abbassa il capo e spira - Dottore lascia la mano - è

turbato - Giacinto lo bacia nel volto e ricade in ginocchio tenen- do la mano e singhiozzando. Giorgio e Enrico in piedi di lato sono commossi).

Dott. (con un gesto indicando il cadauere): Ecco il frutto del pregiudizio d'una barbara società.

Tableau! - La tela cade lentamente

Fine del W a t t 0 e del Dramma.

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LA FILOSOFIA NEO-TOMISTA E IL MOVIMENTO MODERNO DELLA FILOSOFIA CRISTIANA l

(f . 127, C. 9 )

1. Nell'ultimo trentennio del secolo scorso la filosofia in Italia si stava quasi intieramente dalla scuola metafisica rappre- sentata da Gioberti-Rosmini-Ventura-Mamiani-Conti. Essa segue lo svolgersi rapido della filosofia positiva, critica, naturalistica delle altre nazioni, ripudiando le tradizioni italiane. E come l'en- ciclopedia moderna tende alla specializzazione delle scienze, così in gran parte non abbiamo degli autori di filosofia universale, ma degli scienziati peculiari, che tutti, o quasi, mutuano a base delle loro speculazioni scientifiche il positivismo naturalistico, il criti- cismo, l'evoluzionismo, il monismo, il determinismo, facendo capo alle scuole di Spencer, di Hartmann, di Darwin, di Haeckel, di Kant ecc. Così abbiamo sostenitori dell'evoluzionismo il Grassi, dell'antropologia criminale il Lombroso, il Morselli, il Ferri, il Garofalo, del determinismo psicologico il Wundt, del materia- lismo naturalistico il Moleschott, della sociologia positiva il Colaianni, del positivismo critico I'Ardigò, ecc.

I n questo delirio scientifico grandi acquisti va facendo la scienza per il metodo eminentemente moderno dell'osservazione induttiva, per la specializzazione scientifica, per la critica storico- psicologica, per la sintesi delle cause concorrenti, per lo sviluppo delle scienze ausiliarie e delle naturali, per lo studio delle analogie sintetiche.

l I1 manoscritto è senza data, ma presumibilmente risale ai primissimi anni del '900. Le ultime righe del testo, infatti, fanno riferimento a una rivista, « L'Era Novella », che cessò agli inizi del 1903.

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Però il disprezzo assoluto della metafisica o iperfisica, 'la confusione metodologica, l'esagerazione del valore empirico delle osservazioni, fanno sì che gli sforzi di ridurre ad unità le scienze cadano nell'apriorismo scientifico e in una creazione subiettiva della scienza, che si riduce [sicl così tutti i suoi grandi progressi al nihilismo.

2. Intanto la filosofia metafisica di GaIluppi, Rosmini, Gio- berti, Mamiani, Ventura, non ostante il lato profondo della verità, o mancava dell'elemento psico-razionale a posteriori, o confon- deva i mezzi di conoscenza o dava un valore non intiero alla vita mentale dell'uomo.

Sorse allora la scuola dei neo-tomisti, specialmente con Sanseverino, Liberatore e Taparelli, i tre più grandi e geniali rappresentanti, i quali vollero riallacciare le spente tradizioni della scolastica pura dei secoli XIII e XIV, cercando di seguire i passi della filosofia moderna. Essi si fermarono sino a Cartesio, Kant, a Gioberti, a Rosmini, a P. Ventura, che principalmente presero di mira.

Da una parte posero in salvo, diciamo così, le verità fon- damentali della filosofia cristiana, pigliando il metodo, le vedute e le guise degli scolastici; dall'altra attaccarono i moderni nelle loro basi metafisiche.

La filosofia dei Neo-scolastici così ha il puro aspetto meta- fisico; è la forma delle verità prime, e delle loro conseguenze necessarie e immediate. E' un ritorno all'assoluto mentale; senza che di tre secoli di filosofia essi avessero tolto nulla, tranne che le idee schematiche essenziali, metafisiche dei filosofi, per confu- tarle nella loro guisa assoluta, nel loro valore di schema logico.

Pure il Liberatore e il Taparelli compresero il valore della modernità della filosofia, e fecero dei tentativi non per un'assi- milazione di metodo, ma per una larga conoscenza del loro valore. Cornoldi, Salis-Seewis, Schiffini e pochi altri continuarono i loro tentativi; e dei moderni ultimi a rappresentanti di questa scuola con delle [sic] sensibili passi in avanti sono Rossignoli, Ballerini, e qualche altro.

Un'altra scuola più puritana sorse, specialmente dopo l'enci- clica Aeterni Patris di Leone XIII che cercò di assurgere al più

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pretto scolasticismo rappresentato dal De Maria, De Mandato, Ferretti e dalla scuola Domenicana.

I1 ritorno alle fonti della Scolastica, a cui Leone XIII chiamò i cattolici, giovò assai perché i cattolici nel seguire e nel dominare il mondo scientifico moderno avessero la chiarezza matematica della verità, la unità metafisica della scienza, la pietra di para- gone delle ipotesi scientifiche, la sicurezza di un metodo quasi infallibile.

L'esagerazione però di restringere le cognizioni, il metodo, il valore delle verità all'enciclopedia scolastica, nocque ai cattolici che si credettero dispensati d'altro studio; e rese profondo lo stacco di due filosofie, di due categorie d'uomini; tra i quali neppure si può arrivare ad intendersi nella terminologia e nel metodo. Di qui ne nacque il disprezzo vicendevole delle due scuole; la mancanza. assoluta di criteri moderni anche nello studio della metafisica; la totale assenza della filosofia cristiana nella vita scientifica moderna.

3. A questa immediata decadenza della filosofia neo-tomista pura è seguita la reazione; una terza scuola è sorta, la quale accet- tando i postulati della filosofia neo-tomista, varia nel metodo, nella estensione, nella unità scientifica, nella critica storica, nella sintesi causale. Questa scuola è appena bambina in Italia e non ha ancora autorevoli rappresentanti tranne in parte I. Petrone nella metafisica, Toniolo nella sociologia, Molteni Giuseppe e qualche altro; in Francia ha principale De Mercier [sic] *, in Ame- rica Zham, in Belgio Pottier, in Germania Gorres e in parte Cathrein, Pesch, Biederlack.

Questa scuola è in via di formazione, e preluderà la scuola della filosofia cristiana del secolo XX. Quest'indirizzo è stato ultimamente accettato in parte dalla Società Scientifica Catt[oli- ca] Italiana Essa ha un largo campo di studio e di lavoro; la

2 Evidentemente si tratta del famoso Désiré Mercier che, come è noto, operò in Belgio.

La « Società Cattolica italiana per gli studi scientifici B fu promossa e fondata nel 1899 da Giuseppe Toniolo, con l'appoggio di mons. Riboldi, ve- scovo di Parma, e di mons. Callegari, vescovo di Padova, con lo scopo di stabilire un nuovo rapporto tra scienze e fede. ,L'inaugurazione ufficiale deUa

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assimilazione di tutto quel che di vero hanno le scuole filosofiche moderne è il suo primo compito; un'assimilazione razionale, guidata dalle eterne norme del vero. E' la necessità impellente di elevare la cultura e di portare nei labirinti della scienza mo- derna la luce delle verità fondamentali della vita naturale degli esseri, e della unità metafisica che dal cosmo arriva a Dio.

Quindi è necessario tutto quel corredo di conoscenze stori- che, scientifico-naturali, psicologiche, fisiologiche e biologiche che servono alla induzione moderna; e una larga concezione sin- tetica della relatività, dell'armonia, della simultaneità, che tra- sformano il metodo scientifico.

A questa scuola bisogna che converga lo studio di quanti amano la filosofia come la scienza fondamentale della vita, pro- pedeutica al domma nella sua espressione scientifica, mezzo pre- cipuo della riforma sociale dei nostri giorni.

4. Lo studio della filosofia nei Seminari. Vedi L'Era Novella.

Società awenne il 13 settembre 1899 a Corno, in occasione della celebrazione centenaria della morte di Alessandro Volta. Cfr. F. VISTALLI, Giuseppe Toniolo, Roma 1954, pp. 469-475.

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LA MAFIA l (f. 126, C. 85)

Personaggi:

On. di SAN BARONIO Comm. ROBERTO PALICA Cav. ANDREA TARBI Cav. ENRICO AMBROSETTI Avv. GIULIO RACCONIGI Barone D'ACQUASANTA Aw. FEDELI ACCARANO ) ARTACO I mafiosi LIODORO

GIGI - di 10 anni ARTURO - di 14 anni

1 figli di Ambrosetti

GIORGIO ARTUSI ALFONSO CARMIGNANI - segretario dell'onorevole Cav. SERIMONDI FILIPPO ' FIRMINO ANGELO SARCONI Aw. RICCARDI - giornalista

Manoscritto sotto il cui titolo Sturzo annota: « Dramma Siciliano in 5 atti del Sac. Dott. Luigi S tum, rappresentato nel Teatro Silvio Peiiico di Caltagirone il 23 febbraio 1900 n. I1 manoscritto è incompleto: manca il 5 O

ed ultimo atto.

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Sindaco di Roccaoscura Assessore di Vallanegra Oste Fattorino telegrafico Messo segreto del Comm. Palica Elettori - contadini - mafiosi. La scena è in una grossa città dell'interno della Sicilia. Epoca

presente.

ATTO I

Sala da studio dell'on. Di San Baro~zio con a destra porta che va nelle stanze interne e a sinistra (o in fondo) porta che va in una grtzn sala di lusso. E' di sera. U n lume sul tavolo. Dalla porta a sinistra (o in fondo) si vede la sala illuminata; persone che passeggiano; di tanto in tanto qualcuno si affaccia come in attesa di chi debba venire.

Scena I

Alfonso Carnzignani, segretario, e Filippo Firmino amma- nuense, seduti al tavolo dalle bande opposte, che scrivono. Dopo alquanto:

ALF.: Filippo, copia quest'altra lettera e sbrigati; a momen- ti verrà l'Onorevole per firmare e vorrei che trovasse tutto compiuto.. .

FIL.: Lascia che ne termini l'una e poi farò l'altra; non ho mica quattro mani ...

ALF.: Ma non occorre che perda tanto tempo a scrivere in calligrafia, purché la scrittura sia chiara.. .

FIL.: Se volessi sciorinare tutta la mia arte calligrafica, non mi basterebbe sino a mezzanotte; già sono le sette di sera o meglio le diciannove.. .

ALF. (guarda l'orologio): Certo; ma per Diana fai presto; questa sera per le otto vi è una riunione dei capi del partito in

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questa sala contigua, e 1'0n. verrà prima a firmare le lettere e sbrigare gli affari di segreteria; perché m'immagino che la riunione terminerà assai tardi.

FIL.: Sì, SI, scrivo in fretta. Eh, ci sono affari grossi da trattare nella riunione?

ALF.: Figurati! Siamo già quasi alla vigilia delle elezioni, non mancano che quindici giorni, e mi sembra che il nostro sia il campo di Agramante, tanta ne è la discordia (pausa, continua a scrivere). Eh, caro Filippo, caro Filippo, io temo di una disfatta, se i nostri capi non si uniscono in concordia di lavoro e di sacrifici.

FIL.: Credi tu che Ambrosetti, con le sue idee eccentriche, cederà? L'è così duro ... Figurati, quando eravate alla capitale, fu lui che determinò la scissura, anche aperta, al Consiglio Comu- nale ... e perché? per la nomina di due congregati di carità che non gli garbavano.. .

ALF.: Non garbano neanche a me... Oh, io fo ragione ad Ambrosetti. Sono criterii veri quelli con i quali il Comm. Palica dirige il Partito? Vuol far lui, comanda lui, e gli altri debbono ad ogni costo seguirlo nei suoi voleri; e fossero giusti ... ? Va, va, non mi fare parlare ... se no... L'Onorevole mi dice sempre ch'io abbia la lingua lunga ...

FIL.: E non verrà questa sera il Cav. Ambrosetti alla riunione?

ALF.: Credo di sì; l'Onorevole ha intenzione di farli venire ad un accordo ...

FIL. : Del resto gli deve premere ... ALF.: Certamente. FIL. (dopo aver copiato la lettera): Tò,rileggila, vedi se

l'è in regola ... (Alfonso la prende). Dammi l'altra. ALF. : Eccola. Fa presto. (pausa) FIL.: Dimmi; quel disgraziato di Peppino Marcori ebbe

il posto desiderato? l'onorevole s'impegnò; e poi un giovane che potrebbe rendere dei veri servigi al partito ...

ALF.: Non so; non me ne sono occupato. FIL.: Te lo raccomando sai; in qualche momento di confi-

denza con l'onorevole; glielo ricorderai. ALF.: Non dubitare; si chiama? FIL. : Giuseppe Marcori.

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ALF.: Vedi? me lo scrivo nel taccuino (eseguisce). FIL.: Bravo il segretario; oh, se tutti i segretari dei depu-

tati fossero come te! ALF.: Grazie ... Bada che con quella carta non abbia a com-

mettere degli errori di scrittura. FIL.: Oh, non dubitare.

Scena I1

Avv. Fedeli e detti

FED. (si affaccia dalla porta di fondo): Alfonso. ALF. (voltandosi): Oh, awocato. FED.: Non c'è l'onorevole? ALF.: Entri, entri pure. FED. (entra; stringe la mano ad Alfonso): Segretario. ALF.: Servo suo (stringe la mano e poi siede). FED. : Padrone. Addio Filippo. FIL. : Awocato. FED. (siede): E l'onorevole passerà di qua ... ? ALF.: Dovrà venire prima della riunione per sbrigare le

faccende di segreteria. FED. : ebbene, aspetterò. ALF.: Faccia suo comodo. FED. (ad Alf.): E dimmi: l'onorevole ha sbrigato quella

faccenda che mi premeva? ALF.: Quella raccomandazione per suo figlio? FED. : Appunto. ALF.: L'è sbrigata e a quest'ora sarà tutto fatto. FED. : Acqua in bocca ... ALF.: Non dubiti. FED. (si alza e a sé): Da quando ho lasciato d'impicciarmi

di pandette e di codici, e mi son dato alla vita pubblica, le cose vanno a vele gonfie ... Benedetti i partiti, le elezioni, i deputati, i ministri! A mio figlio ho quasi dato una posizione, impiegan- dolo come ragioniere della Sicula, mercé l'influenza dell'on. di

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San Baronio; ed io, oh, io son arrivato a farmi un buon gruzzo- letto e... sicuro ... ci vuole la mia furberia ... senza questa non sarei arrivato ad essere il consigliere segreto dell'onorevole e a goderne tutta la fiducia; mentre allo stesso tempo sono amico fidato di Ambrosetti ... Ma mi avveggo che si mangia meglio con l'onorevole, che con Ambrosetti ... del resto, se arrivo a farli riav- vicinare ... se questa sera il Comm. Palica e 1'Ambrosetti si stringeranno la mano, si deve all'avv. Fedeli ... figurarsi, salvare il partito da una certa rovina ...

ALF.: E dica, avvocato; il Cav. Enrico Ambrosetti, verrà alla riunione? Lei c'è amico e può sapere ...

FED.: Verrà? C'è venuto ed è la dentro; quando ci si mette l'aw. Fedeli sulle cose...

ALF.: Ma ha speranza di riuscire a rappacificare il Cav. Ambrosetti con il Comm. Palica?

FED.: Questo dipende dall'Onorevole. Io ho fatto la parte mia a condurvelo; spero ...

ALF.: Dicono che non vuole ad ogni costo nominato sin- daco il comm. Palica.

FED.: E' affare il loro. Già, il cavaliere Ambrosetti dice che ci ha le sue buone ragioni a non volere sindaco il Comm. Palica; questi ci ha anche le sue a volere essere fatto sindaco; e questa sera, nella riunione che si farà presente l'on. di San Baronio, si dovrà decidere ogni cosa. Io mi auguro che si intenderanno; ciò almeno esige il bene del partito.

ALF.: Augurio che faccio anch'io. FIL.: Dicesi che Giulio Racconigi, il barone d'Acquasanta

e altri siano dell'opinione del cav. Ambrosetti. FED.: Almeno così pare, ma caro Filippo, chi sa leggere nel

cuore degli uomini politici? ALF.: Suole essere troppo nascosto. FED.: Giuocano di finzioni. ALP.: Un momento sono a destra e un momento a sinistra. FED.: Arte per farsi avanti. Oh, eccoli: Lupus in fabula. ALF.: O meglio lupi. FED. : (piglia un giornale e legge - Aljonso e Filippo.continua-

no a scrivere).

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Scena I I I

Avv. Giulio Racconigi - Barone d'Acquasanta e detti.

GIUL. (con circospezione): Barone! BAR.: Avvocato. (si mettono avanti a parlare da soli) GIUL.: Senta; bisogna essere d'accordo, altrimenti l'affare

può andare a rotoli ... BAR.: Ma; tu sai le intenzioni dell'onorevole. GIUL.: Di sostenere la candidatura di Roberto Palica a

sindaco. BAR. : Dunque? GIUL.: Bisogna che noi sosteniamo Ambrosetti. , BAR.:M~; che vuoi? In questi momenti una rottura? GIUL.: Una rottura no; ma se lasciamo solo Ambrosetti,

non potremmo ottenere nulla. Almeno si tenti. FED.: Cospetto! una bella vittoria! i boeri si fanno onore. ALF.: Altro; VinconO' sempre. La vittoria di Colenso è stata

splendida. FED.: Non par vero! gli inglesi questa volta sono sopraf-

fatti da un popolo montanaro ... GIUL.: Ma se Ambrosetti insiste nel suo disegno? BAR.: In questi momenti abbandonare l'onorevole è un

tradirlo. GIUL.: Dunque dobbiamo sempre cedere a Palica? BAR.: Oggi la stimo prudenza; domani ripiglieremo le no-

stre armi. GIUL.: Senta ... FIL. (lasciando la penna): E che notizie abbiamo del processo

Notarbartolo? FED.: Che so? non me ne interesso. FIL.: Come? Di un processo così clamoroso? FED.: Sarà; ma infine, è meglio pensare ai vivi che ai morti.

Io son vecchio, ne ho visto un mondo di questi processi; e poi, tutti finiti in fumo ...

ALF. (seccato): Sbriga la lettera, Filippo. FIL. (a sé): il discorso non piace ...

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BAR.: Tu hai ragione, Ambrosetti ha ragione; ma il potersi dire che io sia un traditore del partito ... io non posso.

GIUL.: Traditore poi.. .

Scena IV

Serimondi e detti

SER. (entrando): E l'onorevole? ALF.: Non è ancora venuto. E mi dica, cavaliere, sono tutti

riuniti gl'invitati? SER.: Ne mancano ancora parecchi, e poi l'ora non è data.

Oh, barone, i miei complimenti; scusi, non l'avevo vista. Awo- cato, servo suo.

BAR. : Buona sera al cav. Serimondi. GIUL.: Padrone mio. SER.: Eravate in confidenza? GIUL.: NO, no; si chiacchierava del più e del meno. SER.: Questa sera speriamo di tornare gli amici di prima. GIUL.: Oh, per questo, siamo stati sempre amici. BAR.: E quelli furono disgusti che non turbano le amici-

zie. SER.: LO comprendo; io celiavo; Insomma, torneremo a

lavorar comodi per il bene del paese. Spero anche che il cav. Am- brosetti abbia dimenticato tutto e sia disposto ad aiutarci.

ALF.: Sa awocato che Andrea Tarbi è stato fatto cava- liere?

FED.: NO; ma ne ho piacere; cospetto! e non averlo saputo? ALF.: La notizia è arrivata ieri. FED.: Andrea sarà certo di là; io vado subito a fargli le

mie congratulazioni.

Scena V

Cav. Andrea Tarbi poi onorevole di San Baronio e detti

ALF.: Eccolo. FED.: Oh, cavaliere! perdoni che non l'ho saputo che ades-

so la sua nomina; mi congratulo assai. I1 ministro ne ha fatto una buona.

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ANDR.: Grazie avvocato; voi mi confondete; io non me- ritavo tanto.

FED.: Ma che dice ... ALF.: Cavaliere, i miei rispetti. (OnorevoZe viene; gli si fanno incontro Barone, Racconigi,

Tarbi, Serimondi, Fedeli; Alfonso e Filippo si levano in piedi avanti il tavolo)

On.: Signori, forse mi son fatto aspettare troppo, perdo- nino.

SER.: Oh, che dice? GIUL. : Troppo cortese. ANDR.: E poi, l'ora non è data e credo che manchi ancora

qualcuno. On.: Permettano che firmi la corrispondenza. Tutti: faccia, faccia pure. (On. si avvicina al segretario, siede al tavolo, mette gli oc-

chiali e fi~ma la corrispondenza che gli dà Alfonso. Gli altri fanno un gruppo)

ALF.: La lettera al Prefetto - al Guardasigilli, al Principe di Santa Marta - Alla Società Ferroviaria Sicula - Al cav. Ma- rio Amici - All'amministratore di Siracusa.

On.: Va bene (si leva). Manda Filippo a pregare il Diret- tore del Banco che venga domattina alle nove. Tu termina le altre lettere. Queste firmate mandale subito alla posta che par- tano col treno di domattina. Le altre disposizioni te le darò dopo la riunione.

FED. (si avvicina): Onorevole On.: Ambrosetti verrà? FED. : E' qua. On.: Disposto? FED.: Così, così. IO poi non ho insistito per far le viste

di secondarlo. Comprenda; nella mia posizione non potevo pre- giudicarmi. Ella lo tenterà ... e spero che ceda.

On.: Va bene: adesso lo chiamerò in disparte prima della riunione. E' l'ultimo tentativo amichevole.

FED.: In ogni modo mi comandi. Ella sa, che l'aw. Fedeli sa far tutte le parti.

On.: Ti conosco. A proposito: non so perché si tardi a

115

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concedere la libertà provvisoria a Giacomo Liodoro, un elettore impareggiabile. Vedi, con la tua accortezza, di conoscere le ra- gioni, e le intenzioni del Prefetto. E' nuovo nel suo ugcio ...

FED.: Bella! avrà gli scrupoli? Non credo; ma in ogni caso o gli passeranno ... o via.

On.: Interessati della cosa con scaltrezza. FED.: Lasci fare a me... On.: Poscia ritorna per darmi notizia; e per provvedere

a vari affari del partito. FED.: La servirò. On. (lascia Fedeli e si avvicina al gruppo): Signori, eccomi

a voi (si avviano in sala) FED.: Alfonso, ti raccomando il mio caro Filippo. ALF.: E' caro anche a me. FIL.: Grazie delle sue premure affettuose. FED. : Arrivederci. Addio Filippo (via) ALF.: Filippo, fa presto; va dal Direttore del Banco. FIL.: Subito. (via a destra) ALF.: Che dura vita fare il segretario! Bisogna veder tante

birbonate e anche cooperarvi; e dovere fingere! Appena appena mi è possibile di qualche timida parola, e poi conchiudere per approvar tutto, lodar tutto anche quello che non si sente. E il povero onorevole, uomo buono, ma trascinato dall'ambizione a circondarsi di uomini malvagi, deve cedere alle esigenze del comm. Roberto Palica, e forse ... Ah, io prevedo che il cav. En- rico Ambrosetti lascerà il partito. Quella sarebbe perdita irre- parabile.. . ma. .. Lasciamo le predizioni e torniamo al lavoro; devo mangiar questo pane ... e sono inutili i lamenti (torna al tavolo).

Scena VI1

On. di San Baronio, il cav. Ambrosetti e detto

On.: Oh, senta cavaliere; entriamo qua, nella mia segre- teria. Alfonso, un momento ( f a cenno che vada via)

ALF.: Onorevole, Cavaliere (va a destra) AMBR. : Comandi.

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On.: Pregarla. I o nutro fiducia che ella, con generosità pari all'amore di concordia, non vorrà farci il torto di abbandonare il partito, proprio in questi momenti. Anzi la sua presenza que- sta .sera alla riunione che sarà a qui di pochi minuti, mi con- forta nella persuasione che tutto avrà a rimettersi al pristino.

AMBR. Ma non le disse l'avv. Fedeli le mie intenzioni? Io son venuto perché poi non abbia il rimorso di non aver tentato pel bene del partito tutti i mezzi prima di un mio sforzato allon- tanamento.

On.: Allontanamento non mai. Ella, è questa la mia pre- ghiera, dovrà restare quale sempre è stato uno dei più intelli- genti e zelanti campioni del nostro partito.

AMBR. : Grazie. On.: Disgusti, disparere tra i capi d'un partito ve ne son

sempre, ma la disciplina e la forza del partito sta nel sapere sagrificare le idee personali al bene comune.

AMBR.: Onorevole, non creda ch'io non senta l'imperiosa voce del partito, al quale da più anni appartengo e la forza del- l'amicizia, che mi unisce a lei e a molti miei colleghi. E ne ho fatto assai sagrifizii personali di borsa, di salute, di idee e più volte ho ceduto, ella lo sa, per amore di concordia. Oggi forte convinzione, determinata vuole che le parli chiaro.

On.: Sì, sì, parli pure. AMBR.: Determinata dalla corruzione che invade il partito

per cagione del comm. Palica e di parecchi suoi amici; mi sforzo a dirle che se vogliamo che davvero il partito serva alla patria, e non viceversa, prima e sopra qualsiasi ambizione personale, bisogna radicalmente riformare l'organismo, ed escludere il comm. Palica dall'Amministrazione comunale.

On.: Ammiro la sua franchezza e la lodo. Ma crederà che altri in questi momenti potrà pigliar nelle mani l'amministra- zione?

AMBR.: E perché no? Io non voglio far nomi; ma fra noi certo si trovano pih onesti e migliori amministratori ...

On.: Crede lei il comm. Palica un disonesto? AMBR.: Disonesto no; ma non ha dato prove di retta am-

ministrazione; si fa sopraffare dagli affaristi che in ogni partito non mancano, cede alle influenze personali e alle amicizie, mira

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a sollevare chi lo corteggia, non badando alla moralità delle per- sone, lascia che negli appalti speculano le sanguisughe e le anime dannate del partito ...

On.: Ma infine gli metteremo a lato assessori integerrimi ... AMBR.: Gli assessori? O sono delle stesse idee, o cedono,

o vanno via. Al Palica non è facile resistere; ed ella più volte per la concordia ha ceduto; ed ora vuole che ceda io. E' sempre lo stesso che s'impone a tutti. E questa sera lo vedrà nella riu- nione, cortese, per quanto si vuole, ferreo nei suoi propositi.

Ed io, onorevole, non posso continuare a rendermi coope- ratore dello sperpero delle finanze comunali, non posso vedere che al meno che si pensa è al bene del paese, e che tutte le mire degli amministratori non siano altro che il partito. L'ho rotta col Palica per la nomina dei due congregati della carità, e questa sera son venuto, non solo per cedere alle cortesi istanze di lei, ma anche per tentare una via di salvamento del partito.

On.: E la via si è? AMBR.: Che il Palica non sia né sindaco, né assessore; che

il partito formuli un buon programma amministrativo e politico da seguire, e che infine la direzione del partito sia distinta dal- l'amministrazione comunale.

On.: Cavaliere, i suoi ottimi propositi anch'io li seguirò, se la realti corrispondesse alle idee; ma sventuratamente non è così. Ad ogni modo tentar di arrivare a quella meta che lei si propone è bene, e son d'accordo (a sè: cediamo almeno a parole), ma sulla nomina del comm. Palica a sindaco è necessità che ella ceda.

AMBH.: SU quella condizione, onorevole, son fermo; ce- derò, se ella lo vuole, allontanandomi intieramente dal partito. Ma mi allontano senza rimorsi; quando non si può fare il bene, è meglio aspettar tempi migliori, ma non cooperarsi al male, non sanzionarlo con la presenza e mostrarsi conniventi col tacere.

On.: Ma cavaliere, pensi che in questo momento o la sua guerra al Palica o la sua ritirata porteranno gran male al partito e forse una disfatta alle prossime elezioni politiche. Ella sa che il partito avverso è potente, ella sa che la morte del barone Ar- fazio è stata per noi una grave perdita; adesso si aggiunga la scissura determinata da lei.

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AMBR.: Determinata dal Palica ... Infine, abbiamo ceduto le mille volte, ceda adesso lui. Del resto egli non ha, almeno non dovrebbe avere nessun interesse a esser sindaco; pel partito ba- sta che il sindaco sia del suo seno, intelligente e volenteroso.

On.: E se Palica non cede? AMBR. Quando l'esige il bene del partito, bisogna far dei

sagrifizi. On.: Ed è questo che io chiedo a lei: un sagrifizio pel partito. AMBR. Ed è questo che io pretendo dal Palica; un sagrifizio

pel partito. AMBR. (schernendosi): Ella ha anche le chiavi del cuor di

Roberto. On.: Ma su questo punto tien duro ... AMBR.: VUOI dire che ci ha interesse; onde a ragione io

mi oppongo. On. (a sé): Se sapesse che ci ho anch'io interesse! (pensa)

ma come districar questa matassa? Al comm. Palica son legato per. mille rapporti e sono stretto nelle sue granfe; il cav. Ambro- setti è assai potente e il suo abbandono compromette l'esito delle prossime elezioni ... L'uno e l'altro mi sono necessari.

Cavaliere, non mi faccia il torto di un diniego; non è questo il momento di risoluzioni così precipitate. Già siamo alla vigilia delle elezioni; e in questi trepidi momenti, la prego, la scongiuro a desistere dai suoi propositi. Non la vuol fare pel partito, lo faccia per me.

AMBR.: Per lei e pel partito son pronto a sagrificar tutto; ma che io ceda al comm. Palica, non mai.

On.: Ma lei cede a me. AMBR.: NO, cedo al comm. Roberto Palica. E' una vittoria

che non gli posso consentire. On.: Però non si preclude la via di attuare le sue idee ... AMBR.: Me la preclude, perché quel che è possibile ora,

con la nomina di Palica a sindaco non sarà più possibile. On. (quale uscita trovare?): Sa, glielo dico sinceramente:

non mi aspettavo da lei queste ripulse; non credevo che la sua ostinazione arrivasse a tale segno. Dunque lei farà il bene del paese, quando vedrà -eletto a deputato il marchese Silori invece di me; quando piglierà il dominio il partito awerso?

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AMBR.: Continuando con questo sistema, l'uno vale l'altro; ed io, lo so, non farò il bene del paese, ma almeno non ne farò il male.

On.: Dunque io faccio il male del paese? Ed è così che mi si pagano i sagrifizii che ho fatto per la patria? Ingrati.

AMBR.: Non dico che lei; ma il Palica e compagnia ... On.: Infine, se si trattasse di me e solo di me, io non insi-

sterei. Cederei il posto che tengo in parlamento, senza penti- menti e senza pretenzioni. Si tratta l'onore del partito; e in certi casi bisogna sagrificar tutto sull'altare della concordia.

AMBR. : Onorevole, mi perdoni; la mia coscienza m'impone [sic] d'insistere. Del resto uno di più uno di meno nel partito ...

On.: Non è così; Ambrosetti di meno nel partito vuol dire rovina. Molti la seguiranno e...

AMBR.: IO non ne ho colpa. On.: Dunque sarà mia la colpa? (passeggia) (a sè) Crudele

destino che mi perseguita; se potessi disfarmi di Ambrosetti, mi sembrerebbe assai meglio, che averlo tra i piedi censore e... ma no, egli deve rimanere, la mia salvezza lo esige ... Se cedesse in questi momenti Roberto Palica? Ma egli è possibile? Il sin- daco sarebbe Giulio Racconigi ... o il Barone d'Acquasanta ... e costoro se scoprissero? ... se venissero a sapere quale imbroglio vi è nella Cassa del Comune? ... sarei rovinato ... (ad Ambrosetti) Ebbene, io chiamo qui il Consiglio Direttivo del partito; lascio a tutti la responsabilità d'una decisione.

AMBR.: Ora? On.: Sì, ora; prima della riunione. Non vorrò che nella

riunione le discordie e i dispareri destino maggiore sfiducia di quella che regna tra le nostre file. Vado io stesso (via in fondo).

Scena V I I I

Ambrosetti solo - poi l'onorevole, il Comm. R. Palica, il Cav. Andrea Tarbi, il Cav. Serimondi, l'Avv. Giulio Racconigi, il Barone d'Acquasanta

AMBR.: Una gherminella! ma si resista; questa volta non mi presterò più al giuoco indegno della cricca predominante. Di

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San Baronio, Palica, Tarbi, Serimondi avranno a combattere col cavaliere Ambrosetti.

I1 Partito! si è brutta cosa l'essere avvinto e legato al par- tito; spesso si deve fare quel che non si sente; spesso si è co- stretti a sagrificar anche la patria al partito; il quaIe non suona altro che la egemonia e il comando di pochi su tutti, gl'interessi privati sui comuni.

Tardi me ne sono accorto. (On. Palica - Tarbi - Serimondi - Racconigi - Acquasanta entrano)

On. : Seggano, seggano (siedono) Bar. (a sé): L'onorevole in viso è preoccupato; ... eh! temo.. . On.: Signori, prima della riunione, vi ho chiamato per sen-

tire il definitivo parere del Consiglio Direttivo del partito sulla vertenza oramai a tutti nota del cav. Ambrosetti col comm. Pa- lica. Io ho pregato invano il cav. Ambrosetti di cedere pel bene del partito:, perché mi sembra doveroso oggi di non compromet- tere l'esito della prossima battaglia elettorale politica. Ho -pre- gato pure il comm. Palica; l'uno e l'altro animati sempre da sentimenti di bene, sono di opposti pareri; l'uno e l'altro pre- sidio e campioni del partito; io spero che l'uno e l'altro si rimet- teranno al giudizio dei più.

TARBI: Ed è questo nel desiderio di tutti. RoB.: IO non so, non comprendo la lotta personale che

mi vuol fare il cav. Ambrosetti. Ha forse ricevuto dei torti da me?

AMBR.: Lotta personale no; anzi nemmeno lotta; sin oggi; solo la discordanza delle nostre idee è tale, che l'uno dei due deve cedere. L'onorevole si rimette al parere dei più; io non offendo il consiglio direttivo, spero che possa anche io fare come crederanno meglio i più.

RoB.: IO non ho mai usato parole coperte e modi subdoli. Sono franco. Ambrosetti ha il torto d'intestarsi nelle sue idee; infine non si può pretendere che tutti abbiano a seguirle.

AMBR.: E' perché non lo pretendo, mi ritiro. On.: Questo è un tradirci. RoB.: Questo è un imporsi. Vede che siamo in un mo-

mento difficile, lo coglie per dirci: o comando io, o vi lascio.

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SER.: Cosa che nessuno di noi si aspettava dal cav. Ambro- setti, sempre cortese e interessato degli affari nostri.

AMBR. Pare che mi vogliate fare la requisitoria, o persua- dere a forza di rampogne.

(si alza). No, il cav. Ambrosetti non cerca il momento per imporsi, né vuol vendere caro il suo aiuto, né far pesare il suo abbandono. Il cav. Ambrosetti non ha avuto né ha altra mira che il bene del paese ...

ANDR. : L'abbiamo tutti. RoB.: Ma infine, quali accuse ella ci muove? Si speci6chino

le accuse contro il cornm. Palica; il comm. Palica è pronto a di- fendersi avanti il Consiglio Direttivo, ma non venga il cav. Am- brosetti a dire: il partito è inquinato, io lo voglio salvare.

AMBR.: Non ho la pretenzione di salvarlo; ma vorrei po- terlo fare; infine non è il momento di accusare e di discolpe. L'onorevole sa le ragioni del mio resistere; lo sapete tutti, voi. E ora vengo a compiere l'ultimo sforzo che mi consento, pel comodo del partito a cui appartengo, per non sembrare fedifrago, per concorrere al bene del paese. Se questo è reputato impo- sizione.. .

RoB.: IO mi appello al barone d'Acquasanta, che gli è amico e divide le idee del cav. Ambrosetti.

BAR. : Veramente, Ambrosetti ha ragione, ma oramai, alla vigilia delle elezioni ... io dico rimettiamo le questioni ardenti a dopo le elezioni ed ora lavoriamo concordi.

On.: Una buona idea, degna della prudenza del Barone. AMBR.: Però il barone non ha pensato che Ambrosetti è

oggi voluto e pregato, perché potrebbe dare il suo appoggio alla elezione dell'on. di San Baronio; dopo chi lo penserà?

On.: Questa parola mi offende. AMBR.: Mi scusi, la verità non offende nessuno. RoB.: Ma è inutile; Ambrosetti vuole che io lasci il partito

e che ceda a lui il posto ... AMBR.: Non ambisco posti; né credo che tu debba servirti

delle insinuazioni. RoB.: Dunque, che vuoi? che pretendi? parla? AMBR.: Non parliamo del passato.

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RoB.: Cosa inutile. I1 passato fu; ora ci preme deli'avve- nire.. .

GIUL.: E si pensi all'avvenire. AMBR.: Ebbene, per l'avvenire del partito; io propongo

che il Consiglio Direttivo riformi la presa deliberazione della nomina del sindaco, nella persona del comm. Palica. Non gli faccio un'offesa se glielo dico in faccia; io non credo opportuno che il presidente del partito politico sia anche sindaco. Così l'amministrazione comunale, per le esigenze del partito, deve andar male.

GIUL.: Ed in ciò sono anch'io di accordo; il volere l'una e l'altra direzione, quella del Comune e quella del partito unite, porta gravi mali al paese, mali che non si addebitano alle per- sone ma al. sistema.

RoB.: Via, parlate chiaro; non mi volete a sindaco; non ho poi avuta una tale ambizione.

AMBR.: Dunque, perché non cedere? On.: Dopo che il Consiglio Direttivo ha preso una deli-

berazione, dopo che il pubblico lo sa, dopo che il partito lo vuole, via Cavaliere, è ingiusta la sua pretesa.

SERIM.: Oggi non è prudente. RoB.: IO mi rimetto alla maggioranza; ma non cedo alle

tue imposizioni. ANDKEA: IO non sono uso a disdirmi; per me il sindaco

deve essere i1 comm. Palica. SERIM.: A me sembra una grave offesa il discutere. AMBR.: Ebbene; io mi rassegno a non reputarmi più vostro. SEKIM.: Questa è troppo! Ebbene, se si ritorna a trattare

sulla nomina del sindaco, io vi lascio. ANDKE~A: Anch'io; Non ho sofferto imposizioni. E questa

è troppo. GIUL. (si riscaldano; hanno interesse; fanno bene la parte):

Ma ... On.: (stizzito): Ah! io non credevo da lei queste ripulse.

Infine nessuno .è necessario nel mondo. Ora mi viene con la scusa dell'amministrazione divisa dalla politica come se nel pas- sato non fossero state unite. Poi col pretesto della nomina del

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sindaco. Ma infine che teme? Dunque così si apprezzano i sagri- fizii che facciamo per la patria? Ah! no; questo è un dirmi: non la voglio più deputato; e io son pronto a cedere; perché so quanto mi pesi quest'uflicio. Ma tale repulsa me la piglio ad offesa personale.

AMBR.: Ma no, ma no; non intendo dire ... On. (incalzando): Ma sì; perché quando non cede alle mie

preghiere, alle ragioni, alla maggioranza; che pretende dunque? AMBR.: Ma vorrebbe forse che io ceda alle mie convin-

zioni? On.: Lo pretendo in questi istanti. AMBR.: Ed io non posso. Se ci siamo uniti pel bene della

patria, non mi è possibile poi vedere che il meno che si pensi è proprio la patria, il comune, le opere pie. Non ho mai inteso questo per partito.

On.: Neanche io. RoB.: Nemmeno io; e le tue parole mi riescono incompren-

sibili. A chi le dirigi tu? AMBR.: A nessuno personalmente; ma ai criteri coi quali

il partito va avanti. On.: Basta. I1 cav. Ambrosetti questa volta cederà alle

esigenze del partito. Dopo le elezioni tutto il Consiglio Direttivo ci coopereremo [sic] per dare al partito un indirizzo di epurazione e di migliorie del paese. Sarà il compito mio speciale di questo nuovo periodo di lavoro.

RoB.: IO lo prometto e mi metto a disposizione di tutti. SERIM.: Sarà interesse comune. TARBI: Anche io. GIUL.: Tutti. AMBR. : Ebbene; lo vedrò se le parole sono sincere alla nomina

del sindaco e della nuova giunta. On.: Dunque, non potrò contare sul suo appoggio per le

prossime elezioni? AMBR.: Lasci che ci pensi e le darò risposta. On.: Questa è un cavarsela, scusi cavaliere; eila così tra-

disce il partito e il disastro sarà sulla sua coscienza. AMBR.: Spero non avere rimorsi. Onorevole, amici (uia).

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On. (a Tarbi): La riunione questa sera si rimandi (Tarbi va e torna). Avvocato (a Giulio Racconigi, a parte), lei cercherà di persuadere Ambrosetti. ..'

GIUL.: Senta; io farò, ma dubito dell'esito. Del resto, scusi sa, ma non so io da qual parte siano state le imposizioni.

On.: Ma se necessità spinge di dovere cedere a Palica. GIUL.: IO non la vedo questa necessità; a ogni modo per lei,

tenterò. On.: In ogni caso, ella sarà dei nostri. L'onorevole può

favorirla e.. . GIUL.: Non ho mendicato favori. On.: Non prenda a male la mia parola. GIUL . : Anzi la ringrazio, onorevole. On. (si avvicina a parlare con Palica, Tarbi e Serimondi). Bar. (a Gizllio): E' stata imprudenza quella di Ambrosetti. GIUL. : Imprudenza poi ... Bar.: Resistere così all'onorevole, in questi momenti? GIUL.: Ne aveva ragione. Bar.: Ma la prudenza? Ora si tenta ... GIUL.: Speriamo. Io vado. Bar. : E anch'io. Andiamo. Onorevole. On.: (voltandosi) Signori, Barone, Avvocato (si stringono

la mano e via).

Scena IX

Onorevole - Palica - Tarbi - Serimondi

RoB.: (come continuando a discorrere): mi sono trattenuto a stento: non credevo che Ambrosetti ...

On.: Se non fosse stata la necessità, ne avremmo fatto a meno.

RoB.: Necessità poi? Capisco, è potente; la sua perdita ci toglierebbe un cento elettori; ma infine ...

On.: Infine bisogna ancora tentare. .. RoB.: E vorrebbe? Oh! è troppo; scusi onorevole; arri-

vate le cose a questo punto, per me è vergogna cedere a lui ...

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AIVDREA: E pure deve essere anche interesse il tuo di te- nerti amico Ambrosetti. ..

RoB.: Interesse?! Interesse invece di noi tutti è di allonta- narlo. Con l'animo che ha, con le idee di riforme, di epurazione eccetera eccetera; se venisse a scoprire ... mi capite! ... sarebbe capace di comprometterci tutti. ..

On.: Tu parli così per ripicchi personali; via siamo sinceri; lasciarlo andare in questi istanti è andare contro a certa disfatta nelle elezioni politiche. E se io non risulto deputato, tu (a Ro- berto) non sarai eletto sindaco, di questo siane certo, e... tutti potremmo correre rischi seri.

ANDREA: l'onorevole ha ragione; e l'è proprio così ... RoB.: ma che? Noi infine per le elezioni politiche potrem-

mo far giuocare i denari e anche la mafia; e... ANDREA: I denari e la mafia li fa giuocare anche il partito

avverso. RoB.: Per noi c'è il governo favorevole; tutti gli impiegati

del comune sono nostri, o per fas o per nefas ... SERIM.: Mancano i danari. Lo posso dire io che son il

cassiere del partito. ROB. : E si avranno. On.: Non molto; io non sono al caso di spendere più di

cinque mila lire. SERIM.: E cinque mila che ne abbiamo in cassa fanno

dieci. ANDREA: E al più sei che ne potremmo raccogliere per

contribuzione.. . RoB.: E sono sedici ... ANDREA: Ne occorrerebbero quaranta mila a tentare una

guerra di danari nelle forme. RoB.: Si fa un credito ad una banca. ANDREA: I1 nostro partito ha pescato fin troppo nelle ban-

che e nelle casse; e lo sa il povero Andrea che ha firmato sempre, col suo o con altri nomi non importa; non mi presto più a simil giuoco.

RoB.: (secco j Andrea. ANDREA: Inutile; io so quel che dico; ne avete usato

e abusato di me; Pago se occorre, ma, mi cadon le mani, se

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metterò più una firma nelle vostre cambiali. Trecento mila lire non son uno scherzo.

On. ( a sè): Brutto scherzo! RoB.: I n ogni caso, trecento e ventiquattro ... On.: No, no; Andrea ha ragione; sappi che corriamo una

brutta alea, che domani potrebbe finirci.. . RoB.: Ah! non tema: a quanti siamo interessati ... On.: Capisco, che non sarebbe cosa facile ... insomma, mi

preme non perdere Ambrosetti. RoB.: E sempre Ambrosetti! Ma come? Lo dica Lei? On.: Fingere di cedere, e rinunciare alla tua nomina di

sindaco; secondarlo, e poi.. . RoB.: Non è prudente; e poi Ambrosetti non si fa co-

gliere all'amo.. .

Scena X

Avv. Fedeli e detti

FED.: E' permesso? On.: Avanti. Oh! avvocato. Ebbene, che nuove? FED.: E' un po' lunga la storia e gliela narrerò dopo. I1

prefetto dicesi che abbia delle difficoltà. On.: Difficoltà? Ma insomma, questo prefetto vuole es-

sere traslocato. RoB.: Gliel'ho detto io. On.: Basta; pensiamo anche a costui. Roberto, domani ci

vedremo per pigliare gli opportuni accordi. I n quanto ad Am- brosetti ...

FED.: Che? Non ha ceduto con le buone? On.: Pare. FED.: E' troppo! Ha gli scrupoli; mi sembra un uomo del

duecento: ma dico io, mezzi non mancano a farlo piegare. On.: E sarebbero? FED. : Promesse? ANDREA: Non son per lui.

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FED. : Preghiere? On.: Le abbiamo usate. FED. : Minacce? On. : Lo irriterebbero. FED. : Infingimento? On.: E' l'unica via. Finger di cedere prima delle elezioni,

e, poi ... RoB.: L'esito è incerto. ANDREA: Egli se ne accorgerebbe. FED.: Allora si faccia a meno di quest'uomo. On.: Non si può. FED. : Si sacrifichi. On.: E come? FED.: Uh! non manca modo ... RoB.: Sì, il partito non deve averlo né amico, né nemico,

né politicamente, né amministrativamente. Bisogna neutralizzarlo. On.: In che modo? FED. : Allontanandogli gli amici. On.: Si tenti. FED.: Mettendolo in mala luce presso il partito. On.: E' digcile, ma... FED. : Qualche calunnia.. . On.: Ebbene, a domani; non lascerò via intentata; qua-

lunque mezzo è buono per arrivare allo scopo; bisogna o farlo nostro o ridurlo alla impotenza di offenderci.

RoB.: Onorevole, Roberto le dà la parola che vinceremo. On.: Dunque, a domani ... Tutti : Onorevole (via).

Scena XI

Onorevole solo

(pensa) Eccomi per un'altra via iniqua, pericolosa ... cru- deli rimorsi non mi straziate ... Mi trovo avvinto, costretto da mille passi dati per saziare la mia ambizione, la brama dell'oro e del comando, con una vita che farebbe disonore al peggiore

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degli uomini; e che certo sconterei in galera, se non fosse que- sta medaglia. Ed ora? ... Bisogna tenermi forte per non cadere, bisogna continuare questa vitaccia maledetta ... Ah! è così che rappresento gl'interessi del popolo e che cerco il bene della patria!

(resta pensoso e cala la tela)

Fine del I atto

ATTO I I

Stanza da studio del cav. Enrico Ambrosetti

Scena I

Il cav. Enrico Ambrosetti e Z'avv. Giulio Raccodgi

AMBR.: Anche con le calunnie, Giulio mio; ma questo è troppo; no, non lo tollero.

GIUL.: Ti calma; e vorresti? AMBR. (per andare al tavolo): Vedi: piglio la penna e

scrivo; una stampa pubblica in questo momento li farebbe im- pallidire. Io? Io cercar favori dall'onor. di San Baronio? Io, abbandonare il partito, perché non soddisfatto nelle mie ingorde voglie? Io aspirare al comando della città? Senti! Toccarmi nel- l'onore.. .

GIUS.: E' un'infamia; ma... vincili in generosità. Una stam- pa, ora, un colpo di mano alla vigilia delle elezioni, sarebbe una rivincita, che ogni animo onesto rifiuta. Dopo le elezioni, ricac- cerai in bocca a Palica e compagni la vile calunnia.

AMBR.: Per l'anima dei miei figli; io non posso stare un'ora sola, con tale onta sul mio onore. No, invano ti opponi Giulio . .

GIUL.: La salvezza del partito a cui tu ancora appartieni, t'impongono questo doveroso sagrifizio.

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AMBR.: Sappi, Giulio, che pel partito ne ho fatti troppi sagrifizii; ora non mi sento più legato ad esso. .. anzi, anzi mi sento d'essere contrario ... Quando si scende a quelle indegne rappresaglie, quando mi si allontana i migliori amici, con mi- nacce e promesse, quando infine mi si calunnia ... è troppo. Non mi hanno voluto amico, mi avranno avversario. Del resto, ne godo; la mia coscienza mi vietava durarla ancora con quegli uomini disonesti.

GIUL.: Bada, Enrico, a quel che fai ... AMBR.: Ci ho badato ... GIUL.: Ma per amor del cielo, sentimi; dopo le elezioni

del deputato, sarò anch'io al tuo fianco; forse sarò solo; perché sugli altri, come per esempio I'ing. Rodolfi, l 'aw. Ardenti, e forse anche il barone d'Acquasanta, non puoi contare; ma an- che solo ti aiuterò a togliere dall'arnministrazione comunale il Palica, il Tarbi, il Serimondi e gli altri; ma ora no, no. Gene- rosità, prudenza, longanimità ...

AMBR.: Ma che interesse posso avere io, oggi, di far ri- sultare a deputato l'on. di San Baronio, il quale unito a fil doppio con Roberto Palica, lo appoggia e lo sostiene?

GIUL.: L'onorevole si è costretto dalle circostanze e dalle ragioni di partito.

AMBR.: NO, se fosse così l'onorevole si sarebbe appoggiato a me e al gruppo 0nest.c del partito; gruppo che invece ha com- battuto colle solite armi delle promesse, delle minacce, dell'oro, della calunnia; e tu vedi che io son rimasto solo e calunniato; tu messo da parte e guardato con sospetto; Ardenti e Rodolfi resi timidi, il barone d'Acquasanta incerto, e gli altri trascinati dietro il carro trionfante del Palica ... L'onorevole dunque ha voluto giuocarci. Non meriterebbe neanche che sia guardato in faccia.

GIUL.: Pure, con tutte le tue ragioni, necessità vuole che tu stia zitto e sino a domani sera. Dopo, parla pure. I1 pub- blico apprezzerà la tua stampa assai di più che non fosse stata fatta ora, perché vedrà l'uomo onesto, che si difende senza colpire.

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AMBR.: Sarei del tuo awiso; ma, se risulta il di San Baronio, i suoi partigiani rideranno alle mie spalle; se non ri- sulta, si dirà che, visto mutato il vento, ho mutato orientazione.

GIUL.: Ma che? I1 pubblico dirà che sei stato generoso nell'un caso e nell'altro.

AMBR.: Però, col mio silenzio mi precludo la via di rian- nodare le nostre file disperse e di preparare bene il terreno per un colpo contro il comm. Palica. E se vince I'on. di San Ba- r o n i ~ , non potrò tentare una seria ripresa tranne che ci unis- simo al partito opposto.

GIUL.: Unirsi al partito opposto è impossibile. Gli amici non ti seguirebbero. Son tanti gli odii e gli interessi personali.

AMBR.: Dunque, mi dai ragione? GIUI,.: Ragione, si, ragione; ma sentimi; ti confido cosa

che non l'ho detta a nessuno. AMBR. : Parla. GIUL.: Tu sai quanti sagrifizii mi costa la riuscita dei

miei due figli ... AMBR. : Ebbene? GIUL.: L'onorevole mi ha detto: se ella mi appoggerà nelle

prossime elezioni, i figli suoi avranno due posti dovecchessia; altrimenti ... attraverserò loro tutte le vie.

AMBR. : Ah! canaglia! GIUL.: Non gridare. AMBR. (fremendo): E tu? Tu Giulio Racconigi? GIUL.: IO ho risposto che non mendicavo il pane ... AMBR.: Bene. GIUL.: Ma che disponeva di me per le elezioni politiche ... AMBR. : E che? ... GIUL.: E che del resto non mi potevo legare ... il tempo

mi avrebbe dato consiglio. Vedi adunque? ... AMBR.: Vedo! vedo! Oh!, rabbia. GIUL.: Sicché senti un mio consiglio; dopo le elezioni

politiche concerteremo per non fare eleger [sic] sindaco il Palica. AMBR. : Inutile! Tu t'inganni ... GIUL.: Enrico! parola mia d'onore: ho una via che spunta. AMBR.: Non ci credo. GIUL. : Senti.. .

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Scena I1

Arturo e detti, poi il barone d'Acquasanta

ART.: (entrando): Papà, c'è un signore in sala, che ti cerca.

AMBR.: Chi è? ART.: Non so. Scusi avvocato, la rispetto tanto. GIUL. : Grazie. Carino! AMBR.: (a Giulio) La mia gioia (ad Art.) Fallo subito en-

trare. ARTURO (via). GIUL.: (per alzarsi): noi ci vedremo un'altra volta ... AMBR.: NO, no; devi dirmi quale via hai che possa spun-

tare ... Bar. (entrando): Cavaliere. AMBR.: Oh, signor Barone; entri pure. Non occorreva

,ambasciata. GIUL.: Barone! (fa un inchino). Bar.: Ma che! è un dovere (siedono) Un affare d'impor-

tanza ... AMBR.: Che novità? Bar.: Una assai dolorosa. Dopo il suo imprudente rifiuto

all'onorevole, io per ragioni di partito, mi ero indotto a pre- stare il mio appoggio, non foss'altro per l'odio di famiglia col marchese Silori, il candidato awersario. Seppi della calunnia insinuata sul conto di lei, e compresi che l'era una gherminella di partito.

AMBR. : Assai indegna. Bar.: Una cosa però che non faceva né caldo né freddo;

il pubblico conosce 1'Ambrosetti ... AMBR.: Ah! non creda, Barone. Simili calunnie ... non ne

parliamo. Bar.: Ma tutto ciò mi faceva nausea sì, pure l'imperiosa

necessità mi teneva legato. Oggi però ho saputo cosa, che mi fa decidere a imitarla, non mi unirò al partito awerso per decoro del mio casato, ma mi ritirerò a vita privata.

AMBR.: Insomma?

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Bar.: I Congregati di carità hanno venduto all'asta, all' asta per dire, perché tutto fu fatto al buio, un fondo dell'opera Pia, aggiudicata a persona da nominare, e venduto per lo meno a metà del valore. Ora ho saputo che questa persona da nomi- nare è il Palica, il quale su quel fondo ha dato a Serimondi l'ipo- teca per ventimila lire, da servire al partito. Ciò l'ho saputo a caso da un poveraccio, che è stato fantoccio della scena.

AMBR.: Avevo ragione quando dicevo che non mi facevano odor di onestà questi signori?

GIUL.: ECCO il perché Palica volle ad ogni costo eletto a Congregati di Carità due sue creature ...

Bar.: E' troppo! io non mi presterò a un tal giuoco. AMBR.: Ma è pubblica la cosa? Bar.: No, segreta; e il peggio che l'han fatta in modo, per

mezzo di terze persone, che non si può denunziarli. GIUL.: Furbi, per Diana. AMBR.: Ebbene. Siamo tre. Combatteremo il signor Palica

all'elezione del sindaco. Io mi piglio la briga di scovare la fac- cenda. E giacché son su questa via, che non debba trovare altri imbrogli non ci credo.

GIUL.: Ed io ne ho un'altra via, che ero per manifestare al cavaliere, proprio al momento che lei entrava.

Bar. : Altri imbrogli? GIUL. : Forse. Ieri sera il vice-ragioniere del Comune.. . Bar. : Troinarco? GIUL.: Sì, disse due parole fra i denti, dalle quali ho com-

preso che gatta ci cova; che so, la bagatella di parecchie centi- naia di migliaia di lire, che forse sono volate ...

AMBR. : Possibile? Mi fai strabiliare ... sarà una fandonia.. . GIUL.: Non posso dir con certezza ... avrò capito male, ma

qualche cosa ci ha da essere. AMBR.: Ebbene. Voi due fatevi ignoranti di tutto; anzi non

venite da me se non quando è necessario ... e con circospezione. Io, che già sono fuori del partito, potrò con più libertà mano- vrare. Ce ne parleremo. Anzi, per non dare sospetti, voi domani, andate a votare, aiutate il Palica nei lavori elettora li...

Bar.: Ma per me è un disonore. AMBR.: Pazienza, Barone, altrimenti non riusciremo nel-

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l'intento. Ora comprendo meglio perché il Palica vuole essere sindaco. Anzi, son sospetti, ma credo che l'on. di San Baronio, che lo sostiene, deve averci la sua parte.

Bar. : L'onorevole poi? non credo.. . AMBR.: Vedrò ... la via è buona. Ah! povera patria, sfrut-

tata e rovinata, se riuscissi a salvarti. Bar.: Ebbene, Ambrosetti, prudenza e accortezza. Conti

SU me. GIUL.: E SU me pure; ne vada anche l'avvenire dei figli. &BR. : Generoso! Bar.: Arrivederci. (via) GIUL. : Addio. AMRK. : Signori.

