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SCENDINCAMPO Raccontare di sport 2017 CONCORSO DI SCRITTURA CREATIVA XII edizione RACCONTI PREMIATI Pordenone, 21 ottobre 2017

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SCENDINCAMPO Raccontare di sport 2017 CONCORSO DI SCRITTURA CREATIVA

XII edizione

RACCONTI PREMIATI

Pordenone, 21 ottobre 2017

Ai signori Lutman, genitori di Paolo, un ringraziamento

di cuore per la generosità con cui rinnovano con immutato en-tusiasmo il sostegno a questa bella iniziativa, di cui il Liceo “G. Leopardi – E. Majorana” si fa promotore.

Anche quest’anno la partecipazione al concorso è risul-tata significativa: tanti studenti da varie parti d’Italia si sono coinvolti e hanno colto l’opportunità di impegnarsi in un eser-cizio di scrittura creativa, che ha prodotto risultati interessanti per qualità e quantità di elaborati pervenuti, come accertato dalla giuria presieduta dal giornalista Gianni Mura.

A lui un grazie speciale e caloroso per essersi fatto cari-co, come sempre, di scegliere i vincitori nella rosa dei racconti finalisti, assegnando a questo concorso il valore aggiunto della sua competenza e del suo stile inconfondibile, nel segno di un rapporto ormai consolidato che ci fa particolarmente onore. Complimenti, infine, alle ragazze e ai ragazzi che si sono ci-mentati in questa XII edizione 2017.

Il Dirigente Scolastico

Teresa Tassan Viol

scendincampo 2017 – Racconti premiati

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Noi ci credevamo: Italia-Brasile dell’82

“Noi ci credevamo. A quell’età ci si crede per forza. Con il grande “Dino Dio” in porta (così l’avevamo ribattezzato nei cori che accompagnavano la partita) non potevamo certo uscire. Il Brasile? Buona squadra, ma noi eravamo noi! Rossi era il ragazzo che avremmo voluto essere, Gentile aveva affilato le armi, Oriali correva per mille... Non avremmo mai potuto perdere quella partita. Come tutte le altre, del resto.... Ad Anna piaceva camminare tenendo per mano un amico. Non so sinceramente perché, ma a quel tempo non mi sembrava una cosa strana. Io mi mettevo nel gruppo e sfruttavo la scia degli altri. Quando era sola, piombavo con un argomento qualunque. Con lei era facile parlare di tutto. Si poteva parlare di Dio come di Rummenigge. E non è che ci si confondeva. La gara fu bellissima. Segnò Rossi, pareggiò Socrates, tornammo avanti ancora con Rossi e poi Falcao per il due a due. Un goal che non ci voleva. Un goal evitabile se solo un uomo fosse uscito a difendere, al limite dell’area, in modo decente. Mancavano 22’ tra noi e la fine di un sogno. «Dino Dio!». Anna aveva gli occhi scuri ma chiari. Li aveva castani ma facevano molta luce. Come il sorriso. La carnagione era un po’ olivastra. Era minuta (ma io, a quel tempo, ero appena più alto di lei, piuttosto magra, con seni e fianchi normali), però si vedeva che era già donna. Avevamo la stessa età, ma lei era un po’ più grande.... Non feci nulla, come sempre. Lei a un certo punto mi si avvicinò e mi baciò sulla bocca. Per me, ma anche per lei (ne sono certo), era il primo. Ne seguirono almeno altri dieci sino all’atterraggio. Ce li demmo senza dirci quasi nulla e l’ultimo durò di più. “Dino Dio” parò sulla linea e fu annullato anche un goal buono ad Antognoni. Avevamo vinto. Vinto con i più forti del mondo e ora Polonia e Germania non potevano (e fu così) spaventarci. Eravamo i primi al mondo ma ce ne sentivamo al di sopra. Come su un aereo, in volo di ritorno, eravamo in undici, in cento, in milioni di campioni. “

Paolo Lutman

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“14 MARZO 1943” Domani è un altro giorno

