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Spigolature da Giorgio Bassani. Il giardino dei Finzi-Contini · Il giardino dei Finzi-Contini Abbiamo voluto leggere e riscrivere il Giardino dei Finzi Contini, aggiungendo di seguito

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Page 1: Spigolature da Giorgio Bassani. Il giardino dei Finzi-Contini · Il giardino dei Finzi-Contini Abbiamo voluto leggere e riscrivere il Giardino dei Finzi Contini, aggiungendo di seguito

Atlante digitale del '900 letterario

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Spigolature da Giorgio Bassani.

Il giardino dei Finzi-Contini

Abbiamo voluto leggere e riscrivere il

Giardino dei Finzi Contini, aggiungendo di

seguito al primo brano selezionato quello che

ritenevamo per noi più interessante. Ne è

nato questo collage di scrittura.

Ma già, ancora una volta, nella quiete e nel

torpore (anche Giannina si era

addormentata), io riandavo con la memoria

agli anni della mia prima giovinezza, e a

Ferrara, e al cimitero ebraico posto in fondo

a via Montebello. Rivedevo i grandi prati

sparsi di alberi, le lapidi e i cippi raccolti più

fittamente lungo i muri di cinta e di divisione,

e, come se l’avessi addirittura davanti agli

occhi, la tomba monumentale dei Finzi-

Contini.

(p. 13 Valerio Margiotta)

Senonché, pur così segregati, un esile

rapporto con l'ambiente esterno, coi ragazzi

che come noi andavano alle scuole pubbliche,

Alberto e Micòl Finzi-Contini l'avevano

sempre mantenuto.

(p. 18 Prisca Proietti)

Per quanto concerne me personalmente, nei

miei rapporti con Alberto e Micòl c’era stato

sempre qualcosa di più intimo. Le occhiate

d’intesa, i cenni confidenziali che fratello e

sorella mi indirizzavano ogni qualvolta ci

incontravamo nei pressi del Guarini, non

alludevano che a questo, lo sapevo bene,

riguardante noi e soltanto noi.

(p. 28 Eleonora Bonincontro)

E tuttavia, pur così diversi come erano, io li

sentivo fra loro profondamente solidali. Che

cosa c'era di comune parevano dirsi tutti e

quattro fra loro e la platea distratta,

bisbigliante, italiana, che anche al Tempio,

dinnanzi all'Arca spalancata del Signore,

continuava a occuparsi di tutte le meschinità

della vita associata, di affari, di politica,

perfino di sport, ma non mai dell'anima e di

Dio? Io ero un ragazzetto, allora: fra i dieci e

i dodici anni. Un'intuizione confusa, certo, ma

sostanzialmente esatta, si accompagnava in

me al dispetto e all'umiliazione, altrettanto

confusi però cocenti, di far parte della platea,

della gente volgare da tenere alla larga. E

mio padre? Di fronte alla parete di vetro di là

dalla quale i Finzi-Contini e gli Herrera, gentili

sempre ma distanti, continuavo in fondo a

ignorarlo, si comportava in maniera opposta

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alla mia. Invece di tentare degli approcci, lo

vedevo esagerare per reazione lui laureato in

medicina e libero pensatore, lui volontario di

guerra, lui fascista con tessera del '19, lui

appassionato di sport, lui ebreo moderno,

insomma la propria sana insofferenza davanti

a qualsiasi troppo pedissequa o smaccata

esibizione di fede.

(p. 31 Enrica Vacca)

Guardai da dietro una siepe di spalle

ostinatamente voltate. La vista mi si

annebbiò. Guardai di nuovo: e il cinque

rosso, unico numero in inchiostro rosso di

una filza di numeri in inchiostro nero, mi si

impresse nell’anima con la violenza e col

bruciore di un marchio infuocato. [...] Col

volto rigato di lacrime, col cuore traboccante

di una immensa pietà per me stesso,

pedalavo senza quasi sapere dove mi trovassi

e meditando confusi progetti suicidi.

(pp. 35--36 Elena Picardi)

«Pss.» Mi svegliai di soprassalto. «Pss!»

