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SE88_SCOMODE VERITA

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Karen Young

Scomode verità

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«Ecco, così... brava» approvò Kate Madison. La giovane assistente stava in-tubando un paziente, ma le sue mani tremavano per l'emozione. «Sostie-nigli il mento con la mano sinistra... ecco, adesso sollevalo delicatamente. Vedi? È inserito.» «Ehi, ci sono riuscita!» esclamò la ragazza. «E adesso che facciamo?» «Dimmelo tu, Betsy.» Il paziente, un ragazzo che aveva sfondato con la testa il parabrezza della sua macchina, era arrivato al Pronto Soccorso dieci minuti prima e non aveva ancora ripreso conoscenza. «Bisogna fargli una TAC... ma prima dobbiamo stabilizzare le sue fun-zioni, giusto?» chiese Betsy. «Giusto.» Kate fece segno a un altro assistente. «Felix, adesso puoi prendere il mio posto.» Dopodiché si sfilò i guanti di lattice, li gettò in un cestino e si avviò stancamente verso il salottino riservato ai medici. Le sere del venerdì erano sempre frenetiche in qualsiasi Pronto Soccor-so, e quello del St. Luke non faceva eccezione. C'erano stati due feriti da arma da fuoco, un bambino di quattro anni azzannato dal cane dei vicini, una donna in coma diabetico, due drogati in overdose da eroina, una pro-stituta picchiata a sangue da un cliente violento, tre studenti ubriachi che un compagno aveva trovato svenuti nella loro stanza. E stava arrivando in elicottero la vittima di un incidente stradale: fratture composte a entrambe le gambe, trauma cranico, schiacciamento della laringe. L'arrivo dell'elicottero era stimato di lì a sei minuti, perciò forse Kate aveva il tempo per una sosta in bagno e una tazza di caffè. Bevve un sorso bollente e aprì un pacchetto di biscotti, non perché fos-se particolarmente affamata, ma perché sapeva che lo stomaco si sarebbe ribellato a quell'iniezione di caffeina sul nulla. Mangiò un paio di biscotti, poi gettò il resto nel cestino, ripromettendosi di farsi un'insalata o qualco-sa di sano non appena fosse arrivata a casa, chissà quando.

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Forse le restava il tempo di fare una telefonata a casa e ascoltare i mes-saggi in segreteria. Il suo avvocato, Maureen Reynolds, cercava da giorni di mettersi in contatto con quello di Robert. Kate aveva divorziato da sei me-si e non aveva ancora visto l'ombra della somma che le spettava dalla vendita della loro casa. E poi voleva sapere se sua madre le aveva telefona-to, visto che lei aveva provato ripetutamente a chiamarla senza successo. Victoria si rifiutava di installare una segreteria telefonica, cosa che Kate non riusciva a capire. Ma, d'altronde, erano molte le cose di sua madre che non riusciva a capire. Mentre lasciava il salottino, udì il proprio nome scandito dall'altoparlan-te. Dottoressa Madison, codice uno. Dottoressa Madison, codice uno... Diavolo. Che altro c'era? Kate si massaggiò stancamente le tempie e si avvicinò alla reception, dove la centralinista smistava le chiamate su una consolle che sembrava quella di un aereo supersonico. Con la sua pelle di magnolia e i capelli corvini, Ricky Hall sembrava assai più adatta a presen-tare cosmetici in una profumeria di lusso, eppure gestiva i medici e le de-stinazioni del Pronto Soccorso con incredibile efficienza. «Mi dispiace, dottoressa Madison, so che non ha avuto un momento di pace per tutta la sera...» si scusò la ragazza. «Non è colpa tua, Ricky, che succede?» «Lite domestica. Una moglie picchiata dal marito, contusioni multiple, emorragia dal naso, una spalla slogata. La solita routine.» Già, la solita routine. Kate sospirò. «Jake è salito sul tetto a ricevere l'e-licottero, vero?» Ricky fece un cenno di assenso. «Bene, io mi prendo la moglie picchia-ta, ma tu vedi di mandare Eric ad assistere Jake. Il trauma cranico potrebbe essere molto grave.» «D'accordo.» Kate fece una rapida capatina in bagno, e quando ne uscì si guardò per un istante allo specchio mentre si lavava le mani. Nonostante gli anni di pratica, non si era mai corazzata contro gli orrori che vedeva quotidiana-mente, e in particolare la sconvolgeva pensare che una donna potesse es-sere picchiata da qualcuno che avrebbe dovuto amarla e proteggerla. «Kelly Mareno è libera, se ha bisogno di un'infermiera» disse Ricky quando lei uscì in corridoio. «Bene. È arrivato il paziente dell'elicottero?» La ragazza accennò a uno degli ambulatori, affollato di medici e infer-miere che si occupavano di un uomo sanguinante. «Sì. Il dottor Grissom è già al lavoro.»