Una foto in bianco e nero, di quelle abbandonate in un angolo. Ci sono molti ragazzi nell’inquadratura, tutt’attorno il paesaggio è im-biancato dalla neve, ognuno tiene stretto a sé un paio di sci da fon-do. Fra tutti, uno di loro ha uno sguardo storto che esprime amarez-za e un sorriso forzato, al suo fianco un altro guarda oltre l’obbiettivo, ha un tondo rosso attorno alla testa disegnato in un secondo momento. Ma ognuno di loro sembra pensare ad altro, forse solo il vincitore, l’unico con una medaglia al collo, sembra vo-ler riuscire bene (e forse è solo un’impressione). Hanno tutti gli oc-chi semichiusi. Giro la foto, ci sono delle scritte, e leggo: “alla mia destra Franco Chierego”e subito sotto: “alla mia sinistra Renato Bo-nadimani e Gianni Rama”. Nell’angolo in basso a destra un cerchiet-to rosso e la parola “lo”. Rigiro la foto, vedo un cartello in secondo piano che dice: “Passo Cimabanche, metri 1529”, e uno striscione di tela che recita, con una scritta in caratteri neri maiuscoli: ARRIVO. La bandiera lì accanto si agita con vigore, si capisce dalle tante pieghet-tature fermate dallo scatto. Poi, di colpo, mi sembra che la bandiera si muova veramente, sento un freddo pungente, mi blocca il fiato, mi guardo intorno, tutto è bianco e gelato, il tempo è fermo e nessuno si muove tranne mio nonno, quello con il cerchio rosso disegnato attorno alla testa nella foto, un ragazzo di diciotto anni come potrei essere io tra qualche anno. Si sposta dal gruppo, viene verso di me e mi dice: “Sai che giorno è oggi? È il 14 marzo 1943, io e i miei amici frequentiamo la 2B del liceo ginnasio statale Scipione Maffei di Verona. Siamo nel bel mezzo della Seconda Guerra Mondiale e manca tutto. Quest’inverno abbiamo persino tagliato gli alberi del Parco della Memoria per far-ne legna da ardere per scaldarci un po’. Pensa che il nostro inse-gnante di scienze, che amavamo tanto, il professor Corrado Bona-ventura, è stato sospeso dall’insegnamento perché di razza ebraica. Non è un momento facile, sai: i titoli dei giornali parlano dei successi

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delle nostre truppe in Tunisia, di gruppi nemici annientati, dei suc-cessi dell’Asse, di piroscafi affondati e di flotte aeree abbattute. Ma nella realtà siamo sull’orlo dell’abisso. Eppure, nonostante tutto, proviamo a divertirci: siamo qui per i campionati di sci tra Avan-guardisti per la Coppa Mussolini. Noi in realtà non crediamo a tutta questa messa in scena e a tutta questa retorica, ma non possiamo dirlo, opporsi al regime è pericoloso, ma sciare ci piace, eccome. Abbiamo passato la notte in un tabià a Cadìn di Sotto, una frazione sopra Cortina d’Ampezzo, e ci siamo addormentati sul fieno tutti intorno alla canna fumaria della stufa accesa al piano di sotto, al suono della mia armonica Hohner Bravi Alpini. Abbiamo cantato La Montanara e Vecchio Scarpone. Al risveglio abbiamo fatto colazione con pane nero e poca marmellata ai lamponi nella cucina della casa che ci ospitava, e alle sei e mezza del mattino eravamo già con gli sci in spalla. Scendendo lungo la strada e attraversando il ponte sul torrente Boite, la neve scrocchiava sotto i nostri piedi, c’era poca luce e tanta attesa per la gara. Alla partenza, poco prima della piana di Fiames, un uomo con un ferro caldo e della sciolina preparava gli sci di legno alla gara e controllava gli attacchi Rottefella. La tensione era alta, come la voglia di vincere. Renato, Franco, Gianni ed io sia-mo stati selezionati perché Lamberto Chiarelli, il nostro preside, sa che facciamo parte del Gruppo Sciatori del CAI di Verona. E guarda un po’ come siamo vestiti tutti: pantaloni alla zuava, maglioni e guanti di lana e una specie di cappello alpino senza nappa e senza penna in testa. Qualche ora fa eravamo tutti insieme sulla linea di partenza: soffiava un vento gelido da nord, che ci faceva tenere gli occhi semichiusi, il cielo delle sette pulitissimo, neanche una nuvola ostacolava il transi-tare del sole e il suo far capolino dal Monte Cristallo. Un colpo di pistola a segnalare la partenza e via, all’inizio la gara è disordinata, l’adrenalina ci fa muovere, e con il sangue che torna a circolare, le dita delle mani e dei piedi ci fanno un male terribile. Le gambe com-piono un movimento meccanico, un, due, un, due, un, due, ti ripeti in testa, mentre percorri la piana di Fiames a passo alternato. A lato

