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ULTIMI ORIENTAMENTI ED INDIRIZZI DIAGNOSTICI E TERAPEUTICI GLI ULTIMI ORIENTAMENTI ED INDIRIZZI DIAGNOSTICI E TERAPEUTICI NEL DIABETE MELLITO, NEI DISTURBI DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE (DCA) E NELLE DISLIPI- DEMIE DIABETE MELLITO Debora Arpaia, Carmela Peirce, Serena Ippolito, Bernadette Biondi Il Diabete Mellito è un disordine metabolico complesso caratterizzato da iperglicemia cronica dovuto ad un difetto della secrezione insulinica, dell’azione dell’insulina o di entrambi. Si tratta di una patologia cronica alla quale con il passare del tempo si possono associare diverse complicanze vascolari (micro e macro vascolari). Classificazione La classificazione del diabete si basa su criteri eziopatogenetici che si distinguono in: Diabete di tipo 1: caratterizzato da una totale carenza insulinica e causato dalla distruzione beta-cellu- lare, su base autoimmune o idiopatica. La sua variante LADA (Latent Autoimmune Diabetes in Adults) ha decorso lento ed insorgenza tardiva pur avendo un’eziologia autoimmune. Diabete di tipo: caratterizzato da deficit insulinico relativo che si instaura su di una condizione di insulino-resistenza a genesi multifattoriale. Diabete gestazionale: insorge durante la gravidanza e può regredire dopo il parto. Ha le medesime basi fisiopatologiche del diabete di tipo 2. Diabete monogenico: causato da difetti di singoli geni che comportano alterazioni della secrezione o dell’azione insulinica. Tra questi il MODY (Maturity Onset Diabetes of the Young caratterizzato da trasmissione autosomica dominante e relativamente raro). Diabete secondario: conseguenza di patologie che alterano la secrezione insulinica (ad es. pancrea- tite cronica o pancreasectomia) o l’azione insulinica (ad es. acromegalia o ipercortisolismo) o dipende dall’uso cronico di farmaci (ad es. steroidi) o dall’esposizione a sostanze chimiche. Le forme più comuni sono il diabete di tipo 2 (90% dei casi) e il tipo 1 (3-5% dei casi) e le caratteristiche cliniche permettono di distinguere le due forme nella quasi totalità dei casi (Tabella 1). Tabella 1. Le caratteristiche cliniche differenziali del diabete di tipo 1 e 2. Diabete tipo 1 Diabete tipo 2 Prevalenza 0,3% della popolazione 5% della popolazione Sintomatologia Presente o esordio acuto Modesta o assente Peso Normale o perdita di peso Sovrappeso o obesità Età di insorgenza Generalmente <30 anni Generalmente >40 anni Autoimmunità Presente Assente 1

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ULTIMI ORIENTAMENTI ED INDIRIZZI DIAGNOSTICI E TERAPEUTICI

GLI ULTIMI ORIENTAMENTI ED INDIRIZZI DIAGNOSTICI E TERAPEUTICI NEL DIABETE MELLITO, NEI DISTURBI DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE (DCA) E NELLE DISLIPI-DEMIE

DIABETE MELLITODebora Arpaia, Carmela Peirce, Serena Ippolito, Bernadette Biondi

Il Diabete Mellito è un disordine metabolico complesso caratterizzato da iperglicemia cronica dovuto ad un difetto della secrezione insulinica, dell’azione dell’insulina o di entrambi. Si tratta di una patologia cronica alla quale con il passare del tempo si possono associare diverse complicanze vascolari (micro e macro vascolari).

ClassificazioneLa classificazione del diabete si basa su criteri eziopatogenetici che si distinguono in:

• Diabete di tipo 1: caratterizzato da una totale carenza insulinica e causato dalla distruzione beta-cellu-lare, su base autoimmune o idiopatica. La sua variante LADA (Latent Autoimmune Diabetes in Adults) ha decorso lento ed insorgenza tardiva pur avendo un’eziologia autoimmune.

• Diabete di tipo: caratterizzato da deficit insulinico relativo che si instaura su di una condizione di insulino-resistenza a genesi multifattoriale.

• Diabete gestazionale: insorge durante la gravidanza e può regredire dopo il parto. Ha le medesime basi fisiopatologiche del diabete di tipo 2.

• Diabete monogenico: causato da difetti di singoli geni che comportano alterazioni della secrezione o dell’azione insulinica. Tra questi il MODY (Maturity Onset Diabetes of the Young caratterizzato da trasmissione autosomica dominante e relativamente raro).

• Diabete secondario: conseguenza di patologie che alterano la secrezione insulinica (ad es. pancrea-tite cronica o pancreasectomia) o l’azione insulinica (ad es. acromegalia o ipercortisolismo) o dipende dall’uso cronico di farmaci (ad es. steroidi) o dall’esposizione a sostanze chimiche.

Le forme più comuni sono il diabete di tipo 2 (90% dei casi) e il tipo 1 (3-5% dei casi) e le caratteristiche cliniche permettono di distinguere le due forme nella quasi totalità dei casi (Tabella 1).

Tabella 1. Le caratteristiche cliniche differenziali del diabete di tipo 1 e 2.

Diabete tipo 1 Diabete tipo 2

Prevalenza 0,3% della popolazione 5% della popolazione

Sintomatologia Presente o esordio acuto Modesta o assente

Peso Normale o perdita di peso Sovrappeso o obesità

Età di insorgenza Generalmente <30 anni Generalmente >40 anni

Autoimmunità Presente Assente

1

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L’Infermiere Specialist in Endrocrinologia e Diabetologia

Terapia Insulina Dieta, farmaci ipoglicemizzanti orali, insulina

Epidemiologia

L’invecchiamento generale della popolazione e la diffusione di stili di vita che favoriscono l’obesità anche nei bambini hanno fatto sì che l’incidenza del diabete sia in progressivo aumento. Secondo l’OMS, ad oggi sono circa 346 milioni le persone affette da diabete in tutto il mondo e tale stima potrebbe arrivare a raddoppiarsi entro il 2030. In Italia la prevalenza calcolata dall’ISTAT nel 2012 è del 5,5% (3 milioni di persone) maggiore al Sud e nelle Isole rispetto al Nord.

Eziopatogenesi

Diabete di tipo 1. È dovuto alla distruzione selettiva delle beta-cellule pancreatiche con conseguente carenza assoluta di insulina. Esistono due forme di diabete di tipo 1: il tipo 1A in cui la distruzione be-ta-cellulare è mediata da autoanticorpi (anticorpi anti-insulina IAA, anticorpi anti glutammato decarbossilasi GADA, anticorpi anti tirosino-fosfatasi IA2), il tipo 1B idiopatico. L’eziopatogenesi è multifattoriale poligenica dovuta all’interazione tra molteplici fattori genetici predisponenti in presenza di fattori ambientali permissivi. Almeno uno dei geni coinvolti nella suscettibilità genetica si trova nella regione del cromosoma 6p21, che codifica per gli Antigeni di classe II del sistema maggiore di istocompatibilità (HLA-D). Il 95% dei pazienti bianchi affetti da diabete mellito di tipo 1 presentano l’allele HLA-DR3 o l’allele HLA-DR4 o entrambi. L’as-sociazione è ancora più forte con alcuni alleli nel locus DQ. Si ipotizza che eventi di natura ambientale pos-sano innescare l’autoimmunità. Un possibile ruolo potrebbe essere svolto dai virus (Coxsachie, Enterovirus, virus della parotite e della rosolia, Cytomegalovirus, Rotavirus) o da particolari alimenti come il latte vaccino.Diabete di tipo 2. L’iperglicemia è dovuta sia all’alterato rilascio di insulina, che ne comporta un deficit relativo, sia all’insensibilità degli organi periferici a rispondere alla secrezione insulinica (insulino-resisten-za). Anche in questo caso l’origine della malattia risiede in una complessa interazione tra profilo genetico dell’individuo e molteplici fattori ambientali. L’ipotesi della suscettibilità genetica è supportata dall’elevata concordanza del diabete nei gemelli monozigoti (70%) e dizigoti (30%). Numerosi loci genici associati alla malattia sono stati individuati negli ultimi anni relativamente al recettore dell’insulina e ai messaggeri distali al recettore. Nei soggetti con suscettibilità genetica a sviluppare il diabete la malattia è precipitata da fattori ambientali quali l’obesità, un elevato apporto calorico e la sedentarietà. L’associazione con l’obesità, consi-derato il più importante fattore di rischio del diabete di tipo 2, è legata al fatto che il tessuto adiposo è un organo endocrino a tutti gli effetti e produce sostanze come la leptina e l’adiponectina che sono in grado di regolare a più livelli il metabolismo di vari organi e di intervenire in diverse tappe dello sviluppo del diabete.

Clinica

I sintomi tipici della malattia sono associati all’iperglicemia e consistono nell’aumento della quantità di urine emesse nelle 24 ore (poliuria) e nel conseguente incremento della sete e dell’introduzione di liquidi (polidipsia). L’esordio clinico è tuttavia differente per il diabete di tipo 1 e 2 per il diverso meccanismo fisiopatologico che le caratterizza. Diabete di tipo 1. La sintomatologia è conseguenza delle alterazioni metaboliche derivanti dall’insufficien-za insulinica, dall’iperglicemia e dall’aumentata produzione di corpi chetonici. L’esordio quindi può essere caratterizzato da poliuria, polidipsia e inoltre può essere presente un’esaltazio-ne dell’appetito e dell’assunzione di alimenti (polifagia), che però non si accompagna a un accrescimento di peso, ma al contrario, a un dimagramento. Nei casi più gravi l’iperglicemia può essere al lungo misco-nosciuta ed esitare nel quadro acuto e più grave di chetoacidosi diabetica. L’acidosi e la disidratazione aggravata dal vomito possono determinare in questo caso alterazioni dello stato di coscienza fino al coma.

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Diabete di tipo 2. L’esordio è lento e più tardivo rispetto al tipo 1. La poliuria e la conseguente polidipsia sono i sintomi di più frequente riscontro nei pazienti con esordio sintomatico classico, mentre meno fre-quenti sono la polifagia ed il calo ponderale. È possibile inoltre osservare disturbi trofici della cute (cute secca, ruvida anelastica) e prurito localizzato soprattutto nelle aree genitali, dove sono frequenti le infezioni (candidosi). In genere la persona con diabete di tipo 2 è in sovrappeso o obeso con distribuzione addo-minale del grasso.In molti casi all’esordio possono già essere presenti le complicanze croniche della malattia (microvascolari o macrovascolari).

Diagnosi

In assenza di sintomi tipici, la diagnosi di diabete si basa sui valori della glicemia, sia essa dosata a digiuno o dopo 2 ore da un carico orale con 75 g di glucosio (Oral Glucose Tolerance Test OGTT), poi confermati in una seconda valutazione (Tabella 2). Il dosaggio della glicemia per la diagnosi si effettua su sangue venoso periferico in laboratorio, mentre è sconsigliato l’uso dei glucometri. È possibile inoltre porre diagnosi di diabete dosando l’emoglobina glicata (HbA1c), una forma di emoglobina che identifica la concentrazio-ne plasmatica media del glucosio di un periodo di tempo antecedente di circa 90-120 giorni. L’HbA1c ha valore diagnostico solo se dosata con metodiche standardizzate ed in assenza di condizioni come gravi-danza, emoglobinopatie, malaria, anemia cronica, anemia emolitica, recente emorragia, recente trasfusione (Tabella 2). In presenza di sintomi tipici la diagnosi di diabete deve essere posta con il riscontro, anche in una sola occasione, di una glicemia casuale (indipendentemente dall’assunzione di cibo) >200 mg/dl.

Tabella 2. Diagnosi di diabete.

Glicemia a digiuno >126 mg/dl

Glicemia dopo OGTT >200 mg/dl

HbA1c >6,5% (47,5 mmol/mol)

Glicemia casuale (indipendentemente dall’assunzione di cibo) >200 mg/dl

Oltre al diabete esistono condizioni di alterato metabolismo glicidico che si identificano come:• Alterata glicemia a digiuno: glicemia a digiuno compresa tra 100-125 mg/dl.• Ridotta tolleranza al glucosio: glicemia due ore dopo carico orale di glucosio compresa tra 140-199 mg/

dl. Si tratta di condizioni che richiedono opportuni interventi sullo stile di vita e sulla dieta dal momento che si associano ad elevato rischio per lo sviluppo del diabete stesso e di malattie cardiovascolari. In casi più complessi non sempre all’atto della diagnosi di diabete è possibile differenziare, dalle sole ca-ratteristiche cliniche della persona con diabete, le due forme di diabete. Per una corretta classificazione si rendono necessarie, ad integrazione diagnostica, la valutazione della funzione beta-cellulare con il test al glucagone e la valutazione di marcatori di autoimmunità beta-cellulare (anticorpi anti-insulina IAA, anticorpi anti glutammato decarbossilasi GADA, anticorpi anti tirosino-fosfatasi IA2).

Terapia

Diabete di tipo 1. I cardini della terapia del diabete di tipo 1 sono la dieta, l’esercizio fisico e l’insulina secondo uno schema personalizzato che miri ad un ottimale compenso glicemico per prevenire le com-plicanze a lungo termine. La dieta deve essere equilibrata con una ripartizione delle calorie tra carboidrati (45-60%) proteine (10-20%) e lipidi (>30%), preferendo alimenti a basso indice glicemico e a contenuto di grassi polinsaturi e monoinsaturi. L’attività fisica migliora il controllo glicometabolico riducendo glicemia e quindi fabbisogno insulinico.

Ultimi orientamenti ed indirizzi diagnostici e terapeutici

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L’Infermiere Specialist in Endrocrinologia e Diabetologia

È fondamentale che l’apporto calorico e il dosaggio insulinico siano adeguati all’intensità dell’attività fisica stessa per evitare il rischio di pericolose ipoglicemie. Il compito dell’insulina esogena (somministrata tramite iniezione) è quello di simulare quanto più possibile l’azione dell’insulina endogena (prodotta dall’organismo) per quanto riguarda l’insulinizzazione basale (co-stante nell’arco della giornata) e quella post-prandiale e quindi permettere un normale utilizzo del glucosio da parte delle cellule. Le preparazioni di insulina attualmente presenti in commercio sono ottenute con la tecnica del DNA ricombinante apportando modifiche alla composizione aminoacidica dell’insulina umana in modo da ottenere formulazioni con diverso profilo d’azione farmacologico. Si distinguono 4 categorie di insulina, le cui caratteristiche sono riportate in Tabella 3.

Tabella 3. Tipi di insulina.

Insulina regolare Identica all’ormone nativo. Ha un inizio di azione ritardata (30-60 min.) e durata d’azione di 6-8 ore. Si può somministrare per via intramuscolare o en-dovenosa, quest’ultima è di scelta nelle situazioni di emergenza.

Analoghi dell’insulina ad azione ultrarapida Assorbiti più velocemente con inizio d’azione rapi-do (5-15 min.) e durata d’azione 3-5 ore. In com-mercio tre formulazioni aspart, lispro, glulisina.

Insulina ad azione intermedia Inizio d’azione dopo 2-4 ore e durata complessiva dell’effetto di circa 12-18 ore. In genere utilizzata per coprire il fabbisogno notturno. L’unica presente in commercio è la NPH (Neutral Protamine Hage-dorn).

Analoghi dell’insulina ad azione lenta Presentano una composizione aminoacidica che ne prolunga la durata d’azione a 20-24 ore. Due formulazioni in commercio glargine e detemir. Co-prono il fabbisogno basale di insulina e possono essere somministrate a qualsiasi ora indipendente-mente dai pasti.

La modalità e la frequenza delle somministrazioni devono riprodurre la secrezione fisiologica dell’insulina con un picco di secrezione prandiale ed una secrezione basale continua. Si seguono pertanto schemi di pluri-somministrazioni con “boli” di insulina rapida da somministrare ai pasti e una dose “basale” di analogo ad azione intermedia o lenta da somministrare sempre alla stessa ora, preferibilmente la sera. L’insulina si somministra per via sottocutanea. Le sedi principali di somministrazione sono l’addome (rispettando un ordine di rotazione intorno all’ombelico per ridurre le lipodistrofie cutanee nel sito di iniezione), la regione anterolaterale della coscia, la regione glutea alta o quella deltoidea. Le iniezioni si effettuano utilizzando apposite siringhe oppure siringhe preriempite, più pratiche soprattutto per l’autosomministrazione da parte della persona con diabete (Figura 1).

Epidermide

Derma

Tessuto adipososottocutaneo

Tessuto muscolare

Figura 1. Iniezione sottocutanea.

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L’effetto collaterale più frequente e pericoloso dell’insulina è rappresentato dalle ipoglicemie, dovute a dosi eccessive di insulina. Le persone con diabete e i sanitari devono riconoscere prontamente i sintomi precoci in un ipoglicemia che sono sudorazione, tremore, sudorazione ed offuscamento della vista e provvedere all’assunzione di zuccheri semplici (zucchero, miele, caramelle) rivalutando la glicemia dopo 15 minuti fino a riportare la glicemia ad un valore superiore a 100 mg/dl. In caso di ipoglicemia grave con perdita di coscienza della persona affetta da diabete il trattamento consiste nell’infusione immediata di soluzione glucosata o nella somministrazione di 1 mg di glucagone per via intramuscolo o sottocutanea. In pazienti anziani o in persone affette da diabete da lungo tempo, per la presenza di complicanze neurologiche (neuropatia autonomica), i sintomi tipici dell’ipoglicemia possono non essere avvertiti. Per tale motivo si tende in questi casi, ad un controllo glicemico meno meticoloso, innalzando l’obiettivo dei livelli glicemici. Un’alternativa terapeutica di recente introduzione che ha aumentato le possibilità di ottenere un ottimale compenso glicemico e di migliorare la qualità di vita di è rappresentata dalla terapia insulinica con microin-fusore. Si tratta di apparecchi tascabili dotati di pompa che eroga continuamente insulina rapida nel sot-tocute e somministra boli di insulina in risposta ad un pasto attraverso un comando attivato dalla persona con diabete. Questo tipo di terapia è vantaggiosa soprattutto per i bambini e per coloro che necessitano di una maggiore flessibilità nella terapia.Il trapianto di pancreas rappresenta una nuova strategia terapeutica per il diabete di tipo 1. Nella maggior parte dei casi si esegue un trapianto combinato di rene e pancreas in pazienti affetti da insufficienza renale terminale. I risultati sono promettenti al di là degli svantaggi riconosciuti che sono le complicanze chirurgi-che e la necessità di intraprendere una terapia immunosoppressiva per lungo tempo.Diabete di tipo 2. L’approccio terapeutico al diabete di tipo 2 prevede modifiche dello stile di vita in particolare delle abitudini alimentari e la pratica costante di attività fisica. È fondamentale che la dieta sia equilibrata e che la persona con diabete sia adeguatamente motivata al raggiungimento dell’obiettivo. L’ap-porto calorico giornaliero è ripartito tra carboidrati (45-60%) lipidi (35%) e proteine (20%) privilegiando alimenti ricchi in fibre, che accelerano il transito intestinale e riducono l’assorbimento di glucosio e lipidi. Se la dieta e l’esercizio fisico non sono sufficienti a riportare i valori della glicemia a livelli ottimali, si possono affiancare ad essi farmaci che hanno l’effetto di ridurre la glicemia: gli ipoglicemizzanti orali (Tabella 4).Tuttavia, a lungo andare questi farmaci possono perdere la loro efficacia, e potrebbe rendersi necessario passare all’insulina.

Tabella 4. Farmaci ipoglicemizzanti orali.

Classe di farmaci Principi attivi Meccanismo d’azione Effetti collaterali

Inibitori dell’alfa-gluco-sidasi

Acarbosio Rallenta l’assorbimento intestinale di glucidi

Flatulenza, diarrea

Secretagoghi Sulfaliluree glinidi

Stimolano la secrezione insulinica

Ipoglicemia, aumento ponderale

Insulino-sensibilizzanti Metformina Riducono l’insulino-resi-stenza

Nausea, diarrea (transi-tori), acidosi lattica

Incretine Agonisti recettoriali di GLP-1

Potenziano la secrezio-ne insulinica, rallentano lo svuotamento gastrico

Nausea, vomito, diarrea

Inibitori DPP-4 Potenziano la secrezio-ne insulinica aumentan-do l’azione del GLP-1

Cefalea, nausea, capo-giri

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In caso di necessità di intervento farmacologico la metformina (insulino-sensibilizzante) rappresenta il farmaco di scelta che dovrà accompagnare sempre, se tollerato e non controindicato, ogni altro farmaco. La scelta dei farmaci tiene poi conto delle necessità della persona con diabete, delle sue comorbidità (in-sufficienza renale, insufficienza epatica) e la compliance (preferenza di farmaci a somministrazione orale piuttosto che sottocutanea, come l’insulina e gli analoghi del GLP-1). L’obiettivo è una terapia personalizzata che miri al miglior controllo glicemico per la riduzione del rischio di complicanze.