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Kate si fermò per un momento a osservare Jake Grissom, che esaminava con calma la testa del ferito. Il consiglio di amministrazione avrebbe dovu-to decidere tra non molto a chi assegnare l'incarico di primario del reparto, se a lei o a Jake. La decisione era stata rimandata alla riunione del mese successivo, e Kate stava cercando di aspettarla senza troppi nervosismi e illusioni. Jake non teneva quanto lei a quell'incarico, perché non aveva la sua stessa passione divorante per il lavoro. Ma per Kate, con una vita pri-vata ormai inesistente, il lavoro e la carriera erano tutto, e accettare con fi-losofia una delusione professionale sarebbe stato tutt'altro che facile. «Sta bene, dottoressa Madison?» Kate cercò di sorridere a Ricky. «Sì, certo, benissimo. Ma è stata una se-rata faticosa.» «A chi lo dice.» In quel momento, le doppie porte del Pronto Soccorso si spalancarono e una lettiga venne spinta all'interno. Pete Renfroe, un esperto infermiere di mezz'età, accompagnava la lettiga tenendo alta la sacca di plastica di una flebo. La paziente era una giovane donna dal viso pallidissimo su cui spiccava un livido bluastro. L'occhio destro era gonfio e semichiuso, e il labbro superiore era spaccato e sanguinava copiosamente. Dietro la lettiga veniva una donna dall'aria spaventata, che teneva per mano una bambina. Pete informò rapidamente Kate della situazione. «Trentadue anni, due costole incrinate ma niente lesioni ai polmoni. Le ho risistemato la spalla slogata. Pressione cento su settanta, cosciente. Si preoccupa della sua bambina.» Ma non abbastanza per allontanarla da un ambiente violento, pensò Kate, amara. A quel punto, lei si chinò sulla paziente e domandò con garbo: «Come si chiama, signora?». «Charlene» farfugliò a fatica la donna. «Charlene Miller.» Kate le aprì la camicetta e tastò delicatamente il torace. Charlene ge-mette e chiuse gli occhi. «Quella è la sorella» sussurrò Pete accennando all'altra donna. Poi spin-se la lettiga in un ambulatorio vuoto, sollevò la donna sul lettino con l'aiu-to dei colleghi e disse: «Ecco, dottoressa, è tutta sua». Infine sfiorò la spalla sana della donna e mormorò: «Adesso è in buone mani, signora Miller. Può stare tranquilla». L'altra donna si avvicinò ansiosa a Kate. «Mia sorella guarirà?» «Faremo del nostro meglio» la rassicurò Kate. «Ma adesso dovrebbe a-

