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Troppe storie sembrano storie dell’altro mondo, ma lo spazio in cui accadono è qui e ora. ANNO 4 - N° 1 - MAGGIO 2012 periodico di culture migranti e dell’accoglienza IDENTITÀ MIGRANTI Bambini e migrazioni, una storia da riscrivere Poste Italiane S.p.A. – Spedizione in abbonamento postale – D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art.1, comma 2 e 3, Catania – reg. Trib. di Catania n°19 del 5 Giugno 2012 – distribuzione gratuita QUALE SARÀ IL FUTURO DEI PROFUGHI LIBICI? Gli esiti delle richieste d’asilo e la difficile gestione dei dinieghi I MINORI MIGRANTI Intervista a Cristoph Braunschweig assistente sociale presso la Fondazione Svizzera del Servizio Sociale Internazionale

Storie di questo mondo - Maggio 2012

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Periodico del Consorzio Connecting People sui migranti e l'immigrazione

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Troppe storiesembrano storiedell’altro mondo,ma lo spazioin cui accadonoè qui e ora.

anno 4 - n° 1 - MaGGIo 2012

periodico di culture migrantie dell’accoglienza

IDENTITÀ MIGRANTIBambini e migrazioni, una storia da riscrivere

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QUALE SARÀ IL FUTURO DEI PROFUGHI LIBICI?Gli esiti delle richieste d’asilo e la difficile gestione dei dinieghi

I MINORI MIGRANTIIntervista a Cristoph Braunschweigassistente sociale presso la Fondazione Svizzera del Servizio Sociale Internazionale

MAG

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2012

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ProprietàConsorzio Connecting People Onlus

via Conte Agostino Pepoli, 68

91100 Trapani

EditoreFondazione Xenagos

via Sciarelle, 4

95024 Acireale (CT)

Progetto grafico e illustrazioniGiancarlo Ortolani / Tribbù

ImpaginazioneStudio Tribbù di Coop. Soc. Sciarabba

via Sciarelle, 4

95024 Acireale (CT)

StampaFiordo srl - Galliate (No)

RedazioneVia Sciarelle, 4

95024 Acireale (CT)

[email protected]

Registrazione Tribunale di Catania

n°19 del 5 Giugno 2012

Direttore responsabileSerena Naldini

Direttore editorialeSalvatore Ippolito

Comitato di direzioneOrazio Micalizzi, Mauro Maurino,

Riccardo Compagnucci, Antonio

Ragonesi.

CaporedattoreSalvo Tomarchio

Hanno collaborato Serena Bordignon, Arianna Cascelli,

Noemi Favitta, Oliviero Forti,

Giorgio Gibertini, Laura Giudice,

Mario Indelicato, Salvatore Ippolito,

Mauro Maurino, Serena Naldini,

Salvo Tomarchio,

Massimo Tornabene, Licia Vecchio

editoriale 1Quando lo Stato crea clandestini. A spese propriedi Salvatore Ippolito

intervista 2I minori migranti. Intervista a Cristoph Braunschweigdi Serena Naldini e Mauro Maurino

dossier Minori non accompagnati 6Minori, stranieri, soli: la quintessenza della vulnerabilitàIntervista all’on. Paolo Fontanellidi Serena Naldini

Meglio guardare avanti. Parola di Alicedi Serena Naldini

Il sistema di accoglienza dei minori stranieri? Si può e si deve rinnovaredi Oliviero Forti

I ragazzi di Beneventodi Arianna Cascelli

incontri 12Mbaye: italiano, da sempredi Serena Bordignon

Da vent’anni in Italia: cinque figli, pochi dirittidi Giorgio Gibertini

oltremare 18Gli orfani bianchidi Licia Vecchio

La famiglia oltre i confinidi Serena Naldini

dossier Fermata Piemonte 22Quale sarà il futuro dei profughi libici?di Massimo Tornabene

news 26Notizie e curiosità a cura della redazione

press 28Rassegna stampa di Connecting Peoplea cura di Salvo Tomarchio

media connecting 2918 Ius Solidi Salvo Tomarchio

È una storia strana e perversa quella che stiamo scriven-do sull’immigrazione in Italia.Strana, perché ancora non riusciamo ad accettare intera-mente la presenza di importanti gruppi stranieri in Italia, dei quali la nostra economia ha un disperato bisogno. Perversa, perché in fondo abbiamo leggi a protezione degli stranieri e dei vulnerabili - e a volte siamo anche ca-paci di fare qualcosa di buono - ma per ragioni di semplice demagogia elettorale presentiamo l’Italia come una terra con le porte chiuse. L’accoglienza dei ragazzi migranti è pervasa da questo paradosso. I minori stranieri non ac-compagnati sono quasi 8 mila in Italia. Spendiamo delle fortune - mettendo al tappeto le poche risorse finanziarie rimaste ai comuni per l’assistenza sociale - per garantire a ogni singolo gio-vane assistenza personalizzata, servizi di qualità, partecipazione a progetti di integrazione sociale. E, per finire, quando ormai il ragazzo è perfettamente integrato nelle nostre comunità - dopo che sono stati spesi approssimativamente 100 mila euro per due/tre anni - si decide che il ragazzo in questione non ha più alcun ti-tolo per restare. Intanto, magari, abbiamo programmato un fittizio decreto flussi che ci porterà qualche nuovo migrante, da ospitare e preparare pazientemente alla no-stra difficile e caotica società. Nell’ultimo anno abbiamo accolto migliaia di africani che scappavano dalla guerra in Libia. Abbiamo gridato all’emergenza per qualche mi-gliaio di profughi, anche perché siamo incapaci di creare un sistema ordinario di preparazione e allerta nei casi di emergenza umanitaria. Costerebbe meno delle accise sulla benzina. Abbiamo scomodato la protezione civile che non ha lesinato mezzi per ricevere e trasportare da Lampedusa i 24.769 profughi tunisini e i 23.267 arrivati dalla Libia, verso le nostre riluttanti regioni obbligate a

ricevere quote definite di profughi. Il sistema di quote per regione, ordinario in altri Paesi, è stato vissuto come emergenza nell’emergenza. A distanza di un anno, abbiamo scoperto che è possibile distribuire sul territorio stranieri vulnerabili e bisognosi di protezione e organizzare, in numerosi casi, ben più dell’assistenza primaria: corsi di italiano, mediazione culturale, assistenza legale, orientamento e formazione lavorativa. Fin qui tutto bene. Ma ecco la perversione. Abbiamo spinto i profughi subsahariani a richiedere asilo, senza spiegare loro che la commissione territoriale preposta all’esame delle domande avrebbe valutato le

loro condizioni di vita nel Paese di origine, non già il dramma vissuto in Libia, Paese nel quale risiedevano da anni e che hanno dovuto lasciare per forza, non per scelta. I profughi hanno atteso lunghi mesi per l’intervista con la commissione. E, adesso, la maggior parte di loro ha ricevuto un diniego: nessuna protezione, solo un foglio di via che indica l’aeroporto di Fiumicino come

porta di uscita dall’Italia. Riteniamo verosimile che essi acquistino un biglietto di sola andata verso il proprio Paese di origine (Ghana, Nigeria, Costa d’Avorio, Congo, Mali, ecc.) nel quale non mettono più piede da anni. Siamo dei sognatori e poeti. Per ogni singolo foglio di via, abbiamo speso più di 20 mila euro. E ogni foglio di via equivale a un clandestino in più che vagherà per l’Ita-lia in balia delle mafie del lavoro nero e indecente, a ingrossare le marginalità urbane e rurali, ad aggravare situazioni già al limite di sanità pubblica, a premere su un mercato del lavoro boccheggiante e poco redditi-zio. L’unica soluzione presuppone una scelta politica: protezione temporanea ex art. 20 per tutti i profughi subsahariani provenienti dalla Libia.

Siamo incapaci di creare un sistema ordinario di preparazione e allerta nei casi di emergenza

umanitaria

Quando lo Stato crea clandestini. A spese proprie.

Salvatore IppolitoPresidente del comitato scientifico

di Fondazione Xenagos

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Il fenomeno dei mino-ri non accompagnati soprattutto prove-

nienti dai Paesi del Nordafrica è oggi un tema di estrema attualità. In Italia è affrontato, anche se in modo non sufficiente, attraverso l’inserimento in comunità residenziali. Esistono delle linee guida a livello europeo che rego-lamentano gli obblighi degli stati nei confronti dei minori non accompagna-ti trovati entro i confini del proprio territorio? Se sì, quali sono?

Faccio prima di tutto riferimento a una di-rettiva dell’Unione Europea, la 2003/9/CE del consiglio del 27 gennaio 2003 recan-te norme minime relative all’accoglienza dei richiedenti asilo negli Stati membri. L’articolo 19 tratta dell’accoglienza dei minori non accompagnati nei paesi mem-bri dell’Unione Europea. Queste direttive forniscono le linee guida, gli standard minimi per l’accoglienza. Le legislazioni

nazionali non posso-no andare al di sotto di questi standard. In questo quadro, però, tutti i Paesi membri dell’Unio-ne Europea hanno e v i d e n t e m e n t e dei margini di ma-novra. Una linea guida, infatti, non può essere mol-to dettagliata, s p e c i f i c a n d o, per esempio, il numero dei

metri quadri delle stanze in rapporto al numero dei minori accolti. I Paesi membri possono scegliere loro stessi come desiderano accogliere i richiedenti asilo. In Italia, per esempio, sono i comuni che hanno la responsabi-lità di assicurare l’accoglienza dei minori non accompagnati. La Svizzera delega questa responsabilità ai cantoni, in quan-to stato federalista. Nei Paesi Bassi, inve-ce, il sistema di accoglienza è centralizza-to. In ciascun Paese membro dell’Unione, abbiamo un sistema diverso.

Quali sono le principali differenze tra i Paesi?

Siamo tutti legati all’articolo 19 di questa direttiva, ma nel quadro da essa definito ci sono centinaia di differenti sistemi tra le modalità di accoglienza. Le differenze si registrano non solo tra Paesi, ma anche all’interno di un solo Paese. In Italia, per esempio, le modalità variano tra i comuni. Questo vale anche in altri Paesi. Diversa,

invece, è la situazione dei Paesi Bassi dove c’è una certa omogeneità con una gran-de organizzazione che riceve il mandato dell’Ufficio Federale della Giustizia dei Paesi Bassi. Qui lo Stato si prende tutta la responsabilità dell’accoglienza. In Francia, invece, ci sono i differenti dipartimenti che hanno la responsabilità di scegliere come accogliere i minori non accompagnati. Tutti sanno che per esempio nel diparti-mento di Parigi non ci sono più posti.

I Paesi Bassi sono il solo caso di Paese che prende in carico i minori non ac-compagnati in maniera centralizzata?

No, forse no, ma è il solo Paese che rice-ve centinaia di nuove domande di asilo, di nuovi arrivi di minori non accompa-gnati. Per questo ho scelto questo Paese. La maggioranza dei Paesi membri ha un sistema come quello italiano, un sistema federalista. Detto questo, ci sono grandissime diffe-renze nelle modalità di accoglienza. La grande maggioranza dei Paesi scelgono dei centri collettivi per la prima fase dopo l’arrivo, da uno a sei mesi circa. Ma ci sono differenze anche in questo: ci sono cen-tri da 50, da 150 posti. Credo che sempre più i Paesi membri si rendano conto che è preferibile evitare di mescolare gli adulti con i minori non accompagnati. A volte però non riescono.

Normalmente in Italia, i minori non accompagnati vengono inseriti in co-munità alloggio. A suo giudizio queste comunità sono adeguate? Se no, quali correttivi apportare al modello già at-

I minori migranti Intervista a Christoph Braunschweig, assistente sociale HES nel settore socio-giuridico

presso la Fondazione Svizzera del Servizio Sociale Internazionale

di Serena Naldini e Mauro Maurino; traduzione di Giovanna Legname

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intervista

tivo? È sufficiente ragionare di corret-tivi oppure è più opportuno dedicare a questi minori strutture ad hoc?

A livello generale, trovo già molto sod-disfacente che dei centri collettivi siano messi a disposizione. Una buona pratica si trova in Germania, so-prattutto a Berlino, ma anche in altri Bundeslän-der. Questi centri collet-tivi si chiamano clearing houses (case di smista-mento) e sono il risultato di un grosso investimen-to di risorse professionali concentrato nella prima fase di tre/quattro mesi. L’idea è che in seguito a questo primo soggiorno, il ragazzo possa essere sistemato in un luogo adeguato secondo l’età, l’esigenza, la maturità del ragazzo. Mi sembra una buona scelta quella di investire in questo primo periodo con psicologi, assistenti sociali, mediatori culturali, con tutto ciò che è utile in vista della riuscita della seconda sistemazione. Chiaramente, la maggiore diffusione di centri collettivi è dovuta a una questione economica. Non si possono evidentemente finanziare ac-coglienze in appartamenti di lusso. Ma sempre più ci si rende conto che i mino-ri non accompagnati hanno bisogno di una protezione speciale e per questo, quindi, ci si augura comunque che l’ac-coglienza e l’assistenza per questi minori sia più elevata rispetto a quella riservata agli adulti. Vi darei l’esempio di un’altra prassi che conosco molto bene, ma che purtroppo non esiste più, e che si riferisce alla mia esperienza di servizio con una grande organizzazione americana per l’acco-glienza dei richiedenti asilo minori non accompagnati. Abbiamo fatto un’espe-rienza molto buona accogliendo per una prima fase i minori non accompagnati in un centro collettivo di 80 posti, con stan-ze da 4 a 6 posti. Dopo questa prima fase della durata di sei mesi, abbiamo creato degli appartamenti - non di lusso, certo, ma comunque degli appartamenti - che ospitavano da 4 a 6 minori non accom-pagnati di differenti origini, insieme a un

mediatore interculturale. Questa perso-na - spesso richiedente asilo, o già rifu-giata, che ha vissuto una storia analoga, ma che adesso ha lo status e la residen-za in Svizzera - si occupa di sostenere nella vita quotidiana questi minori non accompagnati. Questo mediatore inter-

culturale è accompa-gnato e supportato da assistenti sociali esterni. Questo siste-ma è buono perché i centri collettivi – siano essi per adulti o per minori, specialmente se si parla di minori tra i sedici e i diciotto anni - sono rischiosi dal punto di vista del clima interno. Luoghi

ad alto rischio di disordini che frequente-mente divengono teatro di tensioni. Per questo, ritengo che la cosa migliore sia evitare centri di centinaia di persone per decentralizzare l’accoglienza sul territo-rio. Lo stesso principio vale per i minori.

Quali possono essere le ragioni per le quali un minore si ritrova solo in paese straniero? Qual è la ragione più frequente?

Bisogna innanzitutto fare qualche pre-cisazione sul termine “minore non ac-compagnato”. Noi preferiamo parlare di programma in favore dei “bambini separati” in Europa (http://www.separa-ted-children-europe-programme.org/separated_children/about_us/contacts/ngo.html). Un bambino separato, per definizione, è separato dai suoi genito-ri. Può anche arrivare con una zia o uno zio che però non sono i suoi rappresen-tanti legali. Ci sono diverse tipologie di minori non accompagnati. Ci sono molti minori non accompagnati arrivati dai Pa-esi dell’America del Sud che non hanno alcuna ragione di richiedere l’asilo. Non hanno nessuna necessità di ricorrere alla procedura di asilo. Sono chiamati “sans papiers”, perché non hanno status in Svizzera. Sono stati inviati dai genito-ri presso una zia, per esempio, che ha la residenza in Svizzera per ricevere una mi-

gliore formazione. In Svizzera, ma anche in altri Paesi europei, però, la gran parte di minori non accompagnati richiedenti asilo deve domandare l’asilo perché non ha alternativa se desidera ottenere uno status provvisorio. Non si può richiedere un altro tipo di permesso di soggiorno. Un ragazzo tunisino di 16 anni, per esem-pio, non può dichiarare semplicemente di avere dei problemi nel proprio paese, di cercare una scuola migliore, un’univer-sità più adeguata ai propri desideri. Non funziona così. L’unica possibilità che ha è quella di richiedere l’asilo, ma al con-tempo - non sussistendo reali ragioni per domandarlo - ha scarsissime possibilità di ottenerlo. Il 99,5 per cento non lo ri-ceve, infatti. Mi domando, però, di che si sta parlando? Perché devono domanda-re l’asilo? In Spagna, per esempio, non c’è bisogno di richiedere l’asilo. C’è una leg-ge molto forte di protezione dei minori. Ciò significa che in Spagna non sarai mai rimpatriato finché sei minorenne.In conclusione, sono estremamente va-riabili le ragioni per cui un minore arri-va. Ci sono molti minori che partono in cerca di un avvenire migliore, perché provengono da Paesi in cui non possono sviluppare una prospettiva, come la Tu-nisia, per esempio. Molto spesso un mi-nore dell’Africa occidentale intraprende il viaggio sostenuto da tutto il villaggio nella speranza che riesca a costruirsi la propria strada in Europa e a sostenere la famiglia rimasta nel paese di origine. Le ragioni della partenza possono essere davvero molteplici.

