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S S toria e cultura della vite e del vino toria e cultura della vite e del vino Storia e cultura della vite e del vino

Storia e cultura della vite e del vino -  · il vino non si colloca nello spazio del necessario e dunque del quotidiano, come appunto i cereali, ma piuttosto in quello del superfluo

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IntroduzioneDifficile è stabilire il momento in cui l'uomo cominciò ad addomesticare la vite e a produrrevino. Nondimeno, fino a dove noi siamo in grado di risalire nel flusso della storia, viticolturae vinificazione si sono dovute confrontare con l'immenso problema del consumo misurato delvino per evitarne gli effetti devastanti. Che si parli di una storia globale del vino, dalle origi-ni alla sua diffusione sull'intero pianeta, oppure di una microstoria persino localizzata geogra-ficamente, il problema cruciale rimane sempre il medesimo: "il buon uso del vino". E questoaspetto è ancora più carico di significato se collegato con il fatto impossibile da ignorare chela produzione e il consumo del vino hanno avuto una non piccola incidenza economica nelcorso del tempo. Tutta la storia di questo affascinante e ambiguo prodotto dell'intelligenzaumana è d'altronde scandita dall'idea elementare dello scambio e della circolazione dei beni.

Bevanda che nasce dunque dalle capacità dell'uomo, il vino lascia sempre intravedere l'azionedel pensiero umano, il possesso di conoscenze e l'elaborazione di tecniche, rivelandosi operadi un sapere che manipola la natura per renderla fruibile, per quanto talora purtroppo conconseguenze nefaste. Ma non è il caso della vinificazione fortunatamente, e ancor meno dellaviticoltura, che coi filari di viti agisce sul paesaggio e sul territorio, modificandolo, così da farriconoscere, oggi come in passato, la presenza umana.

Da un punto di vista generale, tutta la sua storia si colloca su un piano simbolico denso di signi-ficati sociali a culturali. Lo stesso termine "vino", le cui origini sono antichissime e precedonoampiamente la civiltà greca da cui a noi è giunto attraverso la lingua etrusca e poi quella lati-na, nasce autonomamente rispetto alla pianta da cui è tratto, la vite, e addirittura si puòsostenere che la formazione del concetto stesso sia anteriore a quello di "vite". In quantobevanda, ancora, esso partecipa di un sistema in cui l'azione del "bere" non risponde a unasemplice esigenza naturale e non soddisfa dunque a un bisogno altrettanto naturale, ma inquanto manufatto è coinvolto in un triplice complesso di funzioni. Come tecnofunzione essoinfatti partecipa della sfera tecnologica, come sociofunzione di quella sociale e come ideofun-zione di quella ideologica, entrando in un circuito di codici simbolici, che sono frutto delle sin-tesi operate dal pensiero e dall'intelligenza umane. Rispetto ad altri prodotti, come i cerealio la produzione orticola, che condividono comunque il ruolo di tecnofunzioni e di sociofunzio-ni, per la vite e soprattutto per il vino tutto ciò assume un peso rilevante, in quanto proprioil vino non si colloca nello spazio del necessario e dunque del quotidiano, come appunto icereali, ma piuttosto in quello del superfluo e pertanto del festivo. Da questo apparente para-dosso, che situa il vino e il suo consumo in una dimensione per così dire cerimoniale, carica diforti valenze simboliche, scaturiscono la ricca mitologia e l'alta ritualizzazione che lo hannoaccompagnato lungo tutta la storia dell'occidente e che ancor oggi perdurano, sia pure sot-tratte alla dimensione sacrale - eccezione fatta per la Messa cristiana. A differenza infine dimolti, per non dire di tutti gli altri prodotti alimentari, a cominciare dagli stessi cereali,ammesso che possiamo considerarlo almeno per una piccola parte un alimento, ha sempreavuto nomi da che è stato registrato in qualche modo negli annali della storia, come il suo diotutelare, Dioniso, polyónymos appunto, dai molti nomi. Già l'Iliade parlava del vino di Pramno,il più antico tra i vini greci, prodotto nell'isola Icaria dall'unica vite che i Greci conoscevanocome sacra. A sua volta il poeta omerico, parlando del vino con cui Odisseo sconfisse il Ciclope,lo individuò attraverso il luogo di produzione, la città di Ismaro, sulla costa tracia dell'Egeosettentrionale. Nell'antichità greca e romana il vino aveva di fatto fondato il suo prestigio sulpiano della cultura territoriale. Un prodotto tipico, un bene culturale diremmo noi oggi, dadifendere e da valorizzare giocando più che sulla categoria classificatoria individuata dal ter-mine vino, sulla differenza, perché nella realtà non esiste il vino, ma i vini, tutti diversi traloro, denotati dai loro nomi e connotati dalle loro specifiche caratteristiche, così come tuttidiversi sono i vitigni e i vigneti.

Strumento cerimoniale e celebrativo, compagno e liberatore nei momenti di sconforto e tri-stezza, dio offerto in sacrificio agli dei per gli antichi Greci, sangue del figlio di Dio per i cri-stiani, bevanda d'incontro e di comunicazione, il vino non può mai essere bevuto come qua-

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lunque altro liquido, perché non è un liquido qualunque, ma può appropriarsi della mente dichi lo beve. E tutta la sua storia è scandita da inviti a un uso misurato e attento.

Già agli albori della storia, la vicenda biblica in cui Noè diventava preda dei fumi dell'alcol, eun episodio mitico dell'antica Ugarit, nel Vicino Oriente, in cui il dio El cadeva vittima dell'a-buso di vino, sguazzando nei propri escrementi e nel proprio vomito, denunciavano e marca-vano un confine oltre il quale il consumo di quella bevanda inebriante trasferiva il bevitore inuna condizione, se non sub-umana, per lo meno degradata rispetto al suo status. A loro voltai Greci, per i quali il primo impatto con il succo dell'uva era stato dirompente, impararono acontrollare il vino, grazie a Dioniso che aveva insegnato al re d'Atene Anfizione a miscelarlocon l'acqua, distinguendosi così dal selvaggio Ciclope e dai barbari Sciti, che lo bevevano puro.Nel mondo antico, culla della civiltà del vino, vi era dunque coscienza degli effetti che il liqui-do profumato era in grado di produrre, vi era la consapevolezza di una sorta di ambiguità insi-ta nel succo dell'uva, dal quale l'uomo poteva ricavare forza come esserne indebolito. Eranostati escogitati degli espedienti per berlo senza danno, degli accorgimenti pratici, tra i qualiassai diffuso era mangiare del cavolo, anche se il più utilizzato era quello di diluirlo con acqua,che permetteva al bevitore di percepire e controllare meglio gli effetti (Figura 1).

In Grecia a chiusura del banchetto e primadi dare avvio al simposio, si levava un brindi-si in onore di Zeus Sotér, Salvatore, perpoter bere senza rischi. Ma era durante unafesta di primavera, gli Anthesteria, che sisturavano le botti con il vino nuovo, e allora,prima di immettere al consumo il succo del-l'uva, se ne offrivano dei campioni a Dioniso,mescolati in giuste proporzioni con acqua,secondo il tipico costume greco e mediterra-neo, con la preghiera che l'uso della bevan-da fosse vantaggioso e senza danni.

A Roma, il vino fu posto allora sotto la tute-la di Giove, fu chiamato temetum - era que-sto il vino devoluto agli dei, così denomina-to secondo un antico commentatore quodtemptat mentem, e in età arcaica fu inter-detto alle donne, che però lo potevano berein giorni stabiliti per motivi religiosi ecomunque lo bevevano sotto il nome di"latte" nel corso delle feste in onore di BonaDea. L'altro vino, il vinum, quello destinatoai circuiti commerciali, dopo che come

vinum novum fosse stato libato a Giove nel corso dei Vinalia priora del 23 aprile, era inveceregolarmente prodotto e consumato. Nondimeno la città eterna, che in età arcaica aveva pre-visto persino la morte per la donna che avesse bevuto del vino, accentuò le ambiguità di que-sto prodotto, caricandolo di valori oscuri e cupi, tanto che Isidoro di Siviglia, agli albori delMedio Evo, tra il VI e il VII secolo, ricordava come gli antichi chiamassero veleno il vino (vete-res vinum venenum vocabant). E certo per questi motivi nel Medioevo Gregorio di Tours intro-dusse la consuetudine di benedire il vino prima che avesse luogo il suo uso profano del vino,così come più tardi questa bevanda inebriante fu sottoposta a pratiche esorcistiche. Non solo.Ma saper bere il vino equivaleva a presentarsi come classe dirigente, secondo quantoClemente di Alessandria insegnava ai primi cristiani che aspiravano a occupare posizioni digovernance nell'impero di Roma.

Così infatti scriveva l'apologeta cristiano: "… bisogna bere … senza deformare il viso, senzatracannare …, senza strizzare gli occhi con gesti indecorosi prima di bere; non bisogna ingol-

Figura 1. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.Vaso a forma di Sileno addormentato che abbrac-cia una giara: IV sec. a. C.).

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lare senza prendere fiato …, non si deve bagnare il mento e neppure spruzzare la veste, quasiche si lavasse o si immergesse il proprio volto nelle coppe, tracannando tutto d'un fiato. Einfatti il gorgoglío della bevanda che cade giù con impeto quando è ingollata a garganella,quasi che si versasse liquido in un fiasco, facendo risuonare la gola per il tracannare fluttuan-te, è turpe e sconveniente spettacolo di intemperanza. … Come credete che abbia bevuto ilSignore quando divenne uomo come noi? Così vergognosamente come noi? O non forse urba-namente? Con bel garbo? Ragionevolmente?".

Con queste premesse, una storia del vino è particolarmente complessa, ma nello stesso tempoessa diventa carica di significato per la storia dell'occidente e, come si è scritto, ricca di impli-cazioni, anche se limitata a piccoli spazi storico-geografici e culturali. Nei limiti delle risorse a disposizione, i tre contesti presi in esame si sono infatti rivelati ric-chi di informazioni anche per i brevi periodi su cui ci si è soffermati.