Scena I I I

Ambrosetti solo

Quale via mi si è aperta avanti! Dio ti ringrazio. Ah! eran giusti i miei sospetti, doverosa la mia resistenza, ma non crede- vo il Palica capace di tanto. Io fremo al solo pensarvi! ... Dunque in mani tali è capitata la patria, da esser ridotta spelonca di la- droni? L'onestà, la moralità, l'amor di patria, il bene del popolo son divenute parole vuote e senza senso; anzi servono per me- glio coprire le malversazioni, la prepotenza, la tirannia? (pensa) E potrò io scovare il mistero? ... e ne avrò le prove? ... e mi è dato salvare la patria? ... Oh! patria, patria mia, io ti amo; io per te darei la vita; a te mi consacro. Comprendo che m'impon- go sagrifizii, dispiaceri, dolori; forse non potrò arrivare a cac- ciare questi perfidi che ti straziano ... Ma si tenti, la causa è no- bile, i? doverosa, è santa (pelzsa). Di chi fidarmi in questa diffi- cile faccenda? Giulio Racconigi e il Barone mi devono aiutare da lontano; ho bisogno di persona che non desti sospetti ... for- se... no mi dispiace ... sì, l'aw. Fedeli non è implicato nell'am- ministrazione ... è un (...) l impareggiabile ... il suo fiuto arriva

Parola illeggibile.

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ben lontano ... mi è intimo amico ... E se? ... Mi sembra in buone relazioni con l'onorevole; ma più volte mi ha manifestato il suo odio contro il comm. Palica. Sì ... non avrei altri più d i lui fi- dato ...

Scena IV

Avv. Fedeli e detto

FED. : E' permesso.. . AMBR.: Avanti ... Oh, avvocato, addio. FED.: Addio ... sei molto pensieroso ... Ma via, lo capisco,

sarà per quella voce sparsa che tu ... AMBR.: Che vuoi? Le calunnie non si tollerano. Pure non

pensavo a questo; ma non monta; e tu? FED.: Tornato da certi affari di professione per la causa

del principe, ho saputo della voce che corre sul conto tuo e son venuto per dovere d'amicizia.

AMBR.: Grazie; te ne sono grato; che gente perfida, eh! FED.: Sempre la stessa; mi fa nausea; e dire che ... deve co-

mandare essa... AMBR.: Facciano; ma se mi riesce, il Palica non solo non

deve essere sindaco, ma l'avrà a scontare ... FED.: Non ti cullare in vane speranze; Palica sarà sindaco,

e tu, l'uomo onesto, devi o star lontano dalla vita pubblica o dar- ti al partito opposto, o cedere. Questa è la sorte della virtù.

AMBR.: Non sempre; non mi darò al partito opposto, non cederò, e neanche mi ritirerò a vita privata. Combatterò anche solo.

FED.: Fa pure; io mi tengo lontano dalla vita pubblica, perché capisco che non solo è piena di dispiacere, ma spesso co- stringe l'uomo onesto a barattar colla propria coscienza.

AMBK.: Chi vuole; ed io non voglio ... FED.: E per questo hai dovuto romperla con amici, che ti

potevano giovare, ed ora ti nuocciono. AMBK.: Con queste tue teorie, la patria dovrebbe andare

in rovina ...

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FED.: La patria? Ma puoi tu salvarla; potrei io giovarle? AMBR. : IO e tu possiamo e dobbiamo ... FED. : Mi riesci incomprensibile. AMBR.: Mi comprenderai; quando mi sarò spiegato; ma

prima mi devi giurare che mantieni il segreto. FED. (cose misteriose! bisogna sapere): Un giuramento? E

non ti fidi di me? AMBR.: Sì, mi fido ... FED.: Dunque, fanne a meno ... AMBR.: NO, m'è necessario. FED.: Sia; giuro che manterrò il segreto (a sé) secondo il

bisogno. AMBR.: Conosci tu il comm. Palica? FED.: Che domanda? Se lo conosco. AMBR. : Un briccone. FED.: O quasi. AMBR. : Ambizioso. FED. : Per quanto ce n'entra (secondiamolo) AMBR.: Ebbene, è anche ladro.. FED.: Oh! (che sappia?) AMBR.: Tu mi devi aiutare a provare questa verità. FED.: IO? che c'entro io? AMBR.: Pel bene della patria. FED.: Ma se è una calunnia? (bisogna saper tutto) AMBR.: IO ne vorrò le prove. FED.: E vuoi servirti del tuo Fedeli? AMBR.: E chi più fidato di lui? FED.: Ma insomma, che sai tu? chi ti ha detto? quali so-

spetti? AMBR.: Ti dirò tutto; ma tu mi prometti di aiutarmi? FED.: Se è così, figurati; non ho altra voglia. AMBR.: Ebbene, entriamo in quest'altra stanza, perché

nessuno ci disturbi e ti confiderò tutto. Vedrà il popolo che Am- brosetti non voleva il comando della città, non voleva favori dal- l'onorevole, ma faceva gl'interessi della patria, quando si oppo- neva alla nomina del comm. Palica a sindaco (entra).

FED.: (a sé) Fortuna aiutami! Se Ambrosetti ha saputo, Pa- lica, Tarbi, Serimondi e anche l'onorevole sono rovinati ... Ed io?

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Sì, o a destra o a manca, io ci potrò sempre guadagnare. Secondo il vento, spiegherò bandiera ... e poi

Viva arlecchini e burattini Viva i quattrini Viva le maschere di ogni paese Viva Brighella e chi ci fa le spese Evviva chi salì, viva chi scese (entra)

Mutazione di scena

Sala del Comitato Elettorale - E' il giorno delle elezioni. Due o tre tavoli con sopra oggetti da scrittoio in disordine. Per le fabbriche grandi cartelloni con la scritta "Elettori! Votate compatti pel comm. Giuseppe di San Baronio". - A destra e a si- nistra porte. Un via vai di elettori con moto confuso. La scena procede rapida.

Scena V

Il comm. Roberto Palica ora parla con uno ora con un altro. - dù ordini - va e viene dalle altre sale - ora siede a un tavolo e scrive, ora si alza; ciò secondo il movimento scenico - Giorgio Artusi parla accalorato con Ornafacci - Alfonso Carmignani e R- lippo Firmino siedono a un tavolo a scrivere - Varii elettori a gruppi - Poi entra il cav. Andrea Tarbi.

RoB.: Maledizione, non ne indovinano una! Luigi ( u n elet- tore), va, corri a chiamarmi quello stupido di Accarano. Digli che venga subito, che lo voglio ad ogni costo.

LUIGI: Dove trovarlo? RoB.: Vedi se si trova in qualche sezione elettorale, se in

quella del mercato, o all'osteria della Borsa o all'Albergo Mila- no, dove sono alloggiati gli elettori forestieri. Va, corri.

LUIGI: Subito (via in fretta) GIORGIO: Te lo dico io, questa volta perderemo; i boeri ... ORNAF.: Alla malora i tuoi boeri ... (continua a parlargli

piano)

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RoB.: E Andrea non torna; già manca un'ora a chiudersi le urne, e i nostri non hanno tutti votato. Giorgio ...

GIORGIO (voltandosi): Che c'è? RoB.: Sai, dove Andrea sia andato? GIORGIO (ridendo): Ad una ricognizione elettorale ... RoB.: E quei contadini chiusi in gabbia hanno votato, sì o

no? GIORGIO: Che ne so io? RoB.: Puff! (ad Alfonso) Scusi, ha terminato di scrivere

questa nota di elettori? ALF.: Non ancora. RoB.: Faccia presto, per Diana, faccia presto (torna al ta-

volo a scrivere) GIORGIO: Gl'inglesi, Ornafacci mio, hanno le palle dum-

dum. ORN.: E noi? RoB.: Ornafacci, alla sezione Liceo, chi assiste? ORN.: Vi ho lasciato il cav. Serimondi. RoB.: I1 quale voleva subito essere sostituito; poveraccio;

ancora non ha fatto pranzo ... Giorgio, va, ti prego, va tu ... GIORGIO: IO sono stanco; è da stamane che lavoro. RoB.: Hai fatto un gran servizio! Ambrogio, perché tuo

fratello Angelo non è venuto? AMBHOGIO (un elettore): Che so? RoB.: Come che so? va, corri, digli che lo voglio subito,

prima di chiudersi le urne. Digli che si ricordi della mia collera ... Marrano! non voler votare!

AMBKOGIO: Vado subito. Povero fratello (via) ANDREA (che entra): Uh! sono stanco (si butta a sedere) GIORGIO: Che nuove, Cavaliere? RoB.: Finalmente! Ci è voluto un secolo a venire. ANDR.: Sfido io con tanti impicci. RoB.: E come procede la votazione? ANDR. : Mediocremente. GIORGIO: IO ho poche speranze, Andrea mio. RoB.: I1 pessimista; e dì, i contadini, han votato? &R.: Adesso vanno a votare. RoB.: Chi li accompagna?

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ANDR.: Giacomo Conterno - Alfio Largi, che so? a chi fu dato la consegna.

RoB.: Accarano fece votare i suoi duecento elettori? ANDR. : Non ancora. ROB. (si alza seccato): E tu, l'hai visto tu quell'imbecille? ANDR.: Sì e... ci sono nuvole per l'aria. RoB.: Come, nuvole? ANDR.: Mi disse che sarebbe venuto da te. RoB.: E ancora non si vede? Ornafacci, va a chiamarlo tu;

digli che venga subito. GIORGIO: Accarano è capace di tradirci. Eh! questa volta

i boeri, che siamo noi, le riceveremo dagli inglesi, che sono loro. ROB. (tornato al tavolo): Ah!, ah! la solita storia degli in-

glesi e dei boeri! Pensa invece a noi ... GIORGIO: Ma se parlo di noi! Dico che questa volta è dif-

ficile che vinceremo. RoB.: Dici che sei una bestia (passeggia). Abbiamo dieci

seggi su diciassette. GIORGIO: POCO monta; anche i boeri avevano. .. ANDR. : Alla malora i tuoi boeri (piglia un sigaro e fuma) RoB.: E Accarano non viene. ALFONSO: Angelo Sarconi, devo metterlo in lista? RoB.: Non ancora; se non andrà a votare, Angelo Sarconi,

conoscerà chi sia il comm. Palica. Io non comprendo perché non voglia andare a votare.

FIL.: Dice che non la sente in coscienza. ALF. (a Filippo): Sta zitto. RoB.: Non la sente? Gliela farò sentire io! (prerzde un elen-

co di elettori) Andrea (gli si avvicina), sai chi non è ancora an- dato alle urne?

ANDR.: Oltre Accarano e i suoi duecento, che non han vo- tato, ci sarebbero dei nostri circa venti, che credo falliti. Conse- gnai la nota a Serimondi, perché mandi i soliti galoppini. -

GIORGIO (avvicinandosi): Duecento e venti fanno duecento e venti. Un bel numero, che può far calar la bilancia ...

RoB.: Ma Accarano non viene; possibile un tradimento? Andrea, io comincio ad impensierirmi. Ho mandato Luigi e Or- nafacci, e ancora non si vede ... Va, va tu ...

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A~TDR.: IO gli ho parlato, e mi ha detto: non dubiti; vote- remo all'ultima ora. A momenti andrò a trovare il comm. Pa- lica ...

RoB.: Senti; (lo chiama in disparte) ALF,: Che vitaccia! FILIPPO: E l'onorevole, dove sarà? ALF.: Che so? RoB.: Tu, insomma, che gli sei amico, devi dirgli: o voti o

la pagherai cara.. . ANDR. : Inutile, Roberto; le minacce non voglio usarle. RoB.: Ma se non c'è altro mezzo? ANDR.: La perdita di un voto, non è poi grave cosa. Del

resto, puoi meglio di me usar t u le minacce. RoB.: IO? ... non è prudente con Raffaele. ANDR.: Ed io non posso. RoB.: Andrea, questa tua resistenza, è parecchio tempo che

mi irrita l'animo. Che ti pare? Anche tu ci hai il tuo interesse. ANDR.: Meno degli altri. RoB.: Più degli altri, perché, infine, una perdita o una vit-

toria a noi può far poco; sei tu allo scoperto. Andrea, io son ca- pace di ...

ANDR.: Di? Continua: è un po' troppo. I tuoi modi dispo- tici ...

ROB. (all'orecchio): Mi posso vendicare sui tuoi figli. (for- t e ) Va; usa minacce. Ornafacci è a tua disposizione. Anche su un voto io conto.

ANDR. (lagnando mentre si allontana): Vile!. . . Oh! rab- bia ... (via)

Fatt[orino] Telegr [afico] : I1 Presidente? ALF.: &colo. Fatt.: (consegna il telegramma a Roberto) ROB. (I'apre e legge): « A Radasio la votazione è compiuta.

Si prevede vittoria D Fatt.: (via) GIORGIO: Una buona notizia; sarebbe come l'aver preso un

treno blindato. ALF. (con satira): Dove a Mafeding?

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GIORGIO: Zitto; tu non comprendi che i protocolli della tua segreteria.

FIL.: Giorgio, è il gran diplomatico dei caffé! GIORGIO: Uff! che poca grazia (ad Alfonso) e Ambrosetti?

Se la passa in casa il cialtrone, e fa a star a noi in ballo. RoB.: Ambrosetti è un vile traditore ... FIL.: Forse non gli garbava contribuire anche lui per

le spese elettorali! GIORGIO: Non è poi avaro Ambrosetti; anzi ... secondo me,

si doveva cedere; non far trovare il partito nel pericolo di una perdita ...

RoB.: Non perderemo no... GIORGIO: LO SO; i boeri non perdono; ma noi non siamo

uniti e concordi come i boeri. ,

FIL.: I registri di riscontro pei voti segnati sono pronti (si alza). E ora, facciamo una corsa alle sezio ni... Commendatore, con permesso. Francesco, Domenico, andiamo (via con due o tre elettori)

RoB.: Torna subito.

Scena VI

Accarano, Ornafacci e detti; poi Serimondi

ROB. (vedendolo): Non par vero: dove diavolo sei stato? Acc.: Dove doveva ( lo chiama in disparte). Le otto mila

lire sono poche. RoB.: E vorresti? Acc.: Altre quattro ... Altrimenti.. . capisce? ROB. : Furfante, non mi trappolerai. Acc.: E io me ne lavo le mani. RoB.: Ma perché non parlasti prima? Acc.: Perché? Gli awersari spendono e spandono ... e RoB.: Ci hai da pensar tu; Io pagherò. Acc.: Ci ho pensato. O dodici mila lire, o... capisce.. mi

vendo. ROB. : Infame!

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Acc.: Zitto ... o... poche parole e presto. ROB. : E se perderemo? Acc.: Non dubitate: la mafia vi farà vincere. All'osteria

sono i capi con i quali ho patteggiato. Se vuole, son nostri; altrimenti. ..

RoB.: Ma in questi momenti? Acc.: Subito. RoB.: Manca un'ora alle quattro. Acc. : In un'ora si vince il mondo. RoB.: Ebbene. Ornafacci, va subito a chiamare Serimondi,

subito. Digli che lo voglio d'urgenza. ORN.: Vado subito. (via) ALF.: La lista è pronta. RoB.: La porti subito ad Andrea Tarbi. ALF.: Dove? RoB.: Che so? per le sezioni ... ALF.: (via) RoB.: Come si fa non aver notizie da Villanegra? A quel-

l'assessore li, che mi disse: lasci fare a me, lasci fare a me. Chi è andato a Villanegra?

Acc.: Sarmino e altri due. RoB.: Buono. Pure non aver notizie. Si tratta di un villag-

gio di duecento elettori ... e più. (Voci di fuori - gli elettori sgombrano la scelza) RoB.: Giorgio, va, vedi di che si tratta e torna. Un elett . (entrando): Una legge elettorale; RoB.: Che fu? prendi (gli dà la legge) Elett.: NuUa; proteste, questioni in sezione Studio (via) RoB.: Giorgio va. GIORGIO: Salviamo i boeri! (via) Acc. fin segreto): Siamo soli, Comm., questa sera nella

dimostrazione ci sbrigheremo di uno; comprenda, dovere di mafia;

RoB.: Ma! A me questo discorso? Acc. (jurbo!): Si, al solito, il rifugio nel feudo di Santa

Eufernia. Mi darà anche il magazzino pel deposito di certe merci? I1 segno pel castaldo?

RoB.: M o r a non si parli più delle dodicimila lire.

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Acc.: Mi vende il rifugio? RoB.: NO; ma... Acc. (per andare): Ebbene, non parliamo né del castello,

né delle elezioni. Io e lei non ci siamo conosciuti. ROB . : Accarano, senti. Acc.: H o bello e sentito ... ROB . : Via, sii ragionevole; in questi momenti.. . Acc.: No, no; Accarano non compra rifugi né scende a

patti. RoB.: E vorresti? Acc.: Le dodici mila lire e il rifugio senza condizioni. RoB.: E tu, duecento voti. Acc.: Non uno di meno. RoB.: Per segno darai questo amuleto (gli dà un amuleto)

che il castaldo riconoscerà. Acc. : Va bene. RoB.: Oh! Ecco Serirnondi. SERIM. (entrando): Che c'è? Ch novità? RoB.: Affari d'urgenza. Vieni (Entrano nella sala a sinistra) Acc. (solo): Così va bene; si è lasciato cogliere il comm.

Palica: ci ha da avere forti interessi. Dodici mila lire per duecento voti! Non sono affari di ogni giorno. Da quando ho acquistato l'amicizia del Palica, gli affari della mafia vanno bene. Prote- zioni in tutte le amministrazioni, spie presso la questura, e poi ... quando col nostro c'è l'interesse dei pezzi grossi, sfido a colpirci ... E tu, Mastro Armando, che te la volevi pigliare con la mafia e fare lo spaccamontagne, pel furto del feudo di Albanera, tu la scon- terai. Questa sera la tua pelle sarà fatta. Vien gente: leggiamo un giornale (siede e legge un giornale).

Scena VI1

L'avv. Fedeli e detto - Poi I'avv. Giulio Racconigi e il barone d'Acquasanta

FED. (entra con precauzione) (a sé): Nessuno! così non sarò visto. E ii comm. Palica sarà qui? C'è uno che legge (lo guarda) Accarano. (pensa) Potrò fidarmi. Sì, è necessario avvertire il

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comm. Palica o l'onorevole ora stesso; corrono grave pericolo e... la loro amicizia frutta assai più di quella di Ambrosetti ... Io procu- rerò di tenermi in bilico, per vedere chi sa meglio manovrare; e secondo la fortuna del combattimento, griderò evviva. A ogni modo, l'animo di Ambrosetti si è aperto ... col prevenire Roberto e l'onorevole mi accattiverà l'animo loro e la loro confidenza e poi.. . non mi manca destrezza. Coraggio.. . (ad Accarano) Scusi il comm. Palica?

Acc.: E' di là col cav. Serimondi (indica) FED.: Grazie (entra a sinistra) Acc.:L'aw. Fedeli? Con questa precauzione? e perché?

Bisogna pescare. Forse potrei conoscere qualche novità che potreb- be giovarmi. (Si avvicina alla porta per origliare - dopo alquanto sente un rumore e torna a sedere e leggere)

GIUL. (entrando, al barone d'Acquasanta): Pazienza! baro- ne, bisogna far di necessità virtù. Questa mattina sono stato da Ambrosetti, e mi disse che già si trova sopra una buona strada; i miei sospetti sono fondati. Egli, con !a sua accortezza, ha potu- to dal vice-ragioniere comunale avere qualche indizio, che potrà darci la chiave.

BAR.: E noi dobbiamo far la figura di chi asseconda questi ladri ...

GIUL. (scherzando): Coraggio! questa mane siamo i nobili galoppini elettorali. Io ho accompagnato l'onorevole, che si mostrò oltremodo cortese, alle urne.. .

BAR.: Ed io m'impegnai (o feci la vista) per la costituzione del seggio nella sezione della Borsa.

GIUL.: Come mai non c'è nessuno? Non ci sono lavori a quest'ora?

BAR.: Quasi son per chiudersi le urne e... Acc.: Signori, Barone, Awocato. BAR.: Buon giorno. GIUL.: Addio. Avete votato tutti? Acc.: Non ancora. BAR.: E che si tarda? Acc.: Ma; ... il tempo c'è. GIUL.: Non molto.

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ROB. (dalla porta) : Accarano. Acc.: Vengo. Con permesso. (via) GIUL.: Un gran elettore, e dei più scaltri. BAR.: Roberto ci conta più che su tutti noi; e perciò non gli

è poi importato nulla di Ambrosetti. GIUL.: Nulla? Lo vedrà ... BAR.: Tu hai molte speranze; io però credo che saremo co-

stretti a lasciar la vita ~ubblica incontrastata a quei furfanti. GIUL.: Barone, il tempo è galantuomo.

Scena VITI

Andrea imbarazzato, tenuto da due elettori - Giorgio - ed altri elettori appresso a detti - poi Accarano che passa in fretta per la scena - Indi Angelo Sarconi, R. Palica e Serimondi - infine Fedeli.

ANDR. : A me? Mille volte vile! Vile! Vile! GIORGIO: Ma si calmi. BAR.: Ma che è stato? GIUL.: Cavaliere, che mai? ANDR. : Me la pagherà! GIORGIO: Bagatelle! ... non mi sembrate un boero, per diana! BAR.: Lascia i boeri ... Insomma? GIORGIO: Nella sezione Santa Margherita il presidente del

seggio, che è un villano del partito opposto, un cane d'inglese, ha messo alla porta il cav. Tarbi, perché egli si accorse con le sue lenti inglesi, che subornava gli elettori. Di qui un parapiglia, voci, proteste, pugni e buonanotte ...

GIUL.: Un pò troppo! BAR. : Complimenti elettorali! ANDR.: Quel villano! Dirmi che io subornavo gli elettori! GIOR. (a sé): Era la verità ... ANDR.: Dirmi che ... ah! lo sfido a duello ... me la deve pagare. GIUL.: Ma si calmi, cavaliere; in tempi d'elezione ne capi-

tano di più grosse. (Andrea siede - alcuni elettori vanno via - Giulio passeggia -

il Barone e Giorgio si mettono a conuersare)

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Acc. (passa la scena di corsa) (a sé): La fortuna aiuta gli audaci. Andiamo a combattere. I1 danaro fa la guerra. (via)

BAR.: E che previsioni si fanno, cavaliere? ANDR.: Che so?.. egregio barone. Io questa volta ho lavorato

senza vere speranze. Ho sentito il dovere; ma non l'entusiasmo di una volta.

BAR.: E' così; quando non siamo concor di... ANDR.: E scusi, ella ci ha la'sua colpa. Avrebbe dovuto co-

stringere 1'Ambrosetti a un sacrificio. BAR.: IO ho tentato tutte le vie; e nonostante le mie idee,

sono con voi. ANDR.: L'ammiro, come ammiro l'avv. Racconigi. GIUL. (si volta): Grazie. BAR.: Ma anche voi? specialmente il comm. Palica siete

stati ... ANDR.: Palica mi è amico; ma ha una testa, perbacco; non

cede a nessuno. ANGELO (entrando): I1 commendatore Palica? GIORGIO: Oh Oh! I1 solitario di Brina! ANG.: Ognuno pensa con la sua testa. ANDR.: Non c'è che dire; quando si è liberi però ... ANG.: E io forse son uno schiavo? ANDR. (si alza): Via ragazzo! pensa al tuo mestiere, a scri-

bacchiar carte neli'ufficio comunale; e lascia di parlare di libertà a chi se ne intende.

ANG. ( a sé): Gentaglia! Vi disprezzo. Non mi piegherete; No, mai.

ROB. (si affaccia; indi volto di dentro): Awocato, rimanete per poco in questa stanza. (a Serimondi uscendo): Me la pagherà il traditore. Lo stritolerò; Ambrosetti mi vuole colpire; ma giu- ro per mia madre, la sconterà.

SER.: Calma e prudenza, amico. Pensiamo alle elezioni. RoB.: Sì pensiamo alle elezioni; dopo tale notizia, la vitto-

ria è assolutamente necessaria. Va Serimondi; Andrea, Giorgio; andate con Serirnondi per affari d'urgenza e importanza. Subito.

ANDR. : Che c'è? RoB.: Serimondi ti dirà tutto; va.

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ANDR.: Bel modo! ROB. : Andrea, perbacco.. . non mi fare imbestialire. Seri-

mondi (a parte), non mi.far l'avaro. Spendi in ogni caso, ci sono io. SER.: Va bene. Andiamo, amici, andiamo. (via con Andrea

e Giorgio) RoB.: (Ed ora mandiamo via Giulio e il Barone; è necessità

che Fedeli non si faccia scorgere) Barone. BAR. : Commendatore. RoB.: Può fare il favore di andare in sezione Palazzo Nuovo,

per surrogare l'ing. Ardenti? BAR.: Sì; sino alla chiusura delle urne? RoB.: Sì; dopo sarà sostituito. E l'avvocato Racconigi po-

trebbe invigilare la sezione Mercato? GIUL.: Pronto ai suoi cenni, commendatore. ROB. : Grazie mille. GIUL. : Senza complimenti. Vado. Arrivederci. BAR. : Commendatore. (via) ROB. (fa un inchino secco): Angelo. ANG. : Comandi. RoB.: Sei stato a votare? ANG.: Non ci sono stato. RoB.: Ma; sai, Angelo, sai; I1 comm. Palica ti dice che te

ne pentirai. ANG. : IO faccio il mio dovere; avvenga che può.. . RoB.: Ah! cialtroni; che mangiate a spalle del Comune e poi

non guardate in faccia i vostri padroni. Stolto chi vi dà un pane! ANG.: Scusi; se io sono pagato dal Comune, non per questo

mi son venduto al comm. Palica, o all'on. San Baronio. I o mi stimo cittadino libero e indipendente; e se non voglio andare a votare, perché i miei principi e i miei intendimenti me lo vietano, non per questo ella ha ragione di minacciarmi. Mi sento Iibero al pari di lei. Infine, mi toglierà quel pane che mi busco col sudore della fronte? Scusi il mio parlare franco, ma.. .

ROB. (irritandosi): Ma; bada con chi parli; Angelo; Poche parole; io non son uso pregare nessuno. Se ti è caro il pane, va a votare.

ANG.: Così si rispetta la libertà del voto?

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RoB.: Va; un impiegato non ha libero il voto; e voglio che lo sappia.

ANG.: IO credo che l'impiegato abbia anche lui la sua coscien- za e la sua libertà; io, almeno, sento di averla, e di non poterla vendere a nessuno.

RoB.: Angelo, pensaci. Tu dici un no al comm. Palica. &G.: Vi sono costretto. ROB. : Miserabile! Chi ti costringe? ANG. : Le mie convinzioni. RoB.: Bene! insomma; io qua non discuto, comando. ANG.: Scusi, io non posso ubbidirla. (via) ROB. (solo): Villano! Me la pagherai ... Sicuro; ho compreso

il perché della sua resistenza; certo sarà legato ad Ambrosetti; avrà saputo ch'egli tenta rovinarci tutti, e non mi teme ... Non mi teme? Non mi teme Angelo Sarconi? ... Non mi teme Ambro- setti? ... Se il fato vuole ch'io cada, se la vostra potenza è tale, o infami ... dovrete sapere che prima ch'io cada, molti la sconte- ranno, e la pagheranno assai cara. Sì, io, io mi son servito ai miei fini del pubblico danaro, io mi sono appoggiato alla mafia; che importa? Se non ero io, erano altri ... Nessuno vi è che rifiuti l'oro e il comando ... e tu Ambrosetti che aspiri; e quando vedesti deluse le tue voglie; ti sei dato alle vili arti delle spie. Fa pure; non ti fermo; anzi mi dai l'occasione per vendicarmi ... Ma, facciamo uscire Fedeli dal suo nascondiglio che non ci è nessuno... Quel- l'uomo vale quanto mille... E' astuto e mi gioverà (chiamandolo) Awocato !

FED. (circospetto): Nessuno? RoB.: No, ,vieni. FED. : Signore. RoB.: La mia riconoscenza e quella dell'onorevole non avran-

no limite, o uomo impareggiabile. FED.: Ma che dice? RoB.: Questa sera a mezzanotte, travestito. FED. : Sarò puntuale. Arrivederla. (via) ROB. (solo): Ora fa d'uopo awisare l'onorevole ... bisogna

esser circospetti; io non so come Ambrosetti avrà potuto sapere o sospettare ciò? Forse Alfonso Carmignani? Non mi pare ... forse (voci di faori) che cosa è mai?

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Scena I X

Liodoro e detto e alcuni elettori - poi Artaco con elettori contadini - poi l'assessore di Villanegra - poscia l'onorevole di San Baronio con Alfonso - Filippo - e altri elettori - in ultima Accarano

LIOD. (entrando): Una guardia ha arrestato Ornafacci. RoB.: E perché? LIOD.: Dice che faceva pressioni ad un elettore. RoB.: Bestie! bestie tutte! Chi fa la guardia? LIOD : Ciampietro. RoB.: Oh! ho capito; Ciampietro è un cretino; siccome un

tempo Ornafacci parteggiava pel barone di Silori, lo avrà creduto certo del partito avverso. .Ebbene, va a nome mio in questura. Di che lo rilascino subito. Hai capito? Parla a Miraglia. Va, corri. (via)

ART. (entrando con elettori contadini): Viva il deputato! Signor Presidente, questa volta vittoria. Nel villaggio Santa Maria Marta tutti per noi. Ah! ah! ah! che mangiate! che vino! che votazione, signor Presidente.

RoB.: Bravo, ti meriti una medaglia. Ti sei fatto onore, eh? ART.: Se mi sono fatto onore; dove va Artaco, vittoria. Lo

possono dire questi elettori che sono venuti ad accomt?agnarmi. A s s . DI VILL. (entrando): Viva l'onorevole di San Baronio,

per bacconaccio! Ewiva. RoB.: Assessore! come, sino a questo momento senza nessu-

na notizia di Villanegra? A s S . : Eh! non son qua, per bacconaccio; e poi le notizie glie-

le diedi ieri sera. RoB.: Sì, le provvisorie. Ass. : Ma io sono profeta, per bacconaccio! ART.: Bravo il profeta! ROB. : Sicché? Ass.: Centoventi votanti, novantanove per noi e ventuno

per loro. Ah! io sono un eroe. Ho combattuto, sa, Presidente, ho combattuto, per bacconaccio. E dov'è l'onorevole? Sa, deve venire a Villanegra. Banda. .. sparo di mortaretti. .. pranzi.. .

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ELETT. (di entro): Ewiva l'onorevole di San Baronio? Evvi- va! Evviva! Dov'è? . O~.(entra con Alfonso - Filippo e molti elettori): Sono com- mosso del vostro affetto; ma non anticipiamo gli eventi. Aspet- tiamo il responso delle urne.

Ass.: Ma che aspettare, per bacconaccio! A Villanegra abbia- mo votato. Ewiva l'onorevole.

ON.: Grazie. ALF.: Che imbecille! RoB.: Onorevole. L'aspettavo.. . Acc. (entra): Le urne sono chiuse. Tutti hanno votato. Ed

ora si asperta la vittoria. ELETT. : Evviva! RoB.: Signori; ed ora al lavoro di controllo. Ecco i registri;

ognuno vada alle sezioni ov'è destinato. Assessore, anche lei vada col sig. segretario; può essere giovevole il suo aiuto. In ogni caso, mandatemi a chiamare. Ogni mezzora mandate il computo dei voti. Alfonso, avvisa Tarbi, Serimondi, Racconigi, d'Acquasanta, che non manchino ai posti loro. Subito. L'onorevole aspetta il re- sponso delle urne; no, il responso è già dato ed è per noi, se con- tinueremo concordi con abnegazione e sacrifizio il nostro lavoro. Ewiva l'onorevole di San Baronio!

ELETT. : Ewiva! ON.: I1 vostro lavoro, spero che sarà benedetto dalla patria,

d a quale mi sono consacrato per la vita e per la morte. ELETT.: Ewiva l'on. di San Baronio! (via) Acc. : Artaco, vieni; un affare d'importanza. ART.: Ai tuoi ordini. Acc.: La mafia vince, caro mio, ma ancora bisogna combat-

tere. Andiamo (uia)

Scena X

Onorevole e Roberto

RoB.: Quel perfido di Ambrosetti, ha saputo o almeno so- spetta di alcuni nostri imbrogli nell'amministrazione del Comune e della Congregazione di Carità ...

ON.: Possibile?

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RoB.: Possibile? E' un fatto; me l'ha in segreto confidato l'avv. Fedeli, a cui bisogna dimostrare tutta la nostra riconoscenza.

ON.: E dice il vero? ... Ciò mi sorprende e mi fa entrare il sospetto che qualcuno abbia voluto tradirci ora che ci ha visto di- visi. Ma; preveniamo i passi. Mi dica; si è saputo nulla di ciò?

RoB.: Non ancora; ch'io ne sappia ... ON. (pausa): Oramai le urne son chiuse, e l'esito della vota-

zione non può esser mutato, e quantunque io nutra timori ... RoB.: Non ci faccia questo torto ... ON.: Basta; attendo calmo e sereno il risultato. Ma questa

notizia mi mette nelle peggiori costernazioni; sia che sarò depu- tato che no1 sarò, Ambrosetti è capace di comprometterci tutti.

RoB.: Pel momento ho dato opportuni ordini perché s'invi- gili chi vada da Ambrosetti o dove Arnbrosetti si rechi. Questa sera a mezzanotte, terrò un consiglio segreto. Spero, anzi sono cer- to, che ella risulterà deputato. La mafia è a mia disposizione; Accarano è nostro. Sin ora Ambrosetti sospetta; è necessario che nessun documento cada nelle sue mani. D'altra parte gli costerà cara questa sua vendetta. Fedeli mi metterà al corrente di tutto.

ON.: Hai prowisto bene; e benché io tema dell'esito di que- ste elezioni, per l'onor mio, son sempre forte e potente a resistere. Ma vedi, Roberto, vedi quanto ci costeri la tua imprudenza? Bi- sognava cedere ad Ambrosetti. Comprendo: mezzi non manche- ranno per abusar la cosa, per ridurre Ambrosetti all'imp~tenza di nuocerci ... Quando si è per naufragare, il salvataggio si tenta a qualunque costo. Ma solo il sospetto sulla mia onorabilità, solo il sospetto .mi fa fremere. Ah! io non credeva che altri avrebbe potuto scoprirci, che avrebbe potuto tradirci (pausa). Ah! Roberto!

RoB.: I1 rimprovero me lo darà domani, dopo che sarà cono- sciuto il risultato della votazione.

ON. : No: io non ti rimprovero; ma tu comprenderai che l'on. di San Baronio, per aver avuta troppa affezione verso di te, oggi si trova in una via pericolosa, che può riuscire a tutti di rovina. E se non risulterò deputato, Ambrosetti sarà doppiamente vendicato, e noi?

RoB.: Non tema; Roberto Palica, memore dei benefizi rice- vuti dall'onorevole di San Baronio, saprà sacrificare anche la vita per lui.

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ON.: Ti ringrazio amico (gli stringe la mano). RoB.: Sempre per la vita e per la morte. Ed ora torniamo al

lavoro. Io andrò a fare un giro per le sezioni. ON. : Andiamo: la fortuna ci aiuterà. (via). ROB. : Si, la fortuna! Audacia e coraggio non ne mancano. E tu,

Ambrosetti, vedrai che il comm. Palica è un osso assai duro per te; e che invano cerchi innalzarti sulla sua rovina. In ogni caso, io o tu; o la rovina o la vittoria (via).

ATTO I I I

Osteria delle più infime e delle più remote. Una specie di atz- trone. In fondo un gruppo di persone che parlottano e mangiano; avanti Ornafacci e Artaco che giuocano alla morra.

Scena I

GIUOC. (con calore): sei! otto! cinque! tre! ORN.: Beviamo; (beve sal boccale). Oste, questa volta ci hai

messo acqua sul vino; portane dell'altro. OSTE: E' il migliore. ORN.: Non mi fare sagramentare, balordo; questo è cattivo. OSTE: Per te ogni vino è cattivo; questo è di Carini. ORN.: Carini un corno. Giurobacco, che ti strappo la testa.

Carini un corno. OSTE ( a sé): Con questi diavoli ci si perde la testa (va e

torna) Ornafacci e Artaco giuocano: tre! sette! due ART.: Sono due! ORN.: NO, sono tre. ART.: Sono due ti dico ORN. : Imbroglione! ART.: Viiiano! ORN.: Ubbriaco!

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OSTE: Eh! eh! se vi bisticciate vi mando fuori. Voci non ne voglio nella mia osteria.

ART.: Sicuro, siamo in Chiesa? Tu fatti gli affari tuoi. Ti pa- ghiamo? e basta.

ORN. : Altrimenti ... (alza il pugno) OSTE (a sé): facciamo prudenza ... Entrano due mafiosi (siedono ad una panca). 1' MAF.: Oste, vino, e vino buono. 2' MAF . : Questa sera bisogna festeggiare l'elezione dell'ono-

revole! Evviva, ewiva ... buoni soldi e buon vino. 1' MAF.: E come si lasciò prendere quell'imbecille di mastro

Tovra. Ah! ah! più ci penso e più mi sembra bella. 2" MAF.: E quanto gli truffasti? lo MAF.: Venti lire; vedi? 2" MAF. : Bisogna spenderli. lo MAF. : Oh! no. ORN.: Che è; che è? 2' MAF.: I l mio amico ha avuto a bocca baciata venti lire da

un imbecille. Dico io; bisogna dare parte agli amici; non per 'nulla siamo della cosca.

ORN.: Sicuro; aspetta; dò gli ordini io (siedono tutti a un tavolo)

ART.: NO, no, li darò io; ci ho il miglior gusto. lo MAF.: Questa sera no; e poi non ci ha da dar pranzo Acca-

rano? E' lui che ha l'appalto della serata. ORN.: E bene, domani sera ... sicuro questa sera pranzo in

barba all'on. di San Baronio. Eh! ci siamo fatti onore. ART.: e abbiam beccato dodici mila lire. OSTE (porta del vino): questa sera, buona caccia eh! lo MAF.: Ne vorresti avere anche tu, birbante? OSTE: IO mi contento che veniate sempre nella mia osteria. ORN.: Dove c'è il vino tutto acqua. ART.: Acqua di Carini! Ma dico io, Liodoro non è venuto;

che l'abbiano visto.. . ORN.: LO spedì quel mastro Armando all'altro mondo; o è

ancora di qua? ART.: Ma ci fosti tu alla dimostrazione?

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ORN. : Sì, e ho gridato per cento; ma nella confusione persi di vista Liodoro.

ART.: Del resto c'era Accarano. ORN. : Nostro degnissimo capitano. ART.: Superiore a tutti. ORN.: Via, fammi il piacere; ART.: Volevi essere tu. ORN.: Ti avrei fatto vedere. ART.: Vedere un corno. lo MAF.: Giuochiamo a carte? ORN.: Una briscola in cui vincerà Ornafacci. Oste, dammi le

carte e vino; un altro boccale.

Scena I1

Accarano e detti - poi Liodoro - Orn. e Art. gli si fanno incontro

Acc.: Liodoro è quà? ORN. : NO; e che notizie? Acc.: Liodoro è una bestia. ART.: Si è fatto conoscere? Acc.: Credo di no; ci fu un momento, zn brutto momento

in cui si stava compromettendo. Possibile; non capisce che non era quello il punto.

ART.: Ma ... Acc.: Meno male che aveva la barba finta e se la tolse subi-

to; così neanche i vicini lo riconobbero; pure io tremo. ORN. : TU accorresti, s'intende, ad aiutare il moribondo. Acc. : Mi mori tra le braccia. Oh! ecco10 finalmente. LIOD. (trafelato): Un pò di vino! Acc.: Subito. Ti hanno inseguito? LIOD.: No; mi posi in mezzo aila folla. Poi i carabinieri fece-

ro cessare la dimostrazione; io ci ho passato più volte sotto il muso e ora son qua.

ORN.: Sei un eroe. ART.: Meriti una statua. Acc. : E ora, a pranzo: si celebri la elezione del deputato; ... e

si festeggi. Le cose vanno bene; protezione e appoggio non ce ne

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mancano; i danari piovono; e la vita si tira alla meglio. Oste; questa sera pranzo nelle forme; maccheroni e ragù, bracioli, sal- siccia. Eh! la vita si passa allegra; e poi dopo una vittoria così segnalata, singolare.

ART.: Se non era per noi, l'onorevole potea andare a farsi friggere.

Acc. : Oste (all'orecchio) per qualunque evento, tu ci hai visto qua a tutti noi dall'Ave a mezzanotte; specialmente me e Liodoro; comprendi? (gli dà zln biglietto da cento). Oste, presto a pranzo. Allegri. Uomo allegro il ciel l'aiuta.

Scena I I I

Un messo imbacuccato e detti

Messo: Accarano! (guardingo) Acc.: I1 segno? Messo: Oro e potenza. Acc.: Oro e potenza. Parla; che vuole il comm. Palica? Messo: Uno dei più fidati subito al palazzo per un incarico

delicato. Acc.: A che ora? Messo: A mezzanotte. Acc.: Vestito. Messo: Da donna. Acc.: I1 segno alla porta? Messo: Tre picchiate leggere e il motto "Oro e potenza"

(via). Acc.: Va bene. Che novità. Basta; a me l'amicizia del

comm. Palica fa bene e giova. E' un gran protettore della ma- fia e basta; la nostra società entra in tutti gli affari del munici- pio, negli appalti, nelle imprese, e ci ha i suoi guadagni. E poi, ruberie di campagna o vendette e lui ci ha aperto il suo ca- sale di Sant'Eufemia; la questura non ci molesta; abbiamo spie anche nella Prefettura; e l'on. di San Baronio ci ha fatto dei grandi servigi. Avanti, Accarano col tempo avrà tutto nelle sue mani. Ornafacci (Ornafacci viene; gli parla in segreto). Dunque a mezzanotte hai compreso?

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ORN.: HO compreso. Acc.: Liodoro (Liod. viene). Domani andrai a Sant'Eufe-

mia per nascondervi quel grano che si dovrà rubare a Calatari; Artaco, tu questa notte verrai con me per una perquisizione. Ed ora; si faccia un brindisi all'onorevole di San Baronio. Ev- viva.

ORN.: Che lo facciano subito ministro! Tutti: Ewiva (bevono).

Midtarione di scena

Sala da ricevere in casa del Cav. Ambrosetti

Scena IV

Ambrosetti solo

(Passeggia agitato; guarda l'orologio): Sono le dieci ... due ore? ... E in queste due ore devo decidermi; o tradire la patria, tacendo ... o esporre a pericoli la vita dei miei figli e la mia ... E chi è quel codardo, quell'infame, che vorrebbe comprare a così caro prezzo il silenzio di Ambrosetti? Oh! smanie di un padre! Oh angoscia! oh delirio. No, patria mia, non sia mai che ti ab- bandoni, quando tutti congiurano a rovinarti; non sia mai ch'io non tenti di salvarti. (pausa). E i figli? ... E i figli? ... (pausa). Ri- leggiamo la fatale lettera: « Cessa dalle tue indagini; non denun- ciar nulla. Domani 25 febbraio prima di mezzogiorno butterai i documenti in mano nella buca della quercia segnata con una croce rossa. sulla via di Bargnisco fuori porta; pena la tua vita o quella dei tuoi figli. Come ricevi questa lettera la lacererai e non ne parlerai ad anima viva. La mafia D.

Che ti consegni i documenti, infame, non credere. Prenditi la mia vita, sì, mille volte; ma quella dei miei figli? ... Arturo, Gigi, figli miei ... Quale strazio! quale martirio! ... (pausa). Due ora ancora! ... due ore! (pensa). Ma debbo prestar fede a questa lettera? debbo creder vere queste minacce? ... E se son vere? Esporrò la vita dei figli a pericolosa vendetta? ... E se non son vere? ... Lascerò che straziino la patria un Palica, un Tarbi, un

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Serimondi, un di San Baronio? ... No; è meglio dir tutto alla questura; sarà un'altra prova della reità di quei perfidi (pas- seggia). Ma potrà la questura salvar la vita dei miei figli? ... Figli, non distaccate dal mio fianco, sempre con me... vi difen- derò, vi salverò ... Giulio, Barone, venite, aiutate un infelice padre, un cittadino tradito, che tra le angoscie e i dubbi, soffre e martira ... (pausa). Ma perché invocare l'altrui aiuto? No, non è possibile o patria, che Ambrosetti ti tradisca!

Scena V

Barone d'Acquasanta - Giulio Racconigi e detto

AMBR.: (accorgendosi, va loro incontro): Amici. BAR.: Cavaliere. GIUL.: Enrico (si stringono la mano). AMBR.: Ah! son troppo crudeli le torture di un padre! GIUL.: Ti comprendo, amico, vorrei partecipare ai tuoi

dolori, aUe tue ambasce; anzi vorrei trovar un mezzo d'uscirne senza sagrificare al bene dei figli quello deUa patria ... ma.. .

AMBR.: Ma? che intendi? GIUL.: Mancano meno di due ore al termine assegnato dalla

lettera minatoria; una risoluzione è necessaria. Non per consi- gliarti una vigliaccheria, te l'ho detto ieri sera, ascolta il parere prudente di due amici che amano te e amano la patria.

AMBR. : Dunque, Giulio Racconigi mi consiglia a... GIUL.: A consegnare i documenti e a sospendere qualsiasi

azione contro il comm. Palica. I1 tempo prowederà al resto. I1 momentaneo trionfo dell'empio è permesso dalla Prowiden- za, per un migliore awenire.

AMBR.: Così vorresti che nessun resista alla disonestà, che nessuno si sagrifichi per la patria? ... .

BAR.: Giulio non dice questo; oggi si cede per sorger do- mani.

AMBR.: E si può sorger domani, quando io mi privo dei documenti che provano la reità di Palica, documenti avuti a grandi stenti, procacciati con mezzi assai difficili e pericolosi? Vorreste così ch'io mi tolga le armi dalle mani per colpire la

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immoralità di questi dissanguatori del popolo, che si appoggiano alla mafia e vengono alle armi corte delle minacce e dei delitti? E che potrò più tentare dopo? Ah! voi parlate ad un padre, che vorrebbe poter seguire i vostri consigli, che teme di esporre a pericolo i figli... che smania e si dispera ... e che intanto vuol salvare la patria ...

BAR.: E crede lei, ed ha speranza che le nostre denunzie, anche documentate, la nostra guerra a quegl'infami, saranno fmt- tuose di bene pel nostro paese?

AMBR.: E lei, non ha lei questa speranza? BAR.: IO? Mi sono unito a lei ed ho con lei lavorato, più

per dispetto che per convinzione. No, non ho la speranza di ve- derli colpiti, di vederli trascinati alle carceri quegli uomini, quan- do tutto giorno assistiamo all'impunità dei falsarii, bancarottieri, concussionarii, deplorati e censurati, cavalieri e commendatori; impunità sostenuta, accordata da chi avrebbe il dovere e l'inte- resse di colpirli. Cavaliere, l'opera sua contro il comm. Palica sino ieri sera era, se non altro, una protesta doverosa; oggi, permetta che glielo dica, sarebbe una pazzia; perché esporre la sua vita e quella dei suoi figli a certo pericolo, senza speranza di riuscire.

AMBR.: Senza speranza? No, Barone; a trentadue anni non può, non deve entrare la disfiducia nel cuore, per ciò che ha formato l'ideale della mia giovinezza, la patria. Vedo che il male inonda, che la politica ha inquinato la giustizia e le amministra- zioni; ma che in questa mia terra natale sia perduto il senso dell'onestà, che non vi sia più speranza di migliore avvenire; che perciò i buoni non debbano tentare, anche con sagrifizii, una restaurazione; non mai. Ah! nelle angosce di un padre aflitto, di un cittadino tradito, non mi toglierete la speranza di salvare la patria.

GIUL.: Lascia la poesia, Enrico, in questi momenti ... AMBR.: Si, in questi momenti io sento che amo la patria

assai più di ieri, perché so'ffro per lei ... BAR.: E vuole perciò credere alla illusione di salvarla? E

lo potrà? AMBR.: Non so; ma tenterò, insisterò, scriverò ... cercherò

tutte le vie, anche che la mia vifa debba essere una lotta conti- nua. Nessuno mi seguirà? Non avrò compagni? ... (pausa). Dun-

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que ultima conclusione dovrebbe essere che Palica, Di San Ba- ron i~ , Tarbi, Serimondi continuino le loro losche speculazioni a danno del popolo, di questo popolo misero e infelice, senza sol- lievo e senza aiuto; e noi ci ritireremo a vita privata?

BAR.: Almeno per ora, cavaliere; la sua vita c'è preziosa. Vuole esporla ora, a mio credere, senza pro, quando domani può essere utilissima alla nostra causa?

AMBR.: (passeggia): Ma credete che questa minaccia possa essere recata ad effetto? O non sarà più presto uno spauracchio? ...

GIUL.: Uno spauracchio? ... Così conosci la mafia e il suo oc- culto potere e la sua misteriosa potenza! La polizia e la giustizia non pomo contro di essa; grandi protezioni, aiuti a6 alto, conni- venza, mistero, tutto hanno per loro. Non farti illusione, amico; cedi ... il tempo incalza.

BAR.: Consegnerà a me i documenti; io penserò di farli met- tere nella buca segnata.

AMBR.: Non è meglio, più doveroso, più prudente, denun- ziare il fatto alla polizia?

GIUL.: Ma tu scherzi, amico. Vuoi esporre te a un pericolo di vita, sia pure; ma esporre i tuoi figli? forse che la polizia, con tutto il buon volere di zelanti funzionari, potrà impedire un delitto, voluto dalla mafia?

AMBR.: Ah! voi straziate il cuore d'un padre! E devo cre- dere che tanta barbarie si annida nei miei nemici? E devo te- mere tale infamia? Figli miei! ... (pausaj. E che direte quando adulti saprete che vostro padre cedette per voi le armi, quando poteva salvare la patria? Come vi potrà insegnare che bisogna essere onesti cittadini, che oggi, nei tempi calamitosi che cor- rono bisogna tutto sagrificare, per la nostra terra natale, quando saprete che vostro padre ... Oh! angosce d'inferno! ...

GIUL.: Via, amico mio, ti calma. I tuoi figli conosceranno il loro padre e... ne imiteranno le virtù cittadine.

BAR.: Ceda, una buona volta; il tempo incalza; ceda. Mi dia i documenti ...

AMBR. : I documenti? ... E devo darveli? BAR.: Se ama i figli... AMBR.: Se amo i figli? Adunque li devo amare a prezzo

d'una vjltà?

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GIUL.: Viltà poi no; quando non si può, perché cozzare col fato?

Bar.: Infine, scelga; sarà lei, sarà il padre che deciderà della vita dei figli.

AMBR.: Crudeli! Non martirizzate più il mio povero cuore. E' un giorno che soffro, è un giorno che agonizzo ... Vedermi i miei figli avanti, ... baciarli, stringerli al seno, e dovere temere per loro, e poter essere io la causa del loro male ... e dover per loro ceder ... essere costretto ... Oh! Dio, aiutami, sostienimi. .. io vengo meno (pausa).

BAR.: Dunque? AMBR.: (sta muto e pensoso). GIUL.: Ma, amico? AMBR.: E dovrò cedere? BAR.: In nome dell'arnicizia, sì, cento volte sì. AMBR. : (passeggia). GIUL. : Manca un quarto alle undici ... un'ora e. .. AMBR.: Un'ora? GIUL.: Non essere così crudele coi figli tuoi; non far che

t'abbiano a dire, padre snaturato ... AMBR. : Padre snaturato? Taci, Giulio, taci; comprendo il

tuo affetto d'amico, vedo che lo fai per mio amore; ma, Giulio, Barone, dite, voi dite se i figli non mi chiameranno vile, se abbandono la patria, se la tradisco.. .

GIUL.: Non la tradisci ...

Scena V1

Arturo e detti, poi l'avo. Fedeli

ARTURO (entrando): C'è in sala I'awocato Fedeli. Avvo- cato, Barone.

GIUL. (a sè): Che contrattempo. Addio. BAR.: Addio. Riceverlo in questi momenti? GIUL.: E' parecchio tempo ch'io sospetto della sua fedeltà ...

dell'aw. Fedeli e forse? AMBR.: Possibile? Un tal sospetto non mi sembra fondato.

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GIUL.: E io ... basta, sarà come vuoi. E dì, sa egli di questa lettera minatoria?

AMBR.: NO; anzi dovea venire quest'oggi per andare in- sieme dal Procuratore del Re a far la denuncia contro il comm. Palica; e certo sarà venuto per questo.

BAR.: Bene; se ella vorrà riceverlo ad ogni costo, si sbrighi in poche parole.

GIUL. : Allora è meglio che noi ci ritiriamo in quest'altra stanza. Per tutti gli eventi è bene tentarlo; vedrà se i miei so- spetti siano o no fondati ...

AMBR.: Sì, sì; tenterò ... GIUL. : Con prudenza. BAR.: Presto, che il tempo incalza (via a sinistra). AMBR.: (al servo): Digli che passi. Servo (fa un inchino e via). AMBR.: Possibile che Fedeli ci abbia traditi? Che sia stato

lui? ... Ma a qual fine ... E che ora venga a finger meco? ... Ten- tiamo.. . .(siede).

FED. (entrando): Son qua, amico e stai bene? AMBR. : Così, così.. . FED. (a sè): non m'inganno! (forte) Ma hai una faccia così

sbalordita? AMBR.: Sofferenze non ne mancano'. FED. (a sè) finge; che non voglia fidarsi? vediamo. (forte)

Ma che sofferenze? Mi sembri che abbia pianto ... AMBR: Pianto? ... No ... e perché? .

FED.: Basta, quando non son cose gravi, via pensiamo alle nostre faccende.

AMBR.: IO veramente non mi sento disposto di andare dal Procuratore del Re; e poi ... sai Fedeli, io comincio ad entrare in una certa preoccupazione.

FED.: ( a sè) ah! ah! il colpo è stato assestato! (forte) Preoc- cupazione? e perché

AMBR.: Che so? ... Mi sembra che qualcuno non sia sin- cero. .. e domani potremmo trovarci in brutti guai.

FED. (a sè) che sospetti? ( forte) E chi mai? AMBR.: Che so? Insomma io non sono sicuro e... vorrei

da te un consiglio ...

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FED.: Parla, se valgo (a sè) sentiamo. AMBR.: Se per caso, qualcuno interessato sapesse dei docu-

menti che abbiamo in mano, e dopo la denunzia venisse a rninac- ciarci per mezzo della mafia, tu sai che la mafia è potente; noi ci troveremo in mal partito. Vedi, è doveroso prevenire i passi...

FED. (a sè): giuoca d'astuzia; ho capito, vuole scoprir ter- reno (forte) Ma come lo potrebbe sapere?

AMBR.: Qualcuno che ci tradisce? FED.: Fra di noi? Non credo. Diffidi di Giulio Racconigi e

del barone d'Acquasanta? AMBR. : Veramente ... che so? Ma bisogna prevenire i passi ... FED.: E poi, vorresti che il comm. Palica si servisse della

mafia? AMBR.: Egli no; ma altri interessati ... FED.: Scusa, amico; la tua mi sembra una preoccupazione

fuori luogo ... I&e, le minacce si disprezzano. AMBR. : Ma della mafia? FED.: E che c'entra la mafia? AMBR.: C'entra; in quel documento che scopersi la lettera

di Palica ad Accarano per venticinquemila lire di offerta, se ti ricordi, la mafia c'entra benissimo.

FED. (scaltrezza Fedeli!): Ma questi timori mi sembrano in- giustificati.

AMBR.: Giustificati! perché sappi che ci hanno traditi. FED.: Traditi? e chi? AMBR.: No1 SO.

FED.: E fosti minacciato? (a sè) facciamo lo gnorri. AMBR.: Basta, non dico altro. Ci vedremo domani. FED.: Diffidi di me? AMBR.: NO; ma il discorso sarebbe lungo, e... non diffido

di te; ma lascia a me il segreto, la responsabilità, il pericolo. Vorresti dividerlo con me?

FED. (a sè): E vorrebbe forse sfidare il pericolo? E' meglio uscirne. (forte) Ma che pericolo?

AMBK.: Quale esso sia. FED.: Veramente io non credevo ... Ma è possibile che ci

abbiano traditi? ... Ambrosetti tu t'inganni ... AMBR.: E' il fatto.

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FED.: Ma ... forse qualche spia; che ci abbia se- guito i passi ...

AMBR. (guardandolo): o forse.. . qualche amico infedele.. . (inarcando).

FED. (punto): Che intendi tu dire? ... Ah! ho capito ... Am- brosetti, quando non conosci gli amici e non li apprezzi è meglio non averne.. . Ma compatisco la tua ambascia.. .

AMBR.: Non ti intesi offendere, ma comprendi che un pa- dre afflitto ... angosciato ... Ah! Fedeli! ...

FED. : Un padre? ... dunque la minaccia è sui tuoi figli? ... E che vorresti fare, amico infelice?

AMBR.: Ancora non mi sono deciso. FED. (a sè): tentenna ... si, salviamo Ambrosetti e Palica.

(forte): Io non so né quali minacce, né cosa si domandi da te; né pretendo di saperli; ho capito che tu diffidi; ma se l'avv. Fedeli è stato sempre il tuo intimo amico, ti vuole dare il suo parere e darti il suo consiglio ...