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spettare fuori.» E coprì la paziente con il lenzuolo in modo che la bambina non vedesse i lividi sul corpo della madre. Intanto l'infermiera aveva infilato un manicotto sul braccio della donna e stava controllando la pressione. «È ancora stabile?» domandò Kate. Kelly scosse la testa. «Sta scendendo... novanta su sessantacinque.» Ignorando la preghiera di uscire dalla stanza, la sorella della donna in-tervenne di nuovo. «È stato il suo ex marito a ridurla così. Gliel'ho detto di non farlo più entrare in casa, ma lei non mi dà mai retta...» Kate quasi non la udì. «Il calo di pressione può essere dovuto a un'e-morragia interna...» mormorò. E abbassò il lenzuolo per controllare l'ad-dome della donna, su cui apparivano vecchi lividi sbiaditi sotto quelli nuo-vi. A quella vista la povera sorella, sempre più inorridita, si lasciò sfuggire un'esclamazione strozzata. «Qualcuno accompagni fuori questa donna» scattò Kate, irritata. Fu Pete a prendere il braccio della donna. «Coraggio, signorina, venga con me e lasci che la dottoressa Madison faccia il suo lavoro.» La donna si lasciò finalmente condurre fuori, con la mano della nipote sempre stretta nella sua. «Dovrebbe tener conto dell'effetto che fa a sua fi-glia» si lamentò. «Lasciarsi pestare in quel modo! Lindy crescerà convinta che la gente normale fa sempre così... La guardi» proseguì indicando la bambina, che fissava il vuoto con occhi assenti. «Ha visto tante di quelle scenate che non reagisce nemmeno più!» «Bambino...» gemette la donna nella saletta. «Stia tranquilla, è là fuori con sua sorella» disse Kate gentilmente. «No... il bambino... non voglio perderlo...» E Charlene si premette le mani sull'addome. «È incinta?» chiese Kate abbassando del tutto il lenzuolo. «Oh, mio Dio...» mormorò l'infermiera. Dalla porta a vetri, la sorella aveva visto la macchia di sangue che si al-largava sul lettino fra le gambe di Charlene. «Come hai potuto lasciare che ti mettesse di nuovo incinta?» gridò. «Portatela lontana da qui» brontolò Kate tastando delicatamente l'ad-dome della donna per controllare le condizioni del feto. Quando ritirò la mano, un altro fiotto di sangue sgorgò dalla vagina della poveretta a inon-dare il lenzuolo. «Chiamate il dottor Steinberg!» esclamò Kate, augurando-si vivamente che il ginecologo di guardia non fosse occupato altrove. La sorella di Charlene continuava a sbirciare attraverso i vetri resistendo

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agli sforzi di Pete per portarla via. «Mi aveva assicurato che non si sarebbe più lasciata toccare da quel bastardo!» esclamò. Finalmente comparve Ricky, che disse qualcosa alla donna e sorrise alla piccola, e riuscì a portarsele via entrambe. Kate le seguì un momento con gli occhi, mentre teneva lo stetoscopio appoggiato all'addome della donna. C'era qualcosa di sconvolgente nel-l'atteggiamento della bambina. Non una traccia di emozione in quegli oc-chi scuri, né curiosità né paura per la sorte della madre, niente. Un lampo traversò la mente di Kate, un ricordo che lei non riuscì a fermare e che cer-cò di scacciare subito. Quegli strani flash di memoria si verificavano sem-pre più spesso, ma adesso lei non voleva né poteva badarvi. Concentrò la sua attenzione sul corpo livido della donna, cercando di cogliere il battito cardiaco del feto. «Com'è la pressione?» domandò a Kelly. L'infermiera auscultò di nuovo, poi scosse la testa. «Debolissima.» Intanto un'altra infermiera aveva terminato il collegamento con il moni-tor, e adesso sullo schermo scorreva una linea verde, debole e irregolare, che corrispondeva al polso di Charlene. «È in stato di shock» ammonì Kelly. «Chiamate subito Steinberg e avvisate l'équipe di Cardiologia» ripeté Kate seccamente. «Intanto io penso a intubarla.» E ordinò il vassoio con l'occorrente a Jean Sharpe, la caposala di guardia. La donna ci aveva già pensato e accennò seccamente al carrello accanto alla lettiga. A quel punto, Kate inserì delicatamente nella trachea di Charlene il tu-bo del respiratore. Il drastico calo di pressione poteva essere causato dalla minaccia di abor-to, ma l'emorragia non era abbastanza forte da giustificarlo. Kate sospettava che il cuore di Charlene avesse subito dei danni per le botte, e che tra il muscolo cardiaco e il sacco pericardico si fosse rappreso del sangue che impediva al cuore di funzionare; oppure che ci fosse un'emorragia interna non controllabile. Quello era uno di quei casi in cui l'istinto del medico era ancora più importante della tecnologia, ma mentre Kate esaminava ansio-samente la paziente, Kelly emise un'esclamazione e tastò l'arteria carotidea sul collo della donna. «È inutile, dottoressa. L'abbiamo persa!» «Epinefrina» ordinò Kate. «Non possiamo farle un massaggio cardiaco, ha le costole incrinate e potremmo perforare un polmone.» Jean Sharpe mise la siringa pronta nella mano di Kate, che somministrò il medicinale. Poi tutti rimasero a fissare il monitor, su cui la linea scorreva inesorabilmente piatta.