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1. IL VENETO

1.1 I TESTI LETTERARIPer il Veneto, la ricognizione condotta suitesti letterari latini rivela per esempio che laterza moglie di Augusto, Giulia Augusta,secondo quanto racconta la Storia Naturaledi Plinio il Vecchio, era un'estimatrice delvino di Pucinum, un vino prodotto in modestequantità, ma estremamente salutare, tral'altro usato anche in ambito medicinale.Geograficamente, Plinio lo colloca alle focidel fiume Timavo, quindi grossomodo nellaparte della Venetia che si volge all'Histria,tra Aquileia e Trieste. E' un vino che - è sem-pre Plinio a dircelo - matura sulla roccia e dicui a più riprese, ma senza alcuna certezza,è stato proposto come l'antecedente storicovuoi del prosecco vuoi del refosco dal pedun-colo rosso. La sua vicinanza con un vino rossosembra confermata dallo stesso Plinio, cheparla questa volta dell'uva picina, omniumnigerrima, "la più nera di tutte". Purtroppo,Plinio è l'unico autore antico a fare accennoal vino o ai vini di Pucino. L'interesse dell'ac-cenno di Plinio consiste nel fatto che ilPucino contribuisce a delineare i confini viti-coli della Venetia, rientrando a pieno dirittonella geografia viticola di questa zona regio-ne.Della Venetia, sono almeno cinque i vitigninoti dalle fonti letterarie greche e latine:1. il vino di Aquileia, di cui parla un autore

tardo, Erodiano;2. l'Istricum, citato da Dioscoride e che

ritroviamo a distanza di secoli nellepagine di Cassiodoro;

3. il vino di Patavium, a proposito delquale Plinio racconta che l'uva raccoltanelle paludi intorno a Padova sa di sali-ce;

4. il vino di Pucino citato da Plinio;5. e infine il Raeticum. Quest'ultimo, oltre

che da Plinio, ci è noto da varie fonti(Virgilio, Strabone, Celso, Svetonio,Marziale, Cassiodoro) e rappresenta, sesi eccettua la scarna testimonianza diPlinio sul Pucino, il solo grand cru dellaragione nord-orientale della penisolaitalica stando al giudizio degli antichi.

Spostandoci verso l'entroterra della Venetia,si incontra forse l'unico vino prodotto da que-sta regione considerato pregiato nell'antichi-tà: il Raeticum. Virgilio, nel secondo librodelle Georgiche, lo pone per bontà subitodopo il falerno. Senza dimenticare che,come sottolinea Plinio con un certo compia-cimento, tutto sommato Virgilio non ricordache quindici varietà di vino, tra greche e ita-liche, eppure non manca di citare e lodare ilvino retico. D'altra parte, piaceva moltissimoad Augusto, che pure era molto moderato nelberlo durante il giorno, e prima che l'impera-tore Tiberio portasse a celebrità le uved'Africa, erano le uve retiche ad essere ser-vite prima del pranzo.

Che le uve retiche provengano dal territoriodi Verona è confermato da parecchi scrittori.E' praticamente impossibile trovare questavarietà di vite altrove. Il vino retico è indica-to dal medico Celso contro i dolori di stoma-co, specialmente contro la paralisi che, bloc-cano la normale attività dello stomaco, portaalla consunzione. In questo caso è ottimoprendere per bevanda il vino freddo, o ancheil vino puro molto caldo, in particolare ilretico, l'allobrogico o qualunque altro, pur-ché asciutto e preparato con la resina.

Malgrado l'affermazione di Plinio, che metteal primo posto il vino nell'economia dellaTranspadana (Naturalis Historia XVII, 127),gli studiosi propendono per limitare la realtàstorica di questo dato. I grands crus

Per cominciare: del buon uso del vinoC. Cremonesi, E. Di Filippo, C. Grandis, P. Scarpi, F. Veronese, M. Zago, P. ZanovelloUniversità degli Studi di Padova, Dipartimento di Scienze del Mondo Antico

G. Filoramo, I. Gaddo, G. Mongini, N. SpinetoUniversità degli Studio di Torino, Dipartimento di Storia

S. Beta*, A. Ciacci**, G. Guastella*, A. Zifferero*** Università degli Studi di Siena, Dipartimento di Studi Classici** Università degli Studi di Siena, Dipartimento di Archeologia e Storia delle Arti

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dell'Italia settentrionale, al di là delle prefe-renze di qualche notabile o addirittura diqualche imperatore, non avrebbero avuto ungrande smercio nel resto della penisola. Lastessa posizione del retico, piuttosto lontanadal mare, ne avrebbe limitato una vastacommercializzazione al di fuori dellaVenetia. Le numerose anfore provenienti dalsettentrione italico attesterebbero piuttostoil commercio per via marittima di un vinocomune, destinato a soddisfare la richiestadella capitale, rispetto alla quale i vignetidelle campagne circostanti Roma si sarebbe-ro dimostrati insufficienti.

Che i vini pregiati della Venetia non fosseropoi così noti ai Romani è forse un'ipotesi daprendere in considerazione. Prendiamo peresempio il vino Hadrianum. Plinio - che è l'u-nico autore latino a parlarci di questo vino -ne attesta la vendemmia ab intimo sinumaris ("nel fondo del golfo Adriatico)", adindicare probabilmente la città di Atria, l'at-tuale Adria, all'imboccatura del Po o, piùvagamente, l'arco di costa compreso tra lefoci del Po e l'Histria. Il vino Adriano era benpiù noto ai Greci, che però forse ci aiutano acollocarlo, con una serie di testimonianzeletterarie che si dispiegano nei secoli, nellacittà di Hadria, l'attuale Atri, presso Teramo.Di sicuro l'onomastica simile potrebbe avertratto in inganno Plinio, che non mostra una

conoscenza solida dei vini dell'adriatico set-tentrionale. Hadrianum della Venetia oHadrianum del Picenum? La questione rima-ne tuttora aperta.

Una cosa è certa. I grands crus dell'Adriaticoitalico sembrano essere più apprezzati esoprattutto più noti ai Greci e all'Oriente(Atene e Alessandria) che ai Romani. Pocaattenzione è stata dedicata ad alcune poesiedell'Antologia Palatina, da cui si ricava la raf-finatezza che veniva associata ai vini italici.Così, in epoca augustea, Antifilo di Bisanziocelebra il nettare Adriano e Antipater diTessalonica chiede che, oltre al vino Adriano,solo vino italico gli sia versato nella coppa.

1.2 I COLLI EUGANEILe indagini condotte poi sui Colli Euganeiconfermano l'assenza di dati precisi relativa-mente all'epoca della diffusione della viticol-tura in area veneta, come nel resto dellaCisalpina. Rinvenimenti di vinaccioli adesempio in area veronese e polesana attesta-no la raccolta di uva selvatica durante l'etàdel Bronzo, mentre per l'età del Ferro sihanno dati relativi all'area veronese, maanche a quella euganea. I recenti scavi con-dotti nell'area del santuario di Meggiaro aEste (Figura 2), le cui fasi di vita si collocanotra VI e II sec. a.C., all'interno del pozzosacro, testimoniano una consistente presen-

Figura 2. Vinaccioli dallo scavo di Meggiaro a Este, da Motella De Carlo 2002.

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za di Vitis vinifera. Tra i numerosi resti bota-nici infatti sono stati riconosciuti circa 200vinaccioli interi e più di 400 frammenti; l'a-nalisi sui vinaccioli non combusti, in baseall'indice di Stummer, nel tentativo di distin-guere tra forme selvatiche e coltivate di Vitisvinifera L., sembra indicare nel territorioestense la presenza di vitigni con caratteri-stiche intermedie fra la forma spontanea equella coltivata. La consistenza di questidati, che possono anche far pensare a pro-cessi di spremitura fatti in loco, unita allamaggior presenza nei corredi tombali divasellame a carattere potorio, risulta indica-tivo dell'importanza che sembra aver avuto ilvino nei rituali dei Veneti antichi. Si ritienepossibile che anche in quest'area, come inaltri casi, sia stato fondamentale il ruolodegli Etruschi nella diffusione della viticoltu-ra e nella progressiva "addomesticazione"della vite selvatica. Il problema fondamenta-le nel quadro degli studi in questo ambito èla scarsissima presenza di dati di riferimentosu reperti organici e analisi correlate.Anche per l'età romana i dati archeologicisono rari: si ricorda il rinvenimento probabil-mente di vinaccioli nello scavo di una villarustica a Ca' Quinta di Sarego, sul versantesud-occidentale dei Colli Berici e sempre nelVicentino si associano alla coltivazione dellavite i resti di alcuni falcetti rinvenuti in con-testi diversi tra Schio e Isola Vicentina.(Figura 3).

Si aggiunge qualche dato, grazie soprattuttoalle fonti letterarie antiche, che ricordano in

tutto il territorio cisalpino ed in particolarenel Veronese la presenza di vitigni pregiati edi vini largamente esportati in tutto l'impero.Caratteristici della Cisalpina sembrano duevitigni ricordati da Plinio (NH XIV, 39) comela vitis raetica e la gallica, cui si affianca laspionia o spinea che l'autore (XIV, 34) ricolle-ga più all'ambito ravennate, in quanto resi-stente sia alle alte temperature che all'umi-dità. In Veneto l'area altinate, nella memoriadelle fonti antiche, sembra la più simile aquella ravennate per condizioni climatiche equindi adatta alla coltivazione della vite. Le uve veronesi erano pregiate, al punto daessere ricordate quali vere leccornie nellemense dei Romani (Plinio, Naturalis HistoriaXIV, 16; Catone, Ad fil., fr. 8 Jordan), maanche i vina Raetica erano considerati tra imigliori, al pari dei più celebrati vini italici(Strabone, IV, 6, 8, 206; Virgilio, Georgica II,95-96; Marziale XIV, 100; Svetonio, Aug. 77).Ancora nel VI sec. d.C. Cassiodoro (Var. XII,4, 2) riforniva le cantine del re Teodorico conil dolce vino veronese Acinaticus.

Testimonianza di traffici commerciali si hasia attraverso Aquileia che Verona verso ipaesi transalpini: come testimonia una stelefuneraria, databile tra metà del II e inizio delIII sec. d.C., rinvenuta a Passau, nellaBaviera meridionale, là fu sepolto un com-merciante di vini, il negotians vinariarius P.Tenatius Essimnus, residente a Tridentum maoriginario della Valpolicella in quanto appar-tenente alla tribù degli Arusnates. Ai lati del-l'iscrizione due rilievi rappresentano vendito-ri di vino.