AMBR. : Parla; tu mi sei sempre il mio Fedeli ... FED.: Oggi cedi; domani, quando più nulla si sospetta, tira

il colpo, sicuro di ferire. AMBR.: E se dovessi consegnare i documenti? FED.: I documenti? ... Dunque sanno anche che tu hai do-

cumenti (fingiamo). AMBR.: Perciò ho detto che sono stato tradito. FED.: E sia, se la minaccia è tale da sagrificar tutto, rassegni

anche i documenti. Se è la mafia che ti minaccia, e tu ne sei certo, è meglio cedere che resistere. Ah! lo dissi io ch'era meglio non mettersi nella vita pubblica! ... E dire che persuaso da te vi fui trascinato ... Ecco che si guadagna! E la patria ... ! ma chi pensa ad essa? ... Uh! che gente perfida ...

AMBR. (a sè): Parlerà sincero? ... debbo credergli? (forte) E se vorrò resistere, mi abbandonerai?

FED.: Un amico par tuo? Non mai. Sarò sempre tuo, qua- lunque via tu voglia scegliere; ma io ti dico di scegliere la via della prudenza.. .

AMBR.: Ebbene, sceglierò la via della prudenza. Domani ci rivedremo.

FED.: Arrivederci. Oh, felloni! Oh! felloni! Addio Enrico.

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(a sè) La parte l'ho sostenuta bene; son certo che Ambrosetti cederà; ed ora si vada dal comm. Palica (via).

AMBR.: (solo): NO, non mi sembra un traditore. E forse? ... no, no. Ma ... e se si fosse lasciata sfuggir qualche parola di bocca? Possibile egli così accorto? ... No, qualche spia, qualche spia di certo ci ha scovati ... ed ora? Gli amici mi consigliano di cedere, l'agitazione cresce, il tempo scorre; il dubbio e la speranza, il timore e l'amore mi tempestano l'anima ... Che fare? Dio mio, che fare? Che tentare? ... A qual partito appigliarmi? Cedo? ... e la patria? ... Non cedo? ... e i figli? (pensa a lungo) Oh! Dio, dammi il tuo consiglio, sostieni tu l'animo di un padre ... Sì, si, l'unica via da tentare ... sarebbe pericolosa ... pure. .. sì, sì; peri- colosa ma doverosa ... Sentiamo il parere degli amici (entra).

Scena VI1

Arturo entra pian pianino e timoroso e sta ad origliare - poi Gigi

ART.: Ah! certo il babbo deve soffrire; è un giorno che lo vedo muto e pensoso; non ha mangiato ... ha pianto ... Perché pian- gi, babbo mio? E non dir nulla al tuo Arturo? ... Gli ho domandato e mi ha risposto che non aveva nulla ... Non è vero, no; questo cuore non s'inganna ... oh Dio quale sciagura? E che mai? ... E' da stamane che parla agitato ora col barone, ora con I'avv. Giulio Racconigi ... e io non ho capito bene; ho inteso più volte ripetere le parole: documenti, minacce, figli! ... ha passeggiato su e giù per la stanza; ha pianto. Oh Dio, quale angoscia per un figlio! Vedere il padre che soffre e non poterlo confortare? ... Ah! vi deve essere sotto un mistero; a quattordici anni si capisce qual- cosa... sì, non m'inganno ... Oh, Dio, Dio (piange).

GIGI: Arturo, tu piangi, che hai? ART.: Nulla, Gigi mio ( lo bacia). GIGI: Nulla? E perché piangevi? E il babbo perché piange

anche lui? ART.: Anche lui? GIGI: Sì, Arturo; stamane mi baciò e una lacrima mi cadde

qui sulla guancia ...

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ART.: Anche a me; e mi ha tanto stretto stretto al seno e mi ha baciato mille volte ... Oh! certo soffre il babbo ...

GIGI: E quei signori che fanno lì dentro? forse son essi che fanno soffrire il babbo?

ART.: Essi no... ma forse altri ... E' così cattivo il mondo ... GIGI: E il babbo è così buono! ART. (resta mesto e commosso). GIGI: Ma non t'ha detto papà che non vi è nulla perché

piangesse, fratellino mio? ART.: Gigi, caro Gigi, io non ci credo ... io temo. GIGI: Arturo, io pregherò la Madonna per papà; mi diceva

sempre così la mamma prima di morire: « Gigi, quando papà è mesto prega la madonna degli afnitti ».

ART.: Bravo Gigi: dammi un bacio (lo bacia). Sempre così; sì preghiamo la Madonna pel nostro babbo; essa ci consolerà.

ART. (s'inginocchia - Gigi pure): Vergine Santa, consola il nostro padre afflitto e angustiato, conservalo a noi, miseri fan- ciulli, che abbiam perduto la madre, e che non abbiamo altri che lui su questa terra (è commosso, restano alquanto in ginocchio).

1

Scena V I I I

Ambrosetti, il Barone e Giulio, che restano indietvo, e detti

AMBR . : Figli! ART. (si alza): Ah! papà. GIGI (si alza): Papà (corrono a baciargli la mano). AMBR.: Che facevate in ginocchio? ART.: Pregavammo la Madonna per te... E' un giorno che

sei così turbato.. . GIGI: Sì la Madonna che ti consoli ... Glielo dissi io ad

Arturo. AMBR. (a sè): Che strazio per un padre! (forte) carini;

facevate bene a pregar la Madonna per tutti noi (è commosso), ma confortatevi, non sono turbato, no... non ho nulla ...

ART.: Ma tu piangi, padre. AMBR.: NO ,... non piango ... GIGI: Vedi? ... ti spuntano le lagrime ...

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ART.: Padre, che hai? Non lo nascondere ad Arturo ... AMBR.: Fig li... figli miei ... (li abbraccia e li copre di baci). ART.: Ed è possibile padre, tanta crudeltà? E' un giorno

che tu soffri; ti ho visto piangere, ho spiato i tuoi passi, ho inteso il tuo parlare rotto e agitato; ah! padre ... e perché tacere al figlio i tuoi affanni? Se altro non posso, mi è dolce piangere con te; ma non mi straziare l'animo col tuo silenzio ... Io non so che pensare ... il cuore mi predice sventure ... parla, padre, parla a un figlio che t'ama.

GIUL.: Ma Arturo, non vedi che rattristi il padre con le tue parole? ... Non ti ha detto egli che non è nulla? Sii uomo e non fanciullo ...

AMBR. : Gigi, Arturo, quetatevi. .. un povero padre tante volte si angustia dell'avvenire, senza ragione ... c'è Dio lassù nel cielo che ci guarda tutti, e che ha cura dei fanciulli che lo amano; e Dio non ci abbandona ...

GIGI: E neanche la Madonna ... AMBR. (fa un passo avanti e a stento trattiene il pianto):

Dio! e se la minaccia si avvera? ... E se dovrò lasciarli orfani, soli al mondo? O se invece dovrò perderli? ... Un ricatto ... Un assassinio!. . . Ah! troppo chiedi, o patria, al cuore d'un padre.. . Ah! smanie crudeli! o terribili istanti ... e il dado è tratto ... Infe- lice! e il potrò? ...

GIUL.: Amico, la tua commozione ti tradisce; ammiro il tuo proposito ... lo seconderò ... ma lascia che un amico ti ricordi i pericoli a cui vai incontro ... E se tu li perderai? ... E se essi perderanno te?

AMBR.: Cessa dal torturarmi ... si lo vedo ... vo incontro ad un avvenire fosco e torbido ... I figli, chi ardirà strapparmeli? chi potrà involarmeli? Sempre al mio seno, giorno e notte ... sempre vicino a me; sarò un leopardo che li difende ... sì, venite figli ... figli miei, unico conforto di una vita amara... unica gioia di questo cuore turbato ... (li bacia, li abbraccia, piange) ... No, vostro padre non sarà un codardo, un vile; non vi darò esempio di avere abbandonata la patria, quando poteva salvarla ...

ART.: Ma padre, i tuoi detti, i tuoi moti, la tua agita- zione; ... ah! signori, ditemelo voi che lo sapete ... ditelo al po- vero figho.. . Avvocato ... Barone.. . Ma anche voi piangete?

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AMBR.: Figli, ricordatevi che il 20 febbraio il padre vo- stro ... vi ha dedicato alla patria ... per essa crescete buoni, onesti, virtuosi; per essa siate pronti a combattere i perfidi e anche ... a dar la vita ... l'amore della patria oppressa e tradita ... oppressa e tradita.

ART. : (con schianto) Padre!. .. ah padre! ... GIUL. (piano ad Ambrosetti): Amico, sei ancora in tempo ... BAR.: (c.s.): Forse ... sarebbe più prudente ... AMBR.: Amici, perdonate questo sfogo al cuore d'un pa-

dre; no, non mi rimuto; mi sono dedicato alla patria ... Dio se- conderà i miei sforzi. Ecco il plico dei documenti veri e la lettera minatoria; io stesso andrò a denunziar tutto alla giustizia.. Questo è il finto plico che farò deporre al luogo segnato, per poter cogliere meglio i nemici. Si, si, scelgo la via audace e franca del dovere; la causa è nobile e santa. E se cadrò, e se non li vedrò i miei figli, e se...

ART.: Ah! padre; che fai? che tenti? Non ci abbandonare. AMBR.: Arturo, cessa dalle tue smanie. I1 dovere mi ob-

bliga, Iddio ci assiste ... Qui, al mio seno... (li bacia e abbrac- cia. Arturo e Gigi piangono) Giulio, li affido a te ... Io salverò la patria e tu, amico, mi salva i figli.

Fine del I I I Atto

ATTO IV

Sala in casa del Comm. Palica

Scena 1

Avv. Fedeli solo

(seduto legge un giornale): Adesso comincio a comprendere che la faccenda si fa seria e che bisogna uscire da questo ginepraio. Maledetto il momento che mi ci misi! E la mia astuzia non

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sa speculare un mezzo, non mi suggerisce più un trovato buo- no ... e dire che mi son lasciato accalappiare dalle promesse del- l'onorevole e del comm. Palica a tradire Ambrosetti. Sorte ma- ledetta! Adesso sì che i miei sogni dorati avranno effetto con qualche paio d'anni o più di carcere... L'onorevole è potente, lo comprendo bene; la giustizia si può comprare ... già bisogna trovare magistrati che si lascin corrompere ... E Ambrosetti, non ostante le minacce se la ride.. ha fatto la sua denunzia ... ha fatto arrestare Liodoro che andava a prendere il plico falso alla quer- cia segnata e... a ogni momento mi sembra che debba comparire qualche delegato che mi dica: signor Avvocato, favorite in car- cere. I n carcere io? Cospetto! In vita mia non vi sono stato mai. Meno male che ancora Ambrosetti mi stima amico ... e non sospet- terà che l'avv. Fedeli treschi la mafia ... Io stesso non so perché continuo a venir qua e pigliar parte ai loro colloqui ... che so? Un certo fatalismo bisogna ammetterlo ... E se potessi trovar modo di farla in barba ad Ambrosetti, alla giustizia, al governo; se potessi ancora giuocare d'astuzia ... Basta, questa sera l'avvo- cato Fedeli deciderà la via da seguire; se no, mi butto dalla parte di Ambrosetti e... batterò le mani a lui ... sì? ... bravo, e non pensavo che il comm. Palica sarebbe capace di trascinar tutto il mondo nella sua rovina? Egli si vendicherebbe del mio abbandono, denunciandomi come autore della lettera minatoria ... e allora? ... Povero Fedeli; ci sei cascato ... Vedremo come ne uscirai.. .

Scena I I

Serimondi, Andrea Tarbi e detto

ANDREA: Inutile, amico; l'ho detto e l'ho predicato: le vie pacifiche spuntano meglio di quelle aggressive. Ma quella testa dura di Palica ...

SER.: E' impuntato e non vuol cedere. Oh, Avvocato, servo SUO.

FED.: Amici (si stringono la mano) ANDREA: L'avvocato non credo che questa sera vorrà fare

l'audace.

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FED.: Non è stata mai la mia virtù l'audacia. SER.: Astuzia ci vuole ... ANDREA: E prudenza. FED. : D'accordo; astuzia e prudenza. ANDREA: Sentite amici, se siamo d'accordo potremo sal-

var noi e tutti. FED.: E come? ANDREA: IO non sono del parere del comm. Palica; cioè

di andare sino in fondo con tutti i mezzi che ci dà la nostra posizione e la nostra prepotenza; bisogna parlar chiaro.

SER.: Anch'io, oramai mi avvedo che la via presa ci com- promette assai, assai ...

FED.: E pare che il governo non voglia appoggiarci. ANDREA: I1 governo non può infine accondiscendere al

comm. Palica. Come si fa a far tacere un processo? Per quanto siano forti le influenze ...

FED.: Oh, per questo la sbagliate. Anche i processi si pos- sono mettere a tacere quando si vuole; dite che non vogliono. Che risposta si ebbe l'onorevole?

ANDREA: Sin oggi, nessuna. SER.: VUOI dire che la cosa si matura. ANDREA: E poi, è prudente oggi come oggi eleggere sin-

daco il comm. Palica? Ambrosetti farà il ca' del diavolo. E ciò che sin ora è noto a pochi ...

FED.: Già, perché Ambrosetti ha avuto l'astuzia di tacere, per poi impressionare il pubblico al momento della nomina del sindaco.

SER.: E noi come possiamo rispondere, noi? ANDREA: Sentite un mio progetto: è l'unico. Far dire ad

Ambrosetti che noi dentro un dato tempo rimedieremo al vuoto di cassa del comune coi nostri proprii beni, io per primo. Così pagheremo le trecento mila lire. Per gli altri imbrogli si rime- dierà così così, con una transazione segreta. Facciamo sindaco Giulio Racconigi; a patto che Ambrosetti desista da qualsiasi azione giudiziaria o amministrativa contro di noi. I1 governo così non troverà difficoltà a chiudere un occhio e a far tacere tutto.

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FED.: Belia! Così tutto è salvato; il comune nei suoi di- ritti; Ambrosetti nel suo intento, e noi nel nostro pericolo; e chi si è visti, si è visti.

SER: Sì, e credi facile non dico trovar trecentomila lire; infine un credito ipotecario si potrebbe fare; ma persuadere quelle due teste di ferro: Palica e Ambrosetti?

ANDREA: Per Ambrosetti potrò avere i miei dubbi; ma Palica, vorrà lui andare forse in galera?

SER.: Ma egli è fermo che vincerà la lotta ... ANDREA: Egli ci vuol rovinare.. FED. : E non potremo lasciarlo solo ... SER.: E come? ANDREA: Lasciarlo solo? Oh! se lo potessi! se lo potessi!

Quell'infame mi ha legato a sè e mi tiene avvinto nel modo peggiore. Per la smania d'arricchire mi sono a lui appoggiato ... l'ho secondato nelle sue voglie, mi sono prestato ai suoi mal- vagi intenti; oh! tardi, tardi mi accorgo che son tradito ...

FED.: Ma, se l'onorevole sarà del nostro avviso, gli con- verrà cedere.

SER.: L'onorevole si fa trascinare dai consigli del comm. Palica; e poi, è così stretto di borsa; gli piace ricevere e non dare.. .

ANDREA: Ma allora, la disbrighi lui questa matassa. Egli ha fiducia nel ministero perché è ministeriale, già è stato sempre rninisteriale, ma a quanto pare ...

FED.: Dico io; ha fatto traslocar il prefetto ... ANDREA: PU ff... Perché non fa traslocar il Procuratore del

Re, il quale dicesi che abbia volontà di farci finir tutti in car- cere?

FED.: Aspetta risposta ... ANDREA: Aspetta un corno. A ogni modo, io questa sera

mi deciderò; o si fa come dico io ... o pazienza, lascerò patria, figli, i figli anche, e me ne andrò all'estero ...

SER. : Troppo lontano.. . ANDREA: E vorresti che mi lasci ammanettare? Assai cre-

dulo sono stato; ma oggi mi avvedo che il pericolo è vicino e...

FED.: IO vorrei preoccupar l'animo dell'onorevole, prima che venga.

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SER.: Sarebbe bene. ANDREA: Sì, sì ... oh! diavolo, ecco Roberto ... FED. : Pazienza!

Scena I I I

R. Palica e detti

RoB.: Scusate, ' amici, del ritardo ... FED.: Non fa d'uopo ... ANDREA: Del resto, l'onorevole non è ancora venuto. SER.: E che notizie? ROB. Le solite ... FED.: Ma insomma, il Regio Procuratore che cosa ha fatto?

Che intende fare? Ella non ha saputo nulla dalle spie? RoB.: I1 R. Procuratore non deve né può fare cosa alcuna. ANDREA: LO dici tu. RoB.: LO dico io. Sin ora mi si dice che sia incerto sul

fare. E per prima non è stata ordinata nessuna inchiesta. ANDREA: Ma chi ti dice che non abbia passato tutto al-

l'ufficio dell'istruzione? RoB.: I1 giudice istruttore mi è amico ... ANDREA: TU fidi troppo sulle tue amicizie e nelle tue in-

fluenze. Io temo che non ci abbia a cascare il fulmine addosso improwisamente. ..

RoB.: Andre?, la prudenza mi piace; la paura poi no... ANDREA: Paura ... paura.. RoB.: Infine io ci ho pure io interesse [sic] a non esser

colpito. SER.: LO sappiamo; ma ella si fida troppo; o non vuole

manifestare i suoi timori per non aggravar la posizione. FED. : Il commendatore potrebbe essere sincero. ROB. : Sono sincero. ANDREA: E perché Liodoro è ancora in carcere? S'istrui-

sce o no quel processo? RoB.: Per l'affare Liodoro non bisogna preoccuparci. ANDREA: E se egli ci svela? FED.: Se svela me che gli diedi l'incarico? RoB.: Non svelerà niente; è un mafioso antico; e sa bene

il suo dovere.

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ANDREA (a sè): E' meglio tacere per ora; aspettiamo l'ono- revole per dar la carica (forte). Basta; sarà come vuoi tu ... (siede).

SER. ( a Fedeli, a parte): Eh! caro Awocato, la faccenda s'imbroglia.

FED.: (C. S.): E' imbrogliata (continuano a parlare in segreto). ROB. ( a sè): costoro hanno ragione; io vedo la nostra posi-

zione assai scossa; la faccenda corre alla diavola, e pare che la nave pigli acqua da ogni parte ... Ah! infame Ambrosetti! Non avrei mai creduto che a tanto arrivasse l'odio tuo, il tuo livore contro di me... ma che non la debba vincere, non ci credo; non mi sembra possibile che Palica non possa riuscire a sopraffarti ... I1 processo? ... Si metterà a tacer ... I1 Regio Procuratore? ... Do- vrebbe andar via ... e poi? Non è sempre là Ambrosetti a tener vivo un fuoco violento contro di noi? Qual giudice o qual go- verno potrebbe arrestar il corso della giustizia, quando quell'in- fame potrebbe gridare allo scandalo, al tradimento? ... E poi? Così dunque non solo ci opprimerà, ma ci disprezzerà, ci coprirà di dileggi quando la minaccia fatta non si debba compiere ... Ah! son cinque giorni, cinque secoli, che penso il modo di fargli ve- dere come impunemente non si combatte un Palica ... non si scherniscono le sue minacce ... Invano lo dissi a questi pacciosi e vigliacchi che mi circondano: Ambrosetti deve sparire dal mon- do ...; e no... l'Avv. Fedeli, il dotto Salomone, assicura che la minaccia lo ridurrà all'impotenza, che consegnerà i documenti, che si dichiarerà vinto ... Ecco come ora ci fa trovare nella brutta posizione di tentare un salvamento a costo di tutti i sagrificii e di tutta l'abilità di un Palica ... (pensa - passeggia).

FED. : Ma.. . l'onorevole?. . . Vado a chiamarlo? ROB. : NO, no; conviene aspettarlo; non tarderà.. .

Scena IV

Accarano e detti

Acc. (entrando, a mezza voce): Commendatore ... commen- datore!. ..

ROB. : Accarano, entra ... che nuove?

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(Fedelz, Andrea e Serimo~zdi si auvicinano) Acc.: Brutte! ANDREA: Me le aspetto brutte ad ogni momento ... FED. ( a sè): Ogni volta che vede costui, mi viene la pelle

d'oca. .. SER.: Che guai? RoB.: Ma ... insomma? Acc.: I n questura si dice che Liodoro ha fatto una depe

sizione contro lei e I'avv. Fedeli addirittura schiacciante ... ROB. : Fu chiamato dunque dal giudice? Acc.: Ma se Ambrosetti fa il diavolo a quattro ogni giorno

piantato negli uffici dei tribunali? Avete allevato una serpe in seno...

ROB. : A cui bisogna schiacciare la testa ... ~o mo- ANDREA: (stizzito) Mi fai il millantatore in quee

mento ... FED.: IO son morto. .. e a quale santo mi voterò? RoB.: Ma dunque Liodoro ci ha traditi? Acc.: Così si dice; ma sarà vero? RoB.: Liodoro? Uno dei più fidati? dei più sicuri? ... Ma

Accarano, non potrà essere una voce falsa? Chi te lo disse? Acc. : Ma; si diceva ... poi, comprenda che io in questura

devo far le viste di non interessarmene e... RoB.: Comprendo la tua accortezza; ma che Liodoro ci ab-

bia traditi, no, non ci credo. ANDREA: Sì, sì; sta con la tua credenza ... e noi intanto

corriamo verso la via della galera ... Maledetto mille volte, cento mila volte quando ti conobbi, quando ti seguii, quando ... Ah! io fremo, traditore!

SER.: Via via, Andrea; così non si superano i pericoli ... ROB. : Ti compatisco.. . (con disprezzo). Non dicesti così

quando da povero scribacchino arrivasti ad essere ricco signore, decorato della croce.. di cavaliere.. . (bonario). Via, coraggio : da buoni fratelli divideremo le sventure, come abbiam diviso le gioie ... Infine, non ti piace alloggiare in carcere?

FED.: Veramente; non è tempo di scherzare. RoB.: ( s i tira in disparte Accarano - Fedeli passeggia e poi

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si auuicina ad Andrea e Serimondi che discorrono accalorati in fondo): Accarano, un atto di suprema fedeltà ...

Acc.: Non fa d'uopo che me lo domandi. RoB.: Comprendo che la mia posizione è assai compromessa

e che un salvataggio è dacile; ma non impossibile. Però son convinto che Ambrosetti vivo, comprendi? noi non potremmo arrivare a far tacere ogni cosa...

Acc.: Non solo, ma i compagni della cosca fan rumore e minacciano me, perché a quella minaccia fatta ad Ambrosetti non si dia corso. Così la mafia ci perde; e molti gliela potranno fare. Come? Si scrisse, depositate i documenti, pena la vita; e quello ci beffa, ci fa prendere un nostro compagno, l'avv. Fedeli ci dice che è persuaso di cedere ... e poi, fa la denunzia al R(eale) Procuratore! Che Ambrosetti resti vivo, no. E' un'onta alla mafia.

RoB.: Dunque siamo d'accordo; ma come fare a sbarazzar- sene senza che i sospetti cadano su me, sull'onorevole o sui com- pagni di Liodoro? E se Liodoro ci ha traditi? ... E' ciò che mi martella la mente in cinque giorni di smanie ... Non ho saputo tro- var modo ... e pure ci si deve arrivare ... Che Ambrosetti resti im- punito? ... Ah! non sia mai.

ANDREA (forte): Andrea, cari amici, non cederà. SER.: Piano ... piano ... FED. (si volta): Con prudenza! ROB. (si è voltato): Andrea questa sera ha i nervi; ti darò

io un calmante. ANDREA: Non ne ho bisogno. Acc.: Commendatore, ella dice bene; e l'affare va pondera-

to. Bisogna far in modo che apparisca fra di voi una pace, e che ... Le piace sagrificar Fedeli?

RoB.: Ci potrebbe svelare tutti quanti ... Acc.: Cioè, disporre in modo le cose che Fedeli sarebbe il

capro espiatorio? Del resto, egli fece la lettera minatoria, egli di- spose il servizio della quercia ... egli?

ROB. : Piano.. . Viene l'onorevole.. . attendi in sala. .. Acc.: Ci pensi, sa... ROB. : Vedremo.

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Scena V

Onorevole, Alfonso e detti meno Accarano

ON.: Signori; Commendatore, Cavaliere, Avvocato, Cava- liere.

(RoB., Andrea, Fedeli, Serimondi si avvicinano e gli stringo- no la mano con inchino dicendo: Onorevole! Accarano fa un in- chino e via: poscia salutano Alfonso.

ON.: Debbo comunicarvi una buona notizia. RoB.: Ma sediamo; Onorevole segga; faccia suo comodo

(tutti siedono) ON.: Grazie. Quel mio amico mi scrive che è stata ordinata

un'inchiesta nell'amministrazione comunale per cui è sospesa ogni azione giudiziaria. L'inchiesta però è il mezzo termine, per pren- der tempo. In questo mezzo è necessario far che Ambrosetti non insista e taccia. Del resto la cosa si può dir che sia segreta ...

ANDREA: Ottima notizia.. . SER.: Noi non sappiamo come esprimere la nostra ricono-

scenza all'onorevole. FED.: E' un altro colpo che fa il paro con il trasloco del pre-

fetto. RoB.: Anch'io divido il piacere di tale notizia e ringrazio

l'onorevole del suo validissimo appoggio.. . ON.: Ma che? Siamo tutti interessati, ed io ho fatto il mio

dovere.. . RoB.: Bontà sua; ma ha pensato l'onorevole, che non è cosa

facile far tacere Ambrosetti, ora che è inviperito e... ON.: La difficoltà è seria; e non ne dissimulo la gravità. ANDREA: Ma io credo che si potrebbe trovar modo. ON.: E come? dica; è per questo che in questa sera ci siamo

riuniti, prima della mia partenza per la capitale ... FED. : Ella dunque partirà?. . . SER.: E ci lascia nel più bello? ON.: IO vado alla capitale per avviar le cose in modo che

tutto debba essere salvo. RoB.: E l'onorevole non sa che il processo Liodoro è inizia-

to e che dicesi che Liodoro ci abbia svelati?

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ON.: Possibile? Liodoro ci ha svelati? Insomma, aggiustia- mo l'affare da una parte e minaccia dall'altra. Quando non si vuol seguire la via della prudenza, ecco poi gli effetti.

RoB.: E intanto bisogna pensar subito a questo ... l'istrutto- ria è segreta; se ella può far che questo verbale ... non esista e che.. . insomma.. .

ON.: Ho compreso; ne parleremo dopo; l'affare più impor- tante è far ritirare Ambrosetti ...

ANDREA: E' l'affare unico. Io penso che Ambrosetti, se non si aggiustan gl'imbrogli del Comune e della Congregazione di Ca- rità, non sarà per cedere ...

FED.: E questo lo posso assicurare io ... ANDREA: Così anche non vorrà per tutto il mondo sindaco

il Comm. Palica. SER. : Certamente. ANDREA: Dunque, per farlo ritirare, bisogna che noi gli pro-

mettiamo, pigliando i danari dovecchessia con un prestito ipote- cario, di regolar tutto e di eleggergli a sindaco chi vuole, Giulio Racconigi o il Barone d'Acquasanta.

ON.: L'osservazioni di Andrea sono sennate (sic). ROB. (un tradimento!): Saranno, perché lo dice l'onorevole,

sennate; ma io trovo che con tutto ciò, Ambrosetti non cederà ... ANDREA: Bisogna tentare. .. SER.: E' l'unica via. FED. (a sé): E' meglio che stia zitto ... vediamo come andrà

a finire; a cose conchiuse piglierò partito. RoB.: Ambrosetti non è uomo da dimenticare che è stato

minacciato nella sua vita e in quella dei suoi figli ... ON.: Sì: ma Ambrosetti sarà generoso con i suoi antichi

amici; e l'onorevole.. . ROB. (riscaldandosi a poco a poco): E l'onorevole lo proyò

generoso quando si degnò pregarlo personalmente a cedere prima delle elezioni.. .

ON.: Allora fummo noi che non cedemmo a lui. RoB.: Ma allora egli ignorava i nostri imbrogli; allora era ri-

picco, stizzito dell'affare della nomina dei congregati di carità ... ANDREA: Ma allora noi ci diportammo male, e ora ne pian-

giamo le cdnseguenze.

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ON. : Infine, il tentare non nuoce... RoB.: Ma siamo pronti, sinceramente, siamo pronti a sbor-

sare da tre a quattro cento mila lire? ON.: Ognuno per la parte che ci ha avuto. ANDREA: Certo io son pronto, anzi che finire i miei giorni

in carcere. SER. : E anch'io ... FED.: IO poi ... non ci ho tanta parte in questi affari. ALFONSO (a sé): I birboni! prima rubano e poi ... se non fos-

si segretario! RoB.: Ed io, non son pronto (si alza) non son pronto a cede-

re il posto di sindaco, non son pronto a mendicare un perdono da Ambrosetti, non son pronto a rinunziare a tutta la mia vita poli- tica, per ridurmi a vita privata; ci va del mio onore, del mio ca- rattere.

ANDREA (si alza): E sei pronto di andare in carcere? RoB.: NO, certo. ON.: Dunque? (si alza - si alzan gli altri) RoB.: Dunque così vigliacchi dobbiamo essere, così avviliti,

da non contar più nulla la nostra potenza e i nostri danari? Per tutti i diavoli deI12inferno, Roberto Palica non cederà ... altra via, altro mezzo, si tentino, si mettano in opera ... tutto; ma l'awili- mento, non mai. Ambrosetti non avrà, non avrà questa soddisfa- zione, e ve lo dice il comm. Roberto Palica.

ANDREA: E Andrea ti dice che o si tenta questa via, o io stesso andrò a denunziarci tutti. Dacché tu vuoi la nostra rovina, sì l'avrai; ma ti pentirai di aver trascinato seco il cav. Andrea Tarbi ...

ROB. : Andrea!. . . (secco) ON.: Oh! questo no; discutiamo con calma: se Roberto ha

altra via; ... esaminiamo la partita ... siamo qua all'intento di vin- cere questa battaglia. Se siamo divisi, discordi, con gli animi ecci- tati, non faremo nuUa.

FED.: L'onorevole ha ragione: occorre calma e prudenza. ANDREA: E non bisogna venir avanti con le imposizioni. RoB.: E non bisogna esser vigliacchi. SER. : Neanche troppo audaci.

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ALF. (a sé): La va male! ... Io vorrei salvo l'onorevole, per- ché mio benefattore, ma quei birbanti, li manderei tutti in galera.

ON.: Roberto, sentiamo il tuo parere. RoB.: IO vedo che gli animi sono eccitati; lo manifesterò a

lei in segreto; se ella lo crede opportuno, lo proporrà come cosa sua, se no, si penserà ad altra via. (a sé): Si divida e si comandi.

ON.: Potrebbe dirlo a tutti, ma dacché le piace così, entria- mo in quest'altra stanza; spero che gli amici mi abbian fiducia.

FED.: Tutta. SER.: Faccia come crede. ANDREA (a sé): Roberto ci vince in astuzia ... (forte) Io spe-

ro che Roberto si piegherà alle evidenti ragioni dell'onorevole.

(On. e Roberto entrano a sinistra)

Scena VI

Andrea -/Serimondi - Fedeli - Alfonso

ANDREA: Scusi, segretario; le sembra modo di ragionare quello del Cornrnendatore? Con tutto il suo ingegno, l'è sempre audace e violento ... Ma qua la violenza non giova ...

ALF.: Sembra che si sia rimesso al parere dell'onorevole. SER.: Ma ha voluto evitare la discussione. FED.: Prudente del resto; perché a come gli animi erano ac-

cesi ... ANDREA.: Ma sai, Fedeli, io non intendo cedere. Prima si

tenti la via pacifica di indurre Ambrosetti e poi, fallita questa via, se ne studieranno delle altre ...

FED. : Intanto si perde tempo e... ANDREA: Quasi quasi Fedeli comincia a tentennare. FED.: Oibò; ma quella bestia di Liodoro che ha svelato tut-

to ... SER.: E perciò non ti garba più di tentare che Ambrosetti

ceda.. . FED.: Ma, se sa che io l'ho tradito; e...? io non ci faccio la

migliore figura ... ANDREA: La istruttoria è segreta ...

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FED.: Segreta? Ma Accarano dunque come ha saputo? SER. : Accarano è una spia ... ALFONSO: In ogni caso, l'amico perdonerà l'amico (con in-

teizzione) PED.: Amico ... come Giuda ... Ah! o non so qual diavolo mi ci

ha trascinato a tali azioni.. . ANDREA: Il nostro diavolo è stato uno: Roberto Palica. ROB. (passa la scena ridendo): Un diavolo buono, eh! .... ANDREA (si volta): Niente buono! Vedete se non è diavolo,

lo ho anche alle spalle quando lo nomino. FED.: E poi mi dicono: fidatevi della mafia. Liodoro io non

ci posso pensare, Liodoro ci ha traditi ... ALFONSO: Potrà essere una invenzione di Accarano, per far-

si merito. SER.: Non dice male il segretario. FED. : Dio volesse! ROB. (ripassa la scena e rientra a sinistra con Accarano): An-

drea, sfoga, sfoga pure. ANDREA: Ne ho ragione. RoB.: Ragione, no; ti compatisco perché sei preoccupato un

po' troppo (rientra) ANDREA: Ma quale sarà il progetto di Roberto? Ha condot-

to Accarano dall'onorevole. SER.: E POCO fa Accarano gli parlò in segreto. ANDREA: Che voglia ancora servirsi della mafia? FED.: E a che fine? ANDREA: Questa sera Roberto mi sembra misterioso. FED.: Staremo a vedere. SER.: E l'onorevole quando si recherà alla capitale? ALFONSO: Forse partiamo domani. ANDREA: Se ci lascia nel bello senza averci accordato, succe-

derà qualche scandalo. ALFONSO: Oh! non mai. SER.: E non può ritardare la partenza? ALFONSO: NO; perché fra giorni si aspetta un voto di fidu-

cia al ministero, che è pericolante. Si figurino, ogni giorno arrivan telegrammi.

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FED.: Questa volta l'onorevole di San Baronio si farà pagar caro il voto favorevole al ministero.

SER.: Non c'è da dubitare. FED. (a sé): comincio a sperare. ANDREA: Ma; si aspetta troppo. Infine noi possiamo sapere

cosa là dentro si concerta ... FED. : Un po' di pazienza, cavaliere. Serimondi passeggia con Alfonso - Fedeli si mette a sedere. ANDREA (a sé): Io comincio a dubitare che l'onorevole si

faccia persuadere da Palica; gli è così legato, assai più di me; e non gli sa resistere. Fedeli è impaurito ed incerto; Serimondi? ... Oh! crudeli ambasce, momenti di infelicità; rimorsi e disperazio- ne che mi travagliano il cuore. .. una via di riprovazione ... deve esser la nuova ... non quella di delitti! ... Ah! e dovevo aspettare questi dolorosi momenti?

Scena VI1

Roberto - Accarano e detti

ROB. (entrando): Accarano, attendi in sala. Acc.: Commendatore (inchino e via a destra) ROB. : Segretario. ALF.: I n che posso servirla? RoB.: Favorirmi: l'onorevole desidera che vada tosto al suo

palazzo a pigliare le ultime due lettere dell'onorevole Parmenio. ALF,: Sarà tosto servita. Con permesso, signori (via) TUTTI: Egregio ( u n inchino) ROB. (lo accompagna alla porta di destra - ritorna): Avvoca-

to ( a Fedeli) Cavaliere (a Serimondi) l'onorevole li desidera. Fa- voriscano.

(Serimondi e Fedeli entrano a sinistra) ROB. ( a sé): Dividi e comanda; eccovi ridotti all'irnpotenza,

signori che congiuravate contro di me; ed ora a te, Andrea (si av- vicina ad Andrea che guarda silenzioso) Che pensi Andrea?

ANDREA: Nulla. ROB. : Come, nulla? ANDREA: Vedo che hai disposto bene l'assalto.

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RoB.: Non sono un buon capitano, eh? ANDREA: Ottimo. Ma, insomma? RoB.: Tu questa sera mi sembri invaso da una maledetta

paura, che hai comunicata agli altri. Credi forse che noi soccom- beremo?

ANDREA: Ne son certo. RoB.: E non ricordi le difficoltà da noi felicemente superate

per l'addietro? ANDREA: Non erano dell'importanza di questa, né arrivate

a questo stato pericolosissimo. Ma poche parole: quale via tu ad- diti di salvamento?

RoB.: I1 prefetto è stato traslocato. ANDREA: Lo SO.

RoB.: E' stata ordinata un'inchiesta che servirà per metter tutto a tacere.

ANDREA: LO SO.

RoB.: L'affare di Liodoro sarà condotto con prudenza e. .. ho una via segreta per cui ... Liodoro se ne uscirà senza noie e... il verbale della deposizione sparirà.

ANDREA: Come sparirà? Tu vuoi ingannarmi; quale è que- sta via.

RoB.: E' un segreto ... ANDREA: NO, è un inganno. RoB.: Parola di onore; fra due giorni lo avrai tu stesso nelle

tue mani. ANDREA: E se in questi due giorni, verranno a catturar noi? ROB. : (...) ' impossibile! ANDREA: Sarà, ma io non ho fiducia nelle tue parole. E dì,

come riuscirai a far che Ambrosetti non insista? Se è a questa con- dizione che avremo gli aiuti superiori, come la adempierai tu?

ROB. (piano): Andrea ... i morti non parlano. ANDREA (sorpreso): Che intendi? RoB.: Non hai compreso? ANDREA: NO ... non ho ... compreso. ROB. (secco): Andrea, con me non devi fingere, né devi ri-

l Parola illeggibile.

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bellarti ai miei voleri. Tutto è deciso e stabilito. Ambrosetti ... non insisterà.. . non parlerà.. . non scriverà ... Comprendi?

ANDREA: Ah! Infame! questo è il colmo ai tuoi delitti. No, non mi avrai complice. Andrea ti ha secondato troppo fin qui, ti ha appoggiato nei tuoi loschi affari ...

ROB. : Ha partecipato agli utili ... ANDREA: Si, ho partecipato agli utili, e men duole, e ne ho

vergogna, e i rimorsi mi ciilaniano l'anima ... ROB. : Rimorsi intempestivi! ANDREA: LO vedo; sono un malfattore in veste di gentiluo-

mo, ho falsificato firme, ho venduto protezioni, ho comprato ono- ri, non ho guardato a mezzi per innalzarmi ... ma che mi cooperi a uccidere un uomo, che ha il solo torto di essere onesto e di per- seguitarci perché disonesti, no1 credere, Roberto ... Mi cadan le mani, finisca i giorni in carcere, perisca, ma no, non voglio più es- sere schiavo dei tuoi voleri.

ROB. (pausa): Hai terminato di parlare? Mi piacciono le tue lezioni di morale fuori tempo. Ma che temi? che sarem scoperti?

ANDREA: E' l'ultima cosa a cui penso in questi momenti; io temo macchiarmi le mani di sangue. Io non potrò più vivere con lo spettro di Ambrosetti a lato, di quell'Ambrosetti, che un tem- po ci fu amico e compagno di lavori e consigliere fidato. No; in- vano mi spingerai al delitto: No, no... non voglio. Addio, Rober- to (per andare)

ROB. (lo ferma): .Ferma, Andrea. I1 tuo ultimo volere? ANDREA: Che si tenti la via pacifica. RoB.: E se Ambrosetti non cede? ANDREA (pausa): Se non cede? ROB. (incalzando): Sì; se ~mbroset t i non cede? ANDREA (con stento): seguiremo il destino; è nostra la col-

pa; e sarà nostra la pena. RoB.: E ti rassegni? ANDREA: Di finire i giorni o ail'estero o in carcere. RoB.: E il tuo onore? e l'avvenire dei tuoi figli? ANDREA: I figli?! Oh! padre infelice; e quale esempio, qua-

le memoria lascerò a voi? Dunque per questo ho preparato a voi uno splendido awenire, per questo ho per voi accumulato ricchez-

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ze per maledire il vostro padre, per vergognarvene in faccia alla società? (piange)

ROB. (a sé): E' scosso; tentiamo (pausa) Sono inutili i pian- ti; sta nelle tue mani risolvere la questione; se non ci vuoi tutti rovinati.

ANDREA: Nelle mie mani? RoB.: Sì. ANDREA: Ma che cosa devo fare. ROB. : Secondarci. ANDREA: E l'onorevole è del tuo parere? RoB.: Anzi è là che persuade Serimondi e Fedeli. ANDREA: E tu speri? RoB.: Molto, anzi tutto. La mafia ci aiuterà ... ANDREA (ripigliando): No, no; un delitto, mai. Inutile! non

voglio, anzi, se voi insistete, sì ... andrò io stesso a denunziarvi. RoB.: Tu no1 farai ... ANDREA: Sì, lo farò; oramai sento che così potrò redimere

il mio passato vituperevole, salvando un uomo. RoB.: Codardo! e ci tradirai! ci tradirai Andrea? No, no1

puoi ... sappi che Roberto cadendo, trascinerà molti appresso a sé, e il primo sarai tu. ..

ANDREA: Oh! smanie! Oh! rimorsi! Oh! infelicità! Va, de- mone d'inferno; assai volte mi hai tentato ed hai vinto; ma que- sta volta ...

ROB. (serio): Cederai a Roberto.

Scena V I I I

Onorevole - Serimondi - Fedeli e detti

ON. (entrando): Ebbene? Andrea che ne pensa? ANDREA: (fa per parlare) ROB. (con un gesto lo interrompe): Ancora è incerto (fa un

segno all'onorevole) ON. (risponde al segno): Andrea, io accetto il tuo consiglio

(movimento di Andrea e di Roberto) accetto anche quello di Ro- berto. Prima si tenteran le vie pacifiche, e l'aw. Fedeli è incari- cato di farlo domattina; avuta una risposta negativa, si farà quel

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che la comune salvezza c'impone. I1 Cavaliere (ad Andrea) e il commendatore (a Roberto) approveranno il mio disegno.

ROB. (si finga): Ella vuole tentare prima le vie pacifiche, e io non mi oppongo; quantunque per me è peggior vergogna cedere ad Ambrosetti, dargli questa soddisfazione; ma a patto che il sindaco debba essere io.

ANDREA: Patto che Ambrosetti non accetterà. Se si vuol venire ad una via che spunti, bisogna cedere in tutto.

ON.: E il comm. Palica cederà in tutto; lo prega l'onorevole. RoB.: Insomma, vorreste che noi la diamo vinta su tutta la

linea ad Ambrosetti. ON.: E aspetteremo il tempo della rivincita. RoB.: E i documenti glieli lasceremo in mano per poterci

offendere quando egli vorrà, tenendo così sospesa sopra di noi la spada di Damocle?

ON.: I documenti si lasceranno. ANDREA: Ambrosetti non lo farà? FED.: E allora, tenteremo altri mezzi. SER. : Consentiti dalle necessità. ANDREA (a sé): fingono o dicono sul serio? o sogno. Mi uni-

sco con loro? e se? ... in ogni caso, potrei sapere e tentare di sal- varlo; sì, Ambrosetti, se corri pericolo, Andrea ti salverà ... figli, avvenire, vi rinunzia l'infelice Andrea.. . travagliato dai rimorsi.. .

ON. (ad Andrea): Ebbene? Che ne pensa? ANDREA: Si tenti. ON.: Ma, in ogni caso sarà nostro. ANDREA: I1 destino mi vi astringe. ON.: Ebbene; Fedeli domani tenterà le vie pacifiche. Doma-

ni a mezzogiorno verrete al mio palazzo per stabilire ogni cosa. Io domani sera partirò per la capitale, donde vi potrò aiutare. Accor- tezza, prudenza, fiducia nelle nostre forze, e specialmente concor- dia. Raccomando ad Andrea specialmente concordia. I1 comm. Palica è il capo del partito e rappresenta me; a lui scriverò le nor- me da seguire. Io fido in voi; o ci salveremo tutti o la rovina sarà comune. L'onorevole di San Baronio non abbandona gli amici nei pericoli; e sa dividere con gli amici anche le disfatte e le sconfitte. Ma coraggio! Se la via è pericolosa, se occorre sacrificar anche Ze

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più radicate convinzioni e i doveri, e la nostra salvezza lo esige, non indietreggeremo né sgomenteremo. Agli audaci arride fortuna.

RoB.: Le parole dell'onorevole resteranno come sacro ricor- do e come norma del nostro operare. Io non avrei voluto, lo dico chiaro, inchinarmi ad Ambrosetti e chiedere soccorsi; lo vuole l'onorevole, e il dovere di concordia e di disciplina, mi fa cedere. Speriamo che l'esito sarà pari alla speranza. In ogni caso, saremo uniti nella vittoria e nella sconfitta.

Tutti: Uniti sempre. (si stringono la mano) ON.: Buona sera, commendatore; arrivederci domani. ROB. : Onorevole (lo accompagna alla porta) FED. : Onorevole. SER. : IO la accompagno. ANDREA: E anch'io. ON. : Grazie, amici. (via) SER. : Dovere. (via) ANDREA (a sé): Maledetto il momento che vi conobbi, Pali-

ca e di San Baronio. (via)

Scena I X

Fedeli e Roberto

RoB.: E così? FED.: HO compreso che l'onorevole ha voluto uscirne nel

rotto della cuffia. RoB.: Tu, Fedeli tenterai; ma le condizioni alle quali io, io

sai, io non rinunzio, sono l'elezione a sindaco e la consegna dei documenti. Così, si dirà che non è mancato per noi risolvere la questione, e sarà più facile indurre Andrea.. .

FED.: Ma infine, si faccia a meno di Andrea ... ROB. : Egli parlerà. .. FED.: Parlerà? Non credo. RoB.: Forse lo diceva per dissuadermi. FED. : Certamente. RoB.: Ebbene; io chiamo Accarano; e concerteremo tutto

prima di domani. L'onorevole, prima che parta, deve deliberar

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con noi e con noi assumere la responsabilità. Ch'io mi pieghi ad Ambrosetti, ch'io rinunzi al comando delia città, ch'io rovini la mia posizione; no, non mai (entra)

FED. (solo): Quali imbrogli; ...q uali angustie! ... io non so quel che fare ... quel che tentare ... mi sembra che sogni! che sia ubriaco! ... Ah! povero Fedeli! povero Fedeli! ... Sì, son costretto di andare sino al fondo, son costretto di ubbidire ciecamente al- l'onorevole e al commendatore Palica. Sorte crudele!

(Roberto entra con Accarano) ROB. : Entriamo nel mio studio. Favoriscano. (Accauano e Fedeli entrano) RoB.: O a me la vittoria, o una rivoltella all'orecchio.

Fine del IV atto 1

l Come si è detto, il manoscritto manca del quinto atto,

186

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L'EDUCAZIONE RELIGIOSA E LE ASCENSIONI DELLO SPIRITO A DIO NELLE LOTTE DELLA VITA1

(f. 145, C. 4)

I. Son tornato ieri da Roma: ho l'animo pieno, esuberante di quella vita religiosa e spirituale che freme nella città santa, nell'anno santo: i popoli tornano a Gesù Cristo: italiani e francesi, tedeschi e svizzeri e boemi, spagnuoli e americani e austriaci, no- bili e plebei, operai e studenti, clero e popolo, uomini e donne, li ho visti in gran folla pregare prostrati alle basiliche maestose o gridare semplicemente evviva al Cristo in terra, al sovrano ponte- fice dei popoli, li ho visti ed ho pianto, per i cimiteri dei primi martiri e al Colosseo glorioso del sangue cristiano, in mezzo ai ricordi e alle glorie della vita della Chiesa che a Roma sublime giganteggia e regna.

Chi ha mai spinto i popoli dell'universo a Roma? quale ignoto sentimento, quale indistinta vaghezza ha tratto a migliaia tanta gente? Che cercavano essi? E' l'anno Santo, e i popoli tor- nano a Gesù Cristo.

Gesù Cristo ieri, oggi e nei secoli che trionfa, nei cuori degli uomini. Gesù Cristo che ritorna Re dei popo li... a Lui gloria. E' uno sfogo il mio? E' una dolce reminiscenza di un mondo chiuso ai profani e aperto ai credenti? E' un desiderio di migliore avve- nire? No1 so: sento che il mio cuore sussulta ... questa mane ho visto qua stesso che Gesù prendeva possesso di teneri cuori, che per la prima volta entrava ad assidersi in anime pure e semplici,

Discorso manoscritto datato 17 novembre 1900. I1 discorso fu pronunciato in Caltagirone per la prima comunione dei fanciulli.

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che benediceva coloro che vi lavorano, che si consolava con le pie Dame protettrici, anch'esse genuflesse al sacro altare.

Signori, Gesù Cristo ieri, oggi e nei secoli che trionfa ... a Lui gloria.

La commozione dolce, la santa voluttà dell'ora presente, ele- va gli spiriti nostri, e strappa dal nostro labbro gl'inni, e il nostro cuore inonda di gioia ....

Godiamo: le dolcezze spirituali si assaporano, si analizzano, si prolungano, e più son dolci, e più sono soavi, e più inebbriano; e si anela a cose maggiori e spinge potentemente avanti.

Avanti: è il grido dell'anima a Dio: 'avanti. Godiamo insie- me dell'ora presente, e la speranza ci arride, aneliamo a più grandi imprese.

11. Pausa alla folla degli affetti: il momento ci costringe a pensare. Quanti siamo? Quanti sono i nostri fanciulli che frequen- tano le compagnie catechistiche? Quanti stamane han ricevuto le carni immacolate di Gesù? Dirò pochi? E' questa una parola relativa: vuol dire che molti non son con noi, non frequentano le nostre compagnie, non si son fatti la prima Comunione.

E' una costatazione di fatto che ci preme: a me ed a voi, ma che non ci scoraggia ... no, no, tutto altro conosciamo meno che la diffidenza, lo scoraggiamento, la disfiducia nell'opera. Non è un solo l'acino del grano? e ne produce a migliaia ...

Guardiamo adunque serenamente e audacemente in faccia i farti. Sì, pochi: la bufera della rivoluzione è passata anch'essa fin sulle famiglie e sul santuario e ne ha scosso gli edifici con tanta cura e per tanti secoli innalzati dalla Chiesa. Un ambiente ostile di vita sociale ha scomposto gli animi dei cristiani, l'insana audacia di pochi si è sovraimposta ai molti, l'acquiescenza a un ordine disordinato di cose, orpellato dalle parole progresso e civil- tà, ha reso indifferenti avanti alle rovine sociali, o solamente ha strappato lamenti di indignazione agli animi vecchi del tradizio- nalismo passato.

E la rivoluzione ha trionfato: ma che valeva alla rivoluzione liberale trionfare dei presenti, se non pensava ai futuri? Una idea che vuole seguaci pensa ai giovani e ai fanciulli; e giusta- mente, essi son destinati alle lotte future del progresso o del

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regresso (poco importa), su loro si appunta lo sguardo di tutti. E il catechismo fu abolito ... e a poco a poco scomparve dalle scuole, ... fu poco curato nelle famiglie ... non fu più frequentato nella Chiesa. La rivoluzione vinse assai più che con l'abolizione degli ordini monastici '; la rivoluzione vinse per l'awenire.

111. Sarà un'esagerazione la mia? Non lo credo, ma lo lascio giudicare a voi, a voi padri e madri di famiglia, a voi i primi e naturali educatori dell'uomo.

Al venire di un uomo al mondo, noi esultiamo alla sua culla, i vincoli santi dei genitori si rafforzano, e il comune amore ha un oggetto degno di cure affettuose, di vivi, assidui, delicati pensieri, di esuberanti sentimenti, di una di quelle pure e sublimi trasfusioni di animo che si sintetizza nel bacio sulla bocca del neonato.

Ma quale sarà il suo awenire? L'ignoto siegue la culla, in- calza i primi passi vacillanti, assalta i primi vagiti e i primi desi- deri; l'ignoto di bene o di male, di virtù o di vizi, di verità o di errore, di felicità o d'infelicità!

Questo ignoto è spinta al fanciullo che cresce negli anni, che apre la sua mente al sapere, che svolge il suo cuore all'amore; questo ignoto è cura assidua, e desiderio intenso, è cruccio ine- sauribile ai parenti, gelosi del loro figlio, anelanti sino al sacrifi- zio che la pupilla degli occhi loro tocchi la felicità.

Oh! Le dolci corrispondenze, le solerti cure, le notti vegliate, i sacrifici intensi dei parenti per la felicità dei loro figli. E' la vita, o Signori, e la più bella vita, che compendia in sé tutti i rapporti civili, politici, economici, didattici della società, la vita di fami- glia, la vita per i figli in faccia all'ignoto.

Quando si conoscerà quest'ignoto? Quando si spezzeranno le dolci illusioni e si infracgeranno i vagheggiati desideri? Quando si afferrerà la realtà? E' forse un gioco la vita? E' forse un alea che si corre?

I1 bambino a poco a poco diviene cosciente; come si svilup- pano le forze fisiche, la mente si apre, il cuore sente, le passioni si destano ... esso è però come la cera che riceve l'impressione

Brano cancellato: « o con la proclamazione deiia libertà di stampa D.

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della forma, come il dagherrotipo che riproduce l'immagine, come il virgulto che cresce nel giardino, accarezzato dai venticelli, educato dalle brine, baciato dal sole, oppure al contrario rotto dai venti, inondato dalle acque, strappato dal turbine, e slanciato a marcire su arida terra.

L'ignoto si dirada, in faccia alla cura assidua, all'educazione accurata; così si provvede all'awenire, nonostante le dolorose sorprese della vita, così si munisce il fanciullo per la lotta e si avvia al trionfo.

Apre la mente il fanciullo, apre il cuore... guarda come traso- gnato le cose in una sintesi confusa, come l'occhio che non di- scerne ma compone, come la mente che non analizza ma confonde, come il cuore che intuisce ma non conosce. Quali saranno i primi palpiti, i primi pensieri, i primi affetti?

I primi: tutto quello che è nuovo, che è primo, resta indele- bile nell'animo dell'uomo: il vecchio ricorderà nelle sventure le gioie della gioventù, e nelle ultime gioie le prime sventure. I1 poeta amerà ricordare i primi versi, i primi dolori di artista, i primi trionfi, ... ogni uomo ricorderà il primo suo amore, l'ideale, il palpito primo, che forse ha determinato la sua vita ... Signori, lo sappiamo, lo sentiamo tutti, e non fa d'uopo ricorrere ai pe- dagogisti: il primo è spesso il tutto, è spesso l'ultimo della vita dell'uomo. Ma il primo dell'uomo che viene al mondo non è sola- mente un affetto, non idea sola, non una sola passione, il primo del fanciullo è sintesi della vita dell'anima, delle conoscenze della mente, degli affetti del cuore, che si svolgeranno nel corso degli anni.

Qual'è mai la vita dell'uomo? La mente reclama i suoi diritti e cerca il vero: nessuno si acquieta in faccia all'errore o si culla nel dubbio ... no, no, la verità alla mente, essa reclama i suoi diritti, date il vero al fanciullo; sarà la sua passione per tutta la vita. Questo tesoro inesplicabile, questo mare inattingibile, è il tutto per l'uomo, vi fonda la sua vita.

L'anima è mortale o immortale? I1 modo è creato o eterno? Esiste fuori e sopra del mondo un altro essere che è fine del mondo o non esiste? L'uomo corre verso la felicità o l'infelicità? Sono problemi del vero che ogni uomo intuisce, discute nell'animo suo, mette come lume al suo cammino; e avanti.

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Le conseguenze si tirano dopo le premesse: se l'anima è mortale, e dopo la tomba il nulla, godranno della terra e dei suoi beni; e se l'infelicità ne assale, una rivoltella all'orecchio tronca gli spasimi della vita. Se Dio non esiste, inutile la religione e i suoi misteri ... Se il mondo è infinito, noi con esso, nel turbine di sintesi e di analisi, di evoluzioni e di rivoluzioni, di corsi e di ricorsi, noi assorti in esso, esso in noi, si scomporrà il presente che genera il futuro, che ambo cadranno nel nulla.

Signori, dateci la verità: è questa? è un'altra? E' il catechi- smo? E' la proclamazione della Dea Ragione della rivoluzione francese? E' l'inconoscibile di Spencer? E' la materia di Lombroso?

La natura e la fede decidono, noi vogliamo la verità ... E la verità si insegni al fanciullo: la lotta delle idee è vivace, è con- tinua, è formidabile nel mondo. Le bandiere dei due campi oppo- sti sono levate: si aspettano le nuove reclute che vengano nel mondo, i fanciulli, i giovani, che si slanceranno nella mischia ... e la verità trionfa. Trionfa, ma sui cadaveri corrotti dei figli dello errore, sulle anime spezzate e infrante, sulle società cadute, sulle infelicità ...

Il padre e la madre sono responsabili se i loro figli bevvero i primi sorsi alla fonte degli errori, se si arruolarono sotto la ban- diera del male, se caddero anch'essi nella lotta, se seguirono le vie dell'infelicità, se per essi si piangerà e si dolorerà con mag- giori ululati delle madri di Betlem e di Giudea, a cui Erode strap- pò i figli dal seno e li sgozzò.

Essi dovevano diradare l'ignoto dei loro figli e prevenirli, ed educarli; ad essi tocca il magistero primo della verità; essi che devono avviare i fanciulli pel cammino della vita.

Ma la verità sola non basta: noi siamo destinati all'azione. La nostra volontà, ricca di tante energie, ci spinge a fare: i nostri sentimenti predominano spesso la mente e noi aneliamo al be- ne e alla felicità.