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della pista, un fitto bosco di abeti. Di fronte, la Croda del Becco è tutta in ombra. Nel primo chilometro le posizioni cominciano a sta-bilirsi, si crea una colonna, qualcuno ci incoraggia, qualcuno invece si lamenta della nostra lentezza. Chilometro due, primo strappo in salita, un’occasione che i più resi-stenti possono sfruttare andando in fuga dai più deboli. Gianni al mio fianco inizia già a dare i primi segni di stanchezza, intanto sento alle mie spalle le voci di Franco e di Renato che si incitano vicende-volmente, comincio a sentire le mani sudate dentro i guanti. Siamo già al quinto chilometro, la pista comincia a stringersi, al no-stro fianco emerge dal bosco un capriolo, ma scompare di nuovo quando sentiamo un rumore, sempre più vicino, che ci riempie le orecchie; è il treno che discende la vallata da Dobbiaco verso Corti-na, ci passa al fianco molto lentamente, il macchinista fa fischiare il treno come per salutarci e alcuni dei feriti dal fronte, che il treno trasporta ogni giorno (è così da quando è iniziato il conflitto: la con-ca Ampezzana è diventata zona ospedaliera) ci guardano con aria perplessa, come a chiedersi: perché io no? Maciniamo i chilometri quasi in silenzio. Chilometro sette, qualcuno cade, forse in preda alla stanchezza o forse per i fastidiosi solchi che si sono creati al passaggio dei primi concorrenti, la strada finalmente si riapre e permette ancora una volta ai più forti in salita di dare il massimo, per chi riesce a ottenere un forte distacco dal gruppo in questo momento, la gara è fatta, la vittoria quasi assicurata. La scarna folla che circonda la strada co-mincia a farsi un po’ più densa, l’adrenalina ora è ciò che ci spinge ad andare avanti. Siamo ormai al chilometro dieci e mi chiedo chi sia in testa. Allora alzo la voce e chiedo a uno dei pochi spettatori chi sia, e lui mi risponde: «Il numero 13!» e guardando in fondo al lungo retti-lineo che stiamo percorrendo lo vedo e mi accorgo che ha un note-vole vantaggio sul gruppo. Ormai si lotta per il secondo e terzo gra-dino del podio, ci continuiamo a sorpassare l’un l’altro usando le ultime energie rimaste. Passiamo a fianco della polveriera di Cima-banche, il pensiero della guerra incombe ora su di noi, per un attimo

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sembra che il tempo si fermi e forse è realmente così. Mentre noi siamo qui a divertirci, un altro freddo e un'altra neve stanno ucci-dendo tanti ragazzi come noi. Chilometro dodici, le gambe sono allo stremo, si vede già la piccola stazione di Cimabanche, al suo fianco l’arrivo, uno alla volta passia-mo sotto allo striscione di tela che segna la fine della gara. Nessuno di noi quattro ha raggiunto il podio e mentre il vincitore è arrivato da un bel po’ e ci aspetta con gli sci in mano, noi invece ci buttiamo nella neve esausti. La gara è finita, un sole ormai quasi caldo di mar-zo si è alzato sopra la cima del Cristallo e ci dà un attimo di calore e di gioia anche se non abbiamo vinto. Qualcuno porta un piccolo podio di legno sotto lo striscione. Sergio Zanon, il vincitore, ci sale sopra ed è l’unico a ricevere una medaglia. Il podestà di Cortina, Angelo de Zanna, gli stringe la mano e si con-gratula con tutti, noi applaudiamo e facciamo il saluto fascista. E ora la foto, tutti in posa. Il fotografo ci fa stringere e ci mette in doppia fila, siamo pronti per lo scatto. Mio nonno punta il dito verso il gruppo e mi dice: «Lo vedi quel ra-gazzo con lo sguardo storto"? E vedi anche il vincitore, così soddi-sfatto? Alla fine dell’estate finiranno in vagoni piombati sul fronte di Montecassino e verranno uccisi, io e i miei amici invece ci rifugere-mo sul Monte Baldo con le prime formazioni di combattenti parti-giani e ce la caveremo. Quei due anni di guerra civile saranno lace-ranti per tutti». Mi sono talmente concentrato su quel gruppo di ragazzi, pensando al loro destino futuro che in questa mattina di neve e di sole sembra impossibile, che non mi accorgo nemmeno che mio nonno si è alzato e ora sta insieme agli altri come l’avevo visto all’inizio nella foto. Mi guardo attorno, il calore di giugno mi travolge, sento il vento dell’estate fuori dalia finestra, guardo l’orologio, sono passati pochi minuti da quando ho preso la foto dal mio cassetto, eppure sembra molto di più. Lì dentro c’è anche una vecchia armonica a bocca Ho-hner Bravi Alpini, la prendo in mano e la suono un poco. Mi piace-rebbe saper suonare La Montanara come faceva mio nonno con lei,