Quali sono i paesi di destinazione maggiormente toccati dal fenomeno dei minori non accompagnati e quali le ragioni della scelta migratoria? Quali sono i paesi di provenienza maggiormente rappresentati e quali le ragioni di questa prevalenza?

Questo dipende dai Paesi. A livello genera-le, dopo la primavera del Nordafrica, sono arrivati molti minori da questi territori. L’Italia e la Spagna conoscevano già molto bene il fenomeno, ma negli ultimi mesi si è intensificato e si è propagato anche all’Eu-ropa centrale. Questi giovani non erano

I Paesi membri si rendono conto che è preferibile evitare di mescolare gli adulti

con i minori non accompagnati

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intervista

mai arrivati in Svizzera. La provenienza è legata anche ai Paesi di destinazione. Il Regno Unito accoglie un nu-mero enorme di minori non accompagnati afghani e pakistani. Sono quasi tutti giovani che vogliono raggiungere la famiglia che si trova già in Inghilterra. Lo stesso accade nei Paesi scandinavi, dove gli iracheni, per esempio, ambiscono a migrare.In Svizzera e in Germania, abbiamo molti ragazzi originari dell’Africa occidentale - in particolare della Nigeria - e dello Sri Lanka. Nei Paesi Bassi, invece, il numero maggiore proviene dalla Cina ed è di sesso femminile. E per quale ragione? Perché ci sono le gran-di navi che arrivano dall’Asia a Rotterdam. Le dinamiche delle migrazioni sono comples-se, sono uno specchio del nostro mondo.

Con che frequenza accade che il mi-nore incarni il progetto migratorio di un’intera famiglia?

Succede spesso. Il progetto migratorio del ragazzo diventa il progetto di tutta

la famiglia. C’è la speranza che il ragazzo possa costruire il proprio cammino in un paese industrializzato. Di questa tipolo-gia è il fenomeno dei minori non accom-pagnati che arrivano negli Stati Uniti dai paesi dell’America latina. Ci sono tanti mi-nori che dalla Cina arrivano a Hong Kong. Dappertutto funziona così, in ogni parte del mondo.

Dietro a questo fenomeno c’è una concezione culturale differente della minore età. Difficile adottare una concezione relativistica della cultura, quando si parla dei diritti dell’infan-zia. In questo caso, le azioni di tutela del minore (vitto, alloggio, inserimen-to scolastico, ecc.) entrano in conflitto con l’investimento familiare sul ra-gazzo stesso. Come è possibile ridurre questo contrasto al fine di garantire il mantenimento dei legami familiari?

A mio avviso, non si possono evitare questi movimenti migratori, anche dei

minori, finché esistono Paesi nei quali le persone hanno molte meno possibilità e prospettive di avvenire rispetto ai Pa-esi europei. Se non si stabilisce un certo equilibrio tra i vari luoghi del mondo, cre-do che ci saranno sempre le migrazioni. Non si tratta di niente di nuovo, del re-sto. Le migrazioni esistono da migliaia di anni. Forse alcune cause sono mutate.Prima c’erano le guerre religiose, oggi c’è anche il fenomeno delle catastrofi na-turali. Sono molte le ragioni per cui una famiglia dice al figlio: “È meglio se parti, forse così avrai un futuro migliore del no-stro. Visto che a casa nostra non riuscia-mo neanche a finanziare la tua formazio-ne, allora è meglio se parti”.Si tratta anche di una differenza culturale: nei paesi dell’Africa occidentale, andare in un altro paese non ha niente di negativo.Io personalmente sono dello stesso avvi-so: viaggiare è una grande esperienza di vita. Tra i Paesi dell’Africa occidentale ci sono scambi, non sempre sono migrazio-ni verso il nord. Questo esiste da sempre. Come si comportano i Paesi europei

Christoph Braunschweig

Assistente sociale, ha operato per oltre dieci anni nel settore dell’acco-glienza e dell’inserimento dei richie-denti asilo nella regione di Zurigo in Svizzera. Da sette anni, lavora per la Fondazione Svizzera del Servizio Sociale Internazionale (www.ssiss.ch) a Ginevra. Nella sua funzione, rappresenta il SSI presso la « Sepa-rated Children in Europe Programme SCEP » (www.separated-children-eu-rope-programme.org) come partner di ONG per la Svizzera.

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intervista

in relazione al riconoscimento dello status di cittadino a minori nati sul proprio territorio?

A mio avviso, non esiste più un Paese eu-ropeo che dà la nazionalità a un bambino nato sul proprio territorio. Non sono sicu-ro, ma secondo me non esiste neppure più negli Stati Uniti. Sappiamo tutti che la legge prima era quella e per questo c’erano molti stranieri che andavano ne-gli Stati Uniti per far nascere i propri figli. In Europa, lo ius soli non c’è più da molto tempo. Ci sono più neonati tra la popo-lazione straniera che tra quella svizzera. E questo vale anche in Italia.

Qual è la sua posizione sul dibattito tra ius soli e ius sanguinis?

Se potessi decidere? Non capisco per-ché abbiamo delle frontiere. Non vedo i vantaggi di avere diverse nazioni, oggi. Ma questo è il mio parere personale. Comunque, capisco le nazioni che non riconoscono la nazionalità a un bambi-no solo perché è nato sul loro territorio. Credo che l’integrazione sia legata ad al-tri criteri, fissati di volta in volta dai Paesi in cui i migranti trovano ospitalità, e che sia corretto auspicare che la nazionalità si riceva dopo aver conosciuto anche la lingua e la cultura del paese di approdo.Lo ius sanguinis, invece, stabilisce che se la madre o il padre possiedono una na-zionalità, il figlio ha ugualmente il diritto di riceverla. Anche in Italia, no?Inoltre, non vedo la ragione per cui in alcuni Paesi è possibile avere la doppia nazionalità e in altri no.La Tunisia, per esempio, non riconosce la doppia nazionalità. Questo significa che molti giovani con la doppia nazionalità tunisina e svizzera non sono riconosciuti come svizzeri nella propria patria. Non ha senso. Credo che questa cosa un gior-no dovrà cambiare.A livello generale, ritengo giusto che il bambino possa prendere le due nazio-nalità dei propri genitori. Non credo che nei prossimi centocinquanta anni torne-remo allo ius soli. Ci sono altri criteri per ricevere la nazionalità.La questione cittadinanza ha certa-

mente una forte componente di tipo valoriale, che rischia però di far scivo-lare il dibattito in uno scontro di tipo ideologico. Qual è il suo consiglio per trasformare l’ottica verso un più neutro pragmatismo? È possibile? È auspicabile?

Domanda relativamente complessa. Vi darei l’esempio dell’Italia. Oggi, in Ita-lia non nascono quasi più bambini ita-liani. Allo stesso tempo, la popolazione aumenta comunque perché arrivano i migranti. Esiste il rischio nel futuro pros-simo che la popolazione che lavora non possa più sostenere la pensione per le persone anziane. È paradossale. Da un lato, ci sono sempre più paesi europei che desiderano costruire un muro intor-no all’Europa; dall’altro, abbiamo biso-gno degli stranieri per svolgere alcuni lavori che non sono svolti dai residenti e per sostenere le pensioni degli anziani. Per questo, sebbene sia chiaro che non si può aprire la porta a tutti - e quindi capisco l’utilità di regole che stabilisca-no chi ha il diritto di restare e vivere in un Paese, come si ottiene la residenza, come si riceve la cittadinanza - occorre aver presente che dipendiamo dalla po-polazione straniera per assicurare che la nostra economia resti forte. Non è facile trovare un equilibrio, ma è proprio su questo che bisognerebbe puntare.

Pensate che la cittadinanza possa essere uno strumento per garantire questo equilibrio di cui parlate?

No, perché la cittadinanza è meno importante che la residenza, lo status, che consente per esempio di ricongiungervi con la famiglia.

Ma senza cittadinanza non si ha diritto al voto. Come valutate questo fatto?

Buona domanda. Alcuni comuni svizzeri riconoscono il diritto di voto a coloro che hanno la residenza, ma naturalmente a li-vello comunale, non federale. La residenza in Svizzera la si ottiene dopo 10 anni, non prima. Ci sono giovani che sono più sviz-zeri di me. Io non capisco perché si leghi la

nazionalità al diritto di voto. Sono piuttosto dell’avviso che dovrebbero avere diritto di voto, anche a livello federale e cantonale, tutti coloro che hanno la residenza, cioè il di-ritto di restare tutta la vita in Svizzera. Basta questo per partecipare alla vita politica.

Per quanto riguarda un altro aspetto della relazione tra migrazione e infan-zia, che cosa pensa del fenomeno dei children left behind?

L’ultima volta che ho sentito parlare di que-sto fenomeno è stato durante una conferen-za qualche anno fa, quando un ricercatore ha descritto la situazione delle migrazioni negli Stati Uniti a partire dall’America Cen-trale. Le madri messicane, costaricane, ecc. che vanno negli Stati Uniti si trovano co-strette a lasciare i propri figli nel Paese di origine. È un fenomeno enorme.

In Europa, questo tipo di migrazione proviene dalla Romania e dall’Ucraina.

Sì, anche in Europa è un fenomeno cre-scente. E avete fatto bene a evocare que-sto tema. I ricongiungimenti sono molto difficili. Nel nostro servizio diciamo: “Cia-scuna situazione è individuale.” Se si parla del trasferimento del bambino in un altro Paese, occorre rapportare la situazione attuale del bambino nel Paese di origine con la situazione nel nuovo paese dove la madre abita già. Quotidianamente, ci sia-mo confrontati con situazioni transnazio-nali e la domanda è sempre la stessa: è davvero un bene che il bambino segua sua madre alla ricerca di un lavoro miglio-re in un altro Paese? Forse è meglio trova-re una buona soluzione per il bambino nella propria terra di origine. Questo ri-chiama il tema delle adozioni internazio-nali. Chiaramente ci sono situazioni dove si deve pensare a un futuro in un altro luogo rispetto a quello di nascita, ma a li-vello generale riteniamo che sia molto meglio trovare una soluzione nel Paese di origine, perché è comunque uno sforzo per un bambino adattarsi a una nuova cultura, a una nuova lingua.

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intervista

L o scorso 27 marzo, la Commissione Parlamentare per l’Infanzia e l’Adolescenza ha approvato il documento con-clusivo di un’indagine conoscitiva durata più di due anni.

Principale risultato è la scoperta che i minori stranieri non accompa-gnati non sempre sono tutelati come dovrebbero dalla Convenzione ONU ratificata dall’Italia nel 1991 che stabilisce la considerazione preminente dell’interesse superiore del minore in tutte le decisioni che lo riguardano e definisce tutele particolari a favore di bambini e adolescenti più vulnerabili. Il documento finale dell’indagine*, a partire dall’individuazione di lacune (problemi relativi all’identificazione - a Lampedusa un anno fa ci sono stati 835 scomparsi su 3800 sbarcati -, inadeguatezza della prima accoglienza, respingimenti nei porti dell’Adriatico), avanza alcu-ne proposte, tra cui l’attivazione di una task force, formata da personale specializzato, che proceda tempestivamente all’identificazione dei minori stranieri non accompagnati, attraverso l’adozione di una procedura uniforme su tutto il territorio na-zionale. Il documento auspica la promozio-ne di collaborazioni bilaterali tra il nostro e i Paesi di origine, al fine di attivare risposte diverse: adozioni a distanza, percorsi di

migrazione accompagnata, mantenimento dei rapporti con la famiglia di origine anche in vista di una eventuale opzione di ritorno nel proprio Paese, ecc... Altra indicazione particolarmente innovativa è quella di tra-sformare parte dei sussidi per l’accoglienza dei minori stranieri non accompagnati, in particolare di quelli provenienti dalla Libia, in borse lavoro per minori ultrasedicenni. Molte idee contenute nel documento della Commissione Parlamentare richiamano una proposta elaborata nel 2006 dal Comitato delle Regioni d’Europa dal titolo “La situa-zione dei minori stranieri non accompagnati. Il ruolo e le proposte degli enti locali”. Storie di Questo Mondo ha posto alcune domande a Paolo Fontanelli, oggi deputato, allora sin-daco di Pisa e capogruppo della delegazione italiana che ha lavorato sul documento.

Quali sono stati gli obiettivi di questo lavoro?La protezione dei minori è un principio chiave dell’integrazione euro-pea, ma non trovava un’attenzione sufficiente da parte delle istituzioni europee nel quadro del dibattito sulle migrazioni. Le stime, ricavate anche dal lavoro di Save the Children e dell’UNHCR, parlavano di 100.000 minori non accompagnati in Europa. Il problema non veniva affrontato in modo adeguato, mentre crescevano l’impe-gno, la responsabilità e l’onere organizzativo per gli Enti Locali. Per i Comuni soprattutto. Il primo obiettivo era sensibilizzare le istituzioni e gli Stati europei, per recuperare una evidente sottovalutazione, attraverso un parere volto a incoraggiare un approccio comune e più approfondito sul tema dei minori non accompagnati. Allo stesso tempo ci proponeva-mo di indicare linee di intervento concrete per rafforzare gli interven-ti su questa materia.

Come sintetizzerebbe le proposte avanzate?Le più importanti riguardano l’esigenza di portare avanti previsioni le-gislative a livello europeo e degli Stati membri coerenti con il principio del perseguimento del migliore interesse del minore, da esplicitare su problematiche relative alle procedure di richiesta d’asilo, il tutore, i per-corsi di inserimento sociale, i ricongiungimenti familiari, gli interventi

DOSSIER

MINORINON ACCOMPAGNATI

6

Minori, stranieri, soli: la quintessenza della vulnerabilità.

Intervista all’on. Paolo Fontanelli

di Serena Naldini

di cooperazione con le comunità di origine, l’azione di contrasto verso il traffico illegale di minori, le misure di protezione. La sollecitazione era volta al riconoscimento dello status del minore stra-niero non accompagnato costruendo un quadro normativo specifico. In questo contesto si chiedeva un pieno coinvolgimento degli Enti Locali e delle Regioni nella governance territoriale di questo fenomeno. Nel dispositivo finale del parere avevamo messo l’impegno, che chiamava in causa la Commissione Europea, alla programmazione di una confe-renza biennale europea sul tema dei minori stranieri non accompagnati, coinvolgendo anche le organizzazioni non governative, le associazioni degli immigrati e altre associazioni specializzate sull’immigrazione.

Quali sono state le maggiori difficoltà?La differenza di approccio e di opinioni sia tra le diverse componenti politiche, sia tra le delegazioni nazionali. Il confronto fu molto difficile. C’erano posizioni che partivano da un’ostilità pregiudiziale perché leggevano il tema dei minori come un possibile rischio di apertura verso flussi migratori incontrollati o come un incoraggiamento alla immigrazione clandestina. Ricordo che quando abbiamo approvato il testo del parere in commissione e l’abbiamo inviato al Comitato delle regioni è arrivata anche una lettera del Governo Tedesco che esprimeva pesanti riserve sul testo. Il numero degli emendamenti allora presentati fu molto alto, tuttavia attraverso una discussione vivace e approfondita riuscimmo a comporre molte posizioni e alla fine il parere fu votato con un’ampia maggioranza. Non era scontato.