Obiettivi glicemici

L’obiettivo principale della terapia del diabete è il controllo della glicemia. L’indicatore principale del com-penso glicemico è rappresentato dall’Emoglobina Glicosilata (HbA1c) il cui limite massimo per la pre-venzione dell’incidenza e della progressione delle complicanze è stabilito al 7%. Tuttavia limiti più bassi (HbA1c <6,5%) sono indicati per persone con diabete di nuova diagnosi e senza comorbidità, mentre obiettivi meno stringenti (HbA1c 7-8%) sono stati posti per pazienti anziani fragili nei quali l’ipoglicemia potrebbe essere rischiosa e non adeguatamente avvertita. L’automonitoraggio della glicemia quotidiano con misurazioni della glicemia in relazione ai pasti (prima e due ore dopo) è un ausilio fondamentale per la gestione della terapia in base all’andamento delle glicemie nell’arco della giornata. La glicemia viene misurata al glucometro (Figura 2) su sangue capillare. L’adegua-mento della terapia ipoglicemizzante ai valori glicemici mostrati dal glucometro permette di:• valutare l’appropriatezza dello schema insulinico adottato e l’efficacia nel tempo delle unità insuliniche

autosomministrate (a seconda del tipo e della quantità di insulina);• prevenire gli episodi di ipoglicemia ed iperglicemia;• intervenire in modo mirato e tempestivo in situazioni di scarso controllo del diabete, riducendo l’entità

e la frequenza delle escursioni glicemiche;• nel complesso, prevenire o comunque ritardare la comparsa delle complicanze tipiche del diabete.

Figura 2. Glucometro.

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Gli obiettivi glicemici nelle persone adulte con diabete tipo 1 e 2 sono riportati nella Tabella 5.

Tabella 5. Obiettivi glicemici in persone con diabete.

HbA1c <7%

Glicemia a digiuno e pre-prandiale 70-130 mg/dl

Glicemia post-prandiale <180 mg/dl

Complicanze croniche

Le complicanze croniche del diabete si distinguono in macro e microvascolari e comportano un peggiora-mento della qualità di vita della persona con diabete con una significativa riduzione dell’aspettativa di vita (Tabella 6). Si manifestano solitamente dopo 10-15 anni dalla comparsa della malattia.

Tabella 6. Complicanze croniche del diabete.

MICROVASCOLARI MACROVASCOLARI

Retinopatia Cardiopatia ischemica

Nefropatia Vasculopatia cerebrale

Neuropatia

Piede diabetico

Gli organi bersaglio sono l’occhio, il rene, il sistema nervoso e il sistema cardiovascolare. Le complicanze macrovascolari sono conseguenza dell’aterosclerosi che il diabete stesso induce nell’ambito di quadro più complesso di scompenso glicometabolico e altri fattori di rischio (dislipidemie, fumo di sigaretta, stato pro-infiammatorio). Esse sono cardiopatia ischemica, della vasculopatia cerebrale e della vascolopatia periferica. Le complicanze microvascolari sono invece conseguenza della sola iperglicemia cronica e sono: • Retinopatia diabetica. È una microangiopatia che colpisce i piccoli vasi della retina e rappresenta la

principale causa di cecità nell’adulto. Il disturbo oculare più frequente è la retinopatia non proliferante che comprende tre stadi di gravità crescente fino alla retinopatia emorragico-essudativa. Il disturbo più importante è la retinopatia proliferativa, responsabile della perdita o di una grave riduzione della vista e che richiede, data la sua gravità, interventi tempestivi. La diagnosi è semplice attraverso l’esame del fondo oculare o con la fluoroangiografia. Gran parte delle persone con diabete presenta segni di retinopatia, una lesione dei vasi sanguigni nella parte posteriore dell’occhio, entro dieci anni dall’insor-genza della malattia diabetica.

• Nefropatia diabetica. Si definisce come la presenza di proteinuria (>300 mg/die) persistente in una persona con diabete, indice di alterata funzione del filtro renale. Anche la nefropatia ha andamento progressivamente ingravescente e riconosce vari stadi. Lo stadio più precoce è dato dalla presenza di microalbuminuria (30-300 mg/die) e avanza fino all’insufficienza renale terminale che richiede il trapianto renale.

• Neuropatia diabetica. È la complicanza più frequente e può coinvolgere il sistema nervoso periferi-co e quello autonomo. La neuropatia periferica (polineuropatia simmetrica distale e mononeuropatie focali e multifocali) colpisce circa il 30% delle persone con diabete e si presenta sotto forma di intor-pidimento e formicolio agli arti con dolori ai polpacci simili a un crampo, specialmente notturni, dimi-nuita sensibilità e comparsa di ulcerazioni alla pianta dei piedi. Questo disturbo può degenerare nel piede diabetico, determinato da lesioni vascolari e nervose che provocano gravi deformazioni ossee e disturbi della vascolarizzazione terminale. La neuropatia autonomica è caratterizzata da alterazioni del sistema parasimpatico e può essere caratterizzata da ipotensione ortostatica, tachicardia a riposo, disfunzione erettile, incontinenza urinaria, disturbi della sudorazione e dell’apparato gastroenterico.

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L’Infermiere Specialist in Endrocrinologia e Diabetologia

La presenza della neuropatia può essere particolarmente pericolosa poiché rende asintomatiche con-dizioni patologiche importanti quali l’infarto acuto del miocardio e le ipoglicemie.

• Piede diabetico. È il risultato della microangiopatia e della neuropatia periferiche della persona con diabete e si caratterizza per la presenza di ulcerazioni più o meno gravi che possono complicarsi con infezioni. Le deformità del piede, conseguenza della neuropatia determinano un alterato carico mec-canico e la formazione di callosità. La ridotta sensibilità periferica espone il piede a microtraumi che possono essere via di accesso per numerosi germi. Il piede diabetico rappresenta ad oggi la causa principale di amputazione non traumatica di un arto. La prevenzione in questo caso è fondamentale e passa attraverso controlli frequenti soprattutto per i soggetti a rischio perchè affetti da neuropatia periferica o vascolopatia. L’osservazione del piede è imprescindibile con la ricerca e la cura delle aree di ipercheratosi. Importanti sono poi la valutazione dei polsi periferici e della sensibilità (test al monofila-mento). La prevenzione si attua anche attraverso l’educazione della persona con diabete e dei familiari ad una corretta pulizia del piede e delle unghie e all’uso di calzature appropriate.

Complicanze acute

• La chetoacidosi diabetica dipende dalla coesistenza della carenza di insulina in presenza di un ec-cesso di glucagone, come avviene nel diabete di tipo 1 all’esordio o in caso di sospensione autonoma o accidentale della terapia insulinica. Essa può essere scatenata da varie forme di stress (infezioni, traumi, interventi chirurgici) che rappresentano cause di carenza relativa di insulina. Quando si ha carenza di insulina, il glucosio non entra nelle cellule, che quindi non possono utilizzarlo per sviluppare energia. Questa, allora, viene ricavata dagli stessi lipidi che per farlo, essi devono essere trasportati al fegato, dove subiscono la cosiddetta “ossidazione degli acidi grassi”. Attraverso questo processo si produce energia ma anche i corpi chetonici (acido idrossi-butirrico e acido acetacetico) che passano nel sangue e vengono eliminati con le urine. Concentrazioni molto elevate di corpi chetonici, provocano quella che viene chiamata chetoacidosi diabetica. I suoi primi sintomi sono gastrointestinali, sotto forma di anoressia (mancanza di appetito), nausea, vomito, talora dolori addominali e ovviamente poliuria, polidipsia con calo ponderale. Il più comune errore che viene commesso in questo stadio, in persone con diabete in trattamento con insulina (ovviamente insufficiente), è la sospensione della sommi-nistrazione dell’ormone perché i disturbi gastrici impediscono l’assunzione di un pasto. La mancata somministrazione di insulina, proprio nel momento in cui sarebbe necessario incrementarne la dose, può essere determinante per l’ulteriore evoluzione della chetoacidosi verso il coma chetoacidosico. La persona con diabete si presenta in tal caso con un respiro, profondo e rapido e alito “acetonico”, che sa intensamente di frutta marcia (l’alito acetonico può essere avvertito anche prima che il paziente vada in coma, profondamente disidratato, con bulbi oculari infossati, labbra secche e screpolate. Questi pazienti mostrano una intensa glicosuria e la presenza di grandi quantità di corpi chetonici nelle urine e nel san-gue associata ad iperglicemia (tra i 500 e i 700 mg/dl). La chetoacidosi è una emergenza medica che va prontamente riconosciuta e trattata con reidratazione, insulina e reintegrazione elettrolitica (potassio) (Tabella 7).

• Sindrome iperglicemica iperosmolare. Caratterizzata da iperglicemia, marcata disidratazione ed aumento dell’osmolalità plasmatica in assenza di chetosi. È tipica del diabete di tipo 2 e si osserva di solito in pazienti anziani nei quali la capacità di assumere liquidi è ridotta, tanto da rendere impossibile il compenso delle perdite idriche dovute alla diuresi osmotica. Ne consegue una grave sintomatologia neurologica dovuta alla disidratazione delle cellule. Solitamente il paziente che va incontro al coma iperosmolare è anziano, con scarso compenso glicometabolico in concomitanza di infezioni o patolo-gie acute intercorrenti. I primi sintomi consistono in uno stato confusionale, cui consegue abbastanza rapidamente il coma. Possono aversi anche altri sintomi neurologici come convulsioni o deficit motori. Sono comuni le complicanze: infezioni (per lo più respiratorie), trombosi (per l’aumento della viscosità del sangue) o emorragici e pancreatite.

• Gli esami di laboratorio mostrano marcata glicosuria in assenza di corpi chetonici nelle urine, glicemia estremamente elevata (di solito sopra i 1000 mg/dl, circa il doppio dei valori nel coma chetoacidosico). Anche in questo caso il pronto riconoscimento della condizione è fondamentale per intraprendere la terapia reidratante e con insulina (Tabella 7).

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Tabella 7. Complicanze acute del diabete.

Chetoacidosi Sindrome iperglicemica iperosmolare

Glicemia Alta (>500 mg/dl) Molto alta (1000 mg/dl)

pH <7.3 >7.3

Chetonemia Alta Normale

Osmolarità plasmatica

Variabile Molto alta

Sintomatologia Nausea, vomito, dolori addominali, poliuria, di-sidratazione, stato sopo-roso fino al coma

Disidratazione, stato soporoso fino al coma

Terapia Reidratazione immedia-ta, insulina, infusione potassio e bicarbonati

Reidratazione immediata, insulina, reintegrazione elettrolitica (potassio)

DISTURBI DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE (DCA)Carmela Peirce, Debora Arpaia, Serena Ippolito, Bernadette Biondi

Introduzione

I disturbi del comportamento alimentare sono patologie caratterizzate da un’alterazione delle abitudini alimentari, da un’eccessiva preoccupazione per il peso e per l’aspetto fisico. Insorgono prevalentemente durante l’adolescenza e colpiscono soprattutto il sesso femminile rispetto al sesso maschile. I comporta-menti tipici di una persona che soffre di un disturbo del comportamento alimentare sono: digiuno, restri-zione dell’alimentazione, crisi bulimiche (l’ingestione di una notevole quantità di cibo in un breve lasso di tempo senza riuscire a controllare cosa e quanto si mangia), vomito autoindotto, assunzione impropria di lassativi e/o diuretici al fine di contrastare l’aumento ponderale, intensa attività fisica finalizzata alla perdita di peso. I principali disturbi del comportamento alimentare sono l’anoressia nervosa e la bulimia nervosa. L’altra faccia della medaglia è data dall’obesità.L’obesità è una condizione morbosa che ha elevato impatto sociale, poiché molto frequente è uno stile di vita basato sulla sedentarietà e sulla dieta “fast food”. Essere sovrappeso o obesi aumenta in modo significativo il rischio di morbilità e di mortalità per una serie di condizioni patologiche che vanno dal dia-bete mellito al cancro, dalla patologia cardiovascolare alla patologia epatica e respiratoria. Da quasi mezzo secolo assistiamo ad un aumento progressivo ed inarrestabile dell’obesità, aumento che riguarda non solo i paesi industrializzati ma anche quelli emergenti, con costi socio-sanitari ormai pressocchè insostenibili.

Eziopatogenesi

Per i DCA e per l’obesità sono state proposte varie ipotesi eziopatogenetiche, che comprendono fattori genetici, biologici ed ambientali.

Fattori geneticiI fattori genetici sono studiati sulla scorta della prevalenza di DCA e anche dell’obesità su individui appar-tenenti alla stessa famiglia.

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L’Infermiere Specialist in Endrocrinologia e Diabetologia

Fattori biologiciGli ormoni del tessuto adiposoLa scoperta della leptina (1994), un ormone peptidico secreto dagli adipociti, ha confermato che il tessu-to adiposo è un organo endocrino. Oggi sappiamo che il tessuto adiposo, come molti altri tessuti, produce numerosi segnali ormonali capaci di portare a distanza l’informazione biochimica sulla disponibilità di riserve energetiche e la ripienezza dei depositi di grasso. Questi ormoni sono chiamati adipochine.La leptina è un ormone polipeptidico prodotto essenzialmente dagli adipociti in quantità proporzionale alla massa del tessuto adiposo del soggetto. È capace di attraversare la barriera emato-liquorale e raggiun-gere i centri nervosi (nucleo arcuato e ipotalamo) dove esercita un’azione negativa sul senso di fame. Agi-sce anche su alcuni tessuti periferici stimolando il dispendio energetico. Quindi, in condizioni di eccesso di grasso, viene prodotta molta leptina e si dovrebbe ridurre il senso di fame ed aumentare la spesa energe-tica, riequilibrando il sistema. Sebbene la leptina sia aumentata negli obesi, la sua azione compensatoria nella gran parte dei casi è inefficace: la maggior parte degli obesi sono leptino-resistenti e “non sentono” il segnale della leptina e continuano a mangiare ed accumulare ancora grasso. Solo pochissimi soggetti obesi hanno alterazioni del gene della leptina e producono un ormone inattivo. Nell’anoressia nervosa, diversi studi hanno dimostrato che il calo ponderale è correlato a ridotti livelli di leptina. Nella bulimia nervosa, dove il peso corporeo si modifica in misura minore rispetto all’anoressia, non sono state eviden-ziate alterazioni significative dei livelli di leptina. La leptina oltre che importante mediatore dell’omeostasi energetica ha altre funzioni, come quelle di influenzare la funzione riproduttiva e quella immunologica. Se il segnale della leptina è basso, i centri nervosi ricevono il messaggio di bassa disponibilità di energia di riserva e bloccano quindi funzioni importanti come la fertilità.L’adiponectina è un altro ormone secreto dalle cellule adipose. Al contrario della leptina, i suoi livelli nel plasma sono inversamente proporzionali alla massa del tessuto adiposo e contribuiscono a determinare la sensibilità del soggetto all’insulina. L’azione di questo ormone si esercita prevalentemente a livello di fegato e muscolo dove collabora con l’insulina nel favorire il metabolismo ed ottimizzare l’utilizzazione dei substrati energetici. La colecistochinina, potente fattore inibitorio dell’alimentazione soprattutto dei lipidi, è stata trovata au-mentata nel liquor degli anoressici.La GH-relina, polipeptide gastrico induttore dell’appetito nelle condizioni di digiuno, è ritrovata aumentata nelle condizioni di anoressia nervosa e ridotta nella bulimia nervosa dopo l’assunzione alimentare. Gli adi-pociti producono poi altre citochine, di tipo pro-infiammatorio, come il Tumor Necrosis Factor-α (TNF-α) e l’interleuchina 6 (IL-6). I meccanismi che regolano la loro secrezione non sono ben conosciuti ma sono in rapporto sia alla massa del tessuto adiposo sia al metabolismo degli acidi grassi. Anche l’insulina ha effetto regolatorio su queste citochine. La loro azione si svolge prevalentemente all’interno del tessuto adiposo dove regolano la capacità di risposta ad altri ormoni e contribuiscono a determinare le reazioni immunologiche ed infiammatorie.Altri ormoni che agiscono sul peso corporeo e sulla massa grassa e magra sono gli ormoni tiroidei e i glucocorticoidi. È noto, infatti, che l’eccesso di ormoni tiroidei (ipertiroidismo) accelera il metabolismo basale e favorisce dimagrimento, mentre l’eccesso di glucocorticoidi favorisce obesità. I glucocorticoidi ini-biscono la lipoproteinlipasi degli adipociti e quindi l’attività lipolitica che è invece stimolata dall’adrenalina; al contrario, l’ormone somatotropo ed ormoni sessuali favoriscono la lipolisi mentre cortisolo e insulina favoriscono la liposintesi.Nell’uomo col passare degli anni (ed il decrescere dei livelli di testosterone e di somatotropo) aumenta il grasso addominale e si riduce la massa magra (tessuto muscolare). È così pure nella donna, in cui con la menopausa, si osserva una redistribuzione del grasso corporeo.

I neurotrasmettitori Fin dagli anni Settanta le monoamine cerebrali (noradrenalina, serotonina e dopamina) sono state coin-volte nel meccanismo patogenetico di numerosi disturbi psichici. La serotonina è stato il neurotrasmettito-re maggiormente studiato. Nella bulimia nervosa vi sono ridotti livelli di serotonina nel liquor cefalorachi-diano, mentre per l’anoressia nervosa è stata descritta una riduzione del funzionamento del trasportatore della serotonina.

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Il bilancio energetico è un elemento così importante ed indispensabile per la vita delle cellule che, in aggiunta alla complessa rete di ormoni, viene regolato anche da vie nervose, essenzialmente il sistema simpatico e parasimpatico. Questi nervi agiscono sul bilancio energetico a vario livello, sia sugli adipociti, sia sull’apparato digerente, sia a livello centrale. Il sistema simpatico innerva diffusamente il tessuto adiposo, con una funzione complessivamente lipolitica: attiva tramite i recettori β3 gli adipociti “bruni” inducendo consumo di energia sotto forma di calore, ma attiva anche lo stato di “allerta” e di consumo energetico a livello muscolare. Il sistema parasimpatico tende a rallentare il consumo energetico ed a promuovere lo stato di sazietà mediante il rallentamento dello svuotamento gastro-intestinale.Questi due sistemi sono fortemente condizionati da fattori ambientali e sono i trasduttori dei segnali che, per le diverse vie sensoriali, arrivano al sistema nervoso centrale dall’ambiente esterno.Tutti questi segnali, nervosi e ormonali, afferiscono ad un centro ricevitore che si trova nell’ipotalamo e che è costituito da diversi nuclei, funzionalmente integrati tra loro. A questo livello agiscono non solo ormoni e neurotrasmettitori, ma anche metaboliti come il glucosio e gli acidi grassi. Il centro più importante è il nu-cleo arcuato: i neuroni di questo nucleo sono in grado di coordinare i diversi segnali, di integrarli ed inviare una risposta amplificata in senso positivo (aumento fame) o negativo (sazietà). Inoltre, con la mediazione di altri nuclei ipotalamici, sono anche in grado di influenzare la spesa energetica. Nel nucleo arcuato si trovano diversi tipi di neuroni che producono diversi neurotrasmettitori: tra questi i più importanti sono NPY (neuropeptide Y) che causa sensazione di fame, e melanocortina che causa sazietà. Questi diversi neuroni sono in antagonismo bilanciato mediante complessi circuiti attraverso i quali si inibiscono reciprocamente: quanto uno è attivo l’altro viene inibito e viceversa. Il sistema neuronale del nucleo arcuato riceve pertanto un’ampia serie di segnali metabolici e ormonali, è capace di integrarli e di rispondere modificando l’equilibrio energetico mediante l’assunzione di cibo (fame/sazietà) da un lato e la spesa energetica (consumo di energia a livello cellulare) dall’altro. In questo sistema verosimilmente la via regolatrice principale deriva dalla leptina che, quando si abbassa, accende l’attività dei neuroni NPY a livello del nucleo arcuato e quindi aumenta la fame (Figura 3).