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ma non ne sono capace. Lui è morto il sei luglio 2012, e questo è quello che mi ha lasciato. Guardando ancora quella foto in bianco e nero, e quel ragazzo che guarda oltre l’obiettivo, mi accorgo che ci assomigliamo un po’.

GABRIELE NETTO Liceo “Leopardi Majorana” di Pordenone

(racconto primo classificato )

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“ I-0 L-U-C-I-A: SÌ” La camelia sul muschio

Non ricordo con precisione quale giorno fosse ma ho ancora vivido nella mia mente il ricordo che si trattasse di una bella giornata di primavera. La luce passava limpida dalla finestra socchiusa e arriva-va dell’aria appena appena tiepida. Sul comodino i fiori da poco rac-colti rimandavano ai colori dell’arcobaleno. Lei era lì, nella sua stan-zetta, intenta con la radio a cercare una stazione che trasmettesse una canzone nota, una canzone che le mettesse allegria. E ogni qualvolta riusciva a trovarne una, era subito pronta ad alzare al massimo il volume, a dondolare con le braccia in aria come una far-falla che non riesce a trovare il suo fiore su cui poggiarsi e va avanti e indietro con le sue ali alla ricerca di quello più bello. Nella camera a fianco sua madre cercava di finire velocemente il suo lavoro e, tra una faccenda ed un’altra, le gridava di abbassare il tono della radio perché si sentiva troppo forte. Sapeva che doveva fare in fretta e così si affannava a rimettere in ordine tutto ciò che era sul tavolo: cartelloni, pennarelli, quaderni. Capitava spesso che in quella cucina ci fosse disordine nonostante instancabilmente lei cercasse di siste-mare; rimaneva sempre quella piccola montagna di vestiti ripiegati e posati sul divano da rammendare: camicie a cui erano stati staccati i bottoni, jeans a cui mancava qualche cerniera, magliette con perline mancanti. La sua mamma sapeva che questa situazione sarebbe continuata a vita, ma non disperava e così passava i pomeriggi con la macchina da cucire a ripassare le cuciture aperte e cercare di poter riutilizzare, almeno per qualche altra volta, ciò che sembrava com-promesso. Suo padre rientrò a casa e subito fece cenno alla moglie di togliere tutto perché da lì a poco sarebbe arrivata una persona che doveva parlare ad entrambi. Nemmeno il tempo di finire di rac-cogliere il tutto, quando si sentì suonare il campanello. Dalla stan-zetta lei udì il suono e si precipitò ad aprire la porta come se sapesse già chi stesse lì dietro. Il signor Sergio appariva imponente, fisico