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«Mi avevate detto che sarebbe guarita!» esclamò la sorella dal corridoio, notando la crescente agitazione intorno alla lettiga di Charlene. Poi si libe-rò dalla stretta di Ricky e tornò indietro. «Non la lasci morire, dottoressa» gridò. «Non la lasci morire!» «Dove diavolo è il cardiologo?» domandò Kate. «Sta arrivando» replicò Jean Sharpe. Kate esaminò le pupille di Charlene, le vide fisse e dilatate e provò una stretta alla bocca dello stomaco. Intanto Neal Winston, nipote di uno dei chirurghi cardiovascolari più noti di Boston, si era avvicinato alla lettiga e stava applicando della gelati-na sul petto della donna. «Faccia attenzione, ha due costole incrinate e forse un tamponamento del pericardio» lo ammonì Kate, brusca. «Però dobbiamo defibrillarla, no?» ribatté l'altro. «E poi, a quanto pare è abituata ai trattamenti un po' rudi...» Kate inghiottì una risposta tagliente. Era facile per gli altri fare battute spiritose, ma lei aveva intravisto parte della vita di quella poveretta e non riusciva a trattarla con distacco. «Libera» disse Winston applicando le due piastre del defibrillatore sul petto della donna. Il corpo esanime sobbalzò come una bambola di stracci, e tutti gli oc-chi corsero al monitor. Nessun segno di vita. «Aumentiamo a trecento. Libera!» Un altro balzo, poi la linea sul monitor tremolò un paio di volte e fi-nalmente riprese un andamento debole ma regolare. Kate si appoggiò alla lettiga e trasse un sospiro di sollievo. Dieci minuti dopo, avendo stabilizzato le condizioni della paziente, sfi-lò i guanti e li gettò nel cestino prima di dirigersi verso la sala d'aspetto dove la sorella di Charlene era stata finalmente accompagnata. C'era solo la bambina, accoccolata sul divanetto con gli occhi fissi nel vuoto. Erano occhi enormi, troppo grandi per il suo visino e troppo vecchi per la sua età. Mentre Kate si avvicinava, un ronzio nacque e crebbe nella sua testa fino a diventare assordante, e davanti ai suoi occhi balenarono accecanti lampi di luce. Poi vennero dei frammenti di immagini simili ai fo-togrammi di un film, troppo rapidi per fermarli. Acqua. Fuoco. Grida. Un abisso nero che le si apriva sotto i piedi... Buon Dio, che le stava succedendo? Kate allungò la mano alla cieca e trovò il bordo della sedia accanto alla piccola Lindy. La sedia era solida e rassicurante. Kate cercò di superare l'attacco di pa-