REGOLAZIONE DELLA FAME

Ormonigastroenterici

Ormoni vari(Tiroidei, cortisone,

Catecolamine)

Profumo eodore dei cibi

Ansia edepressione

pesoaumentato

pesodiminuito stimola

inibisce

stimola

Metaboliti(Glucosio, Grassi, Proteine)

CENTRODELLA

TERMOGENESI

CENTRODELLAFAME

CENTRODELLA

SAZIETÀ

SEROTINA

NORADRENALINA

DOPAMINA

LEPTINA

LEPTINA

inibis

ce

stim

ola

stimola

stimola

stimola

via “alfa”

via “beta”

Figura 3. Gli ormoni e i neurotrasmettitori che agiscono sui meccanismi di regolazione della fame e sazietà.

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Fattori ambientaliNelle ipotesi ambientali vanno considerati fattori socioculturali, familiari e psicologici dell’individuo. Alcuni autori hanno analizzato l’evoluzione nel tempo dei canoni di bellezza. Un tempo si associava l’ideale di bellezza ad una condizione che oggi definiamo di obesità o sovrappeso e la magrezza era considerata in-dice di ristrettezza economica e di modesto livello sociale. L’attività lavorativa professionale come il mondo della moda, dello spettacolo, della danza sono stati indicati come possibili fattori di rischio facilitanti i DCA.Tra i fattori ambientali sono da considerarsi di importanza fondamentale i rapporti dell’individuo con la famiglia, in termini di capacità di gestione dei conflitti interni e di idealizzazione delle caratteristiche fonda-mentali del nucleo familiare centrate più sull’apparenza che sulla sostanza (perbenismo, perfezionismo). Da non sottovalutare le distorsioni educative nel rapporto con i figli, indirizzati in maniera eccessiva verso il successo sociale e l’ottimo rendimento scolastico o sportivo. Le dinamiche intrapsichiche dell’individuo sono molto complesse e riguardano un’ansia incontrollabile nei confronti del cibo dovuta ad un’immagine distorta che ci si crea del proprio corpo.

Anoressia nervosaUna delle caratteristiche fondamentali dell’anoressia nervosa (AN) è la presenza di un profilo sintomatolo-gico psichico e di una complessa sintomatologia di tipo fisico. Rappresenta una patologia caratterizzata dal rifiuto assoluto di mantenere l’IMC al di sopra del minimo normale. L’esordio è lento e progressivo e gene-ralmente i familiari arrivano a chiedere aiuto quando il disturbo è già conclamato. Si inizia con la comparsa di una generica insoddisfazione per la propria immagine corporea o per singole specifiche parti del corpo. Si mostra, poi, un’eccessiva attenzione all’introito calorico, un’insofferenza per gli aspetti sociali come “la pizza con gli amici”, l’accanimento per attività sportive a livello agonistico, la dedizione per lo studio e un’in-sensata insoddisfazione. Comuni sono i disturbi del sonno, la stipsi ma anche la diarrea se si fa un abuso di lassativi, la sensazione precoce di sazietà e i dolori addominali. La pelle può apparire desquamata e gialla per l’ipercarotenemia per un eccesso del catabolismo anche proteico. Può manifestarsi con amenorrea secondaria (interruzione del ciclo mestruale in pazienti con cicli regolari in precedenza) per riduzione della pulsatilità delle gonadotropine indotte dallo stress. Può manifestarsi anche amenorrea primaria quando la patologia si manifesta prima del menarca. Infine, il soggetto inizia una dieta autonomamente articolata e gestita in maniera progressivamente sempre più restrittiva fino ad arrivare ad una fase conclamata con la perdita totale di controllo sul comportamento alimentare, accompagnata da una paura distorta d’ingrassare, che crea uno stato di angoscia. Un altro sintomo importante della fase conclamata è caratterizzato da un disturbo dell’immagine corporea. Ci si vede grassi e sgradevoli anche in condizioni di cachessia, ovvero importante debilitazione fisica. La prolungata durata dell’anoressia può comportare anche morte improvvisa per tachiaritmie ventricolari.

Bulimia nervosaIl termine bulimia significa “fame da bue”. La bulimia nervosa (BN) è caratterizzata dalla perdita del con-trollo sulla pulsione della fame e del grado di accettazione della propria immagine corporea, che induce modificazioni ponderali. L’alterazione dell’immagine corporea e l’ideazione sul peso corporeo, benchè simili a quelle dell’AN, nella BN sono meno ossessive. La bulimia è caratterizzata da improvvise crisi di rapida ed eccessiva assunzione di cibo in un periodo di tempo limitato, solitamente meno di due ore. Le crisi bulimi-che, denominate con il termine “abbuffate”, vengono consumate in segreto nella maggior parte dei casi, scegliendo cibi calorici ed infine procurandosi il vomito come atto liberatorio. La modalità di assunzione del cibo è davvero particolare. I soggetti utilizzano, infatti, le mani anche per cibi che richiederebbero l’utilizzo di posate, i movimenti sono grossolani per spingere abnormi quantità di cibo in bocca e la masticazione risulta convulsa ed incompleta. L’eziopatogenesi è essenzialmente sovrapponibile a quella dell’AN. Esistono due sottotipi a seconda che prevalga una condotta di eliminazione (con vomito o abuso di lassativi e diure-tici), oppure altri meccanismi di compenso come l’esercizio fisico o il digiuno. Le condotte di eliminazione o compensatorie sono utilizzate per prevenire l’aumento di peso, cercando di mascherare all’esterno il grande senso di colpa. La rabbia e la mancanza di controllo degli impulsi talvolta sfocia anche in gesti di autolesionismo e caratteristica è una teatralità e una drammatizzazione di tutti gli aspetti sintomatologici, a differenza del soggetto affetto da AN, che generalmente ha un vissuto più riservato e doloroso.

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ObesitàL’obesità costituisce una delle patologie a più alto impatto sociale. Rappresenta una patologia cronica carat-terizzata dall’accumulo eccessivo o anormale di tessuto adiposo. Essa predispone ad una serie di patologie che insieme fanno parte della cosiddetta sindrome metabolica. La sindrome metabolica è una sindrome complessa caratterizzata da almeno tre delle seguenti patologie: ipertensione, diabete, ipertrigliceridemia, bassi valori di colesterolo HDL, obesità centrale. L’incidenza dell’obesità è in rapida crescita. Essa è causata dall’interazione di fattori genetici, biologici, psicologici e socio-ambientali.L’indice più comunemente utilizzato per misurare l’obesità è l’indice di massa corporea (IMC). L’IMC (o BMI Body Mass Index) è un parametro che mette in relazione il peso con l’altezza di una persona. Si calcola dividendo il peso in kg per l’altezza in m2.IMC = peso (kg)/ altezza (m2)L’Organizzazione Mondiale della Sanità identifica, a seconda dell’IMC 4 categorie di rischio (Tabella 8).

Tabella 8. Classificazione del rischio in base all’IMC.

IMC Categoria

18.5<IMC<24.9 Normopeso

25 <IMC< 29.9 Sovrappeso

IMC > 30 Obesità

IMC<18.5 Sottopeso

In base all’IMC, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, ha individuato tre classi di rischio per l’obesità (Tabella 9).

Tabella 9. Classificazione obesità in base all’IMC.IMC Classe obesità

30<IMC<35 Obesità I livello

35<IMC<40 Obesità II livello

IMC > 40 Obesità III livello

Per parlare di obesità, occorre però valutare anche la percentuale di massa magra e massa grassa perché gli atleti, ad esempio, possono avere valori di IMC molto elevati, pur non avendo eccesso di grasso corporeo, per la presenza di una massa muscolare più sviluppata.L’obesità si può distinguere anche in base alla distribuzione dell’adipe a livello dei visceri o del sottocutaneo. Il tessuto adiposo localizzato nella regione addominale è associato ad un maggior rischio per la salute. Oltre all’IMC risulta perciò importante misurare anche la circonferenza vita e la circonferenza fianchi e metterli in rapporto. Il valore considerato normale del rapporto vita fianchi WHR, Waist to Hip Ratio) nell’uomo è <0.9, nelle donne < 0.8. In base al fenotipo, distinguiamo un’obesità di tipo androide (tipica maschile), viscerale, centrale ed un’obesità di tipo ginoide (tipica femminile), con accumulo di grasso nel sottocutaneo e a livello periferico. La causa principale dell’obesità è sicuramente un non corretto stile di vita.Esistono però anche altre cause: malattie genetiche, malattie che a livello dell’ipotalamo disregolano il centro fame-sazietà, malattie endocrine come ipotiroidismo ed ipercortisolismo, numerosi farmaci (gluco-corticoidi, insulina, antipsicotici, antidepressivi), patologie psichiatriche caratterizzate da incontrollato introito di cibo. Il sovrappeso e l’obesità influiscono negativamente sulla qualità della vita del paziente poiché si associano ad altre patologie come diabete di tipo 2, malattie cardiovascolari, ipertensione, dislipidemia, steatosi epatica (eccesso di grasso a livello del fegato). Il paziente obeso è inoltre maggiormente soggetto a complicanze di natura meccanica come osteoartrite e artrosi ed a malattie respiratorie. L’obesità predispo-ne, inoltre, ad un’aumentata incidenza di tumori.

Ultimi orientamenti ed indirizzi diagnostici e terapeutici

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Misure terapeuticheAnoressia nervosa L’approccio integrato dei pazienti con anoressia nervosa è basato dall’intervento di misure terapeutiche per il corpo e per la mente. Nel piano terapeutico devono essere incluse istruzioni relative a nutrizione, rapporto con la famiglia, terapia di gruppo ed individuale e in alcuni casi terapia con farmaci antidepressivi. Il ricovero ospedaliero talvolta risulta necessario, in pazienti con indice di massa corporea < 14, per iniziare una nutrizione per via parenterale, per poi “svezzare” la persona con diabete a sane abitudini alimentari (Tabella 10).

BulimiaA differenza dell’AN, il paziente bulimico è raramente ospedalizzato. Come nell’AN, la terapia deve essere volta ad un approccio multidisciplinare integrato. Il primo obiettivo è l’interruzione delle abbuffate e delle condotte compensatorie. L’attenzione poi può essere rivolta all’alimentazione, alla psicoterapia e all’even-tuale terapia farmacologica. Utile l’integrazione anche psicoterapica nell’ambiente familiare (Tabella 10).

Tabella 10. Misure terapeutiche nell’AN e nella BN.

Anoressia nervosa Terapia del corpo e della mente (se necessario terapia di gruppo fami-liare)IMC<14: nutrizione parenteraleFarmaci antidepressivi ove necessari

Bulimia nervosa Terapia del corpo e della mente Farmaci antidepressivi ove necessari

ObesitàIl paziente obeso necessita di un programma di riabilitazione metabolica – nutrizionale – psicologica. È importante la creazione di un diario alimentare. È importante che i carboidrati rappresentino il 50-55% dell’introito calorico giornaliero, preferire cibi ricchi di fibre (frutta e verdura). Le proteine apportate devono essere in quantità tali da non superare 0.8-1 gr/kg/die. La quota lipidica non deve superare il 30% dell’ap-porto giornaliero, preferendo acidi grassi polinsaturi ricchi di omega 3 ed omega 6. Il regime dietetico deve essere accompagnato da attività fisica compatibilmente con la persona.Quando i presidi non farmacologici si dimostrano insufficienti, una volta accertati della collaborazione effettiva del paziente, si possono utilizzare dei farmaci specifici che riducono l’assorbimento intestinale e permettono l’escrezione dei grassi con le feci. Pazienti con IMC > 40 o >35 in associazione a patologie connesse con l’obesità, che non riescono a trarre benefici pur seguendo un corretto regime dietetico e attività fisica, possono ricorrere alla chirurgia. La chi-rurgia bariatrica si avvale di varie tipologie di interventi chirurgici: restrittivi, malassorbitivi e misti, ovvero sia restrittivi che malassorbitivi (Tabella 11).

Tabella 11. Misure terapeutiche nell’obesità.

Misure terapeutiche non farmacologiche • Dieta: 50-55% carboidrati; 0.8-1 gr/kg/die protei-ne; lipidi <30% dell’apporto giornaliero; incremento dell’introito di fibre

• Attività fisica• Riabilitazione metabolica – nutrizionale – psicologi-

ca

Misure terapeutiche farmacologiche/invasive • Farmaci che riducono l’assorbimento intestinale • Chirurgia bariatrica

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Il ruolo dell’infermiere Anoressia nervosa e bulimia nervosaL’infermiere è la figura professionale che trascorre la maggior parte del tempo con i pazienti. Nei soggetti affetti da AN e BN, sarebbe buona norma non lasciare mai il paziente da solo durante il pasto, controllare l’eventuale utilizzo di lassativi o procinetici gastro-intestinali, farmaci che aumentano la motilità intestinale. Se il paziente desidera essere lasciato da solo durante il pasto, verificare che subito dopo l’alimentazione non si chiuda in bagno.

ObesitàL’infermiere deve assistere il paziente nelle ordinarie operazioni di igiene personale, soprattutto se il pazien-te è un grande obeso e non riesce bene a muoversi. È importante che si assicuri che il paziente consumi il pasto ospedaliero e non nasconda altri cibi da consumare di nascosto. L’infermiere inoltre è una figura fondamentale nell’approccio del paziente con un corretto stile di vita, facendogli capire l’importanza delle modifiche del diario alimentare e dell’attività fisica.

DISLIPIDEMIECarmela Peirce, Debora Arpaia, Serena Ippolito, Bernadette Biondi

Introduzione

I lipidi sono molecole insolubili in acqua o solubili minimamente. Essi svolgono importanti funzioni struttu-rali ed energetiche. Costituiscono la più importante fonte energetica immagazzinata (trigliceridi), le mem-brane cellulari, i precursori di alcuni ormoni, come steroidi gonadici e surrenalici, vitamine liposolubili, gli acidi biliari (il colesterolo), o anche messaggeri intra ed extracellulari (fosfatidilinositolo, prostaglandine). Variazioni delle concentrazioni plasmatiche dei lipidi sono rilevanti dal punto di vista clinico, poiché sono associate ad un aumentato rischio di malattie cardiovascolari.

Colesterolo

Il colesterolo può essere assunto con la dieta oppure essere sintetizzato in alcuni tessuti, prevalentemente dal fegato. La sintesi del colesterolo si realizza a partire dalla condensazione di tre molecole di acetato che formano 3-idrossi-3metilglutaril coenzima A (HMG-CoA), convertito poi in acido mevalonico, in presenza di NADPH, dall’enzima HMG-CoA reduttasi (tappa limitante, che determina la velocità della reazione). Una serie di reazioni successive determinano la trasformazione di acido mevalonico in colesterolo. Il colesterolo può essere escreto come tale nella bile, oppure convertito ad acido biliare ed eliminato nell’intestino. Circa il 50% del pool di colesterolo intestinale è riassorbito e reintrodotto nell’organismo (andando così a com-pletare il circolo entero-epatico) ed il restante 50% viene eliminato con le feci. Il colesterolo che ritorna al fegato regola, mediante un meccanismo di feedback negativo sull’HMG-CoA reduttasi, in modo inibitorio la sintesi de novo di colesterolo e acidi biliari da parte del fegato. Il contenuto intracellulare di colesterolo è anche regolato dall’espressione del recettore per le LDL sulla superficie cellulare, che si modifica a seconda che la cellula necessiti o meno di colesterolo.

Acidi grassi

Sono gli ingredienti costitutivi di quasi tutti i lipidi complessi e dei grassi vegetali e animali. Essi possono variare in lunghezza a seconda del numero di atomi di carbonio, per numero e per posizione dei doppi legami fra gli atomi di carbonio. Gli acidi grassi saturi non posseggono doppi legami tra gli atomi di carbonio, mentre gli acidi grassi insaturi contengono uno (monoinsaturi) o più (poli insaturi) doppi legami.

Ultimi orientamenti ed indirizzi diagnostici e terapeutici

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L’Infermiere Specialist in Endrocrinologia e Diabetologia

Possono circolare nella loro forma libera legati all’albumina (FFA, Free Fatty Acid), oppure legati a lipopro-teine come lipidi complessi (chilomicroni o VLDL, Very Low Density Lipoprotein). Il rilascio degli acidi grassi contenuti nelle lipoproteine avviene grazie ad un enzima, la Lipoprotein lipasi (LPL), localizzata sulle cellule endoteliali adiacenti al tessuto adiposo, muscolare ed alla ghiandola mammaria.In condizioni normali, con un normale apporto dietetico, la sintesi degli acidi grassi non avviene se non per un eccesso di introito di carboidrati rispetto ai lipidi. Ad ogni modo, gli acidi grassi che non possono essere sintetizzati dall’organismo sono quelli essenziali, ovvero l’acido linoleico e linolenico, che devono essere apportati con l’alimentazione.

Lipoproteine

Il colesterolo ed i trigliceridi, essendo molecole idrofobiche, possono essere trasportate nel plasma (mezzo acquoso) grazie alla formazione di lipoproteine, complessi ad alto peso molecolare formati da lipidi e pro-teine. Le apoliproproteine insieme alla porzione idrofila del colesterolo libero e dei fosfolipidi costituiscono il guscio idrosolubile che riveste il “core” idrofobico lipidico. Le lipoproteine plasmatiche subiscono variazioni in circolo per composizione e densità e, proprio sulla base di queste caratteristiche differenti, si suddivi-dono in cinque classi principali: chilomicroni, lipoproteine a densità molto bassa (VLDL, Very Low Density Lipoprotein), lipoproteine a densità intermedia (IDL, Intermediate density lipoprotein), lipoproteine a bassa densità o LDL (Low Density Lipoprotein), lipoproteine ad alta densità (HDL, High Density Lipoprotein). In generale, le lipoproteine meno dense sono quelle di maggiori dimensioni e più ricche di colesterolo esterificato e trigliceridi, mentre in quelle a più alta densità prevale la componente proteica (Tabella 12).

Tabella 12. Composizione delle lipoproteine.

CM VLDL IDL LDL HDL

Principale apoproteina B48 B100 B100 B100 A1

Principale lipide TG TG CE CE CE

CM= chilomicroni | VLDL= very low density lipoprotein | IDL= intermediate density lipoprotein | LDL= low density lipoprotein |HDL= high density lipoprotein | TG=trigliceridi | CE= esteri del colesterolo

Apolipoproteine

Le apolipoproteine costituiscono la componente proteica delle lipoproteine. Sono molecole anfipatiche, ovvero con una parte idrofilica ed una idrofobica. Esse porgono la loro pars apolare verso il core lipidico e la loro pars polare verso l’ambiente acquoso plasmatico. Esse, inoltre, costituiscono ligandi per recettori e regolano l’attività enzimatica nel metabolismo lipidico. Si suddividono in cinque classi: Apo A, Apo B, Apo C, Apo D, Apo E. L’Apo A – I è il principale cofattore della lecitin–colesterolo–acil trasferasi (LCAT) che esterifica il colesterolo delle HDL. L’Apo B-100, di origine epatica, è la principale apolipoproteina delle VLDL, IDL e LDL. L’Apo B-48 è presente nella composizione dei chilomicroni. L’Apo C II è il principale cofattore della lipoprotein lipasi (LPL). L’Apo E si lega a specifici recettori epatici.

Metabolismo dei lipidi esogeni

Le cellule epiteliali dell’intestino facilmente assorbono i lipidi dalla dieta. Questi lipidi, tra cui il colesterolo, trigliceridi e fosfolipidi sono assemblati con apolipoproteina B-48 in chilomicroni, i quali vengono secreti dalle cellule epiteliali intestinali nella circolazione linfatica. Nel flusso sanguigno, i chilomicroni vengono idrolizzati da parte della LPL, mentre le apolipoproteine, colesterolo libero e fosfolipidi vengono trasferiti ad altre lipoproteine, in particolare alle HDL, che diventano “mature”. I residui dei chilomicroni, detti “rem-nants”, possono poi essere captati dal fegato grazie al legame con il recettore B-E per le LDL (Figura 4).

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Figura 4. Trasporto esogeno dei lipidi.

I lipidi assunti con la dieta arrivano all’epitelio intestinale. Vengono assemblati i chilomicroni, che entrano nel flusso sanguigno. Essi sono poi idrolizzati e i “remnants” vengono captati dal fegato.