Nel panorama di una diffusa coltivazionedella vite in tutta il territorio cisalpino cer-tamente era compresa anche l'area euganea,che godeva, nel passato come oggi, di unclima mite e soprattutto di estesi pendii,predisposti per una corretta esposizione airaggi solari e quindi particolarmente adattialla viticoltura. Una fonte letteraria latina inparticolare ricorda il paesaggio euganeo, chedoveva essere anche allora costituito da ter-reni coltivati sia in pianura che in collina,sfruttando gli appezzamenti su pendio conuna diffusa e pregiata viticoltura; il poetaMarziale infatti nel I sec. d.C. ricorda: Siprior Euganeas, Clemens, Helicaonis oras /pictaque pampineis videris arva iugis, / per-fer Atestinae nondum vulgata Sabinae / car-mina, purpurea sed modo culta toga… "Se tu

Figura 3. Una rappresentazione evocativa: i pen-dii vesuviani coltivati a vigneto, part. dal notoaffresco da Boscoreale.

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vedrai, o Clemente, prima di me l'euganeaterra patavina, con i suoi colli rossi di vigne,porta a Sabina d'Este le mie poesie non anco-ra toccate dalle mani del popolo ed in frescaporpora legate".

Il riferimento al vivace colore delle foglie fapensare a varietà di uve rosse, che potrebbe-ro collegarsi a vecchi vitigni largamente dif-fusi fino a qualche decennio fa e oggi quasiscomparsi. In qualche piccolo appezzamentoe nella memoria storica del territorio riman-gono le tracce di vitigni forse autoctoni e didenominazioni che si possono ricollegare atoponimi tuttora esistenti: un esempio puòessere la varietà del Pedevenda, oggi coltiva-ta in qualche area del Veneto, ma che ricor-da un ancora esistente toponimo alle pendicidel colle principale degli Euganei, ilM.Venda.

Per la loro particolare posizione nel cuoredella Pianura padano-veneta, i Colli Euganei,isolati dagli altri rilievi montuosi e collinaridell'arco prealpino, appaiono un'area d'inda-gine privilegiata perché più facilmente nellearee isolate si mantengono integri i caratte-ri originari. Un esempio ne sono le ricerchecondotte nell'area vesuviana, dove le parti-colari condizioni di isolamento dell'areaarcheologica dal resto del territorio, nonchéla ricchissima documentazione letteraria ediconografica di età romana, ha reso possibilela ricostruzione del panorama vitivinicolo delcomprensorio. Analoghe proficue ricerche sistanno conducendo in area toscana, graziealla stretta collaborazione tra archeologia ediscipline scientifiche e agronomiche. NelVeneto sono state avviate indagini tra imateriali d'archivio, ma è necessario esten-dere le analisi del DNA su vinaccioli prove-nienti da scavo per poter acquisire i datinecessari per definire con maggior chiarezzale caratteristiche dei vitigni autoctoni dell'a-rea euganea.

1.3 LA VENETIA MARITIMASempre in ambito Veneto le ricerche dedica-te al vino, che resta uno dei risultati piùstraordinari delle antiche forme di manipola-zione alimentare, hanno messo in luce aspet-ti iconografici e storico-religiosi di figuredivine (Bona Dea) ed eroiche legate a que-sto prodotto, che si intrecciano vuoi con gliaspetti antiquari del costume del bere vino edunque dei riti simposiaci documentati dai

più diversi monumenti artistici, vuoi conquanto gli scavi archeologici hanno restituitosu allevamento della vite e vinificazionelungo tutta la fascia costiera veneta. Dietrol'odierno ambiente lagunare veneto, infatti,con i suoi casoni e la sua tipica e naturalevita, si celano tradizioni antiche, che hannopreso nuova luce dalle parole di scrittoriantichi e moderni sulla fascia romanizzatadella Venetia maritima. Gli ultimi scaviarcheologici grazie alla lettura delle fontiantiche, da Strabone a Plinio a Columella ea molti altri, hanno infatti permesso non solodi definire quest'antica economia palustre elagunare in tutti i suoi aspetti, da caccia epesca, ma di ricostruirla integrata con ciòche produceva il territorio interno.

Tra praterie e foreste, fiumi e canali, ville einsediamenti rustici prosperavano, infatti,nella zona, fin sul bordo della laguna. E se lepraterie interne e le foreste davano alleva-mento, in analogia a quanto le fonti ricorda-no del territorio di Altino, con altrettantacertezza sappiamo che intorno a Concordia sifaceva allevamento di vite e si faceva vino.Inevitabile il richiamo alla villa di Marina diLugugnana, con il bel bronzetto trovato invilla e la sua vasca piena di vinaccioli. Nonsappiamo ancora però se l'attenzione a que-sta produzione fu un portato della colonizza-zione romana o se era già pratica antica,come testimonierebbero vinaccioli rinvenutiin palude e in alcuni strati protostorici nell'a-rea del ponte di Musile. Del consumo di vinoin età preromana parlano d'altronde i restidelle necropoli protostoriche, ma di qualevino si trattasse, quale fosse la tradizione delvino importato sulle coste nord-adriatiche,ancora non sappiamo: se fossero cioè vinivenuti dalle aree tirreniche o piuttosto fos-sero vini greci, né se essi sapessero di salso.Così è stato finora impossibile riuscire a defi-nire quale possa essere stato il momento dipassaggio dalla vite selvatica alla vite colti-vata. Columella, Catone, Varrone, Plinio, iGeoponica sono le fonti relative alla coltiva-zione della vite in palude e sui vantaggi diquesto fare vino in vicinanza del mare, chetrovava ad esempio confronto con i vini delCecubo. Tanti a questo punto sono i problemiche insorgono, compresi quelli relativi all'a-rea di diffusione di una cultura del vinosalso. Sappiamo per certo che questo tipo divino interessava l'area di Padova e, perchéviva ancora oggi, la stessa laguna di Venezia,

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dove recenti esperimenti stanno cercando dirilanciare la cultura del vino in palude. Eraun genere di vino che giungeva fino all'arearavennate. Un particolare che, insieme aduna ricerca della toponomastica della zonalagunare, ci ha fatto proporre che da tali uvederivasse il toponimo del piccolo centro diSpinea (la toponomastica è stata studiatasoprattutto dall'unità di ricerca dell'Univer-sità di Siena), situato in area mestrina, allimite tra i territori di Treviso, Padova,Venezia. Un'economia palustre che nei tempipiù tardi della romanità gli autori antichicontinuavano ancora ad evidenziare.

1.4 NEGOTIATORES ET ALIADunque si può sostenere che nella Venetiaproduzione e commercializzazione del vinohanno avuto un ruolo altamente significati-vo, perché proprio il vino è stato uno stru-mento che ha collegata quest'area geografi-ca con il resto del Mediterraneo. Il territoriostesso del Veneto, per sua natura variegato ecaratterizzato da rilievi montuosi, collinari eda aree costiere, ha rivelato fin dall'epocaprotostorica la sua vocazione allo sviluppodella vitis vinifera. Le fonti letterarie e ico-nografiche costituiscono ovviamente il fon-damento insostituibile, soprattutto volendoampliare l'orizzonte della ricerca. A queste siaggiungono come fonti i dati della culturamateriale, le modalità con cui nell'antichitàavvenivano la coltivazione della vite, la pro-duzione e la consumazione del vino.

Nella storia del vino del territorio venetol'età del ferro si configura come un momentodi snodo fondamentale: che l'uva fosse notaanche prima di allora, lo si evince dalle varieattestazioni della presenza di vinaccioli rife-ribili alla vitis vinifera silvestris - raccolta econsumata come una bacca - rinvenuti indiversi contesti riferibili all'età del bronzo.Le modeste quantità di questi ritrovamenti,per lo più limitati a poche decine per ciascuncontesto, non hanno però permesso di ipotiz-zare un consumo previa spremitura, mentreè attestato il consumo di bevande fermenta-te ottenute dalla spremitura di altri tipi dibacche o frutti.

Le attestazioni di una vera e propria coltiva-zione della vite e del consumo del vino sihanno dunque solo a partire dell'età delferro, quando accanto alla vitis vinifera sil-vestris iniziano a comparire le tracce di vitis

vinifera sativa. Ciò è ben testimoniato siadalla presenza dei suoi semi nelle stratifica-zioni archeologiche, sia dal diffondersi dellapratica del simposio per tramite dei contatticon il mondo greco-etrusco. Le situle delmondo veneto protostorico, così come lepatere o i sympula spesso rinvenuti nei cor-redi funerari e nei depositi votivi, nonché ivasi potori, ci documentano una realtà in cuil'uso del vino era divenuto una pratica abi-tuale nel banchetto, così come lo era inambito rituale. Ne è un esempio la situlaBenvenuti, nelle cui fasce decorate a sbalzosi notano alcuni personaggi raffigurati nel-l'atto di brindare tenendo in mano chi unacoppa, chi un bicchiere, mentre alcuni vasel-lami per il banchetto fanno mostra di sé in unapposito espositore. Scene di libagione sonopresenti poi anche su cinturoni, lamine,foderi di pugnali, dischi, così come sono benattestati bronzetti a tutto tondo raffigurantil'offerente nell'atto di libare.