Alzai lentamente il capo, girandolo a sinistra,

dalla parte del sole. Sbattei le palpebre. Chi

mi chiamava? [...] Per via dei capelli biondi,

di quel biondo particolare striato di ciocche

nordiche, da fille aux cheveux de lin, che non

apparteneva che a lei, riconobbi subito Micòl

Finzi-Contini.

(pp. 37--38 Elena Cardarelli)

Quanti anni sono passati da quel remoto

pomeriggio di giugno? Piú di trenta. Eppure,

se chiudo gli occhi, Micòl Finzi-Contini sta

ancora là, affacciata al muro di cinta del suo

giardino, che mi guarda e mi parla. Nel 1929

Micòl era poco più che una bambina, una

tredicenne magra e bionda con grandi occhi

chiari, magnetici; io un ragazzetto in calzoni

corti, molto borghese e molto vanitoso, che

un piccolo inconveniente scolastico bastava a

gettare nella disperazione più infantile. [...]

Entrambi ci fissavamo. Al di sopra della sua

testa il cielo era azzurro e compatto, un caldo

cielo già estivo senza la minima nube.

(p. 40 Eva Marchese)

Forse avrei trovato il coraggio di darle un

bacio, a Micòl: un bacio sulle labbra. Ma poi?

Che cosa sarebbe accaduto, poi? Nei film che

avevo visto, e nei romanzi, i baci avevano

voglia a essere lunghi e appassionati! In

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realtà, a confronto del resto, i baci non

rappresentavano che un attimo in fondo

trascurabile, se dopo che le labbra si erano

congiunte, e le bocche quasi compenetrate

una dentro l'altra, il filo del racconto non

poteva il più delle volte essere ripreso prima

del mattino successivo, o addirittura prima

che fossero trascorsi vari giorni. Se io e Micòl

fossimo arrivati a baciarci in quella maniera -

e l'oscurità avrebbe certo favorito la cosa -,

dopo il bacio il tempo sarebbe continuato a

scorrere tranquillo, senza che nessun

intervento estraneo e provvidenziale potesse

aiutarci a raggiungere la mattina seguente.

Che cosa avrei dovuto fare, in tal caso, per

riempire i minuti e le ore? Oh, ma questo non

era accaduto, fortunatamente. Meno male

che mi ero salvato.

(p. 45 Silvia Fedele)

Quanto a me, visto che gli altri si davano

pace, me la sarei data anch'io. Potevo

contare su Micòl, fuori: ci avrebbe pensato lei

a rifornirmi di cibo e di tutto quanto avessi

bisogno. E sarebbe venuta da me ogni

giorno, scavalcando il muro di cinta del suo

giardino, d'estate come d'inverno. E ogni

giorno ci saremmo baciati al buio: perché io

ero il suo uomo, e lei la mia donna.

(p. 46 Carolina La Rosa)

Mi scrutava coi suoi occhi azzurri, smarriti,

che da molto tempo avevano perduto la

speranza di impormi qualcosa, di riuscire a

indovinare quello che mi passasse per la

testa. Lo sapeva bene - mi diceva con gli

occhi -, che le sue domande mi infastidivano,

che la sua continua pretesa di ingerirsi nella

mia vita era indiscreta, ingiustificata. Ma

santo Dio, non era mio padre? E non vedevo

come fosse invecchiato, in quell'ultimo anno?

Con la mamma e con Fanny non era il caso

che si confidasse: erano donne. Con Ernesto

nemmeno: troppo putìn. Con chi doveva

parlare allora? Possibile che non capissi che

era proprio di me che lui aveva bisogno?

(p. 51 Emma Argentieri)

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Era un martedì. Non saprei dire come mai di

lì a pochi giorni, il sabato di quella stessa

settimana, mi risolvessi a fare proprio il

contrario di ciò che mio padre desiderava.

Escluderei che c'entrasse il solito meccanismo

di contraddizione e disubbidienza tipico dei

figli. A invogliarmi, d'un tratto, a tirar fuori la

racchetta e vestiti da tennis che riposavano

in un cassetto da più di un anno, forse non

era stata che la giornata luminosa, l'aria

leggera e carezzevole di un primo pomeriggio

autunnale straordinariamente soleggiato.