Metabolismo dei lipidi endogeni

Il fegato è un’altra importante fonte di lipoproteine, principalmente VLDL. Triacilglicerolo e colesterolo sono assemblati per formare particelle VLDL con apolipoproteina B-100, rilasciate nella circolazione sanguigna. Come nel metabolismo dei chilomicroni, le apolipoproteine C-II e le particelle di apolipoproteina e di VLDL vengono acquisite dalle particelle di HDL. Una volta assemblata con apolipoproteine C II ed E, la particella VLDL nascente è considerata matura. Le particelle VLDL circolano e incontrano LPL espresso sulle cellule endoteliali. L’apolipoproteina C-II attiva la LPL, causando idrolisi della particella VLDL e il rilascio di glicerolo e acidi grassi. Questi prodotti possono essere assorbiti dai tessuti periferici, principalmente adiposi. Le parti-celle VLDL idrolizzate sono ora chiamate lipoproteine di densità intermedia (IDLs). Le IDL possono circolare e, attraverso un’interazione tra apolipoproteina e il recettore di superficie, essere assorbite dal fegato, o ulte-riormente idrolizzati da lipasi epatica. Si formano così le LDL, che contengono un contenuto di colesterolo relativamente alto. Le LDL circolano e vengono assorbite dal fegato e dalle cellule periferiche. L’associazio-ne di LDL al suo tessuto bersaglio avviene attraverso un’interazione tra il recettore LDL e apolipoproteina B-100 (Figura 5). La Captazione epatica ed extraepatica delle LDL avviene ad opera dei recettori per LDL.

1

2

3

4

5

Lipidi Alimentari

Cellulaintestinale

E EA C B-48 B-48

Chylomicron Chylomicronresiduo

Vasi capillari

Lipasi Lipoproteica

Recettori residui(LDLR/LRP)

Fegato

Ultimi orientamenti ed indirizzi diagnostici e terapeutici

1

2

3

65

Vasi capillari

C B-100

B-100

B-100E E

E

Lipasi lipoproteica

VLDL IDL

LDL LDR

LDR

Cellula extraepatica

Figura 5. Trasporto endogeno dei lipidi.

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L’Infermiere Specialist in Endrocrinologia e Diabetologia

Dislipidemie

Le dislipidemie rappresentano delle alterazioni quantitative dei lipidi plasmatici in risposta ad un’aumentata sintesi (o secrezione) o ad un ridotto catabolismo delle lipoproteine. Dal punto di vista patogenetico si distinguono in primitive (mono o poligeniche) e secondarie ad altre patologie o trattamenti farmacologici.La loro importanza clinica è legata all’aumentato rischio cardiovascolare e all’aumentato rischio di pancrea-tite acuta in presenza di ipertrigliceridemia. Si possono avere disordini del metabolismo lipidico con un pre-valente rialzo sierico del colesterolo (ipercolesterolemia), oppure disordini in cui prevale un rialzo sierico dei trigliceridi (ipertrigliceridemia), oppure disordini con rialzo sierico sia del colesterolo totale che dei trigliceridi (dislipidemia mista). Le indagini di valutazione devono comprendere la determinazione sierica dei livelli di colesterolo totale, dei trigliceridi e del colesterolo HDL, mediante un prelievo venoso dopo almeno 12 ore di digiuno. Ai fini classificativi, prognostici e terapeutici è utile il dosaggio delle frazioni del colesterolo. Il co-lesterolo veicolato dalle HDL costituisce circa il 20% del totale e si può determinare nel sovranatante dopo precipitazione delle altre proteine plasmatiche. Se la trigliceridemia non supera i 400 mg%, il colesterolo contenuto nelle VLDL è in rapporto di 1:5 con i trigliceridi. Pertanto, il colesterolo LDL può essere calcolato secondo la seguente formula (formula di Friedwald): COL LDL = COL totale – (HDL + trigliceridi/5). Il siero si presenta limpido in condizioni normali e nelle ipercolesterolemia, torbido nelle ipertrigliceridemie.

Dislipidemie primitive Le dislipidemie primitive si associano ad un’alterazione genetica anche se non in tutte è ancora nota. Per la diagnosi differenziale tra dislipidemia primitiva e secondaria è fondamentale l’anamnesi personale e familiare, come la positività per cardiopatia ischemica familiare in età precoce.

Ipercolesterolemia familiareÈ una malattia genetica autosomica dominante, in cui sono state evidenziate innumerevoli mutazioni a carico del gene per il recettore delle LDL sul cromosoma 19. La prevalenza della malattia è di 1:500 per la forma eterozigote, mentre 1:1000000 per la forma omozigote. I soggetti eterozigoti hanno un solo allele mutato e le LDL sono captate dalle cellule in maniera ridotta, mentre i soggetti omozigoti, avendo entrambi gli alleli mutati, non possono rimuovere dal plasma le LDL. La colesterolemia totale dei soggetti omozigoti è di circa 500-1000 mg/dL, mentre quella degli eterozigoti è di circa 350-450 mg/dL. Le manifestazioni cliniche sono legate al progressivo accumulo delle LDL in eccesso, che infiltrano le pareti delle arterie ini-ziando precocemente i processi di aterosclerosi, si accumulano negli istiociti e nei macrofagi dando origine agli xantomi, che sono una degenerazione della pelle di colore giallastro dovuta appunto ai lipidi che si accumulano nei tendini, a livello delle palpebre, nella cute e nella cornea. L’accumulo dei lipidi comporta manifestazioni precoci di ischemia d’organo. La forma omozigote comporta spesso morte in giovanissima età (Figure 6 A,B e 7).

Figura 6. Localizzazione degli xantomi (A: Xantomi tendinei; B: Xantoma corneale; C: Xantoma tubero eruttivo arto superiore, D: Xantomi eruttivi ginocchia).

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Figura 7. Xantomi palpebrali.

Ipercolesterolemia poligenica comuneÈ la patologia più frequente dislipidemica. Ha origine multifattoriale, derivando infatti da molteplici geni che interagiscono tra loro coadiuvati da vari fattori ambientali. In generale la colesterolemia non supera i 300-350 mg/dL. Questi pazienti hanno rischio aumentato di sviluppare aterosclerosi e malattie cardiovascolari.

Dislipidemia combinata familiareÈ una dislipidemia mista frequente con fenotipi multipli e con elevata variabilità nel tempo sia nello stesso paziente che tra i familiari che ne sono affetti. Il deficit genetico non è ancora chiaro. Può essere presente una isolata ipercolesterolemia, un’isolata ipertrigliceridemia oppure una dislipidemia di tipo misto. Si asso-cia frequentemente a sindrome metabolica. Gli xantomi sono assenti.

Disbetalipoproteinemia (Iperlipidemia di tipo III)Rappresenta una forma rara caratterizzata da una dislipidemia mista con aumento in circolo di “remnants” di chilomicroni e VLDL, dovuta ad un difetto genetico dell’apo E. Ciò comporta una bassa affinità di legame con il recettore epatico ed è per questo che si ha una maggiore permanenza in circolo delle VLDL. Questa patologia comporta l’insorgenza precoce (entro i 20 anni di età), la presenza di xantomi a livello palmare e xantomi tubero eruttivi (papule che possono diventare noduli anche fino a 3 centimetri a livello di gomiti e ginocchia). Il siero risulta torbido o addirittura cremoso per la presenza di chilomicroni e VLDL. La diagnosi è confermata dallo studio genetico (Figura 6 C,D).

Ipertrigliceridemia familiare poligenicaÈ una patologia ad eziologia multifattoriale, ovvero entrano in gioco fattori genetici e fattori ambientali. È caratterizzata da un’aumentata produzione epatica di VLDL e una ridotta rimozione dal circolo delle stesse, per cui predispone alla formazione di placche aterosclerotiche. I soggetti affetti, inoltre, possono presentare depositi di lipidi in sede sclero-corneale e xantomatosi cutanea eruttiva (Figura 6 B,C,D).

Ipertrigliceridemia grave (sindrome chilomicronemicha)Insieme alla ipertrigliceridemia familiare poligenica, è una patologia caratterizzata da elevati livelli sierici di VLDL e chilomicroni. Il diabete mellito scompensato è spesso l’elemento che scatena l’ipertrigliceridemia in soggetti predisposti. Clinicamente il paziente presenta pancreatiti acute ricorrenti, accumulo dei lipidi a livello della retina (lipemia retinalis) ed occlusione dei vasi di quest’ultima.

Ipertrigliceridemia familiare da deficit di LPL o di apo C- IIÈ una malattia rarissima (1 caso su un milione), autosomica recessiva, dovuta a deficit della Lipoprotein Lipasi (LPL), o ad assenza o deficit di apo C- II, cofattore della LPL. La LPL idrolizza i chilomicroni e se risulta alterata, come in questo caso, questi restano in circolo. La malattia si manifesta sin dall’infanzia con pancreatiti ricorrenti, xantomatosi eruttiva e lipemia retinalis.

Ultimi orientamenti ed indirizzi diagnostici e terapeutici

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Ipoalfaliproteinemia (bassi livelli sierici di HDL)È una patologia caratterizzata da bassi livelli sierici di HDL (<35 mg/dL) e normali sierici di colesterolo LDL (<160 mg/dL) e trigliceridemia (<150 mg/dL). Ci sono fattori genetici che contribuiscono in maniera pre-ponderante allo sviluppo della malattia, ma molti fattori ambientali contribuiscono alle variazioni delle con-centrazioni delle HDL. Fattori ambientali associati a riduzione delle HDL sono l’obesità, l’insulino-resistenza, la scarsa attività fisica e la rimozione di queste cause può facilitare l’incremento del “colesterolo buono”.

Dislipidemie secondarie

Rappresentano il 10-15% di tutte le dislipidemie e sono secondarie ad altre patologie o a trattamenti farmacologici. Il riconoscimento della causa e l’eventuale rimozione della stessa può comportare la corre-zione della dislipidemia, ma ciò non è sempre possibile poiché in tali casi può coesistere una dislipidemia secondaria insieme ad una primitiva.

Dislipidemia secondaria ad obesità L’obesità si associa spesso ad alti livelli plasmatici di trigliceridemia e bassi di HDL. Inoltre frequente è l’associazione con ridotta tolleranza ai carboidrati ed ipertensione arteriosa, tutte condizioni che insieme costituiscono la sindrome metabolica.

Dislipidemia secondaria a diabeteLa dislipidemia secondaria a diabete è frequente in più del 30% dei pazienti con diabete. Essa è caratte-rizzata da ipertrigliceridemia, con aumento delle VLDL e bassi livelli plasmatici di HDL. La carenza insulinica determina una riduzione della LPL con riduzione del catabolismo delle VLDL e dei chilomicroni. Nei pazienti in cui prevale l’insulino-resistenza, risulta aumentata la sintesi epatica di trigliceridi dagli FFA mobilizzati in eccesso dal tessuto adiposo.

Dislipidemia secondaria ad ipotiroidismoL’ipotiroidismo può comportare un’ipercolesterolemia dovuta alla riduzione dei recettori B100: E sulla su-perficie delle cellule, con un aumento quindi delle LDL. Anche l’ipotiroidismo subclinico può rendere con-clamata l’iperlipidemia. La terapia con L-tiroxina corregge questo tipo di dislipidemia.

Dislipidemia secondaria ad alcolL’assunzione di elevate quantità di alcol comporta ipertrigliceridemia, poiché l’etanolo inibisce l’ossidazione epatica degli acidi grassi, riesterificati a trigliceridi. La sospensione dell’alcol normalizza la trigliceridemia.

Dislipidemia secondaria a nefropatieNelle nefropatie generalmente la dislipidemia è di tipo misto: ipertrigliceridemia ed ipercolesterolemia associate a bassi livelli sierici di HDL. L’ipoalbuminemia tipica della sindrome nefrosica causa un aumento della sintesi epatica di albumina, nel tentativo di compenso, accompagnata ad un’aumentata sintesi anche delle VLDL. I pazienti in emodialisi presentano un rallentato catabolismo dei trigliceridi per una ridotta attività della LPL.

Dislipidemia secondaria a colestasiLa colestasi può causare ipercolesterolemia, con valori che possono raggiungere 500-1000 mg/dL. È tipica-mente presente una proteina anomala, la lipoproteina X (LP – X), priva di apo B e ricca di colesterolo non esterificato e lecitina. Questa lipoproteina non interagisce con i recettori LDL.

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Altre dislipidemie secondarieDiverse patologie possono causare dislipidemia, come la sindrome di Cushing (o l’eccesso iatrogeno di glucocorticoidi), l’acromegalia, deficit di GH, Lupus Eritomatoso Sistemico, glicogenosi tipo I, porfiria acuta intermittente, anoressia nervosa.

Dislipidemie secondarie a farmaciNumerosi farmaci possono alterare il profilo lipidico. I farmaci a struttura steroidea (estrogeni, corticosteroi-di, anabolizzanti) e i diuretici tiazidici tendono ad aumentare i livelli plasmatici di trigliceridi ed LDL. Gli estro-progestinici tendono a rialzare i livelli sierici di colesterolo nelle LDL e nelle HDL. I beta bloccanti tendono ad aumentare i trigliceridi e a ridurre le HDL, probabilmente per riduzione dell’attività dell’LDL. Anche i retinoidi, il tamoxifene, gli antagonisti H2, la ciclosporina e gli antiepilettici influenzano il metabolismo lipidico.

Impatto delle dislipidemie sulla salute

Lo squilibrio lipidemico predispone a molte patologie a grande impatto sociale. Prima tra tutte è la malattia cardiovascolare. Le lipoproteine HDL sono identificate come “colesterolo buono”, poiché raccolgono l’ec-cesso di colesterolo e lo trasportano al fegato, rimuovendolo dal circolo. Le lipoproteine LDL sono identi-ficate come “colesterolo cattivo” poiché forniscono il colesterolo alle cellule dell’organismo. In realtà sono fondamentali per la sopravvivenza delle nostre cellule. Infatti, è l’eccesso della loro presenza che comporta danni. In eccesso, infatti, vengono ossidate da radicali liberi e si depositano soprattutto a livello dei vasi san-guigni, dando origine alla placca aterosclerotica. La crescita della placca, che avviene con l’eccesso di “cole-sterolo cattivo” può comportare la rottura della stessa e dare origine a trombi che vanno in circolo, oppure all’occlusione dei vasi e dare così origine ad ischemia. Un elevato introito di grassi predispone all’obesità. È noto infatti, che i lipidi sono maggiormente energetici rispetto al resto delle macromolecole biologiche, con un più basso effetto termogenico, ovvero l’energia che l’organismo spende ogni volta che si introducono grassi è molto bassa. L’eccesso di trigliceridi a livello sierico può comportare l’insorgenza di pancreatite acu-te, dovuta all’idrolisi da parte della lipasi pancreatica dei chilomicroni extravasali con formazione locale di acidi grassi liberi e/o alla formazione di microemboli di chilomicroni nei capillari pancreatici. In alcuni studi clinici è stato valutato anche l’aumentato rischio di insorgenza di tumori (colon-retto, mammella, prostata, pancreas). Infatti è stato visto che popolazioni abituate ad una dieta ipolipidica, che passano poi ad un tipo di alimentazione ad alto introito di grassi, hanno subito maggiore incidenza di tumori. Basti pensare ai Giapponesi immigrati negli Stati Uniti.

Obiettivi della terapia

La riduzione dei livelli sierici della colesterolemia è stata studiata soprattutto in rapporto alla riduzione del rischio cardiovascolare sia in prevenzione primaria, che secondaria. La prevenzione primaria mira ad evitare lo sviluppo di eventi cardiovascolari. La prevenzione secondaria, invece, punta a ridurre il rischio che accada un evento cardiovascolare in soggetti con un danno biologico già noto. I livelli ottimali sierici di lipidi variano a seconda del singolo soggetto all’interno della sua categoria di rischio. Il colesterolo LDL è considerato nel-le linee guida internazionali il principale obiettivo terapeutico nei grandi studi clinici. In prevenzione primaria in soggetti a basso rischio (ovvero non fumatori, non diabetici, non obesi) o con un fattore di rischio, i livelli di colesterolo LDL ottimali non devono superare i 160 mg/dL (130 mg/dL con due o più fattori di rischio), mentre quelli di colesterolo HDL devono essere > 40 mg/dL negli uomini e > 35 mg/dL nelle donne. I livelli di colesterolo totale non devono superare i 190 mg/dL. I livelli ottimali di trigliceridemia non devono superare i 150 mg/dL (Tabella 13).

Ultimi orientamenti ed indirizzi diagnostici e terapeutici

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Tabella 13. Obiettivi lipidemici ottimali secondo i criteri ATP III (Adult Treatment Panel III – National Cho-lesterol Education Program).

Colesterolo totale <190 mg/dL

Colesterolo HDL >35 mg/dL nelle donne; >40mg/dL negli uomini

Colesterolo LDL in assenza di fattori di rischio (o con 1 fattore di rischio)

<160 mg/dL

Trigliceridi <150 mg/dL I valori decisionali del colesterolo LDL in pazienti in prevenzione secondaria con cardiopatia nota (con più fattori di rischio come fumo, obesità, ipertensione, scarsa attività fisica) non devono superare i 100 mg/dL, mentre in pazienti in prevenzione secondaria, con danno già noto in associazione a sindrome metabolica (o anche solo in presenza di diabete), i livelli di LDL non devono superare i 70 mg/dL (Tabella 14).

Tabella 14. Valori decisionali del colesterolo LDL secondo i criteri ATP III (Adult Treatment Panel III– Natio-nal Cholesterol Education Program).

Prevenzione primaria in soggetti con 2 o più fattori di rischio

Prevenzione secondaria in sog-getti con malattia cardiovascolare stabile

Prevenzione secondaria in sog-getti ad alto rischio (con malattia cardiovascolare + sindrome me-tabolica/diabete)

LDL<130 mg/dL LDL<100 mg/dL LDL<70 mg/dL

Terapia

Terapia non farmacologicaLa prima misura terapeutica per la dislipidemia è senza dubbio una terapia non farmacologica, basata sullo stile di vita, indirizzato all’abolizione dei fattori di rischio ambientali (fumo, obesità, sedentarietà), effettuando una corretta alimentazione e l’attività fisica. È fondamentale integrare un maggior quantitativo di acidi grassi omega 3 mangiando più porzioni di pesce a settimana, l’integrazione con semi di psyllium e soia (effetto ipolipemizzante) limitando al minimo il consumo di uova (massimo due uova a settimana, poichè sono ricche di colesterolo), riducendo la quota di grassi a < 30% die, preferendo quelli insaturi. È importante aumentare il consumo di frutta e verdura e aumentare il contenuto di fibre a 20-30 gr/die per ridurre anche l’assorbimento di carboidrati e praticare adeguato esercizio fisico per mantenere elevati i livelli di colesterolo HDL.

Terapia farmacologicaStatineLa terapia d’elezione dell’ipercolesterolemia è rappresentata dall’utilizzo delle statine, farmaci che inibisco-no la tappa limitante della formazione di colesterolo perché inibiscono l’HMGcoA reduttasi ed inoltre hanno effetti molteplici, migliorando la funzione endoteliale e promuovendo l’inibizione dell’infiammazione. Molto utilizzata è l’atorvastatina al dosaggio di 10-80 mg/die e il target ottimale sta nel raggiungimento del mas-simo effetto per mg di farmaco con il dosaggio più basso. L’effetto collaterale più frequente è il rialzo di creatin fosfochinasi (CPK) che può comportare rabdomiolisi e acidosi metabolica.

EzetimibeL’ezetimibe blocca l’assorbimento di colesterolo a livello degli enterociti intestinali. Si utilizza nei pazienti intolleranti alle statine o in associazione a queste per potenziarne l’effetto ipolipidemizzante. Può essere utilizzato anche in associazione a fibrati per ridurre l’ipertrigliceridemia. L’effetto collaterale più frequente è la diarrea.

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Resine a scambio ionicoSono farmaci non assorbibili dall’intestino. Essi impediscono l’assorbimento degli acidi biliari. In tal modo il fegato ha lo stimolo a produrre colesterolo ma anche ad esprimere recettori per LDL, che lo aiutano a rimuovere dal circolo. Si può associare a statine o fibrati. L’effetto collaterale più fastidioso è la steatorrea (emissione di feci untuose, per la riduzione di assorbimento di acidi biliari) e la flatulenza.

FibratiL’azione dei fibrati si realizza soprattutto nell’abbassare i livelli sierici di trigliceridi. Essi hanno un minimo effetto anche sulle HDL, aumentandole, stimolando la sintesi di apo AI.

Acido nicotinicoL’azione dell’acido nicotinico è dovuta all’inibizione della LPL a livello degli adipociti con riduzione degli acidi grassi al fegato e riduzione della sintesi di VLDL. Esso inoltre svolge un’azione antiossidante. Uno degli effetti collaterali dell’acido nicotinico è rappresentato dal flushing, ovvero un arrossamento temporaneo a livello del volto.

Acidi grassi polinsaturi omega 3Esistono delle formulazioni in compresse di acidi grassi polinsaturi omega 3, contenuti principalmente dell’olio di pesce, che favoriscono una riduzione dei livelli plasmatici di trigliceridi.