Le fonti letterarie, che pure sulla viticolturae sul vino sono molto numerose, non sempreforniscono dati puntuali sulle produzionidelle singole zone. Di difficile lettura risultala produzione nell'area del delta del Po lad-dove, a fronte di un territorio fertile e aritrovamenti archeologici che comprovanouna consistente attività commerciale legataal vino, le fonti letterarie sono scarse e atratti ambigue. Plinio, che in altri casi sirivela un'ottima fonte di informazioni pun-tuali, accenna soltanto in modo generico adun'ottima qualità dei vini hadriani, utilizzan-do un'espressione controversa che, secondoalcuni studiosi, non sarebbe nemmeno riferi-bile al "vino di Adria", bensì al vino dell'agerhadrianus nel Piceno. Qualche altra informa-zione sui vini prodotti in area deltizia emer-ge dagli scritti di Plutarco, che definisce ivini prodotti nell'area del Po resinosi e consi-stenti. Ciò che, in via indiretta, possiamodesumere da queste testimonianze, unita-mente ai dati archeologici, è che la colturadella vite nella zona era senz'altro praticatae trovandosi Adria in territorio paludoso, sipuò presumere che la coltivazione delle vitiin palude avesse anche qui una certa diffu-sione. Molto probabilmente, quindi, in que-sta zona venivano prodotti dei vini di qualitàordinaria, destinati a soddisfare il mercatolocale, ma anche ad avere una loro circola-zione, pur senza assurgere a quella fama cheavevano invece i vini serviti alla corte impe-

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riale. Ciò a riprova del fatto che le produzio-ni vinicole si declinavano in caratteristichemolto diverse, con conseguenti diverse rica-dute economiche e sociali. Ancora dalleparole di Plinio sappiamo che nell'agro vero-nese aveva il suo habitat l'uva retica, da cuisi otteneva un vino particolarmente apprez-zato, il vinum reticum, una sorta di passito,probabilmente bianco. I tanti ritrovamenti dianfore vinarie e le iscrizioni rinvenute inValpolicella in cui si menzionano i negotiato-res vinorum - commercianti di vini - hannopermesso di comprendere sempre megliocome in epoca romana in gran parte di que-sta zona collinare la viticoltura fosse pratica-ta con successo. Ma se il settore occidentaledella Venetia aveva una naturale vocazionealla viticoltura per la presenza dei rilievi col-linari e grazie anche ad un clima particolar-mente favorevole, ambienti climaticamentemeno felici non sono stati da meno nella pro-duzione vinicola. L'area della pianura pado-vana, umida e a tratti paludosa, era infattinota per le sue viti maritate ai salici, secon-do una tecnica - quella del sostegno vivo -che a lungo ha caratterizzato il paesaggioagricolo di questo territorio. Da questi vigne-ti, ne è testimone Plinio, si produceva un'uvadal caratteristico - ma non troppo gradevole- "sapore di salice", ragion per cui il vinopadovano ebbe scarsa circolazione e non rag-giunse, neppure nelle epoche successive, unparticolare livello qualitativo. Diversa invecedoveva essere la situazione in area euganeadove i ritrovamenti archeologici, sebbeneancora oggi abbastanza desultori, indizianol'esistenza di numerosi insediamenti rustici edove la viticoltura, praticata sui fianchi deicolli, fu resa celebre dai versi di Marziale.

Sicuramente degno di menzione, accanto alvino retico dell'agro veronese, era infine ilvinum Pucinum, prodotto alle foci delTimavo, a est di Aquileia in un ambiente sas-soso, esposto alla brezza marina, atto ad unaproduzione in piccole quantità.

Di altri vini, prodotti nella Venetia orientale,non si ha notizia. Da Strabone veniamo aconoscere un dato, per così dire, comple-mentare. Egli afferma infatti che molti vinigiungevano ad Aquileia via mare e qui veni-vano smistati verso altri mercati. Si puòquindi ipotizzare che la produzione localefosse sufficiente a soddisfare il mercatoaquileiese e che il vino in arrivo dal mare

venisse principalmente ridistribuito. A fronte di una documentazione letterariache permette di individuare con una certasicurezza nella Venetia un'area di produzionevinicola, la lettura del dato archeologico puòpermettere di comprendere con quali moda-lità questo vino, una volta prodotto, fosseconservato, consumato e/o fatto oggetto ditraffici commerciali. E sempre il datoarcheologico consente di capire quale ruologiocasse l'Adriatico negli scambi commercia-li. Ora, focalizzando l'attenzione sul proble-ma della produzione vinicola, non si può nonpartire dal fatto che in Italia settentrionalenon è attestata alcuna realtà riconducibilealle grandi ville schiavistiche presenti in areacentro-italica. Qui sono invece presentinumerosissime villae rusticae, ovvero pro-prietà fondiarie medio-piccole, a conduzionefamiliare, le cui produzioni erano prevalen-temente finalizzate al consumo locale. Conla romanizzazione il quadro economico iniziaa cambiare: tra i campi centuriati si intensi-fica la presenza di insediamenti rustici eaumentano le coltivazioni. Le dimensionirestano in ogni modo piuttosto contenute. Èin questo contesto economicamente in asce-sa che si assiste all'affermarsi di un vero eproprio mercato del vino.

Per individuarne le tracce dal punto di vistaarcheologico, è stato necessario partire daun'analisi delle tecniche e dei manufattinecessari alla conservazione del vino. Ne èemerso che i vini di bassa qualità, destinatial consumo locale - ovvero la maggioranza diquelli prodotti nel territorio analizzato - ladurata massima della conservazione si atte-stava nell'arco di circa un anno, il raggiocommerciale era brevissimo, quando nonaddirittura nullo nei casi di autoconsumo,per cui la vinificazione non richiedeva accor-gimenti particolari, così come non ne richie-deva il trasporto: conservati per la fermenta-zione in grandi dolia di terracotta, per lo piùseminterrati per garantire al contenuto unatemperatura ottimale e costante, questi vinivenivano travasati dal dolium al contenitoredel consumatore (bottiglie, anforette damensa), o eventualmente in otri di pelle concui venivano portati ai mercati vicini. Vierano poi i vini ordinari, destinati al cosid-detto "consumo di massa" e oggetto di com-merci ad ampio raggio: molti dei vini prodot-ti nella Venetia, i vini rustici, rientravano, siè detto, in questa categoria. La vinificazione

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implicava, in questo caso, l'aggiunta di addi-tivi e anche in questo caso i contenitori uti-lizzati per la conservazione erano i dolia,preventivamente sterilizzati con pece bol-lente che ne garantiva anche l'impermeabi-lizzazione e conferiva un aroma più deciso alcontenuto; tappi di sughero impeciati o diterracotta ne garantivano la chiusura ermeti-ca. Diverso è infine il discorso relativo ai vinipregiati, nel nostro caso forse soltanto il vinoretico e quello di pucino, che erano vinimolto invecchiati e apprezzati da un targetche li richiedeva anche a grande distanzadalle aree di produzione. Le tecniche pergarantire la qualità durante l'invecchiamentoe la salvaguardia durante il trasporto doveva-no dunque essere messe abbondantementein atto. Questi vini pregiati, più che all'inter-no di dolia, erano conservati entro anfore,più sicure per garantire la buona qualità delprodotto e funzionali al successivo trasporto.All'interno delle case, il luogo adibito allo sti-vaggio delle anfore era solitamente un pianoalto, sopra alla cucina: i vapori e il caloreprovenienti dal focolare servivano infatti adincentivare e migliorare il processo di invec-chiamento, nonché a conferire al vino unparticolare aroma.

Ora, a fronte di molteplici dati che ci infor-mano sulla produzione di vino, il datoarcheologico ci parla, conseguentemente,anche di produzione di anfore vinarie, tutta-via in proporzioni per ora molto inferioririspetto alla produttività del territorio.

Sulla base delle testimonianze archeologi-che, è possibile affermare che con la fine delII sec. a.C. fa dunque la sua comparsa laLamboglia 2 di produzione locale, conforma-ta sulla falsariga di un precedente modelloapulo, derivato dalle anfore greco-italiche ea sua volta destinato al trasporto di vino:centri produttivi sono stati individuati neipressi di Aquileia e, con una buona concen-trazione, in area padana tra Modena ePiacenza. La destinazione delle Lamboglia 2era di sicuro il mercato interno, come con-ferma la capillare distribuzione di ritrova-menti nei contesti archeologici del Veneto,ma destinatario non meno importante dove-va essere il mercato ellenico, soprattutto ilsettore orientale, dove la presenza di questeanfore è decisamente rilevante. Intorno allafine dell'età repubblicana la Lamboglia 2viene sostituita dalla Dressel 6A, che ne

costituisce una derivazione morfologica eche fino alla fine del I d.C. diventerà il tipi-co contenitore vinario della Cisalpina, este-samente prodotto nelle regioni dell'Adriaticocentro-settentrionale. Alla Dressel 6A risultaaffiancata, a partire dalla metà del I d.C., laDressel 2-4 prodotta in Cisalpina ad imitazio-ne di un analogo modello tirrenico. In questomomento inizia però anche il declino dellaproduzione vinicola adriatica, che subisce laconcorrenza di altre produzioni di massa - viavia diffusesi in varie aree della penisola non-ché nei territori delle Province - più adatte asoddisfare le esigenze del mercato. Con lametà del I d.C. si affacciano sul mercato dialtri tipi di vini, più "esotici". Nel corso del Isec. d.C. iniziano infatti ad essere ben atte-state, nei centri costieri, ma anche in quellidell'entroterra, le anfore vinarie di produzio-ne egeo-orientale, a testimonianza del fattoche il mercato iniziava a richiedere prodottidiversi da quelli locali. Le fonti, a questoproposito, non lasciano adito a dubbi, nelmomento in cui testimoniano ripetutamenteun "consumo senza limiti" del vino di Chio, diCoo, di Mindos e di Alicarnasso, tutti apprez-zati per la loro caratteristica di essere vinisalsi. In base alle attestazioni dei contesti discavo, possiamo affermare che un ruolo sen-z'altro preponderante nel trasporto di questivini è quello della anfore di "tradizione coa",quali le Dressel 5 e le Knossos 22.

Un ulteriore e conclusivo spunto di riflessio-ne per completare il quadro così delineatopuò essere offerto dall'analisi dei materialirinvenuti nei relitti delle imbarcazioni roma-ne naufragate in alto Adriatico. Si trattainfatti di dati relativamente recenti, che permolti aspetti confermano il quadro tracciato,rifocalizzando però l'attenzione sulle rottepercorse dal mercato del vino. Due sono,nello specifico, le navi onerarie recuperatenelle acque antistanti la costa della Venetia:la Iulia Felix, rinvenuta nel 1987 nella lagu-na di Grado e oggi musealizzata e il Relittodelle Alghe, rinvenuto nelle acque di Caorleall'inizio degli anni '90.

In conclusione, si può dunque affermare chenella Venetia il tasso di produttività fu note-vole in termini di quantità, ma - a partepoche eccezioni - il vino fu a tutti gli effettiun vinum rusticum, esportato su grandidistanze e adatto a degustatori non tropporaffinati. Punto di forza dei vini dell'Italia

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settentrionale fu dunque, forse, più la quan-tità che la qualità, ma al contempo laVenetia, grazie ai suoi tanti siti portuali dis-locati lungo la costa, fu il punto di arrivo dialtri prodotti importati e in parte ridistribui-ti nei mercati interni. Sempre più si dovràprestare attenzione, nel prosieguo dellericerche, al corridoio Adriatico, che a tuttigli effetti si configura come una sorta di"autostrada d'acqua" tra le regioni settentrio-nali e il mondo egeo.