Come descriverebbe i principali risultati?A questa domanda rispondo con difficoltà perché negli ultimi anni non ho seguito l’attività del CdR e non ho dati di verifica sull’attuazione degli obiettivi nei diversi Paesi europei. Certamente posso dire che in Italia, dal 2006 al 2008, qualche passo avanti fu realizzato. Poi, di fronte al rilevante aumento del flusso migratorio dal Nordafrica, c’è stato un serio arretramento prodotto da normative assai restrittive. La stessa indagine conoscitiva sui minori stranieri non accompagnati pro-mossa dalla “Commissione parlamentare per l’infanzia e l’adolescenza” ha rilevato numerosi problemi di compatibilità con la Convenzione di New York sui diritti del fanciullo in ordine alla fase di identificazione e di accoglienza dei minori stranieri arrivati a Lampedusa e nel Sud dell’Italia. Inoltre la pratica dei respingimenti in mare ha messo in evi-denza un contrasto con le direttive sul diritto di asilo dei migranti, e in modo particolarmente acuto verso i minori.

Nato a Santa Maria a Monte nel 1953. Nel 1998 è eletto Sindaco di Pisa e viene riconfermato nelle elezioni del 2003. Nelle elezioni del 13 e 14 aprile 2008 è eletto Deputato. È membro della Commissione Affari Costituzionali della Camera e Respon-sabile nazionale forum “Salute” del Partito Democratico.

PAOLO FONTANELLI

L’esperienza di 6 comuni italiani

a cura di Serena Naldini

1 fasi della presa in carico

2 parametri delle comunità di accoglienza

3 eventuali cambiamenti intervenuti in seguito al decreto sicurezza (d. lgsl. 94/2009)

4 paesi di origine

COMUNE DI ANCONARiva Piceciresponsabile servizi sociali unità operativa minori

1 intercettazione in zona porto dalla polizia di frontiera; identificazione e accertamento dell’età, se necessario presso ospedale pediatrico; accompagnamento presso comunità di pronta accoglienza aperta h24 (tempo massimo accoglienza 60 gg) e presa in carico del minore da parte del servizio socio-educativo; la presa in carico prosegue fino a conclusione del progetto, anche dopo trasferimento presso comunità educative del territorio

2 requisiti strutturali e organizzativi come da parametri previsti dalla L.R. 20/2002

3 difficoltà nel motivare i ragazzi over 15 al progetto di integrazione a causa di maggiore incertezza rispetto al proprio futuro

4 su 72 minori accolti nel 2011, 35 sono afghani. Da alcuni anni sono la presenza più numerosa, seguiti da albanesi, siriani, pakistani, somali, turchi, bengalesi

COMUNE DI TORINOLaura Marzinresponsabile ufficio minori stranieri in p.o.

1 intercettazione e segnalazione a Ufficio Minori stranieri del Comune da parte di Forze dell’Ordine, servizi sanitari, servizi della Giustizia minorile oppure accesso diretto dei minori in autonomia o accompagnati da un connazionale; pronta accoglienza e prima valutazione della situazione fisica e psicologica da parte degli operatori del PIM - Pronto Intervento Minori; collocazione in struttura adeguata; attività finalizzata all’ottenimento del documento di identificazione; invio a Procura della Repubblica presso Tribunale per i Minorenni di Torino del verbale di affidamento del minore; segnalazione al Giudice Tutelare per l’apertura della tutela; predisposizione di un progetto educativo

2 strutture delle tipologie individuate da D.G.R. 15/03/2004 n. 41-12003: in maggioranza accreditate, cioè iscritte all’Albo fornitori accreditati di servizi socio-assistenziali residenziali per minori o a gestione diretta. Da fine anni ‘90, sono affiancate da una gamma di strutture “a bassa soglia” gestite da educatori e volontari.

3 su 237 minori accolti nel 2011, i 34 che hanno compiuto la maggiore età hanno ottenuto il permesso di soggiorno perché avevano i requisiti o in virtù del parere positivo del comitato minori stranieri

4 Egitto (città di Kalyoubia, Asiut, El Monofya), Senegal (Louga, Taiba Ndiaye, Keursouleye, Dakar - quartiere Pikine e Saint Louis), Afghanistan (Ghazni, Jaghuri e Mazar Sharif, Kandahar, Kabul ed Herat), Marocco (Casablanca - quartiere Sidi Moumen), Tunisia (Mahadia) e Turchia (maggior parte Halfeti, anche Araban e Bozova).

Una mattina come le altre, mi sono svegliata e non c’era più. L’ho cercato dappertutto, ma

non l’ho trovato». È il 2007. Alice ha 17 anni e si trova in Italia da qualche mese. «Papà se ne era davvero andato senza dirmi una parola. Nessun biglietto, niente. Così, sono rimasta da sola». Alice racconta del suo viaggio dalla Nigeria all’Italia, attraverso la Libia. Prima meta, Bari. «Siamo stati accolti in un centro di accoglienza. Grande, con molte persone», spiega. «È lì che abbiamo conosciuto un ragazzo del mio Paese che era diretto a To-rino. Abbiamo deciso di seguirlo. Quando eravamo ospiti da lui, mio papà ha trovato un lavoro in fabbrica. Poi, quando il con-tratto è scaduto, gli hanno detto che non c’era più lavoro e ha deciso di lasciarmi», conclude con naturalezza.Alice presto si accorge che l’ospitalità degli amici non basta. Si presenta in Questura e finisce in una comunità per minori. «Ero arrabbiata da morire con mio padre. Pensavo con rabbia anche al resto della mia famiglia, a mia madre, ai miei fratelli», confessa Alice. «Ma guardavo con sospetto anche tutti gli altri adulti. Anche quelli che dicevano di volermi aiutare», continua. «Magari mi succede di nuovo, pensavo. Mi fido di qualcuno

e vengo lasciata da sola un’altra volta». Mentre vive in comunità, Alice frequenta per due anni la scuola alberghiera e, dopo il diploma, trova subito un lavoro in un ristorante del centro con un contratto di apprendista. Quindi lascia la comunità e va a vivere da sola. «Non è stato facile. Ma ne-anche così difficile», ammette. «La maggior parte dei miei connazionali pensa di poter avere ciò che vuole, senza dover muovere un dito, senza fatica. E stanno lì a lamen-tarsi e basta». Gli occhi neri si illuminano di uno spicchio di esperienza già vissuta, nonostante i ventun anni. «Nessun posto è perfetto», dice. «Ovunque, c’è qualcosa che puoi avere e qualcosa che non puoi avere. Ma comunque, se c’è qualcosa che desideri, devi lavorare per averla». Dopo due anni da quando l’ha abbandonata, il padre di Alice si ripresenta. «Però, ormai... Non avevo più piacere a stare con lui, o fare delle cose insieme a lui. Già troppo tempo era passato», afferma. «Non so dove viva, adesso. È più di un anno che non lo vedo. Anche di mia mamma, ho perso le tracce». La vita di Alice è semplice. Vive da sola. Ha un ragazzo, nigeriano anche lui, con il quale esce di tanto in tanto. Ogni giorno va al lavoro e, quando ha qualche soldo, va a farsi un giro con le amiche. «Qualche ricordo della Nigeria ce l’ho, ma

Che opinione ha della situazione odierna?Siamo ampiamente al di sotto delle necessità. C’è ancora molta confusione sulla prima fase di gestione del problema. A molte difficoltà di accertamento dell’identità, si risponde con la logica del rimpatrio. E questo non è accettabi-le per i minori perché si violano le convenzioni internazionali e non si tiene conto del “supe-riore interesse del minore”. È assolutamente necessario e urgente definire linee guida chiare e uniformi e occorre preparare un personale adatto a trattare questi aspetti. Sulle proposte di miglioramento penso che sarebbe un grosso passo avanti realizzare quanto ipotizzato dalle conclusioni della “Commissione parlamentare per l’infanzia e l’adolescenza”. Proposte che riecheggiano una buona parte del parere del CdR votato nel 2006, rafforzando anche il finanziamento del “Programma nazionale di protezione dei minori stranieri non accom-pagnati” avviato nel 2008 e che ha dimostra-to che attraverso un forte protagonismo dei Comuni è possibile sviluppare una efficace rete di accoglienza.

Nel biennio 2009-2010, sono 845 i Comuni che hanno preso in carico almeno un minore straniero non accompagnato, per un totale di 10467 accolti (5879 nel 2009, 4588 nel 2010). È uno dei dati che emerge dal Quarto Rapporto Anci-Cittalia sui minori stranieri non accompagnati, promosso dal Dipartimento Immigrazione. All’indagine, rivolta a tutti i Comuni italiani, hanno risposto 5951 amministrazioni, il 73,5% del totale. A prendere in carico i minori non accompagnati sono principalmente le città con più di 100 mila abitanti (63%). Tra i giovani accolti, il 55% ha 17 anni e il Paese di provenienza prevalente è l’Afghanistan (16,8%), seguito da Bangladesh (11%) e Albania (10%). Altri dati rilevanti sono la diminuzione degli allontanamenti ( da 6 su 10 nel 2006, a 3 su 10 nel 2010) e l’aumento degli affidamenti (dal 36% nel 2008, al 65% nel 2010), di cui il 64% a famiglie provenienti dallo stesso Paese del minore.

«

COMUNI: I NUMERIDELL’ACCOGLIENZA

8

Meglio guardare avanti. Parola di Alice.

Il racconto di Alice e del suo viaggio dalla Nigeria all’Italia, passando per la Libia

di Serena Naldini

non mi piace», dice Alice. Poi sorride. «Meglio dimenticare per adesso. Magari più avanti. Non ho proprio voglia. Prima faccio la mia vita, e poi penso al resto». Mano a mano, il rancore passa. Si liquefà in dolore e lascia spazio al presente e al futuro. Alice parla con gratitudine degli educatori della comunità che l’hanno aiutata a guardare avanti. «Mi sono stati vi-cini», dice. «Mi hanno fatto capire che non ci si può fermare sempre allo stesso punto, nello stesso posto. Sono stati dei genitori migliori dei miei. Mi hanno fatto sentire che posso anche appoggiarmi a qualcuno. Che non sono sola. Posso ancora contare su di loro, tutte le volte che ho bisogno». Ma la stima è reciproca. Alice è diventata uno dei fiori all’occhiello della comunità. Alice scoppia a ridere quando le dico che gli educatori l’hanno definita la più brava di tutti. «La più brava? Io faccio solo del mio meglio».

Il 25 ottobre, nel centro storico di Benevento, la comunità per minori L’Arca di Noè, gestita dalla cooperativa sociale Il Faro, riprende le attività dopo le opere di ristrutturazione. Nuova

nuova. Come nuovi sono gli ospiti che accoglie quest’anno. In una regio-ne in cui la cooperazione sociale è già specializzata, per forza e per amore, nella tutela dei minori a rischio, la comunità alloggio di Benevento che per anni ha seguito i percorsi di questi giovani ha aperto le porte, ai tempi dell’emergenza Nordafrica, a sei ragazzi egiziani. Tecnicamente si tratta di minori non accompagnati. Praticamente, di sei vite da far ripartire in un altro paese, lontani da famiglia e amici. A 15 anni, mese più, mese meno.L’idea è nata grazie alla collaborazione tra il consorzio Connecting People - già impegnato nell’emergenza Nordafrica su diversi fronti - il consorzio Amistade di Benevento, che con Connecting gestisce il centro di acco-glienza per stranieri di San Lupo, e la cooperativa Il Faro, responsabile della comunità per minori di Benevento. Quanto al piano istituzionale, il Comune è l’amministrazione responsabile per la presa in carico dei mino-ri stranieri non accompagnati, mentre l’autorità responsabile per l’invio in accoglienza dei minori giunti in Italia nell’ambito dell’emergenza Nor-dafrica è il Ministero del Lavoro, cui già faceva capo il Comitato Minori Stranieri. I sei ragazzi sono sbarcati, come tanti, a Bari, il 24 ottobre 2011, per giungere infine a Benevento il giorno successivo. Oggi vivono nella comunità-famiglia, sono seguiti dal personale del centro - direttore, sei operatori, mediatore culturale - e da alcuni volontari e la loro vita è fatta di scuola, sport, divertimento, di corsi di italiano, dei primi amori. Avranno tutto il tempo di completare i tre anni del programma di inseri-mento richiesto dalla legge per poter ottenere un permesso di soggiorno alla maggiore età. Nel frattempo, diventeranno un po’ italiani, un po’ beneven-tani, e se nei loro documenti apparirà ancora un’altra nazionalità, l’accento (campano, non egiziano), invece, diventerà presto inconfondibile.

DOSSIER

MINORINON ACCOMPAGNATI

COMUNE DI VENEZIAPaola Sartorifunzionario responsabile servizio politiche cittadine per l’infanzia e l’adolescenza (di cui fa parte l’unità operativa minori stranieri non residenti), direzione politiche sociali, partecipative e dell’accoglienza

1 intercettazione e segnalazione a sportello di accoglienza da parte di Forze dell’Ordine o accesso diretto; pronta accoglienza e verifica presenza di adulti di riferimento, eventuale precedente accoglienza su territorio italiano, minore età; valutazione del minore, storia e bisogni specifici (8 settimane di prima accoglienza); predisposizione di progetto educativo di seconda accoglienza (di cura e protezione se minore under 15, di accompagnamento all’autonomia se tra i 15 e i 17, di sgancio se over 17). In questo periodo il minore vive in comunità educativa (o familiare se under 12 anni), in famiglia (parentale o non, attraverso la risorsa dell’affido familiare), in appartamento protetto, se over 17 anni non vulnerabile

2 esistono comunità di Pronta accoglienza specifiche per MSNA in grado di accogliere i ragazzi h24 collegate all’attività di Prima Accoglienza del Comune

3 nessuna difficoltà, anche perché questa norma è stata alleggerita dalla possibilità di conversione del permesso di soggiorno in virtù del parere positivo del Comitato Minori Stranieri. Non ci sono stati mancati rinnovi in numero significativo, e anche laddove ci siano stati, molti hanno fatto ricorso

4 su 292 minori accolti nel 2011, prevalenza di Afghanistan (quasi tutti richiedenti protezione internazionale) e Bangladesh, seguiti da Albania e Kossovo. Oltre a questi minori, ci sono molti curdi e dell’Africa del nord e subsahariana.

COMUNE DI MODENAFrancesca Malettiassessore alle politiche sociali, sanitarie e abitative

1 intercettazione e segnalazione al Comune da parte delle Forze dell’Ordine; accompagnamento presso punti di accoglienza di pronto intervento (comunità, famiglie o altre strutture)

2 parametri definiti da delibera regionale modificata da poco, diversificati in base all’età. Sono previsti mediatori interculturali, anche se non stabiliti dalla delibera

3 è cambiata la tipologia degli arrivi: l’età si è abbassata ai 14-15 anni. I minori che non possono dimostrare questo triennio rimangono in comunità e presso famiglie, in caso di affido, fino ai 18 anni. In caso di non conversione del permesso, se possibile, tentiamo un ricongiungimento o un percorso di rimpatrio. Sono pochissimi casi, in virtù del calo dell’età di arrivo. Il decreto sicurezza ha aumentato le spese dei comuni per l’accoglienza

4 2011 sono 96 soprattutto da Bangladesh, Pakistan e Marocco.