LDL- aferesiNei casi in cui la terapia medica dovesse fallire e i livelli di LDL dovessero essere sempre supe-riori a 200 mg/dl, in presenza di malattia coronarica nota (oppure LDL > 300 mg/dl senza malattia coronarica) si consiglia l’LDL-aferesi ogni due settimane. L’aferesi è una sorta di “pulizia” del pla-sma. Il plasma del paziente, infatti, attraversa una colonna che rimuove l’LDL e viene poi reinfuso.

GLI ULTIMI ORIENTAMENTI ED INDIRIZZI DIAGNOSTICI E TERAPEUTICI NELL’IPERTIROIDISMO E NELL’IPOTIROIDI-SMO

IPERTIROIDISMO E TIREOTOSSICOSISerena Ippolito, Carmela Peirce, Debora Arpaia, Bernadette Biondi

La tireotossicosi è un quadro clinico conseguente ad un eccesso di ormoni tiroidei in circolo, indipen-dentemente dalla loro provenienza. Il termine ipertiroidismo indica invece la condizione di eccesso di ormoni tiroidei per aumentata produzione degli stessi da parte della ghiandola tiroidea. La tireotossicosi è pertanto un termine più generico e raggruppa forme di eccesso di ormoni tiroidei dovuta ad eccessiva funzione della ghiandola tiroidea e cause di origine extra tiroidee. Nell’ambito dell’ipertiroidismo può essere identificato un ipertiroidismo primario se la causa è di origine tiroidea e uno secondario se la tiroide viene indotta a produrre o a rilasciare gli ormoni tiroidei. Una terza categoria di ipertiroidismo è quello iatrogeno (o factizio) per assunzione in eccesso di ormoni tiroidei (Tabella 15). Sul piano clinico la distinzione tra le differenti forme di ipertiroidismo è possibile mediante la determinazione dei valori ematici dell’ormone tireostimolante (TSH). Il TSH prodotto dalle cellule tireotrope dell’adenoipofisi stimola la tiroide a produrre gli ormoni tiroidei e per effetto del feed-back negativo, un eccesso di ormoni tiroidei riduce la quantità di TSH prodotto dall’ipofisi. Per tale motivo, il TSH sarà basso o indosabile (soppresso) in presenza di iper-tiroidismo primario o ipertiroidismo factizio, mentre sarà elevato in caso di ipertiroidismo secondario ad adenoma ipofisario. Una condizione particolare di ipertiroidismo secondario è quella causata dall’eccesso di gonadotropine corioniche che stimolano il recettore del TSH verso il quale hanno una bassa affinità.

Ultimi orientamenti ed indirizzi diagnostici e terapeutici

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L’Infermiere Specialist in Endrocrinologia e Diabetologia

Tabella 15. Cause di Tireotossicosi.

Ipertiroidismo primario Ipertiroidismo secondario Ipertiroidismo Iatrogeno o factizio

Su base autoimmunitaria • Morbo di Basedow• HashitossicosiCon autonomia nodulare funzio-nale• Adenoma tossico• Gozzo nodulare tossicoSu base infiammatoria-infettiva• Tiroidite subacuta (di De Quer-

vain) • Tiroidite acuta suppurativa

Da eccesso di TSH: • Adenoma ipofisario delle

cellule tireotrope • Resistenza agli ormoni ti-

roidei (S. di Refetoff ) • Corioncarcinoma secer-

nente TSHDa eccesso di gonadotropi-ne corionica: • Mole idatiforme• Iperemesi gravidica

• Eccesso di terapia con L-T4 o T3

• Trattamenti a scopo di-magrante con sostanze ricche di iodio

Le cause più frequenti di ipertiroidismo primitivo sono il morbo di Basedow, l’adenoma tossico della tiroide e il gozzo multinodulare tossico (Tabella 16).

Tabella 16. Caratteristiche cliniche delle differenti forme di Ipertirodismo.

Parametro clinico M. Basedow Gozzo Multinodulare Tossico

Adenoma Tossico

Età di insorgenza Giovane/adulto Anziano Anziano

Gozzo Ingrossamento diffuso ed aumento della consi-stenza ghiandolare

Ingrossamento bilatera-le nodulare; solitamente di lunga durata

Ingrossamento unilate-rale

Manifestazioni extratiroi-dee

Spesso presenti (esoftalmo, mixedema pretibiale)

Assenti Assenti

Autoanticorpi anti-recet-tore del TSH

Presenti Assenti Assenti

Quadro clinico dell’ipertiroidismo

Gli ormoni tiroidei esercitano un’azione su tutti gli organi e gli apparati del nostro organismo modulandone l’azione metabolica (Tabella 17).

Tabella 17. Effetti degli ormoni tiroidei.

Effetti degli ormoni tiroidei

• Effetti sul consumo di ossigeno e sul metabolismo basale, stimolazione della Na-K ATPasi in tutti i tessuti.

• Effetti cardiovascolari: aumento dell´eccitabilità atriale, della frequenza e della contrattilità cardiaca, mi-glioramento della funzione diastolica ed incremento del consumo di ossigeno del miocardio. A livello vascolare, marcata riduzione delle resistenze vascolari periferiche.

• Effetti polmonari: mantenimento nel centro del respiro, della normale risposta all’ipossia e all’ipercapnia• Effetti gastrointestinali: aumento della motilità dell’intestino e dell’assorbimento del cibo.• Effetti scheletrici: aumento del turnover osseo con aumento del riassorbimento e in minor grado della

formazione ossea.• Effetti neuro-muscolari: stimolazione della sintesi proteica e del trofismo muscolare.• Metabolismo lipidico e carboidrati: aumento della sintesi e degradazione del colesterolo per aumento

dei recettori epatici delle VLDL; aumento della lipolisi con liberazione in circolo acidi grassi e glicerolo. • Effetti endocrini: aumento del turnover di molti ormoni e di numerose sostanze.

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La sintomatologia clinica dell’ipertiroidismo interessa tutti gli organi ed apparati:

• Cute e annessi. La cute appare umida, calda, sottile ed elastica. La sudorazione è eccessiva anche dopo sforzi di lieve entità o a riposo. Capelli e peli cutanei risultano fragili e sottili, le unghie fragili con onicolisi.

• Sistema cardiovascolare. I sintomi cardiovascolari più frequenti sono la tachicardia e palpitazioni. La tachicardia costituisce un sintomo molto fastidioso per il paziente che ne avverte la presenza soprattutto di notte o durante esercizio fisico. Alla palpazione il polso appare con frequenza elevata, rapido, ampio e teso. È presente ipertensione arteriosa con aumento dei valori della pressione sistolica (“massima”) e riduzione della pressione diastolica (“minima”).

• Sistema nervoso e neuromuscolare. Si riscontrano irritabilità, nervosismo, tremori, insonnia ed accen-tuazione dei riflessi osteo-tendinei.

• Sistema gastrointestinale. Si riscontra un aumento dell’appetito associato a dimagrimento per l’aumen-to di tutti i processi metabolici dell’organismo. Spesso è presente aumento della motilità intestinale con diarrea.

• Sistema riproduttivo. Nella donna in età fertile è frequente la presenza di oligomenorrea, amenorrea e con riduzione dell’intensità dei flussi mestruali e con conseguente riduzione della fertilità. In gravidanza è stato osservato un aumento del rischio di aborto e di complicanze materno-fetali. Nel sesso maschile si osserva calo della libido e ridotta motilità degli spermatozoi.

• Sistema respiratorio. Spesso si osserva dispnea, senso di oppressione retro sternale.• Sistema osteoarticolare. Si può riscontrare osteopenia fino all’osteoporosi con un incremento del ri-

schio di fratture vertebrali.

La sintomatologia dell’ipertiroidismo è caratterizzata da un’accelerazione del metabolismo con iperattività di tutti gli organi ed apparati che si manifesta con: nervosismo, ansia, agitazione, insonnia, tremori degli arti, tachicardia, tachipnea, intolleranza al caldo, iperidrosi, aumento dell’appetito, perdita di peso, astenia, alvo frequente e irregolare, alterazioni mestruali. Alcuni elementi del quadro clinico possono essere così evidenti da consentire facilmente una diagnosi clinica poi confermata dalle indagini di laboratorio (Tabella 18). In particolare il paziente si può presentare magro, nervoso, sudato, con fini tremori alle mani e tachicardico. Alla palpazione del collo, può essere riscontrato gozzo diffuso o nodulare e dolente o dolorabile in caso di tiroidite subacuta o acuta.

Tabella 18. Esame obiettivo nel paziente Ipertiroideo.

ESAME OBIETTIVO NEL PAZIENTE IPERTIROIDEO

• Nervosismo, agitazione, insonnia• Tremore degli arti• Tachicardia• Ipertensione arteriosa• Incremento della frequenza respiratoria• Intolleranza al caldo e sudorazione• Perdita di peso nonostante l’aumento di appetito• Stanchezza• Alvo irregolare con tendenza alla diarrea• Alterazioni mestruali

Diagnosi

La diagnosi di ipertiroidismo è spesso clinica in quanto le manifestazioni della malattia sono spesso partico-larmente suggestive. La conferma diagnostica avviene mediante il dosaggio del TSH e degli ormoni tirodei. Il TSH è sempre basso o del tutto indosabile nell’ipertiroidismo primario, nell’ipertiroidismo da produzione ectopica e in quello iatrogeno o factizio, mentre sarà elevato in caso di adenoma ipofisario TSH secernen-te (Tabella 19). Nell’ambito clinico laboratoristico distinguiamo una forma di ipertirodismo conclamata quando a riduzioni del TSH si associa un incremento degli ormoni tiroidei, da una forma conclamata in cui si verifica la sola riduzione del TSH in presenza di normali livelli delle forme libere degli ormoni tiroidei.

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Tabella 19. Diagnosi differenziale nell’ipertiroidismo.

IPERTIROIDISMO PRIMA-RIO (conclamato)

IPERTIROIDISMO CEN-TRALE

IPERTIROIDISMO SUBCLINICO

TSH ↓ ↑ ↓FT4 ↑ ↑ =

Nota: ↑: incremento; ↓: riduzione; =: normale

La valutazione degli anticorpi specifici, come anticorpi anti-recettore del TSH, AbTPO o AbTg permette di effettuare una diagnosi sulla natura dell’ipertirodismo. Più specifici del M. di Basedow sono gli anticorpi anti recettore del TSH (TRAb). Alla palpazione del collo, può essere riscontrato gozzo diffuso o nodulare e dolente o dolorabile in caso di tiroidite subacuta o acuta. L’ecografia tiroidea con color doppler permette di valutare la forma della ghiandola, la sua grandezza, l’eventuale presenza di noduli e la vascolarizzazione interna (Figura 8). La scintigrafia tiroidea con tecnezio (99mTc) o iodio (131I) radioattivi permette di eviden-ziare una tiroide diffusamente ipercaptante nel M. di Basedow e nell’Hashitossicosi da una ipercaptazione focalizzata nell’adenoma e nel gozzo nodulare tossico (Figura 9). Se l’ipertiroidismo è dovuto prevalente-mente al rilascio di ormoni pre-formati, come nel caso di una tiroidite subacuta, l’immagine della tiroide sarà debole o del tutto assente.

Figura 8. Ecografia tiroidea in paziente con ipertiroidismo.

Figura 9. Scintigrafia tiroidea in pz con Basedow (ipercaptazione diffusa).

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Morbo di Basedow

Il Morbo di Basedow, anche definito “gozzo tossico diffuso”, è una patologia autoimmunitaria della tiroide, causa più frequente di ipertiroidismo, che colpisce tutte le età ma prevalentemente i soggetti giovani tra la seconda e la quarta decade di vita, ed in particolare il sesso femminile (rapporto F:M 5:1). La malattia si può presentare oltre al quadro clinico tipico dell’ipertiroidismo, con gozzo diffuso, sintomi extra tiroidei come oftalmopatia (oftalmopatia basedowiana) e una tipica dermopatia localizzata alla zona anteriore delle gambe (mixedema pretibiale). La patogenesi del Morbo di Basedow è autoimmune. L’ipertiroidismo è la conseguenza di un’esagerata immissione in circolo di ormoni tiroidei da parte della ghiandola che viene ad essere sottratta dal fisiologico controllo dell’asse ipotalamo-ipofisi-tiroide per la presenza di anticorpi anti recettore del TSH. Tali anticorpi legano il recettore del TSH mimando l’azione del TSH endogeno e stimo-lano così l’eccessiva produzione di ormoni tiroidei e la crescita delle cellule tiroidee (determinando in tal modo la presenza di gozzo). Come tutte le malattie autoimmunitarie, il Morbo di Basedow ha una elevata familiarità e può associarsi ad altre malattie autoimmunitarie. La presenza di familiari con autoimmunità tiroidea, è infatti predisponente al Morbo di Basedow, anche se la malattia clinica può non manifestarsi mai o comparire in una fase tardiva della vita, in conseguenza di un fattore scatenante. L’andamento clinico non è costante ma caratterizzato da fasi di esacerbazione con vere crisi tireotossiche anche gravi, remis-sioni e recidive. Circa l’80% dei pazienti con Morbo di Basedow presenta un coinvolgimento dell’occhio e dei tessuti peri-oculari che può essere minimo presentandosi solo con lacrimazione e fotofobia, o essere accompagnato da edema dei tessuti peri-orbitari, irritazione congiuntivale, protrusione dei bulbi oculari (ptosi), ulcere corneali, ridotta motilità oculare, diplopia e stiramento del nervo ottico con riduzione del visus fino alla cecità. L’interessamento oculare nel Morbo di Basedow non è legato all’ipertiroidismo ma ha una patogenesi che risiede nell’autoimmunità propria di questa malattia (Figura 10 e Tabelle 20, 21).

Figura 10. Oftalmopatia Basedowiana.

Tabella 20. Clinica dell’Oftalmopatia Basedowiana.

• Grado 1: retrazione palpebrale• Grado 2: compressione dei tessuti molli per gonfiore delle palpebre e delle ghiandole lacrimali• Grado 3: esoftalmo

- Lieve - Moderato - Grave• Grado 4: compressione dei muscoli extraoculari • Grado 5: compressione della congiuntiva e della cornea• Grado 6: perdita del visus

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Tabella 21. Sintomatologia nell’Oftalmopatia Basedowiana.

• Semplice protrusione bulbo (estetica)• Congestione congiuntivale (arrossamento, sensazione corpo estraneo, lacrimazione)

• Chemosi, fotofobia• Oftalmoplegia con diplopia

• Lagoftalmo==>cheratiti • Incremento della pressione retrobulbare (stasi venosa, neurite ottica, atrofia ottica)

• Dislocazione del bulbo

Trattamento La terapia nel Morbo di Basedow si basa sul controllo dell’ipertiroidismo. La terapia può essere medica, chirurgica o radiometabolica. Il trattamento farmacologico rappresenta la prima scelta terapeutica e si basa sull’uso di farmaci antitiroidei (metimazolo e propiltoiuracile) che bloccano la produzione di ormoni tiroidei e in minor misura agiscono sulla risposta immunologica. Come terapia di supporto per i sintomi cardio-vascoalri (tachicardia e palpitazioni) può essere utile l’uso di farmaci beta-bloccanti. La terapia chirurgica con tiroidectomia sub-totale o totale, è indicata come prima scelta in pazienti con Morbo di Basedow che presentano un gozzo voluminoso o in pazienti che presentano importanti effetti collaterali ai farmaci anti-tiroidei, ipertiroidismo severo e persistente durante terapia farmacologica o fallimento della terapia medica.La terapia radio metabolica si basa sull’assunzione di una dose elevata di 131I che viene captata dalla tiroide con conseguente distruzione cellulare. È utile come seconda scelta nei pazienti con ipertiroidismo recidi-vante o persistente al trattamento medico o che non possono essere sottoposti ad intervento chirurgico. Il trattamento farmacologico dell’orbitopatia basedowiana si basa si basa sull’uso di cortisonici alte dosi in bolo endovenoso. Il fumo di sigaretta deve essere evitato e l’irritazione congiuntivale va trattata con l’utilizzo di occhiali da sole, lacrime artificiali e bendaggio notturno degli occhi. La proptosi e la diplopia possono essere trattati chirurgicamente con interventi di decompressione orbitaria.

Hashitossicosi

La tiroidite linfocitaria cronica (o tiroidite di Hashimoto) è la malattia tiroidea autoimmunitaria più frequente. Nella sua fase iniziale si può presentare con un lieve-moderato ipertiroidismo dovuto al rilascio di ormoni tiroidei in eccesso, indotto dal danno tissutale ad opera dell’infiltrato linfocitario. Questa fase chiamata “Ha-shitossicosi” è autolimitante e non dura più di 6 mesi. Nell’80% dei pazienti, sono presenti Ab-Tg e Ab-TPO anche a titolo molto elevato, il TSH è soppresso, gli ormoni tiroidei liberi (FT3 e FT4) sono normali o mode-ratamente aumentati. La scintigrafia eseguita con 99Tc evidenzia una bassa captazione tiroidea. L’ecografia evidenzia una ghiandola aumentata di volume in toto, con margini irregolari e diffusamente ipoecogena. È importante differenziarlo dal M. di Basedow in quanto in quest’ultimo è opportuno il trattamento con farmaci antitiroidei, mentre nell’Hashitossicosi questi farmaci sono inutili in quanto vengono rilasciati nel sangue solo ormoni già preformati senza che vi sia iperfunzione della ghiandola.

TrattamentoL’Hashitossicosi è una condizione di breve durata e in genere non necessita che una terapia sintomatica. Se il paziente avverte i sintomi dell’ipertiroidismo quali ansia-agitazione e tachicardia, è possibile un tratta-mento con benzodiazepine e betabloccanti, per ridurre la sintomatologia. Una volta esaurita la fase iniziale, l’ipertiroidismo lascia lo spazio ad un eutiroidismo che può durare anche molti anni prima che si instauri un ipotiroidismo definitivo.

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Tiroiditi infettive

La tiroidite subacuta (tiroidite di De Quervain o tiroidite granulomatosa) è una malattia infiammatoria dovu-ta ad una infezioni virale della tiroide. Numerosi sono i virus cui è imputabile questa condizione morbosa, tra i quali il virus coxackie, l’adenovirus e l’herpes virus. Spesso si presenta dopo un episodio febbrile o una infezione virale del cavo orale. È caratterizzata da dolore spontaneo o alla palpazione del collo, riflesso fino all’orecchio. I sintomi sono quelli tipici dell’ipertiroidismo. I valori ematici degli ormoni tiroidei possono esse-re molto alti, con TSH soppresso e elevati livelli di tireoglobulina, segno del processo distruttivo in corso. La scintigrafia tiroidea consente la diagnosi differenziale con le forme di ipertiroidismo primario da aumentata produzione di ormoni tiroidei, in quanto la captazione è totalmente assente. L’esame anatomopatologico rivela la presenza di macrofagi e cellule fagocitarie che con distruzione del parenchima tiroideo. La tiroidite acuta o suppurativa è una infezione batterica della tiroide. Tale condizione si può sviluppare nel corso di una sepsi, di un’endocardite infettiva acuta o per estensione locale di una faringite batterica. L’ascesso tiroideo si associa a dolore, gonfiore, calore e rossore della cute sovrastante, febbre, incremento della VES e della PCR.

TerapiaIl trattamento della tiroidite di De Quervain è basato sulla somministrazione di farmaci anti-infiammatori non steroidei (aspirina, paracetamolo) e nei casi con maggior dolore alla somministrazione di glucocor-ticoidi a dosi elevate (prednisone 60 mg/die) per diverse settimane. Generalmente, la malattia guarisce spontaneamente nell’arco di settimane o mesi senza lasciare reliquati. In meno del 10% dei pazienti, la distruzione della ghiandola è così ampia da residuare un ipotiroidismo permanente. Il trattamento della tiroidite acuta è farmacologico con gli opportuni antibiotici. L’aspirazione dell’ascesso ed eventualmente il suo drenaggio si rende talora necessaria nei processi infettivi resistenti per poter identificare il patogeno ed eseguire un test di resistenza antibiotica.

Adenoma tossico e gozzo multinodulare tossico

L’adenoma Tossico o Morbo di Plummer è una forma di ipertiroidismo dovuta alla presenza di un solo nodulo tiroideo iperfunzionante. Il paziente presenta tutti i sintomi dell’ipertiroidismo, con valori di FT3 e FT4 francamente superiori alla norma e TSH soppresso. L’ecografia evidenzierà la presenza di un nodulo generalmente ipoecogeno a margini ben definiti. La scintigrafia è dirimente in quanto identifica il nodulo tossico come un’area ipercaptante (nodulo caldo) nel contesto di una ghiandola con captazione assente (Figura 11). Spesso l’adenoma tossico rimane misconosciuto finché non compaiono evidenti i sintomi dell’ipertiroidismo. Nell’anziano la fibrillazione atriale può essere il primo ed unico segno di un ipertiroidi-smo misconosciuto per lungo tempo.