1.5 UN REGESTO DELLE TIPOLOGIE VITICO-LE

A titolo di esempio di una ulteriore indagineche si potrebbe approfondire con risultaticonsiderevoli per l'area veneta, ma non solo,è del pari la costituzione di un regesto delletipologie viticole costruito sulla base delladocumentazione contenuta negli archivi dialcune città del Veneto, elaborata scavandosoprattutto negli Archivi di Stato di Venezia edi Padova, che per l'archivio di Veneziadiscende in gran parte dalla sistematicaindagine compiuta dai tecnici del CensoAustriaco negli anni 1826-27. La costituzionedi questo regesto ha preso avvio dall'annota-zione di un funzionario imperiale del IX seco-lo che, osservando la vita degli abitanti dellalaguna veneta, affermava che quella gentenon ara, non semina, non vendemmia, eppu-re mangia e beve lo stesso. L'anonimo auto-re delle Honorantie pavesi, evidentementeera persuaso che i veneziani dovesseroimportare tutto il vino e il grano di cui ave-vano bisogno. Una valutazione errata perchégli abitanti della laguna già allora dirottava-no altrove, ben oltre i loro lidi, i carichi divino e dei cereali che imbarcavano nei diver-si porti. Una prova della capacità di produr-re in proprio gli alimenti base del quotidianosostentamento. Del resto è noto che sullelingue sabbiose del litorale Adriatico la viteprosperava sin dall'Alto Medioevo. Ma non èpossibile dire quali varietà si coltivassero,benché reiterati appaiano i riferimenti nelladocumentazione contrattuale dell'epoca. Unaffascinato cronista, qualche tempo dopo,non a caso scrisse che il litorale è tuttopieno di vigne frondosissime fitte di viticariche di uva bianca.

A scorrere i contratti agrari conclusi all'indo-mani del fatidico varco dell'anno Mille si hal'impressione che la coltura principe dellalaguna doveva essere proprio quella della

vite. Il doge Sebastiano Ziani (1172-1178),qualche decennio più tardi, e precisamentenel novembre 1173, nel delineare un calmie-re per i generi di più largo consumo stabilìche nelle taverne cittadine non si potessevendere il vino de Romania ad un prezzomaggiore di 40 soldi veronesi ad anfora. Nelprovvedimento ebbe cura inoltre di stigma-tizzare la brutta abitudine dei locandieri, edi altri venditori, di commercializzare il vinoannacquato o miscelato ribadendo che nelletaverne esso andava rivenduto puro e senzafrode.

Rimanendo nella capitale lagunare, un paiodi secoli dopo, al tempo cioè del doge AndreaContarini (1368-1382) un'anonima cronaca(datata al 1382) ricorda che il vino commer-cializzato a Rialto era quello de Marcha eRomania, assieme alla Ribuola e al vinTerran. In altre parole vino delle Marche,della Romagna e, verosimilmente, delleterre venete. Nel medesimo scritto, l'elencodei prezzi annovera poi una lunga lista diortaggi e frutta, ivi incluse le carrube.

Alla metà del XVI secolo sul mercato venezia-no gli Ufficiali al Dazio del vino proibironotassativamente, e senza deroga, la condottadi uva per far vino, con l'eccezione per alcu-ni monasteri ed altrettanti ospedali.Trentanove istituti che, manco a dirlo, pocotempo dopo furono richiamati all'ordine peraver assunto la funzione di "cavallo di Troia"nell'introdurre uve a nome proprio per poigirarle a privati o ad altri istituti ai quali eraproibito. Superfluo raccontare che nel brevevolgere di qualche decennio quelle corbeaumentarono sempre più di volume e capaci-tà al punto da obbligare nuovamente i dazia-ri della capitale a fissare anche le dimensio-ni dei cesti, ragguagliando ogni 30 lire di uvaper ogni cesta. Oltre quel limite l'eccedenzaera considerata a tutti gli effetti merce dicontrabbando e in quanto tale perseguita.

In quelle ceste entravano soprattutto uvedell'entroterra veneto, poiché, sempre aVenezia, il commercio del vino attingeva -tra XVI e XVII secolo - a quasi tre dozzine dizone produttive diverse.L'intero Mediterraneo vi era ampiamenterappresentato: da Cipro alla Spagna, daMessina a Smirne, da Alicante a Trapani, perseguire l'intera costa Adriatica (Brindisi,Trani, Bari, Vasto, Ancona, Senigallia, Rimini

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e Comacchio) e gran parte dell'entroterraromagnolo (Argenta, nel ferrarese, Ravenna,e la più interna Modena).

Sono provvedimenti che indugiano sui divieti- siamo ormai nel Settecento avanzato -ricordano che le uve pignole, corbine, pata-resche, garbione, varone, garbiotte, e vinti-perghe non potevano essere introdotte daChioggia fino a Venezia. La piazza di Rialtoera riservata a tutti i vini della Marca, diTrieste, della Dalmazia, della Prigia,dell'Istria, della Puglia e di Candia. Gli altri,che non garantivano durata e qualità, dove-vano rimanere nell'entroterra e nelle isoleminori. Numerose varietà viticole dellaTerraferma restano dunque ai margini, estentano a competere con le qualitàdell'Adriatico. Sono solo le montane a farbreccia. Dall'area euganea, ad esempio,giungevano i vini bianchi prodotti dalle uveBianchetta, Moscata, Pinella, Verdise. A lorovolta i vini rossi si ricavavano dalle uveMarzemina, Negrara, Zoveana, Pignola,Greggia, Carrara, Pataresca e Ventiperga.Uve per le quali ci appare arduo cogliere icaratteri ampelografici di riconoscimento,seppur non possiamo escludere che un atten-to esame delle denominazioni locali potreb-be consentire una più precisa identificazionecon uve che conosciamo.

Con queste premesse, le aree del Venetoprese in esame per la costituzione di questoregesto esemplificativo sono quelle dei ColliEuganei, la parte settentrionale dell'attualeprovincia veneziana gravitante attorno aPramaggiore e a Portogruaro (il così dettoVeneto orientale), le colline veronesi che daiLessini si stendono verso il lago di Garda.Aree profondamente segnate in passato o dascarsa produttività, o da vere e proprie "rivo-luzioni" agrarie seguite a precise scelte col-turali. Se è vero che le due aree più celebra-te (Euganei e Valpolicella) affondano la pro-pria tradizione vitivinicola nel lontano passa-to, altrettanto non si può dire per l'area delportogruarese: qui i vigneti sono sorti all'in-domani della Prima Guerra mondiale nellafase di rinascita delle terre sconvolte dalconflitto militare.

1.6 UN REGESTO: L’AREA EUGANEAAttestazioni sulla diffusa coltura della vitenon isolata ai bordi dei terreni coltivati, peri Colli Euganei si incontrano a Monselice. Qui

c'è addirittura un'intera collina che nel seco-lo XI è chiamata Monte Vignalesco o MonsVinearum. Oggi è conosciuta col toponimo diMonte Ricco, dove il nome proprio - Ricco - siriferisce alla diffusa presenza di viti o vigneche dir si voglia. Sin dalla fine del primo mil-lennio diversi istituti ecclesiastici si contese-ro i pendii più esposti del colle, e soprattut-to le balconate della Solana, altro toponimoquanto mai espressivo.

Il mondo vitivinicolo euganeo per tutto iltardo Medioevo e l'età moderna fornì il vinomigliore al mercato locale e a quello più sofi-sticato di Venezia. Nella pianura si andavainfatti consolidando la vigna lungo i rivali, aimargini delle scoline, sui bordi coltivati delleterre arative. I contratti di livello ventino-vennali spinsero i contadini a piantare le vitilungo gli orli delle terre coltivate, spessoseguendo l'asse nord-sud così d'assicurareuna perfetta esposizione solare dell'uva. Afavorire questo modello di piantata furonosoprattutto i monaci, che spesso inserironola formula contrattuale ad vineam plantan-dam. Il vigneto, del resto, nel significato cheoggi gli attribuiamo lo s'incontra solo in col-lina. E naturalmente i documenti - seppuravari di dettagli - non mancano di segnalareche alle viti montane appartengono le pergo-live, le palestre, le schiave e le garganiche.Uve bianche, rosse e nere, da vino e da tavo-la in grado tuttavia d'inserirsi in piccola per-centuale nel grande emporio veneziano diRialto, il terminale più prestigioso per il vinodi allora.

Nella storia millenaria della vite euganea c'èinfatti una profonda frattura, una cesuranetta dovuta alla diffusione della fillosseranei primi anni del Novecento. Il piccoloinsetto ha infatti pressochè distrutto i vigne-ti, sì che per ripiantare i vitigni si è dovutiricorrere alla vite americana che ben resistealla fillossera. Oggi tutte le piante, pur conqualche debita eccezione, presenti sui Collisono su piede americano. Un evento, pur-troppo, che ha portato alla scomparsa dimolte varietà. Se note ci sono l'uva marzemi-na e la garganega, cui si è affiancato in annirecenti il reimpianto dell'uva schiava, nullapiù sappiamo ad esempio della garganega datavola, la durona o dorona veneziana (chia-mata ovi de galo con un ossimoro tutto pado-vano) dal "grappolo grossissimo, acino gros-so, bacino dorato, da conservare" che matu-

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ra a fine agosto, soppiantata dall'uva biancaproveniente dalla Puglia. E pure un interro-gativo sono le uve Palestre e le Pedevenda,due varietà che la documentazione d'archivioci propone ripetutamente per l'area euga-nea. Vigne che forse sono da identificare conquelle "vigne a ronco" ripetutamente segna-late dai periti del Catasto Austriaco del 1826.

1.7 UN REGESTO: IL VENEZIANO (O VENETOORIENTALE)

Totalmente sconosciute al mercato venezia-no appaiono le uve e il vino dell'area nord-orientale dell'attuale provincia di Venezia. Ascorrere l'indagine del censo svolta all'indo-mani della caduta di Napoleone, si apprendeche dal bacino attorno a Gruaro (AnnoneVeneto, Cinto, Lison con Pradipozzo, Fusine,S. Biagio) l'uva non ha alcun pregio. È giudi-cata d'infima quantità e insufficiente per ilconsumo locale, così da doverne persinoimportare.