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nico con la tecnica suggerita tante volte ai suoi pazienti. Inspirare. Espirare. Inspirare. Espirare... «La mia mamma morirà?» La vocina della piccola le arrivò distorta, come attraverso una galleria. Kate si massaggiò le tempie, poi si volse a guardare la bambina. «Morirà? Voglio saperlo.» «Tutto bene, dottoressa Madison?» domandò la voce secca di Jean Sharpe. Kate alzò lo sguardo su di lei, stringendo lo stetoscopio per trarre forza da quella sensazione familiare. «Tutto bene, Jean, grazie. Mi cercava?» «No.» La donna guardò la bambina con le labbra strette in una linea ca-rica di disapprovazione. «Dov'è sua zia?» domandò. «Non lo so, ma resto io qui con lei per un po'.» Scuotendo la testa, l'infermiera se ne andò e Kate si rivolse alla piccola. «Dov'è la zia, Lindy?» domandò. «È andata in bagno.» Lindy la guardò solennemente. «Questa volta le ha fatto proprio male, eh?» Questa volta?, pensò Kate, indignata. «Sta male, ma stiamo cercando di guarirla.» «Chi sei?» domandò la bimba dopo una pausa. «Sono la dottoressa Madison.» Kate tese la mano, ma Lindy non fece alcun movimento per prenderla. «Allora non morirà?» «Adesso la tua mamma è di sopra con un altro dottore, che sta facendo in modo che stia meglio. I dottori e le infermiere sanno come curare la gente malata o ferita, puoi stare tranquilla» la rassicurò lei. Lindy la guardò seria, soppesando le sue parole e forse ricordando in-numerevoli promesse ricevute dagli adulti e mai mantenute. Quante altre scene di violenza avrebbe dovuto vedere quella povera creatura, già deru-bata dell'innocenza? «Magari ti andrebbe una cioccolata calda» riprese Kate. «In quella stan-za laggiù abbiamo un fornello dove la prepariamo. Che ne dici?» In quel momento, la zia tornò verso di loro con fare ansioso. «Mi chia-mo Gloria McNeal» si presentò. «Mia sorella guarirà?» «Per ora non possiamo dirlo, ma faremo il possibile...» «Dottoressa Madison, codice uno» le interruppe l'altoparlante. «Oh, santo cielo...» Kate guardò verso il bancone da cui Ricky la stava chiamando. «Sua sorella è di sopra, nel reparto di Cardiologia al secondo piano.»

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«Cardiologia? Vuol dire che Charlene ha avuto un attacco? Non era mi-ca malata di cuore!» «Ha avuto un evento cardiaco piuttosto serio, ma per fortuna l'équipe cardiologica è arrivata in tempo.» «Che vuol dire un evento cardiaco?» «Senta, la cardiologia non è la mia specializzazione. Di sopra le spie-gheranno tutto. Ma è in condizioni critiche, perciò sarebbe meglio che nel-le prossime ore lei non si allontanasse dall'ospedale...» «Oddio, l'ha ammazzata!» «Non ancora, signora McNeal. Non ancora.» «Dottoressa Madison, codice uno. Dottoressa Madison, codice uno...» «Mi dispiace» disse Kate, «ma adesso devo andare.» E si avviò in fretta lungo il corridoio, ancora scossa da quello strano attacco di panico. A-vrebbe voluto avere un momento per riprendersi, ma le bastò un'occhiata al nuovo paziente, un ragazzino sui dodici anni, per capire che non c'era tempo da perdere. «Questo è in condizioni disperate, dottoressa» disse Peter Wilkins, un altro infermiere esperto che sbagliava raramente le sue diagnosi. Kate sollevò la benda intrisa di sangue e un fiotto di adrenalina saettò nelle sue vene. Sul magro torace del ragazzo spiccava il foro di un proietti-le, da cui il sangue usciva pulsando a ogni battito del cuore. «Maschio, dodici anni» annunciò Peter. «Ha trovato la pistola del padre e stava mostrando il funzionamento a un amico. Pressione trentacinque su venti, polso inerte, shock, intubato in ambulanza. Adesso vado a parlare con il padre, poveraccio. Se non riesco a calmarlo, avrà un collasso e sarà il suo prossimo paziente.» «Se lo meriterebbe» borbottò Kelly misurando la pressione al ragazzino. Intanto Celie Franks aveva collegato il paziente ai monitor. Non appena lo schermo si accese, la linea verde si appiattì e il monotono, continuo bip suonò come una condanna. «Defibrillatore!» ordinò Kate, frenetica, tastando la schiena del ragazzi-no alla ricerca del foro di uscita. E lo trovò, enorme, con gli orli lacerati, spaventoso. Le sue dita incontrarono carne maciullata, vene spappolate, frammenti di osso. «Dov'è il proiettile?» domandò Kelly. I suoi occhi, visibili sopra la ma-scherina, erano colmi di preoccupazione. «Deve averlo trapassato» disse Celie con gli occhi lucidi di lacrime. Due mesi prima, suo nipote era morto nello stesso modo, colpito da un proiet-tile durante una sparatoria tra bande rivali.