Sì, la felicità l'anela anche il bambino, anche il bambino ama e vuole ... le bellezze della terra e del cielo sono aperte al suo sguardo; parenti, amici, compagni sono oggetti dei suoi desideri, egli sente la forza del suo cuore e l'esuberanza dei suoi sensi, la vita vertiginosa del suo sangue caldo ... Date, date, o parenti un oggetto di amore, un oggetto di bene al vostro fanciullo: educate

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i suoi teneri e pieghevoli affetti, scrutate i misteri del suo cuore, anch'esso ha i suoi misteri ... lo volete felice?

E voi? Voi siete felici se cercate i beni della terra? Vi rende felice il denaro che accumulate? Gli agi che ricercate? Gli onori che coprite? ... Gli amori terreni che vi agitano il cuore?

Date la felicità al vostro bambino, e date il bene. Sarà il suo ideale per tutta la vita: lo cercherà nelle atroci sventure, nelle gioie intime, nelle lotte dolorose ... sarà il suo primo e intiero palpito, la forza del suo dovere, la sua costanza, la sua gloria ...

Pel bene comprenderà meglio il vero: anelerà a possederlo, correggerà i suoi vizii, emenderà i suoi difetti, comprimerà le sue passioni, intuirà il bello come immagine del vero, come rifles- so del bene, si eleverà sopra tutto ciò che non è il bene e tenderà alla felicità come la pietra al suo centro, come l'uccello alla cova, come il pesce all'acqua ... l'ignoto è spezzato, o signori, il giovane corre, anela alla realtà: il vero e il bene.

IV. L'ho detto: siam pochi; quanti fanciulli operai, quanti bambini della classe colta, quanti giovani studiosi sono stati traditi dai loro parenti?

Sì, traditi. La parola è dura, è dolorosa, e piange l'animo a pronunziarla.. . e sanguina il cuore.. . traditi.

Nelle loro piccole menti cercheranno il vero, oimé, ma forse non lo troveranno ... nelle angoscie del loro cuore aneleranno al bene, e trovano l'infelicità ... rianderanno i primi anni, i primi insegnamenti, i primi affetti ... Chi ha insegnato loro a bestem- miare Dio? Chi loro ha detto che colla vita tutto passa quaggiù? Chi loro fa cercare terreni affetti finiti come la suprema felicità, come l'ultimo fine? Chi loro mette in mano i pessimi romanzi che finiranno per guastar quell'anima? Chi loro fa anelare al denaro, agli onori come il tutto in cui si concentra il cuore del- l'uomo? Chi ha uccisa l'anima della gioventù?

Signori, il cuore è gonfio e ha bisogno di sfogo: nell'anti- tesi della felicità di questo giorno e delle emozioni e dei ricordi della Roma cristiana, è la vita quotidiana del giovane corrotto, miscredente, della società apostatata da Dio, che tutto giorno abbiamo sott'occhio, si scorgono meglio la luce e le tenebre di questa vita dolorosa, si rivela più palpabile il bene e il male, e

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il grido angoscioso (ma non disperato) viene alle labbra pei figli traditi, per la tradita società.

Essi non sono più giovani, sono uomini, sono professionisti o proprietarii o operai, sono padri di famiglia e cittadini, sono preposti ai pubblici ufficii, fanno leggi o amministrano la giusti- zia, governano la società o concorrono col diritto del voto, rego- lano commerci, industrie, insegnano nelle scuole o nelle univer- sità, esplicano in una parola tutte le forze nella vita famigliare e politica, in tutti i rapporti generali di vero e di bene, in tutte le evoluzioni del progresso e della civiltà. La loro influenza si esten- de alle generazioni venture, comprende le forze dell'intelligenza e del volere, supera il temporaneo corso degli avvenimenti, lega i popoli.

Avete creduto mai, per un sol momento, che la società possa regolarmente esistere senza la religione? Avete sospettato mai che la vita pubblica sia tutt'altro e non il riflesso della vita privata? Giudicate diversi e contrari i doveri sociali dai doveri individuali, la felicità del cuore di ciascuno dal pubblico benessere?

Signori no: il catechismo, questo libricino [ sic] disprezzato ma santo, piccolo ma immenso, è il codice della società come dell'in- dividuo: quando si volle abolito il codice divino, cadde sotto i colpi della rivoluzione il codice umano, e quando si tentò di togliere Dio, fu fondata sull'arena l'autorità, la famiglia, l'ordine sociale.

Voi siete cittadini e lo sapete, e fremete ai disastri morali della patria, all'aumento dei reati pubblici e privati, alla mancanza di fiducia e di onestà, alle minaccie rivoltose dei socialisti e ai delitti efferati degli anarchici.

Quale operaio senza il timor di Dio, .senza le sublimi spe- ranze della fede si contenterà stentare su questa vita misera e piena di dolori, e non cercherà di ribellarsi per avere anch'esso parte ai gaudii della terra, quando tutto finisce?

E quale spostato non cercherà sollevarsi truffando, e qual galantuomo ultimo stampo non giuocherà all'alea della specu- lazione disonesta?

E' inutile la legge che non si basa su Dio e le società crolla- no sotto il peso dell'immoralità e del disordine.

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E nel crepiti0 degli edificii sociali che si sfasciano per decre- pitezza o al rimbombo dei martelli demolitori dell'anarchismo socialista, sorge il grido dell'anima umana che cerca la felicità; quella felicità, quel bene che non fu insegnato loro quando giova- netti potevano amarlo con le prime forze dell'animo, o che pote- vano, dopo averlo amato, sentire il rimprovero del rimorso della propria coscienza.

I1 male inonda, si grida da molti, corriamo al riparo: le dighe sono scomparse, saliamo alla montagna: prima che le acque ci affoghino invochiamo il sereno, e cerchiamo le cime, le cime alte del monte santo di Dio. Dio, ecco il proscritto: dalla famiglia, dalla scuola, dalla società, dal cuore dei nostri fanciulli. Eppure è impossibile frenare il grido, indarno se ne attutisce il desiderio, invano si lega la coscienza: è Dio, cui anela l'anima assetata di bene e di vero, la società desiderosa di pace e di benes- sere.

Dio: quando le lacrime del dolore spuntano sul nostro occhio, e gli uomini sono incapaci di confortarci, egli viene e si asside al capezzale dell'infermo che lo amò fanciullo. Allora si ricorda i1 giorno della prima comunione, l'affetto vivo per quella ostia santa, la pace dei giorni sereni, conservati al dovere, non turbati dalle passioni, non rattristati dalla colpa.

E quando, nelle lotte per la vita, nelle disdette della fortuna, nelle tentazioni contro il dovere, nei tentennamenti del carattere, nelle aberrazioni della mente, si cerca un punto fermo, un rifugio sicuro, un asilo inviolato, torna Dio alla mente e al cuore, il suo amore e i suoi premi, la sua giustizia e la sua misericordia.

Dio: è il supremo rifugio dell'anima umana e della società, nella famiglia spesso turbata da contrarii affetti o sconquassata dal predominio delle passioni; delle pubbliche appartenenze so- ciali, che spesso rivelano ingiustizie con la trascuraggine dei propri doveri, e la violazione degli altmi diritti, nella esplicazione di tutta la vita che o sarà basata sull'egoismo e sul male o sull'amore e sul bene.

Dio è amore: è l'elevazione del più bello dei nostri senti- menti e della esplicazione delia nostra vita. Amore è la sua legge e amore sono i suoi comandamenti, e amore tutti i rapporti della umana società.

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Amore fino al sacrifizio, amore che illumina e illustra l'in- telletto, riscalda il cuore, accende le forze e sublima.

Oh! Voliamo sulle ali di questo amore quanti siamo uomini e società, voliamo a più aIta sfera, a più sublimi ideali, a più santo termine.

Chi m'insegna quest'amore che fa dimenticare sé stesso per gli altri, la terra pel cielo, l'uomo per Dio?

Voliamo: fratelli, non vi avrà più diffidenza e odio fra gli uomini, figli di Dio, non cercheremo più la terra finita e i suoi piaceri; cittadini celesti ordineremo la patria terrena a fine più alto, nella pace e nella giustizia che ci daranno l'amplesso di pace.

E' poesia? E' lirismo? Lasciatemi la mia poesia divina; la sentono anch'essi, i miei bambini, che stamane han ricevuto le carni immacolate di Gesù: la sentono esuberante in una vita nuova, nella vita dell'amore. La sentite voi, Dame protettrici, che provvedete all'anirna dei nostri bimbi con solerzia e amore, non perdonando a fatiche, la sentite voi o direttori, o catechisti, o socii dei Comitati Cattolici o delle Sezioni ... E' poesia?

E se non fosse, e se venisse meno questo slancio lirico di elevazione dalla terra al cielo che sarebbe I ' u o ~ o ?

O Gesù, e non siete Voi, l'amore che destate, la più subli- me poesia del pensiero, lo slancio più puro degli affetti?

Non siete Voi la pietra angolare della Chiesa, la pace della società, la felicità degli uomini, il gaudio degli angeli, il Verbo di Dio?

In alto, in alto i cuori: le nostre fatiche come il nostro amore per gli uomini è lo stesso amore di Gesù, di Gesù che oggi trionfa nella società paganeggiante.

DiamoGli i fanciulli, Egli li vuole, lasciate, Egli dice, che i pargoli vengano a me. Fate che Egli li baci in fronte i nostri pic- cini, che sorrida al loro sorriso innocente, che li stringa al Suo seno nella dolcezza del Suo amore.

Egli li salverà; mentre rugge la bufera rivoluzionaria attorno a loro, mentre il turbine sociale imperversa, mentre cadono schiantati dai fulmini i tronchi degli alberi che verdeggiano nella scura foresta del tempo presente, mentre lupi feroci e tigri sanguinarie cercano i corpi dei feriti, nella perversione del mondo, Gesù sarà asilo e ricovero, pane e gaudio ....

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E voi, fanciulli fortunati e felici, che Gesù avete nel vostro cuore, ricordatevi sempre di questo giorno: sia indelebile a voi nei giorni dell'anno, sia il più caro di vostra vita.

Quando nelle lotte e nei dolori, nelle tentazioni e nelle im- moralità, nelle effimere gioie e nei passeggeri trionfi, rivolgerete la mente indietro ... ricordatevi questo giorno, quando Gesù venne la prima volta in corpo ed anima a baciarvi e farvi Suoi, quando lo Spirito Santo discese a irrobustirvi e rendervi forti, quando la fede e l'amore aleggiarono sul vostro capo, consacrandovi intera- mente al cielo.

I n alto, in alto i cuori: se la società futura salvata dagli errori presenti benedirà ai suoi benefattori, ricorderà la vostra prima Comunione, la presente società, che si dibatte angosciosa nel dubbio di una catastrofe, vi designa alla lotta: e se dolori, lacrime sacrifizii suonano sul mio labbro in questa sera, o fan- ciulli dolcissimi, o madri, o Dame cattoliche, o Signori, che monta? A noi ci spetterà scender nella tomba col pegno dell'immortalità e con la speranza che i nostri figli, nel secolo che già sorge, porte- ranno ai nostri monti, dove abbiamo innalzato le statue di Gesù Redentore, le corone votive del trionfo della religione.

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NOTE SOMMARIE PER L'ORGANIZZAZIONE DELLE UNIONI PROFESSIONALI NELL'INTERNO DELLA SICILIA l

(f. 115, C. l )

Parte I Classificazione

Le diverse condizioni delle arti e dei mestieri, obbligano ad una classificazione obbiettiva, anzicché teorica, fondata sulle reali esigenze del lavoro in rapporto alla possibile organizzazione delle unioni professionali.

A) La forma predominante è il piccolo artigianato; esso merita tutta l'attenzione e lo studio più accurato.

B) Poche sono le fabbriche del tipo della grande industria, con un certo numero di salariati; e queste fabbriche sono isolate, appena una o due in qualche città dell'interno; industrie princi- pali sono quella dei turaccioli, i pastificii, i mulini a vapore, e qualche fabbrica di alcooly [sicl ecc.

C) Nelle province zolfifere vi è l'industria della estrazione e manufazione dei zolfi, che per le sue condizioni speciali va esa- minata a parte.

1 I1 manoscritto datato: Caltagirone, 25 settembre 1901. Fu redatto da Sturzo in vista dell'adunanza annuale della sezione economica-sociale-giuridica della Società Cattolica Italiana per gli Studi Scientifici, adunanza che si tenne a Mi- lano il 3-4 ottobre 1901 presso la sede del Gabinetto Cattolico, e che ebbe per tema «Unioni professionali e contratti di lavoro ». Cfr. la lettera di Toniolo a Sturzo del 16 settembre 1901 con annessa la tessera-invito, A.L.S. f. 160, C. 53. Qualche brano del documento è già stato citato da G. DE ROSA, I, pp. 404-406.

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A) Artigianato

Natura

I1 capo-bottega o il capo-mastro che dispone di qualche piccolo capitale, assolda a giornata o a cottimo tre, quattro o più lavoranti (in certi mestieri si fa aiutare dalla moglie o dai figli). Egli si forma una clientela più o meno numerosa e lavora o a ordinazione o ad appalto, o per fornire un piccolo magazzino di manufatturati, che vende J richiesta o per le borgate vicine, nei giorni di fiera o mercato, nelle feste ecc.; o impiantano nei comuni vicini delle botteghe succursali. Per lo più il lavoro è a mano; poche sono le macchine in uso e queste molto primitive.

Condizioni

Quasi da per tutto l'artigianato versa in condizioni tristi per le seguenti cause:

a) Per la forte concorrenza delle grandi fabbriche estere o nazionali di materie prime (tessuti, cuoiami, legno tagliato ecc.) son venute meno le industrie paesane di tali generi. Ne è venuto di conseguenza che sono aumentati i lavoratori dei manufatti atti al consumo, e si è creato il monopolio della rivendita delle materie grezze; essendo pochi (che facilmente s'intendono fra loro) o spesso uno solo quello che ritira tali materie e le tiene disponibili nelle piazze delle città e borgate dell'interno dell'isola.

Né agli artigiani riesce facile comprare dai grossisti, poiché essi non ànno [sic] capitali disponibili e devono invece ricorrere al credito presso gli stessi negozianti al minuto, che si rifanno alterando i prezzi e anche imponendo non di rado gravi condizioni.

b) Potrebbero gli artigiani rifarsi delle spese per le materie prime sui consumatori; però ad aumentare la clientela e per avere il lavoro quotidiano esercitano fra di loro la più spietata concor- renza, per cui il lavoro riesce niente remunerativo. La concor- renza spesso arriva al colmo nelle fiere e nei giorni di feste pubbli-

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che e di mercato. Né la concorrenza si limita fra gli artigiani d'una stessa borgata o città; perché molti, dopo aver prodotto un certo numero di oggetti vendibili pel consumo privato (scarpe, oggetti di ferro, di latta ecc.) vanno in giro per le città e borgate vicine (a 20 a 30 e anche a 50 chilometri di distanza) e, sia per le spese di viaggio, alloggio ecc., sia per il buon nome (essendo indecoroso tornare in casa con la merce invenduta) vendono addirittura a baratto, rovinando sé e le piccole industrie dei luoghi ove si recano.

C) Per tale concorrenza rovinosa, per la mancanza di capitali, per lo smercio che diminuisce sotto la pressione delle crisi agra- rie, per i debiti contratti, diminuisce il lavoro; e molti artigiani passano delie settimane e dei mesi di vera disoccupazione.

d) Queste condizioni premono fortemente sui salariati a giornata o a cottimo (giouani di bottega) presso i capi-bottega (principale).

La paghe sono sottigliate e spesso irrisorie; facile il licen- ziamento per mancanza di lavoro. Viene così a cessare quella tra- dizionale stabilità, per cui il giovane di bottega diveniva come uno della famiglia del principale, e rimaneva a lui legato dai primi anni sino alla vecchiaia, perfezionando l'arte e ricopiando la tra- dizionale abilità della piccola fabbrica. Oggi invece facile è il passaggio da una bottega all'altra in cerca di lavoro e di meglio. E quando il giovane di bottega, con poca perizia ed esperienza, e senza capitali, può metter sù una botteguccia, sicuro che guada- gnerà qualche cosa di più accentuando la concorrenza e rovinando l'arte (come si dice), accresce la turba dell'artigianato misero che finisce nella rovina e ne aumenta i mali .

In questa lotta quotidiana si sostengono a stento i pochi, che hanno la casuccia propria, qualche piccolo fondicello, non ancora rapito dal fisco, o qualche sommetta raggranellata ai bei tempi, o una tradizionale e fida clientela, che a poco a poco va sparendo.

Parecchi cercano ottenere qualche stipendio o suonando nelle bande musicali, o da serventi ai Municipii e alle Congregazioni di Carità, nel dazio di consumo, nel servizio di illuminazione delia città o presso i privati, o infine divenendo dei buoni segtcgi elet- .torali.

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Murifabbri

I murifabbri partecipano in parte della condizione dell'arti- gianato. Essi lavorano a cottimo o a giornata. I capi-maestri assu- mono i lavori (spesso ad appalto) e rimunerano essi i lavoranti, o li fanno rimunerare, dietro patto, dai privati committenti.

I mali principali sono: a) i capi-maestri nei lavori ad appalto ad asta pubblica o

privata si rovinano con la concorrenza. b ) per non lavorare a perdita diminuiscono i salarii dei

manovali, e frodano nelle costruzioni. C) gravissimo male è la disoccupazione a sbalzi e anche per

lunghi mesi. I

Rimedi e difficoltà

Rimedio fondamentale, ed elemento primo di possibili mi- glioramenti è l'Unione corporativa per gli interessi professionali. Con questo mezzo si potrebbe arrestare la concorrenza; fissare i giusti salarii dei lavoranti; formare delle cooperative di lavoro, per provvedere all'acquisto delle materie prime e alla vendita dei manufatti; fondare deile cooperative di credito per avere i capitali necessarii.

Una serie di difficoltà si oppongono: . a) Per lo spirito di isolamento, l'educazione, l'alterigia della

propria abilità professionale, il corrivo della lotta, difficilmente gli operai siciliani del piccolo artigianato si uniscono in corpora- zioni. A ciò si aggiunge la diffidenza tradizionale pel prete, che credono legato ai cappeddi (borghesi), e il gran rilassamento dello spirito religioso e della vita cristiana, per cui le Unioni profes- sionali promosse dai cattolici riescono più difficili.

b) Non potendosi riuscire a organizzare tutti i capi-bottega di una data arte, quelli che sarebbero disposti a unirsi insieme temono che, cessando dalla concorrenza, si alienino i clienti, che passeranno ai refrattari

C) Né riesce facile organizzare i giovani di bottega (salariati) per un giusto rialzo di mercede, perché è impossibile la resistenza,

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dato il gran numero di braccia senza lavoro che invilisce la mano d'opera, l'offerta superando la domanda, e date le condizioni infe- lici dei capi-bottega.

d) L'unico mezzo possibile a una prima organizzazione di classe, da cui potrebbesi derivare tutti quei miglioramenti sopra indicati, sarebbe rompere il monopolio delle materie prime del lavoro fondando magazzini sociali, che dovrebbero acquistare le merci dalle grandi fabbriche e venderle allo stesso prezzo ai soci- lavoranti, più le spese di amministrazione. Così molti si assoce- rebbero al magazzino per avere un vantaggio, che se non si ha, si rimane nella concorrenza, in condizioni inferiori. Quando i soci saranno la maggioranza dell'arte, potranno togliere la concorren- za, stabilendo le tariffe unitarie e obbligatorie.

Migliorate le condizioni dei capi fabbrica, ne verrebbero anche migliorate quelle dei salariati, per cui la corporazione stabi- lirebbe il minimum giornaliero o a cottimo.

Infine, se il magazzino può avere un capitale sufficiente, potrebbe accettare la merce manufatta come pegno nei mesi quando la si preparano i lavori per i mercati di està [sic], o quan- do le richieste della clientela vengono meno; con la cautela però che il lavoro manufatto non superi le richieste di piazza, e alla concorrenza dei fidi che potrebbero accordarsi ad ogni capo-fab- brica Isic].

B ) Turacciolai e salariati delle grandi fabbriche

Natura e condizioni e uimedi

Turacciolai - Essi lavorano o a cottimo o a giornata nelle fabbriche (grandi o piccole). I1 lavoro è mediocremente rimunerato e non da per tutto, perché l'offerta della mano d'opera supera la domanda. I1 peggio si è che il lavoro non è stabile e per lo meno cessa quattro o sei mesi l'anno a interruzioni e a sbalzi, perché spesso o cessano le richieste di turaccioli, o vengono meno i capi- tali, o la scorza di sughero è incettata ed esportata, facendo venir meno il genere nelle piazze di lavoro.

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La fondazione delle cooperative di lavoro è l'unico mezzo di miglioramento, perché la fabbricazione dei turaccioli è abba- stanza rimunerativa. Però occorrono molti capitali.

Per l'aumento dei salarii non è molto difficile tentare la coalizione, quantunque vi sia esubero [sic] di braccia; perché questa classe è educata allo spirito di corpo.

Salariati nelle fabbriche - Le fabbriche sono poche e piccole: per lo più mulini e pastifici. Spesso in tali fabbriche il lavoro è enorme (16 o 17 ore) e i salari bassi, tranne lodevoli eccezioni (ad Acireale nel pastificio Sampieri: lavorano: ore 16 e 18; salarii da 0,50 a L. 1,50 e L. 2).

Essendo i lavoratori pochi di numero e le fabbriche sparpa- gliate in centri isolati, è difficile la organizzazione sia pel timore del licenziamento, sia per la concorrenza delle braccia.

C) Zolfntai.

Stante le condizioni speciali di questa classe, occorre una monografia speciale.

Parte I1

I primi tentativi in Caltagirone t

Nel 1895 fu fondata dall'opera dei Congressi di Caltagi- rone una Sezione Operaia con lo scopo di organizzare la classe operaia, educata nello spirito del programma dell'opera, e infine, quando fosse maturata e numerosa, dividerla per arti e mestieri, mantenendo l'unità dell'organismo.

Le difficoltà politiche e religiose, la nessuna cultura, le diffi- denze tradizionali verso il clero e la borghesia, fecero lento il cammino, benché progressivo e i soci da quindici crebbero a 400 circa con una società di giovani operai.

2 Città della prov. di Catania, capoluogo di circondario e Sede Vescovile. Abitanti 45.000 [N. d. S.].

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Finalmente nel 1901 si è deliberato dividere la Sezione in gruppi professionali, restando uniti per il movimento religioso ed elettorale, e per la direzione di classe.

Nove sono i gruppi esistenti; alcuni composti degli artigiani di diversi mestieri, in certo modo affini. E ciò per il poco numero di soci. In seguito si procederà ad una più specifica divisione..

1. Sarti - 2. Calzolai - 3. Murifabbri e stovigliaii - 4. Falegna- mi ed ebanisti - 5. - Turacciolai - 6. Fabbriferrai e stagnini - 7. Barbieri, domestici, impiegati e salariati - 8. Pastai, panettieri e sensali - 9. Industriosi, cordai e rivenditori al minuto.

Parecchie arti non sono ancora rappresentate. Ogni gruppo nomina un proprio rappresentante. Tutti i gruppi insieme nomi- nano l'ufficio di presidenza, composto dal Pres[idente] - Vice- pres[idente] - Cassiere - Segrretario] - Vice Segrretario]. L'uf- ficio di presidenza e i vari rappresentanti dei nove gruppi forma- no il consiglio di lavoro. Ogni gruppo, per gli interessi professio- nali, è autonomo; i deliberati devono essere approvati dal Consi- glio di lavoro.

Vi è l'Assistente Ecclesiastico e l'Opera dei Congressi vi nomina il delegato del lavoro.

Alla pratica

1. Per tutte le arti riunite esiste la Cassa di Mutuo Soccorso fondata nel 1896, la Cassa Rurale e di piccoli prestiti (1896) - e la Cooperativa di consumo (1901) non ancora messa in funzione.

2. I sarti e i calzolai hanno deliberato di fondare le coope- rative proprie, stabilire le tariffe ed elevare i salarii. Sono in corso i lavori: la difficoltà stà nel formare i capitali; però si cerca di superarla.

3. Per i turacciolai si è impiantata una fabbrica di turaccioli; e fra non quasi sarà aperta. Già è stato acquistato il sughero per L. 26 mila, imprestato da una persona. Gli utili netti andranno agli operai, i quali rilasceranno un tanto per cento per gli impre- visti e per formare un capitale proprio.

4. Per i murifabbri si sta studiando una cooperativa di la- voro. Serie sono le difficoltà.

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5. I1 Comitato Diocesano, per agevolare le fondazioni di tali cooperative, ha deliberato la istituzione di una Banca Federale per azioni, con fondo speciale per la diffusione delle cooperative, e con una Giunta federale per la sorveglianza.

6. Nel Circondario ci sono dei nuclei operai con qualche opera economica. L'organizzazione professionale non è ancora attuata. In generale nell'interno dell'isola si dorme mentre i socialisti si estendono a gran passi.

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NOTE SOMMARIE SUI CONTRATTI AGRARI E LE COOPERATIVE AGRICOLE DI LAVORO

IN SICILIA ' (f. 115, C. 2)

I contratti agrari in Sicilia variano spesso da Comune a Comune, e sono diversi, secondo che piglino la forma di affitto o di mezzeria, o di colonia o di inquilinaggio o di gabella; se- condo che riguardi il latifondo o la media proprietà, la cultura dei cereali, delle viti, degli orti, dei giardini, degli ulivi, dei mandorli ecc.

Dovendo riferire sui contratti agrari in ordine alla istitu- zione delle Cooperative Agricole per la condotta dei latifondi, limito queste note sommarie ai contratti agrari più in uso nelle regioni del latifondo a cultura di cereali, nell'interno dell'isola, e ai rimedi possibili con la istituzione delle Cooperative Agricole e delle Unioni Rurali.

Parte I

Contratti agrari per la condotta dei latifondi a cultura di cereali

I. - NATURA

Colonia o affitto

I1 proprietario cede il latifondo a due o più persone in solido, per la durata di anni 6, con il corrispettivo annuo di una somma in

1 A margine del titolo Smzo annota: « Pel Congresso Scientifico sociale a Milano (ottobre 1901) ». Cfr. nota I del doc. 12.

Nei vari luoghi questa forma di contratti assume nomi diversi [N. d. S.].

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denaro, parte in anticipo come capitale morto da compensarsi alla fine della Colonia, e il resto a rate per lo più quadrimestrali. I1 proprietario, che spessissimo vive lontano nelle grandi città, non assume alcun obbligo tranne la regolare consegna del fondo con le seguenti condizioni: 1) Una casa colonica, in relativo stato locativo (per lo più le case coloniche sono antigieniche, piccole, insufficienti ai bisogni dei coloni); 2) Una terza parte del fondo intevrozzuto (cioé incolto) da due anni per essere dissodato nell'anno seguente; 3) Qualche vena d'acqua o qual- che pozzo, o il diritto di abbeverare gli animali in qualche fontana vicina. In certi latifondi nell'està [sic] si ha grande penuria di acqua; 4) Del fieno o paglia data in consegna.

Il colono deve: 1) riconsegnare la terra, la casa, i con- dotti di acqua e la paglia come gli fu consegnata; 2) Rinunziare a tutti i benefici dei casi fortuiti; 3 ) Pagare l'annuo estaglio; 4) Dare al padrone i carnaggi, cioé caci, galline, pecore nel nu- mero e nei tempi stabiliti; 5) Pagare in parte il campiere (guar- dia del padrone) e concedere a questo, a un prezzo stabilito, alquanti ettari di terreno per coltivarli.

I1 colono o gabellotto o affittavolo è il capitalista della classe degli agricoltori e appartiene spesso alla grossa borghesia speculatrice; rare volte è un agricoltore effettivo.

Egli, avuto il feudo, lo fa coltivare per lo più al ceto medio degli agricoltori (burgisi, paraspulari, massari ecc.) i quali non di rado hanno muli o giumente e qualche soldo messo a risparmio.

Diversi, secondo i luoghi e le tradizioni, sono i contratti; i principali sono: A) Subafitto; B) Mezzeria; C ) Inquilinaggio; D ) A conto proprio:

A) SUBAFFITTO - I1 gabellotto divide il latifondo a sperzoni e lo concede ai lavoratori, dietro un annuo estaglio in denaro, che assai spesso rappresenta il doppio o anche più del prezzo, che il colono deve relativamente al proprietario.

Più concede le semenze al 30% tra la semina e il raccolto (nove mesi); i sussidi in denaro o in derrata per le varie spese colturali; gli aratri, quando il subaffittuario non ne è provvisto, e dietro un compenso fisso.

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I1 subaffittuario inoltre è obbligato a concimare il terreno, a pagare le spese di assicurazione, di guardia sull'aia, del Santo (cioé una contribuzione obbligatoria per la festa del Patrono del Comune a cui appartiene la terra) e anche la ricchezza mo- bile. I contratti per lo più si fanno in forma privata.

B) MEZZADRIA - La forma di mezzadria è complicatis- sima e variano i patti di anno in anno secondo la rotazione. Le forme però dei contratti secondo le diverse rotazioni sono le se- guenti a) Maisi netti (maggese); b) Ristucci pri lauuri (stoppie rovesciate, sulle quali si semina frumento) oppure tirreni a pru- venni (semina di orzo, avena, ecc., cioè provvigioni - pruvenni); C) a pascolo; d ) Tirreni a favata (semina di leguminose).

I1 gabellotto perciò dà all'agricoltore il terreno, diviso sem- pre a spezzuni, e alle seguenti condizioni (non sono le steqe in ogni luogo ma si assomigliano):

a) Maisi netti. I1 gabellotto ha l'obbligo: 1) di far disio- dare il terreno coi propri aratri al contadino che dovrà seminarlo l'anno seguente; 2) di dar le semenze di frumento.

Ha il diritto: 1) alle semenze più il 30% e spese di guar- diania, camperia, Santo e assicurazione e altre piccole spese, che si prelevano dalla massa del raccolto; 2) sul resto del prodotto ha diritto a tre parti contro una, che appartiene al coltivatore; 3) ha diritto alla paglia, meno un carico di paglia per ogni salma di frumento (ettolitri 3,435) che è toccato al coltivatore.

11 contadino deve coltivare la terra, ararla, seminarla, ecc., e ha il diritto a 1/4 del raccolto, detratte dalla massa le semenze e gli interessi e i diritti surriferiti, e a un carico di pagIia (a scelta del gabellotto), che per lo più è la peggiore.

b) Ristucci pri lavuri. Dopo la raccolta del frumento riman- gono le stoppie; il gabellotto può rovesciarle e sopraseminarvi di

Guardiania è la guardia del frumento sull'aia, perché non venga aspor- tato. Carnperia è la guardia del campo durante l'anno. Per l'assicurazione del frumento contro gli incendi il mezzadro e il subaffittuario pagano in derrata il quadruplo del premio [ N . d. S.].

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nuovo frumento. La produzione è minore di quella che dà il terreno a maggese, perché già il terreno è in parte sfruttato. I l gabellotto dà le sementi, gli aratri, ecc.; il mezzadro deve il lavoro; al raccolto, dalla massa del frumento si detraggono le sole spese di guardiania, camperia, assicurazione e Santo, e poi si divide, spettando due parti al gabellotto contro una parte al coltivatore; oppure, dove il terreno è migliore, cinque parti al gabellotto, contro due parti al coltivatore.

Quando, o per patto col padrone del feudo o per conve- nienza, non si può sulle stoppie seminare frumento, vi si se- mina orzo o avena (tirreni a pruuenni). Le condizioni sono le stesse dei ristucci prilavuri; però, prima della divisione, dalla

\ massa del raccolto si preleva la semenza calcolata al doppio, ag- giungendo un aggio per il mancamento della crivellatina, oltre la guardiania e le altre spese succennate.

C ) Pascolo. I1 gabellotto affitta il terreno per pascolo a un prezzo stabilito (per lo più 5 o 6 onze la salma, cioé da L. 63 o 70 in circa e perfino a 100 e più) oltre i carnaggi (caci, pe- core ecc.). Tutto a proprio conto. I1 concime resta sul luogo e non si può asportare.

d) Terreno a favata (semina d i fave o altre leguminose). Questo affitto è per due anni, cioé chi coltiva il terreno a favata, ha il diritto di coltivarlo l'anno appresso a frumento con i patti riferiti al paragrafo maisi netti. I1 patto per la favata può essere a metà, cioé il raccolto si divide a metà tra gabellotto e colti- vatore; in questo caso il gabellotto ha diritto solo (oltre la metà del raccolto) a quattro tumoli4 per compenso. La semenza è gra- tis. Ciò si fa pei terreni favorevoli, dove la lupa non distrugge il raccolto. Nei terreni non favorevoli, il gabellotto concede tutto il raccolto al coltivatore, il quale è obbligato a ridare la semenza e gl'interessi al 35% o 30% in agosto. Se, come avviene, la terra non rende, tutto il prodotto è devoluto al gabellotto per com- penso della semenza; e se, dopo ciò, il coltivatore resta in debito, pagherà il resto all'anno seguente, sulla raccolta del frumento.

I1 tumolo è la sedicesima parte della salma (ett. 3,435) [N. d. S.].

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C) INQUILINAGGIO - E' un contratto per cui il proprietario affitta il terreno a grano per un solo anno. L'inquilinaggio può essere:

1 ) In denaro. 'I1 proprietario dà il solo fondo per la corri- spettiva somma che varia da L. 70 a 300 la salma siciliana (Ettari 2,78). La ristoppia resta a vantaggio del proprietario.

2 ) I n natura. Varia dal contratto precedente in ciò, che l'inquilino deve corrispondere il prezzo in terraggi; un terraggio è una salma di frumento cioé ettolitri 3,435. I1 numero dei ter- raggi varia da 3 a 6 per ogni salma di terreno (Ettari 2,78).

3) Terragiuolo. E' lo stesso contratto; però il proprietario fa a sue spese I'aratura e la semina, e in compenso ha diritto a un terraggio di più a salma, sul numero dei terraggi convenuti.

4 ) Padrone e Partitario. Differisce dalle precedenti forme in quanto il proprietario concorre con l'inquilino in tutte le spese e nell'acquisto delle sementi. Al raccolto, si preleva dalla massa un numero di terraggi stabiliti a favore del padrone e il resto viene diviso in parti uguali (o in parti disuguali) secondo i con- tratti.

5 ) Rafadalisa (il nome viene dalla città di Raffadali prov. di Girgenti). I1 padrone e coltivatore concorrono nei lavori; il primo ara, semina e trebbia; il secondo copre le semente, dà le zappe, miete, lega i covoni e aiuta i lavori di trebbia sull'aia. Indi messo il frumento a moggio, si divide; sette parti spettano al gabellotto o padrone, contro una che resta al coltivatore.

D) A CONTO PROPRIO - I1 gabellotto spesso sceglie la miglior parte del latifondo e lo coltiva a conto proprio, cioé con personale salariato. I1 raccolto è perciò tutto del gabellotto. Non di rado il personale salariato sono gli stessi mezzadri, a cui è stato concesso il resto del latifondo; i quali vengono obbligati a coltivare quella parte di terra con salari fissi, più o meno in- feriori ai prezzi di piazza; spesso pagati in natura al raccolto o compensati con gli anticipi accordati per le loro spese colturali. Lo stesso proprietario, quando è dedito alle aziende agricole e

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vicino al proprio latifondo, assume il tipo del gabellotto, e con- cede le terre direttamente al coltivatore, con i surriferiti con- tratti o di subaffitto, o di mezzeria, o di inquilinaggio, conser- vando parte a conto proprio.

11. - MALI E INGIUSTIZIE

E' diflicile in una breve esposizione far rilevare tutti i mali e le ingiustizie dei contratti agrarii per la coltura dei cereali nei latifondi siciliani. Mi limito ad una sintesi generale:

1. Gran male è l'assenteismo dei padroni, che crea neces- sariamente il tipo del gabellotto sfruttatore, che s'interpone tra l'immediato coltivatore del suolo e il lontano proprietario, a cui dà la garanzia di un reddito annuo fisso - qualsiasi la forma di contratto culturale che esso sarà per adottare, salvo la riconse- gna della terza parte del terreno incolto da due anni - e qua- lunque siano o possano essere le evenienze e i casi fortuiti a cui il gabellotto rinunzia espressamente nel contratto con la formula: « non ostante tutti i danni possibili prodotti da casi volontari o fortuiti, divini od umani D.

2 . Per lo più i grandi latifondi mancano di sufficienti case coloniche, mancano di acqua e sono infestati dalla malaria. (Nelle campagne di Caltagirone nel 1900 sono morti di malaria 1'11,72 su ogni 100 decessi, e dal marzo al dicembre dello stesso anno sono stati denunziati all'ufficio di sanità 371 casi di malaria). Perciò i latifondi sono disabitati, e la popolazione agricola si agglomera nelle città, che distano dai latifondi da sei a dieci e a venti e più chilometri di cammino. Condizione gravosissima que- sta, per cui i coltivatori non solo devono essere provvisti di mezzi di locomozione (asini, muli, ecc.), ma non hanno quelle colture minute (piccoli orti, giardinetti, vigneti, ecc.) che danno lavoro alternato a mezzi di sussistenza; devono pagare l'affitto della casa in città, dove tengono il focolare domestico; sono sog- getti alla disoccupazione in città (perniciosissima) o aumentano il numero dei salariati a giornata, per cui il salario diminuisce

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in certe stagioni sino a 30 o 40 centesimi al giorno. Alcuni hanno qualche proprio carnpicello che coltivano; altri si locano come castaldi, vignaiuoli, mezzadri nei fondi di media e piccola pro- prietà, che circondano le città per una più o meno larga peri- feria.

3. I1 gabellotto, creato dall'assenteismo dei padroni, o il padrone (quando piglia la forma del gabellotto) hanno solo l'in- teresse di speculare sulla terra. Data la mancanza di altre indu- strie, la concorrenza dei gabellotti e il dazio di protezione, i prezzi dei fitti dei latifondi si sono elevati. Però il gabellotto non solo si rifà di quest'altezza di prezzi, ma ha il margine di una larga speculazione, perché anche fra i contadini, per la pletora della popolazione coltivatrice, vi è una sfrenata concorrenza, sce- gliendo sempre tra la disoccupazione e il lavoro, quest'ultimo anche a condizioni angariche. Onde la terra che il gabellotto paga da L. 80 a L. 150 la salma, viene subaffittata a L. 250, 300 e anche più. Nella mezzeria la speculazione non è sul prezzo in denaro, ma sulla derrata; come si può rilevare dalle suaccennate forme di contratto, la mezzeria è una parola vuota di senso, per- ché si riduce a 213 = 113; o 3/4 = 1/4; o 517 = 2/7; o 718 = 118.

4. Le altre condizioni di locazione sono la giunta alla der- rata. I1 diritto di preleva dalla massa del raccolto, per la se- menza e gli interessi al 25 e al 30% per nove mesi, per la cam- peria, la guardiania, l'assicurazione, il Santo, ecc. e gli interessi sugli anticipi per le spese colturali, si riducono a vero strozzi- naggio. Si aggiunga la mala fede nelle misure (una più piccola nella consegna delle semenze, e una più grande nella restitu- zione); l'abuso di dare per semenza frumento inumidito e perciò cresciuto di volume, per riaverlo poi secco sull'aia e altre piccole angherie.

Per cui anche l'agricoltore cerca frodare il gabellotto, for- mandosi in ciò una tradizionale educazione.

5. I1 coltivatore subaffittuario è obbligato al pagamento in denaro prima della trebbiatura, a h c h é il gabellotto non perda

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al suo credito la garenzia reale del prodotto. Onde il subaattua- rio è costretto o a ricorrere al prestito, o a vendere le derrate al prezzo corrente, che al raccolto, per l'aumentata offerta, suole notevolmente abbassarsi.

6. Per le &cili condizioni del credito agrario e la cre- scente miseria dei coltivatori, l'usura spadroneggia nelle campa- gne sino al 60, al 100 e anche al 150%.

7. Non avendo tanto il gabellotto quanto il subaffittuario . o il mezzadro o l'inquilino altro interesse che la speculazione, per quei pochi anni o per quel solo anno che la coltivano, sfruttano addirittura la terra; onde di anno in anno il totale della produ- zione va diminuendo.

8. Per la nessuna educazione e istruzione tecnica, per la mancanza dei capitali e l'assenteismo dei padroni, la cultura ra- zionale dei cereali è quasi sconosciuta; e quindi la produzione è minore al bisogno e la terra è poco remunerativa. Cosa che evi- dentemente aggrava specialmente la condizione degli agricoltori immediati della terra, e fa sentire crudamente le asprezze dei patti colonici.

Parte I l

Rimedi e difficoltà - I primi tentativi in Caltagirone

I . Rimedi

Parecchi rimedii si propongono: l'unione degli agricoltori per impedire la concorrenza; l'istituzione delle cooperative di lavoro fra agricoltori per eliminare il tipo del gabellato; una legge equa per la riforma dei patti colonici; una larga istruzione per la coltura razionale. Altri propongono la censuazione e quotiz- zazione dei latifondi, la colonizzazione interna per la cultura in- tensiva, ecc. Ma ciò non riguarda da vicino l'oggetto di queste note sommarie. Mi limito perciò alle proposte che principal- mente riguardano i contratti agrari.

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Le difficoltà per una organizzazione rurale in Sicilia sono molte: 1) Poco o nessuno spirito di associazione e di solida- rietà di classe; 2) Sfiducia inveterata e tradizionale al borghese e al clero, perché teme di essere ingannato e sopraffatto: bor- ghesia e anche clero han prestato la ragione a tale disfiducia; 3) Ignoranza e analfabetismo; il 70% degli agricoltori non sa scrivere la propria firma; il 25% sa poco più che far la firma e qualche somma elementare di pochi numeri; il 5 % sono elettori. Non è una statistica esatta ma si avvicina alla verità; 4) Man- canza di capitali per l'istituzione delle cooperative; appena il 25% dei contadini, per le economie sul proprio bilancio di uscita, e per altre risorse, ha qualche sommetta a risparmio; 5) Lotta sorda da parte dei gabellotti, i quali riescono a disanimare i volenterosi, ad accrescere la d%denza, a ostacolare le pratiche per il fitto di un latifondo, a intimidire anche i propri mezzadri.

111. In Caltagirone

Città di 45.000 abitanti, di cui 28 mila circa agricoltori. Capoluogo di circondario e sede Vescovile.

Sin dal 1896 il Comitato interparrocchiale dell'opera sentì il bisogno di unire gli agricoltori in associazione distinta, e fu fondata la Sezione-Agricola, (come nel 1895 era stata fondata la Sezione Operaia), con la Cassa di Mutuo Soccorso e la Cassa Rurale di Prestiti (movimento nel 1900: L. 145 mila circa).

D'allora si studiarono con amore le condizioni infelici de- gli agricoltori e si pensò alla fondazione di una Cooperativa agri- cola di lavoro principalmente per la condotta dei latifondi, e per altre imprese agrarie '.

Lunghi studii, difficoltà insormontabili, opposizioni tenaci, impossibilità quasi a raccogliere il capitale delle azioni, fecero tardare l'esecuzione del progetto. Finalmente nel marzo 1900 si stipulò l'atto costitutivo della società, nel dicembre successivo si conchiuse l'affitto di un feudo di circa mille ettari all'annuo estaglio di L. 36.500 annue, per il sessemio 1903-1909.

Vedi articolo sulla Cooperazione Popolare di Parma nel 1898 [N. d. S.!. Cfr. nota 2 del doc. 5..

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In seguito le città di Grammichele e Scordia (della diocesi di Caltagirone) hanno istituito queste cooperative e sono in trat- tative per l'aflitto di qualche latifondo. Anche fuori diocesi si è esteso il concetto di questa istituzione e da molte parti dell'isola chiedono al Comitato di Caltagirone delle informazioni. I n Cal- tabellotta e Campobello di Licata (se non ricordo male) le locali Casse rurali cattoliche hanno preso degli affitti collettivi. Però in ciò scorgo un grave pericolo: cioé che il credito delle Casse Rurali può oscillare con le possibili vicissitudini di un'azienda agricola, e il capitale depositato resta troppo vincolato e fuori di una ragionevole circolazione.

In rapporto ai contratti agrari dei latifondi e alle condizioni degli agricoltori, tale istituzione presenta i seguenti caratteri e vantaggi:

1. La cooperativa sostituisce il gabellotto e prende in fitto, con le stesse condizioni che il gabellotto (in seguito modificabili), i latifondi. Se le condizioni che i proprietari impongono sono gravose, moltiplicate tali istituzioni, sarà meno difficile la coali- zione per rompere la sfrenata concorrenza, che aumenta i prezzi. Da principio però le cooperative, per vivere, devono poter fare la concorrenza al gabellotto. Questa condizione di cose fa si che le Cooperative devono avere un capitale proprio, variabile da lire cinquemila a lire diecimila il minimum, secondo il valore del- l'azienda agraria. Dippiù si rende necessaria una Cassa rurale o una Banca agraria, come istituto complemen~are, per la ne- cessità del credito agrario.

A ogni modo i prezzi di fitto che i proprietari impongono, considerati relativamente ai prezzi di subaffitto o alle condizioni della mezzeria e dell'inquilinaggio, arrivano a stare come uno a due o come due a tre. Vi è sempre margine, sia pei migliora- menti dell'agricoltore, sia per la concorrenza. Infine sta nella prudenza degli amministratori assumere imprese vantaggiose.

2. La Cooperativa verso i suoi socii azionisti compie le fun- zioni del gabellotto nella forma giuridica del contratto, non mai nelle condizioni contrattuali.

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Per cui:

a) ridà il terreno diviso a parcelle (spezzuni) agli azionisti in proporzione delle loro azioni, allo stesso prezzo di fitto (com- pensando le terre di l a con le terre di 2a e 3a qualità) più le spese di amministrazione e un lieve interesse che non può supe- rare il 5% dell'estaglio annuo, per un fondo di cassa, etc. Si noti che a parità di condizioni un subaffittuario della cooperativa pagherà per ogni salma (ett. 2,78 circa) di terreno di prima qualità L. 206 e un subaffittuario del gabellotto L. 331;

b) Semenze, anticipi, ecc. sono date al minimo tasso pos- sibile dalle Casse Rurali; 5 o 6% mentre al gabellotto si paga il 25 o 30%, a non contare la frode sulle misure;

C) Tutte le altre condizioni e patti vengono aboliti. Dove si crede più conveniente invece del subaffitto si userà la mez- zeria, che sia perfettamente a metà, e a parità di condizioni;

d) Affinché si eviti il subaffitto del subaffitto, che qualche volta il piccolo agricoltore usa a danno di chi si trova più sotto di lui nella scala sociale, è proibita questa forma di contratto; e il socio non può possedere più di n. 20 azioni, cioé quel titolo ,

che nelle condizioni normali dà il diritto a tanta terra che può essere coltivata da una o due persone. E' permesso al socio associarsi un compagno di lavoro, a perfetta mezzeria, restando il socio obbligato dell'intero prezzo di fitto verso la società;

e) Quando la società lo potrà - da poco a molto - ini- zierà la cultura del latifondo a conto proprio, pagando i socii lavoratori, e distribuendo loro gli utili; per poter così godere i vantaggi della grande coltivazione estensiva.

f ) La società fissa i salarii degli agricoltori a giornata, se- condo le stagioni, e li rende obbligatorii per la società e per i socii. La qual cosa influirà a mantenere equi anche i salarii di piazza;

g) Verrà istituito un magazzino pel deposito delle derrate, quando non si possono vendere a un prezzo rimuneratore, a h - ché il socio lasci alla società la garenzia reale del prodotto, senza suo danno.

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Tutte queste condizioni elevano materialmente l'agricoltore, lo liberano dai patti colonici angarici e usurai, e lo mettono nella possibilità di godere dei frutti del proprio lavoro.

La conseguenza morale sarà importante presso tutta la clas- se, che reclamerà dai gabellotti più eque condizioni. Preparerà col fatto l'agitazione legale per la riforma dei patti colonici per legge.

3. Perché la società possa migliorare le condizioni tecniche della produzione, formerà sul luogo un campo sperimentale, isti- tuirà un corso di lezioni pratiche di agricoltura razionale, age- volerà l'acquisto di concimi chimici, di semenze più adatte, di attrezzi e di macchine agricole più razionali.

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GIORNALISMO ED EDUCAZIONE NEI SEMINARI ' (i. 127, C. 16)

Fra coloro che hanno il compito di reggere e dirigere i Seminari si agita tuttora una questione, che ad alcuni sembra di lieve momento, e tale potrebbe credersi se si guarda isolata- mente; ma che invece nel suo complesso riesce di grande im- portanza. Cioé: « è conveniente permettere ai chierici la lettura di periodici e di giornali? - e di quali? - e in che misura? D.

Non pochi sono contrari a permettere la lettura relativa- mente al numero e alla qualità dei giornali, preferendo sola- mente i religiosi; altri sono contrarii in modo assoluto; molti sono favorevoli ad una libertà che non ostacoli una razionale disciplina.

Prescindendo dalle disposizioni che i superiori dei singoli seminari d'Italia abbiano potuto dare in proposito, (il che non entra nella discussione) proverò di esaminare il problema nei suoi rapporti con la educazione dei chierici obiettivamente e, spero, con quel delicato discernimento che occorre a trattare argomenti, la cui soluzione pratica non dipende da noi.

Sarò contento se altri, anche contraddicendomi, tornerà sull'argomento, sottoponendolo ad una più sicura e profonda critica.

1 Discorso manoscritto, datato « Caltagirone 25 gennaio, conversione di S. Pao- lo, 1902 D; aiia fine è così siglato: « Sac. dott. Luigi Sturzo, Professore di Socio- logia ed Economia nel Seminario ». A margine del titolo Sturzo annota: « Non pubblicato perché l'Era ATov[elZa] cadde m.

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Perché possa esser completa l'educazione del chierico, oc- corre avere un'adeguata ed intiera visione di quel che dovrà essere e di quel che dovrà fare da sacerdote; a quel fine fa d'uopo coordinare tutti gli elementi educativi, l'ambiente, la scuola, la direzione dello spirito, la disciplina; affinché la gra- zia, operando con la natura, trovi meno ostacoli possibili sia negli abiti mentali, che in quelli volitivi.

Or si è ripetuto mille volte che il sacerdote di oggi deve entrare fiducioso nella vita moderna per redimere a Gesù Cristo la società attuale atea e paganeggiante. Questo principio si è voluto presentare come una novità mentre è la legge storica e perenne della Chiesa che non invecchia, ma che trasforma le potenzialità naturali della società in mezzi o coefficienti di vita soprannaturale, e che insieme adatta'le modalità del suo mini- stero alle esigenze delle epoche, dei popoli, delle nazioni, allo stato e mentale e volitivo degli uomini, alle aspirazioni indivi- duali e collettive.

La trasformazione del diritto romano, toccato con rive- renza; della fllosofia platonica e aristotelica nella grande elabo- razione della patristica e della scolastica; delle istituzioni feu- dali e comunali; della letteratura e dell'arte sino alle grandi concezioni medioevali; sono glorie sociali della Chiesa; alle quali sacerdoti e pontefici, dottori e frati, nelle diverse poten- zialità adatte ai tempi, consacrarono se stessi.

Oggi I'apostasia da Dio e dalla sua Chiesa è apostasia so- ciale: governi, municipii, scuole, esplicazioni di vita pubblica, attività economiche, tutto è stato ed è condotto con criteri acat- tolici e spesso anticattolici; mentre le aspirazioni popolari, ma- turate attraverso un secolo di pubblica awersione alla Chiesa, pigliano forma e guisa irreligiose. Tutto ciò richiede da parte del clero un lavorio denso e costante nel senso sociale, entrando fiduciosi nel vivo delle agitazioni presenti, pigliando nette le posizioni della lotta dal campo politico-governativo all'ammini- strativo, all'economico, allo scientifico, al giornalistico; vivifi- cando nel nome di Gesù Cristo secondo i bisogni moderni le antiche virtù pubbliche del cristiano e del cittadino.

Ad alcuni sembra una stranezza che il sacerdote debba vivere la vita pubblica moderna; lo vorrebbero rinchiuso tut-

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tora nelle sacrestie. Pure non è una novità. Nel Medio Evo vescovi e sacerdoti erano a parte del reggimento feudale e legi- slativo e della vita pubblica del tempo, che da Costantino a Bonifacio VI11 divenne, in una lunga elaborazione, cristiano. Allora l'ordinamento della proprietà feudale e del diritto inter- nazionale sorreggeva quella forma di partecipazione politica, che recò molto bene e anche (per difetto degli uomini) del male alla Chiesa.

Né ciò fa meraviglia, perché fin nelle pure speculazioni del domma e nella reggenza e amministrazione spirituale, la Chiesa ebbe a , lagrimar molti mali da vescovi, frati e sacerdoti; e gli Arii, i Fozii e i Luteri non sono soli. Le istituzioni però che sorreggevano la partecipazione del clero alla vita pubblica furono di gran bene ai popoli e alla civiltà. E non si possono mai abbastanza deplorare gli effetti della riforma e specialmente del giansenismo e del cesarismo che infettarono tanta parte del clero latino, alto e basso; e che fecero del prete un servitore umilissimo del potere regio, e la rincantucciarono nelle sacre- stie e nei cori, a curare solamente le feste e la pietà spesso di una turba di beghine, molte volte fittizia, superficiale, ipocrita. La società rimase in gran parte e nelle sue appartenenze di vita pubblica abbandonata a sé stessa, in preda degli errori del fi- losofismo prima, del liberalismo poi; e se non si oppone un riparo, anche del socialismo in awenire.

Un risveglio potente si destò nella seconda metà del se- colo XIX; risveglio al quale l'autorità pontificia ha dato il ca- rattere del dovere; l'urgenza dei bisogni quello della necessità; la concorde azione di vescovi e di cattolici militanti quello della praticità. Così il sacerdote tende a ripigliare il suo posto in mezzo alla società; per comprendere e regolare le aspirazioni dei popoli, per santificarne il movimento progressivo, per es- serne il maestro ed il padre, per far rispettare dai pubblici poteri la Chiesa, partecipandovi anche con il suo carattere sacerdotale (nei modi e con i limiti dovuti). In questa azione si sintetizza la funzione stessa della Chiesa di rigeneratrice in Cristo non solo delle anime ma anche della vita sociale dei popoli.

A questo ideale dunque devono essere preparati di lunga mano, con illuminata educazione i chierici, af?inché la loro mis-

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sione santscatrice non attinga l'esteriore, ma penetri nella co- scienza delle turbe, e trasformi la società.

Quando si parla di educazione e preparazione al sacerdo- zio in rapporto ai bisogni del tempo, non si intende che l'ele- mento, diciamo così formale del sacerdote sia diverso da quel che è stato. I1 compito del sacerdozio cattolico nella sua so- stanza è sempre uno e si compendia nell'ite, docete omnes gentes. I1 domma, la morale, i sacramenti sono immutabili come la Chiesa nella sua fondamentale istituzione e nel mandato dei suoi mini- stri. Le modalità e le guise mutano e si trasformano e con esse mutano le accidentalità dell'educazione e della istruzione dei chie- rici, come mutano i mezzi esteriori ed i rapporti del sacerdozio con la civiltà dei tempi.

L'educazione pertanto, arrivando a formare un abito men- tale e volitivo, che è un prodotto insieme di principii naturali e soprannaturali, di inclinazioni personali e di abitudini sociali, di fatti biologici e tradizionali, individuali ed ambientali, di pas- sioni, di convinzioni e di profonde modificazioni del proprio io (che ha una decisiva importanza per tutta la vita), non si può restringere al solo concetto caratteristico essenziale del sacer- dozio, ma pervade tutte le facoltà dell'uomo e le modalità di ogni attività anche la più eccelsa e divina.

Del resto, come può un sacerdote esplicare il suo ministero senza le contingenze e le modalità dell'attività umana? E come . si può non ordinare questa modalità alle guise umane del tempo, alle diverse contingenze sociali? Onde chiaramente ne siegue che se il sacerdote deve adattare il suo ministero ai tempi, e se l'educazione del chierico influisce sulle sue facoltà attive de- cisamente, oggi nei seminari si deve far sentire al chierico quali saranno i suoi nuovi compiti in mezzo ad una società paganeg- giante, per renderlo sin dal Santuario adatto alla sua missione sociale, afnnché posa sul serio esser lume ai popoli e sale della terra.

Tutto ciò ha forte e notevole riflesso nell'insegnamento; ma non è della scuola, come tale, ch'io voglio parlare in queste note; certo una profonda riforma di metodo, una maggiore co- noscenza delle scienze sociali e naturali, una più larga cultura

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sono necessari oggi, quando è così complessa e così modificata la vita intellettiva dei popoli civili.

Però non si educa in iscuola solamente; sì bene dentro e fuori scuola e con mezzi e sussidi diversi da quelli puramente e strettamente scolastici. I1 complesso dell'educazione chiericale si forma destando idee teoriche e pratiche in ordine alla vita, nu- trendo sentimenti attuosi, iniziando a un certo grado di attività sacerdotale, facendo sì che i mezzi ricreativi e fantastici diven- gano ausiliarii potenti della formazione delle idee e dei senti- menti del giovane. Tutti questi mezzi vengono completati, rego- lati nella loro origine e nel loro sviluppo, elevati a una finalità soprannaturale, per la viva direzione dello spirito, che penetra sino al profondo delle coscienze giovanili, ne studia le inclina- zioni, i bisogni, le aspirazioni, le abitudini interne, ne disciplina l'esplicazione, per poter meglio edificare tutto l'edificio spirituale.