Le uve bianche non arrivano al decimo dellenere: e le une e le altre mancano affatto direputazione. Un giudizio che accompagnagran parte delle zone che oggi presentanolodevoli e qualificate produzioni. Un quadrofosco, di certo negativo, che evidenzia illimite della produzione viti-vinicola dellapiantata padana. Viti che crescono ai margi-ni dei terreni aratori, arborati e vitati,aggrappate ad aceri e salici, quattro gambiper pianta e con i tralci tesi tra un albero el'altro, questi ultimi lontani tra loro circa 5metri. L'immagine, in altre parole, che siricava prima della cesura storica data dall'e-splosione della fillossera tra 1878 e 1910, èla scomparsa di molti vitigni autoctoni sop-piantati negli anni del primo dopoguerra daun mirato sviluppo produttivo di viti prove-nienti da aree esterne al Veneto. Per tuttal'area del Veneto orientale non si trova trac-cia di vigneti o di vigneti specializzati. Quasiuna conferma, dopo dieci secoli, che seppurin queste terre a mala pena si vendemmiava,di certo si beveva comunque.

1.8 UN REGESTO: L’AREA VERONESE DAILESSINI AL GARDA

La documentazione d'archivio attesta la pre-senza della vite in tutta l'area che dal Gardagiunge ai Lessini. Pur tuttavia in questa vastaarea, che oggi è rinomata per la qualità deisuoi vini, ancora nei decenni iniziali del XIXsecolo la vite, pur costituendo una delle

principali colture, rimaneva comunque aimargini delle altre produzioni agricole.

La coltura della vite nel Veronese è lasciataall'iniziativa del singolo proprietario - pro-prietario che sarà il vero motore della fortu-na vinicola della Provincia sul finire del XIXsecolo - alla sua sensibilità, al suo interessenell'ottenere un prodotto di qualità, primaper sé stesso e poi per il mercato cittadinoverso il quale indirizzare i soli prodotti ecce-denti della propria azienda agricola. L'uvasembra non riscuotere alcun specifico inte-resse sì che la tradizione, che vuole unalunga e radicata cultura vitivinicola nellazona, appare priva di solido riscontro.Sorprende, ad esempio, leggere perGargagnago che "le uve sono pressoché tuttenere. Quelle del colle spessi anni sonobuone, quelle del piano riescono di pocosole, quelle del monte acerbe". La tradizionedei vini di pregio che oggi si producono nel-l'area di Custoza, dei Lessini, della spondaveronese del Garda, è dunque legata alle for-tune e all'iniziativa dei singoli proprietarifondiari che con l'avvento della ferrovia e dimezzi rapidi di trasporto colsero l'occasioneper migliorare la produzione del vino, offren-dolo ai mercati che ne erano privi.

2. IL PIEMONTE

Per quanto concerne il Piemonte, la situazio-ne è alquanto complessa, anche perchémanca una indagine sistematica di tipo stori-co-archeologico espressamente dedicata allaviticoltura e alla vinificazione. L'indagine inquesto caso si è concentrata principalmentesul tema del vino nell'Astigiano. Grazie a unaprima e sommaria ricognizione bibliograficaè stato possibile evidenziare come gli studidedicati alla vite e al vino astigiano sianonumerosi e si caratterizzino per eterogenei-tà di impostazione, di scientificità e origina-lità. La ricchezza dei materiali e il lorocarattere dislocato hanno indotto a procede-re ad un'analisi più approfondita e sistemati-ca del materiale bibliografico, al fine di con-siderare tanto la letteratura scientifica(studi monografici, saggi specialistici, analisiquantitative ecc.) quanto quella a caratterepiù divulgativo (articoli di stampa locale opubblicazioni promosse da enti o singoli pro-duttori). La sostanziale mancanza di studi diampio respiro e scientificamente fondati

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sullo sviluppo diacronico del vino astigianoha costituito il principale problema per laricerca - pur a fronte di una bibliografiacopiosa. In accordo con le linee programma-tiche del progetto specificamente dedicate aquesto settore, si è orientato il lavoroponendosi come obiettivo di ricostruire - inrapporto al tempo e alle risorse disponibili -sul piano storico e con criteri scientifici losviluppo vitivinicolo dell'Astigiano, indivi-duandone i punti di svolta e i nodi più signi-ficativi. Vista poi l'antichità della presenzadella vite in Piemonte in generale, la rileva-zione si è intrecciata con l'individuazionescrupolosa di tutte le possibili fonti (epigra-fiche, archivistiche, letterarie, museali, vir-tuali) utili a ripercorrere storicamente levicende enologiche in terra astigiana.

Senza dimenticare il più ampio contesto sub-alpino, cui sono stati dedicati ampi e detta-gliati studi, la raccolta dei materiali dedica-ti al caso astigiano ha evidenziato la presen-za sul territorio di una ricca messe di fonti,per lo più ospitate negli archivi - soventearchivi privati - e nei musei locali, che atten-dono ancora di essere sottoposte a un'analisistorica e culturale sistematica. Si tratta, inprospettiva, di un'impresa piuttosto impe-gnativa, di non facile né tanto meno rapidarealizzazione (considerate l'entità dei reper-ti documentari da studiare, la loro disloca-zione dispersa sul territorio, la frammenta-rietà delle notizie utili e l'estensione dell'ar-co cronologico), ma di cui si intravedonointeressanti e promettenti linee di ricerca.

La raccolta dei dati è avvenuta prendendo inconsiderazione la storia e la cultura vitivini-cola astigiane nel loro complesso e in rappor-to al più ampio panorama piemontese.All'interno di questo quadro generale e sullascorta di ricerche condotte - spesso conautentica passione - da studiosi locali, ci si èsoffermati sui vitigni storici, 'minori' rispettoalle varietà di 'lusso', ma ricorrenti nellefonti che datano dall'età medievale a quellamoderna fino all'epoca tardo settecentesca:Neirano grosso, Neirano Piccolo, Balsamina,Ghedone, Uvalino, sono solo alcuni deinumerosi esempi della varietà scomparse osopravvissute sotto altre denominazioni.

L'altro caso preso in considerazione è l'AstiSpumante e il Moscato d'Asti: l'indubbioapprezzamento e la notorietà di cui godono

tali vini non sono le uniche motivazioni dellascelta, nonostante i numeri - assai rilevanti -stiano a confermare l'entità del continuo suc-cesso, su scala internazionale e potenzial-mente globale (fatto, questo, che meritereb-be più ampi approfondimenti), di un prodot-to che ha nell'uva "moscato bianco" la propriabase. Ricostruire le vicende di una simile for-tuna, ricercandone le radici e le ragioni inchiave storica, comporta che si debbaaffrontare un percorso davvero di lungoperiodo, dagli aspetti economici, sociali,politici e culturali complessi e molteplici,che solo una più scrupolosa e critica conside-razione delle tracce documentarie sarebbein grado di restituire significativamente intutta la sua ricchezza.

Sono questioni e domande (per esempio,come e perché nel passato tanto i grandi lati-fondisti, nobili o borghesi, quanto i piccoliproprietari, contadini o affittuari, hannocompiuto certe scelte viticole e non altre,con quali modalità sono giunti a costituireuna zona di eccellenza enologica internazio-nalmente riconosciuta, quali elementi storicisono confluiti nelle immagini e nei simbolicomunemente associati a determinati vini?)che, sul filo dello scorrere dei secoli, rappre-sentano le premesse e i presupposti dellevicende che in tempi più recenti hanno vistoAsti e l'Astigiano caratterizzarsi come unasorta di laboratorio nazionale che ha avutonell'uva moscato una presenza unificante edè stato precursore nella direzione dell'asso-ciazionismo, del disciplinamento e dellatutela in campo vitivinicolo.

Da questo punto di vista altri territori e altrevarietà, adeguatamente individuate, possonoagevolmente diventare oggetto delle indagi-ni sopra indicate.

Il risultato finale cui è giunta la ricerca èrappresentato dallo studio monografico,redatto da Irene Gaddo, “Storia e culturadella vite e del vino nell'astigiano.Repertorio di fonti e strumenti di studio”.Questo testo costituisce una sintetica eintroduttiva guida storica al vino astigiano,scientificamente fondata, che offre unapanoramica dello sviluppo storico della viti-vinicoltura nell'area astigiana dalle sue origi-ni, passando per il decisivo sviluppo tecnolo-gico ed economico-commerciale del XVII eXVIII secolo, e approda ai giorni nostri, insie-

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me all'individuazione di alcuni dei principalivitigni storici dell'area considerata. Così con-figurato, il risultato della ricerca non haattualmente equivalenti nella bibliografiaesistente. Tale guida storica si compone delleseguenti parti principali: - un repertorio di fonti secondarie attra-

verso il censimento dei materiali biblio-grafici sul tema generale di storia delvino in Piemonte e su quello specificodella "Storia e cultura della vite e delvino nell'Astigiano" secondo nuclei tema-tici e scansioni temporali;

- un fascicolo ragionato della documenta-zione attraverso la schedatura dellediverse tipologie di fonti primarie inedite(storico-letterarie, epigrafiche, iconogra-fiche) suddivise cronologicamente;

- una proposta di case-study: all'internodelle molteplici piste che la documenta-zione apre all'indagine storica, si è sceltodi proporre all'attenzione i casi dei vitignistorici dell'area astigiana e in particolaredi un vino e di un vitigno che si sonoimposti con notevole successo sul merca-to nazionale e, ancor più, internazionale,e al cui nome, nelle diverse declinazionidi "Asti Spumante" e di "Moscato d'Asti", ilterritorio è fortemente legato;

- l'individuazione dei centri di ricerca e dialta formazione di scienze viticole edenologiche e delle strutture museali pre-senti sul territorio, con segnalazione didocenti e ricercatori che si sono occupatio si occupano dei problemi legati alla sto-ria e alla produzione del vino artigiano;

- un repertorio ragionato di fonti virtuali esiti internet attraverso l'analisi delle prin-cipali risorse telematiche che ha permes-so di individuare una molteplicità di pagi-ne dedicate o correlate al tema del vinoin senso lato. All'interno della notevolevarietà di documenti, si sono prese inconsiderazione le risorse legate specifi-camente al territorio astigiano, suddivi-dendo i risultati, schematicamente, inportali istituzionali (per esempio quellidella Provincia e del Comune), siti ama-toriali (pagine create e gestite da appas-sionati di storia e tradizioni locali), siticommerciali (dedicati esclusivamenteall'e-commerce), siti aziendali (siti uffi-ciali delle singole imprese vitivinicole),siti specialistici (pagine di Associazioni,Consorzi, Cantine sociali, Botteghe delvino, che raggruppano diverse realtà con

fini promozionali e di servizio agli iscrit-ti);

- una mappatura di enti attivi sul territo-rio, che comprende: consorzi di tutela,associazioni di produttori, cantine socia-li, botteghe del vino ed enoteche.