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In quel momento comparve di nuovo Neal Winston, questa volta senza battute spiritose, e Kate scostò la mano per mostrargli l'orribile fe-rita sulla schiena. Il sibilo del monitor continuava, monotono ma assor-dante. «Non c'è più niente da fare, Kate» disse Neal sottovoce. «È finita.» «No!» Kate prese le piastre lei stessa proprio mentre arrivava Jake Gris-som. «Jake, ho bisogno che tu dia un'occhiata qui» lo pregò lei sollevando leggermente il corpo inerte per fargli vedere meglio la ferita. Jake la esaminò con la sua caratteristica calma, poi guardò le pupille del ragazzo, fisse e dilatate, e scosse il capo. «È andato, Kate. Registra l'ora del decesso.» «No!» ripeté lei, disperata. «Non posso mollare adesso. È così piccolo, Jake. Quasi un bambino...» «Nessuno sarebbe potuto sopravvivere a una ferita come quella» le spiegò lui. «Il proiettile gli ha trapassato i polmoni e lo stomaco e poi ha lacerato il cuore. È un miracolo che abbia retto fin qui.» Ci fu un lungo silenzio, poi Neal tolse le piastre del defibrillatore dalle mani tremanti di Kate. «Non è la sera dei miracoli, a quanto pare. Dieci minuti fa abbiamo perso anche Charlene Miller.» Pochi minuti più tardi, dopo aver rifiutato l'offerta di un caffè da parte di un'infermiera, Kate si rifugiò nel salottino dei medici. Lo stomaco le do-leva come se qualcuno lo avesse stretto in una morsa, e le sue tempie mar-tellavano dolorosamente. Sua madre, pensò. Doveva chiamare sua madre, e se non avesse avuto risposta nemmeno questa volta, avrebbe chiamato Leo Castille. Leo dove-va per forza sapere qualcosa di più. Fece il numero e contò sei squilli, poi finalmente Victoria Madison ri-spose. «Mamma, sono Kate.» «Kate, che sorpresa... scusami, sai, devo essermi addormentata. Stavo leggendo un libro, ma era così noioso che ho chiuso gli occhi un momen-to e...» «Lo so che è tardi, ma volevo parlarti.» «Oh, sai bene che io vado sempre a letto tardi. Allora, come stai?» «A dire la verità, ho chiamato per farti la stessa domanda.» Kate fece uno sforzo per contenere il tremito della voce, ma continuava a vedere la faccia di Charlene Miller e quella del ragazzino ferito. «Sei sicura di star bene?»

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«Che domanda mi fai?» replicò Victoria nel suo solito tono deciso. «Perché mai non dovrei star bene?» «Amber mi ha lasciato un messaggio in segreteria un paio di giorni fa. Diceva che non avevi un bell'aspetto e che lei era in ansia per te.» Victoria sbuffò. «Che diavolo le è venuto in mente di darti quest'altra preoccupazione?» «Forse pensava che ti stessi trascurando, e ha ragione. Sarei dovuta ve-nire a trovarti da tempo, ma il fatto è che...» «Boston è a millecinquecento miglia da qui» replicò Victoria. «E sai be-ne che non mi sono mai piaciute le smancerie.» «Eccome se lo so.» Sua madre si vantava sempre della propria indipen-denza, viveva da sola e ribadiva a ogni occasione di non aver bisogno di nessuno. «E immagino che, se ci sono smancerie da fare, Leo sarebbe ben felice di pensarci lui.» «Non dire sciocchezze. Leo fa tante di quelle storie ed è così noioso che a volte lo manderei volentieri al diavolo.» Victoria e Leo insistevano da anni che la loro era una semplice amicizia, ma Kate e Amber avevano sperato per tutta la loro adolescenza che un giorno i due si sarebbero sposati e che loro sarebbero diventate sorelle. «Scherzavo, mamma. Ma visto che ne parli, su che cosa Leo fa tante storie?» «Oh, sulle solite cose» dissee sua madre con disinvoltura. «Sai com'è fatto.» Kate sentì un fruscio, poi il click di un accendino. «Mamma, hai ripreso a fumare?» «Prima o poi smetterò» replicò Victoria con impazienza. «Dobbiamo proprio perder tempo a discutere di questo? Sei talmente occupata che non ci sentiamo mai, e quando chiami vorrei tanto che non parlassimo di cose su cui non andiamo d'accordo, tipo il fumo. Sa il cielo se il resto del mon-do è già abbastanza ossessionato dall'argomento.» «E a ragione, mamma» sospirò Kate. Poi decise di lasciar perdere, per-ché, in effetti, le conversazioni con sua madre erano sempre piene di ten-sione e traversate da strane correnti di emozione che lei non riusciva a de-finire. «Che cosa ti ha detto Amber, esattamente?» riprese Victoria. «Che non avevi un bell'aspetto. Se avessi qualcosa che non va, tu me lo diresti, vero, mamma? Io potrei prendere un volo per New Orleans ed essere a Bayou Blanc in poche ore, lo sai.» «Stai esagerando, Kate. Prima di preoccuparti per me, pensa a rimettere