Figura 11. Scintigrafia nel Gozzo multinodulare.

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nodulo

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Il gozzo multinodulare tossico generalmente compare in pazienti anziani portatori di un gozzo multinodu-lare da molti anni. Con il progredire dell’età uno o più noduli di vecchia data diventano iperfunzionanti, per cause non conosciute o per effetto della somministrazione di farmaci o sostanze con alto contenuto di iodio quali mezzi di contrasto iodati, amiodarone o disinfettanti a base di iodio. Il quadro clinico è sovrappo-nibile a quello descritto per l’adenoma tossico. La presenza di fenomeni compressivi sulla trachea è dovuta alla presenza di un gozzo voluminoso che può anche avere estrinsecazione retro sternale.

TrattamentoIl trattamento dell’adenoma tossico e del gozzo multinodulare tossico è inizialmente basato sui farmaci antitiroidei (metimazolo e propiltouracile) per la normalizzazione degli ormoni tiroidei circolanti. Questa te-rapia però non è definitiva e deve quindi essere usata in prima di una terapia chirurgica o radio metabolica. La terapia radio metabolica è indicata per gozzi multi o uni-nodulari di dimensioni contenute. Se il gozzo è eccessivamente voluminoso, la quantità di iodio radioattivo richiesto per una completa eradicazione può essere eccessiva e sconsigliata per gli effetti post-attinici locali. In caso di gozzo multi nodulare con noduli ipocaptanti sospetti, è opportuno praticare un esame citologico per escludere la malignità. L’ablazione termica transcutanea con laser o radiofrequenza è un’interessante pratica ancora oggetto di studio ma con ottime prospettive per casi selezionati.

IPOTIROIDISMOSerena Ippolito, Carmela Peirce, Debora Arpaia, Bernadette Biondi

Definizione e classificazione

L’ipotiroidismo è una condizione clinica caratterizzata da una insufficiente produzione degli ormoni tiroidei che determina un rallentamento di tutti i processi metabolici. Da un punto di vista eziologico si possono identificare tre forme di ipotiroidismo: primario, da insufficienza della ghiandola tiroidea, secondario, causa-to da deficit di TSH e periferico, da resistenza generalizzata agli ormoni tiroidei. Inoltre, a seconda dell’epoca di insorgenza, si distinguono l’ipotiroidismo congenito, presente già alla nascita, o acquisito, se compare successivamente.

Epidemiologia

La prevalenza dell’ipotiroidismo nella popolazione generale è dell’1-3% e si manifesta principalmente nel sesso femminile con un rapporto M/F di 1/5 nelle aree di carenza iodica.

Eziopatogenesi

Cause di ipotiroidismo acquisito: La carenza di iodio è la causa più comune nel mondo di ipotiroidismo associato a gozzo. Interessa circa 2 miliardi di persone nel mondo. L’utilizzo di alimenti con supplementazione iodica ha ridotto notevolmente la prevalenza di questa forma di ipotiroidismo. La tiroidite di Hashimoto è la causa più frequente di ipo-tiroidismo nelle aree con sufficiente apporto di iodio ed è caratterizzata dalla distruzione del parenchima tiroideo su base autoimmune. Altre cause di ipotirodismo sono rappresentate dalla chirurgia tiroidea (tiroi-dectomia totale o subtotale) o da somministrazione di radioiodio (per il trattamento del morbo di Base-dow o del gozzo nodulare tossico) e da terapia radiante esterna nella zona del collo per il trattamento di malattie maligne. In seguito a tiroidectomia l’ipotiroidismo può insorgere entro i primi giorni, data la breve emivita della T4 in circolo, mentre gli effetti della radioterapia sul tessuto tiroideo sono dose dipendenti e presentano un periodo di latenza più lungo. Farmaci che interferiscono con la funzione tiroidea possono determinare ipotiroidismo transitorio o permanete, tra essi ricordiamo il metimazolo e il propiltiouracile che sono indicati per il trattamento dell’ipertiroidismo e l’amiodarone (efficace agente antiaritmico che contiene elevate quantità di iodio), l’interferone, il carbonato di litio, gli inibitori delle tirosino chinasi.

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Le malattie infiltrative, come la tiroiditite fibrosa (tiroidite di Riedel), l’emocromatosi, la sclerodermia, la leucemia e la cistinosi, sono rare cause di ipotiroidismo. La tiroidite subacuta e la tiroidite silente anche se caratterizzate da una fase di ipertiroidismo transitorio, di solito possono determinare un ipotiroidismo persistente (Tabella 22).

Tabella 22. Eziologia dell’ipotiroidismo acquisito dell’adulto.

Forme primitive Forme centrali (secondarie/terziarie)

Forme da resistenza alle iodotironine

Acquisito

• Autoimmune

Tiroidite di Hashimoto

• Iatrogena

Post-chirurgico

• Terapia con radioiodio

Processi infiamm./degenerativi

Tiroidite subacuta, di Riedel

• Da ridotta funzione Carenza iodica

Farmaci

Gozzigeni naturali

Interferenti ambientali

Secondario (di origine ipofisaria) Panipopituitarimo Deficit isolato di TSH

Terziario (di origine ipotalamica) Deficit ipotalamico di TRH

Generalizzata ipofisaria(Sindrome di Refetoff)

Aspetti clinici

L’esordio clinico dell’ipotiroidismo conclamato dell’adulto è generalmente subdolo e sfumato con un’evo-luzione lenta verso una sindrome clinicamente evidente. I segni e i sintomi clinici in relazione al grado del deficit ormonale e alla rapidità con cui tale deficit si sviluppa più che dalla causa dell’ipotiroidismo stesso. Il paziente ipotiroideo si presenta generalmente con il volto edematoso, le rime palpebrali più strette del normale per l’edema delle palpebre, naso slargato e labbra ingrossate (Figura 12). La voce è rauca per l’ispessimento delle corde vocali. I sintomi più frequenti sono l’astenia, l’adinamia, la sonnolenza, l’aumento ponderale, la depressione e l’intolleranza al freddo (Figura 13).

Figura 12. Facies del paziente ipotiroideo.

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Tutti gli apparati sono interessati da un generale rallentamento delle funzioni.

• Cute e annessi. La cute infiltrata con glicosamminoglicani ed edematosa diventa ruvida, squamosa, ispessita e fredda per effetto della vasocostrizione cutanea e per la riduzione dei processi metabolici sistemici indotti dagli ormoni tiroidei. Capelli e peli cutanei risultano secchi e sottili, le unghie fragili con solchi e striature longitudinali.

• Sistema cardiovascolare. Gli effetti dell’ipotiroidismo a livello cardiovascolare sono importanti e sono presenti anche nell’ipotiroidismo subclinico. Si ha bradicardia con riduzione della gittata cardiaca e di-minuzione della tolleranza all’esercizio fisico. Nelle forme più severe può essere presente versamento pericardico e conseguente riduzione dei voltaggi all’esame ECG. Si può, inoltre, riscontrare ipertensione arteriosa diastolica per un incremento delle resistenze vascolari periferiche e disfunzione diastolica.

• Sistema nervoso e neuromuscolare. Si riscontrano apatia, torpore psichico con facile irritabilità e con suscettibilità ai turbamenti emotivi, lentezza della parola e dei movimenti. Il paziente mostra un’accen-tuata sonnolenza perdita della memoria e della capacità di attenzione e difficoltà nella concentrazione. Nelle forme severe di ipotiroidismo, allo stato di sonnolenza e di torpidità può subentrare una fase pre-comatosa, con grave disorientamento, talora con delirio ed accessi convulsivi, fino ad un vero e proprio stato comatoso, con ipotermia ed ipotensione.

• Sistema gastrointestinale. Il deficit degli ormoni tiroidei comporta rallentamento della motilità intestina-le che si manifesta con stipsi, da lieve a ostinata fino al quadro dell’ileo paralitico e della sub occlusione. Inoltre può essere presente l’anoressia, come conseguenza di una ridotta necessità di cibo.

• Sistema riproduttivo. Nella donna in età fertile ipotiroidea è comune la polimenorrea, ma frequenti sono anche l’amenorrea e l’anovulazione con conseguente riduzione della fertilità. In gravidanza è stato osservato un aumento del rischio di aborto e di complicanze materno-fetali per cui, una volta posta dia-gnosi di ipotiroidismo in gravidanza si rende necessaria la pronta terapia sostitutiva con ormoni tiroidei. In entrambi i sessi calo è stato descritto calo della libido e nell’uomo si può osservare impotenza ed infertilità.

• Sistema endocrino-metabolico. L’ipotiroidismo si associa ad incremento della prolattina, secondario ad un aumento della secrezione di TRH, con conseguente galattorrea nella donna e riduzione della libido nell’uomo. Vi è una riduzione della secrezione degli steroidi surrenalici, senza però che si verifichi il quadro dell’insufficienza surrenalica. Dal punto di vista metabolico si ha riduzione della produzione di calore e del metabolismo basale con conseguente incremento ponderale e ridotta tolleranza al freddo.

• Funzione renale. Si verifica una riduzione della filtrazione glomerulare e dell’escrezione urinaria con conseguente ritenzione di liquidi ed aumento dell’acqua corporea totale soprattutto a livello interstiziale.

• Sistema respiratorio. Si ha una riduzione della capacità ventilatoria per debolezza dei muscoli respiratori e talvolta si possono avere apnee notturne, dovute alla macroglossia.

Figura 13. Segni e sintomi dell’ipotiroidismo.

SEGNI E SINTOMI DIIPOTIROIDISMO

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• Sistema scheletrico. Durante l’infanzia l’ipotiroidismo può provocare ritardo di crescita staturale e quindi nanismo disarmonico. Nell’età adulta si possono osservare versamenti articolari accompagnati da sin-tomatologia dolorosa.

• Sistema ematologico. Si osserva soprattutto anemia normocromica normocitica dovuta al rallentamen-to della maturazione midollare degli eritrociti.

Diagnosi La diagnosi di ipotiroidismo si basa sul sospetto clinico, confermato dagli esami di laboratorio. Da un punto di vista clinico-laboratoristico si possono distinguere: ipotiroidismo subclinico, caratterizzato da un isolato incremento del TSH in presenza di normali valori delle forme libere degli ormoni tiroidei (FT3 ed FT4) con sintomatologia sfumata o assente ed ipotiroidismo conclamato, caratterizzato da un’elevata concentrazione di TSH in presenza di bassi livelli di FT3 e FT4 con chiari segni e sintomi di ipotiroidismo (Tabella 23). La positività degli anticorpi anti Tireoglobulina (AbTg) e anti Tireoperossidasi (AbTPO) è diagnostica di Ti-roidite di Hashimoto. L’aumento del TSH è l’indice più sensibile e specifico per la diagnosi di ipotiroidismo subclinico. L’ipotiroidismo può essere accompagnato da altre alterazioni laboratoristiche quali: aumento del colesterolo e dei trigliceridi, aumentati livelli di creatinfosfochinasi e riscontro di anemia. L’ecografia tiroidea consente di valutare la morfologia, le dimensioni e l’eventuale presenza di noduli tiroidei.

Tabella 23. Diagnosi differenziale nell’ipotiroidismo.

IPOTIROIDISMO PRIMARIO (conclamato)

IPOTIROIDISMO CENTRALE

IPOTIROIDISMO SUBCLINICO

RESISTENZA AGLI ORMONI TIROIDEI

TSH ↑ ↓ ↑ ↑FT4 ↓ ↓ = ↑

Nota: ↑: incremento; ↓: riduzione; =: normale

Ipotiroidismo centraleL’ipotiroidismo centrale raramente è dovuto ad un deficit isolato di TSH mentre più frequentemente fa parte di un quadro di deficit ipofisario multiplo (post-chirurgico, da macroadenoma ipofisario con compressione dell’ipofisi, apoplessia ipofisaria). Il quadro clinico è simile a quello dell’ipotiroidismo primitivo ma general-mente di lieve entità. La diagnosi si basa sul riscontro di bassi livelli di FT4 e livelli inappropriatamente bassi di TSH, accompagnati talora a deficit delle altre tropine ipofisarie.

Ipotiroidismo subclinicoL’ipotiroidismo subclinico è una forma di ipotiroidismo caratterizzata da incremento del TSH con forme libere degli ormoni tiroidei (FT3 ed FT4) nel range della normalità. L’ipotiroidismo subclinico riconosce le stesse cause della forma conclamata presentandosi come asintomatico o con pochi sintomi spesso sfu-mati. Può progredire verso una forma di ipotiroidismo conclamato o essere reversibile, con una normaliz-zazione spontanea dei valori di TSH. Le manifestazioni cliniche, quando presenti comprendono secchezza cutanea, astenia, intolleranza al freddo, stipsi, edema palpebrale. Al di là di un quadro clinico che si presenta molto frequentemente sfumato, è stata riscontrata in molti studi l’associazione tra l’ipotiroidismo subclinico e un aumento di morbidità e mortalità cardiovascolare. È fondamentale quindi riconoscere quelle forme di ipotiroidismo subclinico con TSH persistentemente elevato per intraprendere, ove necessario, un’adeguata terapia sostitutiva.

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Ipotiroidismo congenitoL’ipotiroidismo congenito è una forma di ipotiroidismo presente sin dalla nascita e che, se non diagnosticato e trattato tempestivamente può determinare grave ritardo dello sviluppo psicofisico del bambino. L’intro-duzione dello screening neonatale per l’ipotiroidismo congenito ha permesso di effettuare una diagnosi precoce di malattia per cui le manifestazioni conclamate di malattia risultano di rara osservazione. L’ipotiroi-dismo congenito può essere causato da disordini dello sviluppo della tiroide durante la vita fetale: ectopia totale o parziale, agenesia (completa assenza della ghiandola) e disgenesie (anomalo sviluppo ghiandola-re) o, meno frequentemente, da difetti dell’ormonogenesi che possono interessare ciascuna tappa della sintesi dell’ormone tiroideo (dalla captazione ed organificazione dello iodio alla condensazione ossidativa delle iodotirosine DIT e MIT in T3 e T4) (Tabella 24). Altre cause possono essere: il deficit di iodio per inadeguato introito dietetico da parte della madre o il passaggio transplacentare di anticorpi bloccanti il recettore del TSH, l’assunzione di farmaci antitiroidei dalla madre durante la gravidanza.

Tabella 24. Eziologia dell’ipotiroidismo congenito.

A) Disgenesia Agenesia Ectopia Ipoplasia

B) Disormonogenesi 1. Da difetti del trasportatore dello iodio (NIS) 2. Da difetti della tireoperossidasi (TPO) 3. Da difetti di altri enzimi coinvolti nella sintesi di H2O2 a. DUOX1 e DUOX2 b. DUOXA2 c. Sindrome di Pendred (PDS) 4. Da difetti nella tireoglobulina (TG) 5. Da alterazioni nel sistema di recupero dello iodio (DHEAL1) 6. Mutazioni nel recettore del TSH.

I sintomi precoci della malattia si presentano già dalle prime settimane di vita sono caratterizzati da difficoltà alla suzione, ittero prolungato, basso peso alla nascita, mancato incremento ponderale, ipotermia, cute fred-da, letargia, stipsi, macroglossia e pianto rauco. Dal terzo mese di vita il quadro clinico è caratterizzato da stato di torpore, cute fredda, secca, ruvida, tumida ed infiltrata (mixedema) con cianosi all’estremità distali, ernia ombelicale, stipsi. Le turbe dell’accrescimento si delineano più nette dopo il sesto mese di vita ed è a partire dal primo anno di età che appaiono ormai evidenti i ritardi dello sviluppo somatico-scheletrico e nervoso. Il difetto di crescita staturale si accompagna alla persistenza di caratteristiche morfologiche e bio-metriche infantili. La testa è grossa con cranio brachicefalo, il tronco è tozzo con prevalenza del segmento addominale su quello toracico. I quadri di deficit psicointellettivi appaiono tanto più gravi quanto più pre-coce è l’epoca di comparsa della carenza di ormoni tiroidei e quanto più tardiva o inadeguata e discontinua è l’instaurazione della terapia sostitutiva (Figura 14).

Figura 14. Bambino con ipotiroidismo congenito.La diagnosi di ipotirodismo congenito è ormai precoce grazie allo screening neonatale che consiste nella

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misurazione al 3°-5° di vita dei valori di TSH e di T4 su campioni raccolti su carta da filtro. Per la conferma è necessaria comunque la rideterminazione su siero dei valori di TSH, FT3 ed FT4. La scintigrafia può essere eseguita più tardivamente e riveste un ruolo importante nella localizzazione di eventuali ectopie tiroidee e in caso di agenesia. Il dosaggio della tireoglobulina permette di distinguere le forme causate da agenesia (in cui la tireoglobulina è assente) da quelle da ectopia o da difetti dell’ormonogenesi.

Cenni di terapia

La terapia dell’ipotiroidismo è medica, basata sulla somministrazione di ormoni tiroidei ed ha come obiet-tivo il ripristino dello stato di eutiroidismo. Il farmaco di scelta è rappresentato dalla L-Tiroxina (L-T4), in un’unica somministrazione giornaliera, al mattino, a digiuno, posticipando l’assunzione di cibi liquidi e solidi (compreso il caffè) e di altri farmaci di almeno un’ora. La correzione dell’ipotiroidismo con L-T4 deve tene-re conto di determinati fattori come: età del paziente, peso, entità e durata dell’ipotiroidismo, presenza o meno di malattie concomitanti (ad es. coronaropatia) (Tabella 25).

Tabella 25. Condizioni che possono richiedere modifiche al dosaggio della tiroxina.

Aumento della dose Riduzione della dose

Ridotto assorbimento intestinale 1. Malassorbimenti (celiachia, sindrome dell’intestino corto) 2. Assunzione di fibre vegetali, alimenti contenenti soia 3. Farmaci a. Agenti ipocolesterolemizzanti (colestipol, colestiramina) b. Sucralfato c. Idrossido di alluminio d. Solfato ferroso e. Inibitori della secrezione acida e della pompa di H

Ridotto fabbisogno di T4

1. Calo ponderale 2. AndrogeniRidotta clearance di T4

1. Età avanzata

Aumentato fabbisogno di T4

1. Aumento di peso 2. Gravidanza

Aumentata clearance di T4

1. Fenobarbital 2. Fenitoina 3. Carbamazepina 4. Rifampicina

Situazioni non ancora completamente definite 1. Amiodarone 2. Sertalina 3. Clorochina

Ipotiroidismo conclamato dell’adultoPer il ripristino dell’eutiroidismo generalmente è sufficiente una dose giornaliera di L-T4 di 1.2-1.7 µg/kg di peso corporeo. La dose di L-T4 può essere influenzata sia dalla patogenesi dell’ipotiroidismo (dosi maggiori sono necessarie in pazienti con tiroidite atrofica o rimozione chirurgica totale della tiroide) che da numerose altre condizioni. Il controllo dell’efficacia della terapia nel ripristino della funzionalità tiroidea può essere effettuato dopo circa 8 settimane dall’inizio del trattamento, ma è preferibile un’attesa di 3-4 mesi, per permettere al TSH di raggiungere il completo equilibrio. Una volta raggiunto il dosaggio sostitutivo, è necessario monitorare il paziente periodicamente (ogni 6-12 mesi). La terapia sostitutiva dell’ipotiroidismo va generalmente continuata per tutta la vita del paziente.

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Ipotiroidismo subclinicoIl trattamento dell’ipotiroidismo subclinico consiste nella somministrazione di L-tiroxina a modalità simili ri-spetto a quelle utilizzate nell’ipotiroidismo conclamato, sebbene in genere sono necessarie dosi di L-tiroxina leggermente più basse per riportare i valori di TSH nei limiti della norma. Ad oggi la terapia nell’ipotiroidi-smo subclinico è sempre inìdicata quando i valori del TSH sono maggiori di 10 U/mL, mentre la terapia nel-le forme di ipotirodismo Subclincio con TSH compreso tra 4.5-10 rimane ancora controversa, nonostante in letteratura siano sempre maggiori le evidenze di un beneficio terapeutico per questa classe di pazienti.

Ipotiroidismo dell’anzianoA causa della progressiva riduzione delle concentrazioni di FT3 ed FT4 che si verificano con l’avanzare dell’età, nei soggetti anziani il trattamento sostitutivo richiede una particolare cautela. In genere le dosi di L-tiroxina sono più basse di circa il 10% rispetto di quelle necessarie nel soggetto adulto, e gli incrementi iniziali del dosaggio devono essere effettuati con particolare cautela, con dosi di 25 µg/die da aumentare progressivamente di 12.5-25 µg in base alle concentrazioni del TSH. Infatti, i pazienti anziani sono più soggetti ai disturbi cardiaci, incluso l’infarto del miocardio.