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aitante ma con un viso dolce. I suoi grandi occhi neri avevano un non so che di tristezza, velata però da una luce particolare, quasi scrutassero l’animo umano. Nonostante la sua statura appariva co-me una persona mite, piena di voglia di andare verso gli altri. Il padre lo fece accomodare e si sedettero tutti e quattro attorno al tavolo. “Dunque, signori Scaminaci, sono venuto per parlarvi di una propo-sta che vi potrebbe sembrare un po’ assurda ma che, e ne sono con-vinto, sarà invece un’occasione per far riscoprire quanto bello possa ancora apparire il mondo ad una ragazza che sembri non percepirne la sua bellezza”. I genitori si guardarono non riuscendo a capire ciò che intendesse Sergio, ma egli prosegui: ”Beh da quando faccio par-te della squadra di quad, sport estremo con motori a quattro ruote, ho partecipato a parecchie gare e ho vinto numerose coppe. Un giorno, tra i tanti spettatori che assistevano ad una gara, vidi dei ragazzi che mi colpirono per il loro entusiasmo e per la gioia che manifestavano nel seguire la gara. Si trattava di persone in sedie a rotelle; ho capito, in seguito, che c’erano anche ragazzi con disagio psichico. Non potei volgere lo sguardo a lungo visto che dovevo guidare, ma quel poco mi bastò per accorgermi di una ragazza che applaudiva e rideva come non avevo mai visto: era vostra figlia. ” Ancora i suoi genitori si guardavano non capendo cosa volesse quel signore dalla loro figlia, mentre lei seduta accanto a loro ascoltava in silenzio quasi come se quello che accadeva non la riguardasse. Lui continuò: ”Ho pensato, facendo anche parte della società sporti-va di quad, di far partecipare questi ragazzi ad una competizione. No, non abbiate paura, è ovvio che alla guida ci saremo noi piloti, loro staranno dietro e proveranno il brivido di una vera gara, da protagonisti. Non dovete darmi subito una risposta, è normale che mostriate delle titubanze visto che si tratta di uno sport estremo, ma vi assicuro che si agirà nel rispetto di tutte quelle azioni volte a garantire la completa sicurezza. I ragazzi saranno imbragati e non correranno alcun rischio”.

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Il padre mostrò subito la sua indecisione nel volere acconsentire nonostante ritenesse quella iniziativa lodevole; nessuno mai aveva pensato ad una cosa del genere, ma si spaventava della reazione che potesse avere sua figlia su quel motore, se fosse stata in grado di gestire una cosa simile. La madre, dal canto suo, non volle aggiunge-re una parola. Fu invece la ragazza che, tutto ad un tratto, con voce tremante e sillabando disse: “I-O, L-U-C-I-A SÌ” abbassando ripetu-tamente il capo in segno di approvazione. E alzandosi, abbracciando quell’uomo, ripetè con tono alto ma con più decisione “I-O, L-U-C-I-A SÌ”. Era così che riusciva a comunicare, poche parole dette sillaban-dole. I genitori non poterono non sentire quella voce che sembrava uscisse dal suo cuore più che dalla sua bocca e, dandosi uno sguardo complice, risposero che avrebbero accettato la proposta. Non appe-na il signor Sergio li ringraziò per la fiducia accordatagli, si alzò e uscì dicendo che avrebbe comunicato il giorno e il luogo in cui si sarebbe svolta la gara. E quel giorno non tardò ad arrivare. Tanti furono i preparativi, le telefonate tra i genitori dei partecipanti, i loro timori, ma soprattutto l’eccitazione dei ragazzi. Il sole era forte quel giorno a Selinunte: dentro al parco archeologi-co la pista attorno al Tempio era pronta. Tutti i concorrenti dovette-ro indossare un giubbotto particolare per essere imbragati e legati ai piloti che già erano in sella alla moto. Lucia si voltò a guardare suo padre, sua madre, suo fratello, sua sorella e tutt’e due le sue nipoti che vollero andare a vederla. Il suo volto non era preoccupato e i suoi occhi brillavano di una strana allegria, quasi volesse la loro ap-provazione per quello che si accingeva a compiere. Alzò la mano per salutarli e sorrise. Il rombo dei motori segnò che la corsa stesse per iniziare: per un attimo fu come se il tempo si fermasse, tutti concen-trati alla partenza. Non appena si udì la sirena, ecco partire a gran velocità i motori; nessuno dei ragazzi disabili che parteciparono eb-bero alcuna esitazione o chiesero di scendere da quei quad anzi, al contrario, furono felici di competere tra loro e risero come non ave-vano mai fatto prima tenendosi abbracciati fortemente ai loro piloti. Dopo quattro giri di pista il traguardo fu vicino e fu proprio Lucia a