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insieme la tua vita. Dicono che il divorzio è una delle crisi più traumatiche che una persona debba affrontare, e tu hai divorziato soltanto da sei me-si.» Kate volse la testa in tempo per vedere un gruppo che entrava di furia nell'atrio, spingendo una lettiga. «Scusa, mamma, ma è appena entrato un paziente e probabilmente mi chiameranno tra un istante. Che cosa stavi dicendo?» «Misericordia, ragazza, come puoi pensare di venirmi a trovare se non hai nemmeno il tempo di parlarmi al telefono?» «Sto lavorando, mamma. Ti ho telefonato adesso perché ti ho cercata per un paio di giorni senza mai trovarti, ed ero in ansia per te.» «Be', ho anch'io delle cose da fare.» «Dottoressa Madison, codice uno...» «Mi stanno chiamando, mamma. Scusami, ma devo andare... ti telefo-no di nuovo domani mattina, va bene?» «Che ne è stato della tua promozione?» «È ancora in sospeso. Scusa, ma mi chiamano...» «E allora vai, vai!» scattò Victoria. E riattaccò. «Non ha sentito l'altoparlante, dottoressa?» Kate depose il ricevitore e si volse a guardare la faccia arcigna di Jean Sharpe. «Sì, Jean, l'ho sentito. Grazie» disse asciutta. Sharpe era notoriamente convinta della necessità di ricordare ai medici l'importanza del ruolo delle infermiere, cosa del tutto inutile nel caso di Kate, che aveva un enorme rispetto per il difficile compito di tutto lo staff ospedaliero. «Abbiamo un paziente grave nell'ambulatorio numero quattro» riprese l'infermiera seccamente. «Il dottor Grissom è impegnato con una frattura del femore, perciò dovrà occuparsene lei. E spero che si sia ripresa dalla sua... reazione emotiva di poco fa, perché si tratta di un attacco cardiaco.» «Ne è sicura?» «Dopo trent'anni di esperienza, posso dire di esserne più che sicura» replicò l'altra, irritata. «E allora faccia in modo che abbiamo a portata di mano tutto il neces-sario» ribatté Kate voltandole la schiena. «Non c'è bisogno che mi insegni come fare il mio lavoro» sbuffò Jean Sharpe. Kate si rifiutò di lasciarsi trascinare in una discussione. Sapeva bene che, dal punto di vista dell'infermiera, rivelare il proprio dispiacere quando il ragazzo era morto era stata un'imperdonabile mancanza di professionali-