(p. 55 Ludovica Angelini)

Nel giardino faceva caldo, appena meno che

se si fosse d'estate. Chi ne aveva voglia

poteva tirare avanti col tennis fino alle cinque

e mezzo e oltre, senza timore che l'umidità

della sera, verso novembre già così forte,

danneggiasse le corde delle racchette. A

quell'ora, naturalmente, sul campo non ci si

vedeva quasi più. Però la luce che continuava

a dorare laggiù infondo i declivi erbosi della

Mura degli Angeli, pieni, specie la domenica,

di una quiete folla multicolore (ragazzi che

correvano dietro al pallone, balie sedute a

sferruzzare accanto alle carrozzine, militari in

libera uscita, coppie di innamorati alla ricerca

di posti dove abbracciarsi), quell'ultima luce

invitava a insistere in palleggi non importa se

ormai pressoché ciechi. Il giorno non era

finito, valeva la pena di giocare ancora un

poco.

(p. 65 Elena Carloni)

Oggi, è vero - aveva ammesso -, noi ci

saremmo limitati a “sopraluogare” soltanto là

in fondo, dalla parte del tramonto, dove lei e

Alberto da ragazzi, andavano spessissimo a

guardare i treni che facevamo manovra in

stazione.

(p. 80 Greta Valletta)

«Guarda invece là il sandolino, e ammira, ti

prego, con quanta onestà, dignità, e coraggio

morale, lui ha saputo trarre dalla propria

assoluta perdita di funzione tutte le

conseguenze che doveva. Anche le cose

muoiono, caro mio. E dunque, se anche loro

devono morire, tant’è meglio lasciarle

andare. C’è molto più stile, oltre tutto, ti

sembra?»

(p. 89 Yasmina Bajaj)

Passai la notte successiva in grande

agitazione. Mi addormentavo, mi svegliavo,

mi riaddormentavo. E sempre riprendevo a

sognare di lei. Sognavo per esempio di

trovarmi, proprio come il primissimo giorno

che avevo messo piede nel giardino, a

guardarla mentre giocava a tennis con

Alberto. Anche in sogno non l’abbandonavo

con gli occhi un solo istante. Tornavo a dirmi

che era splendida, così sudata e rossa, con

quella ruga di impegno e di decisione quasi

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feroce che le divideva verticalmente la fronte,

tutta tesa come era nello sforzo di

sconfiggere il sorridente, un po’ fiacco e

annoiato fratello maggiore. Ora, però, mi

sentivo opprimere da un disagio, da una

amarezza, da un dolore quasi insopportabili.

(p. 100 Giada Carpita)

A lungo, coi bulbi degli occhi doloranti nei

cavi delle orbite, ero restato a fissare il

piccolo lume della finestrella superiore -un

quieto tremulo bagliore sospeso nell'aria via

via più scura come quello d'una stella-; e

soltanto i lontani fischi e le grida tirolesi di

Alberto suscitando, in me, insieme col timore

d'essere stato riconosciuto, l'ansia di riudire

subito, al telefono, la voce di Micòl, avevano

potuto a un certo punto scacciarmi di là...

(p. 105 Charlotte Bouffetteau)

Più che il generico “a presto” che avevo

scambiato con Alberto accommiatandomi da

lui, fu una lettera di Micòl, arrivata qualche

giorno dopo, a persuadermi a ritornare.

Si trattava di una letterina spiritosa, né

troppo lunga né troppo corta, scritta sulle

quattro facciate di due fogli di carta azzurra

che una calligrafia impetuosa e insieme

leggera aveva riempito rapidamente, senza

incertezze né correzioni.

(p. 115 Federica Mazzolani)

Mi alzavo, mi accostavo alla finestra,

guardavo giù, nel parco. Sepolto sotto una

coltre di neve alza mezzo metro, tutto

bianco, il Barchetto del Duca appariva

trasformato in un paesaggio da saga nordica.

A volte mi sorprendevo a sperare appunto

questo: che neve e gelo non si sciogliessero

più, che durassero eterni.

(p. 130 Francesca Rinaldi)

Mi guardava con occhi ardenti, brillanti: come

se da me, dal mio futuro di letterato, di

studioso, si aspettasse chissà che cosa, come

se contasse su di me per qualche suo

disegno segreto che trascendeva non

solamente lui ma anche me stesso...

(p. 132 Emanuela Sanna)

Splendida notte di luna, gelida, limpidissima.