Nello svolgere la ricerca si sono incontratealcune difficoltà di ordine bibliografico-documentario e di natura pratico-logistica.

Riguardo al primo aspetto, oltre a quantoaccennato più sopra, è necessario precisareche, a fronte della notevole massa di pubbli-cazioni riguardanti il vino in Piemonte enell'Astigiano, praticamente inesistenti sonogli studi che offrano una visione complessiva,scientificamente seria, in merito allo svilup-po storico della vitivinicoltura astigiana. Labibliografia esistente, con rarissime eccezio-ni [come quelle indicate nei sottoparagrafi alcap. 2 della monografia Storia e culturadella vite e del vino nell'astigiano], puòessere suddivisa secondo due grandi tipolo-gie. La prima riguarda studi di caratterelocale, spesso molto ricchi di informazionitanto su aspetti molto specifici della vitivini-coltura in aree circoscritte quanto su unospecifico vitigno in un periodo di tempomolto limitato e, ancora, in aree particolar-mente ristrette (un Comune, o una frazionedi Comune), ma sprovvisti di carattere scien-tifico. In tali casi informazioni spesso dinotevole interesse si mescolano a considera-zioni improvvisate sia dal punto di vista deiprocessi storici sia in rapporto all'affidabilitàdelle fonti o alla verificabilità dei dati a dis-posizione. La seconda tipologia attiene apubblicazioni di prevalente carattere divul-gativo, abitualmente con finalità commer-ciali, i cui intenti finiscono per determinare- pur con l'inserimento di informazioni e datidi una qualche utilità - la natura complessivae il taglio delle informazioni fornite, per dipiù fortemente finalizzate all'attualità delprodotto-vino.

Alle due sopra citate tipologie se ne puòaggiungere una terza, numericamente menoconsistente, che può essere individuata inpubblicazioni di taglio specificamente enolo-gico e di carattere tecnico-specialistico,ovviamente affidabili dal punto di vistascientifico ma - altrettanto naturalmente -sostanzialmente disinteressate ai problemitipici dell'indagine storica.

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Il limite forse, in assoluto, più significativo econdizionante della bibliografia disponibilepuò essere individuato nella generale man-canza di interesse (determinata dalle speci-fiche finalità delle pubblicazioni, come si èdetto) per lo sviluppo storico delle vicendevitivinicole, che determina un silenzio pres-soché totale sulle fonti e sulla documenta-zione storica accumulatasi nel tempo.L'effetto che ne risulta è dunque paradossa-le: l'antichità della vitivinicoltura inPiemonte e nell'Astigiano è abitualmenteassunta come un dato di fatto che contribui-sce a rafforzare il prestigio dei vini (e dun-que ne favorisce e supporta l'affermazionecommerciale) nell'area considerata, e tutta-via di tale antichità non si è in grado di indi-care né le fonti né i documenti o i protagoni-sti più significativi né di farne intravedere,secondo modalità verificabili e riscontrabili,gli sviluppi e le trasformazioni. L'antichitàdel vino astigiano diviene così un fattoastratto, ideale, che proietta i propri effettisul presente, ma che non è in grado di ren-dere conto, se non in modo sommario, delleproprie ragioni storiche, culturali ma anchetecnologiche.

Dal lavoro fin qui condotto emerge come laconoscenza delle vicende enologiche astigia-ne, che si snodano attraverso un lungo per-corso storico, certo non lineare né facilmen-te ricostruibile nei dettagli, è comunqueessenziale per comprendere le trasformazio-ni contemporanee e per sviluppare quellacoscienza critica necessaria per muoversicon scelte razionali e intelligenti verso unfuturo sostenibile. Seguirne lo sviluppo stori-co serve ad elaborare una visione lungimiran-te e non limitata al breve periodo: la cono-scenza del passato è importante non perpuro piacere erudito, ma per sviluppare laconsapevolezza dei processi e delle vicendeche sono sottesi a quelli che attualmenteconnotano il territorio nei suoi caratteritipizzanti, risultato di fenomeni storici com-plessi e articolati la cui considerazione èindispensabile per la programmazione, l'ela-borazione e l'attuazione di politiche ponde-rate e credibili rispetto alla natura del terri-torio stesso.

In questa prospettiva, l'individuazione dellefonti esistenti e degli strumenti disponibilicostituisce un passo essenziale per affronta-re uno studio storico delle dinamiche vitivini-

cole sul territorio. Un lavoro di questo gene-re si rende ancor più necessario per evitarel'autoreferenzialità localistica tipica dellericerche fino a oggi condotte: appare infattiimportante collocare il caso astigiano nel piùampio contesto della storia della regione, eciò proprio per valorizzarne le peculiarità especificità attraverso confronti con altrerealtà analoghe e inerenti lo stesso contesto.In questo senso si comprende come una simi-le operazione possa comportare ricadutepositive sulla valorizzazione del prodotto"vino-territorio" in chiave turistica e di mar-keting: la conoscenza di vicende e specifici-tà storiche della vitivinicoltura astigiana (perla quale sarebbero necessarie indagini appro-fondite) consentirebbe di comprendere inmodo più ampio, complesso e articolato ilrapporto "vino-territorio" e di coinvolgeremaggiormente il mondo dei produttori, deglienti e delle istituzioni locali. A ciò si aggiun-gerebbero importanti ricadute in termini dimarketing, riguardanti una gamma di attivitàe di iniziative che vanno dalle finalità di sen-sibilizzazione e di formazione di "consumato-ri consapevoli" (interessati alla storia delprodotto e attenti alla sua provenienza) allacrescita e al rafforzamento del prestigiodelle aziende: attraverso la conoscenza sto-rica si possono innescare procedure di pro-mozione di un rapporto "vino-territorio" piùstretto e articolato, in cui dimensione cultu-rale e dimensione economica, produttiva ecommerciale, si integrano maggiormente,consentendo l'inserimento e/o potenziamen-to di elementi storico-culturali in tutti gliaspetti comunicativi e pubblicitari delleAziende stesse, dal marchio alle etichetteidentificative dei prodotti, dai messaggivideo e audio al materiale pubblicitario car-taceo, ecc..

3. LA TOSCANA

La situazione della Toscana, terza regionepresa in esame, riconduce alla prospettivastorico-archeologica.

3.1 DALLA CIRCOLAZIONE VARIETALE ALLOSTUDIO DEI VITIGNI AUTOCTONI

L'applicazione del metodo interdisciplinareha aperto nuove prospettive di ricerca altema della diffusione e circolazione varieta-le dei vitigni, individuando per alcuni di essiun'eredità che sembra in relazione con i pro-

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cessi della colonizzazione greca d'occidente.La caratterizzazione genetica, il confrontoad ampio raggio di alcuni vitigni nel bacinodel mediterraneo, la loro distribuzione inaree fortemente caratterizzate sotto il profi-lo coloniale degli inizi dell'VIII secolo a.C. haportato ad esempio ad individuare nell'iden-tità tra l'Ansonica/Inzolia (una cultivar diffu-sa nelle isole dell'Arcipelago toscano e nellecoste tirreniche, oltreché ben presente inSicilia) e i vitigni greci Roditis e Sideritis unpossibile esito di quel vasto processo cheportò alla fondazione delle colonie euboiched'occidente. I processi di formazione del paesaggio vitatoitaliano e di quello toscano in particolare,indagati all'interno di una matrice pluridisci-plinare, stanno sempre più evidenziandoradici storiche frutto di percorsi articolatinel tempo e nello spazio. L'idea non è nuova:già Benedetto Bonacelli aveva individuatonella colonizzazione focese la matrice stori-ca dell'origine di molte varietà di vitigni dif-fusi nelle aree nord-adriatiche, approdi bennoti alla mitografia attraverso le figure diDiomede e di Antenore. Diomede era nipotedi Oineo al quale Dioniso fece dono della vitee delle tecniche connesse alla coltivazione ealla produzione di vino. Quello stessoDiomede la cui figura è stata recentementeassimilata alle origini del Marzemino e al

commercio greco nell'Adriatico, che avrebbeavuto la sua testa di ponte in PelagosaGrande, l'isola sacra al guerriero troianodivenuto eroe del mare e "ambasciatore"della cultura greca. Il mito ha cristallizzato in eroi e rotte i pro-cessi storici di vettori e percorsi attraversocui sono state introdotte in Italia nuove cul-tivar: seguiti da fenomeni di differenziazionedei vitigni operata dalle comunità locali e disostituzione con varietà più caratterizzatesotto il profilo speculativo costituiscono nelloro insieme i modelli della circolazionevarietale antica. La matrice greca alla base dell'introduzionein area tirrenica di nuovi vitigni trova ele-menti di sostegno nella genetica della vite enella toponomastica: tra le località collocatein punti strategici per il passaggio delle rottecommerciali e contrassegnate da un nomeche richiama il vino si possono evidenziarel'isola di Egina (chiamata sia Oinone cheOinopia) e le due piccole isole Oinotriides, allargo di Palinuro e non lontane da Velia, lacittà fondata intorno al 535 a.C. da coloniprovenienti da Focea (Figura 4). Tuttavia al processo non è estranea la com-ponente fenicia, che la documentazionearcheologica testimonia come vitale e beninserita nelle rotte del Tirreno centrale apartire almeno dalla metà dell'VIII secolo

Figura 4. Alcune delle località contrassegnate da un nome che richiama un vino.