I ragazzi di Benevento

La storia di sei ragazzi egiziani ospiti della comunità “L’arca di Noè” di Benevento

di Arianna Cascelli redazione Storie di Questo Mondo

Si è dovuto attendere il mese di maggio 2011, ovvero molte settimane dopo l’inizio della cosiddetta emergenza Nordafrica,

per avere un provvedimento del Governo volto ad affrontare la situazione dei minori stranieri non

accompagnati giunti fino a quel momento a Lampedusa. Un lungo periodo durante il quale l’accoglienza è avvenuta in maniera assolutamente improvvisata e al di fuori di ogni garanzia prevista dall’ordinamento nazionale e internazionale. Le poche strutture presenti

sull’isola, peraltro inadeguate agli standard di legge, hanno funzionato a intermittenza e in modo discontinuo. Con il decreto del 18 maggio 2011, il Commissario delegato alla protezione Civile, Prefetto Franco

Gabrielli, ha adottato provvedimenti straordinari per assicurare l’accoglienza di centinaia di minori soli che erano giunti in Italia e si trovavano ancora a Lampedusa. Il decreto prevede una procedura innovativa che colloca presso il Ministero

del Lavoro una cabina di regia per la gestione di un sistema di strutture ponte, dislocate su tutto il territorio nazionale, per l’accoglienza di minori stranieri non accompagnati. Un sistema, quindi, complementare a quello ordinario delle

case famiglia. A giugno risultavano presenti sull’isola ancora più di trecento minori stranieri non

accompagnati di età compresa tra i 14 ed i 17 anni. Alcuni, già identificati, erano alloggiati presso l’ex base militare Loran, classificata nel sito del Ministero degli Interni come Cie, ma di fatto considerata ormai un’appendice

del Cpsa, che a sua volta funzionava come un centro chiuso, inaccessibile persino agli avvocati. Le condizioni igienico-sanitarie erano al disotto di ogni standard accettabile. La carenza dell’acqua corrente e gli ambienti fatiscenti erano solo alcuni dei problemi. I giovani migranti erano costretti a muoversi in ambienti angusti tra materassi di gommapiuma sporca, logora, buttati per terra uno accanto all’altro, senza lenzuola, né tanto meno coprimaterasso. Per nessuno è stato nominato un tutore, come previsto dalla legge italiana, né disposta alcuna forma di affidamento. Diverse organizzazioni umanitarie, anche quelle presenti sull’isola, hanno denunciato queste condizioni che apparivano in palese violazione dell’art. 13 della Costituzione, nonché della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo.Ad ogni modo, il piano della protezione civile ha cercato di dare risposte attraverso un sistema che potesse, attraverso il Ministero del Lavoro, implementare una procedura immediata per l’accoglienza di centinaia di minori non accompagnati che non riuscivano a essere adeguatamente collocati nell’ordinario sistema d’accoglienza, ovvero nelle comunità.Questa esperienza ha coinvolto e sta coinvolgendo diverse organizzazioni umanitarie che si sono rese disponibili, in accordo con i comuni, all’accoglienza dei giovani stranieri, garantendo risorse umane e strutture adeguate allo scopo. Caritas Italiana è stata tra quelle realtà che sin dall’inizio hanno sostenuto questa nuova sperimentazione nel convincimento che neanche un giorno in più si sarebbe potuto protrarre quanto stava accadendo a Lampedusa. Per questo motivo circa 200 ragazzi hanno trovato ospitalità in strutture della

DOSSIER

MINORINON ACCOMPAGNATI

Il sistema di accoglienza dei minori stranieri?

Si può e si deve rinnovare

Alcune considerazioni alla luce dell’emergenza Nordafrica

di Oliviero Forti

Caritas dislocate tra Sicilia, Campania e Basilicata. Il bilancio di questa esperienza, ad oltre 6 mesi dal suo inizio e a poche settimane dalla sua chiusura a seguito del trasferimento dei giovani ragazzi nelle comunità, è certamente positivo.Crediamo, infatti, che le perplessità espresse nella fase iniziale da alcuni attori istituzionali che temevano la semplice creazione di un sistema parallelo e alternativo a quello ordinario, siano state ampiamente fugate. I risultati ottenuti in alcuni casi sono stati al di sopra delle aspettative, dimostrando che un nuovo sistema di accoglienza per i minori stranieri non accompagnati, non solo è possibile ma forse necessario.I flussi migratori che negli ultimi anni hanno interessato il nostro paese sono stati caratterizzati anche dall’arrivo crescente di minori soli che non sempre hanno trovato risposte adeguate sui territori, anche a causa delle grandi fatiche legate a un taglio delle risorse agli enti locali. L’esperienza dei centri di accoglienza temporanea potrebbe costituire uno stimolo per avviare questa riflessione nell’ottica di ridefinire un sistema nazionale d’accoglienza pronto a rispondere anche a emergenze come quella avutasi a Lampedusa.

OLIVIERO FORTI“Questa esperienza ha coinvolto e sta coinvolgendo diverse organiz-zazioni umanitarie che si sono rese disponibili, in accordo con i comuni, all’accoglienza dei giovani stranieri, garantendo risorse umane e strutture adeguate allo scopo”

Oliviero Forti, responsabile dell’Ufficio Immigrazione di Caritas Italiana

COMUNE DI CATANIAPina Panebiancoassistente sociale, direzione politiche sociali e per la famiglia

1 intercettazione e segnalazione agli Uffici del Comune da parte delle Forze dell’Ordine o accesso diretto accompagnati da operatori Caritas, volontari o connazionali adulti (durante emergenza 2011, intercettazione di Questure e Prefetture nei punti di sbarco); ricerca di posti liberi nelle comunità del territorio; comunicazione a Prefettura e Questura dell’inserimento del minore in struttura

2 strutture per minori autorizzate per max 10 posti, convenzionate con la Regione. Professionalità: educatori, assistente sociale, psicologo. Se ci sono minori stranieri, anche mediatore culturale e assistenza legale

3 nessun cambiamento. Per coloro ai quali non sarebbe spettata la conversione, è stata applicata la modifica dell’art. 32. 3 ragazzi hanno ottenuto parere positivo del Comitato Minori Stranieri; altre 4 richieste in corso

4 41 minori attualmente in accoglienza. Dall’emergenza Nordafrica - da marzo 2011 - prevalentemente tunisini. Prima, egiziani. Diversi dal Bangladesh, che arrivano accompagnati da adulti con permesso di soggiorno.

COMUNE DI ROMAMargherita Occhiutou.o. minori, p.o. protezione minori

1 intercettazione e identificazione da parte delle Forze dell’Ordine, segnazione alla Sala Operativa Sociale; ricerca e accompagnamento presso struttura di accoglienza

2 strutture max 10 posti con standard definiti da legge regionale 41/2003, regolamento 1305 della Regione Lazio. Sono affiancate da altre strutture con standard più bassi dati i numeri delle richieste di ingresso, anche fuori dal territorio regionale

3 nessuna modifica. Nessun abbassamento dell’età di arrivo. Età di arrivo standard: 16 anni. I denegati, mediante ricorso, hanno ottenuto la conversione del permesso alla maggiore età, perché in possesso di permesso di soggiorno con motivazione di tutela

4 nel 2011, si registra incremento dell’88 per cento rispetto al 2010 (da 1184 a 2.224 minori), in particolare di minori originari dell’Africa subsahariana (dai 32 ivoriani nel 2010, a 372 nel 2011). Paese principale il Bangladesh (dal 2008). Nel 2011: 425 Bangladesh, 372 Costa d’Avorio, 308 Egitto, 194 Mali, 136 Tunisia, 105 Guinea. Il totale delle nazionalità: 50.

Incontriamo Mbaye nella Chiesa di Santa Chiara nel quartiere popolare di San Cristoforo a Catania, sede

della Comunità di Sant’Egidio. È circondato da ragazzini perché è uno dei volontari che si occupano di un servizio di doposcuola per i bambini del quartiere, la Scuola della Pace. Mbaye è musulmano ma non è un problema per nessuno.

Quando sono arrivati i tuoi genitori in Italia?

Mio padre arriva nell’87 con un permesso di soggiorno lavorativo: lavorava al merca-to di Catania. Poco dopo viene raggiunto da mia madre e un anno dopo nascono i miei due fratelli maggiori, gemelli, Khadim e Djily. Nel ’92 nasco io e nel 2000 nasce mia sorella Ibra.

Come sono stati accolti i tuoi genitori dalla società catanese di allora?

Vivevamo nel quartiere popolare di San Cristoforo, nel centro storico di Catania, e dai racconti dei miei genitori non mi risulta alcun particolare episodio di discri-minazione nei confronti della mia famiglia; anche se il cretino di turno c’era sempre, ma era un’eccezione. Abbiamo stretto diversi rapporti di amicizia con i vicini e in particolare con la padrona della casa che abbiamo preso in affitto: ora la considero la mia nonna “adottiva”.

Come hai trascorso i primi anni della tua vita?

Ho un ricordo molto positivo dei primi anni di scuola. Vivevo la mia vita come qualsiasi altro ragazzino catanese. Anzi forse anche con maggiore intensità: il periodo del liceo è stato pieno di attività dedicate all’incon-tro fra le culture e contro le discriminazioni.

Quando e perché i tuoi genitori hanno deciso di tornare in Senegal?

Di solito i Senegalesi intendono la mi-grazione come qualcosa di temporaneo: spesso si prevede di tornare in patria. A questa idea di base si aggiunge il fatto che mio padre aveva iniziato a percepire la crisi economica e lavorativa che avrebbe poi investito la Sicilia e l’Italia intera. Per queste ragioni, quindi, mio padre è tornato in Senegal nel 2007. I miei fratelli maggiori erano già tornati quando erano molto piccoli e io sono rimasto quindi con mia madre e mia sorella Ibra. Avevo 16 anni e frequentavo il liceo. Nel giugno del 2008

andai in vacanza in Senegal e a settembre tornai da solo a Catania.

La tua era una condizione di minore straniero non accompagnato, ma sei riuscito a evitare di andare in comunità. Come hai fatto?

Ho avuto la fortuna di conoscere la Co-munità di Sant’Egidio e con essa le due persone che sono diventate i miei tutor scolastici, Massimo e Rosangela, i quali si sono occupati di seguirmi negli studi. Ho evitato così che la scuola avvertisse i servizi sociali e ho potuto tranquillamen-te finire il liceo a Catania, continuando a vivere nella stessa casa dove vivevo insie-me ai miei genitori. Fondamentale è stato l’appoggio di mia “nonna” che mi è stata sempre molto vicino.

Quando hai deciso di diventare italiano?

Già da piccolo mi sentivo italiano, ma ricordo un giorno in cui una signora al supermercato mi spiegò che in realtà non ero italiano: avevo 11 anni. Iniziai allora a percepire la profonda ingiustizia che vi-vono tutti i figli di immigrati che nascono in Italia. Nati e cresciuti in Italia, vanno nel paese di origine dei propri genitori magari solo per le vacanze, ma sono diversi dai loro compagni di banco perché devono svegliarsi alle 5 del mattino e saltare un giorno di scuola per andare a rinnovare il permesso di soggiorno all’Ufficio Immi-grazione. È un’ingiustizia sottile ma che segna molto. Sono cresciuto da italiano e per me è stato quasi automatico pren-dere la cittadinanza al compimento della

Mbaye. Italiano, da sempreDi origine senegalese il 21 giugno del 2011, ha giurato fedeltà

alla Repubblica Italiana. Il racconto delle emozioni per una firma che va ben oltre la semplice acquisizione della cittadinanza.

di Serena Bordignon

12

incontri

maggiore età. Dopo il diploma mi sono iscritto all’Università e ho quindi ottenuto un permesso per motivi di studio. Il 21 giugno del 2011, esattamente 3 giorni dopo il mio diciannovesimo compleanno, ho giurato fedeltà alla Repubblica Italiana. Ricordo che non riuscivo a firmare per l’emozione, ma in fondo per me è stata semplicemente la formalizzazione di un dato di fatto: il mio essere italiano andava oltre i documenti.

Come vivi la tua doppia identità culturale? Ti crea problemi?

Il segreto è comporre le due identità senza farle scontrare: esse non si escludono a vi-cenda. Mangio la pasta tutti i giorni, ma la domenica vado a mangiare senegalese da alcuni vecchi amici di famiglia. Credo che avere la possibilità di osservare la realtà da prospettive diverse sia una vera fortuna. Fra i senegalesi emigrati c’è il timore che vengano dimenticate le proprie origini: a volte la comunità senegalese addita coloro che mostrano di essersi integrati troppo bene. Succede così che alcuni si comporta-no da senegalesi a casa e da europei fuori casa. Ma ciò comporta una separazione delle identità che non è utile a nessuno. L’ideale è sviluppare un’identità unica che conservi al proprio interno le caratteristi-che dell’una e dell’altra cultura.

Riesci a mantenere con facilità i legami con i tuoi familiari e la tua cultura di origine?

Comunico con i miei principalmente attra-verso il telefono. Loro vivono in campagna e non c’è internet lì.Uso internet per leggere i giornali locali e tenermi aggiornato sul Senegal.

Di cosa ti occupi al momento e quali sono le tue aspirazioni per il futuro?

Al momento sono iscritto alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Messina. Avrei voluto studiare Scienze Politiche

ma credo che Giurisprudenza sia più spendibile. Il mio sogno è fare un lavoro che mi permetta di viaggiare in Europa. Mi piacerebbe occuparmi di giornalismo oppure insegnare.

Cosa consiglieresti ad un ragazzo senegalese che volesse trasferirsi in Italia?

Al momento la situazione lavorativa è molto difficile per chiunque. Gli direi quin-di di pensarci bene ed elaborare un buon progetto di vita prima di partire.

Credi che ci sia stata un’evoluzione nell’accoglienza in Italia fra l’esperienza dei tuoi genitori e quella di chi arriva ora?

Durante gli anni Ottanta la crisi economica non si sentiva così forte come adesso: un maggior benessere e una maggiore ric-chezza portano a un’accoglienza migliore.

Magari oggi c’è una maggiore sensibilità verso le tematiche relative ai richiedenti asilo e ai rifugiati, ma al tempo stesso os-servo un inasprimento degli atteggiamenti discriminatori nei confronti degli stranieri. Credo che la politica finisca spesso per influenzare negativamente l’opinione pubblica, perché ha bisogno di un nemico al quale dichiarare guerra. Se dalla politica e dai mass-media arrivassero messaggi positivi anche l’opinione pubblica imme-diatamente ne risentirebbe in positivo. Pensiamo per esempio ai fatti di Firenze.

È cambiato qualcosa nella tua vita quotidiana dall’acquisizione della cittadinanza?

Penso innanzitutto ad alcune semplifica-zioni burocratiche, come quelle relative all’iscrizione all’università e al fatto di non dover più pensare al permesso di soggior-no. La cosa fondamentale è che io ora sono cittadino italiano. Punto. Ma in fondo lo ero pure prima.

Cittadini a Roma e Atene?

Il concetto moderno di cittadinanza, ovvero la condizione giuridica che prevede diritti e doveri all’interno di uno stato nazionale, affonda le sue radici nella storia delle istituzioni greche e roma-ne. Nella Grecia antica, è noto, numerose erano le comunità cittadine dette “pòleis”(città), ciascuna con il proprio ordinamento e le proprie istituzioni particolari. Per esempio, ad Atene, culla della ci-viltà occidentale, erano considerati polìtes (citta-dini) esclusivamente i maschi adulti figli di madre cittadina. Restavano pertanto esclusi dalla citta-dinanza, e dai diritti/doveri ad essa connessi, le donne, gli schiavi e gli stranieri (metèci). Questi ultimi potevano trovarsi in città per diversi motivi (commercio, esilio, artigianato…) ed in nessun caso potevano accedere alla cittadinanza, pur go-dendo delle libertà personali e riuscendo anche a

diventare molto ricchi con l’esercizio della loro professione. A Roma lo status di civis romanus (cittadino romano) comportava una notevole se-rie di privilegi civili, sociali e politici. Se nei primi secoli la cittadinanza era posseduta solo dai resi-denti nell’Urbe, con le guerre e le conquiste suc-cessive si pose il problema di integrare nella co-munità dei cittadini anche le popolazioni man mano conquistate in Italia e nel resto dell’Europa. Il culmine dell’ “integrazione”, per dir così, si ebbe nel 212 d.C. con l’emanazione della Constitutio Antoniniana, ad opera dell’imperatore Caracalla, con la quale si concedeva la cittadinanza romana a tutti i residenti entro i confini dell’Impero. Si poteva però diventare cittadini anche per conces-sione politica, per meriti civili e sociali oppure dopo una liberazione dalla schiavitù.

a cura di Mario Indelicato

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incontri

Moises Malumbu, con sua moglie Juliana Romana, ci ricevono nel loro apparta-

mento in zona periferica, ma ben servita, di Roma. Dalle varie stanze spuntano fuori ad uno ad uno i quattro figli (il più grande, che veleggia verso la maggiore età, è in giro per la città a godersi questo inizio di prima-vera nella sua piena adolescenza), ai quali si aggiungono i nostri e altri figli di vicini a formare un gruppo che potrebbe far invidia a qualsiasi oratorio, asilo o gruppo estivo.