Ipotiroidismo neonataleNei neonati affetti da ipotiroidismo congenito è necessario iniziare quanto più precocemente la terapia sostitutiva con L-tiroxina al fine di evitare le complicanze neurologiche dell’ipotiroidismo. Le dosi di tiroxina sono significativamente più alte rispetto ai soggetti adulti: attualmente si considera appropriata la sommini-strazione di 8-10 µg/kg di peso corporeo/die.

Ipotiroidismo in gravidanzaL’ipotiroidismo influisce in maniera importante sulla gravidanza, può infatti determinare infertilità, aumento dell’aborto spontaneo ed aumento della natimortalità, inoltre sono stati riportati significativi deficit intellettivi nella progenie di gravide con ipotiroidismo anche subclinico. Il riscontro di ipotiroidismo in gravidanza deve pertanto essere immediatamente seguito dal trattamento con L-tiroxina a dose sostitutiva.Nelle pazienti ipotiroidee già in trattamento, è opportuno aumentare il dosaggio di L-Tiroxina per aumento di peso legato alla gravidanza, aumento delle concentrazioni di Thyroid Binding Globulin (TBG), aumento dell’attività desiodasica placentare e maggiore clearance renale degli ormoni tiroidei. In genere l’aumento dovrebbe essere del 10-25% rispetto alle dosi utilizzate nel periodo pre-gravidico.In gravidanza ed in particolare nel primo trimestre, i valori di TSH tendono ad essere leggermente più bassi (TSH<2.5 U/mL), per tale motivo è opportuno ottimizzare il dosaggio in modo da determinare una norma-lizzazione delle concentrazioni di TSH, con valori di FT4 nel terzo superiore della norma.

Ipotiroidismo di origine centraleLa L-tiroxina rappresenta il farmaco di scelta, agli stessi dosaggi utilizzati nelle forme di ipotiroidismo primiti-vo. Estremamente importante è però in questi casi escludere l’associazione con l’ipocorticosurrenalismo da deficit di ACTH, in quanto in questi casi è assolutamente necessario iniziare la terapia sostitutiva steroidea prima di quella con L-tiroxina.

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GLI ULTIMI ORIENTAMENTI ED INDIRIZZI DIAGNOSTICI E TERAPEUTICI NELL’OSTEOPOROSISerena Ippolito, Carmela Peirce, Debora Arpaia, Bernadette Biondi

Definizione

L’osteoporosi è un disordine scheletrico caratterizzato da una ridotta massa ossea, deterioramento e distru-zione dell’architettura ossea che predispongono ad un aumentato rischio di frattura (Figura 15).

Figura 15. Architettura ossea normale e con osteoporosi.

Sono considerate “primitive” le forme di osteoporosi che compaiono nelle donne in post-menopausa ed in entrambi sessi con l’avanzare dell’età. Il termine di osteoporosi secondarie, invece si riferisce a quelle forme causate da malattie cliniche specifiche o dall’utilizzo di farmaci (Tabella 26). Il riconoscimento delle forme di osteoporosi secondaria è di estrema importanza, poiché esse, se correttamente diagnosticate e trattate con una terapia eziologica, sono, nella maggior parte dei casi, reversibili.

Tabella 26. Cause di osteoporosi secondarie.

FarmaciCortisonici, immunosoppressori, inibitori dell’aromatasi, anti-androgeni, tiroxina a dosaggio TSH-soppres-sivo, tiazolinedioni, antidepressivi (inibitori del reuptake della serotonina), antiepilettici, eparina, anticoa-gulanti orali, diuretici dell’ansa, inibitori di pompa protonica, antiretrovirali.Malattie EndocrineIpertiroidismo, ipercortisolismo, iperparatiroidismo primitivo, ipogonadismo, diabete mellito, iperprolatti-nemia, ipopituitarismo, acromegalia.Malattie non endocrineArtrite reumatoide, LES, polimialgia reumatica, BPCO, malattie infiammatorie croniche intestinali (M. di Crohn, RCU), celiachia, cirrosi epatica, insufficienza renale cronica, mieloma multiplo, malattie mielopro-liferative, osteogenesis imperfecta, omocistinuria, S. Marfan, sarcoidosi, emoglobinopatie, malnutrizione.

L’incidenza di osteoporosi aumenta con l’aumentare dell’età sino ad interessare la maggior parte della popolazione oltre l’ottava decade d’età. L’aumento del rischio di osteoporosi è parallelo all’incidenza del rischio di fratture. Le fratture osteoporotiche hanno importanti implicazioni socio-economiche rappresen-tando nell’anziano una delle maggiori cause di mortalità.

Osso normale Osso conosteoporosi

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Eziologia e patogenesi

Fattori genetici, fattori ambientali ed ormonali intervengono nella patogenesi dell’osteoporosi primaria (Tabella 27). L’osteoporosi in età post-menopausale e senile è in parte il risultato dell’azione di fattori genetici ed ambientali che hanno agito molto prima della comparsa della malattia. Infatti, la massa ossea del soggetto adulto è il risultato di un processo dinamico che inizia nei primi anni di vita con l’acquisizione di osso mineralizzato, che raggiunge il suo acme con un picco di massa ossea ad un’età variabile tra i 15 e 30 anni, e continua con una successiva fase di mantenimento e quindi di lieve fisiologica perdita di massa ossea. I fattori genetici svolgono un ruolo centrale nel determinare il picco di massa ossea in ciascun soggetto. Ai fattori genetici si aggiungono fattori acquisiti (ridotta assunzione di calcio, ridotta attività fisica, abuso di alcolici, fumo di sigarette, basso peso corporeo) che contribuiscono a determinare una ridotta massa ossea in età adulta. Infine, un ruolo importante è svolto anche da fattori ormonali che agiscono modulando il riassorbimento osseo e la neoformazione ossea e regolando la quantità di minerale (in particolare il calcio) disponibile per la mineralizzazione ossea. Nell’osteoporosi post-menopausale la perdita della funzione gonadica svolge un ruolo patogenetico centrale che però va considerato nell’ambito di un background individuale genetico ed acquisito che ha determinato la massa ossea in età adulta. La privazione degli estrogeni favorisce uno sbilanciamento del rimodellamento osseo a favore del riassorbimento. Con l’andare avanti degli anni, oltre alla carenza estrogenica, si osservano altre alterazioni endocrine, quali la ridotta produzione di GH e IGF-I, un aumento della secrezione di PTH, che contribuiscono alla progressiva perdita di massa ossea e alla comparsa di osteoporosi in età senile. Il tutto diventa più evidente se a questi fattori endogeni si somma l’effetto di farmaci o malattie specifiche responsabili di osteoporosi secondarie. In queste condizioni, in genere si osserva una significativa alterazione del rimodellamento osseo con prevalente inibizione della neoformazione ossea (per esempio nell’osteoporosi da glucocorticoidi) o prevalente aumento del riassorbimento osseo (ad esempio nell’iperparatiroidismo primitivo o nell’ipertiroidismo).

Tabella 27. Fattori di rischio per osteoporosi.• Età• Sesso femminile • Menopause prematura• Etnia caucasica e asiatica• Amenorrea primaria o secondaria • Ipogonadismo • Nulliparità• Anoressia nervosa e bulimia• Bassa densità minerale ossea (BMD) • Trattamento cortisonico• Elevato turnover osseo• Familiarità per frattura di femore• Scarsa acuità visiva• Basso peso corporeo• Malattie neuromuscolari• Fumo di sigaretta• Eccessivo consumo di alcoolici• Immobilizzazione protratta• Basso apporto di calcio

Aspetti clinici e diagnosticiL’osteoporosi non causa sintomi, se non dopo la comparsa di fratture ossee. Pertanto, la diagnosi di oste-oporosi è strumentale, basata sulla misurazione della massa ossea in termini di Bone Mineral Density (BMD). La BMD può essere misurata con varie tecniche densitometriche, di cui la tecnica radiologica a doppio raggio X (tecnica DXA), è considerata di elezione e rappresenta il miglior predittore del rischio di

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fratture osteoporotiche. I siti utilizzati per la misurazione sono la colonna vertebrale lombare (L1-L4), l’anca (collo femore o femore prossimale totale) e solo in casi particolari (come nell’iperparatiroidismo primitivo) l’avambraccio. La misurazione della BMD a livello lombare è particolarmente utile nelle donne in post-me-nopausa in quanto la perdita ossea in tale età interessa soprattutto l’osso trabecolare del quale sono ricche le vertebre. In età più avanzata si preferisce misurare la BMD a livello femorale, sia perché è l’osso corticale (predominante a tale livello) ad essere interessato maggiormente a tale età e sia perché la misurazione DXA della BMD lombare può essere inficiata dalla presenza di processi artrosici e da alterazioni strutturali della colonna che si osservano frequentemente in età senile. Il risultato dell’esame DXA è espresso in T-score e Z-score. Il T-score rappresenta la misura di quanto il valore di BMD del paziente si discosta dalla media della popolazione adulta di pari sesso al picco di massa ossea (cioè intorno ai 30 anni). I soggetti con BMD normale hanno un T-score compreso tra + 2.5 e -1.0 SD. I pazienti osteoporotici hanno invece un T-score uguale o inferiore a –2.5 SD; in presenza di T-score inferiore o uguale a –2.5 SD, associato ad una o più fratture da fragilità, si parla di osteoporosi conclamata. Quando i valori di T-score sono compresi tra –1.0 e –2.5, si parla di osteopenia (Tabella 28, Figura 16).

Tabella 28. Classificazione.

Classificazione T-Score

Normale Superiore a -1

Osteopenia tra -1 e -2.5

Osteoporosi Minore uguale a -2.5

Figura 16. MOC DEXA femorale e lombare.

La BMD di un soggetto viene anche espressa con lo Z-score che rappresenta la misura di quanto il valore di BMD si discosta dalla media della popolazione di pari sesso ed età. Tale valore può risultare utile in alcune condizioni cliniche, come per esempio nei soggetti giovani, di età inferiore ai 30 anni nei quali non si è raggiunto ancora il picco di massa ossea, nelle donne in premenopausa, negli uomini sotto i 50 anni. Negli ultimi anni si sono diffuse metodiche ultrasonometriche (QUS) di misurazione indiretta di massa ed integrità ossea misurata prevalentemente in due siti, falangi e calcagno. Queste metodiche sono vantag-giose per la semplicità di esecuzione e per il non utilizzo di radiazioni ionizzanti, ma non possono essere utilizzate per la diagnosi dell’osteoporosi secondo i criteri dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. In tutti in soggetti con valori di BMD che si discostano dai limiti di normalità è indicato eseguire esami biochimici di primo livello (calcemia, fosforemia, fosfatasi alcalina, calciuria 24 ore, emocromo, gamma-GT, transaminasi, creatininemia, quadro proteico elettroforetico, 25-OHvitamina D, VES) che consento di esclu-dere cause frequenti di osteoporosi secondaria non evidenziate dall’anamnesi e di indirizzare l’eventuale trattamento anti-osteoporotico. Un altro step diagnostico importante è l’identificazione delle fratture ver-tebrali da fragilità mediante esecuzione di radiografia del rachide dorso-lombare in doppia proiezione e successiva valutazione della morfometria vertebrale che consiste nella misurazione dell’altezza dei corpi vertebrali dei metameri dorsali (da T5 a T12) e lombari (da L1 a L4). Si definisce deformata o fratturata una vertebra quando una delle tre altezze del corpo vertebrale è ridotta di almeno il 20% rispetto alle vertebre

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adiacenti non fratturate. L’analisi morfometrica permette anche di graduare la deformità vertebrale in lieve (deformità compresa tra il 20 e 25%), moderata (25-40%) e severa (> 40%). Va ricordato che esistono fratture vertebrali subcliniche, asintomatiche, che vengono individuate solo mediante radiografia del rachi-de, che possono predisporre al altre fratture con un meccanismo conosciuto come “effetto domino”. Le fratture e loro complicanze rappresentano la conseguenza clinica dell’osteoporosi. Le fratture più comuni si verificano a livello vertebrale, femore prossimale e polso, tuttavia la maggior parte delle fratture negli adulti sono da imputare almeno in parte a bassa massa ossea, anche quelle che si verificano dopo traumi maggiori. Le fratture possono esitare in guarigione completa o in dolore cronico, disabilità e morte. Possono inoltre causare sintomi psicosociali quali depressione e diminuzione dell’auto-stima di fronte al dolore, alla limitazione funzionale, ai cambiamenti nello stile di vita e al peggioramento della forma fisica. La comparsa di fratture si manifesta con dolore che può presentarsi come acuto o lento e progressivo. Le fratture del polso e del femore sono sempre sintomatiche e caratterizzate da dolore acuto. Circa il 20% dei pazienti con frattura d’anca necessita di assistenza infermieristica a lungo termine e solo il 40% ritorna ai livelli di autonomia posseduti in precedenza. Le fratture vertebrali sono spesso silenti e si manifestano con dolore cronico, gravativo e persistente determinando soprattutto deformità della colonna vertebrale con cifosi e riduzione di altezza dei pazienti eventuali malattie polmonari restrittive (vertebre to-raciche) e variazioni dell’anatomia addominale con stipsi, dolore e tensione addominale, calo dell’appetito e senso di sazietà precoce (vertebre lombari) (Figura 17).

Figura 17. Alterazioni vertebrali nell’osteoporosi.

Cenni di terapia

Il trattamento dell’osteoporosi deve avere come obiettivo finale quello di ridurre il rischio di fratture. Prima ancora di utilizzare farmaci in grado di aumentare la massa e la resistenza ossea, è importante identificare e correggere, se possibile, le cause di osteoporosi secondarie (per questo è quindi importante un corretto approccio diagnostico). Allo stesso modo è necessario correggere abitudini di vita, quali il fumo di sigarette, l’abuso di alcool e la sedentarietà incrementando l’esercizio fisico per mantenere una buona tonicità mu-scolare e una corretta coordinazione dei movimenti. è necessario incrementare l’apporto di calcio con la dieta consigliando l’assunzione giornaliera di almeno 1.000 mg di calcio ed avere un’adeguata esposizione al sole per favorire la produzione di vitamina D. Una prevenzione delle fratture non può prescindere da una prevenzione della cadute. Quest’ultimo aspetto è particolarmente importante per i soggetti anziani nei quali il rischio di cadute è aumentato a causa di alterazioni della deambulazione legate all’età e di disordini neu-rologici o ortopedici o per l’assunzione di farmaci in grado di ridurre lo stato di vigilanza. Per soggetti con difficoltà nella deambulazione è necessario che vengano aiutati nelle normali attività quotidiane (scendere e salire dal letto) evitando l’utilizzo di letti o sedute troppo alte. In caso di fratture il trasporto in ospedale del paziente deve avvenire tempestivamente. L’infermiere che è a bordo del mezzo di soccorso deve fare una prima valutazione dell’incidente e delle condizioni del paziente (controllo delle vie aeree e della colon-

Deformazione acuneo delle vertebresuperiori

Schiacciamento delle vertebre inferiori

OsteoporosiNormale

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na vertebrale, controllo del respiro, circolazione, incapacità funzionale, esposizione del ferito e protezione ambientale). La prima regola è fare un’attenta valutazione dello scenario prima di intervenire e compiere qualunque manovra. L’immobilizzazione normalmente è la terapia adottata in attesa dell’intervento chirur-gico perché aiuta a ripristinare il riallineamento del femore fratturato, a limitare i danni interni e ad alleviare il dolore. L’intervento chirurgico è il trattamento di routine per la gestione delle fratture dell’anca consente di mobilizzare precocemente il paziente e riduce il rischio che una frattura composta si scomponga con il trascorrere del tempo. L’intervento chirurgico va effettuato prima possibile. Riducendo il periodo di immobi-lità preoperatoria si limita l’insorgenza di patologie da allettamento, la perdita di autonomia e delle capacità cognitive. Il trattamento antiosteoporotico si avvale, oltre che della supplementazione con calcio e vitamina D, di farmaci antiriassorbitivi (bisfosfonati, modulatori dei recettori degli estrogeni o SERMS), farmaci ana-bolici (1-84 PTH, 1-34 PTH) e farmaci ad azione sia antiriassorbitiva che anabolica (ranelato di stronzio).

GLI ULTIMI ORIENTAMENTI ED INDIRIZZI DIAGNOSTICI E TERAPEUTICI NELLA MEDICINA DELLA RIPRODUZIONE E DELLA SESSUALITÀDebora Arapaia, Serena Ippolito, Carmela Peirce, Bernadette Biondi

Infertilità

È noto che l’infertilità, ossia l’incapacità di una coppia di concepire dopo almeno un anno di rapporti liberi, è in costante aumento. Questa ridotta fecondità è dovuta in gran parte all’aumento dell’età media in cui le donne tentano di concepire per la prima volta e all’incremento significativo della infertilità maschile. L’intro-duzione delle tecniche di fecondazione assistita ha modificato il concetto poiché il ricorso al alcune di esse ha permesso a coppie di concepire figli sebbene fossero ritenute sterili. È stimato che circa il 15% delle coppie sono non ottiene un concepimento nell’arco di un anno e si sottopone a trattamenti per l’infertilità. Il 7,5% degli uomini presenti una o più cause di infertilità con un trend di incidenza in crescita degli ultimi anni. Il 5% delle coppie rimane infertile anche dopo i trattamenti. L’eziologia dell’ infertilità maschile è da ricondurre a cause congenite o acquisite che determinano alterazioni della capacità riproduttiva (Tabella 29). C’è da dire tuttavia che il 30-50% dei casi di infertilità non ha una causa nota per cui è considerato idiopatico. L’infertilità maschile riconosce sicuramente una grossa componente sociale. Su di essa, infatti, oltre alle condizioni soggettive, chiaramente patologiche, sembrano influire anche le condizioni ambientali e lo stile di vita (incluso lo stress). Per quanto concerne i fattori di rischio alcune condizioni lavorative che esponogono a radiazioni, a sostanze tossiche o a microtraumi, aumentano il rischio di infertilità. Anche l’e-sposizione agli inquinanti prodotti dal traffico urbano agisce negativamente. Il fumo di sigaretta nuoce agli spermatozoi: i fumatori spesso hanno più spermatozoi con morfologia anormale. Lo stesso stile di vita, se eccessivamente stressante, riduce la fertilità.

Tabella 29. Cause principali di infertilità maschile congenite ed acquisite.

Deficit testicolari secondari a deficit di gonadotropine:• Ipogonadismo ipogonadotropo • Tumori ipofisari o delle strutture diencefaliche• Traumi cranici• Malnutrizione• Farmaci (psicolettici, cortisonici al alte dosi, steroidi anabolizzanti)• Autoimmunità e malattie di accumulo (emocromatosi)

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Deficit testicolari primitivi con compromissione globale del testicolo o dei tubuli seminiferi:• Sindromi genetiche con alterazioni cromosomiche (s. di Klinefelter) o microdelezioni del cromoso-

ma Y• Anorchia • Criptorchidismo• Torsione testicolare• Trauma testicolare• Orchite • Varicocele• Radiazioni o chemioterapici

Alterazioni post-testicolari:• Anomalie ostruttive di vasi deferenti, epididimo, dotti eiaculatori• Infezioni o patologie infiammatorie• Presenza di anticorpi antispermatozoo• Eiaculazione retrograda• Effetti collaterali di chirurgia uro-genitale e pelvica

Circa il 35-40% dei casi di infertilità di coppia sono ascrivibili alla donna. L’infertilità femminile riconosce diverse cause, riconducibili a problematiche ovulatorie, tubariche, uterine e cervico-vaginali (Tabella 30). L’invecchiamento degli ovociti è un fattore di infertilità particolarmente rilevante. Gli ovociti di donne non più giovani hanno più spesso anomalie genetiche (cromosomiche) e, se fecondati, possono dare luogo ad embrioni malformati, spesso abortiti spontaneamente. Diversi fattori sociali hanno progressivamente ritardato l’età di ricerca di maternità per le donne e ciò può rappresentare un problema dal momento che il periodo più fertile per una donna è tra i 20 e i 25 anni, resta sufficientemente alto fino ai 35, subisce un considerevole calo dai 35 ai 40, mentre è bassissimo oltre i 40. Con l’età, infatti, invecchiano i gameti femminili (gli ovociti hanno la stessa età della donna: a differenza degli spermatozoi sono già tutti presenti nel feto femminile, e sono gli stessi che matureranno di volta in volta ad ogni ciclo mestruale) e aumenta il rischio di malattie connesse all’infertilità-sterilità.

Tabella 30. Cause principali di infertilità femminile congenite ed acquisite.