Per le vie non passava nessuno o quasi, e

corso Giovecca e corso Ercole I d’Este, lisci,

sgombri e d’un biancore quasi salino, mi si

aprivano dinanzi come due grandi piste.

Pedalavo al centro della strada, in piena luce,

con le orecchie indolenzite dal gelo; ma a

cena avevo bevuto parecchi bicchieri di vino,

e il freddo non lo sentivo, anzi sudavo. La

gomma della ruota anteriore frusciava

appena nella neve indurita, e l’asciutto

polverio che sollevava mi riempiva d’un senso

di gioia spericolata, come se stessi sciando.

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(p. 139 Karima Khan)

La volta seguente che mi riuscì di parlarle,

non meno di una dozzina di giorni più tardi,

mi disse che era malata, con addosso un

gran raffreddore e qualche linea di febbre.

Che noia! Perché non andavo mai a trovarla?

L'avevo proprio dimenticata.

«Sei... sei a letto?» balbettai sconcertato,

sentendomi vittima di una ingiustizia enorme.

«Sicuro che ci sono, e per giunta sotto le

lenzuola. Confessa: ti rifiuti di venire per

paura dell'influenza.» «No, no, Micòl» risposi

amaramente. «Non farmi più fifone di quello

che sono. Mi meravigliava soltanto che tu mi

accusassi di averti dimenticata, quando

invece... Non so se ti ricordi» seguitai, con la

voce che mi si velava, «ma prima che tu

partissi per Venezia telefonarti era

facilissimo, mentre adesso, devi ammetterlo,

è diventata una specie d'impresa. Lo sai che

sono venuto diverse volte a casa tua, in

questi giorni? Te l'hanno detto?» «Sì.» «E

allora! Se volevi vedermi, sapevi benissimo

dove trovarmi: la mattina nella sala del

biliardo, e il pomeriggio giù da tuo fratello.

La verità è che non ne avevi nessuna voglia.»

(p. 151 Matteo Bartolo)

Un pudore feroce, un violento, e irrazionale

bisogno di libertà e di indipendenza mi

avevano sempre spinto a bloccare sul

nascere tutti i suoi timidi tentativi di

affrontare questi argomenti. Ma quella notte,

no.

(pp. 200-201 Nicole Lori)

Fu così che rinunciai a Micol. La sera

dell'indomani, tenendo fede alla promessa

fatta a mio padre, mi astenni ad andare da

Malnate, e il giorno successivo, che era un

venerdì, non mi presentai a casa Finzi-

Contini.

(p. 206 Arianna Napolitano)

Ero lucido, sereno, tranquillo. Tutti i conti

tornavano. Come in un gioco di pazienza ogni

pezzo si incastrava al millimetro.

(p. 211 Elena Potitò)

Lo riconobbi subito: era il suono della vecchia

cara voce dell’orologio di piazza, che stava

battendo le ore e i quarti. Che cosa diceva?

Diceva che ancora una volta avevo fatto

molto tardi, che era sciocco e cattivo da

parte mia continuare a torturare così mio

padre, anche quella notte, in pensiero perché

non rincasavo, non riusciva probabilmente a

prendere sonno, e che infine era tempo che

mettessi l’animo in pace. Sul serio. Per

sempre.

(pp. 211-212 Elisa De Ioanna)

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«Che bel romanzo,» sogghignai, crollando il

capo come davanti a un bambino

incorregibile. E date le spalle alla Hütte, mi

allontanai fra le piante dalla parte opposta.

(p. 212 Valentina Accogli)

Anche in una città così piccola come Ferrara

si riesce benissimo, volendo, a sparire per

anni e anni gli uni agli altri, a convivere

assieme come dei morti.

(pp. 213-214 Federico Cupello)

Certo è che quasi presaga della prossima

fine, sua e di tutti i suoi, Micòl ripeteva di

continuo anche a Malnate che a lei

del suo futuro democratico e sociale non

gliene importava un fico, che il futuro in sé,

lei lo abborriva, ad esso preferendo di gran

lunga «le vierge, le vivace et le bel

aujourd’hui», e il passato, ancora di più, «il

caro, il dolce, il pio passato».

(p. 214 Elena Mussini)

Contributo

II G (L.C. Virgilio, Roma)

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