Tutto ciò dev'essere applicato in modo che nell'animo del chierico non solo non si formi un'abitudine contraria all'attività della vita sacerdotale del tempo presente, ma se ne formi gra- dualmente una simile ed omogenea. Questa finalità crea la dif- ferenza tra i metodi nuovi e molti metodi tradizionali, relativa- mente ai tempi trascorsi buoni e opportuni, ma difformi dalle esigenze dell'oggi; quelli ieri si sconoscevano solo perché non si erano manifestati i bisogni che li hanno causati, quando diverso era l'ambiente sociale ed oggi sono opportuni e necessari perché è necessario l'equilibrio fra bisogno e rimedio, fra individuo e ambiente.

E perciò non bisogna creare pel giovane alcun disquili- brio fra l'ambiente del Seminario e l'ambiente della famiglia e della società, al cui contatto, anche lontano, egli vive; affinché l'elemento educativo non si trasmuti facilmente, nella mobilità dell'animo giovanile e nella indeterminatezza delle tendenze, in elemento di violenta reazione.

E' questa un'osservazione di non lieve importanza, special- mente in vista di molti fatti deplorevoli che tutto giorno acca- dono; e le cui conseguenze sono perniciosissime.

Sta qua il segreto dell'educazione dei chierici; segreto chiuso alle anime superficiali, ed a coloro che non hanno nessuna pre-

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parazione scientifico-pedagogica, né adeguata cultura moderna, o reale contatto con la vita sociale, e quasi nessuna coesione di animi con la gioventù; la quale vive di sentimenti e di fantasie, turbinata dalle passioni, modificata dagli ambienti, i cui contrasti violenti portano turbamenti di spirito, scosse indicibili, oscilla- zioni continue, segrete aspirazioni di animo, incertezze, entusia- smi, reazioni.

Tutti questi stati psichici del giovane devono essere studiati per raccordarli alla meta prefissa; e principalmente bisogna riem- pir l'animo del giovane di qualche cosa che ne colmi il vuoto, quel vuoto che dà battaglie violente e che determina cadute irre- parabili. I1 dovere, il timore, la successione ininterrotta delle oc- cupazioni non bastano; la pietà diviene superficiale quando il sentimento attuoso e soprannaturale dell'amore di Dio non viene determinato in opere, in aspirazioni, in attività intrinseche ed estrinseche, in obietti concreti, ordinati al supremo fine: la glo- ria di Dio, per mezzo della vita e della azione sacerdotale.

Ho detto che il destare nei chierici idee teoriche e pratiche, il nutrire dei sentimenti attuosi, l'iniziare a un certo grado di attività sacerdotale, i1 dirigere bene lo spirito, l'ordinare a elevati fìni i mezzi ricreativi, sono il complesso dell'educazione del gio- vane chierico, e che tutto ciò deve convergere a formare il sa- cerdote tipo adatto ai bisogni moderni.

Mi ci fermo un po', perché, se nessuno ha serii dubbi della verità della teoria, non tutti però sanno farvi corrispondere la pratica. Si crede da alcuni che.le idee che formano la vita intel- lettiva del chierico non possono essere altre che quelle della scuola. Non metto neppure in discussione che il corredo scien- tifico e l'ordinamento mentale-pratico del chierico vien dato nella scuola; anzi è proprio la scuola, che, ordinata con metodi sana- mente moderni, deve formare l'abito scientifico del sacerdote. Però io non ho creduto mai che un giovane possa arrivare sino al ventiquattresimo anno con le sole idee delia scuola; che egli possa prepararsi adeguatamente alla vita, senza sentire l'influsso

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vivo, palpitante, vitale del contatto quotidiano con le idee tra- dotte in fatti nel mondo che ci circonda; che egli si debba mum- mificare h uno sgobbone, riducendosi a vivere del solo pensiero dei libri. I1 professore (e così il rettore, il padre spirituale, il prefetto, ecc.) devono pel giovane essere il veicolo delle idee vive, idee non solo scientifiche o letterarie, ma pratiche, di vita vissuta, di aspirazioni, di agitazioni; veicoli che purificano, retti- ficano, aggiungono, rendendo le stesse idee nuovo elemento di istruzione e di educazione.

A ciò servono i periodici ed i giornali cattolici di scienze, di letteratura, di sociologia, di politica, di azione cattolica, di movi- mento locale, di notizie di vita quotidiana. Tutto questo elemento di civiltà, di pensiero, di vita, che la stampa ogni giorno distribui- sce agli uomini, è un elemento necessario alla educazione (nei do- vuti modi e nella regolare misura, s'intende); necessario perché è ordinato alla vita pratica, perché riduce con l'applicazione al fatto concreto la teoria, eleva alla teoria con la critica il fatto concreto; siegue le correnti di un pensiero veloce che commuove i popoli, rivoluziona le scienze, determina nuove concezioni di arte, lega l'attività di nazioni disparate, di città lontane, di provincie non conosciute, uniti e stretti, dai vincoli di solidarietà, dalle aspira- zioni di lotte, dalla forza del pensiero. Ieri la vita delle città si re- stringeva a poche relazioni; tolta al popolo e al sacerdote la vita pubblica, a cui pensava il paterno governo dei ministri, degli in- tendenti, dei senatori, d'intesa più o meno coi vescovi e col mini- stero ecclesiastico - ristretti i commerci, senza strade né comu- nicazioni - poco sviluppate le industrie, poco diffuso l'insegna- mento - tutto si riduceva alla vita cittadina o di famiglia e a po- chi avvenimenti politici, conosciuti attraverso ... le dogane regie.

Oggi la vita anche delle piccole borgate è internazionale; e la stampa principalmente, portavoce della politica, delle aspira- zioni sociali, della vita religiosa, delle nuove forme di organismi, delle attività cittadine, dei commerci e degli scambi, delle opere d'arte e dei trovati della scienza (complesse relazioni dell'attuale vita civile, alle quali non possono né devono sottrarsi i sacerdoti), la stampa è l'apportatrice e l'indice della vitalità del pensiero del- le opere umane, come anche dei progressi anche religiosi nella so- cieti e dell'esplicazione di parte non indifferente del ministero sa-

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cerdotale. Così è vera la frase di Ketteler: « se S. Paolo oggi fos- - - se al mondo si farebbe giornalista » 2.

La funzione educativa del giornale è immensa, non tanto per la continuità, quanto per la materia vivente di cui esso è compo- sto, e per la rispondenza a un ciclo determinato di attività nella azione dei popoli, che si potrà chiamare partito, scuola scientifica o letteraria, relazioni religiose, organismi sociali od economici. Or se a destare le passioni fantastiche, a determinare un'educazione nell'animo del giovane sono efficacissimi la storia ed il romanzo, rappresentanze di vita vissuta o di vita immaginaria; quanto non contribuirà all'educazione di chi deve vivere nel mondo per santi- ficarlo, la storia quotidiana dei dolori e dei rimedi, della lotta fra il bene e il male, fra la città di Dio e la città di Satana, in cui si compendia tutta la storia e la sua filosofia, tutta l'attività umana naturale e soprannaturale?

Impedire la lettura del giornale al chierico sarebbe lo stesso che educare soldati senza far loro conoscere né la geografia, né la storia, né la guisa delle lotte moderne, né la tattica dei popoli, né le scoperte giornaliere dei diversi strumenti bellici.

Si metta il chierico in una segregazione completa, totale dal- la vita , si faccia sì che non conosca nulla di civiltà, di progresso, di scienze, di nuovi.libri, di politica, di agitazione di partiti, di re- lazioni economiche, di aspirazioni popolari, di liberalismo o di so- cialismo, di democrazia cristiana e di Opera dei Congressi, di lotte amministrative e di documenti pontificii (elementi giornalistici della giornata); e si avrà o il prete che pensa alla benedizione, al messale, al breviario e al predicozzo a pochi fedeli riuniti in Chie- sa; o per una reazione violenta, il prete che senza criteri sia sbal- zato nel vortice della vita moderna col pericolo di perdersi. In ogni caso sarà chi entrando nella vita attiva senza tradizioni né adeguata educazione, vive senza palpiti, senza idee (che si matu-

2 Wilhelm Emanuel von Ketteler, nato a Harkotten (Westfaiia) il 23 di- cembre 1811 e morto a Burghausen (Oberbayern) il 13 luglio 1877, iniziatore e sostenitore del cattolicesimo sociale tedesco, fu tra i teorici più famosi del sindacalismo cattolico e uno degli esponenti più prestigiosi della lotta contro il Kulturkampf. Vescovo di Magonza dal lS50, nel 1873 fu eletto al parlamento tedesco dove parlò più volte contro il liberalismo economico e presentò un progetto di legislazione sociale a base corporativa. Cfr. G. GOYAU, Kelteler. Paris 1907.

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rano negli anni giovanili) si troverà disorientato, impaniato, ina- datto: scriverà il giornale come la predica, crederà il Comitato un Seminario, la Sezioni giovani una camerata di alunni, e finirà per portare nell'ambiente delle associazioni cattoliche un piccolo mon- do antico, che si potrebbe chiamare I'anticame~a del Seminario, della sacrestia e della curia. Elementi tutti che nelle modalità e guise, non armonizzano con le esplicazioni della vita pubblica dei cattolici.

Del resto, com'è possibile che un giovane arrivi al venticin- quesimo anno di sua età, senza aver preso l'abito mentale, che de- ve regolare la sua esistenza e la sua attività? Se domani i chierici dovranno pigliar gran parte all'azione multiforme. e agitata dei cattolici, o come giornalisti, o come oratori, o come propagandi- sti, o come organizzatori o direttori di società cattoliche, di Unioni Professionali, di Congressi e di Comizi, di proteste pubbliche, di lavoro elettorale, di cooperative ecc. e ecc., come è possibile che, nel tempo in cui queste idee maturano, fermentano, divengono ideale aspirazione, desiderio di vita, essi stiano come chiusi in una stufa, disputando solo sulle regole sillogistiche di Aristotele, o su- gli errori di Nestorio o di Fozio, o ripetendo a tempo perso con Ariosto (si studia nella 5 ginnasiale)

Le donne, i cavalier, l'armi, gli amori?

La mente del giovane ha bisogno di tener presente un ideale da raggiungere, non mai un ideale indeterminato (l'esser prete), ma determinato e concreto, come far il predicatore, il confessore, il rettore di Chiese, il parroco, il professore, lo scienziato, l'artista e giù di lì.

Tra le attività sacerdotali, il giovane ne prediligerà alcune o una sola, quella a cui inclinazioni, educazione, ambiente, circo- stanze lo avranno più o meno determinato. E il seminario, che è il semenzaio dei sacerdoti, che debbono nella multiforme attività delle diocesi, nella diversità dei bisogni e delle opere sacerdotali, edificare il regno di Dio nelle anime, deve saper destare e coltiva- re nei chierici i diversi desideri e le attitudini disparate, perché possa forniarsi una specializzazione adatta ai bisogni, e perché non solo non si sciupino tante potenzialità in posti ed uffici, non adatti alle inclinazioni speciali, ma si destino nuove e potenti energie di attività e di zelo.

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Ora tra le attività sacerdotali, per comando di pontefici e di vescovi, per bisogno di popoli, oggi è da annoverarsi questa azione -sociale detta democrazia cristiana o azione popolare; anzi l'abito, le idee, le convinzioni di questa azione devono esser in tutti i sa- cerdoti, qualunque possa essere il loro ufficio, perché tutti non solo sono uomini e cittadini, ma e più sono ministri di Dio, che stanno a contatto delle famiglie, nelle quali entra l'errore con la politica e la scienza, l'immoralità con le lettere e con i giornali; l'egoismo con le lotte amministrative o economiche.

Parroco o confessore o predicatore (gli uffici più delicati, più consentanei al ministero delle anime, più generali nella sacerdotale attività), non può il prete far vero e reale bene al contatto con la società, se awicinandola non tocchi le piaghe dolorose e spesso cancrenose del pensiero e della vita prettamente e puramente mo- derna.

Infine, è necessario che il giovane chierico viva (nei debiti modi e nelle giuste misure) della vita quotidiana di idee teoriche e pratiche della quale vive la società; che il chierico di questa vi- ta, elevata a missione sacerdotale rigeneratrice, se ne formi un ideale; che questo ideale pervada tutte le sue fibre morali, asce- tiche, intellettuali, sportive, affinché questo pensiero dominante soffochi tanti altri pensieri inutili o dannosi; affinché nelle con- versazioni invece di parlare di preeminenze [sic] di diritti di moz- zetta o di mitra, di precedenza nelle processioni o nel suono delle campane (cose che nel nostro meridionale paralizzano tanta parte di attività sacerdotale), invece di pensare alle caccie e alle campagne, invece di sospirare il momento del sacerdozio per avere un posto in curia o una pieve o un. beneficio, o per sottrarsi al giogo della vita comune, o per conoscere il mondo a lui chiuso, che vede solo attraverso i vetri delle finestre o i pettegolezzi di sagrestia o i libri che parlan da morti e non da vivi; - sospiri a impiegare le sue forze nel campo dell'azione cattolica, che ha bisogno di giovani istruiti, volenterosi, entusiasti, atletici.

Sono le idee, di che un giovane si nutre, che divengono idea- le, sentimento; che pel sacerdote è zelo di opere di santificazione, desiderio di sacrifici per Gesù Cristo, amore attuoso per le anime, pel popolo, per la società.

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Questo sentimento è nutrito dalla grazia, che però opera sul- la natura; perciò ad alimentarlo devono concorrere non solo la frequenza dei sacramenti, la pietà profonda, la preghiera assidua, la oculata direzione dello spirito; ma anche tutti i coefficienti na- turali dell'educazione, come le letture, le conversazioni, la scuola, la vita intiera.

La conoscenza vera dei mali reali della società e dei rimedi che la Chiesa addita e che i cattolici mettono in opera, della lotta aspra che si combatte, del compito concreto che aspetta i chierici, vaIgono a destare potente41 sentimento.

E i superiori oculati sanno a prova come destare e nutrire vivo questo sentimento, che in un giovane diviene come la forma volitiva deila sua vita, come il motivo determinante delle sue ope- re, e che ha profonda indelebile influenza sino alla tarda vecchiaia.

Ogni uomo, invecchiando, tende a conservare sé stesso nella forma vitae che l'educazione giovanile gli ha creato, e che è stato il palpito, l'entusiasmo, la visione fantastica dei suoi begli anni. Sorgono così le due correnti che compendiano l'attività umana, la progressiva e la conservativa, che si compiono a vicenda. Or come è possibile avere una complessa, razionale, multiforme corrente di vita progressiva nel nostro campo, quando negli anni, attraverso i quali si matura questa fornzn vitae, dai diciotto ai venticinque, si vuole che la nuova corrente di idee e di opere debba essere vie- tata e chiusa alla mente, al sentimento, all'attività giovanile?

E parlo in terzo luogo dell'attività del chierico, in cui si de- vono estrinsecare con razionale misura, le idee agitate e i senti- menti che fervono.

Io credo fermamente che parte dei mali che si sogliono ma- nifestare nei seminari si devono alla limitata, anzi alla nessuna attività del chierico proprio negli anni in cui si sente forte e impe- rioso il bisogno della propria estrinsecazione.

Mi diceva la buon'anima di mons. Blandini, Vescovo di Gir- genti 3, che dal giorno in cui egli permise ai chierici la lettura dei

Gaetano Blandini, nato a Palagonia il 30 agosto 1834, professore di filo- sofia e lettere nel seminario di Noto, dal 1882 fu vescovo di Girgenti, dove mori nel giugno 1898. Assieme al fratello minore Giovanni Blandini, vescovo di Noto, fu tra i primi ordinari siciliani ad agitare l'urgenza dell'impegno sociale

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giornali, e una certa attività nell'ambito della Sezione Giovani e dei tre Coiigressi tenuti in Girgenti e in Canicattì, nel suo semina- rio la disciplina, la morale dei giovani, lo spirito ecclesiastico si rialzarono notevolmente. Ed io ciò costatai de visu; e godo poter rendere su queste colonne testimonianza sincera di quel zelante vescovo e di quel fiorente seminario. In alcuni seminari, con lo- devole intento e con molto bene, fanno ai chierici grandicelli in- segnar la dottrina cristiana nelle chiese; è questa un'attività di supremo interesse per le anime, alla quale i chierici vengono av- viati e della quale devono sin dai primi anni sentire tutto l'entu- siasmo, di cui può essere capace un'anima dedicata al Signore.

Un'attività scolastica sogliono essere le cosiddette accade- mie, che forse serbano un po' troppo delle forme arcadiche; ma che possono divenire razionale palestra di buone lettere [sicl e di scien- za. Quasi in nessun seminario si trascura l'esercizio oratorio, per educare i giovani alla composizione e alla declamazione e per pre- pararsi bene a questo importantissimo ufficio sacerdotale.

Ma ciò è poco, troppo poco pel giovane e non è tutto per la vita sacerdotale: che male vi sarebbe, se, come faceva il vescovo Blandini di Girgenti, i superiori, con discrezione e discernimento, avviassero i giovani già maturi a pigliar parte alla vita dei circoli ,cattolici di azione e di cultura, della stampa, dei congressi? Si av- vezzerebbero a far qualche conferenzuccia, a stare in contatto con i giovani cattolici studenti ed operai, (ai quali comunicherebbero con l'ardor giovanile l'aroma dello spirito raccolto), a scrivere qualche articolo nei giornali e nei periodici (l'Era novella incorag- gia tanto e così bene questa attività), ad aiutare in tante e tante circostanze i comitati, quando il lavoro di congressi, di pellegri- naggi o di altro abbonda e mancan le braccia. I1 giovane così in- travede il suo campo di lavoro e di azione, pregusta il piacere .del- la fatica e del sacrifizio, modifica le abitudini dell'animo, si spo- glia delle piccole meschinità del collegiale chiuso e ristretto, e sve-

deli'opera dei Congressi dcii'isola. A Girgenti, infatti, nel 1896 si tenne il 11 congresso regionale deìì'Opera, dove venne sanzionata la maggiore diffusione delle casse rurali e deiie cooperative di lavoro. I vescovi Blandini ebbero co- stanti rapporti con SNZO e ne appoggiarono e difesero I'opera. Per notizie su Gaetano Blandini, cfr. la commemorazione su u La Carità » del maggio-giu- gno 1898.

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ste l'abito di quella forma societatis, che per dieci o dodici anni . di vita comune necessariamente gli si deve imprimere nella mente.

Si suole obbiettare che tutto ciò attenua lo spirito di disci- plina, e che implica una certa libertà di azione, che mal si confà allo spirito di un istituto.

Nessuno certo pensa che i chierici siano dei militari messi in riga ad attendere il marche di un sergente qualsiasi; io della disciplina chiericale ne ho un concetto assai alto, e credo che non consista solamente in una determinata regolarità e uniformità di atti, che chiamerei automatica, ma nell'abito di soggezione, nel sentimento del dovere, nello spirito vivificante, che devono pene- trare quelle regole o norme, che son fisse pel giovane, ma che il superiore adatta ai tempi, ai luoghi, alle finalità dell'educazione. con libertà, malleabilità e discrezione. Anzi io credo qualche cosa di più; son sicuro che quando non si sente oppresso dalla regola, ma può in certo modo aver coscienza della propria personalità, il giovane esplica meglio le sue facoltà e diviene per convinzione e per abito di coscienza, quel che la sola regola morta lo costringe- rebbe a divenir in apparenza. Del resto, se un giovane (parlo dei più grandicelli, di coloro che frequentano le scuole scientifiche), quando ha da esplicare in certo modo la sua attività, e gli è perciò concessa una misurata libertà, non sa mantenere la virtù ed il ca- rattere chiericale; se per assistere o per fare una conferenza o per scrivere un articolo o per occuparsi degli affari di un congresso cattolico, egli è capace di abusare, di violare la disciplina; allora è meglio cacciarlo dal Seminario; la sua virtù è falsa, è fittizia, è in- sufficiente; non potrà mai essere buon sacerdote in mezzo al po- polo, in mezzo ai mali che inondano la società, nel vivo contrasto delle passioni individuali e sociali.

Ma awiene ciò? è un dubbio che potrà essere dissipato dal- la prova di fatto.

Così la disciplina, in questo senso, diverrà norma di vita che si ama, che resta come una forma di animo, anche quando non si avrà più né il timor del castigo, né il rimprovero e l'occhio vigile del superiore. E la vita comune, a tanti di peso, riuscirà un motivo di esplicazione di energie complesse, nel quotidiano attrito e svi- luppo di idee e di sentimenti.

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E cade qui di parlare dell'altra difficoltà che suole aver gran peso nella mente di molti; « il permettere al chierico queste atti- vità che chiamerò iniziali, specialmente la lettura dei giornali e la partecipazione a un po' di vita di azione cattolica, reca, dicesi, di- strazione forte sia nello studio che nella pietà ».

E' questo l'argomento perentorio, che determina molti alla proibizione più assoluta. Distrae dallo studio: può esser che si abbia questo effetto quando senza né discrezione né misura si slancia il chierico nella vita attiva o nella passionale lettura di qualsivoglia giornale. Sta qui il criterio direttiva e regolativo del superiore.

Al giovane, inclinato agli entusiasmi generosi, si deve limi- tare e circoscrivere la sua attività, perché non travalichi facilmen- te il segno. I giorni e le ore debite, le occupazioni segnate, i gior- nali riconosciuti idonei allo sviluppo graduale delle idee e dei sen- timenti dei chierici e alle cognizioni da acquistare come comple- mento della scuola e della giornaliera discussione; la partecipa- zione a un po' anche di vita attiva che non modifichi sostanzial- mente la regolare successione delle occupazioni chiericali e lo spi- rito di preparazione, che è la ragion formale della istituzione dei Seminari, sono limiti necessari, che applicati con discernimento riescono di grande vantaggio all'educazione del chierico.

Tutto ciò appartiene alla direzione dei superiori immediati, sotto la vigilanza illuminata dei Vescovi, che nei casi particolari vedono e giudicano dove può essere eccesso, dove pericolo, dove abbondante frutto di educazione sacerdotale.

Con queste cure direttive e limiti circoscritti, il pericolo che tali occupazioni proficue distraggano dallo studio, viene allonta- nato ed eliminato.

Forse distraggono dallo studio la preghiera, la ricreazione, il giorno di vacanza, l'assistenza alle Sacre funzioni, quando tutto ciò è alternato con sapiente distribuzione? O forse si crede che lo studio sia solamente lo sgobbare sui libri, senza-che le altre fa- coltà abbiano il loro regolare sviluppo; nella contemperanza delle quali si forma l'equilibrio mentale e volitivo dell'uomo?

E poi non è la sola scuola che prepara alla vita; ma tutto ciò che con la scuola è atto a perfezionare le tendenze e le facoltà umane.

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Altri dicono tutto ciò distrae dalla pietà, divaga lo spirito, fa penetrare la dissipazione nell'animo di chi è destinato a servire nel Santuario.

Anche ciò è un sofisma, più pernicioso del precedente. Si po- trebbe opporre che se la lettura dei giornali o qualche attività di azione cattolica divaga lo spirito e ritrae dalla pietà, che dire del- la lettura dei poeti e dei racconti, che dire della ricreazione, del teatrino di carnevale, delle passeggiate festive? La pietà non con- siste nel passare tutte le ore a recitar preghiere, ma principalmente nell'abito virtuoso dell'umiltà, nell'esercizio della presenza di Dio, nel desiderio di patir per Gesù Cristo e per Lui mortificar se stes- so, nell'ordinar tutto a Dio come ultimo fine.

Quando tutte le opere della giornata sono vivificate da que- sti sentimenti abituali, da queste disposizioni soprannaturali del-

, l'animo nostro, allora sono ben fondate la pietà, la divozione, il '

riconcentramento, che sbucciano [sic] come fiori da piante così ubertose e vitali.

Questo spirito sarà l'aroma che imbalsamerà lo studio e la ricreazione, il contatto con la famiglia e col popolo, la lettura del giornale e la iniziale pratica dell'azione cattolica.

Non bisogna crear colli torti, né ipocriti tristi, ma sacerdoti, il cui ministero importa attività pel popolo in tutte le ore, in tutti i momenti, nei quali siamo costretti; come diceva S. Francesco di Sales, a lasciar Dio per Dio.

Anzi la direzione dello spirito nei seminari deve determinare quelle disposizioni d'animo, che i chierici devono avere nel mini- stero sacerdotale; tra cui principale l'abito della sollevazione della mente a Dio fra tutte le più svariate, agitate, complesse occupa- zioni; e lo spirito di zelo e di abnegazione sino ai sagrificii più inauditi.

Non si creda che il campo dell'azione cattolica sia sparso di rose ; spine pungentissime, dolori e contraddizioni, sagrifici di borsa, di lavoro, di salute, di amicizie, di posizioni, di tutto sé stesso; ecco l'azione cattolica; e quando si crede aver fatto molto, una violenta raffica, una bufera turbinosa porta tante volte via e disperde il lavoro paziente, assiduo, costante di tanti anni.

Ci vuol fede in Dio sincera, forza a lottare, preghiera fer- vente, ed una preparazione di spirito fatta di lunga mano; perché

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gli entusiasmi sono facili a sbollire (quanti se ne son visti), le am- bizioni tentano l'animo del sacerdote, e la tranquillità di un,posto senza tante noie, quante ce ne sono nell'azione cattolica, molti ani- mi frolli seduce. Io ho più fiducia, per l'avvenire dell'azione catto- lica, nella sapiente direzione dello spirito ecclesiastico dei semi- nari, che in tutti gli altri mezzi educativi, pur tanto efficaci. E qui cade opportuno il notare che la proibizione della lettura dei gior- nali e periodici cattolici, suole generare nell'animo del giovane un desiderio intenso e potente di conoscere e di sapere quel che di- cono quei fogli di carta per lui proibiti, ma che però egli vede in mano altrui, che trova nella famiglia, e dei quali loro parla qual- che professore o qualche amico. La reazione si desta violenta an- che negli animi buoni, specialmente perché il giornale cattolico ha l'impronta di un carattere non solo negativamente non cattiva, ma positivamente buona e religiosa e consentanea alle aspirazioni dei chierici.

Così non è raro né difficile il contrabbando; di sottomano entreranno molti giornali, senza il controllo dei superiori, la cui vigilanza sarà ad arte elusa; onde si avrà un male disciplinare, cioè la violazione di una legge del superiore, che costituisce uno stato d'animo non disciplinato, ed educa ad un sentimento pernicioso, cioè il far di nascosto; e un pericolo permanente che possano cioè cadere in mano a giovani inesperti giornali e periodici non buoni.

In un Seminario, dove poco prima erano stati proibiti i gior- nali e specialmente l'Almanacco Democratico Cristiano del 1901, facevano il giro delle camerate giornali cattivi come la Tribuna il- lustrata e i'Ora di Palermo.

Altro che divagazioni di spirito! Resta a far un cenno dei mezzi ricreativi, della cui potenza

educativa nessun dubita. Ieri dal Seminario di Girgenti alcuni chierici mi scrivevano

che desideravano pel prossimo carnevale un dramma che rispon- desse 'al momento presente, che educasse ai nobili ideali della vi- ta, che rispecchiasse le tendenze del programma democratico cri- stiano.

Sventuratamente di questi drammi non ne conosco, ed è do- loroso che nella gran parte dei seminari si è costretti a rappresen- tare quei drammi medioevali di cavalieri, di congiure, di briganti,

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di assassini, di guerre, di torri misteriose, di sotterranei tenebrosi, di spettri e di diavoli, che formano il repertorio antiartistico e an- tieducativo, che abbonda nelle nostre collezioni, fatte pochissime e rare eccezioni, (come i drammi di Lemoyne e le commedie di Cantagalli) a non parlare di certi drammi ascetici, che per lo più fan cadere dal sonno attori e spettatori.

Quanto non è da desiderare per l'educazione e per l'arte, che il teatrino dei Seminari divenga mezzo di educazione moderna, rappresentazione di vita vissuta, elevazione morale di virtù pub- bliche e private, reaIi e vere?

Così una gita in campagna, una bicchierata, una tombola, possono divenire mezzo di propaganda; possono esser chiuse da un voto, da un telegramma, da una piccola raccolta per qualche giornale cattolico o pel parroco a cui vengono tutte le temporalità, o per operai cattolici in isciopero - da una conferenza briosa, da un entusiastico brindisi -. Elemento educativo divengono i libri di premio scelti fra i tanti che si pubblicano di democrazia cristia- na, di sociologia, di letteratura; i concorsi e le gare giovanili su argomenti del giorno, coronate dal plauso dei superiori; le gite nelle vicine borgate, a visitare Comitati e Circoli, Cooperative e Unioni Professionali ... Tutto può e deve contribuire a rendere i chierici idonei d 'alto ministero a cui sono chiamati. '

Io penso che quando i nostri Seminari prepareranno bene i Sacerdoti alla vita dell'azione cattolica, in tutte le sue esplicazioni, la lotta s'intensificherà al centuplo e la vittoria sarà più vicina.

4 Giuseppe Cantagalli e Giovanni B. Lemoyne furono autori molto noti nell'ambito della filodrammatica cattolica. I1 primo era conosciuto soprattutto per la Trilogia di Luigi Gianfuzi e per i molti scherzi comici; il secondo per varie opere storico-apologetiche come Le Pistrine, Seiano, Cristoforo Colombo. Cfr. G. MI- CHELOTTI - L. SAVUOLI, Teatro Cattolico, Torino 1905; A. MARESCALCHI, Il irostro teatro. Guida ai filodrammatici per la scelta delle produzioni, Vi- cenza 1925.

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LA QUESTIONE MERIDIONALE (F. 144 C. 4)

Ho accettato, io siciliano, di parlare in Bologna sulla Que- stione Meuidionale non solo per un senso di carità sentita verso il natio loco, troppo vituperato e troppo sconosciuto, non solo perché sento che è una nobile missione rivendicare la verità e far- la conoscere a chi, per quanto abiti mentali vi facciano ostacolo, non vi ripugna con le prevenzioni della volontà; ma anche perché noi cattolici, che oggi diamo all'Italia lo spettacolo del come sap- piamo sentire cristianamente tutta la vita moderna, sentiamo an- che quanto importanza abbia nella vita nazionale e nello sviluppo delle coscienze proletarie, una adeguata percezione del problema del Nord e Sud Italia, e una pronta e sicura visione delle vie di rinnovamento; al ¶uale noi, se comprendiamo per intiero la no- stra missione, dobbiamo partecipare con la vergine potenzialità dei nostri ideali.

E' necessario sgombrare l'animo da quella serie di pregiudizi, giustificati solo da quella enorme montatura (alla quale noi ab- biamo contribuito) che ha creato un Meridionale d'Italia che non

l Manoscritto; a fondo pagina Sturzo annota: «Conferenza pronunziata a Bologna nella Sala dei Fiorentini, i1 13 novembre 1903 ... erano i fatidici giorni del Congresso Nazionale Cattolico tenuto a Bologna dal 10 al 14 novembre ». Molto probabilmente questo documento e il successivo doc. 16 sono due schemi incompleti di uno stesso discorso che Stuno pronunciò a Bologna parallelamente ai lavori del XIX congresso nazionale dell'opera dei Congressi, dove egli pose il problema dell'organizzazione cattolica neii'Italia meridionale e chiese la scon- fessione del legittimismo. Cfr. DE ROSA, I, pp. 383-385.

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esiste se non nella riscaldata fantasia di politicanti, di giornalisti, di interessati; alterando linee e contorni, travisando fatti e condi- zioni ambientali, per cui oggi, dopo quarantatre anni di vita uni- taria nazionale, noi non siamo meglio conosciuti dai fratelli del Nord, di quando eravamo divisi da barriere politiche e doganali, in un'Italia a pillole.

E mi piace tenere questa sera la mia improvvisata conversa- zione sopra un tema clie mi sta a cuore, qua a Bologna, dove il processo Palizzolo, la cui eco è tuttora così viva in questi luoghi, ha contribuito a creare una quasi leggenda, attraverso le arringhe interessate e preconcette di awocati, le articolesse di giornali, lo spettacolo quotidiano di una turma di poveraglia, chiamata qua a testimoniare non contro un uomo, che già è stato condan- nato, ma contro il proprio paese 2 .

Le affrettate generalizzazioni, tanto più facili, quanto meno sono gli elementi conosciuti e di fatto, sui quali dovrebbero ba- sarsi,. han servito a creare tanti ostacoli, addirittura insormonta- bili alla conoscenza del Meridionale; mentre una folla di interessi antagonistici ha trovato il facile pretesto per affermarsi sulle con- dizioni politiche diverse, da creare lo stacco vero, reale, di due Italie che si guardano in cagnesco; con la differenza che il disprez- zo o la commiserazione, la noncuranza spesso, concorrono a deter- minare un urto di animi, assai più disastroso che l'urto degli in- teressi.

Anche i cattolici dei Nord, dall'estrema destra all'estrema sinistra, partecipano di questo cumulo di prevenzioni e di diffi- denze verso il Meridionale, anche guardato solo dal punto di vista

Raffaele Palizzolo, deputato palermitano, fu implicato in un famoso p r c cesso relativo a due omicidi mafiosi commessi nel 1893. Nel febbraio di quel- l'anno, un certo Notarbartolo, direttore del Banco di Sicilia, e un certo Miceli, fattore di una grossa proprietà, vennero assassinati. Nel dicembre 1899, nel processo presso la corte d'Assise di Milano contro gli esecutori materiali, emerse il nome del Palizzolo come mandante del delitto; lo scandalo si allargò per l'ar- resto di un ufficiale dei Carabinieri e di un vice-ispettore di Pubblica Sicu- rezza accusati di connivenza con una cosca mafiosa. I1 nuovo processo, celebrato a Bologna dal 10 settembre 1901 al 30 luglio 1902, si concluse con la condanna del Palizzolo a 30 anni di carcere, ma la sentenza fu annullata dalla Corte di Cassazione. Un nuovo processo venne aperto a Firenze il 22 settembre 1903 ed era h pieno dibattimento durante i giorni del congresso cattolico di Bologna. Cfr. Processo Paliuolo in « I1 Giornale d'Italia » del 20 settembre 1903.

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della nostra stessa organizzazione; e mantengono uno stacco no- tevole, e se vuolsi una posizione o più che altro una convinzione della superiorità del Nord verso il Sud, certo non buona alla fi- ducia reciproca, alla coesione degli animi e alla collaborazione del- le energie.

Solo da poco Murri, Mauri, Pennati sono venuti fra noi a veder qualche cosa della Sicilia ', quel ch'era possibile in una corsa più o meno in fretta, per averne delle impressioni per quan- to sincere altrettanto fugaci. Noi non ci conosciamo; e lo stacco si rende tanto più reale, quanto ancora non si è trovato una ra- gione specifica di lavoro di tutti i cattolici d'Italia anche a favore di una questione che non è semplicemente politica, ma che è fon- damentalmente questione di conoscenza e di condizione di animo.

Penetrare nell'intimo del nostro problema meridionale è per molti, per moltissimi, come penetrare in una contrada inesplorata, della quale i geografi non hanno maggiore competenza di colui che nella carta d'Africa del Vaticano pose hic sunt leones; così per molti la geografia di Italia arriva a Roma e poscia il resto è segnato con le parole hic sunt meridionales.

Entriamo adunque nell'analjsi accurata, coscienziosa, sobria e serena del problema, con la convinzione che anche a noi spetta in- teressarcene, come di un vitalissimo problema di vita nazionale, che non sfugge alla nostra attività di cattolici, per quanto limitata, e alla quale anche l'alta e media Italia deve partecipare con senno, solidarietà e amore fraterno.

3 Nell'aprile del 1900, Ignazio Torregrossa, Vincenzo Mangano e Sturzo organizzarono un viaggio in Sicilia di Murri, che ebbe modo di con* scere direttamente le iniziative deUa democrazia cristiana dell'isola. I n ta- le occasione il prete marchigiano soggiornò alcuni giorni a Caltagirone in casa Stuno, rinsaldando un'amicizia fino allora abbastanza generica. Cfr. le lettere di Murri a Sturzo del 14 aprile e del 9 maggio 1900, A.L.S., f. 176, cc. 2, 19; cfr. anche R. MURRI, In Sicilia in « Cultura Sociale », n. 10 del 16 maggio 1900.

A. Mallri e A. Pemati, noti esponenti del municipalismo cattolico lombardo, furono i soli rappresentanti cattolici, assieme a Sturzo, che parteci- parono al I1 congresso dell'Associazione Nasionale dei Comuni Italiani, celebrato a Messina dal 9 all'll novembre 1902. Come risulta dalle lettere di Mauri a Stuno, anche i due dirigenti lombardi soggiornarono a Caltagirone ospiti di casa Sturzo. Cfr. A.L.S., f. 165, cc. 79, 80, 81, 150, 151. Cfr. anche, G. TRIMARCHI, L1I formfzione del pensiero meridionalista d i Luigi Sturzo, Brescia 1965, pp. 115-120.

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Non occorre, o meglio, sento il dovere di premettere una di- chiarazione: non sono uno chauvinista, che vengo qua a descrivere le bellezze della mia terra natale, e a vituperare coloro che I'han- no oppressa e disprezzata; sono e voglio essere un analizzatore spassionato di un problema, che amo sia percepito in tutta la sua realtà.

Dirò cose che spiaceranno ai miei colleghi del meridionale, come a quelli del settentrionale; ma proverò di essere obiettivo. E' la prima volta che ad un pubblico e ad un uditorio non composto di meridionali, parlo della questione meridionale, di una questio- ne, che non è estranea al nostro programma democratico cristiano, ma che anzi lo tocca abbastanza; per cui son sicuro che I'interessa- mento per il principio nazionale si unirà quello di un programma, che sentiamo così vivo, oggi specialmente, che si afferma vigoroso e pieno di speranze per l'avvenire.

Diversità di razze, di condizioni geografiche e di tradizioni storiche differenziano sensibilmente l'Italia del Sud dal resto del continente italiano; e lunghi secoli di stacco politico tolsero quel reciproco contatto e quella convergenza di interessi e di sentimen- ti, che, penetrando nell'anima, determinarono più intensamente la vita nazionale. Roma repubblicana e imperiale prima, Roma cat- tolica dopo nel senso della latinità e della religione, univano 1'Ita- lia; allora in diverso senso, nell'evo antico e evo medio, l'Italia era Roma. Nell'evo moderno andò mancando la forza potentissi- ma e unificatrice di Roma, e nel suo continuo decrescere arrivò si- ' no alla Italia presente nazione a sé, che non è più Roma, ma ogni singola parte e tutta insieme.

Crispi però vedeva tuttora le cuciture di questa nazione4, divenuta anche uno stato nella violenta e artata caduta degli altri stati, una più che altro nell'unificazione uniforme, violenta, di- struttrice delle tradizioni locali, delle storie avite, del sentimento, dell'educazione, della vita di ciascuna parte di questo vecchio or- ganismo iii poco tempo rifatto a nuovo e messo sotto un altro regime.

* Brano cancellato: « raccolta da tanti stati precedenti, e più che altro for- mata daUa sua somma ».

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Se al grande amore patrio che animò coloro che sinceramente vollero l'Italia una nazione, si fosse aggiunto una percezione esat- ta del problema che affrontavano, e se coloro che reagivano aves- sero inteso i tempi, e guardato più allo spirito pubblico che alle combinazioni diplomatiche e alle violenze della polizia, questo grande fatto di vita nazionale, che ha elevato la nostra nazione a una vitalità notevole, non ,sarebbe andato incontro a uno dei più forti tarli di vita interna, che per molto tempo ancora intristirà e aduggerà molte energie e potenzjalità.

La distinzione fra nord e sud Italia non è una semplice divi- sione geografica, ma è una distinzione intima nella vita dell'Italia, che arriva sino al più complesso fattore psicologico e storico. E bisogna partire da questo concetto fondamentale e affrontarne la analisi, per avere una percezione adeguata del problema che ci travaglia.

Natura piena, esuberante di luce e di colori, in una varia e potente e suggestiva scena, che dai ripidi e scoscesi monti del- l'Abruzzo e della Calabria, va alle ridenti e seducenti spiagge del- la Campania, dal severo Etna si disegna all'incantato Faro, alla altrice di vita Conca d'Oro, alle pianure verdi di Catania e di Pa- chino, determina una mobilità di fantasia, un'esuberanza di senti- mento, una intuizione rapida e singola dell'intelletto, che forma come la base della psicologia degli abitanti del meridionale. L'in- fluenza dei diversi popoli, ma principalmente della Grecia prima, degli arabi e dei normanni dopo, i popoli che può dirsi si siano resi naturali sul nostro suolo o che per lo meno abbiano determi- , nato vivamente la potenzialità della razza, non hanno fatto dimi- nuire, ma accrescere e raffinare quel fondo speciale della psicolo- gia elementare dovuta alla comunicazione irnmediat2 con una na- tura che si effonde, e con i suoi mille angoli di rifrazione, la sua molteplicità di figura, crea la percezione analitica dell'ambiente vario e mutevole.

I sensi sono aperti alla vita, e a una vita molteplice in una soddisfazione singola, per cui il sentimento individuale entra più facilmente, più da sé, in comunicazione con la natura; il senso col- lettivo e sintetico è meno sviluppato in chi nell'analisi minuta del- la vita svolge una attività di sensi e di pensiero esuberante. L'in- dividuo aderge nella sua forza di comprensione della natura, il

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fenomeno vario soddisfa; e l'intelletto si sostituisce al senso nel- l'unificazione non delle parti che il senso percepisce, ma nell'intui- zione subiettiva della vita.

Così si spiega come mai il meridionale crei i poeti e i filosofi insieme, la percezione estetica e l'intuizione metafisica, e il suo popolo sia così esuberante di vita in un moto di allegria e così pen- soso, così individualista nella sua vita e così concettoso nel suo pensiero.

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LA QUESTIONE MERIDIONALE l (f. 114, C. 4 bis)

La ragione per cui mi sia indotto io siciliano di parlare della Questione Meridionale a Bologna si è che i nostri fratelli del Nord non ci conoscono; non ci comprendono neppure i cattolici, di tutte le gradazioni, dall'estrema destra all'estrema sinistra; e perciò che anch'essi concorrono a mantenere un antagonismo in gran parte ingiustificato.

Però il sentimento unitario di. solidarietà degli italiani è tale che una giusta conoscenza del problema può in gran parte determinare sulle condizioni d'animo e sulla prevenzione che si ha sopra il problema stesso meridionale.

E proprio a Bologna il processo Palizzolo ha turbato la visione del problema - processo Murri 3, Ubaldelli ', ecc. Una analisi del problema nella sua portata è necessaria e s'im- pone. E entro in argomento.

1 Cfr. nota 1 del doc. 15. I1 testo è molto sconnesso: probabilmente si tratta di una prima bozza del discorso.

Cfr. nota 2 del doc. 15. 3 Sturzo si riferisce a un altro fatto scandalistico molto chiacchierato nel

novembre 1903: l'uccisione del conte Bonmartini avvenuta nell'agosto 1902 e di cui furono accusati la moglie dell'ucciso, Linda Murri, e il fratello di questa, Tullio Murri. I giornali diedero grande risalto al fatto sia per la notorietà dei personaggi sia per i tentativi di parte cattolica di denigrare la figura del noto scienziato. Cfr. Misteri d i amore, di odio e di danaro nell'assassinio del conte Bonmartini in « I1 Giornale d'Italia » del 25 settembre 1903.

* Sturzo menziona un altro scandalo scoppiato a Roma alla fine d'agosto 1903 e riguardante la contessa Bice Ubaldeiii, molto conosciuta nell'alta società romana, accusata di aver ucciso la sorella per incassare l'assicurazione. I1 caso

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Analisi dell'ambiente:

Nature fantastiche, mobili, che hanno una visione della realtà dal punto di vista estetico più che realistico, hanno un soggettivisn~o psicologico che dall'eroismo religioso e civile va sino alla mafia e al servilismo arabo.

Questa condizione psicologica si riflette su tutti i problemi di ordine civile, sociale e religioso nella vita collettiva e trasfor- ma anche i problemi economici e politici.

La storia e la poesia, più che reminiscenze retoriche, sono delle vere e proprie intuizioni psicologiche; e il carattere assume la impressionabilità dei fenomeni esterni della doppia vita natu- rale-sentitiva e storico-umana.

E sembra strano che il meridionale dia più che altro filosofi e statisti; però è nel carattere intuitivo che si trova la forza del pensiero e della vita. Vita intima, più che altro, che arriva ad un subiettivismo personale, o all'annientamento della persona in una specie di nirvana familiare e sociale. Spiego.

Per cui la vita di organismi sociali è stentata, sporadica, infrut.tuosa nella sua radice, quantunque nelle esplicazioni abbia parvenze di larga efficienza e di sviluppo.

Così noi nel periodo delle rivendicazioni unitarie nazionali contribuimmo in una vitalità individuale larga intuizione e peuso- nalità; e nel lavoro di coordinamento siamo stati sopraffatti dal forte della vita antica; ieri il tiranno, il re assoluto, I'aristo- crazia, oggi il capitale, lo Stato, la coalizione politica.

Ed ecco l'origine dei nostri guai.

I. Rapporto politico

Insufficiente preparazione alla vita collettiva, quindi forma- zione delie cricche personali locali, politiche e amministrative nuova aristocrazia - dominio delle autorità politiche e appog- gio - rapporti col governo. Condizione dell'elettorato: la mafia,

si complicò non solo per gli immancabili intrecci amorosi, ma perché si scoprì che la sorella dell'accusata era ancora viva, essendovi stata una sostituzione di persona. Cfr. Le audaci gesta criminose di una contessa, in << I1 Giornale d'Italia » del 31 agosto 1903.

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la camorra, la corruzione contro a sopraffare gli onesti che sono i più, ma nella vera condizione individuale.

I1 rimbalzo di ciò è enorme nelle condizioni parlamentari del paese.

-I1 meridionale fino a Depretis fu di sinistra, poscia prestò gli ascari ai ministeri. E' strano, ma è così.

I primi dieci anni si visse di idealità (unità - Roma capCita- le] - trasformazione ecc.) e allora le forze (sia pure traviate) ma vive e individuali del meridionale sacrificarono noi a tutta l'Italia; dopo, supercostrutte le nuove cricche locali, subentrò alle indivi- dualità oneste, rette, ideali, il tornacontismo politico rinsaldato dalle cricche locali.

Ecco l'epoca degli ascari. La prima generosa, se vuolsi, ci sacrificò per l'idea nazionale, la seconda per l'affarismo perso- nale. La vita locale imperversa tutto il mezzogiorno: anche qui l'individualismo del campanile. Mancanza di contatti, di com- merci vivi; di partecipazione diretta alla vita politica negli inte- ressi generali, perché manca la visione del problema generale, si è individualisti e la vita locale ci assorbisce. Così si trascurano i problemi vitali.

11. Questione economica

Dalle due epoche politiche degli idealisti e degli ascari è surto vivo il problema economico che si mette così:

1' Siamo degli sfruttati 2' Siamo degli iloti 3' Siamo dei colpiti dalle crisi economiche

Frasi crude ma vere.

1' Sfruttati = debito pubblico e di guerra vendita beni ecclesiastici perequazione tributaria spese opere pubbliche trattati commerciali - protezionismo

2" Iloti = piemontizzazione deficienza di mezzi

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scuole, industrie; spese militari; P[ubblical Sicurezza; ferrovie - strade insufficienza a comprendere il carattere locale unità e uniformità: due cose diverse: bisogno di autonomia larga, finanziaria e amministrativa

3" Crisi = lo vinicola (Francia) insufficienza di mezzi 2' granaria (tassa protezionista - prezzo unitario) 3' agrumaria (trattati commerciali)

Enorme sintesi e rimbalza sulla questione sociale del mezzo- giorno.

I I I Questiòne sociale

Condizioni delle classi popolari, analfabetismo e coscienza morale, I...]

1. Agricoltori (Contea di Modica - patti agrari - latifondi e gabellotti - usura)

2. Artigianato interno - zolfatari

3. Piccola proprietà - debito ipotecario e fondiario - assen- teismo - grandi proprietari - fiscalismo - proprietà - capitale inorganico.

I ) Sfiducia nel governo, nelle classi dirigenti 2) Socialismo anarchico dei fasci [ 181 93-94 3) Organizzazione socialista - ragione di moralità e di pane -

grandi coalizioni temporanee Quietismo - Polizia - Governo.

IV. Questione religiosa

1 ) Istruzione - coscienza - ignoranza - superstizione - fede 2) Tondizione dei cleri - R. Monarchia - Cesarismo - Muni-

cipalismo - Concordato dellY08 3) Borbonismo cattolico e vecchie concezioni

Parola illeggibile. O Brano cancellato: « Clero servile e clero ignorante ».

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Problema netto

1) Autonomia delle regioni meridionali riguardo al problema economico-finanziario.

2) Necessità di prowedere a sé stessi nella vita interna delle regioni.

3) Partecipazione di tutta la vita collettiva italiana nelle regioni del mezzogiorno o meglio orientamento verso il Sud Italia.

4) Partito nuovo da sorreggere o meglio la Democrazia Cri- stiana nel meridionale.

Caratteri del partito nel meridionale - lotta interna ed ester- na - problema religioso - sociale - municipale - politico - (larga esposizione).

Un po' di storia dal '94 sino a oggi, un decennio. Dalla Sicilia a Napoli.

1 ) stacco dal passato cattolico borbonico 2 ) ragione sociale del movimento e suo carattere religioso 3) carattere politico municipale ecc. in corrispondenza al pro-

blema dell'Autonomia regionale e della coefficienza delle forze del Nord.

Nord e Sud - interessi opposti - anima e ideale nazionale - ragione organica e vita cattolica

L'avvenire politico dell'ltalia e il problema pontificio in ordine al Meridionale. Se i partiti liberale e socialista potranno mettere nel vero terreno la questione, e se il partito cattolico lo può.

Speranze vane?

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I L LEGITTIMISMO IN ITALIA l (f. 144, C. 3)

Ho lasciato per un niese che una certa stampa si sbizzarrisse contro di me, che ho assunto nel campo cattolico, dal Congresso di Bologna a questa parte, per merito loro (bisogna riconoscerlo), l'impresa di una crociata incruenta contro i borbonici infestanti le associazioni cattoliche napoletane. E il mio silenzio non è stato privo da una certa tendenziosità; perché volevo una giustificazio- ne patente alla mossa che io e molti amici del meridionale d'Ita- lia credemmo opportuna fare a Bologna, quando nell'ordine del giorno sulla « Questione Meridionale » abbiamo scritto che era necessario dissipare l'equivoco legittimista del nostro movimento cattolico.

La parola "dissipare l'equivoco legittimista" nella sua misu- rata espressione non significa "dar la caccia ai borbonici" ma trovar modo come nelle nostre fila di cattolici non s7in£iltrasse una questione di carattere prettamente politico, che noi con la gran maggioranza dell'Italia riteniamo una questione addirittura morta, e che altri si sforza credere ancora viva.

Dico questo per ridurre al suo vero carattere la portata dell'espressione da me scritta e accettata da più di trenta firma-

1 I1 manoscritto è senza data, ma quasi certamente si può far risalire alla fine del dicembre 1903, cioè un mese dopo il congresso di Bologna dell'opera dei Congressi, dove Sturzo presentò un ordine del giorno sulle necessita dell'orga- nizzazione cattolica nel meridione, auspicando, tra l'altro, la fine dell'« equivoco di qualche tendenza politico-legittimista di pretesi cattolici »; la mozione - pub- blicata in « Cultura Sociale », a. VI, n.. 141, 16 novembre 1903 - provocò le reazioni della stampa legittimista.

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tari del celebre Ordine del Giorno; portata che non è stata analizzata dai borbonici o pseudo-borbonici del campo cattolico, che hanno strillato a più non posso contro l'abate ~turzo, a co- minciare dal Conte Pasini Frassoni, che pubblicò una protesta a nome del Collegio araldico e della Nobiltà Cattolica Italiana, a terminare alla Discussione, ad Elia Rotondo, a GaIati-Scuderi con i loro articoli, lettere aperte, dialoghi italo-siculi e giù di lì '.

A ogni modo a me non preme che abbiano equivocato o voluto equivocare; anzi mi giova molto; e quell'equivoco legitti- mista, che tanti offende, potrà chiarirsi, dando a ciascuno le pro- prie responsabilità.

Dalla lettura attenta dei documenti umani (un bel titolo messo dall'Osservatore Cattolico a titolo della protesta del Col- legio Araldico contro di me) si volevano dire tre idee fondamen- tali: 1" - che il legittimismo è un dovere dei cattolici meridio- nali; 2' - che la difesa della causa della Santa Sede, riguardo al potere temporale, e quella dei principi spodestati hanno un lega- me di connessione e di rapporto intrinseco; 3' - che la salvezza del Meridionale sta nell'autonomia che non si potrà ottenere senza le rivendicazioni storico-legittimiste.

Le parole non sono queste, ma il senso dei loro articoli polemici è chiaro ed è precisamente questo. Essi così piantano una questione politica, una religiosa, e una amministrativa, la soluzione delle quali è nelle rivendicazioni legittimiste; per cui la bandiera del legittirnismo sventolata timidamente, s'innalza sopra al movimento detto cattolico di Napoli e l'ombra di essa lo aduggia.

Noi invece contestiamo loro la legittimità cattolica di tale ideale, e i rapporti che stabiliscono fra il legittimismo e l'organizza- zione cattolica, la difesa dei diritti della Santa Sede e la questione meridionaie.

Per noi il legittimismo è una pianta che non deve essere coltivata nelle nostre associazioni cattoliche; nelle quali non si fa questione di forma di governi o di dinastie regie o di ideali repub- blica& I1 nostro ideale religioso, civile e sociale ha obiettivi più alti, che non siano le rivendicazioni dei diritti storici di famiglie

Sulle reazioni dei cattolici legittimisti a1i'o.d.g. presentato da Sturzo a Bologna, cfr. DE ROSA, I, pp. 383-385.

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regnanti, e finalità più universali che quelle di interessi politici di indòle direi quasi privata.

E se non fosse il dissidio fra Chiesa e Stato per la libertà e la indipendenza del Romano Pontefice, noi cattolici italiani non solo non avremmo avuto difficoltà ma avremmo il dovere di aderire al presente ordine di cose, come ai cattolici francesi Leone XIII riconobbe e inculcò il dovere di aderire alla repub- blica, smettendo le viete rivendicazioni legittimiste, che scin- dono le forze cattoliche, che rendono inviso il nome di cattolici alle nazioni, e che lasciano che i nemici della religione impune- mente e liberamente nei civici e politici consessi continuino la politica delle persecuzioni.

Non s'intende così giustificare il modo o l'origine storica del potere pubblico, come oggi è; perché se volessimo, con la storia alia mano, esaminare a punta di diritto e di morale i pas- saggi delle dinastie e dei re, troveremmo da quanto sangue e da quante ingiustizie trassero i titoli di dominio la gran maggioranza delle famiglie regnanti in Europa in tutti i secoli. Invece a norma del più elementare diritto, noi reputiamo che le potestà politiche sono pel bene della nazione e non viceversa; per cui ad evitare i mali di lotte e di fazioni politiche (ieri militari e oggi civili) è dovere dej. cattolici di non turbare l'ordine e di non alzare ban- diere faziose. E' in questo senso che Leone XIII ha appoggiato in Spagna l'attuale famiglia regnante, pur di principii liberali, invece del pretendente Don Carlos e dei carlisti, in massima parte cattolici e preti, alla stessa guisa che consigliò ai cattolici fran- cesi l'adesione alla repubblica.

Ma in Italia una questione religiosa viva sempre, per la sua intrinseca natura tiene diviso lo Stato dalla Chiesa e lontani i cattolici dalla vita parlamentare. E' una questione religiosa, che non si lega alla questione politica delle case regnanti in Italia prima del sessanta, che non ha carattere legittimista, che non esiste per un carattere politico. Se fosse così, come i legitti- misti e i borbonici la pensano, alla stessa stregua e con gli stessi criterii dovremmo giudicare la questione romana, e ritenerla chiusa, come si ritiene chiusa ed è chiusa la questione dei Borboni nelle antiche due Sicilie.

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Invece non è così: si tratta della libertà e della indipendenza del Papa quale capo religioso dei cattolici, esclusivamente come tale e in rapporto alla sua divina missione.

Onde sin che non si arrivi alla soluzione del grave problema, che può diirar secoli, come durano secoli le catacombe, il diritto della Santa Sede alla libertà e alla indipendenza non solo di fatto ma di diritto non può subire menomazioni o preposizioni.

Né spetta a noi risolvere il problema, ma al Papa; e nostro dovere è cooperare e lavorare come vuole il Papa a questo scopo; oggi, per esempio, astenendosi dalle urne, domani andando alle urne; formando le coscienze cristiane e ravvivando gl'ideali guelfi della missione dell'Italia; contrastando il socialismo antireligioso e sviluppando l'organizzazione cattolica.

Sublimi ideali e santa opera questa, che non deve soffrire l'ombra di interessi politici, di rivendicazioni postume, di senti- menti antinazionali, di ibridismi legittimisti.

Del resto io non arrivo a comprendere che vogliano questi uomini con la faccia voltata indietro, come gl'indovini dell'in- ferno dantesco.

Credono che il popolo pensi più ai borboni? ... Credono che ne sia possibile il ritorno e lo smembramento

dell'ltalia? . . . Credono che ciò gioverebbe alla patria, o piuttosto non la

getterebbe (se fosse possibile) nelle agitazioni di parte? Infine, vogliono la guerra? Domande vane: quanti siete? io dico a costoro. E se siete

i pochi, anzi se men siete come partito civile e politico in Italia, a che, entrando nelle associazioni cattoliche, cercate il terreno adatto per coltivare una vostra inutile e dannosa aspirazione?