Cause cervico-vaginali:

• Anticorpi antisperma• Infezioni (Chlamydia, Gonococco, Micoplasma, ecc.)• Stenosi• Sinechie (aderenze)• Alterazioni funzionali della cervice

Cause uterine:

• Malformazioni dell’utero• Polipi uterini• Fibromi• Sinechie (aderenze tra le pareti della cavità uterina)• Processi infiammatori• Atrofia endometriale

Cause tubariche:

• Obliterazione totale o parziale del lume• Infiammazioni (salpingite)• Endometriosi tubarica• Pregressa sterilizzazione

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Cause ovariche o ormonali (ipogonadismo):

• Sindrome dell’ovaio policistico• Endometriosi ovarica• Problemi genetici (Sindrome di Turner, disgenesia gonadica)• Mancata ovulazione da cause ipotalamiche• Stress• Anoressia• Amenorrea psicogena• Iperprolattinemia• Insufficienza del corpo luteo

Diagnosi

L’iter diagnostico dell’infertilità va avviato non prima che siano trascorsi 12 mesi di rapporti non protetti senza concepimento. Per il maschio l’inquadramento diagnostico comprende:• Anamnesi medica e riproduttiva finalizzata alla ricerca di familiarità per infertilità e malformazioni fetali,

storia personale di criptorchidismo, torsione testicolare o traumi, pregresse infezioni, esposizione a radia-zioni o chemioterapici, abuso di alcol e sostanze stupefacenti o sostanze anabolizzanti.

• Visita andrologica con valutazione della morfologia del pene e dei testicoli (volume e morfologia), la ricerca dei segni clinici di varicocele ed una valutazione morfologica prostatica. L’ecografia testicolare e prostatica rappresenta un valido strumento diagnostico in questo caso al di là dell’esame clinico.

• Esame del liquido seminale (spermiogramma) effettuato su almeno due campioni ottenuti a distanza di 4-6 settimane di cui vengono valutati volume dell’eiaculato (ml), concentrazione spermatica (mil/ml), conta totale di spermatozoi (milioni), motilità e morfologia degli spermatozoi e la vitalità degli stessi. L’esame consente di diagnosticare alterazioni patologiche compatibili con infertilità maschile tra cui l’azoospermia (assenza di spermatozoi), l’oligozoospermia (conta di spermatozoi ridotta), l’astenospermia (motilità ridotta), la teratospermia (numero di spermatozoi con morfologie atipiche superori alla norma).

• Esami ormonali con valutazione dei livelli plasmatici di FSH, LH e testosterone per la diagnosi delle varie forme di ipogonadismo, dei livelli plasmatici di prolattina ed ormoni tiroidei e dell’inibina B, che si riduce in caso di alterazioni della spermatogenesi.

• Studio genetico finalizzato alla diagnosi delle patologie associate al alterazioni del cariotipo come ad esempio la sindrome di Klinefelter.

L’analisi del cariotipo è la rappresentazione ordinata del corredo cromosomico di un individuo per la valutazione morfologica e numerica dei cromosomi. Si ottiene da un campione di sangue periferico da cui vengono prelevati i globuli bianchi per centrifugazione. Il materiale genetico viene poi isolato dalle cellule che vengono distrutte per lisi e successivamente colorato (Figura 18).

Figura 18. Rappresentazione di un cariotipo normale.

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La diagnostica dell’infertilità femminile si avvale di: • Dosaggi ormonali, come ad esempio FSH, LH, estradiolo e prolattina nella prima metà del ciclo, e proge-

sterone nella seconda metà del ciclo al fine di valutare l’avvenuta ovulazione. Nel sospetto di patologie tiroidee è utile valutare anche TSH, FT3 ed FT4.

• Valutazione della cosiddetta riserva ovarica, mediante la determinazione di FSH, inibina B, ormone an-timülleriano utile soprattutto in preparazione a procedure di stimolazione ovarica per fecondazione assi-stita.

• L’ecografia (anche transvaginale) occupa un ruolo centrale nello studio della donna infertile, permetten-do di valutare lo sviluppo dei follicoli ovarici e l’ovulazione, gli aspetti morfo-funzionali e la presenza di eventuali lesioni annessiali o uterine, ed infine la valutazione della pervietà tubarica. Il primo controllo ecografico andrebbe eseguito preferibilmente entro il sesto giorno del ciclo, per analizzare le ovaie, la loro sede, dimensione ed ecostruttura e la presenza di eventuali formazioni patologiche, prime fra tutte le lesioni endometriosiche. Lo studio dell’utero prevede la misurazione dello spessore endometriale, che varia con la fase del ciclo.

• L’isterosalpingografia permette una buona valutazione della morfologia e delle eventuali patologie ute-rine e della pervietà tubarica attraverso l’infusione di mezzo di contrasto o soluzione salina sterile mista ad aria. I danni alle tube, spesso causati da infezioni o da cicatrici esterne e aderenze da precedenti interventi chirurgici possono provocare una loro totale o parziale chiusura ostacolano o impediscono agli spermatozoi di incontrare l’ovocita.

• L’isterosonografia, che consiste nell’iniezione in cavità uterina di soluzione salina sterile, permette una migliore definizione dei margini endometriali e delle caratteristiche della cavità.

• Studio genetico finalizzato alla diagnosi delle patologie associate al alterazioni del cariotipo come ad esempio la sindrome di Turner.

Terapia

La terapia dell’infertilità è mirata, quando e se possibile, alla correzione delle cause che l’hanno determi-nata. Non sempre i risultati sono soddisfacenti per cui spesso è necessario ricorrere a procedure di fecon-dazione assistita. Nei casi di infertilità maschile da ipogonadismo può essere utile la terapia con gonadotropine che hanno un effetto attivo sulla spermatogenesi. Per quanto riguarda la terapia chirurgica, oltre agli interventi preventivi dell’infertilità maschile, quali l’orchidopessi (intervento di trazione del testicolo nello scroto) per il criptorchi-dismo o per la torsione testicolare, da effettuare in età infantile o adolescenziale, le procedure disponibili comprendono la correzione del varicocele, la ricanalizzazione delle vie seminali e il recupero di spermatozoi per le procedure di procreazione medicalmente assistita. Per quanto riguarda l’infertilità femminile da patologia ovulatoria una delle più frequenti condizioni asso-ciate all’assenza di ovulazione (anovulazione) è la Sindrome dell’ovaio policistico (PCOS). In questo caso il trattamento di prima linea è mirato alle modificazioni dello stile di vita e alla riduzione del peso corporeo in caso di obesità. L’intervento farmacologico, se necessario, mira alla correzione dell’insulino-resistenza che caratterizza questa condizione e si avvale della metformina. Nei casi di anovulazione in cui è necessaria un’induzione per facilitare il concepimento o in previsione di procedure di fecondazione assistita, possono essere utilizzati il clomifene citrato (CC) o le gonadotropine. La terapia farmacologica è la scelta anche nei casi di ipogonadismo da iperprolattinemia. I casi di infertilità femminile da causa tubarica o da endometriosi eventualmente sono trattabile chirurgicamente con diverse metodiche laparoscopiche o laparotomiche, con buone percentuali di ottenimento di una gravidanza. Le tecniche di fecondazione medicalmente assistita comprendono tutti quei trattamenti per la fertilità nei quali i gameti, sia femminili (ovociti) che maschili (spermatozoi), vengono trattati al fine di determinare il processo riproduttivo. Queste tecniche sono utilizzate per aiutare il concepimento in tutte le coppie, laddo-ve questo non possa riuscire spontaneamente. La riproduzione assistita è possibile, quindi, mediante una gamma di opzioni terapeutiche, a diverso grado di invasività. Non esiste una tecnica migliore o peggiore dell’altra, ma semplicemente quella più idonea al quadro clinico presentato da ogni diversa coppia.

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- Inseminazione Intrauterina semplice: introduzione del seme maschile nella cavità uterina contem-poraneamente al monitoraggio dell’ovulazione (spontanea o stimolata) della donna per favorire l’incon-tro spontaneo nel corpo femminile dei due gameti.

- FIVET (fecondazione in vitro embrio transfer). Questa tecnica molto complessa comprende varie fasi: stimolazione farmacologica dell’ovaio per produrre più ovociti e prelievo chirurgico degli ovociti prodotti. Successivamente gli ovociti vengono fecondati e si producono degli embrioni che vengono fatti sviluppare su piastre speciali all’interno di incubatori e successivamente trasferiti in utero.

- ICSI (iniezione intracitoplasmatica di un singolo spermatozoo). Questa procedura prevede gli stessi pas-saggi della Fivet, fino al momento della fecondazione, che avviene tramite iniezione diretta di un singolo spermatozoo all’interno del citoplasma dell’ovocita (Figura 19). È indicata nei casi di ridotta motilità spermatica o di un ridotto numero di spermatozoi.

- GIFT (gamete intrafallopian transfer): ormai poco utilizzata, che prevede, attraverso una piccola incisione sull’addome, il trasferimento degli ovociti non fertilizzati e del liquido seminale nelle tube di Falloppio, attraverso uno strumento a fibre ottiche.

Nelle procedure di PMA rientrano anche le tecniche di crioconservazione dei gameti (ovociti e spermato-zoi) e degli embrioni. Esse vengono proposte nei casi di pazienti oncologici o con patologie iatrogene, che debbano sottoporsi a terapie tali da mettere a rischio la loro fertilità futura, per preservare la loro capacità riproduttiva.

Figura 19. Iniezione intracitoplasmatica di spermatozoi.

Disordini della differenziazione sessuale

La differenziazione sessuale avviene attraverso un processo che prevede diverse tappe: si inizia dalla fecon-dazione quando viene determinato il sesso cromosomico o genetico maschile (46XY) o femminile (46XX) che a sua volta determina il sesso gonadico con la differenziazione di testicoli ed ovaie. Il sesso anatomico (genitali esterni) è determinato dalla produzione ormonale di steroidi sessuali. Qualsiasi alterazione di una di queste tappe può indurre un disordine della differenziazione sessuale ovvero una condizione patologica congenita in cui il sesso cromosomico, gonadico o anatomico risultano alterati.

Alterazione della differenziazione dei genitali interniSindrome di Klinefelter. Caratterizzata da cariotipo 47XXY, nè un disordine della differenziazione del ses-so genetico e la causa più frequente di ipogonadismo primario maschile. L’alterazione dei tubuli seminiferi comporta la presenza di testicoli piccoli e duri con conseguente azospermia. Clinicamente i pazienti affetti da Klinefelter si presentano alti con arti esageratamente lunghi, ginecomastia e insufficiente virilizzazione (scarsità di peli e pene piccolo). Talvolta sono presenti disturbi della personalità e anomalie cardiovasco-lari. Il testosterone è basso mentre le gonadotropine (FSH ed LH) sono alte. La terapia è sostitutiva con testosterone. Sindrome di Turner. È la più frequente disgenesia gonadica del sesso femminile, causa di ipogonadismo ed amenorrea primaria (assenza del ciclo mestruale). È caratterizzata da cariotipo 45X0 (quindi mancanza del cromosoma Y) anche se frequenti sono i mosaicismi (46XX/45X0). Clinicamente le pazienti affette da Turner si presentano con bassa statura, collo corto, torace largo, mandibola stretta, orecchie sporgenti

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e ad impianto basso (Figura 20). L’ipogonadismo (estrogeni bassi e gonadotropine elevate) determina infantilismo sessuale alla pubertà ed amenorrea primaria. Possono essere presenti anomalie cardiache e renali. Obiettivi della terapia sono la correzione della bassa statura con ormone della crescita, la correzione dell’infantilismo sessuale e dell’amenorrea con terapia sostitutiva estro progestinica.

Figura 20. Paziente con sindrome di Turner.

Ermafroditismo vero. Si tratta della contemporanea presenza nello stesso individuo di tessuto ovarico e testicolare. La differenziazione dei genitali esterni in questo caso dipende dalla distribuzione del tessuto gonadico e quindi dalla produzione di ormoni maschili o femminili. L’aspetto di questi pazienti è ambiguo: possono esser presenti segni di virilizzazione (espressione maschile) ma contemporaneamente è frequen-te la presenza di mammelle sviluppate con utero presente ma ipoplasico. Il cariotipo più frequente è fem-minile (46XY) e di solito vengono allevati come soggetti di sesso femminile dopo l’asportazione chirurgica del tessuto gonadico maschile e la correzione delle ambiguità.

Alterazione della differenziazione dei genitali esterniPseudoermafroditismo maschile. Il cariotipo di questi pazienti è 46XY, quindi il sesso cromosomico è maschile ma per difetti della produzione di androgeni o per resistenza dei tessuti bersaglio, la mascoli-nizzazione è incompleta. Il quadro clinico è variabile da genitali esterni completamente femminili a forme intermedie con minime ambiguità (Figura 21).

Figura 21. Gradi di pseudoermafroditismo maschile.

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Resistenza completa agli androgeni o Sindrome di Morris. I soggetti presentano in questo caso cariotipo maschile con testicoli sviluppati bilateralmente ma genitali esterni e caratteristiche fenotipiche femminili (scarsi pei pubici o ascellari, vagina sviluppata a fondo cieco e genitali esterni femminili, normale sviluppo mammario) ed ovviamente amenorrea primaria. La completa assenza del recettore degli andro-geni favorisce lo sviluppo fenotipico femminile in presenza di normali livelli di testosterone e FSH ed estro-geni ed elevati livelli di LH. La terapia consiste nell’asportazione dei testicoli (spesso ritenuti in addome) e nel mantenimento del genere femminile. Pseudoermafroditismo femminile. Si tratta della presenza di segni di virilizzazione in pazienti con cariotipo femminile. È dovuto ad un eccesso di androgeni la cui azione determina lo sviluppo di genitali con caratteristiche femminili ma con segni di virilizzazione più o meno importanti. Nelle forme più gravi il clitoride può assumere aspetto peniforme con annessa uretra peniena e fusione labioscrotale. Oppure può presentarsi con vari gradi di ipertrofia associata ad irsutismo nelle forme più lievi. La forma più comune di pseudoermafroditismo da iperandrogenismo è l’iperplasia surrenalica congenita da deficit della 21-idrossilasi con esordio neonatale (forma classica virilizzante). L’eccesso di androgeni è dovuto al difetto enzimatico che impedisce la sintesi del aldosterone e cortisolo e devia tutti i precursori verso la sintesi di androgeni. In caso di difetto enzimatico completo al quadro clinico si associa insufficienza corticosurrenalica con perdita di Sali, una condizione estremamente pericolosa in età neonatale se non tempestivamente riconosciuta, caratterizzata da ipovolemia, ipotensione e shock. La terapia consiste nella somministrazione di idrocortisone per ridurre la produzione di androgeni. Può inoltre rendersi necessaria la correzione chirur-gica delle anomalie.

Disturbi della sessualità: disfunzione erettile

Si definisce disfunzione erettile (DE) l’incapacità persistente, per almeno tre mesi, a ottenere e/o mante-nere un’erezione in grado di realizzare un rapporto sessuale soddisfacente. Si tratta una patologia molto spesso sottostimata per cui non è facile stabilirne la reale incidenza. In Italia, in un recente studio epide-miologico è stata stimata una prevalenza del 13% ed un aumento progressivo con l’avanzare dell’età, fino a raggiungere il 50% dopo i 70 anni. L’erezione è una complessa risposta fisiologica che dipende da una perfetta integrazione di meccanismi vascolari, endocrini e neurologici e che risulta dall’interazione del sistema nervoso centrale con le fibrocellule muscolari lisce presenti a livello dei corpi cavernosi del pene. Il rilasciamento delle cellule muscolari lisce sotto un impulso nervoso generato da stimoli uditivi, visivi, tattili ed olfattivi permette ai corpi cavernosi di riempirsi di sangue e di generare l’erezione. Fino a qualche anno fa si pensava che circa il 90% dei deficit erettivi fosse di origine solo psicologica, ma i recenti studi in cam-po neurofisiologico, emodinamico e farmacologico hanno dimostrato la presenza di una causa organica in circa il 50% dei casi valutati. In particolare l’eziologia vascolare è la causa più comune di DE.Le cause possono quindi riguardare numerosi fattori fisici e psicologici, spesso concomitanti e in interazione reciproca; tra le più comuni cause psicologiche vi sono l’ansia, la depressione, conflitti intrapsichici profondi ma anche lo stress e i condizionamenti ambientali (Tabella 31).

Tabella 31. Cause.

Cause Patologia

Vascolare Diabete, obesità, ipertensione, ipercolesterolemia, aterosclerosi

Endocrina Ipogonadismo, iperprolattinemia, ipo/ipertiroidismo, acromegalia, Cushing

Neurogenica Traumi midollari, malattie demielinizzanti, prostatectomia, neuropatia periferica

Iatrogena Farmaci antidepressivi, antipsicotici, oppioidi, spironolattone, alcool

Malattie sistemiche Insufficienza renale cronica, cardiopatia, cirrosi epatica, neoplasie

Psichica Ansia, depressione, difficoltà relazionali

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I soggetti con diabete hanno un elevato rischio di sviluppare DE a causa della vasculopatia periferica e della neuropatia autonomica e periferica che complicano il diabete.

Diagnosi

L’obiettivo della diagnosi è definire la natura della disfunzione: organica, psicologica o mista.Il primo approccio nel percorso diagnostico consiste in un’approfondita anamnesi che valuti gli aspetti psi-cologici e medici del paziente e la somministrazione di un questionario IIEF (Indice Internazionale della Funzione Erettile), specifico per mettere a fuoco alcuni aspetti dell’attività sessuale (la funzione erettiva, il desiderio sessuale, la fase dell’orgasmo, il grado di soddisfazione nel rapporto sessuale) e delle abitudini di vita del paziente. Segue l’esame obiettivo che comprende una valutazione della morfologia genitale (pene, testicoli e prostata) e dei caratteri sessuali secondari nonché i parametri antropometrici per la definizione dell’indice di massa corporea. Gli esami di laboratorio hanno lo scopo di escludere il diabete o altre malattie sistemiche non precedentemente diagnosticate e comprendono il dosaggio della glicemia, della triglice-ridemia e della colesterolemia, insieme ai dosaggi ormonali (testosterone, diidrotestosterone, FSH, LH, prolattina ed Estradiolo). In base ai risultati di questo primo screening si decide se proseguire con indagini di secondo livello. Si tratta di valutazioni che consentono di rilevare alterazioni venose o arteriose e di mo-nitorare l’attività erettile notturna. L’ecocolordoppler penieno basale e dinamico permette di valutare la corretta funzionalità vascolare del pene, mentre la rigidometria notturna (Rigiscan), indicata soprattutto nei pazienti giovani con problemi di erezione, permette di monitorare le erezioni notturne che, nel soggetto sano, si presentano fisiologicamente durante la fase REM del sonno.

Terapia

L’approccio terapeutico alla disfunzione erettile comprende innanzitutto modifiche dello stile di vita mirate alla riduzione del peso corporeo, la riduzione del consumo di alcol e l’abolizione del fumo. I farmaci più utilizzati per il trattamento della DE appartengono alla categoria degli inibitori della fosfodiesterasi di tipo 5 (PDE-5) sildenafil, tadalafil e vardenafil, che agiscono aumentando la disponibilità di ossido nitrico e quindi favorendo la vasodilatazione dei vasi dei corpi cavernosi e quindi l’erezione. La novità di questi farmaci è che essi non inducono una erezione diretta e passiva, ma consentono una amplificazione della risposta dei corpi cavernosi ad uno stimolo erogeno naturale. Significa che l’erezione avviene solo se alla stimolazione farmacologia si associa la stimolazione naturale. Questa peculiare caratteristica conferisce alla terapia orale una connotazione di “spontaneità” vantaggiosa anche dal punto di vista psicologico. L’uso di questi farmaci è controindicato in caso di terapia con nitrati (usati nell’angina pectoris) poiché l’associazione dei due creerebbe un effetto sinergico di vasodilatazione che potrebbe risultare estremamente pericoloso. La terapia a base di ormoni prevede l’assunzione di testosterone così da riequilibrare un’eventuale carenza. In caso di disfunzione erettile di natura psicogena, l’intervento psicosessuale è indispensabile per individua-re e rimuovere i fattori che l’hanno generata. La terapia psicosessuale è utile anche in caso di disfunzione organica o mista per alleviare il senso di ansietà che deriva dal disagio di un deficit erettile. Un approccio terapeutico riservato ai casi resistenti alla terapia orale consiste nell’iniettare all’interno dei corpi cavernosi del pene sostanze farmacologiche (prostaglandina, papaverina) che con la loro attività vasodilatatrice inducono l’erezione. Tale terapia è indicata anche o come prima linea nella riabilitazione della funzione erettile dopo prostatectomia radicale.

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