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raggiungerlo e vincere quella gara. Quale felicità nei suoi occhi quando le fu consegnata la coppa: strinse il signor Sergio e cominciò a gridargli “Bel-lo tu, bel-lo tu, bel-lo tu. ” E’ stato sempre il suo mo-do di parlare per esprimere amore e riconoscenza verso chi le mo-strasse attenzioni. Non avevo mai visto mia zia Lucia così contenta come in quel giorno, né i miei nonni avevano mai messo in conto che la loro figlia avesse potuto partecipare ad un evento sportivo del genere visto la sua scarsa capacità di concentrazione. Fino a ieri quando pensavo allo sport, praticando pallavolo fin da piccola, mi venivano in mente parole come spirito di sacrificio, impegno, lealtà, condivisione, fair play. Oggi so con certezza che lo sport è anche altro: un arcobaleno dopo le tempeste, il calore dopo ogni inverno, una camelia sul muschio.

SOFIA CATALANO

I.I.S “Cipolla Pantaleo Gentile” Castelvetrano (TP)

(Racconto secondo classificato)

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“L'incontro” La vita è proprio ok, lui dice, pensa un po' solo o-kappa per qualcuno, per gli altri è kappa-o Tutti ammiriamo, chi più chi meno, e di certo secondo diverse mani-festazioni, ma tutti ammiriamo la forza fisica, l'unione sacrale di muscoli e peso e lampo. E tutti veneriamo questo culto della forza, ogni volta che ci incazziamo e tiriamo un pugno al muro, o quando per sopportare il dolore stringiamo qualcosa fra le mani come per stritolarlo. Il nero davanti a me è indubbiamente un alto officiante di questa religione. Amico, penso, ecco il tuo dio. Come i tuoi padri africani si sono piegati, con la loro magia, alla forza del bianco, cosi anche tu ti piegherai sotto i miei colpi, sempre in venerazione, sempre mancante. Mi viene in mente mia sorella che suona il cigno di Saint-Saens al pianoforte, a casa nostra. Ha solo undici anni, ma è brava, e il pezzo le viene molto bene. Lo suona in modo un po' meccanico e senza pedale (lo sta ancora studiando), ma a me piace molto così, perché rende meglio la linearità della melodia, senza il patetismo e soffe-renza straziante che non sposano la regale e maestosa eleganza dell'animale. Suona la campanella e inizia il primo round della finale di pesi mas-simi di H. M, il nero, muove poco i piedi e molto di più le braccia nere e lucide. E' bello e compatto, ma ha il collo un po' troppo lungo per un pugile. Il suo primo cazzotto mi coglie alla sprovvista, dritto alla fronte, e faccio due passi indietro prima di lanciarmi su di lui con tutti i miei 130 chili. Sono un'immagine terrificante, quando carico così come un rinoceronte, e M si lascia sfuggire uno sguardo di terrore. Come un cacciatore di leoni cerca di tirarmi un pugno per fermarmi in cor-sa ma è in anticipo, e lo centro con la pancia e le spalle, colpendolo

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anche al petto con il braccio disteso prima che rotoli via e si avvicini l'arbitro per tenermi lontano. Mi tiene le braccia abbassate per evitare che io colpisca M che si sta lentamente rialzando; non che io abbia nessuna intenzione di farlo, ma mi godo il caldo e il ritmo del cuore più rapido e soffio via dal naso gocce di sudore. Mi chiamo Kimberly e tiro di boxe professionalmente da dodici anni, e ne avevo sedici quando ho abbandonato la scuola. I miei genitori stanno bene e sono entrambi giovani, ma non sono mai venuti a vedere uno dei miei incontri. Sette anni fa è morto mio nonno, lasciando in eredità a me, il suo nipote preferito, una considerevolmente grande e produttiva azien-da agricola, che ho provveduto a vendere immediatamente, e così mi sono liberato di qualsiasi problema di natura economica. Faccio pugilato da quando avevo undici anni, e già le spalle larghe di un uomo, ma non mi è mai piaciuto fare a botte. Amo la sfida, la prova di forza, solo se è ben regolata, sancita da leggi precise. E mi piace molto la musica, specie quella affilata e straziante dei violini del novecento, la vera voce degli angeli, perché gli angeli co-me noi soffrono. Intanto M si è alzato, ci giriamo intorno, qualche scambio che è più una specie di schermaglia. Non perdo un incontro da quasi un anno, il mio record personale (e non solo), e mi viene in mente una cosa che mi ha detto una volta il mio allenatore: chi non vince, perde (geniale e fulminea riformulazione del principio del terzo escluso). M in qualche modo riesce a colpirmi alle costole, come cazzo ha fatto che gli tenevo praticamente una mano in faccia, è più veloce di quanto non sembri, e ora tocca a me andare giù per qualche secon-do. Il primo round sta per finire e mi alzo con calma, a distanza di sicurezza, riprendiamo con meno energia per far scorrere il crono-metro. Quando suona la campanella vado a sedermi cercando di respirare dal naso. Mi asciugano e mi tamponano la fronte, dove ho preso il primo pugno, ma non mi sono tagliato, è stato un colpo veloce ma