Nessun cattolico viene da noi per sostenere la repubblica, e pure non pochi sono repubblicani; così nessuno deve venire da noi a sostenere la causa legittimista, ma solamente la causa della religione, del Papato, della nazione, del popolo per rige- nerare e nazione e popolo in G[esù] Cfristo].

Un'altra questione fanno alcuni. Essi dicono: l'attuale gover- no unitario ha sfruttato il Mezzogiorno: ebbene, che il mezzo-

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giorno torni ad essere quel che era, e sarà salvo. Ecco il perché del legittimismo.

Anche in ciò non siamo d'accordo: noi non possiamo avere di mira un obiettivo impossibile, né un obiettivo che compro- metta una causa più alta qual'è quella della religione; e tale sarebbe il proposito di legare la salvezza del mezzogiorno al ritorno dei Borboni 3.

Del resto è così primitivo e meccanico questo concetto in ordine ai rimedi del mezzogiorno, che non va1 la pena metterlo in discussione. Ci vuole la coscienza e l'energia di un popolo per salvar se stesso; e i governi potranno fare del male; difficilmente fanno del bene senza che questo bene abbia vita intrinseca.

Concludendo: noi cattolici italiani abbiamo il diritto di vo- lere escluso dalle nostre attività un ideale e una finalità poli- tica di forma di governi che pregiudica di per sé all'azione gene- rale dei cattolici e agli altri scopi per cui si lavora. Non diciamo quindi di dar la caccia alle persone, ma di non volere che queste persone vogliano difender l'altare difendendo troni caduti, e che portino come loro ideale di vita pubblica il legittimismo.

Ecco il senso e la portata della frase dell'ordine del giorno di Bologna.

3 Brano cancellato: « e ali'autonomia di un regno, etc. A parte il resto che neanche col ritorno dei Borboni si salverebbe il Mezzogiorno ».

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DUE PAPI E L'ORA PRESENTE ' (f. 126, C. 93)

I. Ritorno della ricordanza di Leone XIII con una insistenza tanto più viva quanto più è sentito il bisogno delle concrete applicazioni dei suoi indirizzii in un turbinio in cui è in questi momenti avvolta la Chiesa: e passiamo a una considerazione di sentimenti più alti, meno personali, quando volgendo lo sguardo, il pensiero e l'affetto al successore, che, ora è un anno, saliva trepidante la cattedra di San Pietro, noi formiamo un atto sin- cero di credenti verso le sorti immortali della Chiesa e del Papato, attraverso le diversità personali di criteri e d'indirizzi.

E noi, se addolorati, pensiamo quanta fosse per noi imma- tura la dipartita a novant'anni del grande Leone, lieti ci volgiamo a chi, nel succedergli, senza deviare dal passato, apre nuovi orizzonti all'attività della Chiesa; e nella sia pure diversità di indirizzo, utilizza e forma altre forze, altre tendenze dello spi- rito, nell'alterno manifestarsi di desiderii e di volizioni, di idee e di tendenze, di speculazioni e di opere.

Con tutto ciò non possiamo nasconderci che l'ora presente non sia triste per la Chiesa e per noi: e ci fermeremo a guardarla con quello spirito di fede e di azione che si richiede in veri ratto- lici ... affinché Gesù non rivolga a noi quel che [disse] a Pietro: uomo di poca fede; perché dubitasti?

1 Discorso manoscritto, datato 7 agosto 1904 e steso in alcuni punti in forma schematica; sotto il titolo Stuno annota: « Conferenza avanti le AssCocia- zioni] Catt Coliche] in Caltagirone B.

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Sarà questo un nuovo tributo di onore a Leone XIII che c'ispirò e guidò a battaglie, un atto di filiale omaggio a Pio X, che in nome di Glesùl Clristol dall'alta cattedra di Pietro, ci parla parole di vita eterna; un insegnamento per noi, che abbia- mo il dovere di corroborare la nostra fede.

11. Il nzomeizto presente, discusso, agitato, interpretato in diversi sensi, che apre una serie'di problemi generali è il seguente:

1) - tendenze scientifico-religiose avanzate, compresse dal- l'autorità ecclesiastica. Loisy. Denis, Houtin '.

2 - rottura delle relazioni francesi con la Santa Sede 3.

3 - scioglimento deU'opera dei Congressi, ultima fase del- la lotta fra conserv[atori] e democrlatici cristiani] e nel Belgio indice le elezioni ultime, nella Francia indice lo stato caotico del partito cattolico 4 .

2 Alfred Loisy, Charles Denis, Albert Houtin furono tra i più noti esponenti del modernismo francese. I1 Loisy, come è noto, è considerato il caposcuola dell'esegesi biblica modernista; tra le sue opere, vanno ricordate: L'Éuangile et I'Église, Etudes éuangeliques e Le quatrième éuangil~. Denis fu invece il diret-

. tore degli « Annales de philosophie chrétienne ». Houtin, infine, è famoso per La question biblique cbez les catboliques de France au X I X siécle e per L'arneri- canisme, opere condannate e messe all'indice dal S. Uffizio. Cfr. E. Buonaiuti, Il modernismo cattolico, Modena 1943, pp. 77-123; E. POULAT, Storia dogma e critica nella crisi modernista,. Brescia 1967, passim.

3 I1 29 lugiio 1904 - contemporaneamente alla crisi deli'opera dei Con- gressi - il consiglio dei ministri francese decideva di rompere le relazioni diplo- matiche con la S. Sede al termine di un crescente conflitto tra la politica laicista di Combes e le rivendicazioni del Vaticano, conflitto che sfociò nella rottura per le vicende disciplinari dei vescovi di Lava1 e Digione, in cui venne alla luce il contrasto tra Stato e Chiesa in ordine alla nomina e alla revoca dei vescovi. GiA nei maggio precedente i'ambasciatore francese presso il Papa era stato richia- mato a Parigi in seguito alle proteste del Segretario di Stato, Merry del Val, per la visita a Roma del presidente francese Loubet. Cfr. A. DANSETTE, OP. cit., pp. 316-322.

4 Sturzo sintetizza la fase critica attraversata dal movimento cattolico in alcuni paesi europei. In Italia, il comitato generale permanente dell'opera dei Congressi e tutti i suoi gruppi, eccetto il secondo (quello economico), vennero sciolti da Pio X con la famosa lettera del Segretario di Stato Merry del Val ai vescovi d'Italia del 28 luglio 1904. In Belgio, la Lega democratica, che egemonk zava elettoralmente il movimento cattolico, aveva perso nelle elezioni generali 5 seggi a tutto vantaggio dei liberali. In Francia, i cattolici erano ancora divisi tra ralliés, cioè coloro che accettavano lealmente la repubblica, e intransigenti che finivano per confondersi con le posizioni ultranazionaliste.

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I tre fenomeni storici dell'oggi, che tengono agitato e diviso l'animo dei cattolici, e preoccupati gl'indifferenti e gli awersari, sembrano preludii di avvenimenti che maturano nell'intimo della psiche moderna, che ha un carattere di spinta idealistica religiosa innegabile, in un senso vago, lato, generoso, di .abbracciar tutto, anche l'antinomico e il contraddittorio. Questo subiettivismo personale generale, a volte morboso, osta contro uno spirito intransigente, che eleva dighe e barriere, che proclama il non posszlmus dell'assoluto, mentre il relatiuismo invade tutto l'am- biente moderno, fino le pure regioni della morale.

L'opera di Leone XIII indicata dalle parole rivolte da Lui al Card. Nina pochi mesi dopo la sua ascensione (agosto '78) fu di portare l'azione benefica della Chiesa e del papato in mezzo alla società: e a questo mirarono 25 anni di lavoro unico, di una mente equilibrata e assimilatrice in una potenzialità nuova alla sua età e alle sue tradizioni.

Ed egli, non perdonando mai all'errore, lasciò invece che le tendenze moderne più sane e più evolute avessere percorso la loro parabola, intervenendo a regolare più che a reprimere, a indirizzare, più che a segregare.

Così ebbero sviluppo naturale sotto il vigile occhio della Chiesa quelle scuole di esegetica, di apologetica, di filosofia, di sociologia, di critica storica, che urtarono troppo, in una corsa allenata [sic] le idee tradizionali del tempo, e scossero tanti la cui mentalità cristallizzata avea cercato di rinchiudere in un museo tutta la concezione scientifica della religione.

Così il dualismo fra le due scuole si formò e si sviluppò: dualismo che sempre esiste non nella sostanza della religione ma nelle guise esterne umane di presentare il contenuto religioso ai popoli.

Forse non tutti coloro che mi ascoltano rileveranno la por- tata di quest'osservazione e c'insisto in forma popolare.

Perennità e progresso della Chiesa - ragioni divine e uma- ne [ ... l come è nella speculazione, è nelle opere.

Nina Lorenzo, nato a Recanati nel 1812 e morto a Roma nel 1885, mem- bro della commissione preparatoria del Concilio Vaticano I, elevato cardinale da Pio IX nel 1869, fu Segretario di Stato con Leone XII1.

Parola illeggibile.

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Il galoppo delle idee moderne avanzava: scuole - profes- sioni - scienze - lettere - tutto in mano antireligiosa in una antino- mia di metodi, di criteri, di potenzialità.

L'ingegno e le idee guidano il popolo e le nazioni - proua.

E se si perde il campo delle idee, se nel dibattito quotidiano della scienza noi ce ne stiamo lontano, l'influenza della religione si attenua, vien meno; e la ripercussione nelle famiglie, nel popolo, nella società è enorme.

Così le due tendenze si sono svolte, e si svolgono perenne- mente creando la forza di equilibrio nel pensiero, equilibrio che non è un fatto singolo, che neppure è un fatto continuo, ma un rimbalzo perenne.

I1 cammino di Leone XIII fu il cercare l'equilibrio delle tendenze agevolando però apertamente quella che più risponde ai bisogni presenti. Oggi però sembra l'ora della sopraffazione: le voci di pensiero vitale si vogliono soppresse, si cerca tutto un formulismo vecchio per abbattere le nuove guise della verità, la legge del sospetto, agitata sotto Leone XIII, si fa gigante ... E' questo lo stato presente. Fermiamoci qui e passiamo al secondo fenomeno.

-& .L .. .. J-

Francia e Santa Sede. Leone XIII - rapporti politici con gli stati e vitalità popo-

lare - in Francia i1 ralliement - Lavigerie, Meline .... il Dreyfusismo, il nazionalismo - Frati e vescovi e cattolici

disubbidienti. La Croix e i PP. Assunzionisti - l'antipatia fra clero reg[olarel

e sec[olare] - Valdeck Rousseau e Combes. La mitezza di Leone XIII, il nobis nominavit, la parabola

discendente. Le conseguenze ultime - Loubet in Roma - la protesta - le

ultime congregazioni - due Vescovi traditori - la rottura delle relazioni diplomatiche, il libro bianco - alIa vigilia della denunzia del Concordato '.

Sturzo schematina le vicende fondamentali dei rapporti tra Vaticano, chiesa francese e I11 repubblica a cavallo del secolo. I1 cardinale Lavigerie, primate

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E' questo lo stato presente; fermiamoci qui e passiamo al terzo fenomeno.

Leone XIII proclama la democrazia cristiana - Speranze e vitalità al 1897-'98-'99-'900-'901 - Graves de com[muni] - Taranto.

I sospetti, le ire, le intemperanze - I'incorporazione nellYOpera dei Congressi - Rimbalzo in Francia e nel Belgio.

Due anni di faticosa conquista - difficoltà - Bologna - il Motu Proprio - di nuovo Bologna - la circolare di Grosoli - lo sciogli-

d'Africa, arcivescovo cilAlgeri e di Cartagine, delegato apostolico per il Sahata, fu tra i principali e più discussi protagonisti del ralliement di Leone X I I I . Di lui si servi il papa per iniziare il processo di adattamento dei cattolici francesi alla repubblica, ma i suoi discorsi e i suoi atteggiamenti spregiudicati andarono oltre la complessa strategia pontificia e gli attirarono la violenta opposizione dei catto- lici monarchici. Jules Meline presiedette, dall'aprile 1896 al giugno 1898, un ministero composto di repubblicani moderati e appoggiato dai ralliés; la sua politica è ricordata per i tentativi di smussamento dei contrasti religiosi. Ad essa fece riscontro nel campo cattolico i'iniziativa di Etienne Lamy, appoggiato discreta- mente dal Vaticano, di unire le varie organizzazioni cattoliche in federazione che, accettando lealmente la repubblica, si presentasse alle elezioni politiche del 1898. La federazione ebbe vita travagliata soprattutto per la posizione del potente comi- tato Justice-Egalité, controllato dagli Assunzionisti che, attraverso il loro gior- nale « La Croix » e la fitta rete di organi regionali e diocesani, non si assog- gettarono alla disciplina della federazione, perseguendo una linea autonoma di tendenza intransigente e confessionale, non scevra da tinte antisemitiche. Agli inizi del '98 scoppiò intanto il caso Dreyfus: il capitano ebreo, condannato ingiusta- mente nel '94 per spionaggio, diventò il simbolo deila sinistra radicale e repub- blicana contro i'ondata antisemitica e la presunta cospirazione generale della chiesa contro la repubblica. L'acuirsi dei contrasti e la conseguente crisi della politica di pacificazione religiosa del Meline, segnarono da un lato il ritorno alla vecchia maggioranza di concentrazione repubblicana, dall'altro la rinascita di un movimento nazionalista e antisemita, fautore di una concezione imperialista e autoritaria della repubblica e tenace oppositore della revisione del processo Dreyfus. Gli Assunzionisti e il loro organo « La Croix » appoggiarono la campagna antidreyfusiana, spalleggiati da molti curati e da molti religiosi, in particolare gesuiti e domenicani. Nel giugno 1899, l'espandersi del movimento pro-Dreyfus, in opposizione all'agitazione monarchico-nazionalista, favorì la riconciliazione dei vari gruppi repubblicani sotto la guida di Waldeck-Rousseau; falliva cosl il disegno di Leone XIII di costruire in Francia un grande partito repubblicano conservatore attraverso l'incontro tra cattolici ralliés e repubblicani moderati. Con Waldeck-Rousseau si aprì una nuova fase di recrudescenza nei rapporti tra Chiesa e Stato francese: la lotta contro il ciero regolare divenne uno clei capisaldi programmatici del nuovo primo ministro. Sono noti i vari progetti di legge che intaccavano il regime delle congregazioni e, soprattutto, I'insegnamcnt~ presso le m o l e private confessionali e i seminari. Gli Assunzionisti furono parti-

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mento - stati d'animo: secessione, nuova organizzazione, sospet- ti, speranze '.

E' questo lo stato presente del fenomeno. Fermiamoci ed en- triamo nell'analisi sincera ed accurata.

colarmente colpiti: nel gemaio del 1900, il tribunale pronunciò lo scioglimcnta deli'ordine, vennero perquisite le sedi della Bonne-Presse e il direttore di « La Croix » VeMe incriminato. Le elezioni del 1902 portarono alla presidenza del consiglio EmiIe Combes. Con lui, la politica di « difesa della Repubblica » di Waldeck-Rousseau, divenne offensiva anticlericale secondo queste tre direttrici: lotta alle congregazioni, completa laicizzazione dell'insegnamento, separazione totale tra Stato e Chiesa. Tra l'altro, Combes, rivendicando la lettera del concordato del 1801, sostenne il diritto del governo di nominare i vescovi senza entente préa- kzble; chiese pertanto che le bolle pontifice rispettassero il concordato soppri- mendo il termine nobis nella formula nobis nominauit. In tal modo veniva escluso il diritto di nomina del Vaticano, prescrivendosi la semplice presentazione del designato alla S. Sede. Nel dicembre 1903, Pio X, a pochi mesi dalla sua elezione, accettò la soppressione del nobis nelle bolle. La querelle nascondeva in realtà un più ampio conflitto non tanto sulla forma delle nomine vescovili quanto sul- l'ingerenza del Vaticano nella chiesa francese: Combes mirava infatti a escludere Roma dalla nomina dei vescovi. Poco dopo la visita di Loubet a Roma, scoppiò il caso del vescovo di Laval, mons. Greay, richiamato dal S. Uffizio a rassegnare le dimissioni per i suoi atti contro gli ordini religiosi. I1 governo protestò per la violazione del concordato che impediva l'attribuzione e la revoca dei poteri vescovili senza la decisione governativa. La polemica si allargò per un altro fatto. I1 vescovo di Digione, mons. Le Nordez, venne denunciato a Roma dall'arciprete della sua cattedrale come massone; nel febbraio 1904 i seminaristi rifiutarono di essere ordinati dal Le Nordez, che reagì con espulsioni e interdizioni. I1 caso fece scalpore, finché, nel giugno, il Vaticano intervenne comandando al vescovo di presentarsi a Roma, pena la sospensione. I1 governo protestò nuovamente presso la S. Sede affermando che il concordato non attribuiva ad essa il diritto di convocare direttamente i vescovi. Combes fece sapere al Segretario di Stato che se la minaccia contro Le Nordez fosse stata attuata, la Francia avrebbe rotto le relazioni diplomatiche. Meny del Vai rispose che il concordato prevedeva la consultazione del governo solo in caso di deposizione di un vescovo, non nel- l'ipotesi di una semplice chiamata a Roma. Malgrado l'atto di sottomissione al Vaticano del Le Nordez, il 29 luglio 1904, il governo francese, nonostante il parere contrario di alcuni ministri, ruppe le relazioni diplomatiche con la S. Sede. Cfr. A. DANSETTE, OP. cit., pp. 234-332.

Sturzo evidentemente si sofferma culle principali vicende dei rapaorti tra Opera dei Congressi e democrazia cristiana. La Graves de communi, enciclica ema- nata il 18 gennaio 1901, segnò il tentativo di Leone XIII di porre fine alle controversie tra « antichi intransigenti », capitanati da Paganuzzi, e giovani d.c. guidati da Murri. L'enciclica, benché approvasse il nuovo movimento sociale nato dalla Rerum Novarum, non secondò la spinta autonomistica del movimento mur- riano, anzi ne stabill i'inquadramento dentro i'Opera e la sottomissione all'auto- rità vescovile. D'altra parte, la volontà di Leone XIII di inserire i fasci d.c. dentro i'Opera incontrò le resistenze dei « vecchi ». Al XVIII conmesso nazionale, celebrato a Taranto nel settembre 1901, il consueto breve pontificio, che apriva

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Parte II

La Chiesa - i momenti di sosta e di slancio - le persecuzioni esterne e le difficoltà interne - l'indirizzo degli uomini e la forza delle idee.

Si svolga:

Periodo storico

a) Le prime difficoltà: giudei e gentili convertiti. Pietro e Paolo.

Le lotte di pensiero - S. Girolamo e S. Agostino - S. Tom- maso e S. Bonaventura.

L'assimilazione della civiltà scientifica - l'epoca dell'aristote- lismo degli arabi - le grandi riforme e le lotte dei grandi Santi -

i lavori, ribadì l'urgenza della conciliazione e riconobbe l'importanza della d.c. quale componente essenziale dell'opera. A Taranto fu inoltre presentato il nuovo statuto dell'organizzazione, che, per espressa volontà vaticana, accentuò il carat- tere ecclesiastico dell'opera. Tuttavia le trattative tra le due tendenze non tro- varono accordo: ci vollero le istruzioni pontifice del febbraio 1902 per inquadrare d'autorità il movimento d.c. dentro l'Opera, privandolo cosl di ogni autonomia. I1 XIX ' congresso nazionale, tenuto a Bologna nel novembre 1903, registrò la prima sconfitta degli « antichi intransigenti » che vennero messi in minoranza su una mozione da loro presentata contro la nuova presidenza Grosoli che aveva proposto di avocare a sé la facoltà di sciogliere i comitati inattivi. Un mese dopo Bologna, Pio X, col motu proprio del lo dicembre 1903, escluse tuttavia che la democrazia cristiana potesse essere intesa come qualcosa di diverso « da una azione benefica in favore del popolo, fondata sui diuitti di natura e sui precetti del Vangelo »: era un evidente ridimensionamento degli obiettivi politici dei fasci d.c.. Ai primi di luglio del 1904, si riunl a Bologna il comitato permanente deii'opera. Un ordine del giorno presentato dal Cerutti e che suonava sfiducia verso il presidente Grosoli, venne approvato a maggioranza. Grosoli informò subito la S. Sede che, sconfessando gli « antichi », confermò la presidenza. Grosoli emanò allora una circolare agli organi periferici per informare sulle nuove duettive d'azione. Ma gli accenni alla d.c. e soprattutto alle « questioni morte nella coscienza nazionale » vennero sconfessati da un articolo dell'« Osservatore Romano », dove la circolare venne definita non « in tutto conforme alle istruzioni pontifice ». Grosoli rassegnò subito le dimissioni che vennero accettate dal papa. Per solidarietà a Grosoli, altri dirigenti di gruppi e sezioni si dimisero, tra cui Filippo Meda, Luigi Sturzo, Giacomo Radini Tedeschi. I1 28 luglio la già citata lettera di Merry del Va1 risolveva la questione sciogliendo definitivamente l'Opera dei Congressi. Cfr. G. DE ROSA, I , pp. 357, 430.

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S. Pietro Damiano e S. Gregorio VI1 - S. Leone IX e Alessan- dro I - Bonifacio VI11 e Benedetto XI - Gregorio XVI e Pio IX.

Sintesi della storia ecclesiastica; i motivi di credere e di sperare.

b) L'avanzarsi, l'evolversi e il progredire delle idee nella Chiesa: l'opera umana e divina; il vaglio della resistenza per l'idea, della virtù per gli uomini - il trionfo nel progresso, e il pro- gresso nella nuova lotta. Mirabile concatenazione.

Torniamo ai tre fenomeni :

a) fenomeno scientifico.

b) fenomeno politico.

C) fenomeno sociale. Arresto? Indietreggiamento? La prova delle menti e degli

animi è necessaria.

a) la scienza matura con Dio e si svolge; l'assimilazione è lenta: molti sono gli elementi. deleterii; lato subbiettivo del neo-

-kantismo, del criticismo storico, della teoria dell'immanenza della sociologia cristiana. Urto nell'assimilazione.

b) diplomazia: vecchie forme che cadono; il concordato impaccio; il protettorato d'oriente motivo di gelosia, le congre- gazioni regaliste, il ralliement fallito, i cattolici in crisi - il fuoco che purifica.

C) democrazia: ristagno di azione - legge del sospetto - im- pacci burocratici - Nuove forme - divisione org[anizzazionel reli- giosa e org[anizzazione] politica - necessità e svolgimento.

E' l'evolversi che si matura e ne siamo lieti. Cadono le forme di Leone XIII e non cade lo spirito (portare la Chiesa e il papato nella civiltà moderna). Codono i criteri personali di Pio X, legato alla tradizione e non cade lo spirito instaurare omnia in Cristo.

E noi ci purifichiamo nelle nostre vedute personali e ascen- diamo l'erto cammino della lotta per la religione e per la patria. Dio-Gesù Cristo [...l nei secoli: modice fidei quare dubitasti? Avanti.

Q Parola iIieggib.de.

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CHIESA E STATO SOTTO I BORBONI l (f. 145, C. 7)

Durante la guerra, che ebbe a pretesto la successione al trono dell'infelice Polonia, tra Stanislao Le[sz]czinski e Augusto 111, Don Carlo, figlio cadetto di Filippo V e Duca di Parma e Piacenza, nel 1735 riconquistava Napoli e Sicilia alla corona di Casa Bor- bone, cacciandone gli austriaci che vi ebbero dominio dalla Pace di Utrecht (1713). Cosi la pote'ntissima famiglia dei famosi gigli regnava sulla Francia, sulla Spagna, sulle Due Sicilie; e poscia nella guerra di successione al trono austriaco, nella pace di Aquisgrana del 1748, riguadagnava il perduto ducato di Parma, Piacenza e Guastalla.

Tanta larga potenza su quasi tutti i paesi latini ', costituiva quella enorme coalizione di interessi e quell'egemonia' assoluta

1 Discorso manoscritto datato 21 ottobre 1901. Sotto il titolo Sturzo annota: « Lettura al Circolo di Cultura di Caltagirone ». Sul retro del primo foglio, Sturzo annota ancora: « A Napoli il 17 dic [embre] 1904. Ho accettato l'invito di questo Circolo Universitario Catt. di Napoli di ripetere la lettura fatta al Cir- colo di Cultura di Caltagirone sul tema Chiesa e Stato sotto i Borboni perché l'oggettività storica e l'equilibrio della verità possano non rinfocolare antipatie o simpatie sul passato, ma agevolare la formazione della coscienza sui problemi del presente.

Questa lettura è solo un capitolo di un lavoro che vado preparando sui rapporti storici fra Chiesa e Stato; e solo riguarda la 1" parte del periodo del dominio dei Borboni nelle Due Sicilie dal 1735 al 1818. Ho premesso alcune idee generali per potere così far riconoscere i criteri che mi guidano nel lavoro che ho intrapreso e lo schema storico da seguire P.

Brano cancellato: « nei quali anche l'Austria teneva piede con il suo dominio sulla cosidetta Lombardia austriaca D.

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di dominio, che doveva di lì a poco sentire le forti scosse della rivoluzione francese e dell'impero Napoleonico, e cedere alla so- prawenuta borghesia gli stessi troni di Francia, Spagna, Napoli e Sicilia, Parma e Piacenza, e abbassare i superbi gigli.

A voler affrontare il problema dei rapporti fra Stato e Chiesa sotto i Boi-boni, nella sua interezza storica, si deve abbracciare un ben lungo periodo di tempo e una troppo estesa somma di rapporti, quali dai diversi stati deU'Europa Latina vennero deter- minati. L'argomento, molto interessante, si estende in campo larghissimo, e non è possibile una sola sintesi, per quanto ristretta, sì da formare l'oggetto di una Lettura per un Circolo di Cultura.

Quindi, a volere essere più coscienzioso nello studio che intraprendo, e a volere ricavarne un concetto generale, che pos- sa essere circoscritto non arbitrariamente, ma da un complesso di fatti storici speciali, e anche a trovar nel contatto di una storia che può dirsi ci appartenga, sia perché è la storia che precede immediatamente a questa che per noi è incominciata al 1860, sia perché tocca un cumulo di tradizioni, di interessi, di memorie, che pesano ancora sulla nostra coscienza storica, e sono come un fondo incosciente, che si risveglia attraverso a tutte le alterazioni presenti, limito l'oggetto di questa Lettura alle relazioni tra Chie- sa e Stato dei Borboni di Napoli, da quando le Due Sicilie furono riunite sotto unico scettro autonomo, staccato giuridicamente da ogni altro Stato estero, sino alla rivoluzione francese e la repub- blica partenopea, alla restaurazione del 1815 e al Concordato del 1818, riservandomi per altra volta continuare sino al 1860.

Questi due periodi storici hanno diverse caratteristiche spe- ciali, che li differenziano dai precedenti, non solo perché le Due Sicilie non passano sotto altri dominii esteri, o non vengono divise da diversità di padroni, ma anche perché vere guerre che turbino l'interno del paese per ragioni dinastiche non ve ne sono; e i Bor- boni hanno l'agio di creare un'impronta di governo speciale, che pesa anche oggi nella nostra educazione, mentre la rivoluzione francese maturava i semi del nuovo ordine di cose.

I periodi che studiamo devono essere divisi non solo sotto la ragione ecclesiastica, ma anche sotto la ragione civile; così il primo che dal 1735 va alla rivoluzione francese, alla creazione della repubblica partenopea, al regno di Giuseppe Bonaparte e di

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Gioacchino Murat, sino alla restaurazione del 1815 ed, ecclesia- sticamente, sino al concordato del 1818; e la seconda che dai moti del '21 arriva alla caduta nel 1860.

In tali periodi noi c7imbattiamo in cinque re Borboni, cioè Carlo 111, che poscia al 1759 diviene re di Spagna, lasciando il regno al fanciullo Ferdinando IV che alla restaurazione piglia

; il nome di Ferdinando I ; Francesco I, Ferdinando I1 e France- sco 11. Tutti uomini religiosi nel senso più ovvio della parola, anzi gli ultimi due, se vuolsi, più dediti alle pratiche della pieta, . con un fondo buono di animo popolare, e che in breve divennero napoletani nell'anima, con quel contorno di bonarietà e di malizia, di animo aperto e di diffidenza che li caratterizza; ma pieni di un senso profondo, gretto e pertinace dei diritti della corona contro le così dette invadenze ecclesiastiche come contro i desiderii e le aspirazioni dei popoli, che formano il doppio lato del periodo che intraprendiamo a studiare. Con animo sereno e con la maggiore possibile esattezza storica entro adunque in argomento.

Però sento il bisogno, prima di passare allo studio di siffatto tema, di esprimere una mia idea: ho scelto di intrattenervi in questa lettura un tema, che altri potrà giudicare vaghezza storica di esumazione di fatti che furono, e che solo ha valore in quanto che, sino a un certo punto e sommariamente, si può far conoscere quel che normalmente non è alla portata della cultura comune; altri ci vedrà una punta polemica contro una certa vaghezza di borbonismo che si è infiltrato nelle file cattoliche; e altri ancora una poco opportuna esposizione critica che. potrà turbare le coscienze di giovani con l'alzare il velo delle piaghe della Chiesa.

Ebbene, né vaghezza di esumazione storica, né ragione pole- mica, né inutile critica. mi hanno spinto; ma due ragioni di un certo valore: prima la ricerca delle cause storiche di molti mali che lamentiamo oggi come prodotto del nostro secolo, attribuen- doli a uomini e a dottrine moderne, e la conoscenza più adeguata di certi istituti che soprawivono tuttora anche alla rivoluzione; secondo la ricerca di fatti storici riguardanti il diritto pubblico della Chiesa, sul quale anche oggi si battaglia, pure sotto altri principii, che portano alla concezione del separatismo religioso.

Alla soluzione di un problema di piena attualità anche noi in Italia, come i cattolici di Francia e di Spagna, dobbiamo lavo-

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rare nella vita, essendo che esso forma nella società moderna la ragione dell'esistenza pubblica e civile della Chiesa nei popoli latini, proprio come nel secolo XVI'iI sotto i Borboni, oggi sotto le democrazie borghesi.

I rapporti fra la Chiesa Cattolica e gli Stati sono uno di quei problemi così complessi e difficili nella pratica, come facili sono gli schemi teorici che i seguaci delle teorie estreme possono creare; e non è uno sproposito storico il dire come la storia della civiltà cristiana è così pervasa dalle fasi di questo problema nei suoi fenomeni concreti, che non si ha epoca in cui non sia sorta una lotta fra i rappresentanti del potere ecclesiastico e i rappresen- tanti del potere civile, che non vi siano in tali lotte bagliori san- guinosi, eroi e vigliacchi, prepotenti e longanimi; che non vi abbia pigliata parte la società, tutta la società contemporanea; che le coscienze non ne siano state sconvolte e turbata perfino l'anima popolare.

Una ragione non del tutto semplicistica si trova nella teoria delle invadenze, cioè ogni potestà tenta di invadere e di assorbire; e questo lo diciamo senz'ombra di ironia: il dare a Cesare quel ch'è di Cesare e a Dio quel ch'è di Dio, così semplice e profondo precetto è la cosa più ardua allo spirito umano, che facilmente tende a far regola se dell'uniuerso, come dice G. Battista Vico.

Ma questa è un'osservazione che potrebbe sembrare super- ficiale: c'è qualche cosa di più complesso nelle relazioni tra Stato e Chiesa, che emerge al lume della storia con carattere speciale: cioè il contrasto permanente, antinomico, irriducibile fra lo spirito della società cristiana soprannaturale, autonoma, perfetta e indi- pendente, e lo spirito dell'autorità civile come tale, che o nella personificazione dell'autorità nella persona del re, o nella rappre- sentanza collettiva delle democrazie o delle aristocrazie tende alla somma totale, centralistica, incontrastata della potenzialità e della estrinsecazione del potere. Onde rinasce la concezione di due termini assoluti, Chiesa o Papa e Stato o Reso Popolo, che nella loro potenzialità vantano l'autonomia soprannaturale l'uno, l'au- tonomia naturale l'altro.

I principii, com'è chiaro, sono per se differenti e la caratte- ristica sociale li dispaia; però il soggetto su cui cade la potestà di entrambi e il territorio sono identici; uomini e cristiani e abi-

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tanti in un territorio ha lì uno, ma sol perché cristiani; uomini e per lo più cristiani e abitanti in un territorio ha l'altro, ma in quanto uomini e sudditi.

Ed è in ciò la ragione del contrasto, nel fatto che tale sog- getto, nelle esplicazioni del vivere sociale del Cristianesimo è indi- pendente dalla società civile, e opera secondo un'altra legge, che è e deve essere guida alla legge civile dei popoli; per cui un'altra autorità di ordine diverso, ma che ha attinenza a tutta la vita dei popoli, sotto l'alta ragione morale e religiosa, strin- ge nei suoi legami le potestà terrene, circoscrive le potenzialità umane, perché il giusto, l'onesto, il buono, che una legge subiet- tiva di coscienza riconosce, una legge pubblica di Chiesa bandisca e imponga.

Così la potestà della Chiesa nel suo termine assoluto di interesse religioso e morale, tende, nella esplicazione della sua potenzialità e nell'attuazione del suo organismo ', a circoscri- vere le esorbitarne della potestà civile, e a regolarne la por- tata del valore morale e di coscienza.

Ma non è questo solo il motivo dei contrasti; per esso si hanno solo le persecuzioni e le lotte religiose, come sotto l'im- pero romano, nelle invasioni maomettane, nella propagazione della fede nella Cina e nel Giappone. In tale caso l'interesse re- ligioso dei pagani assume una caratteristica nazionale di fronte alla internazionalità del vangelo, e i pregiudizii, il fanatismo, le ire e il tornaconto dei sacerdoti pagani scatena quelle grandi per- secuzioni, che creano le 1.egioni dei martiri. In tale caso la Chiesa è considerata come un nemico, come un intruso che viola un popolo nella sua religione e nei suoi costumi.

Un altro lato, ed è quello che consideriamo più da vicino, è invece creato dalla posizione giuridica della Chiesa nella società civile.

Tale posizione fu creata di fatto non tanto dal decreto di tolleranza del 313, dato a Milano da Costantino, quanto dalla condotta di Costantino verso la Chiesa Cattolica, poscia elevata a legge universale da Teodosio il grande, per cui la Chiesa ebbe

Brano cancellato: a penetrare neii'ambito della società ».

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il dovuto riconoscimento civile come società a sé, come unica società religiosa, con diritti civili e con valore anche politico.

I1 diritto di proprietà ecclesiastica reso sacro, il diritto di riunione, organizzazione, predicazione, il riconoscimento legale dei crimini ecclesiastici di eresia, magia, violazione del matrimo- nio, ecc.; il diritto coercitivo, da eseguirsi dal braccio secolare, le tre immunità, il valore della censura: tutte furono conquiste della chiesa nella vita civile dei popoli, e crearono il diritto pub- blico ecclesiastico.

Questa elaborazione sociale visibile della Chiesa, in mezzo a uomini, cui la forza ha spesso valore di legge e diviene prin- cipio di potestà, dovea destare per necessità le gelosie dei prìn- cipi terreni; ed ecco che imperatori di occidente e di oriente, sin dall'inizio, mettono il piede nell'intimo recesso religioso e Co- stantino Magno, che avea dato per ragioni politiche il decreto di tolleranza, comincia la serie degli interessati protettori e degli invasori del potere ecclesiastico: egli assiste al concilio di Nicea, dà validità politica a decreti e a nomine di vescovi, si fa promo- tore di leggi ecclesiastiche. E i suoi successori di Bisanzio sanno essi fare i teologhi non solo speculativi, ma pratici, ora appog- giando ora perseguitando eretici, mettendo con voluttà la mano sulle cose e sulle persone sacre.

Intanto in Occidente si elaborava una nuova potenzialità della Chiesa nel campo del diritto civile. Il feudalesimo creava i vescovi-Baroni, con la doppia investitura del pastorale e della spa- da; le badie divenivano centri di estesi territorii e capi di uomini servi della gleba e soldati; il Sacro Romano impero fu un'im- mensa istituzione politica di origine e di rapporti ecclesiastici; la Chiesa di Roma trasformava i suoi domini civili in politici nella Sicilia, Sardegna e Corsica e riceveva Benevento e Spoleto a ti- tolo feudale e Roma a titolo sacro di garenzia e sicurezza. Popoli e sovrani, di fresco convertiti alla fede, trovavano, nella loro ingenua forza che superava ogni diritto, la controbilancia nella potestà del Pontefice, che in nome della più alta concezione ideale, si adergeva su tutto.

Tante ragioni politiche crearono nel Medio Evo la gran- diosa lotta tra Chiesa e Impero in Occidente, come le ragioni religiose crearono il grande scisma greco in Oriente, finché Bo-

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nifacio VI11 segnò in Anagni la trasformazione del diritto po- litico storico della Chiesa occidentale; dopo che Nicolò I avea segnato lo stacco religioso della Chiesa Orientale, che soprav; visse agonizzante, sinché Maometto I1 abbattè l'impero bizantino.

L'Evo Moderno ereditò in occidente la lotta tra Stato e Chiesa, non più sotto l'aspetto teologico degl'imperatori di Bi- sanzio, o sotto l'aspetto politico degl'imperatori del S[acro] R[omano] I[mpero], ma sotto un altro aspetto: la emancipa- zione della società civile dalla Chiesa nella creazione della po- testà regia prima, della sovranità popolare dopo.

La ribellione dei popoli anglosassoni dalla Chiesa e la ri- forma protestante avea non solo tolto nazioni e popoli alla Chiesa, ma trasformato lo spirito pubblico, che colla rinascenza affettava il peggiore scetticismo ed era caduto in una enorme corruzione. Intanto alla cattedrale veniva sostituendosi la reggia, che elevan- dosi sulle piccole e turbolente democrazie, iniziava quel potere assoluto e quell'interesse di famiglie principesche e di dinastie, che dovevano far divampare fiamme di guerre e versare fiumi di sangue in Europa.

Il potere ecclesiastico si trovò pertanto a dovere mantenere la sua potenzialità attraverso allo sfrenamento di tante ed enormi cupidigie, e a salvare l'ortodossia dei popoli latini, con conces- sioni e alleanze con re e principi, che potevano, come Enrico VI11 d'Inghilterra e il Langravio di Lussemburgo, trascinare i popoli all'eresia, se l'interesse di un trono o la voglia di una concubina l'avessero consigliato.

Così i secoli XVI e XVII tra le guerre cosidette religiose e le guerre di successione o di usurpazione, furono il campo di quelle invadenze regie nella vita della Chiesa, come nella vita dei popoli, da arrivare alle enormi potenze di Carlo V e di Luigi XIV; dalle quali invadenze gli uomini di Chiesa si rifacevano con la enorme potenza dei Cardinali di Corte, come Richelieu, Mazarino, Alberoni.

Così fu preparata, e dovea scoppiare ben presto, la rivolu- zione antireligiosa del secolo XVIII, che ha nome di giurisdi- zionalismo e cesarismo, che noi studieremo in una delle sue for- me più acute nel regno delle Due Sicilie.

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Quando incomincia la storia del dominio dei Borboni sulle Due Sicilie riunite, lo stato religioso del cosiddetto regno per anto- nomasia, era addirittura nella massima decadenza. In Sicilia la lotta di Vittorio Amedeo di Savoia contro la S. Sede, e il celebre interdetto del 1714, avea resa battagliera, audace quella falange di ecclesiastici e di legulej che tenevano agitato e commosso lo spirito pubblico. La ribellione contro il Papa che nei paesi prote- stanti era stata sul principio dell'autorità in materia di fede, nei paesi cattolici e latini, dopo un secolo, era scoppiata sulla giuri- sdizione e la potestà disciplinare, legislativa, giudiziaria, e attac- cava l'origine stessa e la radice della giurisdizione papale.

La lotta del clero gallicano contro il Papa, e il carattere di chiesa nazionale, e l'autorità regia in materia ecclesiastica, era a principio del 1700 la questione che più agitava il pensiero con- temporaneo, come oggi è per esempio la questione sociale.

A penetrare il carattere della grande controversia giurisdi- zionalista del tempo, ocorre esaminare alcuni fenomeni speciali: e pria di tutto è indubitato che coloro che diedero alla questione un carattere proprio furono gli ecclesiastici e gli avvocati. Essi crearono la letteratura contemporanea che va da Hontheim (il celebre Febronio) a Dupin, Fleur~, Natale Alessandro, Quesnay, Pietro Giannone, a citare i più noti. Una legione gli uni e gli altri, gli ecclesiastici e gli avvocati, in quel tempo enorme. A Napoli solamente sotto il regno di Carolina troviamo che i così detti paglietti sono trentamila, e il clero nel Meridionale conti- nentale era più del 10 per mille, a cui una legge borbonica volea ridurlo; cioè sopra 6 milioni di abitanti più di 60.000 ecclesia- stici; perché le statistiche ci fanno conoscere arrivasse alla enor- me cifra di 200 mila ecclesiastici.

Queste due caste (com'erano allora) nella maggior parte fu- rono quelle che sostennero, e può dirsi crearono in parte, i così detti diritti della Corona o regalie; cioé un compleso di diritti ecclesiastici attribuiti ai re e ai principi per diritto divino, e tolti al romano pontefice, fra i quali diritti principali le nomine dei vescovi, degli abati, dei beneficiarii di maggior conto; il di- ritto di creare le pensioni sulle rendite ecclesiastiche, e poi di conseguenza una somma di diritti nell'interno regime della Chiesa locale, nella convocazione dei sinodi, nella sacra visita, nella giu-

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risdizione delle cause ecclesiastiche, nell'esecuzione delle bolle pontificie, nella visita ad limina e così via.

Chi volesse in questo fatto vitale per la storia della Chiesa e delle Nazioni del secolo XVIII trovare quel lato nero che da Marx fu elevato a unico canone della storia e chiamato materia- lismo storico, troverebbe che l'attribuire ai re le nomine di ve- scovi ed abati, tornava commodo e utile a quel clero aulico, che'si era formato attorno alle corti dei secoli XVII e XVIII, sotto il pretesto della difesa della fede e dei costumi, con una serie di consigli, tribunali, ufficii, confessori regi e consultori di regine, perfin di letterato e di poeta e di cascamorto delle dame di corte, per arrivare ad avere una croce in petto e una rendita in tasca ed entrare nel rango della ultra potente nobiltà. Agli avvocati interessava che la giurisdizione delle cause fosse laica o ecclesiastico-regia, e ai cortigizni interessava che sulle rendite dei conventi e delle chiese il re e la regina o la cortigiana o la dama o il ministro potessero sollecitare e decretare delle forti pensioni a lor favore, senza che Roma potesse impedirlo.

Ma tutto ciò specialmente interessava i re stessi, i quali, emancipati, secondo la concezione storico-giuridica del medio Evo della potestà pontificia sulla loro, e rotti i vincoli dei parlamenti del Medio Evo e ridotti gli stati generali a una funzione deco- rativa, assommavano in sè tutti i poteri; e loro piaceva sentire che la loro era una potestà di diritto divino, e che da essi deri- vava al Pontefice la potestà di diritto pubblico. « Lo stato son io e la Chiesa son io »: ecco l'aspirazione dei principi d'allora. E più che altro interessava poter avere libere le mani nelle grandi ricchezze ecclesiastiche, e poter comandare in nome del loro di- ritto tutta quella società ecclesiastica che per la sua potenzialità morale ed economica, e per la tradizione di diritti antichi, era la più formidabile e insieme la più importante del regno.

Così si formò un legame forte fra i re e i suoi ministri e cortigiani e i cleri aulici e la gente di Curia.

La caratteristica di questa lotta, che a noi moderni fa tanta impressione, si è che questi re, ministri, abati, vescovi, profes- sori, scrittori, awocati, paglietti, nello spirito generale e riella stessa ragione della lotta contro il Vaticano staccano la ragione della religione, della fede, dell'ortodossia dalla ragione del giu-

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risdizionalismo curiale o anticuriale come lo chiamavano. E tutti non .solo si professano religiosi cattolici, ma praticano la reli- gione, l'appoggiano nelle sue manifestazioni di culto, credono e della loro credenza ne danno le più larghe manifestazioni, sia pure nella corruzione delle corti alla Luigi XV, o nello spirito scettico e incredulo della filosofia contemporanea. L'ipocrisia di una esteriorità di vita cristiana invadeva e corrompeva; e prepa- rava la grande rivoluzione. In quel tempo l'Italia non ebbe né un Gerolamo, né un Pier Damiani, né un Savonarola.

La tabe regalista, nella sua fase specifica. del sec. XVIII, era entrata in Sicilia specialmente con la questione della Regia Mo- narchia, che durò 15 anni (1713-28).

L'istituzione della Legazia Apostolica, detta in seguito nel secolo XV "Tribunale della Regio-Monarchia", si fa rimontare ad una pretesa bolla di Urbano 11, per la quale il Papa abbia dato al Conte Ruggiero e ai suoi successori il diritto di legati pontificii in tutto il regno di Sicilia, con le stesse facoltà eccle- siastiche giurisdizionali dei legati del Papa; per cui il Papa si obbligava a non mandare altri legati senza il consenso dei re, e il re avrebbe inviato ai Concilii fuori regno quei prelati che credeva potersi assentare dal servizio alle chiese; e riassumeva il diritto di appello in vece di Roma, come un tribunale supe- riore e di ultima istanza. Di fatto, tali facoltà Ruggiero abusiva- mente avea esercitato prima della Bolla; la quale, a quanto sem- bra, non avrebbe fatto altro che elevare il braccio secolare a cooperatore nei rapporti pubblici della Chiesa col regno. I Ca- nonisti dubitarono dell'autenticità della bolla, altri restrinsero il privilegio alla sola persona di Ruggiero e al più dei suoi discen- denti. Di fatto però su questa Legazia si battagliò tra Re di Si- cilia e Sommi Pontefici, e fu argomento di soppressioni, concor- dati, decreti, bolle, ricorsi, rinunzie, lotte.

Però quando il tribunale assunse una vera e propria consi- stenza giuridica, fu nel secolo XV, e più assai sotto Carlo V, e rappresentò sino al 1864 una vera e propria congregazione ro- mana sui vescovi, però in nome del .re quale Giudice Supremo e Legato del Papa. Tale Tribunale dava le dispense matrimoniali, riceveva e giudicava sugli appelli, e anche sulle cause maggiori, nel periodo di maggiore invadenza regia; e divenne un vero stru-

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mento politico in mano del re. Innocenza 111, Pasquale 11, Cle- mente XI e Pio I X con decreti l'abolirono, ma solo Pio IX arrivò a distruggere la mala pianta.

Dal 1713, adunque, per quindici anni si combatté tra Vit- torio Amedeo I1 e Clemente XI uno di quei grandi duelli delle due potestà per l'abolizione del tribunale di R[eale] Monarchia. La lotta cominciò con un fatto semplicissimo. I1 Vescovo di Lipari, che avea pingue prebenda delle decime di tutti i prodotti, avea portato al mercato dei ceci e quindi erano stati messi in mo- stra; i pubblici esattori delle imposte detti graserini o catapani ( x x z a zav, sopra tutto) aveano richiesto il diritto di mostra, una specie di tassa di esercizio e rivendita. Però, i beni ecclesiastici e delle mense vesc[ovili] erano esenti da tali tasse, e il Vescovo Mons. Niccolò Tedeschi credette difendere i suoi diritti sco- municando i catapani. Questi ricorsero al Giudice della R[ealel Monarchia, per farsi assolvere dalla censura; e il Giudice di R[eale] Monarchia li assolse ad cautelam e intimò loro di com- parire in giudizio e citò per gli atti il Vicario Generale di Lipari; il quale ricusò dicendo che Lipari era diocesi esente.

Intanto Mons. Tedeschi era andato a Roma, donde la Con- gregazione delle Immunità dichiarava incompetente il Giudice di RCealel Mon[archia] di assolvere dalle censure e dichiarò i catapani scomunicati.

Mandato il decreto della Congregazione romana ai Vescovi di Sicilia, questi, per le leggi regie, doveano chiedere il r[eale] exequatur per poter pubblicare il decreto ai fedeli; lo doman- darono i Vescovi di Palermo e Patti e il VicCario] Gen[erale] di Monreale, exequatur che il Re naturalmente negò; si chiesero allora istruzioni a Roma, e Roma ordinò la pubblicazione imme- diata della Bolla. Alcuni Vescovi coraggiosamente, altri con ti- more, eseguirono la pubblicazione, invano ostacolata dal Vice-Re, il quale con un contro-editto dichiarava nullo il decreto ponti- ficio. I1 Vescovo di Catania, con vero zelo ecclesiastico, p u b blicò tosto una controdichiarazione dicendo nullo l'editto regio, e perciò viene esiliato. Partendo interdice la Diocesi; così a Girgenti e a Lipari e a Messina (dove l'interdetto non fu lan- ciato); Palermo si barcamenava. Di qui cominciò una lotta se- ria, gigantesca, fra i due poteri; e fra il clero curialista che

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parteggiava pel Vaticano, e il clero regio-aulico e anticurialista pel Re. I1 Governo cercò di formare la pubblica opinione rega- lista, trapiantando la mala erba in Sicilia con le opere di Paolo Sarpi, di Fevret, di Hont[h]leim e di altri. Una letteratura libel- lista si scatenò contro l'autorità dei pontefici e dei vescovi, da digradarne qualsiasi giornale liberale, che osservavano l'inter- detto. Gli ecclesiastici che volevano osservare l'interdetto o az- zardavano manifestare anche in semplice conversazione idee cu- rialìste (come dicevasi) venivano chiusi in carcere o mandati a domicilio coatto; le monache chiuse in parlatorio, con le finestre murate, e messe a razione di pane e acqua, mentre le consorelle regaliste potevano a loro arbitrio fruire dei disordini dei mona- steri e della confezione delle paste dolci.

Riproduco dallo Stellardi qualche saggio della corrispon- denza reale: « Si facciano da teologi pubblicare lettere-consulte e spargere nel regno, dimostrando non essere obbligati all'os- servanza dell'interdetto per causa del meto grave, non ostante il disposto contrario della bolla pontificia ». Al 31 gen[naiol 1717 il re scrive al vice-rè: « Vi trasmettiamo un esemplare dei libri del Sarpi dove troverete raccolte le massime intorno ,

all'obbligo dei magistrati di difendere le regalie e alla nullità delle censure per ciò inflitte ».

Nel sopracitato Stellardi si legge (8 giugno 1714): « quin- dici chiese di S. Filippo di Agira sono state chiuse; il Canonico Roccaforte procuri di farle aprire; se incontra rifiuto intimi ai preti, regolari o secolari, di andare in Palermo ad audendum verbum, e intanto procuri di farli uffiziare da altri preti ». E più in là ( 10 giugno 17 14) « faccia riaprire, anche a viva forza biso- gnando, le porte del monastero della trinità ».

I1 Giudice di Monarchia veniva sostituito nelle potestà dei vescovi e dei generali e provinciali degli ordini, e il Giudice della Gran Corte veniva mandato in missione per comprimere e punire.

Ai predicatori, se favorevoli al Papa, s'intimava di tacere; vi era stabilita rigorosa quarantena e un servizio speciale di barche per impedire che entrassero nella Sicilia stampe favore- voli al Vaticano.

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Le violenze del governo alienarono gli animi di molti; e la Sicilia credette migliorare quando nel 1723 ritornava alla Casa d'Austria, la quale nel 1728 otteneva dal Papa un con- cordato, pel quale venne ripristinato e regolato il Tribunale della REeale] Monarchia.

Così da una lotta titanica la S. Sede ne usciva diminuita di prestigio e il paese avea subito la forza delle teorie giurisdi- zionaliste, rifatte a nuovo, e portate come il prodotto più natu- rale del progresso e della vita civile dei popoli.

In quello stesso tempo a Napoli un uomo valeva quanto una istituzione, e maturava nell'ambiente napoletano quella stessa tabe, che in Sicilia la questione della R[ealel Monarchia: io dico Pietro Giannone.

Giureconsulto e avvocato napoletano, nato al Ischitella nel 1676, pubblicò nel 1723 la Istoria civile del regno di Napoli, in cui avea impiegato 20 anni di studio e di lavoro, originale e nuova nel metodo, come la dice il Rinieri; ma nell'intendi- mento profondamente antiecclesiastica. Egli vuole arrivare, per ragione storica, alla conclusione che la Chiesa deve dipendere nella sua pubblica esplicazione dalla potestà regia, che non ha forza coercitiva, non ha giurisdizione perfetta. I vescovi dipen- dere dal re e non dal Papa, che ne ebbe una vera e propria concessione dagl'imperatori.

La teoria di Giannone non era affatto nuova ai suoi tempi, anzi era, come abbiamo visto, la questione più viva del diritto pubblico di allora e nelle grandi controversie della vita vissuta; egli raccolse tutta la portata della letteratura regalista, e la lanciò nella coscienza pubblica della classe colta del tempo, in- contrando bene nella tendenza così spiccata, così viva, di una lotta di distruzione contro gl'istituti civili-ecclesiastici e pura- mente ecclesiastici del tempo.

L'opera di Giannone fu condannata dalla Chiesa e appog- giata segretamente dal governo austriaco, dal quale ebbe la pen- sione di 1000 fiorini sui fondi del culto del regno delle due Sicilie. Nel 1728 il gesuita Sanfelice si azzardò di scrivere una opera di confuta, e il governo austriaco per mezzo del vicerè conte di Harrach lo condannò con un decreto che è un docu- mento che varrebbe la pena leggere se non fosse lungo: in esso

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si dice che il Sanfelice ardisce anche sagrilegamente attentare alla Sacra potestà dei sovrani, e chiama il libro audacia e nera malignità di questa satira.

I1 Sanfelice si dovette allontanare dal regno, e l'opera del Giannone, tradotta in molte lingue, fu divulgata dai re catto- lici e protestanti, come un'altra base deI loro trono.

Al sopravvenire dei Borboni (1735) il Giannone si trovò tolta la pensione dei 1000 fiorini, viaggiò a Venezia, in Svizzera, e poscia fu preso a tradimento dal Principe di Ormea, ministro sabaudo, cui tornava comodo in quel momento, e lo rinchiuse in carcere a Torino; ivi morì convertito come testificò il P. Prever, al 1748.

I1 governo dei Borboni concesse al figlio di Giannone una annua pensione di 300 ducati, per non permettere, come dice la lettera del Tanucci, 8 maggio 1769, che resti nella miseria il figlio del pizì grande e pizì utile allo stato e più ingiustamente perseguitato uomo che il regno abbia prodotto in p e s t o secolo.

Questi erano i precedenti teorici e di fatto che nel 1735 trovò Carlo I11 di Borbone a Napoli e in Sicilia, che riassu- mono tutto lo stato d'animo del paese, e che danno la chiave a comprendere la storia seguente.

Dopo le più agitate tempeste ecclesiastiche, anche gli ani- mi erano stanchi, e il disordine imperversava in tutti i campi, e le guerre aveano distrutto uomini e ricchezze, quando al 1738 si firmava la pace di Vienna e Carlo col titolo di VI1 diveniva incontrastato Signore Delle Due Sicilie e inaugurava il regno dei Borboni.

Era in quel tempo il campo ecclesiastico sottosopra; i beni dei conventi e monasteri, nella loro apparente vistosità, erano stati taglieggiati da tasse, pensioni a cavalieri e favoriti, inca- merati per diritto di guerra e per diritti di pace; le cause eccle- siastiche devolute per prepotenze giurisdizionaliste ai tribunali laici, o misti, sempre regi; i vescovadi parte vacanti e parte senza pastore, le immunità ecclesiastiche violate, il diritto di asilo divenuto arma (anche per colpa del clero), di invadenza regia; il numero dei chierici e dei frati enorme, per ragione del fide- commesso, per cui i nobili cercavano che i secondi geniti vestis-

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sero l'abito talare e monacale a peso dei beneficii detti artati e delle piazze franche di monacazione; per cui ignoranti e sco- stumati arrivavano al sacro ministero, a rovinare disciplina di clero e anime di popolo.

In tale stato di cose, buona volontà di Pontefice, il celebre Benedetto XIV, e l'interesse del nuovo principe di conciliare a sé l'elemento del Vaticano, determinarono il Concordato del 1741; in cui il re pretendeva di coIpire di tasse i beni eccle- siastici, e la S. Sede vi consente per tre quarte parti, esentando i conventi e i monasteri poveri, e il gravame di alcune tasse di indole focale; il re pretende il diritto sull'immunità eccle- siastica, e il Papa vi consente in buona parte quel che riguarda il diritto di asilo; il re pretende di giudicare sulle cause del regno, e il Papa esenta solo le pure cause ecclesiastiche e non tutte; il re pretende l'amministrazione e la sorveglianza sui luo- ghi pii e il Papa consente alla creazione di un tribunale misto; il r6 pretende la limitazione del clero, e il Papa sancisce rigorosi ordini per la promozione dei chierici, ordini tuttora in vigore, che sarebbe un gran bene che fossero osservati; il re vuole ri- conosciuti i diritti su Benevento, e il Papa si rimette alla beni- gnit; del sovrano; il re vuole che i brevi pontifici, per essere validi nel regno, venissero esecutoriati e il Papa si rimette alla sollecitudine e alla coscienza del re; e questo negli articoli detti segreti.

Così, con strappi giuridici al diritto ecclesiastico, fatti in nome della religione in uno di quei trattati detti concordati, comincia il regno dei Borboni, affermando intiero il così detto diritto delle regalie.