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tà. E meno male che la donna non aveva assistito al suo attacco di panico davanti alla piccola Lindy Miller! Scostò la tenda dell'ambulatorio numero quattro, preparandosi a chissà quante altre ore di lavoro. Anziché risollevarla, la conversazione con sua madre aveva aggiunto un'altra preoccupazione a quelle che già aveva. Vic-toria aveva decisamente qualcosa che non andava, e ciò significava che ben presto lei sarebbe dovuta andare in Louisiana a controllare di persona. Un'occhiata all'uomo sul lettino, e la sua ansia crebbe. Il paziente era un uomo di mezz'età, con il ventre gonfio tipico dei malati cardiaci, ed era già stato collegato al monitor. Sedeva dritto sul lettino, con la faccia cine-rea contorta in una smorfia di dolore. «È un attacco, dottoressa» ansimò cercando di respirare. «Lo so...» «Gli abbiamo dato della morfina» disse Kelly. «L'elettrocardiogramma mostra qualche irregolarità, ma non tanto da confermare l'attacco cardia-co.» «E invece ce l'ho, accidenti» ringhiò l'uomo. «Non avrei questo tre-mendo dolore al petto, se non fosse un attacco.» «Abbiamo i risultati delle analisi?» domandò Kate. «Sì, però manca ancora il conteggio degli enzimi nel sangue.» «Al diavolo gli enzimi» ruggì l'uomo. «Io sto morendo, fatemi qualco-sa!» «Si calmi, signor...» Kate guardò il braccialetto di plastica al polso del-l'uomo. «... signor Carmelo. Se ha un attacco cardiaco, la cosa peggiore è agitarsi così. Dobbiamo...» «Dovete darmi qualcosa per il dolore!» esclamò Carmelo. «Ho letto che ci sono dei medicinali adatti, com'è che non mi date niente? Fa un male d'inferno!» Kate guardò Kelly. «Diamogli altri tre milligrammi di morfina mentre cerco di auscultarlo.» E si chinò sul petto del paziente cercando di cogliere il suono irregolare dei battiti con lo stetoscopio. «La pressione sta calando, dottoressa» ammonì Kelly. Kate annuì. «Avete chiamato i cardiologi?» Jean Sharpe si avvicinò con la sua solita aria dignitosa. «Ho cercato il dottor Lincoln, ma non mi ha risposto.» Certo, Jean poteva permettersi di essere calma e distaccata, pensò Kate. La responsabilità del paziente non era sua! Quanto a lei, non era affatto sicura che quello di Joseph Carmelo fosse davvero un attacco cardiaco. Poteva essere una semplice indigestione, e in quel caso la somministrazione di un trombolitico come la streptochinasi

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sarebbe stata fatale. Se invece si trattava davvero di un infarto miocardico, il muscolo cardiaco danneggiato avrebbe riversato nel sangue una quantità di enzimi assai superiore alla norma, cosa che al momento non era ancora verificabile. «Fate qualcosa...» ansimò il paziente. «Ho una buona assicurazione, posso pagare tutto!» «Non è questo il punto, signor Carmelo. Cerchi di non agitarsi...» «La pressione è critica, non possiamo aspettare il dottor Lincoln» sus-surrò Kelly. «Ma io non posso dargli un trombolitico senza le analisi» ribatté Kate. Diede un'occhiata al monitor, su cui la linea del cuore scorreva irregola-re. Troppo irregolare. E poi, di colpo, si appiattì. «È in collasso!» esclamò Kelly. «Epinefrina» ordinò Kate. E tese la mano per avere la siringa. Celie diede un'occhiata in corridoio. «Nessuno di Cardiologia in vista» annunciò. «Li ho chiamati tre volte, ma evidentemente sono occupati anche loro» disse Jean Sharpe avvicinando al lettino il carrello del defibrillatore. Kate si chinò sul paziente stringendo la siringa e cercando di fermare il tremito della mano. Quella sera era la terza volta che si trovava di fronte a un paziente in pericolo di vita, e si sentiva afferrare dal panico. «Che succede qui?» «Dottor Lincoln, grazie a Dio, è arrivato!» esclamò Jean Sharpe, solleva-ta. «È un infarto miocardico.» Ward Lincoln diede a Kate un'occhiata arrogante. «Gli ha dato la strep-tochinasi?» «No, stavo aspettando che...» «Perché diavolo non lo ha fatto?» «Non avevo il conteggio degli enzimi nel sangue, e dargliela senza con-teggio sarebbe stato...» «Oh, dannazione!» esclamò Lincoln spingendola rudemente da parte. «Lei ha già fatto abbastanza, dottoressa. Adesso si scosti e mi lasci vedere se posso salvare questo poveraccio.» Dopo un attimo di esitazione, Kate obbedì, e l'équipe cominciò a ese-guire gli ordini abbaiati da Lincoln. Lavoravano bene, con rapidità e com-petenza, ma ogni sforzo fu inutile: dopo sette minuti, Lincoln si fermò e dichiarò il decesso del paziente. Ogni attività cessò, e nel silenzio Lincoln sfilò i guanti e li gettò nel cestino. Nessuno guardò verso Kate.