Ci accomodiamo per un tè e una birra e Moises subito ci dice: «Anche da noi in Angola a quest’ora del pomeriggio siamo soliti prendere un tè o una birra. Alcune tradizioni sono molto simili, altre le abbia-mo imparate in questi 20 anni di Italia».Moises Malumbu è redattore e condutto-re, per Radio Vaticana, dei programmi in lingua Portoghese per l’Africa e l’Europa. È in Italia dal 1986 dove ha conseguito la Laurea in Scienze Sociali e anche un Dot-torato assieme ad altri diplomi. Grande

studioso, è autore dell’unica grammatica esistente nella lingua del suo paese di ori-gine, l’Angola appunto. Giuliana, invece, ha raggiunto Moises in Italia nel 1993, dopo essersi sposati in Angola: è insegnante con laurea in Scienze dell’Educazione.Sul divano c’è anche la nonna materna, Maria, bella signora che noi diremmo “tipica africana”, avvolta in uno di quei vestiti che splendono per la loro sem-plicità e ricchezza di colori. Parla solo portoghese e umbundu, anche se i suoi

foto

Tri

bbù

di Giorgio Gibertini

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occhi e il suo sorriso sanno parlare tutte le lingue del mondo.Entriamo subito nel vivo del tema del nostro incontro, perché il figlio maggiore compirà 18 anni tra qualche mese e subito mi domandano: «Sarà clandestino? A scuo-la va malvolentieri, non ha un lavoro, però è nato in Italia, ha vissuto tutti questi anni in Italia, tutte le scuole le ha frequentate in Italia. Si sente italiano, è italiano. L’Angola l’ha vista due volte nella vita, come è pos-sibile considerarlo clandestino? Per loro l’Angola è curiosità, è terra straniera».La domanda rimane sospesa. Sono i pro-blemi concreti non solo degli immigrati giunti su un barcone e di cui troppo spesso si parla a sproposito. Questa è la quoti-dianità di chi ha passato più di metà della propria vita nel nostro Paese, lavorando onestamente, pagando le tasse, contri-buendo al famoso Pil della nazione, e non può ancora essere considerato italiano.«Tra l’altro con il nostro paese - mi confer-ma Moises - non ci sono accordi bilaterali quindi è impossibile per noi avere la dop-pia cittadinanza. Anche io e Romana, ti confesso, stiamo pensando di scegliere per la cittadinanza angolana e quindi anche i nostri figli diventeranno angolani (pur essendo tutti nati e vissuti in Italia) e dovremo continuare a vivere di rinnovi di permessi di soggiorno, di carte, richieste e via dicendo. Tra l’altro, per avere la cittadi-nanza italiana sembra che tu debba aver vissuto per un lungo periodo nella stessa abitazione, ma come è possibile per una famiglia come la nostra che in venti anni è cresciuta di cinque figli? Abbiamo spesso dovuto cambiare casa, ma per l’esigenza di dare una residenza dignitosa alla nostra famiglia».Pratiche che, come tutti confermano, non sono sempre semplici e immediate. «Come cittadino angolano - dice Moises - la carta di soggiorno mi dura cinque anni, poi devo chiedere il rinnovo. Ma per me lo posso capire, mi torna incomprensibile verso i miei figli che sono a tutti gli effetti italiani, anche come cultura: io lo vedo che sono molto diversi da me che sono più africano nei modi di fare e nel modo di vivere. Loro sono italiani ed europei. Pensa che il nostro figlio più grande avrebbe voluto anche fare esperienze di volontariato internazionale all’estero, ma se succede qualcosa chi lo va

ad aiutare? L’Italia? L’ambasciata italiana? Per noi questa è una grande sofferenza!».Su questo ultimo ragionamento interviene anche la nonna, 60 anni, presenza silente e amorevole, che cerca di ritagliarsi tempo una volta l’anno per venire a salutare questi nipoti lontani, lasciando la numerosa fami-glia (15 nipoti) nel paese di origine vicino a Luanda. «Questi nipoti sono molto diversi nei modi di fare - dice la signora Maria - e per loro venire a vivere in Angola sarebbe molto difficile, non impossibile, ma molto difficile. Sono a tutti gli effetti europei, o meglio, italiani».Spontanea mi viene di conseguenza la do-manda a tutti: allora voi sareste d’accordo sullo ius soli? È sempre Moises il primo a rispondere: «Certamente, mi stupisco che non sia così. Ma l’Italia è indietro su molti aspetti per ciò che riguarda l’integrazione, e quindi anche sulle leggi. E molte cose sono cambiate, anzi peggiorate, da quan-do vivo in Italia».Mi incuriosisce il termine “peggiorate” e gli chiedo di approfondirlo: «Quando sono arrivato qui nel 1986 - racconta Moises - c’era molta più accoglienza, cordialità, verso lo straniero e sai perché? La gente

era curiosa, voleva sapere, conoscere! Con gli anni la società italiana è cambiata dal punto di vista del rispetto verso l’altro e non intendo solo verso noi immigrati o stranieri ma anche verso gli anziani, gli handicappati, le donne, i membri delle altre religioni. Io lavoro in Vaticano, come sai, e devo essere sempre vestito elegante-mente e spesso, se qualcuno mi rivolge la parola in autobus, mi chiedono se sono un sacerdote o funzionario di qualche amba-sciata: non c’è la possibilità di pensare che io sia un padre di famiglia in Italia da venti anni e che fa il giornalista! Se in autobus sale un anziano o una donna incinta si dirigono, per farsi cedere il posto, verso lo straniero perché in quel momento è il più debole della catena sociale e quindi è lui che deve cedere il posto. Ancora un po’ di pregiudizio c’è verso lo straniero. Quando dico che lavoro in Vaticano mi chiedono se faccio il giardiniere! Pure nostra zia, suora e medico, quando deve andare in ospedale a fare delle punture deve ancora subire il fatto che molti pazienti chiedano l’inter-vento della caposala italiana per essere rassicurati. Tu, dico a te, ti faresti operare da un dottore straniero?»

Come si acquisisce la cittadinanza in Italia

I modi di acquisizione della cittadinanza sono prevalentemente due: Ius Soli che fa riferimento alla nascita sul “suolo”, sul territorio dello Stato e si contrappone, nel novero dei mezzi di acquisto del diritto di cittadinanza, allo ius sanguinis, im-perniato invece sull’elemento della discendenza o della filiazione. Per i paesi che applicano lo ius soli è cittadino originario chi nasce sul territorio dello Stato, indipendentemente dalla cittadinan-za posseduta dai genitori. La legge 91 del 1992 indica il principio dello ius sanguinis come unico mezzo di acquisto della cittadinanza a seguito della nascita, mentre l’acquisto automatico della cittadinanza iure soli continua a rimanere limita-to ai figli di ignoti, di apolidi, o ai figli che non seguono la cittadinanza dei genitori. Altri modi per acquisire la cittadinanza sono la iure commu-nicatio, ossia la trasmissione all´interno della fa-

miglia da un componente all´altro (matrimonio, riconoscimento o dichiarazione giudiziale di filia-zione, adozione), del “beneficio di legge”, allor-ché, in presenza di determinati presupposti, la concessione avvenga in modo automatico, senza necessità di specifica richiesta, e, infine, la “natu-ralizzazione”. Questa comporta non una conces-sione automatica del nuovo status ma una valu-tazione discrezionale da parte degli organi e degli uffici statali competenti. Alcuni, pensano di introdurre, come ulteriore mezzo di acquisto del-la cittadinanza lo Ius Soli Temperato consistente in una nuova ipotesi di ius soli proprio con la pre-visione dell’acquisto della cittadinanza italiana da parte di chi è nato nel territorio della Repub-blica da genitori stranieri di cui uno almeno sia residente legalmente in Italia senza interruzioni da cinque anni al momento della nascita.

a cura di Salvo Tomarchio. Fonte: Altalex

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incontri

P A N O R A M I C A E U R O P E A S U L L ’ A T T R I B U Z I O N E D E L L A C I T T A D I N A N Z A

ACQUISIZIONE DELLACITTADINANZA

in virtù dello IUS SANGUINIS (diritto di sangue),per il fatto della nascita da un genitorein possesso della cittadinanza.Ha validità in Italia.

in virtù dello IUS SOLI (diritto del suolo),per il fatto di essere natosul territorio dello stato.Non ha validità in Italia.

Ogni ordinamento stabilisce le regole per l'acquisto e la perdita della cittadinanza. In molti stati i princìpi al riguardo sono stabiliti a livello costituzionale, in altri invece, tra i quali l'Italia, la disciplina è interamente demandata alla legge ordinaria. La cittadinanza si può acquisire:

Rimane sospesa la domanda per un po’ e sento i sorrisi dei miei amici attorno assieme a quello di mia moglie. Ci conosciamo da troppi anni per inter-pretare male la domanda e la risposta, però capisco dove vuole spingere il ragionamento Moises e lo assecondo.«Uno dei grossi problemi - continua Moises - è l’ignoranza. C’è molta alfa-betizzazione in Italia rispetto a noi, è vero, e questo è un grande pregio. Eppure c’è tanta ignoranza. Prendia-mo il caso della neve a Roma. Quante volte ho sentito il commento: a Roma si stanno comportando peggio di un paese dell’Africa. Ma ditemi voi: dov’è quel paese dell’Africa in cui nevica?»Interviene Juliana: «Per non dire di tutte quelle volte che ci dicono: “Ah, siete dell’Africa” come se l’Africa fosse un paesino di 300, massimo 400 abi-tanti. Sembra proprio che non vi sia la consapevolezza dell’enormità del no-stro continente e delle sue molteplici ricchezze e varietà. Spesso ci chiedono

anche se abbiamo l’acqua, in Africa».Sorridiamo tutti bevendo un altro sorso di tè e prendendo biscotti. I bambini giocano e corrono per la casa e quell’appartamento sta trasfor-mandosi piano piano in un campo di battaglia. Entra Wandy, la piccolina, e domando loro, i figli, come vivono “il colore della pelle”.Juliana riprende la parola: «Devo essere sincera e dire che finché sono piccoli grandi problemi non ci sono. È crescendo, con l’adolescenza, che ma-gari cominciano le cattiverie perché sentono frasi ingiuriose sul colore della pelle e quindi devono vincere la tenta-zione di rassegnarsi a essere cittadini italiani di serie B». Che cosa manca all’Italia, provo a chie-dere. Secondo Moises leggi adeguate per l’integrazione supportate da un grande lavoro culturale verso la popo-lazione italiana. Juliana invece allarga il discorso alla Storia: «L’Italia ha colo-nizzato per poco tempo i paesi africani

che aveva conquistato con la guerra. Se vedi, ad esempio la Francia, che ha tenuto a lungo le colonie africane, è più avanti anche per l’integrazione. Io ho anche una sorella che vive in Olan-da e si trova benissimo perché in quel paese se studi e lavori hai diritto a una casa e automaticamente ricevi il permesso di soggiorno. Questo vuol dire aiutare lo stra-niero a integrarsi, a partire alla pari con gli altri, senza cercare di vivere di espedienti o arrangiarsi e quindi spesso delinquere».Ci salutiamo, con la cordialità di sem-pre ma il cuore più ricco. Si rincorrono nella mente tante parole: ius soli, giardiniere del vaticano, colonie afri-cane e via dicendo… Per me sono solo parole che si rincorrono: per loro una difficile quotidianità da continua-re a rincorrere.

SPAGNALa cittadinanza si acquisisce per nascita da padre o madre spagnola, oppure per nascita sul territorio anche da cittadini stranieri, di cui però almeno uno deve essere nato anch’esso in Spagna. Per naturalizzazione, dopo residenza legale per 10 anni, ma questo tempo viene ridotto a due anni per i cittadini di paesi iberoamericani e altri paesi con legami particolari con la Spagna. Il tempo si riduce a un anno in caso di nascita sul territorio nazionale o matrimonio con un cittadino spagnolo.

GRAN BRETAGNAAcquista la nazionalità britannica chi nasce sul territorio britannico anche da un solo genitore che sia già cittadino britannico al momento della nascita, o che è legalmente residente nel paese a certe condizioni (si deve possedere l’’Indefinite leave to remain’ (Ilr), oppure ‘Right of Abode’). La nazionalità si può anche acquistare per “ius sanguinis”, cioè per discendenza, ma solo se almeno uno dei genitori è già cittadino britannico, a sua volta non per ius sanguinis. Per la naturalizzazione, se si è sposati a un cittadino britannico, è sufficiente avere l’Ilr ed essere stato legalmente residente almeno tre anni. Altrimenti servono cinque anni di residenza legale. In entrambi i casi si deve passare un test di conoscenza della lingua e cultura britannica.

a cura di Salvo Tomarchio.Fonte: Apcom

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ACQUISIZIONE DELLACITTADINANZA

in virtù dello IUS SANGUINIS (diritto di sangue),per il fatto della nascita da un genitorein possesso della cittadinanza.Ha validità in Italia.

in virtù dello IUS SOLI (diritto del suolo),per il fatto di essere natosul territorio dello stato.Non ha validità in Italia.

Ogni ordinamento stabilisce le regole per l'acquisto e la perdita della cittadinanza. In molti stati i princìpi al riguardo sono stabiliti a livello costituzionale, in altri invece, tra i quali l'Italia, la disciplina è interamente demandata alla legge ordinaria. La cittadinanza si può acquisire:

OLANDAAnche in Olanda, in generale la nascita sul territorio non garantisce la cittadinanza. Invece chi è nato dopo il 1985 da un padre o madre olandesi e sposati, o da madre olandese non sposata, acquista automaticamente la nazionalità olandese, anche se nasce fuori dal territorio. La naturalizzazione

semplificata (c.d. opzione) è possibile per chi è nato in Olanda, le Antille olandesi o Aruba, ed è stato residente dalla nascita o per tre anni ininterrottamente, o in un’altra

serie di casi fra cui il matrimonio con un cittadino olandese che dura da almeno tre anni. Questa procedura non comporta l’obbligo di rinuncia

a cittadinanze straniere. La naturalizzazione non semplificata prevede la necessità di avere almeno 18 anni, un permesso di soggiorno permanente, 5 anni di residenza ininterrotta (con diverse eccezioni), l’assenza di misure penali a carico negli ultimi 4 anni e il superamento di un test linguistico e culturale.

GERMANIAIn generale, la cittadinanza si acquista per ius sanguinis. Tuttavia,

i bambini nati dal primo gennaio del 2000 sul territorio tedesco da genitori non tedeschi acquisiscono la nazionalità se almeno uno dei

due genitori ha il permesso di soggiorno permanente da almeno tre anni ed è residente in Germania da almeno 8 anni. Queste persone devono però fare richiesta esplicita per ottenere la cittadinanza entro i 23 anni. I figli di anche solo un genitore tedesco (dal 1975)

sono generalmente cittadini tedeschi, indipendentemente dal fatto che il genitore sia nato in Germania oppure naturalizzato. Dal 1999, se il

genitore è tedesco ma anch’egli nato fuori dalla Germania, è necessaria una registrazione come cittadino tedesco entro 12 mesi dalla nascita.La naturalizzazione si può ottenere dopo 8 anni di residenza legale e permanente, ma solo dopo un approfondito esame di conoscenza linguistica e a patto di dimostrare la propria autosufficienza

economica. Generalmente la naturalizzazione implica la rinuncia ad altre nazionalità, tranne che per altri paesi Ue a condizione di reciprocità. Eccezioni sono vigenti per chi è sposato con un cittadino tedesco, che può fare domanda di naturalizzazione dopo tre anni, se il matrimonio dura da almeno due anni. Inoltre, il superamento di speciali “corsi di integrazione” può far ridurre a 7 il numero di anni di residenza necessari.