I1 regno di Carlo dal concordato in poi, diciotto anni, tra il rinascere della corte (il Teatro San Carlo, le reggie di Caserta, Portici, Capodimonte, le cacce di Persano) maturava i semi della lotta. I1 Concordato servì come un nuovo punto di par- tenza; e l'esempio di Vienna,'Firenze, Madrid, Parigi e Lisbona servivano come elementi di educazione a corte, e formazione di

- ambiente nel paese. Certo il concordato avea ribadito l'opinione generale for-

matasi in Europa dei diritti regi e delle invadenze del Vaticano,

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che obtorto collo, andava cedendo, cedendo; e i due atti che .riguardano il regno delle Due Sicilie non impedirono certo lo svolgersi del cesarismo sino al limite estremo, e manifestarono la longanimità del Papa, che ai più e all'opinione pubblica do- vette sembrare o debole o remissivo all'evidenza di un diritto. Non era ne l'uno né l'altro, ma desiderio vivissimo della quiete interna dei popoli e delle coscienze.

Intanto sorgeva Tanucci, dopo gl'insignificanti Benavides, Montealegre e Fogliani. Anima gretta di curiale, come lo chiama il Colletta, imbevuto della scuola regalista toscana, capitanata dal celebre Ricci, vescovo di Pistoia, andato a servire Carlo VII, divenne il tipo del ministro, servo-scaltro, che sa farsi avanti nella fiducia reciprocamente illimitata tra lui e il suo protet- tore. Questo gli fruttò l'auge prima, sin quando Ferdinando IV non la ruppe col padre, divenuto re di Spagna, e sin quando la regina Carolina non arrivò ad imporre l'influenza austriaca, rafforzando il celebre patto di famiglia. Tanucci rappresentò il più gretto tipo del regalista e la più intollerante influenza spa- gnuola.

Ma qui è bene soffermarci per conoscere gli uomini di questo primo atto del dramma. Sono quattro: Ferdinando, Ta- nucci, Carolina, il cardinale Orsini; e dietro le quinte Carlo I11 di Spagna, padre del re, e il futuro imperatore d'Austria e fratello della regina GiusCeppe] 11. Ferdinando succede al pa- dre, che passa dal trono di Napoli a quello di Spagna, fanciullo e minorenne, ed è posto sotto reggenza. Tiene le fila del potere il padre per mezzo del fidato Tanucci. L'educazione di Ferdi- nando, sotto il principe di San Nicandro, che gli fece da avo, procede volgare, senza studio, senza guida. Appena sa leggere e scrivere. Si ha cura di formare un buon cacciatore, un giovane gaudente, non un sovrano degno del tempo dei filosofi. Reli- gioso, grossolanamente religioso, non riesce a concepire la reli- gione piiì che una pratica di devozioni e una formalità di rito, e un sentimento di culto verso la divinità. Ha il confessore a Iato, ma non ha paura di firmare i decreti anti-religiosi. Una cosa sola entrò nella sua mente con l'efficacia la più enorme: i diritti della monarchia, la dignità sovrana, le regalie dei prin- cipi; in una cosa seppe essere forte e violento, nella lotta contro

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il Vaticano ... Ma avea buon cuore, era retto e popolare '. Egli nel governo lasciò fare i ministri e la moglie. Scriveva il Calca- gnini, Nunzio del Papa a Napoli: « Mi è stato altresì assicurato che il re tiene sempre fissi gli occhi al marchese Tanucci, e se- condo il di lui tenor di voce o moto del di lui capo, regola il proprio sentimento ». La regina è una di quelle figure di donna che imprimono con la loro forza una caratteristica al governo e alla sua epoca. Vanitosa e superba, era insieme di elevata intelligenza e di una forza di volontà virile. Cresciuta nell'am- biente anti-Vaticano di Austria volle emulare i fratelli Giu- seppe e Leopoldo nella lotta per le giurisdizioni reali; ascritta alla frammassoneria protesse i framassoni, cinica e subdola in- gannò molti, altri sedusse; e tenne le file della politica anti- spagnuola di Napoli, facendo rompere i rapporti fra padre e figlio, e awicinando il regno all'dustria, a cui si afferrò nella reazione antifrancese.

Questi due sposi e re ebbero più di mezzo secolo di regno, al quale prepararono la rovina, cadendovi essi stessi; e sorgen- do solo per la forza della reazione del 1815.

L'uno e l'altra furono in baia dei ministri. Il periodo che studiamo incomincia con Tanucci, che abbiamo conosciuto, e va al marchese della Sambuca, al marchese Caracciolo, al Cav. Gen. Acton che conosceremo in seguito. L'insignificante e au- lico card. Orsini rappresentava Napoli a Roma come ambascia- tore. Di lui lasciò scritto il Nunzio Pontificio Calcagnini « Dal Card. Orsini a cui manca il coraggio, verranno applaudite tutte le proposizioni del Tanucci ed accettate come oracoli, sperando così di meglio insinuarsi nell'anirno del regio ministro W .

Carlo 111, che conosciamo, dirigeva da principio le file della politica da Madrid, sino a che non fu soppiantato da Giu- seppe 11, il fratello di Carolina, il celebre imperatore d'Austria, che arriverà sino a precisare con decreti reali il numero delle candele da accendere in Chiesa e i santi al cui onore potevasi, con il beneplacito regio, recitar l'u&io e celebrar la messa.

4 Giuseppe I1 così lo definì: u Le roi est un $tre indefinissable, un contrast de bien et de mal, faisant le premier sans mérite et le second sans pécher D CN.d.S.1.

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Con questi uomini si ricominciò la lotta contro la Chiesa. Pretesti non ne mancavano; anzi erano destati facilmente dalle invadenze regie e dai preti curiali, e il celebre cappellano mag- giore di corte si prestava assai bene al giuoco dei ministri. Ma durante la rninorità di Ferdinando le cose non pigliarono una piega acuta; lo spirito pubblico veniva minato invece da quanto accadeva negli altri Stati. Fu il momento questo che la lotta si concentrò contro i gesuiti, che aveano invaso tutti gli stati del tempo con 22 mila e 500 membri; aveano scuole, univer- sità, missioni all'estero, opere di beneficenza, chiese, ed eserci- tavano larga influenza in senso favorevole al Vaticano e ai suoi diritti. Tale potenzialità ecclesiastica immensa urtava i filosofi e i giansenisti di Francia e i regalisti di tutta l'Europa cattolica. I1 pretesto del rifiuto degli indiani del Paraguay di riconoscere la sovranità del governo portoghese e il tentato regicidio contro Giuseppe I furono attribuiti ad arte ai gesuiti e nel 1759 fu- rono espulsi dal Portogallo, 53 furono abbruciati vivi come regicidi, 10.000 tenuti nelle carceri di quella allora potentissima nazione. E in Francia il D'Alembert scriveva il celebre libro De la destraction des Jesuites, condotta dal Duca di Choiseul e dalla celebre Pompadour indispettita perché le avean negato un confessore ufficiale, lei che era pubblicamente la favorita del re.

I1 pretesto fu una causa di fallimento contro il P. Lava- lette procuratore delle missioni, che si era dato a grosse specu- lazioni commerciali. I1 Parlamento francese nel 1762 decretò l'espulsione e l'effeminato Luigi XV, dopo lunghi tentennamenti, approva l'espulsione e firma il decreto.

Carlo 111 di Spagna maturava anche lui analogo consiglio per la Spagna e per Napoli: nel suo regio petto conservava l'of- fesa che credeva fatta al suo onore dal P. Ricci, di cui aveano falsificato le lettere, con la connivenza del ministro Aranda, nelle quali si leggeva che il re di Napoli non fosse suo figlio, ma del cardinale Alberoni che avea violato il suo talamo.

Era la congiura che si estendeva, e il 1767, appena uscito Ferdinando di minorità firma il decreto apprestato da Tanucci (che avea egli e la moglie e la figlia per confessori de' gesuiti) per la espulsione dal regno di Napoli, come suo padre dal regno di Spagna, e l'anno appresso dal ducato di Parma. Ma la lotta

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delle quattro famiglie borboniche, quante in Europa, non è com- piuta; si vuole dal Papa la soppressione dell'ordine. Esse perciò occupano mano armata Benevento e Pontecorvo e minacciano uno scisma. Tanto interessava la religione a quei principi, che non aveano paura di trascinare tutta l'Europa nel baratro di uno scisma, per interessi materiali e per puntiglio di corte.

La lotta contro la chiesa allora divenne aspra, e la facile vittoria sull'animo di Clemente li imbaldanziva, mentre si erano ridestati vigorosi giansenisti e regalisti, filosofi e paglietti e le stampe di lotta erano a riaccendere il fuoco nelle popolazioni.

E i ministri di Ferdinando, con a capo il Tanucci, conti- nuavano la lotta. Soppressione di conventi, violazione di mona- steri, riduzione di beneficii ecclesiastici eran cosa poca. I preti erano corretti dai vescovi? Ricorrevano al re per avere giusti- zia, e questi ordinava di sospendere le scomuniche se minacciate, o di revocare provvedimenti presi; e intimavano ai vescovi di andare ad audiendum verbum regium; così pel vescovo di Tro- pea. Ma peggio; un chierico veniva escluso dagli ordini sacri? ricorreva al re, e questi imponeva che venisse ordinato. Così leggiamo al 9 ott[obre] 1767 [in] un'ordinanza del Marchese Demarco cons[igliere] della Corona al governatore di Reggio: <{ vuole il re che V.S. nel rea1 nome prevenga al vescovo di Oppido che quando I'AbEateI di Bagnara le spedirà la dimis- soria ordinatali per il diacono Lorenzo Spina, esso vescovo come viciniore e come l'ha praticato per lo passato, pensi di eseguirla ... secondo il Conc [ ilio] di Trento D.

E ciò avveniva perché, avendo il Tanucci dichiarato l'ab- bazia di Bagnara di regCio1 patronato, mentre era soggetta al Papa, questi sospese l'ordinazione dei chierici.

C'è dell'altro: ecco un bell'esempio della persecuzione di allora. Le monache di S. Bartolomeo di Castellamare si erano rifiutate ad ammettere nel monastero le due sorelle Longobardi, che ricorrono al re. E Tanucci emana questo dispaccio: << Ve- dendo il re tuttavia ostinate nel loro temerario ardire le mona- che del monastero di S. Bartolomeo, le quali con pazza resi- stenza e con insolentissima contumacia, insultanti e refrattarie, non han voluto ammettere per educande in esso le due sorelle Longobardi ecc. ecc., viene ora sol per effetto di sua inesausta

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clemenza a prendere le seguenti risoluzioni: 1. Vada il Cappel- lano Maggiore e faccia coi fiocchi un intervento al vescovo es- sendo tanto sconcerto accaduto per sua mal regolata condotta pastorale; 2. Riformi le refrattarie e dia subito conto a sua Maestà; 3 . Annunzi poi quello spavento e terrore che Dio gli ha dato al Re per punire severamente qualunque dei suoi vas- salli senza eccezione.

Bern [ardo] Tanucci I1 Cappell[ ano] Magg[ iore l

E potrei continuare per molto ancora, tanti di simili decreti e dispacci (come li chiamavano) se ne trovan fra i documenti.

I1 lavorio della corte di Ferdinando mirava a un termine molto più grave che non si vedeva a prima vista: si voleva avere i vescovi nelle mani, i quali vescovi, in mezzo a non po- che defezioni, poiché in gran parte nominati da Roma, non ostante la clausola del Concordato del 1741 che doveano essere sudditi di sua Maestà e nati nelle terre delle Due Sicilie, pure per lo più non erano regalisti.

E allora si pensò di dichiarare di Patronato Regio ora uno ora un altro vescovado, ora un'abbazia nullius, ora un'abbazia costantiniana. Un decreto, un dispaccio e tutto era fatto.

Il Nunzio reclamava inutilmente, il Papa interdiceva, e i vescovadi alla morte dei titolari restavano vacanti.

Questa tattica iniziata dal Tanucci, fu continuata dal suo successore Della Sambuca, quando Maria Carolina volle disfarsi di un ministro spagnoleggiante, per averne uno austriacante. Essa trovò il pretesto nell'amministrazione dei beni tolti ai ge- . suiti, accusando il vecchio Marchese di essersi preso di frode 100.000 lire.

I1 Marchese Della Sambuca, siciliano, continuò anzi inasprì la politica antiecclesiastica, non solo dichiarando di regio patro- nato vesc[ovadi] e benef[iciil, violando il Concordato del 1741, ma abusando dell'arma dell'exequatur. Uno dei peggiori abusi invalsi nella cristianità al sec. XVIII erano gli exequatur regi agli atti del Pontefice. Così il Pontefice veniva staccato dal po- polo e sottoposto a un controllo regio.

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Questo preteso diritto regale sembra che abbia avuto prin- cipio in Sicilia, forse sotto Federico di Svevia, ma più certamente sotto gli aragonesi al sec. XV per i nominati ai benefici, i quali sotto un certo aspetto si facevano dipendere dalla potestà regia, come si fa tuttora anche negli stati moderni.

Ma il r[egio] exequatur alle bolle pontificie, ai brevi, alle dispense, alle sentenze, pare che abbia avuto principio col seco- lo XVIII, e ne abusò Vitt[orio] Amedeo I1 nella lotta per la Legazia Ap [ ostolica] .

A tale enorme sconcio si provvide da parte della S. Sede, col re di Napoli, negli articoli segreti del Concordato del 1741; ma chi ne violò i patti in modo speciale fu specialmente il Della Sambuca. Non passava neppure un breve di indulgenza, senza il controllo regio, che spesso veniva negato. Molti ordini non ve- nivano esecutorati, altri esecutorati in parte. I Cappellani Mag- giori del Re, Mons. Testa Piccolomini sino al 1782 e poscia il tristamente celebre Mons. Sanchez de Luna, diedero mano forte ai ministri in tutta questa lotta ecclesiastica.

E la lotta incalzava: il programma era evidente: a) ridurre i vescovi con il Regio Patronato a persone li-

gie al potere regio, da cui dovean conoscere la nomina; e perciò si decretava il rCegiol patronato ad ogni vacanza. Così per i be- neficii maggiori 5 .

b) staccare la gerarchia ecclesiastica dal Papa; e a ciò si provvedeva impedendo che gli atti del Papa potessero arrivare ai pastori e ai fedeli o potessero eseguirsi. E di più, un decreto impedì che si potesse appellare a Roma contro le sentenze eccle- siastiche dei vescovi, o che si potesse andare a Roma senza il rregio] beneplacito, e da chicchessia, prete o laico o vescovo. E il Peccheneda potea vantarsi in pubblica consulta della Camera Reale che più di 72 materie erano state tolte alla competenza del Papa e che ce n'era ancora.

C) occupare i beni ecclesiastici; e si faceva specialmente con un bel sistema di taglieggiamento: cioè dare commende (co-

5 I vescovadi e i beneficii maggiori di rlegio] patronato elencati dal Ministero si eran fatti arrivare a 300, e a Consultare Potenza si era dato l'ordine di promulgare i decreti a due o tre, per non far tanto strepito [ N . d. S . ] .

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me più belle delle commende di oggi) e pensioni sopra i beni dei conventi; cioè gravare i conventi a passare dei vitalizi a tutte le persone protette; e non eran poche.

d) dare per mezzo del Cappellano Maggiore o addirittura per mezzo del ministro ordini di materia ecclesiastica; e si arrivò a ordinare che se un povero prete calvo volesse portare la par- rucca, dovesse rivolgersi alla rea1 camera per il reale permesso.

Restava di provvedere ai conventi. La soppressione dei gesuiti avea fatto un certo effetto; e

i provvedimenti fioccavano sul serio; i frati, nelle loro liti elet- torali per il provinciale o il consultore, si vedevano di tanto in tanto fioccare un dispaccio da Della Sambuca o da Demar- co, come certi abati basiliani, che non se ne dimenticarono per un pezzo. Però per il governo il frate è sempre temibile. Passa da un paese all'altro, da un regno all'altro assai facilmente. Di- pende non dai vescovi ma dal generale dell'ordine che sta per lo più a Roma; sono devoti della S. Sede ed hanno influenza nel popolo. I1 paese non era maturo per una soppressione. E allora si pensa di decretare che i religiosi e i frati delle Due Sicilie non dipendono più dai loro generali, ma che passino, quanto allo spi- rituale, alla soggezione dei vescovi.

I1 decreto fu dato dal celebre Marchese Caracciolo succedu- to al Della Sambuca, accusato anche lui di malversazione del pubblico eratio.

Il Caracciolo, quello che avea chiamato il Papa il Gran Masti di Roma, educato in Francia all'enciclopedismo, imbevuto dei principii della rivoluzione che già minacciava i troni, ebbe più degli altri ministri precedenti il concetto della preminenza dello stato sulla chiesa; con la differenza che il Caracciolo conce- piva lo Stato, gli altri concepivano solo il re, il sovrano, il pa- drone per diritto divino.

Le menti si erano orientate verso un altro assoluto, la so- cietà, lo stato, e cominciavano a non credere più nell'assoluto del re; ma ancora i re dominavano.

La prima questione delle più importanti fu quella della nunziatura. Era l'ultimo anello che legava Napoli a Roma; e an- cora avea il nunzio le sue potestà amministrative e giudiziarie che in quei tempi aveano presso gli stati cattolici. Ma il Papa veniva

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considerato ufficialmente non il capo della religione, ma uno straniero, e come tale veniva indicato perfino nei dispacci mi- nisteriali. Si voleà adunque che il Nunzio non fosse più che qual- siasi ambasciatore estero; perciò fu a lui dato l'aut aut, e Mons. Calcagnini lasciò Napoli, restando solo per il disbrigo degli af- fari e le informazioni l'abbate Servanzi; alla Nunziatura fu- rono perfino tolti gli ossequi sulla regia casa.

Un passo ancora ~ e r c h é lo stacco fosse completo; un altro passo e dovea arrivarsi alla chiesa nazionale che mettesse capo al re. Vi fu un momento sotto il Marchtese] Della Sambuca, che nell'attrito del diritto patronato sui vescovi, si pensò a que- sto; e si cercarono vescovi che avessero continuata la gerarchia senza del Papa. Qualcuno sventuratamente si trovò, ma piacque meglio tenere questo progetto come la spada di Damocle con- tro Roma.

Eran le cose a questo punto estremo, quando, per desiderio del Papa Pio VI e del re di Spagna e anche dell'indeciso e indo- lente Ferdinando, si pensa ad aprire le pratiche per un nuovo concordato: quello del 1741, a 45 anni di distanza, dopo essere stato fatto a pezzi dall'audacia sfrenata del governo borbonico, non contava più.

A tal fine fu mandato in via privata, senza altro carattere che l'ufficioso, il celebre Mons. Caleppi, il quale sin da principio si accorse come fosse cosa difficile arrivare ad un accomodamen- to. I1 Caracciolo sin da principio avea dichiarato che una concor- dia che non consista nel ceder tutto è instabile e malsicura. Come si vede era il concordato di Brenno.

Sui punti controversi il governo di Ferdinando esigeva: l ) che tutti i vescovati e le prelature fossero di nomina del re; 2 ) che il nunzio fosse riguardato come semplice ambasciatore laico; 3) che le cause ecclesiastiche non dovessero extraregnarsi, e do- vesser essere giudicate da un metropolitano scelto dal Cappel- lano maggiore del re. Per alcune cause matrimoniali farsi un'ec- cezione alla regola; 4) perché i sudditi ricorressero o semplice- mente potessero comunicare con Roma necessario il placito re- gio; 5 ) che tutti gli atti della S. Sede dovessero essere esecuto- riati dal re; 6) che le regole di cancelleria fossero pel regno abo- lite, e che le parrocature si conferissero dai vescovi, senza con-

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corso; 7) che i frati e le monache non dipendessero da Roma, ma da una Giunta Ecclesiastica nominata dal re; 8) che di tutti i be- ni ecclesiastici il terzo delle rendite detto pensionabile fosse ri- servato al re.

E allora, o Signori, che restava al Papa, se non sanzionare la perfetta scissione ecclesiastica e disciplinare del regno delle Due Sicilie dalla Chiesa Cattolica?

11 Legato del Papa Mons. Caleppi, nell'intricata faccenda, usò longanimità e prudenza, si appellò più volte e inva30 alla re- ligione e alla giustizia del re; si rivolse a Maria Carolina, e que- sta, con modi squisiti, prometteva e lo teneva a bada, scherzava e ritornava sugli stessi argomenti; e poscia scriveva al fratello Giuseppe 11, che le rispondeva di aspettare gli eventi; cioè le lot- te che egli inoveva in Austria alla Chiesa. Era stato indirizzato al gen. Acton, il favorito della regina, e forse amante, il quale pensava a rivaleggiare col Caracciolo, e perciò quando il primo ministro si mostrava propenso a cedere, allora Acton virava di bordo; e quando il Caracciolo resisteva, Acton prometteva.

E vi entra in ballo il confessore del re, Mons. Sanseverino; semplice e pio, comprendeva che si andava alla rovina, era più che convinto, convintissimo, del diritto divino dei re. Parlava a Ferdinando le parole più persuasive, e riceveva promesse dal pio penitente che il tartufo re non manteneva.

Mons. Sanchez de Luna cappellano maggiore, pingue di ren- dite e di cavilli curiali, soffiava sul fuoco, e la Rea1 Camera di Santa Chiara mutava e rimutava progetto, menando il can per l'aia; mentre nel pubblico si erano scatenati i paglietti, e dietro vi soffiavano i framassoni a fare che il concordato andasse in fumo.

E' dolorosa, è triste la storia di questo infelice tentativo, in cui l'abilità di Mons. Caleppi e la condiscendenza paterna di Pio VI s'infrangono nella più volgare turlupinatura, che serviva ad accontentare gli scrupoli del vecchio Carlo 111, il malcontento delle diocesi senza pastore e le proteste di pochi ma coraggiosi vescovi.

Durante la prima fase delle trattative, pur mostrando di vo- lerle, non cessa la lotta, e si trovano pretesti nuovi a nuovi sfregi contro la Santa Sede.

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I1 regno di Napoli e Sicilia fin dai Normanni era divenuto feudo della S. Sede, forse per i molti beni che vi avea in pro- prietà, oppure per il diritto medioevale delle terre occupate da- gl'infedeli, o delle terre conquistabili. I Normanni ne ricevettero l'investitura, e questi doveano pagare un contributo. I D'Angiò introdussero l'uso dell'omaggio della Chinea o cavallo bianco, che aila vigilia dei S.S. Pietro e Paolo da palazzo Farnese in pom- pa veniva portato a S. Pietro.

Tranne qualche resistenza dell'aragonese e di VittCorioI Am[edeo] I1 e poscia di Carlo VI d'Austria [al pagare il tri- buto che fu condonato, la consuetudine era otto volte secolare. Quando i Borboni, entrati in Napoli, ne ricevettero l'investitura, giurarono in forma solenne, e se ne conserva il documento, il ri- conoscimento del diritto dei S.S. Apostoli.

Tanucci tentò scuotere questo omaggio e questo diritto, pe- rò il Caracciolo, proprio durante le trattative di concordato, con un decreto dato al giugno 1788 (un anno prima della grande ri- voluzione) sopprimeva l'omaggio della Chinea, e manda i 7000 ducati a titolo di obolo pio al sepolcro dei S. Apostoli e non co- me riconoscimento di un diritto eminente.

I1 Papa protesta e non riceve la somma, che il governo dei Borboni deposita presso un banco all'ordine del Segretario di Stato, il quale gira l'ordine al rappresentante del re. Era uno strappo ai diritti civili della S. Sede questo, ma un altro strappo ai diritti puramente religiosi porta le cose allo stato acuto e di- viene celebre nella storia del secolo XVIII. Si tratta dell'intenta- ta causa della contessa dell'dcerra contro il duca di Maddaloni per scioglimento di matrimonio religioso a causa di nullità per impotenza.

L'Arcivescovo di Napoli giudicò per la nullità, e il duca di Maddaloni si appellò a Roma. I1 governo impedisce l'appello a Roma e lo devolve al cappellano maggiore con quattro aggiunti. Roma allora cercò d'impedire lo sfregio alla sua autorità e ai ca- noni del tridentino; e si arrivò a persuader il re, la stessa mat- tina in cui il Capp[ellanol Maggriore] dovea dare la sentenza, di sospender la causa.

Ma sospender la causa non voleva dire devolverla a Roma; e dal 12 sett[embre] '86 fu ripresa al 17 maggio '88, per inte-

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resse del principe di Pignatelli che aspirava alla mano e alle ric- chezze della contessa di Acerra, e affidata a Mons. Ortiz vescovo di Mottola, a cui furono aggiunti il Pres. di Corte Patersa, il Cons. Palrnieri e il teologo di corte Don Francesco Conforti. Non ostante le proteste della S. Sede, essi giudicarono la causa e diedero la sentenza di nullità, sentenza che il Card. Arcive- scovo di Napoli riconobbe. La S. Sede scomunicò I'Ortiz, e ammonì la contessa di Acerra e il Cardinale di Napoli.

Questo fatto poteva rimanere nei limiti di un semplice fatto interno, ma per la potenza delle famiglie, Acerra e Madda- loni, per l'animosità del governo di spuntarla con. la S. Sede, per l'interessamento di preti, vescovi, avvocati, fu assunta al fatto più importante del regno di Ferdinando.

Le trattative con la S. Sede, dopo che lo stesso Segr[etariol di Stato Cardinale Boncompagni si era recato a parlare col re e la regina furono rotte e a Mons. Caleppi il governo fece arrivare il foglio di via.

Lo stato della Chiesa in Napoli è semplicemente un'anar- chia.

Di nuovo dal 1789 al 1791 il Papa tenta di ripigliare le trattative pigliando occasione della morte di Carlo 111, padre del re, e del figlioletto principe Gennaro. Acton, divenuto primo ministro, si toglie la maschera dell'infingimento, e diviene peg- gio di Caracciolo, con la differenza che questi era una mente superiore e ragionava, ed era più inclinato a miti consigli, non ostante le sue idee filosofiche; ma Acton era il soldato impetuoso e il cortigiano che striscia.

I decreti anti-religiosi e giurisdizionalisti si fanno più vio- lenti, si sopprimono nuove case religiose, si creano processi a vescovi per fatti futili, come quello di Mons. Capecelatro ve- scovo di Taranto; i preti che si azzardano ad esprimere qualche idea diversa da quella del governo vengon deportati.

E la Segreteria ecclesiastica di Napoli arrivava allo stupido insulto di elogiare ufficialmente e a nome del re il libro intito- lato Monarchia Universale dei papi; come pio, religioso, basato sulle scritture, diretto a richiamare gli eretici e gli scismatici aila chiesa, il cui autore ha la vera pietà e l'apostolico zelo.

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Nel libro lodato dal mhistro del re si legge che i Papi sono Monarchi giudaici che sulla menzogna e la disserzione hanno fon- dato il loro impero carnale. Le decretali sono dette Talmud del Papa; le bolle: glosse dei libro talmudico. I1 Papa è uguagliato ad ogni altro vescovo. Vi si legge che Clemente X I calpestò il divino carattere di G[esù] C[risto] pubblicando la bolla Uni- genitus. I1 Concilio di Trento macchiato e disonesto: ai suoi canoni va negata l'autorità, e simili eresie e menzogne.

Anche le seconde trattative riescono infruttuose; e Pio VI ne smette il pensiero.

Intanto cadeva la Bastiglia. E anche il trono dei Borboni di Napoli, come quello dei Borboni di Francia e di Spagna e di Parma, minacciava rovina. Quei puntelli delle regalie soste- nuti da ministri e da monsignori, da avvocati e da pagliettz cadevano; e la Massoneria, con la quale la regina Carolina avea trescato per tant'anni, preparava la repubblica Partenopea.

I1 celebre processo del celebre caporuota D. Gennaro Pallante del 1776, fu un trionfo dei massoni, e Tanucci con i

suoi decreti antimassonici dovette ritirarsi; mentre il massone abate Ierocades nella sua lira forense cantava:

<< Venne al tempio l'augusta regina E ci chiese: Miei figli cantate Io vi salvo dall'alta ruina Io distruggo le frodi e l'inganno, Io vi tolgo dal petto l'affanno, I o vi rendo la pace del cor. Se alla guerra, se all'aspra tempesta Già succede la pace e la calma, Carolina riporta la palma Che dell'empio sconfisse il furor »

Carolina non solo essa apparteneva alla massoneria, ma vi voleva indurre il suo rea1 consorte, che ne scriveva in una lettera di- retta al padre, dicendo che la moglie lo induceva a farsi mas- sone, ma che egli non vi si era indotto a motivo dei giuramenti.

Ebbene, nel 1794 la massoneria prepara la spaventosa con- giura di uccidere re e regina nel palazzo, congiura scoperta a

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caso, nel cui processo figuravano, sopra 48 condannati, 13 preti e frati, tra cui noti cesaristi.

Niente di meraviglia; quando nel dicembre 1798 Ferdi- nando, Carolina e Acton fuggirorio nell'ospitale Sicilia, e a Na- poli la rivoluzione furoreggia, è il vescovo Serao di Potenza che mette il berretto frigio e apostata pianta di sua mano l'al- bero della repubblica e va gridando viva la libertà, quel Serrao che avea sostenuto i diritti antipapali e che Ferdinando volea insignito della S. Porpora. E non fu solo; quaranta vescovi pre- sero parte alla rivoluzione e si macchiaron di sangue e di em- pietà; e Mons. Troisi compose la messa repubblicana, l'ex frate Lauberg fu il presidente della repubblica partenopea 1'Arci- vescovo di Napoli e il vescovo Ortiz di Mottola, che servirono così bene Ferdinando nella causa Maddaloni, lo tradirono e divennero sostenitori della repubblica; mentre il Card. Ruffo guerreggiava i francesi con le celebri bande brigantesche e le crociate regaliste. L'abate Galiani era morto ridendo dei 200.000 ecclesiastici del regno che paragonava a 200.000 pazzi, ma la chiesa piangeva sulle rovine del tempio e Dio mandava il fuoco che purifica della persecuzione e del dolore.

E non pochi furono i buoni, gli eroi ignorati, i preti e i vescovi così detti vaticanisti, che espiarono le colpe di fratelli prevaricatori.

E la rivoluzione francese servì nei disegni di Dio. Ferdinando tornò in Napoli nella restaurazione del 18 15

dopo diciassette anni; e nel 1818 firmava il concordato con Pio .VII, che chiudeva 77 anni di persecuzione regalista.

Soffermiamoci un po' sul concordato del 1818 che è come l'epilogo della lotta che abbiamo narrato, e il sunto della storia di altri 41 anni di regno.

Questo concordato fu una vera transazione, buona e cat- tiva come tutte le transazioni.

I1 re voleva la nomina di tutti i vescovadi e l'ebbe; al Papa restarono le abadie concistoriali che non erano di diritto patronato. Dall'altra parte il re consentiva che fosse libero l'eser-

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cizio del ministero dei vescovi secondo i canoni e che fosse libero l'appello a Roma.

I1 re voleva la giurisdizione sulle cause ecclesiastiche mi- ste, ma furono eccettuate in modo speciale le cause matrimoniali.

I1 re voleva che la nomina dei parroci e dei beneficii minori si facesse dai vescovi senza concorso, e il Papa transigeva dando ai vescovi il diritto di nomina con concorso per sei mesi aIl'anno e per sei mesi [sic] e le dignità riserbate al Papa.

Il re cedeva che i religiosi e i regolari dipendessero da Roma e dai loro generali, ma il Papa condonava tutti gli usurpi dei beni ecclesiastici e consentiva che le rendite ecclesiastiche fossero gravate di tutte le tasse e imposte del regno.

Il Papa consentiva alla soppressione dei piccoli vescovadi del Napoletano e il re consentiva all'aumento dei vescovadi in Sicilia.

I1 re voleva che diminuisse il numero del clero, e il Papa sanciva norme rigorose sia per il ~[acro] patrimonio, sia per le ordinazioni dei chierici.

I l Papa voleva tolto il controllo del re nei suoi atti, e il re esigeva dai vescovi un giuramento di fedeltà.

Così si transasse. I1 governo dei Borboni allora mutò tenore; non rinunziò

alle prerogative regie, anzi ottenne quel che voleva, e che più feriva la Chiesa, la nomina dei vescovi, e pensò puntellare il trono scosso dalla rivoluzione non più con la lotta a Roma, ma con le blandizie. I vescovi doveano divenire gli esecutori del re, da cui dipendevano; e il clero il servo del re.

I1 giuramento di fedeltà dei vescovi è se non obbrobrioso, certo urta troppo i nostri nervi: « Io giuro e prometto sopra i santi Evangeli obbedienza e fedeltà alla Reale Maestà; parimenti prometto che io non avrò alcuna comunicazione, né interverrò ad alcuna adunanza, né conserverò dentro e fuori del regno al- cuna sospetta unione, che nuoccia alla pubblica tranquillità; e se tanto nella mia diocesi che altrove saprò che alcuna cosa si tratti in danno dello stato, lo manifesterò a sua Maestà D.

Questo è il nocciolo della politica ecclesiastica dei Borboni dal 1818 al 1859 che vedremo nella 2" parte di questo lavoro.

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La cieca reazione contro le aspirazioni dei rivoluzionarii, sia della prima fase sino al 1821, sia della seconda fase del '48 e '60, volle coprirsi del manto e della forza della religione, e dell'autorità ecclesiastica. La censura regia, che arrivò sino a imporre ai professori dei seminarii [di] dettare le lezioni per iscritto, perché il testo prima della lezione venisse riveduto dal censore regio, fu spesso affidata a ecclesiastici pedanti, che de- starono l'urto di tutta la classe colta; mentre i vescovi, spesso buoni, assai migliori di quelli che abbiamo visto, servivano il re secondo il giuramento, e il re, che li eleggeva, sapeva su chi contare.

Non mancarono gli urti con la S. Sede; ve ne furono spe- cialmente per l'esecutoria regia alle bolle pontificie. E a cpesto proposito mi piace accennare alla bolla di erezione del nostro vescovado. I1 re nel dare I'esecutoria aggiunge che riserbandosi << alla S. Sede la provvista del Vescovado quando vachi in Curia, si noti, scrive il ministro, che tale riserva non ottiene il rea1 beneplacito, perché contraria alle leggi del regno ... che debbasi negare l'esecutoria alla parte della Bolla, in cui si prescrive una forma diversa per le provviste future dell'Arcidiaconatura come della Prepositoria, essendo taIe riserva appoggiata alle re- gole della Cancelleria romana, non osservate in questi reali do- minii ». E così continua il dispaccio del ~ h s t r o il Duca di Gual- tieri, gettando i sudditi in quelle ansie di coscienza, che nascono dall'attrito dell'autorità civile e religiosa.

Questo stato d'animo continua e cresce in tutte le piccole questioni, mentre il clero diviene malvisto per il carattere politico dei vescovi, e lo stacco da Roma diviene più forte, perché i vescovi hanno da temere e da sperare da un ministro che dal Papa; e il clero curiale aumenta, nella speranza de' pingui beneficii, e si allontana, anzi non vede il moto in avanti che pe- netra nelle classi colte del regno, che si sono dimenticate le lotte della regalia, per le lotte per la libertà.

A quel grido si commuovono i conventi e i capitoli; e i re Borboni né con la lotta né con i lavori a loro interesse e vantag- gio verso la Chiesa, poterono scuotere il fato che essi stessi aveano maturato e nella lotta contro la Chiesa e nell'asservimento del clero in nome dei diritti della Corona.

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La Corona si trasformò e cadde; e la Chiesa lotta, come ieri contro i borboni e i regalisti, così oggi contro i liberali massoni; i quali, abbattendo gli antichi istituti ecclesiastici, han voluto lasciare sussistere la larva dei principi regalisti; e in nome non più del re ma dello stato combattere la chiesa.

Cadute le leggi di immunità, il diritto dei religiosi, incame- rati i beni ecclesiastici, soppressi i benefici minori, una cosa ci resta oggi dell'antico fardello: la libertà di parlare, di pensare, di operare, per la chiesa e per la fede.

Che questa libertà non ci venga tolta dai Bismarck, dai Com- bes, dai Crispi dello Stato, come ieri dai Tanucci, Della Sam- buca, Caracciolo, Acton: è questo almeno in tanti mali la con- solazione di chi può patire per G[esù] C[risto] in nome della Fede, senza che re beghini, ministri tartufi, vescovi servi, chiu- dano la bocca segnata dal S. Vangelo.

I rapporti tra chiesa e stato indicheranno a noi a quali prove Dio vuole purificata la sua Sposa la Chiesa, e quale abnegazione richieda dai suoi ministri, affinché, nello scrupoloso adempimento dei propri doveri, non sorga ambizione umana o ingordigia di beni, a far deviare dal retto sentiero.

Abbiamo visto un quadro doloroso per la chiesa: se allora defezioni e persecuzioni l'afflissero, a noi consola la parola che attraverso le persecuzioni la Chiesa vive; e vive oggi anche in mezzo a noi; che non siamo peggio dei nostri antenati; vive oggi in mezzo alle lotte della società moderna; e di nessun pre- sidio terreno, invocato scioccamente dai regalisti di Francia, Spa- gna e d'Italia, di nessun presidio regale la chiesa ha bisogno per vivere ed espandere la sua ingenita forza.

Oh! meglio la lotta di oggi che i ceppi regali e dorati di ieri; meglio la onorata povertà di oggi dei cleri e dei vescovi che le ricchezze di ieri tenute a prezzo di ipocrisie e di tradi- menti; ... i re non tornano e i popoli camminano, disse un filo- sofo; e io concludo: e con i popoli cammina la Chiesa.

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IL 15 MAGGIO ' ( f . 145, C. 10)

I. - Si festeggia il 15 Maggio anche oggi: anzi oggi più che mai il ricordo della Rerum Novarum (or sono 14 anni) s'in- gigantisce nel nostro spirito, per una serie di fatti, che dobbiamo analizzare nei momenti quando la sintesi del lavoro concreto sembra arrestarsi in cerca di un orientamento. E la enciclica ri- mane là documento irrefutabile dell'entrata autorevole della Chiesa nel dibattito della questione sociale.

11. - Rapida analisi del periodo che corre fra l'enciclica e il sorgere del partito dem[ocratico] cristiano in Italia; fasi del partito stesso fino ad oggi. Somma: una serie di istituzioni ao- stre; uno spirito più evoluto; una notevole penetrazione nel cam- po awersario di destra e di sinistra. Questi fatti presentano ele- menti in parte poco visibili, perché l'opera esteriore, fra le de- viazioni e gl'intralciamenti, sembra che non abbia avuto la forza di resistenza necessaria alla perenne vitalità di un'organizzazione: manca l'organismo. E' possibile?

111. - Bisogna che ci rendiamo conto della situazione ge- nerale del proletariato italiano, e della nostra in particolare.

a) Tendenza prima amorfa di protesta, poi organica di resistenza del proletariato contro il capitalismo. Fasci, leghe, scio-

Discorso manoscritto steso in forma schematica e datato: Milano, 14 mag- gio [19]05.

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peri: trionfi e sconfitte, carattere politico, antireligioso, antiso- ciale. Tentativi di creazioni economiche; carattere di partito; ac- cenni di vita amministrativa; - mancanza di idealità immediate e pratiche nella lotta; affermazioni generiche - finalmente scio- peri generali; il giuoco cieco della forza. Organizzazione nazionale socialista.

b) Noi ne abbiamo seguito di lontano le fasi: il fermento proletario - la creazione di opere economiche - il sentimento morale - la trasformazione della nostra cultura - il bisogno di un organismo nazionale; tentativi falliti: la D [emocrazia l C C ri- stiana] I [ taliana] - l'organizz[ azione] nazionale professionale - l'Opera dei congressi - l'autonomia.

IV. - Mancano diversi fattori: 1. La non sufiiciente co- scienza di classe, o il relativo organismo giuridico: il riconosci- mento giuridico della classe professionale toglierebbe l'agitazione amorfa, inorganica, saltuaria, e la renderebbe ordinata, legittima, progrediente; 2. Manca la coscienza di vita amministrativa: for- mazione dei partiti locali, pressione, corruzione elettorale, impre- parazione; 3. Manca la vita politica, in parte per inesatta conce- zione, in parte per fatalità storica. Solo sono in piedi le opere economiche, dove bene organizzate, dove no, che rendono il gran servizio di tenere unito e cointeressato il proletariato, e lo prepara all'awenire.

V. - L'organizzazione non deve essere fittizia, di pochi ca- pi formati o da sé o da altri, ma deve essere organica, cioé trarre la propria forza dalla forza della vita quale essa è. (Economica profess[iona]le, com[mercia]le, nazionale). A questa vita dob- biamo prepararci.

VI. - a) Elemento morale e religioso nella concezione dei problemi, nella formazione dei caratteri, nella elevazione dello spirito contro l'egoismo base delle concezioni naturalistiche della società; b ) Elemento intellettuale di cultura; C ) Elemento pratico di lavoro: istituti economici - lotte sociali - amininistrazioni po- litiche.

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VII. - Presso gli awersari: lavoro di penetrazione - il passato e il futuro - le lente e grandiose trasformazioni storiche quando meno sembrano avvenute nei particolari, arrivano a po- derose vitalità.

VIII. - I1 popolo è chiamato al suo nuovo compito di vita, nella trasformazione del presente. Concezione del progresso umano nella lotta faticosa per il bene individuale e sociale.

Il lavoro oggi fattore di civiltà nuova. Fiducia nell'avvenire: gloriose lotte del Cristianesimo.

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RERUM NOVARUM l (f. 145, C. 12)

Ci dice Cicerone che I'aspettazione di Archia era superata dalla realtà; nel caso mio sarà al contrario, e al leggere la Voce del popolo ho pensato che sarò il rovescio della medaglia: un Archia a capo giù. Pazienza! E' così importante l'argomento della commemorazione della R[erum] N[ovaruml che le per- sone scompaiono facilmente, e le tonalità dell'oratore sono so- praffatte daila solennità della circostanza.

Concetto principale dell'Enciclica: la Chiesa che sotto I'aspet- to della religione e della moralità entra nel dibattito dell'attuale questione operaia e ne traccia le linee generali e perenni. Come ciò risponde alla missione della Chiesa nei secoli, perché conti- nua l'opera di amore e di redenzione di G[esù] C[ristol; ed è una concretizzazione di principii supremi, secondo il sorgere di nuovi mali, cii nuovi bisogni, di nuove forme di civiltà.

Originate o determinate da queste linee direttive della Chie- sa e dallo spirito inesauribile del Vangelo, si sviluppano forme umane concrete di azione nel campo delle attività storiche e sociali, che assumono l'impronta dei tempi e che hanno una vita di pensiero e di azione che entra nel dibattito dell'ambiente so- ciale come sintesi di bene, attraverso a tutte le deficienze, o come resistenza al male.

Movimento cattolico e sociale legato insieme dai fattori anticristiani e antisociali del liberalismo e del socialismo. Que-

l Discorso manoscritto steso in forma schematica e datato: « A Como, 21 mag- gio [19]05.

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sto movimento però ha subito tutte le conseguenze di i d t r a - zioni e tradizioni storiche eterogenee, il cozzo degli egoismi con- servatori, l'urto delle tendenze estreme, l'aduggiamento di apa- tie e di indifferentismi prodotti da pregiudizii inveterati anti- religiosi o politici.

Bisognava perciò sgomberare il terreno da mentalità false - da tradizioni rovinose - da moralità frolle - da pregiudizi e preconcetti ed errori politici, ed affrontare le forme incrostate di un conservatorismo ammantato di religione.

I1 cozzo delle due tendenze era una necessità di cose ine- luttabile, e venne: imprudenze e audacie, resistenze cieche e ragioni da ambe le parti (per la naturale relatività della visione dei fatti) diedero al cozzo delle due tendenze la caratteristica di tutte le lotte umane (e che era altro?) con una circostanza a nostro danno notevole, di fronte alle masse nuove dell'opera dei cattolici militanti: l'unicità degli intenti ultimi religiosi e morali e la onestà delle intenzioni personali. Per cui la confu- sione, inevitabile, ha condotto il partito Dem [ ocratico I Cri- stt-iano] a una crisi apparente.

La crisi è apparente, perché molto si è trasformato in que- sti 14 anni - e specialmente dal 1898 in poi - di cultura, di mentalità; ci siamo avvicinati alla realtà; abbiamo fatto la dovuta distinzione fra rinascenza cristiana della società e organismi re- ligiosi; - sono cadute le forme o fittizie o sussidiarie di orga- nizzazione cattolica per potere trovare la via maestra degli orga- nismi umani, dove noi dobbiamo portare la voce e la vita, e ci si è aperto il campo dell'awenire.

Quale campo? Quello naturale; a) l'organismo economico della cooperazione è elemento di miglioramento materiale, mez- zo di unione, sviluppo di attività - esso è ordinato alla vita professionale;

b) l'organismo professionale giuridico sarà l'ultimo for- se ad ottenere dallo Stato [sic] ma dobbiamo porvi le basi, perché le leggi per lo più non creano ma consacrano i fatti sociali. Concetto e ragione della unione professionale;

C) Municipii e provincie e opere pie - amministrazioni pubbliche: carattere collettivo - sociale e morale;

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d) Parlamento - ragione del nostro intervento oggi (con le dovute cautele) e del non intervento di ieri. Concezione politico-sociale - infiuenza e forza di idee concrete.

A questo, e per questo valgono le nostre associazioni; stampa - formazione di caratteri, di coscienze, di uomini - istruzione e cultura del popolo. E soprattutto vita morale e religiosa interna: perché si vuole la religione e la Chiesa non a dirigere gli affari terreni di associazioni naturali quali parla- menti, comuni, unioni profess[ionali], cooperative, ma infor- mare lo spirito di questi enti, o di quelli che vi lavorano e operano in contrasto, con gli altri, allo spirito cristiano.

E questo spirito cristiano, che deve ritornare a informare tutta la civiltà presente, salverà il popolo. I1 popolo è religioso ancora, ma non ha più la forza della vita religi~sa. Esempio do- loroso della Francia 2. Quel che è awenuto da 40 anni in Ita- lia - Siamo pochi?

Forse siamo meno pochi di quel che sembra. Ma che conta? Pus;llus grex p i a cornplacuit patri vestrc dare vohis regnunz. La forza delle grandi vitalità cristiane è nello spirito dei pochi che lavorano, che si sacrificano e che hanno fiducia in Dio.

E' il popolo cristiano che si ridesta, e che sa di poter riven- dicare i proprii diritti all'ombra e sotto l'influsso deUa religione cristiana. Così spezza le catene del socialismo anticlericale insie- me a quelle del conservatorismo irreligioso e si redime nella vi-

. ta dello spirito, nella vita sociale ed economica. La battaglia è difficile e la via lunga: il merito è di chi sa

affrontare le posizioni e trascinar gli altri nel turbine della vita vissuta. Altre forme soppianteranno le vecchie, e la civiltà uma- na cammina.

" Presumibiiente, Sturzo si riferisce alla politica anticlericale della Terza Repubblica, aila rottura deile relazioni diplomatiche tra S. Sede e governo francese (cfr. nota 7 del doc. 18), al progetto legislativo anticoncordatario presentato da Combes negli ultimi mesi del suo ministero sulla completa sepa- razione tra Stato e Chiesa e sulla formazione di una chiesa nazionale, progetto che, profondamente mitigato dal ministro del Culto del nuovo gabinetto Rouvier succeduto al Combes, venne approvato definitivamente il 9 dicembre 1905 e che nel maggio, data del discorso di Stuno, era in piena discussione alla Camera dei Deputati. Cfr. A. DANSETTE, OP. cit., pp. 333-350.

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NOTE SUL CLERO MERIDIONALE ' (f. 175, C. 50)

Con voto unanime dei cattolici adunati a Firenze per la com- pilazione degli Statuti della nuova organizzazione delle forze cat- toliche in Italia, è stato deliberato di esporre umilmente alla San- ta Sede, come figli al padre, con confidenza e sommissione insie- -

me, quanto ebbero ad affermare a nome loro e a nome di mol- tissimi cattolici italiani e con il consenso, espresso in tal voto, della maggior parte dei delegati regionali, sulle difficoltà che sor- gono dalla forma concreta data al movimento sociale ed eletto- rale dei cattolici.

Ed i sottoscritti adempiendo un mandato ricevuto e un do- vere della propria coscienza, intendono anche, in questa forma inusitata ma non nuova nella vita religiosa dei cattolici, rendere ancora una volta ampio omaggio di fede, di devozione e di amore verso la Santa Sede e la causa del bene.

Una delle difficoltà principali che incontra il movimento cattolico specialmente nel Meridionale, le cui difficili condizioni meritano che per lo meno non si crei una uniformità organica ec- cessiva che può riuscire dannosa, si è la confusione che s'ingenera nei più fra l'azione civile e sociale dei laici cattolici e l'azione ec- clesiastica religiosa del clero; per cui non di rado i laici comin-

Manoscritto senza titolo e senza data. Presumibilmente si tratta della bozza di una nota che Stuno, assieme ad altri dirigenti cattolici meridionali, inviò riservatamente alla S. Sede, in occasione del convegno deI febbraio 1906, tenuto a Firenze per l'approvazione dei nuovi statuti deil'Azione Cattolica preparati da Toniolo, Medolago Albani e Pericoli. Sul convegno e suii'impor- tanza dei nuovi statuti, cfr. DE ROSA, I, pp. 510-514.

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cino a (...) ' troppo le invadenze di altri tempi nell'organi- smo ecclesiastico 3, O per lo meno partecipano alle contenzioni dolorose dei partiti di curia 4; oppure il clero assorbisce ogni azione laica, assumendo enormi responsabilità.

Questo fatto, a chi non conosce l'ambiente del Mezzogior- no, può sembrare di molto poca importanza; però è degno di se- ria considerazione, se si tengono presenti le condizioni diverse di quelle regioni.

Ivi le condizioni religiose sono difficili principalmente per- ché il contatto delle autorità e dell'ambiente laico con quello ec- clesiastico è troppo continuo e per i troppi interessi insiti, e si risolve, per cumulo di tradizioni dolorose, in vera invadenza lai- ca, anzi in sopraffazione Per cui il clero è, in generale, in una condizione di grande inferiorità morale e materiale: esso dipen- de dai patroni laici, che sono Municipii o case principesche, nella collazione dei beneficii; a ingraziarsi i quali ha più cura o al- meno più interesse che a sostenere i diritti della chiesa e del po- polo; dipende dalle commissioni laiche spesso in mano di libe- rali e massoni nelle feste religiose, dalle confraternite laiche nel- l'amministrazione interna di molte chiese; dipende infine dalle famiglie ricche e prepotenti che sostengono molte spese di culto e che tengono i preti per amministratori, maggiordomi, maestri d I ' casa.

Questo stato di vera e reale dipendenza del clero, è aggra- vato dal fatto che il sacerdote vive la vita di famiglia, ne cura gli interessi materiali e morali, come il capo della casa; non si allon- tana dal proprio paese, dove non di rado, per conto della fami- glia, esercita la mercatura o l'industria agraria, anche per vivere, perché la chiesa dà scarsi proventi; riserbando a pochi i pingui benefici.

Tale stato di fatto, reso più grave dalla poca istruzione, co- stringono [sic] il clero a partecipare, intensivamente, ai partiti

' Parola iUeggib.de. Brano cancellato: « come il clero riduce troppo spesso l'azione dei laici

a queiia di coadiutori della vita strettamente religiosa e parrocchiale, soppri- mendo e soffocando D.

Brano cancellato: « o riduce i laici a semplici entità numeriche D.

Brano cancellato: «per un cumulo di interessi e di abitudini, che nulla han che fare con le finalità deiia vita religiosa n.

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personali locali municipali e politici, che non sono a base di idee ma di persone; e così si ha lo strano fatto che sacerdoti e parroci sono elettori e partigiani scoperti e influenti di Defelice, Noè, Colaianni, Cascino, Pasqualino Vassallo, Pantano e Nasi e al- tri radicali, massoni, socialisti, e dei relativi Consigli Municipali e Provinciali; o peggio preti contro preti, mescolando partiti re- ligiosi a partiti politici e creando quella coscienza atrofizzata in popoli, materialmente religiosi, i quali non hanno scrupolo a so- stenere nella vita pubblica uomini contrari a ogni sentimento re- ligioso e a ogni principio di onestà.

Queste condizioni si ripercuotono attorno alle curie vesco- vili, ove si assomano [sic] molti interessi religiosi e finanziarii delle chiese; per cui è necessità e prudenza spesso non solo non pigliare posizione contraria ai deputati, municipii, grossi signori, ma sostenerne, almeno indjrettamente, le pretese, o disinteres- sarsi di tutta la vita pubblica; per ottenere con rapporti personali anche da socialisti come Noè, De Felice, Pantano, Nasi o Co- laianni, quanto è possibile pel bene della Chiesa.

Tutto ciò rende non solo difficile ma impossibile la forma- zione di una organizzazione cattolica diocesana vera e seria, sia economico che elettorale, perché i primi ad allarmarsi sono i ric- chi signori, i deputati, i sindaci, i quali premono sul clero, e per fino sulle curie. Onde in parecchi punti si è creduto oppor- tuno scindere la responsabilità dei vescovi, e del clero curato e beneficiato da quella dei promotori perfino di Casse Rurali e di Cooperative; che dire poi delle associazioni del movimento elet- torale ', che crea immancabili e pericolose rappresaglie?

E' perciò che i sottoscritti temono che nel NIezzogiorno di Italia una organizzazione economica ed elettorale strettamente diocesana ecclesiastica come emanazione diretta dell'azione ve- scovile, non potrà avere sviluppo non solo, ma potrà paralizzare l'opera già fatta oppure addossare ai vescovi e al clero una re- sponsabilità enorme creando nuove e maggiori difficoltà *.

6 Brano cancellato: « sui vescovi o almeno ». Brano cancellato: « tollerare le quasi normali scissure del clero in due

partiti politici liberali, per non creare ostacoli nuovi ». Rrann cancellato: « Normalmente quando si fondano opere economir-

sociali, la prima condizione si è il dover dichiarare che tale istituzione non distur-

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Molto si potrebbe dire sulle miserie morali e materiali del- la Sicilia e del Mezzogiorno, sulle tristi condizioni di un popolo rovinato dal governo, dai latifondi, dalla politica; e che versa in uno stato difficile anche nella vita religiosa; e quindi sul com- pito di [ ...] "ei cattolici fondamentalmente religiosa e nella esplicazione più visibile e immediata, economica ed elettorale: i sottoscritti chiedono umilmente che non sia per troppo unifor- mità organica paralizzato il movimento incipiente, specialmente nella Sicilia; che la vita elettorale e strettamente economica dei cattolici non apparisca come emanazione dell'attività vescovile e degli organi ecclesiastici della diocesi; e che nella vera soggezio- ne dei cattolici ai vescovi, si trovi quella fiducia e quella libertà necessarie perché l'azione al bene vero della chiesa e del popolo cristiano possa avere sviluppo.

berà per niente l'ambiente politico e amministrativo del quale è estranea: altrimenti neppure il clero ci si troverebbe. E c'è di più, che le stesse opere economiche non sono volute dai grossi sfruttatori, dagli usurai ecc; e non è rado il caso di vere persecuzioni di tali signori contro i promotori ».

Parola illeggibile.

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CONFERENZA AI SEMINARISTI DI PIAZZA ARMERINA l

(f. 145, C. 16)

Ho aderito al gentile invito del vostro Rettore di dirvi qual- che parola, tanto per non essere poco cortese verso lui e verso voi altri, cui mi legano sentimenti di affetto. Capisco che, in que- sti giorni di esami, non è opportuno distrarvi dalle vostre occu- pazioni; adesso voi siete come l'agricoltore che, in questo mese, ha il raccolto con frutti più o meno abbondanti, secondo che avrà bene o male lavorato. Poi un altro fine hanno i vostri sen- timenti, ed è di poter arrivare ad essere sacerdoti. Termine di questa vostra intensità è proprio il sacerdozio, in cui si compen- diano le speranze più nobili, i più belli sentimenti del vostro cuo- re. Il vostro lavoro, la vostra fatica periodica ha questo fine: il sacerdozio con tutte le sue più alte idealità. Quando voi conce- pite il sacerdozio, pensate a qualche cosa di astratto, di ideale, senza limitarvi a qualche punto determinato. Quanto più lontani ne siete, tanto meno concreto ve lo rappresentate alla mente; quanto più vi awicinate, tanto pih sentite i diversi bisogni del vostro suolo natio, in cui si applica e si esplica il vostro ideale. In questo caso concepite la vostra missione in un senso meno indeterminato; mentre, guardandola da lontano, la compendiate nelle parole: voglio fare del bene, perché il concreto, il deciso viene quando sarete [ sicl sacerdoti.

1 I1 dattiloscritto è così intestato: «Conferenza del Sac. D. LUIGI STURZO tenuta nelia sala da studio del Seminario di Piazza Armerina, 9 marzo [o giugno? il numero che indica il mese è sbiadito e poco comprensibile] (19)07 n.

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Arrivati ad essere preti, dopo aver avuto imposte le mani, vi troverete in mezzo a mille difficoltà; vi guarderete attorno, os- serverete, (per le condizioni speciali di Sicilia e d'Italia), vi tro- verete attorno un vuoto perché vi manca una formola di fatti specifica, un problema concreto. Non vi si porranno avanti mol- te forme alle quali non è sufficiente il sacerdozio giovane [sic]: non di confessare perché è una missione molto' ardua e non co- noscete le coscienze, per bene dirigerle a Dio; non la predicazio- ne fino a che non avrete un corredo di pensieri; non l'ammini- strazione dei sacramenti, ch'è un ufficio limitato, specialmente da voi, dove più facilmente, affluendo i fedeli in chiesa, si deter- minano diverse correnti per un santo Espedito, per una Ma- donna.