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a.C. (allo stesso periodo risalirebbero ivinaccioli di vite domestica recuperati nellapenisola iberica), ma preceduta da una rile-vante attività di circolazione di anfore vina-rie a partire già dai decenni finali del IXsecolo a.C. Le anfore da trasporto fenicie e le suppellet-tili per il simposio diventano usuali nelletombe aristocratiche del Lazio e dell'Etruriadalla fine dell'VIII secolo a.C. e rendono benpercepibili i modelli ideologici del simposiogreco e del lusso delle corti dinastiche orien-tali che, mediati anche per il tramite delmondo fenicio, definiscono la valenza piùsociale che nutritiva dell'assunzione di vinonella cultura aristocratica del tempo. In que-sto quadro di riferimento culturale si inseri-sce anche la circolazione di nuovi vitigni eun'agricoltura speculativa di tipo intensivoappannaggio del ceto aristocratico, prece-dente l'intenso smercio di vino proprio del"paesaggio organizzato" etrusco del VI secoloa.C. La prospettiva multidisciplinare, affinata datecnologie e metodi avanzati, permette oggidi ripercorrere a ritroso quella stratificazio-ne storica di lungo periodo che ha prodotto,soprattutto nell'Italia medio-tirrenica, il pae-saggio vitato giunto praticamente intattofino all'epidemia di fillossera della secondametà del XIX secolo. Ne abbiamo una più concreta percezionedopo le ricerche sviluppate nell'ambito delProgetto VINUM che ha dimostrato come lepopolazioni di vite silvestre campionate inaree naturali mostrino, nell'albero di simila-rità genetica, divergenze significative conquelle raccolte in contiguità coi siti archeo-logici, inducendo a pensare ad un apportoumano nei processi di selezione. Nell'ambitodel progetto ArcheoVino, sviluppato nel ter-ritorio di Scansano (GR), area di elezionedella DOCG del Morellino, è emersa l'analo-gia delle viti silvestri locali con vitigni attual-mente coltivati (Sangiovese e Canaiolo nero)e la possibilità che possa trattarsi di un casodi domesticazione locale. Il Sangiovese èconsiderato autoctono dell'area culturaleetrusca e oggi il più celebre e diffuso vitignodella Toscana, regione in cui è ricordato dafonti ampelografiche a partire dalla fine delXVI secolo. Uno studio effettuato sui marca-tori microsatelliti del Sangiovese ha rivelatotratti di similarità genetica con il Ciliegiolo econ un vitigno denominato Calabrese diMontenuovo, la cui origine è da ricercare

invece in Calabria, una regione in rapportomitico con il vitigno evidenziato nel nomedel suo antico ethnos, gli Enotri e dalla stes-sa monetazione dei Serdaioi, fortementeautorappresentativa attraverso la raffigura-zione monetale di Dioniso e del grappolod'uva. Il processo di "stratificazione colturale" si ali-menta proprio dal confronto tra i vitigniautoctoni e la vite silvestre e non mancanoulteriori recenti acquisizioni di altri vitignitoscani che è opportuno segnalare: partico-larmente interessante risulta la parentelagenetica riscontrata tra il Bonamico, un viti-gno di origine incerta e antica, coltivatosulle colline pisane con qualche esemplareanche nel Chianti fiorentino e alcune viti sil-vestri campionate nei pressi di antichi appro-di etruschi sul Lago Prile, nella pianura gros-setana. Un simile rapporto non appare casua-le e se da una parte può indiziare alla basedel processo di arricchimento e ibridazionela veicolazione dei vitigni attraverso trafficitransmarini con il mondo greco, magno-grecoe fenicio, dall'altra amplia le conferme all'i-potesi che viti silvestri e vitigni coltivati pos-sano essere l'esito di due diverse fasi crono-logiche nel processo di domesticazione loca-le della vite in Etruria. I tre esempi individuati tornano utili per pro-porre altrettanti possibili modelli sulle origi-ni varietali storicamente definite del paesag-gio vitato nell'Italia medio-tirrenica, schema-ticamente ricomposti nella Figura 5.L'Ansonica/Inzolia (in giallo) costituisce iltratto "importato", poi radicatosi in Sicilia,lungo la costa tirrenica e nelle isoledell'Arcipelago toscano.Il Sangiovese/Calabrese di Montenuovo /Ciliegiolo (in celeste) potrebbe invece costi-tuire un tratto della circolazione varietale"interna", sviluppatosi attraverso forme diibridazione tra la Calabria e l'Italia centro-settentrionale, mentre il Bonamico (in rosso)verrebbe a costituire un tratto "autoctono",nato per selezione locale.

3.2 IL PROGETTO SENARUM VINEACome già detto il processo di "stratificazionecolturale" del paesaggio agrario si alimentaattraverso i confronti che la genetica e l'am-pelografia consentono di istituire tra viti sil-vestri e vitigni autoctoni. Proprio su questiultimi si è concentrata la ricerca negli ultimidue anni. La città, piuttosto che gli ampi spazi rurali, è

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diventata oggetto dell'indagine. Siena sidistingue per un profilo urbano caratterizza-to ancora da aree verdi, interne ed esternealle mura, dove sopravvivono ancora vitigni"obsoleti" coltivati per piccole produzionidestinate all'autoconsumo. Le scopertearcheologiche compiute nel corso di scaviurbani, che hanno caratterizzato l'ultimoventennio, hanno ulteriormente confermatol'uso del vino fin dai decenni finali del VIIsecolo a.C.: è infatti il periodo in cui si col-loca, sulle pendici del colle che ospita ilDuomo e l'Ospedale del Santa Maria dellaScala, la costruzione di un edificio apparte-nuto ad un "capoclan" della comunità etruscalì insediata. Le ceramiche da vino recupera-te si accompagnano a quelle conservate nellocale Museo Archeologico, frutto di scoper-te occasionali che hanno caratterizzato findalla seconda metà dell'Ottocento il territo-rio urbano. La contestuale scarsità di rinve-nimenti di anfore da trasporto sembra rivela-re la produzione di vino in loco e la prossimi-tà di coltivazioni di vite al sito abitato findalla cosiddetta fase del "paesaggio organiz-zato" (fine del VII secolo a.C.), periodo che inEtruria coincise con la selezione e il miglio-ramento genetico delle varietà più produtti-ve e con il progressivo abbandono della tec-nica delle "lambruscaie" autoctone e sponta-

nee. Recenti indagini di archeologia urbana,hanno messo in luce la possibile persistenzadi spazi verdi giunti praticamente intatti dal-l'antichità fino ai nostri giorni, permettendodi recuperare alcuni elementi della stratifi-cazione storica più antica, sui quali si è poifondata la successiva trama medievale emoderna della città. Insieme alle fonti icono-grafiche e d'archivio, tali dati costituisconola base informativa e documentaria sullaquale è stata messa a punto la metodologiad'indagine del Progetto Senarum Vinea. Alla preliminare selezione e mappatura dellearee urbane e suburbane da indagare, realiz-zata attraverso il controllo di fonti documen-tarie d'archivio, iconografiche e fotografi-che, hanno fatto seguito le ricognizioni sulcampo durante le stagioni vegetative 2009-2010. Nei due anni di ricerca è stato possibi-le identificare e classificare un nutrito nume-ro di vitigni su di una superficie totale dicirca un ettaro e mezzo. La descrizione delle caratteristiche morfolo-giche, annotate su apposite schede, è statafondamentale per la scelta dei campioni daindirizzare alle successive analisi biologico-molecolari per la mappatura del patrimoniogenetico. Sono stati analizzati complessiva-mente 41 individui, oltre ad un panel di 23vitigni il cui profilo ampelografico e genotipi-

Figura 5. Schema di possibili modelli sulle origini varietali storicamente definite del paesaggio vitatonell’Italia Medio-Tirrenica.

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co è stato utilizzato come standard di riferi-mento per l'identificazione delle piantereperite.La scelta dei vitigni di riferimento è statabasata su un criterio di possibile omologiacon i vitigni nel corso della caratterizzazioneampelografica preliminare. Sulla base del confronto con alcune varietàminori e locali recuperate presso il Vitiariumdell'Azienda San Felice, è stato realizzato undendrogramma di similarità genetica. I datiottenuti attraverso l'incrocio tra la piattafor-ma ampelografica e quella genetica, di gran-de pregio in considerazione della limitatezzadell'area indagata, hanno consentito l'indivi-duazione di 20 vitigni. Le 10 varietà minoriidentificate con un grado di affidabilità ele-vato sono iscritte come rare e ad alto rischiodi estinzione nella banca dati delGermoplasma Autoctono Toscano: tra essefigurano il Gorgottesco, il Tenerone, laSalamanna, l' Occhio di Pernice, il PrugnoloGentile, il Procanico, il Sangiovese piccoloprecoce. Una decina di campioni non hanno,invece, restituito, allo stato attuale, signifi-cative omologie con i vitigni inseriti per ilconfronto genetico. Il dato, di rilevante inte-resse in sé, si amplifica in considerazionedello straordinario grado di conservazionedella biodiversità in un'areale prevalente-mente urbano. Se da una parte i risultati finora raggiuntisono oltremodo incoraggianti per la prosecu-zione del progetto, nondimeno sembra utilesegnalare in questa sede alcune riflessioni anostro parere significative sotto il profilometodologico. Nell'insieme i risultati stanno pienamentedimostrando la validità applicativa di unapproccio di studio multidisciplinare al temadel monitoraggio del germoplasma viticoloautoctono negli spazi urbani e suburbani.L'analisi preliminare di carattere storico delterritorio ha permesso di focalizzare l'atten-

zione su "microzone" topografiche che hannomantenuto nel tempo un significativo valorein termini di variabilità genetica. Questo sitraduce anche in un notevole risparmio intermini di risorse e nell'ottimizzazione deitempi della ricerca, scanditi dalla stagionali-tà della fioritura delle piante. Siamo così riusciti, in tempi relativamentebrevi, ad ottenere un quadro efficace, anchese ancora parziale, della variabilità geneticapresente nelle popolazioni viticole autoctoneresiduali ancora esistenti a Siena, consenten-do al tempo stesso di calibrare il metodo dianalisi della variabilità genotipica e di affi-nare la metodologia utile allo studio dellabiodiversità delle popolazioni naturali. In maggiore dettaglio, la modulazione insenso numerico della popolazione, progressi-vamente implementata sulla base degli svi-luppi dello studio, ha un range di variabilitàgenetica, restituito in forma grafica attra-verso la generazione di un dendrogramma,mutabile al variare della popolazione.Sebbene ciò sia in parte atteso, in quanto ilsistema consente di fare un'analisi dellavariabilità relativa, è interessante registrarel'esistenza di valori soglia di variabilità osser-vata, al di sopra dei quali non si ottiene unriarrangiamento dei clusters nell'ambito deldendrogramma, pur cambiando la natura e ilnumero degli individui nella popolazione.Tale valore, stimabile nelle nostre condizionidi rilevamento del genotipo intorno al 70-75%, stabilisce numericamente un criteriochiave di lettura dei dati di variabilità gene-tica, peraltro confermato dalle osservazionidi natura ampelometrica.

A cura di: Andrea Ciacci (Dip. di Archeologiae Storia delle Arti, Università degli Studi diSiena), Myriam Giannace (Ass. NazionaleCittà del Vino), Rita Vignani (Sèrge - Societàdi Servizi Genetici), Valerio Zorzi (StudioTecnico Associato Gambassi & Zorzi).

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