FRANCIASi è francesi per nascita in Francia se i genitori sono entrambi francesi, anche se naturalizzati. Chi è nato invece da cittadini stranieri, se ha avuto almeno 5 anni di residenza in Francia dall’età di 11 anni e ne fa richiesta alla maggiore età (18 anni), può acquisire la cittadinanza. Si può diventare cittadini francesi per ius sanguinis se si è figli di un cittadino francese, indipendentemente dalla nascita del genitore in Francia o meno. Il processo di naturalizzazione (che non è automatico) richiede almeno cinque anni di residenza, ma si riduce a due per chi ha studiato in una “Grand Ecole”. I cittadini di alcuni paesi francofoni possono vedersi condonato il periodo di residenza obbligatorio.

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Gli orfani bianchiI bambini dell’Europa dell’Est abbandonati nel loro paese natale dai genitori emigrati in cerca di fortuna: un fenomeno in crescita

di Licia VecchioFoto: Dario Leonardi

Èla storia di molti bambini romeni lasciati in patria dai propri genitori in quanto costretti, da esigenze

economiche, ad abbandonare il proprio paese e i propri cari in cerca di un lavoro migliore. Vengono chiamati “orfani bianchi” perché dei genitori li hanno, ma a migliaia di chilometri di distanza da loro. Sono affidati alle cure di nonni, zii, vicini di casa. Nei casi più gravi, sono lasciati ai fratellini maggiori o addirittura da soli. A spingere i loro genitori a migrare altrove è una reale povertà, un mercato del lavoro che in Romania offre ben poco. I salari lavo-rativi medi si aggirano intorno ai 250 - 350 euro al mese e non risultano minimamente sufficienti al sostentamento della famiglia. Figurarsi a garantire un futuro più digni-toso ai propri figli. È questo lo scopo delle tante mamme e dei tanti papà romeni che

oltrepassano i confini del proprio paese d’origine. L’allontanamento fisico è, per loro, una forma estrema di amore ed è per questo che, teoricamente, non si potrebbe parlare di abbandono, ma nella realtà quotidiana è questo lo stato effettivo che vivono i piccoli orfani da migrazione. Mentre si trovano all’estero per lavorare, i genitori, per colmare la distanza, mandano a casa soldi e pacchi sperando di rendere felici i propri figli con beni materiali che altrimenti non potrebbero permettersi. Ini-zialmente, i bambini sono contenti perché possiedono più oggetti e giochi dei loro coetanei, ma dopo alcuni mesi l’esaltazio-ne lascia il posto all’attesa impaziente del ritorno dei propri genitori. E si sa, quando si aspetta chi si ama, soprattutto se si è pic-coli, il tempo non passa mai. L’emigrazione per motivi di lavoro, inoltre, si prolunga

spesso per giorni, mesi e anni.Succede così che il minore non riesce a gestire la privazione affettiva e finisce con il sentirsi responsabile in prima persona dell’allontanamento dei propri genitori. L’abbandono viene interiorizzato e si rende manifesto inizialmente con un permanente stato di insoddisfazione, ansia, depressione, al quale segue una diminuzione del rendi-mento scolastico, disturbi dell’alimentazione e nei casi più gravi si arriva perfino al suicidio. Senza la guida dei genitori, e segnati dalla distanza affettiva, i bambini possono cadere vittime di sfruttamento da parte delle stesse persone a cui vengono affidati o di terzi e intraprendere la strada dell’illegalità. Gli psicologi romeni, all’evidenza di questi sintomi, parlano di “sindrome Italia”, in quan-to le malattie dei bambini sarebbero favorite dalla nostalgia per i genitori.

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oltremare

Le regioni romene più interessate al fenomeno sono quelle rurali, in quanto più povere, e in particolare la Moldova romena, che vede la presenza di 100 mila orfani bianchi seguita da Transilvania, Oltenia, Muntenia. In questi contesti è più frequente che siano le madri a partire, contrariamente alle grandi città, dov’è più facile che sia il padre ad allontanarsi.Le conseguenze sociologiche delle migra-zioni lavorative, soprattutto delle donne, sono notevoli e determinano delle difficoltà prima di tutto all’interno delle famiglie che dovranno supplire alla loro assenza riorganizzando i ruoli familiari. In questi casi spesso si attiva la rete della famiglia allarga-ta: sono spesso i nonni a prendersi cura dei nipoti, anche quando i padri restano a casa.Ma spesso ciò non è sufficiente. In par-ticolare, quando i figli sono piccoli o adolescenti e sono costretti a vivere per anni lontani dalle proprie madri, salvo rare parentesi di qualche settimana all’anno.Si parla di una piaga sociale che, secondo le stime dell’Unicef, nella sola Romania colpisce 350.000 minori, pari al 7% della popolazione romena tra gli 0 e i 18 anni. Dei 350 mila orfani bianchi un terzo, circa 126 mila minori con un’età inferiore ai 10 anni, hanno ambedue i genitori all’estero. Mentre altri 400 mila bambini hanno sperimentato l’assenza di uno dei genitori per periodi di tempo più o meno lunghi. In pratica su 5 mi-lioni di bambini romeni sarebbero 750 mila quelli colpiti più o meno violentemente dalla partenza dei loro genitori.È un fenomeno che tocca in maniera indiret-ta anche il nostro Paese: basti pensare che in Italia i romeni rappresentano la principale comunità di immigrati con quasi un milione di residenti (Istat 2011). In Italia, le donne ru-mene hanno assunto un ruolo fondamentale per moltissime famiglie: baby sitter e badan-te. Sono le persone a cui affidiamo la cura delle nostre case, dei nostri cari più anziani e dei nostri bambini con lo scopo di seguirli e di non lasciarli soli. Si viene a creare così un enorme paradosso. Mentre in Italia le donne rumene rappresen-tano i nuovi angeli del focolare, in Romania i loro bambini piangono la loro partenza. Mentre in Italia suppliscono o integrano i servizi assistenziali, contribuendo a una di-minuzione della spesa pubblica per presta-zioni assistenziali, in Romania la loro assenza

crea dei vuoti di welfare.Il governo romeno, riconosciuta l’emer-genza, ha varato delle leggi ad hoc, quali la 272/2004, che obbliga i genitori che desi-derano emigrare a segnalare alle autorità competenti la loro intenzione, indicando anche l’adulto a cui il minore sarebbe affi-dato durante l’allontanamento temporaneo del genitore per motivi di lavoro. Nella realtà, solo il 7% di coloro che vanno all’estero segue i dettami della legge. Ciò avviene per svariati motivi. In primis, la maggioranza dei genitori che partono dalla Romania non hanno un contratto di lavoro. In secondo luogo, la comunicazione li co-stringerebbe a rinunciare al sussidio statale: 65 euro al mese per ogni bambino fino ai due anni, 10 euro fino ai 18, ma solo se i genitori vivono in patria. Infine, e soprattutto, perché non vi è consapevolezza di quan-to previsto dalla legge in merito alla tutela dei propri figli. Non si sa, per esempio, che senza un tutore legale il bambino solo in patria troverà difficoltà nel caso in cui debba ricorrere a cure sanitarie o nel caso in cui dovrà fare scelte scolastiche importanti.Di fronte a un fenomeno così imponente, il budget limitato del governo romeno costrin-ge ad affidare il servizio sociale a social wor-kers, persone piene di volontà, ma prive del titolo di studio adeguato, alle quali si affida

l’importante compito di garantire assistenza agli orfani bianchi e di prevenire la nascita di nuovi casi tramite campagne di informazio-ne e sensibilizzazione. Al fianco del governo romeno, ad intervenire sono spesso le ONG locali, in collaborazione con istituti e associazioni dei paesi membri. Come il progetto di ricerca finanziato dalla Commissione Europea “Children’s rights in action. Improving children’s rights in migration across Europe”, che vede la col-laborazione dell’associazione Alternative Sociali di Iaşi con la fondazione l’Albero della Vita, l’ISMU, l’Università di Barcellona, la Fundaciò Institut de Reinserciò Socialm.

Lo scopo è di analizzare le condizioni dei bambini romeni coinvolti nel pro-cesso migratorio familiare, in Romania, Italia, Spagna e sviluppare delle buone prassi per ridurre la loro con-dizione di vulnerabilità. In un fenomeno transfron-taliero, come questo degli orfani bianchi, è futile cercare

il colpevole: genitori, Stato Romeno, Paesi di approdo. Ciò che serve è una strategia co-mune che abbracci tutti i soggetti coinvolti, volta alla tutela dei diritti di questi bambini, a restituire la spensieratezza che dovrebbe contraddistinguere questa età e volta a ga-rantire il più alto diritto del minore: quello di avere una famiglia e di godere della vicinanza fisica e morale dei propri genitori.

Valentina Postika in attesa di partire Documentario di Caterina Carone (Faberfilm 2009)

Valentina Postika è una badante moldava. Carlo Paladini è un partigiano ottantenne. Valentina vive per costruire un futuro migliore in patria per sé e per i tre figli, mentre Carlo ricorda il proprio passato di dirigente del Partito Comunista negli anni ‘50 a Pe-saro. Carlo ha compiuto scelte, ha cresciuto figli, ha riempito gli armadi e i cassetti della memoria. Va-lentina, dal canto suo, vive come tra parentesi, in attesa di partire, appunto. La sua vita è altrove. Par-ticolarmente toccante - in una pellicola asciutta, senza alcuna sbavatura sentimentale - la ripresa vi-

deo dei figli di Valentina per mano di un parente, nel contesto di una casa in costruzione, edificata pre-sumibilmente con le ri-messe di Valentina. «Mamma, vieni a casa»” dice Jorgie, il figlio minore. È un ragazzino smilzo, dal volto sveglio. Guarda in macchina, cerca la mam-ma. E tenta di convincerla «Non ti faremo fare nien-te, ti faremo solo riposare».

Il minore non riesce a gestire la

privazione affettiva e finisce per sentirsi

responsabile

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oltremare

Luminita ha gli occhi chiari, luminosi come il suo nome, accesi ancora di più dalla notte che porta nascosta

nei capelli. La prima volta che lascia il suo Paese, la Romania, Luminita ha ventidue anni e una vita da studentessa della Facoltà di Giurisprudenza a Bacau. È diretta in Bel-gio. «Doveva essere solo una vacanza. Mia cugina abitava a Bruxelles», ricorda. «Ma poi ho conosciuto mio marito e non sono tornata a casa dopo l’estate». Dopo due anni e mezzo, Lumi - così si fa chiamare qui in Italia - si rende conto che non riuscirà a ottenere il permesso di sog-giorno, nonostante un impiego da barista. Decide allora di tornare in patria.Ma la pace dura poco. In Romania non trova un lavoro e Luminita deve ripartire, nonostante ormai sappia a che cosa va incontro un migrante nel suo viaggio alla ricerca di fortuna: la difficoltà con la lingua, l’obbligo di adattarsi a qualsiasi occupazio-ne, la mancanza di risorse.Raggiunge Torino nel 2000, quando la

Romania ancora non faceva parte dell’U-nione Europea. «Questa volta, a casa - dice - ho dovuto lasciare anche i miei due figli». Sì, perché nel frattempo Luminita si è sposata ed è diventata mamma di Alice e Andrei. «Ero terrorizzata dall’idea che fos-sero costretti a vivere nella precarietà. Ho sofferto molto, ma non avevo scelta. Così li ho lasciati ai miei genitori». I bambini sono rimasti con i nonni per più di quattro anni, prima di potersi riunire con la mamma e il papà. Nel frattempo, infatti, il ma-rito aveva raggiunto Luminita. Famiglie come questa, in sociologia, sono chiamate “famiglie transnazionali”. Sono quelle famiglie che si impegnano a conservare i legami affettivi e le responsabilità reciproche oltre le frontiere e le distanze che le dividono. Affidano questa delicata impresa a una fitta rete di telefonate, lettere, email, regali, invio di denaro. Sono numerosissimi i casi tra Italia e Romania. Basti pensare che in Italia vivono quasi 1 mi-lione di rumeni, secondo i dati Istat 2011. Più di un quinto della popolazione immigrata.

«Conosco tante donne rumene che hanno fatto la mia scelta». Luminita sospira intorno a un leggero sorriso. Un sorriso che tante volte, immagino, ha esorcizzato il timore di non farcela. «Quasi tutte arrivate prima che la Romania entrasse nella comunità europea. In alcuni casi, era solo la donna a muoversi senza il marito » continua Lumi.Spagna e Italia diventano le mete prefe-rite soprattutto in seguito alla rimozione, avvenuta nel 2002, dell’obbligo del visto di ingresso per i cittadini romeni nei Paesi membri dell’Unione Europea per periodi inferiori ai tre mesi. Nel 2003 le donne che scelgono di lasciare il Paese sono il 40% in più degli uomini; nel 2004, il 62 %. Un’emigrazione al femminile. «Una storia particolare, quella di noi migranti rumene - dice Luminita - i migranti di altre nazioni hanno storie differenti da raccontare. Da noi, per esempio - aggiunge con orgoglio - è impensabile affidare gli anziani a persone esterne alla famiglia. I nonni vivono nella stessa casa dei nipoti, e se anche le figlie

La famiglia oltre i confiniLa storia di Luminita e del suo viaggio in Italia. La caparbia ricerca di un futuro

migliore per i suoi due figli, Alice e Andrei, rimasti in patria ad attenderne il ritorno

di Serena Naldini

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lavorano, sono i giovani a prendersi cura di loro, quando tornano da scuola. Oppure i vicini di casa. È molto diverso. E poi, comun-que, non vivono così a lungo come in Italia».Luminita riabbraccia i suoi figli nel 2004. Alice ha nove anni, Andrei quattro. «Andrei non mi conosceva - afferma Lumi -. Quando l’ho lasciato, aveva solo quattro mesi. All’inizio, non è stato facile. Voleva tornare in Romania, da mia mamma - ram-menta -. Con mia figlia, invece, è stato diver-so». E si aggiunge una luce al suo sguardo già vibrante. Racconta di un momento che porta via anni di durezza, premia giorni e giorni di fatica, allargando il cuore. «Lei mi ricordava, eccome. Mi aveva aspettato per tutti quegli anni. Non poteva credere di essere finalmente di nuovo con me».I bambini portano, o riportano, a Luminita il desiderio di un lavoro qualificato, alla base di ogni sua scelta, dall’università al viaggio verso l’occidente. «È per i miei figli che ho voluto di più dalla vita - dichiara -. Ho capito subito che avrei dovuto fare qualcosa di di-verso dalla colf a ore. Ho pensato alla rispo-sta che avrei voluto che i miei figli dessero alla domanda: che lavoro fa vostra madre?».Per Luminita comincia un periodo di studio, lavoro e cura dei figli. Frequenta la scuola per operatori socio-sanitari, è a servizio come colf presso alcune famiglie e, alla sera, cerca di recuperare il tempo perso con i propri bambini. Per un anno, si fa aiutare da sua madre, trasferitasi a

questo scopo in Italia. «È stata dura - ammette -, ma la considero una scommessa vinta - dice nel suo italiano perfetto -. Appena ho finito il corso, ho tro-vato lavoro come operatrice socio-sanitaria nella cooperativa sociale “Crescere Insieme”».Adesso, Luminita coordina un gruppo di colleghe presso la Casa della Divina Prov-videnza Cottolengo, a Torino. «Sai qual è la cosa strana? Non mi sono mai sentita portata per compiti di cura, di assistenza. Ma adesso mi trovo benissimo - afferma -. Ho cominciato per necessità. Mano a mano, però, ho capito che ero portata. Adesso, il posto di lavoro è per me come un’altra casa

dove vado con grande piacere. E anche questo è strano: da giovane, consideravo il lavoro solo come un’attività che devi svol-gere per guadagnarti da vivere. Mai avevo considerato il piacere che poteva dare».Tutta una sorpresa, la vita per Lumi. Ma anche lasciarsi sorprendere, si sa, non è facile. Si deve essere disposti a cambiare. «Tante volte ti aspetti una cosa e poi rimani deluso se non accade. A me spiace solo di non aver finito l’università - confessa in un soffio -. Adesso, però, è tardi - riprende sorridendo -. C’è tanto altro nella mia vita. Mi devo mantenere e pen-sare al futuro dei miei figli. Che, tra l’altro, qui in Italia si sono integrati benissimo».