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poco efficace. Ho un po' di nausea, in compenso, ma oggi a colazio-ne avevo molta fame, che è strano perché di solito d'estate mi passa l'appetito, e avrò mangiato troppe uova. Non sto molto attento alla dieta, rispetto ad altri professionisti che ci badano molto. Ne conosco persino uno, si chiamava Buck, atleta splendido, molto costante negli allenamenti, che mangiava sempre tre volte al giorno, su consiglio di non so quale esperto (o probabilmente di sua nonna), mattina mezzogiorno e tardo pomeriggio. L'orario del pasto serale era variabile, ma sempre almeno tre ore prima di andare a letto, con gli altri invece era rigidissimo. Beh, sta di fatto che arriva in semifinale al torneo di S. e vince. Arriva a casa dalla sua ragazza diciannovenne, le dice, tesoro, ho vinto, poi va a letto. Il giorno dopo gli comunicano che la finale sarà fra tre giorni alle 12. 30. Ma io a quell'ora pranzo, risponde Buck al telefo-no. Possiamo organizzarle un rinfresco per quando l'incontro è finito, gli rispondono, e riattaccano. E ovviamente non ci andò alla finale, e cosi perse il torneo di S. , che è uno dei più importanti per la boxe qui. A me mangiare piace, e poi gran parte della mia forza brutale sta proprio nel peso. Hai un fisico portentoso, mi diceva mio nonno quando lo portavo in braccio dal divano alla camera da letto. E' vero. Sono alto sei piedi e mezzo, e peso 130 chili, forse l'ho già detto. Quando sei sul ring una strana selezione percettiva opera sui tuoi sensi. Il fragore del pubblico diventa silenzio, rumore di fondo indi-stinguibile ed indivisibile, l'abitudine si tara rapidissima su questo frastuono altrimenti intollerabile per mantenere la concentrazione sullo scontro, di modo che qualunque atleta riesce senza difficoltà a sentire il rumore dei colpi sulla pelle, il ritmo del cuore e persino il respiro dell'avversario. Un simile filtro viene applicato alla valanga di luci e colori che provengono dagli spalti. Eppure questo filtro, come tutti i meccanismi umani, è in teoria efficacissimo, ma in pratica imperfetto. Così come fotogrammi montati su di una pellicola estranea capita a volte di incappare in suoni ed immagini isolati sfuggiti alla radicale