Tutto questo è come un vuoto ch'è determinato nelle pic- cole città di montagna, dove non c'è contatto con cui potere co- municare i vostri pensieri; e ne viene facilmente che si incomin- cia a sciupare il tempo prezioso nei cicaleggi delle sacrestie, nel- le strade, nei casini, nelle farmacie e in occupazioni in cui pre- domina l'ozio, come forza principale. Quindi desideri che si for- mano facilmente nei nostri ambienti, per mancanza di quei mez- zi con cui potere onestamente tirare avanti, senza che il mini- stero sia involto nel fango. Perciò, dal desiderio di avere un mez- zo di vita e di maggior decoro, si viene a desiderare una mozzet- ta, si vuole avere uno stallo, una carica; si sciupa il tempo tenen- do un contegno, secondo che si tratta di un patrono laico o ec- clesiastico, per avere un posto, un beneficio, una decorazione.

E' evidente che tutti questi disegni, che da giovani non si avevano nel concepire il sacerdozio come mezzo di bene, disani- mano; e il sacerdote così si allontana da tutta quell'attività che aveva concepita in seminario. Questa attività sfuma non per di- fetto di zelo; ma per quello stato di anima in cui si trova: giac- ché questa attività sacerdotale è come limitata, circoscritta, de- terminata a poche formole, eccetto nella parrocchia, dove il sa- cerdote lavora mostrando la parola di Dio. Questo lavoro che si dovrebbe considerare il pih nobile, di fatto è tenuto in basso pensiero. Per l'ambiente in cui ci troviamo, i cappellani sono considerati quali sacerdoti che hanno meno mezzi intellettuali, che fanno un lavoro materiale, che non prestano, nella vita or-

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ganica ecclesiastica, una vera cooperazione nel regime pastorale delle anime.

Il concetto del bene si perde in quelle forme concrete che non rispondono ai veri bisogni, non penetra nell'anima popolare e non trascina le anime ai piedi di Gesù Cristo. Forse ciò awie- ne unicamente perché ci troviamo lontani dalla vera vita spiri- tuale, nella condizione di subire un ambiente antico, doloroso nel sacerdote delle due Sicilie. Un tempo, era il clero aulico che, nella condotta della vita pubblica, cercava di esplicare la sua at- tività conforme al pensiero locale e secondo il regime delle corti. I1 concetto di un clero monarchico che premeva attorno l'attività sacerdotale e sul pensiero che domina da un secolo in Italia, for- ma un ostacolo nelle coscienze del popolo, non con i bisogni di una condotta civile, di una vita pubblica [sic]. Pertanto il sa- cerdote non si trova integrante del pensiero della vita popolare. Anche oggi egli è come una specie di persona ligia alla ricchezza, che si determina sotto forma o di cappellano di casa nobile o di economo di ricchi signori. A tali persone si inchina non perché riconosce un diritto di forza morale, un'autorità per diritto mo- narchico; ma per forza di tradizione, che si mantiene ancora nei nostri piccoli paesi. Di fatti tutto questo serve a staccare il sa- cerdote dalla via della sua missione; specialmente oggi in cui il prete deve esercitare la sua missione in contatto con la vita ester- na. Faccio una parentesi; evidentemente la vita sociale e religiosa sacerdotale non si può scompagnare dalla vita del pensiero let- terario, civile, politico, secondo le diverse località: ora agitata da una crisi economica, politica, letteraria, e fidando che tutti que- sti elementi di vita sacerdotale si esplichino come organismo del pensiero del sacerdote con quello del popolo, e si ripercuotano nella vita pubblica. Questa concezione risponde bene al suo tem- po e poteva avere un valore storico.

Oggi quanto più l'anima si è allontanata dal pensiero sacer- dotale, tanto più tutte le forze sono passate nelle esplicazioni di una vita sotto principi liberali, a cui si è unita una forma collet- tiva sotto forma democratica. La forza sacerdotale non può es- sere condotta di vita esterna, ché, guardata attraverso questi bi- sogni, si esplica, si determina in una corrente di pensieri, di sen- timenti, di attività che sono distinte dalla concezione di una vita

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sacerdotale. Quindi lo stacco del popolo dal sacerdote è addirit- tura enorme. In che consiste di fatti la esplicazione della fede religiosa nella nostra Sicilia? La condotta del popolo colla fede religiosa consiste nella manifestazione di un culto rumoroso, e si attacca anche alla forza di questo santo con un rito e nome determinato. Dunque, tutta l'attività della fede di questo popolo consiste nell'onorare il santo in una forma esteriore, in una for- ma troppo profana, poco religiosa. Non troverete che poche per- sone che si confessano, che frequentano l'Eucaristia; si cerca piuttosto la protezione di un santo che si invoca contro le ca- vallette, i cattivi raccolti, per la pioggia che non viene, per le malattie dei propri parenti.

I1 popolo tende verso la tale santa immagine, verso la tale Madonna: quella tale Madonna, quella tale statua determinata e concreta, in quella data chiesa. Può essere questo un tramite, un mezzo buono perché il popolo possa avvicinarsi al sacerdote; ma questo mezzo non è sempre salutare ai costumi, almeno nella generalità dei casi. E' una fede rudimentale, non conoscendone le vere nozioni. Di fatti voi troverete tanta buona gente che non conosce il catechismo; ma che sa fare la croce, dice il Pater No- ster e 1'Ave Maria, senza sentimento vero, reale; ma in confuso. Saprà qualche cosa sulla devozione e sui canti; ma la sua coscien- za avrà una concezione falsa della vita religiosa. Questo è uno stato generale, normale, più largo di quello che non si crede. E' un sentimento che si ripercuote, è un sentimento di timore di una vita avvenire, è un salutare barlume di vita cristiana, è un sentimento di famiglia che si mantiene integro. E questo è un altro elemento buono che può utilizzarsi; ma è limitato, rudi- mentale.

La condotta di questo popolo verso il sacerdote, che rap- presenta Gesù Cristo, è piena della massima disfiducia in quel- lo che riguarda l'amministrazione dei beni della chiesa: per cui si formano commissioni per dirigerne le feste. Questa condotta accresce di più il distacco. E ancora qualche altra cosa: è poco facile l'awicinamento del popolo al sacerdote per confessarsi, perché si ha poco fiducia nei costumi, poca conoscenza della sua istruzione. I1 numero di quelli che vanno a confessarsi è limi- tato; in generale chi si confessa sono quasi sempre le stesse per-

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sone, per non dire beghine. E' doloroso conoscere questo stato! Quando vedete che si avvicina il popolo al sacerdote? Quando vi è qualche missione speciale, perché la sua condotta è integra, è sconosciuta, non c'è niente da condannare; guarda il ministro di Dio, colpito da quella forma di predicazione.

Evidentemente questa è come un'eredità dolorosa del pas- sato, quando il sacerdote era staccato dal popolo. Egli, per i pro- pri affari, non lo avvicina, perché crede, teme che non faccia gli interessi del popolo, ma quelli di una classe superiore.

Voi che vi preparate al sacerdozio, che avete una viva fede nella missione a cui vi indirizzate, che sperate di essere buoni sacerdoti, dovete prepararvi ad essere i ministri di Dio, della fede cristiana in mezzo al popolo. Dovrete entrare nella coscien- za di lui, come chi può portare una parola di pace; dovrete en- trare nelle coscienze, guidare bene le anime dolorose, sollevarle dai loro bisogni spirituali.

Allora alla vostra missione si aprirà un orizzonte più vasto: non perché sia ristretto, ma perché si trovano barriere che sono formate dalle doiorose tradizioni del passato, dall'allontanamen- to della coscienza del popolo. Sono barriere di chi crede che il sacerdote non Fossa entrare a sforzare [sic] le diverse forme di attività, di vita, uscendo fuori anche dalle attività religiose. Ed è per questo che da parecchio tempo si è determinata un'altra attività, che sembra che non sia sacerdotale; ma ch'è vera atti- vità sacerdotale. Chi si occupa di leghe agricole, di casse rurali, di movimenti elettorali, di altre attività, sembra sacerdote di- stratto dalla sua missione, ch'è quella della parola di Dio, la co- municazione delle grazie alla coscienza di ciascuno. Sono attività esteriori, alle quali dovrebbero addirsi i laici che sono nella vita sociale e di famiglia. Per il momento il sacerdote è distratto dal- la missione, non come finalità ultima, ma come un lavoro al qua- le si dedica parte del sacerdozio: non come direttamente voluto, ma come un mezzo per attirare il popolo, per fare penetrare me- glio la vita religiosa in quella civile. Guai se si dedicasse tutto! Ci sono tante altre cose nella missione spirituale del sacerdote; ma si può dedicare una parte, non come fine ultimo, colla forma di vita civile, spesso più nobile, allo scopo formale di vita poli-

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tica [sic]. Ciò è necessario per esplicare l'attività sacerdotale, per ordinare le coscienze del popolo, disporle a ricevere meglio, con maggiore frutto la parola di Dio; e per fare che il pensiero religioso penetri nella vita civile. Quando noi pensavamo sotto i regimi passati, c'era molta esteriorità, il pensiero popolare era lontanissimo dalla fede della chiesa. I1 pensiero politico, morale, letterario dominante la coscienza del secolo XVIII, era lontano da Gesù Cristo. Era inutile la forma esteriore che i re e i rap- presentanti dell'autorità, del pensiero feudale mantenessero nel- le università, nelle corporazioni. La rivoluzione fu necessaria, e, come conseguenza logica, l'allontanamento del popolo dal sacer- dote, perché le anime non avevano il vero spirito religioso. Oggi si vuole un ritorno non delle forme, ma delle anime che non sem- bra che siano lontane.

Tutta la vita dell'uomo è complessa: noi possiamo dividerla in categorie, ma che non possiamo scindere. Possono avere una finalità propria, determinata, ma non sono separate, non con- fuse. I1 pensiero cristiano e il nome devono diventare, come di- cono gli Scolastici, forma sostanziale della vita cristiana. Questa può essere come animata da un pensiero, come guida dell'uomo; altrimenti la vita morale si stacca dal formalismo e si cercherà la religione nel soddisfacimento dei piaceri della vita, dei pro- pri bisogni. Se oggi il sacerdote rientra nella vita esteriore per determinarla e informarla al pensiero religioso, è un bisogno ri- chiesto dall'evidenza dei fatti, e non una coartazione di Satana. Quando noi torneremo a predicare le verità, il domma, il cate- chismo, possiamo essere sicuri che quell'insegnamento, nella esplicazione della vita civile, risponderà al sentimento cristiano. Allora il sacerdote potrà bene esercitare la sua influenza, potrà promuovere l'elevazione religiosa che si appunta a Gesù Cristo.

Cari amici, voi vi preparate ad un'alta missione, difficile per tanti ostacoli nell'organismo, nell'ignoranza del popolo, nel- lo stacco della vita civile, a cui non è più corrispondente [sic]. Ciò awiene non per causa dei singoli sacerdoti pieni di zelo, san- ti, tali che il loro profumo arriva sino al popolo; ma perché dal popolo si vengono a staccare quegli elementi di vita religiosa, ponendolo in una condizione di vita contraria ai sentimenti cri- stiani.

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Evidentemente voi vi incamminate ad una missione diffici- le; per bene riuscirvi preparatevi collo studio della vocazione e dei bisogni del popolo; formatevi una virtù soda, che non trasci- na a seduzioni, non viene meno nel terrore, non si abbatte nelle persecuzioni, non cade nell'invidia di cose piccole, che veglia in un ambiente pericoloso.

Allora il vostro cammino, o miei cari chierici, sarà disegna- to da questa preparazione, da un carattere adamantino; non per i sentimenti dei superiori; ma per convinzione di virtù, per con- cezione spirituale. La vostra virtù deve essere animata dalla fe- de cristiana, religiosa, ad esempio di Gesù Cristo venuto nel mondo, apparso in una vocazione determinata ad una missione, in contatto col popolo. Egli è venuto a sanare le piaghe spiri- tuali con quelle temporali, ha dato l'esempio più alto di chi è uomo e Dio; ed e arrivato al sacrificio della croce dando i più belli esempi al sacerdote. Egli si preparò in 30 anni, per inse- gnarci a prepararci lungamente, se non sino a quell'età, almeno sino a 23 o 24 anni. In questo tempo il sacerdote si deve pre- parare nel silenzio, nella preghiera, nel lavoro intenso tale da rendersi degno di entrare nella predicazione della parola di Dio, sanare colle piaghe temporali le spirituali. Quando egli sarà sce- so in mezzo al popolo, sempre per beneficarlo,, e quando gli sarà gridato il "Crucifige", sarà certo di averlo salvato col proprio sacrificio.

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SEDICI MESI DI AMMINISTRAZIONE 1

(f. 175, C. 33)

Introd[uzione]. Stasera sono come chi torna da un lungo viaggio, dopo avere esplorato terre nuove, e ne dà conto agli amici. O meglio: come l'am[ministratore] che è andato a vedere per la prima volta i beni lontani di un ricco signore, e torna a darvi conto, facendogli conoscere gli ordini che ha impartiti.

S'insiste nel paragone.. .

A) Ragione di un lungo silenzio, interrotto da diverse rela- zioni, pubblicate, per comodo dei cittadini: Bilancio 1906, Luce elettrica, Bilancio 1907.

Sia perché un mandato concreto era stato dato alla nuova Amm[inistrazione] nelle elezioni - cioè riforma del corpo del- le G [ uardie l M [ unicipali ], sistemazione finanziaria e luce elet- trica - sia perché era necessario =he l'amministrazione si fosse impadronita dell'intiero andamento della cosa pubblica. Oramai si può dire che con la pubblicazione ed approvazione del 2' bi- lancio della nostra Amm[inistrazione] si sia compiuto il lo pe- riodo, difficile, laborioso, angustioso, di fiducia; e possa 1'Ammi- nistrazione, con una certa sicurezza di dati e di criterii, trattare col corpo elettorale degli affari che riguardano la pubblica Am- m[inistrazione]. Per questo ho accettato l'invito della Comm

1 Discorso manoscritto datato 21 aprile 1907 e steso frequentemente in forma schematica. Si tratta della prima conferenza pubblica tenuta da Sturzo attorno ai suoi primi sedici mesi di sindaco di Caltagirone.

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[issione] Elettorale delle Ass[ociazioni] Catt[oliche] ed ho de- ciso rompere il silenzio di sedici mesi e più, cercando nel con- tatto col corpo elettorale quella vigoria di propositi, che i lavori, i dispiaceri, i sacrifizii possono aver logorato.

B ) Stato psicologico dellJAmministratore. Prima di parlare degli affari del Comune, sento il bisogno

di parlare di me e dei miei colleghi, o meglio del nostro stato psicologico di amministratori.

Un uomo pubblico è esposto alla critica e alla censura di quanti hanno con lui contatti e interesse; ma quanto più vicino è ii contatto e quanti più interessi racchiude, tanto più si sente il morso malevolo della critica che conosce le cose a metà e trincia giudizi, che si sente colpita e reagisce; che vede i mali reali e non sa quanto sia difficile rimediarvi. Però due condizioni speciali hanno accresciuto la situazione incresciosa in cui si è trovata la Amministrazione: le enormi difficoltà in cui versava e in gran parte versa l'Amm[inistrazione] del Comune; e il fatto di es- sere tutti gli amm[inistratori] e il Consiglio, nella sua gran par- te, nuovi a gestire una sì vasta azienda. I1 fatto di essere noi nuo- vi all'Amm[inistrazione], non è colpa nostra, ma del corpo elet- torale, che volle noi con larga manifestazione di fiducia; ma il fatto di trovarsi in gravi distrette tutto il servizio municipale era un fatto che si conosceva da tutti, e al quale si voleva e doveva portar larghi e pronti e generosi rimedi.

Due vie si presentavano alla nostra azione: o lasciare an- dare le cose pel suo verso, contentandosi della politica del gior- no pel giorno, senza spostamenti, senza urti, senza inimicizie, senza angustie; o mettersi risolutamente per la via della riforma e affrontare qualsiasi difficoltà. La prima non era voluta dal corpo elettorale, bensi seconda; e del resto ripugnava alle DO-

stre convinzioni, come al nostro programma, un qualsiasi acco- modamento col passato; e urgevano e urgono i continui proble- mi di vita pubblica. Si scelse senza discussioni la seconda via.

Dirvi quanti dolori essa ci abbia procurato; come per 16 mesi non si abbia avuto un'ora tranquilla, come si abbia lavo- rato, è fare i1 panegirico di noi stessi, e lo sappiamo.

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Però siccome su questa condotta nostra molte querele si sono levate contro di noi, è bene che raccolga le principali, e vi dia, non una giustificazione del nostro operato, ma le ragioni di esso, che la vostra prudenza e accortezza saprà vagliare.

a ) Anzitutto si è detto da alcuni che l'Amm[inistrazionel ha usato troppo rigore verso il personale dipendente; e da altri che si è usata troppa condiscen[denza]. I1 rigore riguarda quel- li che sono stati licenziati, la clemenza quelli che sono stati man- tenuti nei posti; il rigore quelli che non hanno potuto avere un posto, la partigianeria quelli che lo hanno avuto o conservato o acquistato; il rigore quelli che sono stati vincolati da più forte disciplina, la partigianeria quelli che sono stati favoriti. E si è creata da parecchi una leggenda per ogni singolo caso, e si è vo- luto inventare ragioni recondite, mire partigiane, metodi scor- retti. Tutto ho inteso, egregi amici, e vi dico che il maggiore cor- doglio l'ho avuto dall'essere stato male giudicato anche da amici e da compagni di lotta.

Apro una parentesi: il Municipio si è creduto un asilo di beneficenza per tutti gli spostati; un diritto per tutti i poco cor- retti nella vita; un mezzo sicuro per le mezze fortune avvilite, per gli scontenti deu'esistenza, i protetti dei partiti, gli amici del potere.

Questa psicologia invadente, generale, comune, ha riflet- tuto su di noi una luce poco equa e poco sincera. Però, se è stato grave quest'onda di malcontento, abbiamo avuto la forza, e Io di- co con orgoglio, di reggerla e di superarla con sincerità e schiet- tezza.

b ) L'affare personale è i l più difficile in un'Arnm[inistrazio- ne] Com[unalel come la nostra: là dove non c'è regolamento, c'è l'arbitrio; e dove c'è i1 regolamento, s'infrange per partigia- neria; e dove si può vincere la legge, invade la passione. Noi ab- biamo voluto sgombrare il terreno delle cose personali, le più difficili, sotto l'influsso del sentirci puri, incontrando tutte le dif- ficoltà senza tergiversare.

Più B c i l e di tutti gli affari la riorganizzazione del corpo delle Gluardie] Mfunicipali]. Ricordatevi dello stato in cui lo abbiamo trovato: scissioni interne, disservizio esterno; unanime

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il voto dello scioglimento. Migliore soluzione &darsi ad una Commissione composta di pubblici funzionari. I1 colpo fu ra- dicale: dispiacque. Un rimedio sicuro: la Commissione vi si prestò. I1 concorso delle altre ... la lite, la sconfitta e la vittoria. I1 rimedio per tre guardie inferme.

Tutti i sedici mesi con una continua preoccupazione della giustizia generale che forse poteva nascondere ingiustizie par.. ziali involontarie all'uomo, che non ha la onniveggenza di Dio. E' stato un sacrifizio sull'altare della patria, ve lo dico con sincerità: quando certi atti si fanno per partito politico, per passione personale, c'è una soddisfazione immediata; ma quan- do si fanno per la patria, nessun conforto oltre il nostro dovere; nessuna visione particolare, nessun conforto in momenti di ge- nerale commozione;

C) C'è stato altro ancora; abbiamo trovato in quasi tutti gli uffici personale senza nomina, scritturali awentizi, posizioni irregolari. Molti premevano pei posti, pei favori; si credeva che l'amicizia, il voto, il partito, dovessero avere il loro tributo; in- vece abbiamo voluto sistemare le posizioni incerte; determinare obblighi, togliere ragioni a pendenze incresciose; e così nessun amico abbiamo accresciuto al partito, molti scontenti abbiamo fatto; di molto abbiamo deluso le speranze.

E ora la nuova disposizione di regolare le nomine di guar- die secondo regolamenti, preclude la via a tanti spostati che vogliono posti ed è nuova ragione a lamentele;

d) La riorganizzazione del corpo musicale, da sette anni invocato, ci ha creato peggio seccature per le pretese di un numero enorme di persone, che le condizioni finanziarie non con- sentivano soddisfare in maggiore misura. E i nuovi obblighi sono stati assunti con stento e con mal animo;

e) La disciplina nei corpi costituiti è sentita maIe; l'aver, fin dal primo giorno, soppresse le gratificazioni agli impiegati ha dato ragione a mormorii, ed a litigi anche; ogni giorno si è com- battuto contro pretese di gente che sul Comune e pel Comune ha avuto speranza di rimunerazione e di vita. Levate le pensioni di grazia.

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f ) Ancora un passo; i mutztori: anch'essi hanno avuto ragione a lamentarsi di noi. Sistema dei piccoli lavoretti. Le cooperative. I sindacati - Giustificazione dei prowedimenti;

g) E un altro passo ancora: I poveri. Regime: le cucine economiche, le tessere, i buoni di vittitazione [sicl. Soppresso

- l'arbitrio, si reagisce; h ) E ancora: i ricevimenti: necessità del lavoro: siste-

ma delle domande scritte, mormoriiAe reazione; i ) Concorsi. DifGcoltà del sistema: preconcetti: Sinceri-

tà di essi: esito tante volte contrario alla convinzione perso- nale; non c'è sistema che non ha i suoi lati difettosi.

Resta ancora: riordinamento personale salariati; assicura- zioni - stipendi - organici diversi. Riassunto: coraggio e fer- mezza. Nessuno può vantarsi di non aver offeso il dritto e la ragione di molti; però l'onesta intenzione, il desiderio di evitar male, il fine di migliorare il Comune, ilkbene di tutti impongono dei sacrificii tanto agli amm[inistratori] che agli amministrati. E faccio appello alla onesta testimonianza del paese; molto si è fatto e molto resta a fare: ma il buon volere non è mancato. Non tutti sarete convinti delle ragioni che vi ho esposto: però di una cosa sarete convinti: che l'attuale amm[inistrazione] com[unale] ha cercato, nel suo continuo sacrificio di farsi nes- suna clientela; non carpire con favori il voto a nessuno; l'avere voluto solo il bene del paese, anche sacrificando le propri9 per- sone. E su questo ci basta la testimonianza di tutti gli onesti.

Sgombrato il terreno dagli affari personali entriamo a par- lare di quelli del Comune.

A) Riordinamento degli uficii.

Lavoro penoso, iungo, ignorato, non apprezzato, ma do- veroso: i cui effetti si avranno col tempo, ma forse neppure col tempo si vedranno intieri. Inventarii - registri - protocolli - ar- chivio nuovo - divisione del lavoro - regolamenti - ufficio con- tenzioso - &ci0 tecnico - regolamento sanitario - Economato - dazio comunale - disciplina.

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I1 pubblico dirà: che ce ne importa? Vogliamo esser ser- viti, e ci basta: è vero, ma per servire meglio il pubblico e il Comune era necessario.

Ancora molto manca (servizio bidello - villa - impiegati diversi).

Siamo in ciò poco creduti, e poco è stimato questo inte- ressamento: ma questo è il cardine della vita amministrativa. Paragone in una grossa azienda in cui non c'è sistema: tutto va in rovina.

Ma da vero, domanderete, non c'è sistema? Come avea vissuto il Comune? Anzitutto bisogni nuovi e crescenti per leggi, regolamenti, ecc. Popolazione in aumento, esigenze più vaste. Alcune cose andavano bene, come lo Stato civile; altre no; per- ché la partigianeria, la non curanza, la ragione personale aveano creato una serie di impacci enormi alla vita del Comune.

Servizio sanitario: nuovo regime. Contratti con la Congr[egazione] di C[arità] - Ufficio sa-

nitario - Poveri - Elenco dei poveri - Chinino di stato. Deliberazione di Giunta 1400 nel 1906 - Affari in arre-

trato, pendenze di interessi da sciogliersi - incarichi orali; am- ministrazione paterna.

B ) Riordinamento dei conti. Dal 1902 non si rendevano i conti: che c'era di oneri e di attività: quale lo stato finanziario? I1 lavoro più improbo; ora si sta facendo il conto del 1906; con risultanze attive discrete.

Aiuti [ ? l ai pagamenti: lavoro difficile. Si crede che le esazioni si possano fare subito. Procedure, dati. Deficienze di cassa; ritardo nei pagamenti. Ruoli - regolamenti dei contratti - canoni - stati - manomorte - 4' di rendita - guadagni - bilanci: diflicoltà - passività.

C) Riordinamento dei Liavoril Piubblicil - Comm[issio- ne] consiliare - ufficio tecnico - Sistema del piccolo lavoro - Difficoltà di sorveglianza.

D) Liti. I1 comune ha molte liti; perché. Liti principali Pro- vincia - Stato per L. 170.000 - Montevago e Santopietro.

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E ) Santopietro - riordinamento del servizio patrimonio - miglioramenti - awenire del Comune - necessità di una direzione tecnica - regolamento attuale - chi è il padrone? - Uff [icio] fore- stale - danneggiamento dei quotisti - usurpi - lavoro per l'awe- nire - [ ...l condizioni difficili.

F) Annona e Caprai: d&coltà - contratto - cantina sociale - regolamento di polizia.

Riassunto - Servizi e finanza - Lavoro e speranze; lungo, dif- ficile: vita di un uomo. A noi basta aver rimesso sul binario la vita amministrativa.

Servizi pubblici e miglioramento del paese

Finalità di ciò sono i servizi pubblici: miglioramento del paese. Ragioni della vita comunale. Influenza nella cittadi- nanza; industrie, commerci, benessere morale e materiale.

A) Istruzione. Problema - lode agli insegnanti. a) locali scolastici; b ) arredamenti; C ) educazione artistica - canto - declamazione - ginnastica;

d ) refezione scolastica; e ) liceo - ginnasio - scuole tecniche; f ) scuole d'arte e mestieri; g ) scuola di ceramica; h ) scuole di canto - corpo musicale - concerti - teatro;

2 Si tratta di un feudo situato in Caltaguone, oggetto di lunghe contro- versie. Nel 1901 fu posto il problema della sua divisione a favore dei conta- dini. S t u m , che allora capeggiava la minoranza consiliare cattolica, si batté innanzitutto per dimostrare la demanialità del feudo e per accertare e riven- dicare gli usurpi. In secondo luogo si batté per rivedere la prima quotizza- zione stabilita nel 1902, che era ristretta e aveva favorito persone già possi- denti: nel settembre del 1903 le quote di Santo Pietro salirono così da 600 a 1200 e furono divise tra i poveri della citth. I progetti di Sturzo, tuttavia, erano di fermare la quotizzazione a questi livelli, per salvare l'area boschiva demaniale da destinare a culture specializzate e indutrializzate (sugherificio, oliveti, lavorazione di essenze, attrezzature per i pascoli di svernamento) e alla creainne di iin istituto di sviluppo agrario forestale.

3 ParoIa iiieggibile.

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i ) una scuola a S. Pietro e un'altra a S. Maria di Gesù e una a Mazzarrone;

l ) insegnamento religioso.

B ) Viabilità rurale - Difficoltà - stato delle vie - frane e danni alluvionali - vie vicinali - elenco alcuni lavori fatti:

Danni in tutte le vie Balchino [ ? ] S. Maria di sotto Ponti Ponte Gallo Passo [? l Cristoforo Piccole vie

progetto di 100.000 lire - perché utile, enorme, immenso.

C) Acqua Progetto Verticchio

[...l Condutture S. Pietro e S. Leonardo Commissione fonti rurali e fontane

D ) Strade interne S. Sofia Cordova S. Pietro studii S. Orsola Porta del vento Circonvallazione

Nuovo sistema di strade

t

Economia per un miglioramento

E ) Case popolari e [ ...l ' rurali. Progetto in corso - CongCre- gazione] di carità.

Parola illeggibiIe. Parola illeggibile.

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F ) Locale disinfezione

Fognatura Progetto generale Cesso pubblico Pubblico pacato e sventramento quartiere collegio

G ) Villa - Piccoli miglioramenti - Difficile una spesa forte - passeggiate pubbliche - costume di Caltagirone - aria e luce.

H ) Piano regolatore - Progetto in corso - Criterii - la po- polazione deve svolgersi verso Sud - Bene pel paese.

I ) Luce elettrica - Opera già awiata al suo compimento.

Conclusione

Con tutte le difiEicoltà e con tutti i sacrifizi, 1'AmmCinistra- zione] crede aver fatto un po' di bene al paese; lieta di aver fatto solo il proprio dovere.

Non vuole compensi, non domanda voti, non ha l'ambizione di restare a un posto difficile, fortunata se altri siegue i criterii che ha avuti, di nessun altro premio paga che di quello di aver servito. E se dopo verrà il silenzio sulle opere nostre, e se il popolo cercherà altri, e se la pubblica estimazione non continuerà a sorreggere l'opere nostre, onesti e semplici torniamo come Cin-. cinnato ai campi, pronti all'appello, senza che nessuno possa dirci: fanno un favore a prezzo della coscienza, senza che nessuno possa rimproverarci di aver venduto il favore a prezzo di un voto.

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LA NOSTRA POLITICA l (f. 175, C. 31)

Una simpatica aggressione, per quanto alle spalle ', mi ha imposto un tema sul quale, dopo la mia conferenza del nov[em- bre] del 1905, pubblicata in un opuscolo, sul Partito Cattolico 3,

avevo deciso di tacere, per una serie di circostanze superflue a elencare, ma che in gran parte sono sentite da tutti i cattolici italiani. E I'occasione di un recente e inopinato disastro 4, ha ri-

l Discorso manoscritto datato 5 maggio 1907. Smno potrebbe riferirsi alla denuncia inviata alla S. Sede da Caltagi-

rone: alcuni anonimi protestarono per il fatto che un sacerdote eserci- tava le funzioni di sindaco. La denuncia motivò una Visita Apostolica a carico di Sturzo nel marzo 1907. Cfr. "La Croce di Costantino" del 10 marzo 1907; cfr. anche la lettera che il 3 agosto 1907 padre Genocchi inviò da Roma a Sturzo per ragguagliarlo sulla relazione stesa dal Visitatore; ora in A.L.S. f. 148, C. 22.

3 Smno fa risalire al novembre 1905 la celebre conferenza I problemi della vita nazionale dei cattolici italiani, pubblicata nel 1906 dalla murriana Società Nazionale di Cultura e ora in L. STURZO, Sintesi Sociali, Bologna 1961, pp. 97-127. Come risulta i7discutibilmente da altre fonti, tale conferenza fu pronunciata il 29 dicembre e non nel novembre 1905; cfr. F. D'AMBROSIO, Bibliografia sturziana, Napoli 1961, pp. 13-14. Dunque, Sturzo sbaglia datazione, oppure qui accenna ad uno dei vari discorsi, sempre sul tema del partito dei cattolici, che prece- dettero e precisarono i problemi trattati neila più conosciuta conferenza del 29 dicembre; di tali discorsi, infatti, esistono schemi e tracce in A.L.S.

4 Probabilmente Sturzo allude alla sospensione a divinis inflitta a Murri in seguito alla pubblicazione sul « Corriere della Sera » di gennaio 1907 di una serie di corrispondenze da Parigi sulla situazione francese, raccolte poi nel volume La politica clericale e - la democrazia: dopo un'ampia analisi deile condi- zioni della Chiesa in Francia e delle responsabilità dei cattolici, Murri indicava nella separazione della Chiesa dailo Stato l'occasione propizia per una revisione

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chiamato il pensiero di molti, sotto diverse vedute, a discuterci; e il bisogno in noi a discutere la nostra politica. Porterò a tale discussione il mio contributo personale, non in nome di un par- tito, di una frazione, di una tendenza, ma puramente personale, fatto di lotte e di esperienze, se non lunghe e complete, certo dense e non prive di interesse e di significato..

La nostra politica! Abbiamo noi una politica? La domanda non è ingenua; ed escludo che abbia una punta anche leggera di ironia: è una semplice costatazione di fatto.

A) Rimontiamo un po' alle origini. Primo stadio - i cattolici coniusi con la reazione politica e morale contro il liberalismo in genere e contro fatti specifici e determinate tendenze storiche.

In questo primo periodo che va fino a dopo il 1870 vi furono buone figure, oneste intenzioni; ma non esiste né una specificazione cattolica, né un carattere politico, né una orga- nizzazione rappresentativa.

Quell'epoca sotto certi aspetti non ha nessun rapporto oggi con la nostra politica, più di quello che ne abbia per esempio la lotta dei curialisti contro i giurisdizionalisti del sec. XVIII.

Secondo stadio - vanno sparendo le forme politiche della rea- zione dinastica; e i cattolici si astengono dal partecipare alla vita pubblica. Si affaccia così non una politica ma un atteggiamento politico determinato dei cattolici, non come attivi, non come par- tito, non come organizzazione, ma passivi, ubbidienti (sì e no) ad un'autorità che prima consiglia e poi comanda.

Sorge così e fa capolino il caso di coscienza, il principio ecclesiastico che lega, le ragioni ultime, da cui deriva quello stato incostituzionale e anormale di un corpo elettorale che si alion- tana dal servire la patria. Questa non è adunque politica, né una politica nostra.

Terzo stadio - di elaborazione interna. I1 contrasto psicolo- gico fra il divieto e il compito di cittadino - I1 bisogno di dive-

critica da parte dei cattolici della loro posizione nei confronti del mondo moderno. Cfr. P. SCOPPOLA, Crisi modernista e rinnovamento cattolico in Italia, Bologna 1961, pp. 234-235.

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nire un partito - La naturale esplicazione nel campo economico sociale - I1 ritarno alle masse, la formazione lenta e agitata di un pensiero e di un programma positivo; gli avvenimenti esterni, principale il socialismo incalzante, dal 1896 al 1903 ci portarono da Milano a Bologna in una serie di sforzi per crearci un con- tenuto politico, e una forza organica e vitale. Fasi politiche fu- rono la caduta di Grosoli e la parziale revoca del non expedit al 1904 '.

Quarto stadio - entrata dei cattolici nel parlamento: scara- mucce. Ricomposizione stentata dell'organizzazione. Tendenza a renderci padroni dei nostri atti e delle nostre responsabilità. Intervento effettivo nelle forme amministrative e nei rapporti costituzionali. Mancanza però di un pensiero sicuro, di un pro- gramma elaborato, di una politica di parte.

B) Una politica di parte non s'improwisa, né si vuole da pochi o molti uomini, come un elaborato concettuale o un sem- plice proposito di volontà. E' invece il risultato di tradizioni, di posizioni pratiche, di contatti e di atteggiamenti, di rapporti

A Milano, dal 30 agosto al 3 settembre 1897, si tenne il XV con- gresso nazionale dell'opera dei Congressi, che stava passando il periodo di massima espansione organizzativa. L'incontro di Milano segnò, soprattutto con la relazione di Sacchetti sul non-expedit, ancora una volta il trionfo deUa vecchia guardia intransigente, ma registrò anche le prime manifestazioni uffi- ciali dei nuovi fermenti zociali penetrati nelle file cattoliche, soprattutto tra i giovani che dalla Rerunr Novarum si erano sentiti chiamati ad agire attiva- mente per la riconquista di quelle masse che le contraddizioni dello svi- luppo capitalistico spingevano al socialismo. Bologna, dove, come si è già detto, si tenne la XIX ed ultima assise dell'opera (cfr. nota 8 del doc. la), segnò il riconoscimento più esplicito della democrazia cristiana e la sconfitta degli "antichi intransigenti". La questione meridionale, sollevata da Sturzo, e la questione femminista, presentata da don Carlo Grugni, i problemi delle case popolari e deile affittanze collettive, furono i temi dibattuti a Bologna che diedero il senso del salto qualitativo compiuto dal laicato cattolico organiz- zato rispetto ali'ambito tradizionale degli interessi sociali ed economici del- I'intransigenza paganuzziana. Cfr. G. DE ROSA, I, pp. 281-301; 372-388.

Per la "caduta" di Grosoli, cfr. la nota 8 del doc. 18. La "parziale revoca del non-expedit" si ebbe con i'accordo Bonomi-Tittoni concluso, con l'approvazione di Pio X, tra liberali moderati e cattolici bergamaschi in vista delle elezioni politiche del 1904; accordo in base al quale i cattolici si impe-

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e di concezioni. Però come ragione vitale, la politica ha per fon- damento la libertà di volere e di potere, e la indipendenza nel- l'eseguire.

Fin oggi questa ci è mancata, non per nostra viltà, né per altrui intromettenza, ma per forza di cose e per un elemento su- periore che noi riconosciamo liberamente come tale. Fin oggi non è stata politica di cattolici, come liberi cittadini che profes- sano un principio religioso, e che al lume di quel principio agi- scono, come nelle appartenenze private, così nelle pubbliche di loro spettanza; ma fedeli dipendenti da una Chiesa, che per ne- cessità di difesa e per tradizioni rispettabili e giustificate, ha do- vuto assumere una posizione conseguentemente politica. Oggi si ha da vedere fino a qual punto tale posizione di Chiesa agisca sulla nostra attività pubblica, e fino a quale punto essa si arre- sta, lasciando libera l'attività dei cattolici.

Due tendenze:

a ) La così detta clericale;

b ) L'autonoma.

. C'è un contrasto fondamentale e uno formale - I1 congresso di Firenze ' - La necessità di assumere la responsabiZità dei pro- pri atti fa essere non irriuerenti all'autorità ecclesiastica, ma li- beri - La discussione verte sui casi particolari, e casi generali - Fatti religiosi e fatti civili - Attinenze ecclesiastiche e invadenze di uomini.

Le afiermazioni nei due sensi, a favore e contro, non danno una soluzione, ma solo rappresentano uno stato di fatto incoer-

Davano a votare candidati liberali « non ostili alla religione » qualora vi fosse stzto pericolo di successo dei partiti "sowersivi". Cfr. D. SECCO SUARDO, I cat- tolici intransigenti, Brescia 1962, pp. 115-160. E' nota l'ostilità di Sturzo all'operazione, in cui egli vide la formazione di blocchi clerico-moderati anta- gonisti alla sua idea del partito autonomo dei cattolici. Cfr. Le elezioni generali del 6 novembre in Italia in L. STUBZO, La Croce di Costantino, a cura di G. DE ROSA, Roma 1958, p. 147.

7 Probabilmente Stuno si riferisce al convegno tenuto a Firenze nel feb- braio 1906 per l'approvazione dei nuovi statuti dell'Azione Cattolica. Cfr. nota 1 del doc. 22.

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cibile, che può significare anche una forte crisi di pensiero e una evoluzione politica, un cozzo di interessi. Ma non dà ancora il fattore politico.

Quando potrà superarsi questo stato d'animo e di fatto, allora o avremo una politica clericale, nel senso di Chiesa politi- cante, che non è da augurarsi, o avremo un. partito politico e civile dei cattolici.

C) Ma si può superare questo stadio di crisi? Non è pos- sibile, se non si supera, non nella convinzione personale nostra, ma nella nostra posizione di partito nei rapporti con l'autorità ecclesiastica, la cosidetta pregiudiziale costitzrzionale o patriottica, e la pregiudiziaIe laica. Ogni tanto risorge la questione che noi siamo antipatriottici e torna la campana C ? ] del potere temporale. E' stato il preteso pomo della discordia a Bergamo. Riserva sulla libertà del pontefice. Riconoscimento dello stato di fatto. Incom- petenza della soluzione della libertà della Santa Sede, ed esclu- sione da un programma politico e civile anche di cattolici. Rico- noscendo la competenza del Papa e la guida della Prowidenza, che determina gli eventi; e sa da uno stato di menomazione di libertà trarre maggiori vantaggi per la Chiesa che non quello di maggiore libertà civile e di forse maggiori catene politiche. Necessità adunque di riserbare a più alto ordine di fatti una questione religiosa nel suo carattere e nella sua natura, che non può più, e lo ha dimostrato molto bene Pio X, divenire una questioncella di pretendenti politici.

Merrnazione del principio di nazionalità e di italianità, come elemento fecondo di unione vera di popoli, morale e .politica, fonte di elevazione sociale e formazione.

Su questo terreno noi siamo unitarii, patriottici. costituzio- nali e partito civile indipendente.

Cod potremo parlare di politica nostra.

Pregiudiziale laica:

gli anticlericali

i principi di libertà

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la divisione della Chiesa dallo Stato - condizioni di fatto nuova elaborazione sociale del [ ...l '.

D) Contenuto del programma. Moderato o progressista? Sociale? Integralista? Liberalista? Protezionista? E' tutta una serie di domande alle quali non si può dare una risposta con- creta e opportuna perché appartiene ai casi contingenti dello svolgersi del progresso civile. Unione di tutti nell'affermazione del pensiero religioso contro non lo Stato laico, ma lo Stato areli- gioso e i diritti dell'anima dei cittadini nella forma e nel conte- nuto cristiano. Carattere sociale prevalente in quale senso? Ca- rattere democratico insito nel programma di cattolici, non come semplice carattere di classe.

I1 resto - necessità di tendenze di programmi diversi, di con- trasti - Belgio - Germania ecc. (carattere atttlale in Italia).

E) Tattica - Nessuna parola assoluta - Questione attuale. Moderati (affinità - Cornaggia) '. Socialisti (caso Turati-Murri) 'O. Nessuna alleanza - fatti particolari; Caltagirone per 8 anni 'l.

8 Parola illeggibile. 9 Carlo Ottavio Cornaggia fu tra i più noti assertori della conciliazione tra

Stato e Chiesa e dell'entrata dei cattolici nella vita politica. Fin dal 1889 propugnò alleanze tra cattolici e moderati a Milano contro l'amministrazione comunale sociali- sta e nel 1892 fu eletto consigliere. Polemizzò vivacemente contro l'astensionismo di Davide Albertario, ma depose a favore del sacerdote quando questi fu arrestato nel 1898; collaborò alla « Nuova Antologia » scrivendo contro l'asten- sionismo dei cattolici. Nel 1904 fu eletto deputato, battendo un candi- dato radicale e sollevando opposizioni sia tra i liberali sia tra i cattolici "in- transigenti"; fu rieletto nel 1909 e nel 1913. Aderl al Partito Popolare, ma se ne staccò assieme a Gavazzi e a Borromeo, dando vita ali'« Unione Na- zionale » di indirizzo filofascista. Nel 1924 fu nominato senatore. Cfr. F. MAGRI, L'Azione Cattolica in Italia, Vol. I , Milano 1953, pp. 70-76.

10 Neli'ottobre 1905, Murri pubblicò sulla "Cultura Sociale" una lettera diretta a Filippo Turati, dove, bollando il moderatismo dell'accordo Bonomi- Tittoni, propose la possibilità di alleanze di cattolici con socialisti e radicali e solle- citò Turati a rivedere le :ue polemiche anticlericali soprattutto nei riguardi dei democratici cristiani. I1 fatto ebbe imediata risonanza s d a stampa cattolica e laica, ma Turati respinse la proposta di Murri con una serie di battute ironiche e sarcastiche. Cfr. F. MAGRI, op. n't., pp. 245-247.

l1 I1 movimento cattolico di Caltagirone fin dal 1899 si impegnò nelle lotte amministrative passando nel giro di pochi anni da un solo seggio alla conquista, nel 1905, della maggioranza assoluta e deila sindacatura, attribuita a Stuno.

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Caso per caso - carattere fondamentale di partito locale. Da ciò elaborare il partito politico che non esiste né può oggi esi- stere [...l " Gen. Naz. non sono il partito politico né possono esserlo. Funzione dei nostri deputati alla Camera.

Conclusione

Necessità di elaborare una politica di parte nostra, col pen- siero e con i fatti, tutte le tendenze in armonia e in contrasto.

Avvenire nostro se lo sappiamo conquistare.

l2 Periodo illeggibile perché il foglio del manoscritto è menomato.

32 1

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COMIZIO ELETTORALE l (f. 175, C. 34)

I. - Alla vigilia di una battaglia elettorale, un comizio di cittadini che si affermano sopra un programma e che impongono a se stessi un metodo di lotta e un criterio di attività, è un atto di viver civile collettivo.

A nessuno quindi può sembrare che. noi, che ci ripresen- tiamo nell'agone, facciamo come i dulcamara della medicina o della politica che promettiamo col nostro specifico di guarire da tutti i mali, per attirare il pubblico alla compera, cioè a dare il voto. Noi ci appelliamo solamente alla coscienza degli elettori, i quali si avranno l'amministrazione che si meritano con la loro condotta e con l'esercizio del loro diritto. Se a noi questo corpo elettorale, col suo voto, che è esplicazione di viver civile e impe- rio costituzionale, c'impone di continuare nella via intrapresa, rispondiamo all'appello della sovranità popolare. Se a noi è im- posto di lasciare la cosa pubblica in altre mani, anche questo dover civile sappiam eseguire, lieti e spontaneamente, perché in ogni posto si può servire la patria, secondo le proprie forze.

11. - Guardiamo adunque la situazione presente dal punto di vista elettorale e dal punto di vista amministrativo, in modo spassionato e sincero.

I1 partito cattolico, affermatosi la prima volta nel 1899, sorse come partito di centro e volle portare una nota propria

Discorso manoscritto datato 8 giugno 1908.

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nella vita pubblica: escludere la corruzione nel voto; escluder la clientela nella gestione amministrativa; escludere l'opposizione sistematica nel Coiisiglio; dividere la vita politica dalla vita am, ministrativa; per poter così risanare moralmente l'ambiente co- munale, viziato più dal sistema che da colpe di uomini; e affer- mare questo con un carattere prettamente democratico e popo- lare. In pari tempo si volle dare la cittadinanza al nome e alla professione di cattolici, coscienziosamente e veramente italiani e patriottici; affermando infine i principi moderni di vita ammini- strativa di riforme, di attività nuove di iibertà e autonomia dal potere centrale.

La storia di questo partito che dal 1899 è sulla breccia, è semplicemente questa. Fino al 1904, come Centro contribuì al- l'equilibrio consiliare e al lavoro amministrativo, con indipen- denza e sicurezza, tanto che il paese ci acqui~tò subito fiducia in modo che nel 1905 volle per tre volte dare sui nostri nomi la sua piena adesione, nel febbraio, nel ìuglio e nel dicembre, sfor- zando la nostra posizione di partito nascente e obbligandoci a presentarci come partito di maggioranza '.

Fu un momento culminante della vita elettorale cittadina; un'affermazione solenne di speranze e di fiducia, un inizio di nuovo sistema.

E tutte queste lotte le abbiamo fatte senza l'on~bra della corruzione, senza la menoma coazione, senza appoggio governa- tivo, senza prepotenze d'autorità, soli con il nostro programma

2 Alle elezioni amministrative del febbraio 1905, il Centro Cattolico ottenne 16 seggi su 32 candidati presentati. I1 locale partito di maggioranza, egemonizzato dall'on. Gesualdo Libertini, che in passato aveva collaborato con il partito sturziano, costitui una giunta monocolore e tentò in modo legale e illegale di escludere i cattolici dalle varie commissioni e deputazioni cit- tadine. Nel mezzo di questi contrasti, scoppiò uno scandalo: nel maggio-giugno, venne alla luce che i libertiniani avevano già appaltato alla Siemens l'illumina- zione elettrica della città il cui progetto era ancora in discussione. I due par- titi di minoranza - il Centro Cattolico e il gruppo radicale dell'aw. Carbone - votarono la crisi della Giunta che diede le dimissioni. Nel settembre il Con- siglio comunale fu sciolto e furono indette nuove elezioni per il successivo 3 dicembre. I1 partito cattolico conquistò la maggioranza assoluta avendo incor- porato nella sua lista anche alcuni esponenti di parte libertiniana; come mino- ranza restò il gruppo radicale di Carbone. Nello stesso mese, Sturzo fu eletto sindaco.

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e con la fiducia della nostra attività; e quel che più, con una lista senza precedenti, staccando tutto il passato da tutto l'av- venire.

Contro di noi si presentarono alcuni giovani, sotto un titolo nuovo; sembrava che anch'essi fossero convinti di un rinnova- mento sul passato: si dichiararono radicali; ripeteron che non avrebber fatto l'opposizione per tale; vollero anch'essi posare a rinnovatori del paese.

Per due anni e per mesi la vita elettorale è proceduta calma ed ha dato luogo a un lavoro pratico, del quale in due grandi comizi ho dato conto al corpo elettorale; e sul quale tornerò in sunto nella seconda parte di questa conferenza.

La minoranza in questi due anni ha sciupato le sue forze senza combattimento, e si è annichilita nella sua consistenza pro- grammatica. Occorreva adunque che oggi alla vigilia delle ele- zioni, qualcuno potesse ereditarne la posizione e il carattere, per non cadere interamente nel nulla.

Dopo un primo tentativo, che ad imitazione di altri, fu detto blocco, il quale sfumò per la poca coesione dei membri e per la diflicoltà di trovare un terreno politico che ne alimentasse le forze; da 20 giorni si è formata una coalizione di uomini che ha preso il nome di Partito Liberale Democratico, buttando fuori combattimento il nome sciupato di radicale, e presentandosi al paese come partito nuovo, con semplice carattere amministra- tivo, con 1.a tattica evidente di spostare l'attuale maggioranza, per provocare una dimissione del consiglio o uno scioglimento, e poi in un'elezione generale tentare di conquistar la maggio- ranza.

Essi evidentemente hanno chiamato a raccolta i malcontenti e si presentano con una specie di programma di raccolta, gettando il grido di allarme sull'attuale andamento amministrativo.

Anzitutto: elettoralrnente è un partito nuovo o uno vec- chio che si trasforma? Awezzo a trattar cavallerescamente gli avversari non voglio fare l'analisi per dedurre le ragioni della loro esistenza 3. Tutti hanno il diritto di muoversi nella vita ci-

Brano cancellato: u Alcuni uomini vecchi che stanno dietro a quelli che si presentano, tutti giovani nuovi a.

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vile. Oggi pare che si tratti di un partito che sorge solo in oppo- sizione al nostro e con fini limitati; le parole liberale e popolare si possono mettere a qualsiasi partito perché nulla contengono di specifico nella vita pubblica di un comune. In Italia oramai esistono poche gradazioni di partito che abbiano una rispondenza nella vita della nazione: i liberali hanno due gradazioni: i rnode- rati, uniti con i cattolici a Roma, a Milano, a Bologna, a Vene- zia, a Torino, a Firenze ecc.; gli anticlericali che amoreggiano con i radicali e questi con i socialisti di qualsiasi tinta. I1 resto sono coalizioni personali, che oggi si uniscono e domani si sfasciano.

Noi non abbiamo oggi in Caltagirone nessuna questione di indole politica che agiti il paese. Non c'è una vera lotta di classe che divida la compagine sociale; non c'è una questione ideale che divida le forze vive e militanti. C'è semplicemente e si è deli- neata vivace una questione di persone: levati tu che ci voglio star io.

Questa stessa coalizione domani, nel momento del lavoro pratico, nelle questioni andanti di vita politica, troverà in se stessa un enorme scompaginamento, perché una idealità fuori della lotta presente manca assolutamente.

Non è un partito che si leva contro di noi, è una coalizione di uomini, di malcontenti, di persone che vendono il loro voto, che ci muovono incontro.

E noi leviamo la nostra bandiera pura di moralità e tor- niamo anche oggi a gridare che non vogliamo corruttela eletto- rale, camarille amministrative, personalismo politico.

Torniamo tre anni addietro, dieci anni addietro e dimostria- mo con i fatti la sincerità del nostro programma e delle nostre fìnalità.

C'è oggi qualche cosa di diverso: c'è da una parte il con- creto della nostra attività, c'è dall'altra parte una voluta educa- zione del corpo elettorale; c'è il precedente che dispone a favor nostro.

Anche oggi noi, forti della nostra vita protestiamo contro la corruzione elettorale e domandiamo al paese che tale protesta suoni vigorosa.

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La lotta è tutta su questo terreno. Se non vi fosse la cor- ruzione, non vi sarebbe lotta, neppure potrebbe pensarsi. E' una lotta morale delle più vigorose, delle migliori.

I l paese deve sapere se deve valere di più la coscienza libera o la coscienza storpiata; se deve il paese soggiacere ad una ver- gogna senza nome, o deve sollevarsi contro di essa. Dico questo perché nessuno mette in dubbio che a favor nostro c'è il consenso della classe pensante, c'è la simpatia del paese, c'è la parte che non è elettore, che partecipa con passione alla nostra attività.

E perché questo? Pel nostro programma, e per i fatti con- creti, non per le parole.

Idea madre: l'incremento industriale, agricolo, commerciale del paese. Questa idea seguita attraverso tutta l'attività.

Che cosa abbiam fatto?

La luce elettrica è un fatto compiuto. Perché non è stata fatta in venti anni? Perché caddero i consigli comunali del 1900 (sindaco Gravina) e del 1905 (sindaco Nicastro)?

Plausi al merito

Perché il. contratto di Caltagirone è divenuto tipo per molti comuni?

Le scuole del Carrnine: perché non furono fatte dal 1896 a oggi? Per dieci anni?

La via Cordova? Perché non fu mai tentata e fatta? - I1 Piano regolatore? Perché non fu mai approntato? La sistemazione delle vie rurali (via Balchino [? l Ponte

Gallo 1. La via S. Pietro? La Banda Municipale rifatta dopo 7 anni di scioglimento: S. Pietro. Si grida contro quello che si è fatto; e perché non

fu fatto mai? I sugheri? Chi avrebbe fatto come abbiam fatto noi? Il piano economico. I1 riordinamento degli uffici. La parte pratica del Palazzo comunale. L'oleificio; Palazzo Poste; Il piano della stazione.

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Scuole S. Orsola. Refezione scolastica. Filovia. Parte pratica del palazzo comunale, ecc. ecc. Non devo ripeterlo io. Lo dicon i fatti, lo ripete il paese. Però si fanno delle accuse:

1. Spende troppo: si andrà al fallimento o alle tasse.

Inanità delle accuse; fatti estrinsechi (approvazione conti e bilanci); 27 mila lire di avanzo.

2. La cassa non è fornita.

Credito dallo Stato. L.. .J . Sistemazione di cassa scosso per non scosso; difficoltà fi-

nanziarie del comune in genere.

3. Tasse.

Criteri amministrativi, altro è il debito, altro la tassa. Modi di pagamento.

Acqua di ganzeria e le prime riforme della città. Non 2 possibile la sospensione della vita amministrativa. Necessità d'incremento del paese; miglioramenti dei servizi;

trasformazioni. Le grandi crisi non si superano senza abnegazione. Questo programma, il nostro programma, è il programma

del paese; e nessuno vi può sfuggire. Noi oggi non ripetiamo quello che abbiam scritto e promesso. Diciamo che ancora c'è da lavorare.

a) Opere pubbliche in corso

piano regolatore via alla stazione parte pratica palazzo com[unalel

Parola illeggibile.

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palazzo poste via Orsola via Cordova teatro - via S. Pietro - vie Rurali

b) Opere pubbliche da affrontare:

tilovia sistemazione d i c i giudiziarii scuole professionali scuole femminili superiori sistemazione giardini pubblici fognature cittadine

C) Patrimonio

sistemazione S. Pietro usurpi feudi usiirpi trazzere vie vicinali

Non è possibile l'arresto; anche che lo vogliano coloro che vendono il loro voto.

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LOMONACO A STURZO l (f. 103, C. 20)

Valguarnera, 20 maggio 19 10

Rev.mo D. Sturzo,

a lei son noti i due partiti di qui, casciniano e marescal- chiano. Ambidue hanno dei buoni e dei cattivi, dei cattolici e dei massoni e non intendono aderire alla nostra Unione elettorale cattolica; e frattanto ambiscono la nostra amicizia! I1 casciniano, ch'è al potere, ci presenta una proposta di pa- ce, offrendo a noi la scelta'di quattro consiglieri, di due all'altro partito e di quattro a sé stesso. A me darebbe l'incarico di scrivere il programma. La questione politica rimarrebbe libera. La pace sa- rebbe salutare al paese; ma due gravi difficoltà si presentano: l ) è questa: tra i nomi dei quattro consiglieri casciniani eligendi, vi è l'uscente assessore S. massone manifesto e pubblico, il quale nel- la sessione consiliare ordinaria di novembre u.s. ebbe l'audacia di dichiararsi acattolico. E' lecito eleggerlo? La seconda difficoltà sor- ge dal rifiuto del partito marescalchiano alla proposta di pace. Conviene accettarla noi soli? Adesso non è superfluo il tenerla in- formata che una nostra affermazione netta, anche come partito di minoranza, non è matura, molto più ch'è stato respinta la nostra lista di altri 139 elettori per il motivo che la presentazione a Cal- tanissetta fu fuori termine. Sommetto finalmente che l'astensio-

l Indirizzo del destinatario a fine lettera: « Dr. D. Luigi Sturzo, Calta- girone B.

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ne non sarebbe possibile, ma solo la libertà ai nostri elettori; e ciò per mantenere intatto il prestigio delle nostre forze. Si compiaccia di rispondermi con sollecitudine, le bacio le mani e sono della S.S. Rev.ma.

P.S. - L'unione col partito marescalchiano non consegui- rebbe la vittoria e genererebbe una vera persecuzione religiosa da parte del casciniano, ch'è al potere.