La geografia del “Care Drain” di Serena Naldini

Secondo i dati Istat 2011, più della metà (circa 2.369.000) degli stranieri presenti in Italia sono don-ne. Il rapporto numerico tra uomini e donne, nel complesso equilibrato, è sbilanciato a favore delle donne all’interno di alcune popolazioni straniere, in particolare nelle comunità ucraina, polacca, molda-va, peruviana, ecuadoriana, filippina, rumena. La proporzione va dai 25 maschi ogni 100 femmine nel-la comunità ucraina agli 83 maschi ogni 100 femmi-ne in quella rumena. Questa femminilizzazione dell’emigrazione, che si verifica da circa un decennio, sta dando luogo a un vero e proprio “care drain” (in

italiano, “drenaggio di risorse di cura”). Le donne mi-granti, infatti, lasciano a casa i propri familiari biso-gnosi di cure, in particolare i figli, per cercare all’este-ro un lavoro che garantisca un sostegno economico alla famiglia. L’occupazione caratteristica della mag-gior parte di loro è nel settore dei servizi di cura rivol-ti ai nostri anziani e ai nostri bambini. Nel corso del 2010 la popolazione straniera residente è cresciuta di oltre 335.000 persone. La crescita riguarda in par-ticolare la Moldova (+24,0%) e l’Ucraina (+15,3%), che al 1° gennaio 2011 contano rispettivamente circa 131 mila e circa 201 mila cittadini residenti in Italia.

L’incremento elevato è prevalentemente conseguen-za dell’ultima sanatoria per colf e badanti del set-tembre 2009. Quinto paese di provenienza degli stranieri in Italia, l’Ucraina è il primo per numero di cittadini impiegati nel settore dei servizi alle fami-glie. A migrare sono soprattutto le donne, molte con figli a carico, che lavorano nel settore della cura. In Ucraina nel 2009 si contano circa 200 mila minori con genitori all’estero e ammontano a 2,9 miliardi di dol-lari le rimesse inviate. In Romania, nello stesso anno, si registrano 350 mila di bambini con almeno un ge-nitore all’estero, il 7% della popolazione.

Il paese delle badanti (ed. Meltemi 2010) Saggio di Francesco Vietti (ed. Meltemi 2010)

L’autore racconta la storia di Nadia, originaria di Pirlita, villaggio della Moldavia, badante a servi-zio di un’anziana coppia di Torino. Il tono è som-messo, intimo, come quello di un diario. Ma il libro è una ricerca etnografica, condotta con metodo e supportata da dati. Quello che emerge è il quadro degli effetti della femminilizzazione delle migra-zioni dall’Europa dell’Est che caratterizza questo inizio di millennio. Un fenomeno sociologico di grandi dimensioni di cui, in Italia, vediamo solo

una parte: l’aumento esponenziale dell’of-ferta di lavoro di cura domiciliare per i nostri anziani e bambini da parte di donne rume-ne, ucraine, moldave. Nei Paesi di origine, le con-seguenze coinvolgono i mariti, i figli, i genitori, i vicini di casa, modificando profondamente equili-bri e dinamiche culturali.

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oltremare

DOSSIER

DEI PROFUGHI

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QUALE SARà IL FUTUROLIBICI

Il prossimo 20 giugno, per i profughi libici di origine subsa-hariana ospitati in Piemonte, sarà un ennesimo giorno di ansia e preoccupazione. L’undicesima Giornata mondiale del rifugiato (istituita nel 2001 dall’Assemblea generale dell’Onu e coincidente con la Giornata africana del rifugiato) non muterà, a quanto si teme, il loro destino. In quella data, circa la metà dei profughi piemontesi si troveranno in una condizione assai delicata: la Commissione Territoriale per l’esame delle domande di protezione internazionale avrà già respinto le loro richieste di asilo e il Tribunale ordinario si accingerà a giudicare (con scarse possibilità di successo) i loro ricorsi. Il tutto a oltre un anno dal loro sbarco in Italia, vittime di una guerra che non hanno voluto.I dati provenienti dalla Commissione torinese (competente per tutto il territorio regionale) delineano uno scenario, per le sue conseguenze, assai preoccupante: solo al 10% degli intervistati, infatti, è stato sinora riconosciuto lo status sussidiario o umanitario, mentre circa il 90% ha ricevuto il

diniego alla propria richiesta di asilo. Uno scenario che, in assenza di provvedimenti politici, rischia di trasformare la quasi totalità dei circa 1000 richiedenti asilo presenti in Piemonte in potenziali clandestini. Con l’ulteriore paradosso di trasformare la ricca esperienza di accoglienza realizzata dalla primavera del 2011 (e che ha visto collaborare le pre-fetture, gli enti locali, la protezione civile, il terzo settore e il mondo del volontariato) in un drammatico problema di ordine pubblico. Molteplici sono le voci che dall’inizio del 2012 si sono levate per sostenere una soluzione “equa e giusta” per questi uo-mini, donne e bambini (originari del Congo, della Nigeria, del Ghana, del Mali, della Costa d’Avorio) a cui, secondo un’interpretazione ristretta delle norme, non è riconoscibile, tout court, lo status di rifugiati politici. Rilevante, in propo-sito, appare l’azione compiuta da un gruppo di amministra-zioni locali dell’eporediese: Albiano, Banchette, Bollengo, Burolo, Chiaverano, Fiorano, Ivrea, Parella, Pavone, Salerano,

Tra i migranti accolti in Piemonte, solo il 10% ottiene lo statusdi Massimo Tornabene, direttore del centro di accoglienza di Ivrea

Samone. Prendendo spunto dall’acco-glienza offerta da Connecting People a una novantina di profughi nel Comune di Banchette, questi comuni hanno solleci-tato il governo nazionale affinché adotti “un provvedimento idoneo a prendere atto della reale situazione e a garantire a chi ha ricevuto il diniego (sia a quelli che abbiano interposto ricorso, sia a quelli che non l’abbiano interposto) un Permesso di soggiorno per protezione umanitaria ad hoc, nel rispetto della dignità umana e della legge”. Una richiesta che, promossa dalle associazioni di volontariato locale, si è direttamente ispirata alla campagna nazionale “Diritto di scelta”, lanciata dal Progetto Melting Pot Europa e finalizzata anch’essa al “rilascio di un titolo di sog-giorno umanitario attraverso l’istituzione della protezione temporanea o le altre forme previste dall’ordinamento giuridico” (campagna cui hanno aderito numerose associazioni, amministratori pubblici, intel-lettuali, esponenti religiosi). Anche le diverse organizzazioni che in Piemonte stanno gestendo l’accoglienza dei profughi libici, hanno assunto, pubblicamente, la stessa posizione. “I profughi subsahariani – ha dichiarato Mauro Maurino, di Connecting People, nel corso di un recente incontro con il Serming, la Croce Rossa, Confcooperative e Federsolida-rietà – non hanno scelto di avanzare domanda d’asilo nei confronti del nostro paese, ma questa è l’unica strada che al momento dello sbarco è stata mostrata loro come possibi-le. E adesso per molti si sta rivelando per quello che è: una via senza uscita”. Accanto alla richiesta di rilasciare a tutti i profughi una protezione temporanea per motivi umanitari, gli enti gestori piemontesi hanno anche auspicato l’avvio di un dialogo con l’associazione nazionale dei comuni – l’An-ci – affinché le reti di enti, associazioni e istituzioni che in quest’anno hanno operato nella gestione dell’emergenza Nordafrica non siano disperse e diventino la base per un

sistema di accoglienza da affiancare al progetto Sprar. Nel frattempo sono numerosi i profughi libici “piemontesi” che attraverso la rete Sprar, i Centri di accoglienza e i “centri diffusi” realizzati da Connecting People (ospitalità in alloggi strettamente connessi con i Centri di accoglienza), hanno avuto modo di sperimentare concrete forme d’integrazione attraverso lo studio della lingua italiana e l’inserimento in percorsi formativi e lavorativi. Allo stesso tempo i lunghi mesi già trascorsi hanno reso ancora più critica la situazione di coloro che già al momento dello sbarco a Lampedusa si trovavano in una condizione di particolare vulnerabilità (in particolare i minori non accompagnati, le donne sole e le persone in condizione di disagio mentale, sempre più presenti tra i migranti giunti attraverso il Mediterraneo). E l’assenza di una soluzione politica non potrà che compro-mettere ulteriormente la loro condizione, rendendoli ancora più vittime tra le vittime.

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Segui il canale Youtube di Connecting People: i video di tutti gli interventi del convegno e tutte le nostre ultime produzioni multimediali

alcuni momenti del convegno ospitato presso la Gam di Torino

a cura di Salvo Tomarchio. Fonte: EMN Italia

Protezione temporaneaProcedura di carattere eccezionale che garantisce, nei casi di afflusso di massa o di imminente afflusso di massa di sfollati provenienti da paesi terzi che non possono rientrare nel loro paese d’origine, una tutela immediata e temporanea alle persone sfollate, in particolare qualora vi sia anche il rischio che il sistema d’asilo non possa far fronte a tale afflusso senza effetti pregiudizievoli per il suo corretto funzionamento, per gli interessi delle persone di cui trattasi e degli altri richiedenti protezione.

Protezione sussidiariaRiconoscimento, da parte di uno Stato membro, di un cittadino di un paese terzo o di un apolide quale persona ammissibile alla Protezione sussidiaria.

RifugiatoIn base alla Convenzione di Ginevra: chi, a causa di un giustificato timore di essere perseguitato per la sua razza, religione, cittadinanza, opinioni politiche o appartenenza a un determinato gruppo sociale, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato; oppure chiunque, essendo apolide e trovandosi fuori del suo Stato di domicilio abituale in seguito a tali avvenimenti, non può o, per il timore sopra indicato, non vuole ritornarvi.Nel contesto dell’UE, si riferisce in particolare al cittadino di un paese terzo o all’apolide che, ai sensi dell’articolo 1A della Convenzione di Ginevra, viene ammesso a risiedere in quanto tale nel territorio di uno Stato membro e per il quale l’articolo 12 (Esclusione), della Direttiva 2004/83/CE non si applica.

Titolo di soggiornoNel contesto delle politiche comunitarie in materia di asilo, si riferisce a qualsiasi permesso rilasciato dalle autorità di uno Stato membro che autorizza il soggiorno di un cittadino di un paese terzo nel suo territorio, compresi i documenti che consentono all’interessato di soggiornare nel territorio nazionale nell’ambito di un regime di protezione temporanea o fino a quando avranno termine le circostanze che ostano all’esecuzione di un provvedimento di allontanamento, ad eccezione dei visti e delle autorizzazioni di soggiorno rilasciati nel periodo necessario a determinare lo Stato membro competente ai sensi del Regolamento (CE) 343/2003 o durante l’istruzione di una domanda d’asilo o di una richiesta di permesso di soggiorno.

Permesso di soggiorno per protezione sussidiariaHa una durata di 3 anni; è rinnovabile, previa verifica dell’attualità delle cause che hanno consentito il rilascio; consente l’accesso allo studio; consente lo svolgimento di un’attività lavorativa (subordinata o autonoma); consente l’iscrizione al servizio sanitario; dà diritto alle prestazioni assistenziali dell’Inps e all’assegno di maternità concesso dai Comuni. Al momento del rinnovo, tale permesso può essere convertito in un permesso di soggiorno per lavoro. La conversione però comporta la rinuncia allo status di protezione sussidiaria.

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PARERE DELLA COMMISSIONE

DINIEG

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Afghanistan 2 0 0 2 0

Burkina Faso 1 1 0 0 0

Camerun 7 4 0 0 3

Congo 3 2 0 0 1

Congo RDC 12 0 2 10 0

Costa D'avorio 10 8 0 1 1

Gambia 1 0 0 0 1

Ghana 7 0 0 0 7

Guinea 2 0 0 0 2

Mali 30 5 0 0 25

Nigeria 29 17 0 0 12

Somalia 22 2 16 4 0

Sudan 1 0 0 0 1

Totale 127 39 18 17 53

GLOSSARIO DELL'ACCOGLIENZA

I GIUDIZIDELLE COMMISSIONIGli esiti dei giudizi della commissione che esamina le richieste di asilo dei profughi subsahariani sbarcati in Italia in fuga dalla Libia in seguito alla rivoluzione dello scorso anno. I dati, ancora provvisori, sono aggiornati al 16 aprile 2012.

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LeMIe (TO)

Dodici battesimi ad alta quota. La scelta di apparte-nenza di 40 profughi subsaharianidi Serena Naldini

Nketa, Aliyah e Felicia, un maschietto e due bambine, sono i più piccoli. Sono nati qui in Italia, dopo l’arrivo delle loro famiglie a Lemie, paesino incastonato nelle alte Valli di Lanzo, accolti in una vecchia villa dalle mura spesse messa a disposizione dalla Piccola Casa della Divina Provvidenza Cottolengo. Gli altri nove bambini (Exause, Milima, Ndibu, Confidence, Sara, Vanessa, Patient, Precious e Princess) sono nati in Africa, durante il viaggio della loro famiglia alla ricerca di una nuova casa.Sabato 18 febbraio, tutti e dodici i bam-bini sono stati battezzati da Padre Paul, padre camerunense della Pastorale Mi-granti, che ha accompagnato le famiglie, la maggioranza delle quali già di fede cri-stiana, in un percorso cadenzato da sabati di preghiera e di canto. Quando sono arrivati dalla Libia in guerra,

a maggio dello scorso anno, erano in tren-tasei. Trentasei vite originarie dell’Africa subsahariana (Nigeria, Repubblica Demo-cratica del Congo, Camerun) espulse da Gheddafi che approdano in alta monta-gna, in un paesino che, d’inverno, fa 90 abitanti. D’estate, le presenze aumentano richiamate dall’aria buona e dal fresco. Adesso, dopo 9 mesi, le storie d’Africa sono 40. Si sono aggiunti tre neonati e un giovane diciassettenne che aveva perduto il contatto con sua madre durante il ro-cambolesco viaggio della speranza verso l’Italia. Grazie alla ricerca degli operatori della cooperativa Crescere Insieme e del consorzio nazionale Connecting People, la famiglia si è appena ricongiunta. Tra il paese di Lemie e gli ospiti del centro c’è stato un contatto, uno di quelli veri, che cambiano l’identità dei soggetti coinvolti. Secondo il filosofo Lévinas, l’incontro 3 l’al-tro è la dimensione fondamentale dell’e-sistenza, la fonte dell’etica e dell’identità: è nell’incontro con l’altro che si realizza la possibilità di essere se stessi. Il sindaco - che questa estate ha invitato gli ospiti alla festa di matrimonio di sua figlia - e altri quattro residenti a Lemie hanno fatto da padrini e madrine di alcuni dei battezzandi. I profughi hanno chiesto anche a due suore della Piccola Casa della Divina Provvidenza Cottolengo - una delle quali, medico, li segue dal punto di vista sanitario - che hanno volentieri accettato.

Completano il ventaglio dei padrini e delle madrine, alcuni volontari del luogo e alcu-ni operatori della cooperativa Crescere In-sieme e del consorzio Connecting People.Ma la festa ha mobilitato energie e coin-volto persone in un raggio molto ampio. Regali, auguri, felicitazioni arrivano da privati cittadini, dalle suore del Cotto-lengo, dal mondo del terzo settore che a vario titolo è impegnato per supportare gli ospiti nel percorso volto all’otteni-mento della protezione internazionale e alla ricerca di un lavoro e di una sistema-zione abitativa autonoma.Un battesimo è sempre un evento pre-zioso. Questo lo è in particolare, perché ci parla della scelta di appartenere a un luogo, a un tempo, a una comunità. Un evento che merita una festa perché coloro che compiono la scelta cercano radici da molto tempo e forse oggi le hanno trovate. In un piccolo paesino sui monti che, nove mesi fa, ha aperto loro le braccia.

Un momento della cerimonia del battesimo

Alcuni dei numerosi cittadini di Lemie presenti alla cerimonia in chiesa

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ROMa

A scuola di cittadi-nanza con Nautilus 2di Laura Giudice e Noemi FavittaOperatrici del progetto Nautilus 2

Il progetto Nautilus 2 di Connecting Peo-ple, in partenariato con OIM, Communitas, Aiccre, Mestieri, ITC ed il Dipartimento di Comunicazione e Ricerca sociale - Università La Sapienza di Roma, ha previsto l’istituzio-ne di 13 sportelli di contatto sul Territorio Nazionale, con l’obiettivo di contribuire al miglioramento del sistema nazionale di asilo, cercando di “linkare” nel migliore dei modi l’esperienza e le risorse umane presenti nei vari territori. Proprio per tale motivo, a partire dal mese di Gennaio 2012 in seno al progetto Nautilus 2, sono stati attivati dei Corsi di Educazione alla Cittadinanza per Richiedenti Asilo e Titolari di Protezione Internazionale presenti nei C.A.R.A., S.P.R.A.R. ed altri sistemi di acco-glienza sparsi in tutto il territorio italiano. L’iniziativa è scaturita dall’esigenza di attivare dei percorsi di apprendimento in materia di educazione alla cittadinanza, volti a creare delle “reti di conoscenza” nei territori e, allo stesso tempo, rendere i destinatari dei corsi “più consapevoli” della vita sociale e culturale in Italia.I corsi sono suddivisi in moduli che si svilup-pano nell’arco di 20 ore. I principali elementi trattati riguardano cenni di cultura, geografia e storia italiana, principi fondamentali della Costituzione, l’accesso ai servizi sociali e sanitari, la sicurezza sul lavoro, i titoli profes-sionali, l’istruzione scolastica, la procedura sul diritto d’asilo, i documenti identificativi italiani ed i servizi di rilascio e rinnovo del permesso di soggiorno. I formatori che hanno preso parte attiva a questo interessante progetto sono stati Orientatori Sociali e Mediatori Culturali.Secondo il monitoraggio effettuato al 20 marzo 2012 i partecipanti ai corsi, provenien-ti maggiormente da Pakistan, Afghanistan, Nigeria, Ghana e Burkina Faso, sono stati 694, di cui 602 hanno concluso l’intero corso ricevendo l’attestato di partecipazione. I principali sportelli Nautilus in cui sono già stati attivati i corsi di educazione alla

cittadinanza sono gli sportelli di Catania, Crotone, Caltanissetta, Bari, Gradisca, Foggia, Milano, Roma e Trapani.Negli altri sportelli si stanno già avviando le iscrizioni ai corsi che partiranno a breve. Preziosa la presenza ad alcuni degli start up dei corsi nei vari sportelli dei formatori dell’OIM, Enisa Bukvic e Federica Guglielmini. Le lingue di erogazione dei corsi sono state la lingua inglese, francese, urdu, pashto, farsi, dhari e arabo.È altresì iniziato uno scambio via email tra i vari sportelli Nautilus, che ha permesso di avere, in tempo reale, i vari feedback sia dei partecipanti che degli orientatori e mediato-ri, che hanno erogato i corsi. Ma è stato ed è anche un modo per potersi scambiare idee sulla migliore didattica da utilizzare per poter permettere ai partecipanti di comprendere e assimilare ogni singolo concetto illustrato. Di seguito alcuni feedback degli orientatori sociali e media-tori culturali sui primi corsi attivati:“Il bilancio finale è stato molto positivo, hanno frequentato tutti con grande interes-se e partecipazione. L’ultimo giorno abbiamo consegnato gli attestati di partecipazione in un clima di festa, invitando anche l’ente ge-store”. (Sportello Nautilus Caltanissetta)“Il programma presentato ai ragazzi ha riscosso molto successo e tutti hanno mo-strato interesse e partecipazione costanti intervenendo con domande e prendendo appunti. Abbiamo da subito instaurato con i ragazzi un rapporto di comunicazione e fiducia. Durante l’ultima lezione abbiamo fatto un ripasso generale e con grande soddisfazione abbiamo notato che i ragazzi avevano assimilato la maggior parte dei concetti spiegati durante il corso”. (Sportello Nautilus Roma)“La cosa più bella e significativa è stata rice-vere alcuni commenti di ragazzi “Dublini”, che sono venuti a ringraziarci personalmente a conclusione del corso, sostenendo di non aver mai ricevuto certe informazioni sul “si-stema Italia” in un anno e più di permanenza al CARA. A nostro avviso, un ottimo traguar-do per Nautilus e per ciò che esso significa”. (Sportello Nautilus Gradisca)“Durante la giornata conclusiva, i ragazzi si sono complimentati per gli argomenti del corso e del fatto che solo ora, a distanza di mesi dalla loro venuta in Italia, hanno potuto capire un po’ dell’Italia e risolvere molte delle

loro questioni ancora in sospeso per quanto concerne le procedure di richiesta asilo”. (Sportello Nautilus Foggia)“L’esperienza è stata assolutamente positiva. Gli ospiti ci hanno ringraziato più e più volte per l’utilità delle informazioni fornite”. (Spor-tello Nautilus Trapani)“I beneficiari si sono sentiti molto coinvolti, e hanno capito l’importanza del corso riuscen-do a trascinare anche altri ragazzi che inizial-mente non avevano partecipato perché un po’ diffidenti. Grazie al corso, talvolta, sono riusciti a capire anche le lungaggini delle commissioni e delle questure nel rilascio dei documenti”. (Sportello Nautilus Catania)I corsi di Educazione alla Cittadinanza sono da considerarsi come un momento importante e necessario di incontro con tutti i ragazzi. Non solo sono state affrontate le tematiche “canoniche” previste dal programma, ma si sono avuti anche momenti di dibattito sulla vita e la cultura italiana. Si è avuta la possibilità di “scoprirsi” a vicenda durante le ore di lezione attraverso divertenti role-play ed interminabili discussioni su argomenti più disparati: religione, politica, matrimonio, famiglia ed immigrazione.La storia dell’emigrazione italiana durante il dopoguerra ha colpito più di altri argo-menti gli alunni: si è avuta la sensazione che scoprire che gli italiani fossero stati per primi “migranti” alla ricerca di fortuna e di un lavoro li abbia avvicinati all’Italia e forse anche agli Italiani.Anche durante le pause gli studenti non esitavano a porre altre domande. La voglia di confrontarsi con una cultura diversa, comprenderne le usanze, gli stili di vita e le tradizioni è stata la chiave di volta dei corsi.

I partecipanti del corso di Crotone

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press

Rubrica a cura di Salvo Tomarchio

19.02.2012di Fabrizio Assandri

Aaliyah è la prima camerunense nata a Lemie, a settembre, nell’alta Val di Viù, in provincia di Torino. C’erano anche il fratello Libu e la sorella Milima tra i dodici bambini profughi battezzati ieri mattina nella chiesa di San Mi-chele Arcangelo coperta dalla neve, tra danze dell’Africa subsahariana e riprese coi telefonini dei genitori emozionati, tirati a lucido e con indosso l’abito della festa. «Per noi questo è un giorno molto importante», racconta il padre di Aaliyah, JurgAzah Baniedig. Faceva il muratore in Libia, ma allo scoppio della guerra è dovuto scappare in Italia insieme alla moglie incinta e ai due figli. Sbarcati a Lampedusa, hanno trovato accoglienza nella sperduta Lemie, un paesino montano di appena 90 abitanti, in una casa messa a disposizione della cooperativa Crescere Insieme e del consorzio Connecting People dalla Piccola Casa della Divina Provvi-denza. In tutto gli aspiranti rifugiati - in attesadell’esito dei colloqui per la richiesta dell’asilo politico - sono una quarantina. l bimbi - ne sono nati tre da maggio - hanno ripopolato la scuola, mentre i grandi si sono fatti conoscere dalla comunità per il contributo dato come ringraziamento dell’ospitalità: hanno siste-mato le aree gioco per bambini, ripulito il bosco dai rami secchi, spalato la neve. «Queste persone hanno voglia di integrarsi», racconta suor Elisa Scalabrino, cottolenghina, medico che insieme a un pediatra volontario visita i profughi una volta alla settimana. l genitori di David, un bimbo di tre mesi del Congo, hanno voluto lei come madrina di battesimo. Tra i regali, magliette e bavaglini fatti a mano dagli ospiti del Cottolengo. «La cerimonia di oggi ci insegna che siamo tutti fratelli», ha detto dal pulpito padre Paul Nde, camerunense, della pastorale migranti della diocesi di Torino, che ha celebrato messa in italiano, inglese e francese, accanto al parroco don Bartolomeo Giaime. ln chiesa c’era tutta Lemie, a partire dal sindaco Giacomo Lisa, nel primo banco in veste di padrino della piccola Aaliyah. «l nostri valori tradizionali ci portano all’accoglienza e la comune fede cristiana è un punto d’incontro con gli immigrati - sostiene - anche se non mancano le tensioni. Ci preoccupa il futuro di queste persone: da soli non possiamo garanti-re a tutti un inserimento lavorativo». li lavoro èinfatti al primo posto dei desiderata dei profu-ghi: un sogno d’autonomia [...]

15.02.2012 di Anna D’Agostino

Nelle ultime notti gelate, su un cumulo di cartoni e di stracci, c’è chi ha rischiato di morire per stra-da. Ma per tutta la settimana, un piccolo ma affiatato gruppo si è mosso in aiuto dei senza tetto nelle zone di San Salvario e Lingotto. Con una bibita calda qualche coperta, una parola si è cercato di dare qualche sollievo, i clochard sono stati invitati a raggiungere i luoghi allestiti dal comune per l’ospitalità nottuma, era anche disponibile un furgone per accompagnarli. I soccorritori erano un gruppo di richiedenti asilo, perlopiù arrivati con l’”emergenza Libia” coordinato dal Servizio Adulti in Difficoltà del comune di Torino in attesa che sia riconosciuto lo status di rifugiato politico. «Nel frattempo, con alcune azioni svolte a titolo semivolontario», sostiene Mauro Maurino, di Kairòs, «cercano di restituire quanto finora ricevuto in termini di accoglienza da parte del nostro Paese». La risposta all’emergenza è stata un vero lavoro di squadra: il consorzio Kairòs ha messo a disposizione dell’assessore al welfare Elide Tisi preziose risorse come i pasti caldi preparati nel carcere delle Vallette (dove la cooperativa sociale Ecosol gestisce la cucina), il furgone, la guida di Barraz, responsabile area migranti della cooperativa Crescere Insieme.

16.02.2012 di Gianni Giacomino

Ad inizio gennaio una cinquantina di profughi, ospitati all’Hotel Giglio di Settimo Torinese, bloccò l’autostrada A4: «Non siamo soddisfatti delle nostre condizioni di vita». Tempo fa a Moncalieri scoppiò una rivolta perché venne chiusa e trasferita la moschea. Nelle oasi di accoglienza allestite in giro per il Torinese (dove ci sono circa 1200 rifugiati) sono arrivate al limite le tensioni tra le diverse etnie. A Venaria, l’altro giorno, è stato evacuato un palazzo per dei cedimenti strutturali. Ora quattro famiglie sfollate sono ospiti nella sede della Croce Ressa di Settimo[...]

20.11.2011 di Fabrizio Assandri

Oggi e domani si svolge a Torino un importante convegno organizzato dal Consorzio Connecting People e dalla Fondazione Xenagos, in collaborazione con Confcooperative e il consorzio Kairòs. Duegiorni di dibattito, mostre, proiezioni sul tema “Raccontare l’accoglienza, disegnare l’integrazione”. Connecting People, nato nel 2005 a Trapani, è oggi una delle realtà più importanti nell’accoglienza agli immigrati, con centri e iniziative in tutto il Paese. Ha svolto un ruolo chiave nell’emergenza Nord Africa, accogliendo circa 15mila persone in tutta Italia. Tra l’altro ha accolto nel proprio centro di Restinco molti degli immigrati soccorsi dopo il naufragio di Carovigno. «Sentiamo il bisogno di fermarci a riflettere - ha spiegato Mauro Maurino, consigliere nazionale di Connecting People - per dare spessore a quanto è accaduto non solo in termini di organizzazione dell’accoglienza, ma anche mettere in luce come questa emergenza nordafricana abbia messo in campo un meccanismo molto più complesso che coinvolge le istituzioni e i rapporti tra queste, la politica e il suo modo di reagire e di costruire il nuovo, enti gestori ed enti di tutela e il rapporto tra questi».

Recensione a cura di Salvo Tomarchio

Genere: documentario

Durata: 50’

Anno di produzione: 2011

Produzione: Struggle Filmworks

Regia: Fred Kudjo Kuwornu

18 Ius Soli parla dritto al cuore di tutti noi. E ci interroga sul perché un paese che nei secoli si è dimo-strato flessibile e accogliente, una culla di civiltà per tutto il Medit-teraneo, non è riuscito ancora a dotarsi di una legge che rispetti i diritti di 900.000 giovani nati in Italia da genitori stranieri. 18 interviste, condotte in tutt’Italia, storie reali di ragazze e ragazzi tra i 18 e 22 anni, che condividono il problema del non aver ancora ot-tenuto la cittadinanza italiana per i più svariati motivi.Così, con disarmante semplicità, il

regista Fred Kuwornu mette in fila queste vite di “seconda generazio-ne” che hanno la sfortuna di essere nati ed amare un paese che con loro è quantomeno pigro e disattento. Cosa vuol dire essere italiano oggi? Se lo chiedono Aziz , Heena e tutti quei ragazzi che vivono la propria diversità quasi come una colpa, che dal primo momento in cui hanno scoperto di essere “un po’ meno uguali degli altri” provano a rispon-dere tutti i giorni a questa domanda senza cadere nemmeno per un atti-mo nel vittimismo o nella retorica, lo fanno raccontando la propria vita quotidiana, le proprie passioni e ambizioni per un futuro che gioco-forza è anche il futuro della nostra e loro Italia. Tra i tanti dati che via via il docu-mentario mette in evidenza, salta agli occhi quello sui neonati: il 13,9% dei nati in Italia nel 2010 sono bambini stranieri. I minori stranieri residenti nel 2010 erano 932.675, di cui circa 573.000 nati in Italia. Numeri così importanti e storie di vita così intense riescono a far scattare da subito il meccanismo dell’identificazione e chi guarda il documentario non può più negare l’urgenza di un problema che non è solo legislativo ma di civiltà.“Sono nato qui - amo la cucina italia-na - mi sento italiano e napoletano”. I visi dei ragazzi di Ius Soli 18 sem-brano ricordarci che il pregiudizio si può abbattere anche con la nor-malità; che basta guardarsi attorno per passare dalla storia del ragazzo Balotelli, insultato e deriso perché

italiano nero ricco e famoso, alle centomila microstorie che ci passano accanto, che parlano il nostro dialet-to e condividono con noi un futuro in cui sentirsi italiano non sia una colpa ma un diritto naturale, un futuro in cui la cittadinanza non sia trattata come un titolo nobiliare ma come una semplice applicazione dell’arti-colo 3 della nostra Costituzione.Il documentario dunque scorre via veloce e ci regala un quadro fedele di una buona fetta di gioventù ita-liana che nelle parole del presidente Napolitano, che aprono e chiudono il video, trovano una cornice di speranza e un impegno concreto. Interessante la ricerca delle storie di Italiani oriundi che hanno segnato il secolo scorso, che regalano a questo problema così attuale una retrospettiva ricca di significato, da cui emerge una questione irrisolta ma sempre, e per forza, presente in un paese come l’Italia.Ius Soli 18 è dunque un’opportu-nità per riflettere sulla questione della cittadinanza, per renderla urgente, come un problema che non riguarda solo le seconde ge-nerazioni, ma che riguarda ogni cittadino italiano la cui soluzione non può più tardare. In fondo ce lo ricorda anche Aziz: “se non sono italiano, cos’altro dovrei essere?”

Fred Kudjo Kuwornu18 IUS SOLI

Una produzione Struggle Filmworks

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