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selezione dei sensi. E spesso, contrariamente a quanto la cinemato-grafia ci porta a credere, immagini e suoni che ci colpiscono non sono correlati spazialmente né temporalmente. È appunto questo che mi capita, mentre torno sul ring per il secondo round, e cioè che l'immagine di un ragazzino che stappa una lattina di coca cola accompagnata da un suono acuto, probabilmente di una trombetta o di un clacson, mi raggiungono come un velo di atomi in moto. Avevo probabilmente otto o nove anni, un fatto che all'epoca mi aveva preoccupato non poco ma di cui, col tempo, mi sono com-pletamente dimenticato. Con i miei amici facevamo un giro per la città di P, dove sono nato e cresciuto. Eravamo andati in bici fino al bar per comprare una bibita con due soldi per aver fatto non ricordo quale lavoretto domestico, probabilmente per il signor T. Per strada, mentre ci bevevamo la nostra coca cola, immagino che ci facesse sentire più grandi, avevamo incrociato un musicista che suonava la tromba in piedi dietro una custodia aperta in un angolo della piazza. Mi ero avvicinato e avevo buttato il resto della mia bibita, non ricor-do proprio quanti soldi fossero, nella custodia, poi gli avevo chiesto di suonarmi la Pantera Rosa, fischiettandogliela nel caso non avesse capito a che brano facevo riferimento. Lui aveva lentamente allontanato il bocchino dalla tromba (era uno strumento argentato e un po' opaco) e, senza nessun preavviso, quasi senza smettere di suonare, mi aveva sputato in faccia. Il suo catarro mi si era impastato sui capelli e sugli occhi, era denso come moccolo. I miei amici erano corsi via e io, piangendo e asciugandomi la faccia, mi affrettai a raggiungerli, inseguito dalle note tremolanti del trom-bettista. Così più o meno era andata. Suona la campanella e l'incontro riprende. Adesso sì che sento il sangue che spinge nei polsi e sono lucido, sono tutto nel primo pu-gno che colpisce M al costato come un fulmine che si abbatte sulla terra desolata di un deserto dell'Africa. M resta in piedi e io lo incal-zo, schiacciandolo sulle corde, finché mi cade addosso stringendomi in clinch, e ora posso sentire la forza che ci scorre attraverso come

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elettricità, e checché ne possiate dire voi tutti non è odio, non è rabbia che ci spinge, solo pura e sacra forza. Dopo qualche istante riesco a sganciarmi: se fossimo in un film questa sarebbe una scena al rallentatore. Una lacrima nera di sudore si stacca dalla pelle lucida della sua fronte e diventa subito trasparente, prima di incontrare la mia mano blu nel guantone. M distende le palpebre, la luce gli entra negli occhi a scintille, ma non siamo in un film, e il mio gancio lo centra sotto il mento con tutti i chili che la spalla gli tira dietro come un sacco di pietre, scaraventandolo a terra dove resta mezzo spro-fondato. Ho vinto prima ancora che inizi il countdown. Poi l'arbitro mi alza la mano, diffidente, controllando a stento il pu-gno che ora scaglio nello stomaco di Dio.

ANDREA COZZARINI Liceo “Leopardi Majorana” di Pordenone

(Racconto terzo classificato)

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“Occhi di vetro” I limiti sono ricchezze

"Marina è scema!" disse la piccola Letizia alla maestra. Quest'ultima la fulminò con lo sguardo e le disse sottovoce: "Non dire queste cose. Marina è malata!". Letizia annuì intimorita dal tono severo della maestra, ma dentro di sé pensava:"Che vuol dire? Che malattia è mai questa?". Questi stessi dubbi tormentavano giorno e notte i genitori di Marina. Essi pregavano un'infinità di neurologi e psichiatri affinché curassero la loro bambina ma, dopo vani tentativi, si ritro-vavano costretti a pronunciare una frase che ormai li affliggeva an-che nei sogni: "Mi dispiace, per vostra figlia non c'è speranza". Lo stato di Marina era simile a quello di un vegetale: non parlava, non giocava, i suoi movimenti erano meccanici e per lo più indotti dai genitori e soprattutto pareva non avere emozioni. L'espressione del suo viso era impassibile, non c'era nulla che potesse indurla a ridere, a piangere o ad adirarsi. Dopo qualche tempo il padre era riuscito a trovare un neurologo, famoso per l'umanità che mostrava verso i suoi pazienti, che la seguisse. Un giorno la maestra di educazione fisica portò i bambini in palestra per farli giocare con alcuni attrezzi: alcuni si rincorrevano, altri giocavano con la palla e altri ancora con i nastri che la maestra aveva portato. Marina era immobile, il suo sguardo era perso nel vuoto. La maestra di sostegno sospirò, prese un paio di nastri e li mise nelle mani della piccola. il suo sguardo si perse a osservare i bambini che correvano e giocavano felici. . . le si stringeva il cuore, avrebbe voluto che anche Marina fosse parte di tutto questo. Mentre era immersa in simili pensieri si accorse di aver dimenticato di pensare alla bambina, così si voltò verso di lei. . . il suo cuore smise di battere. Una delle bambine che giocavano con i nastri volse per caso lo sguardo nella stessa direzione della maestra di sostegno e, dopo aver spalancato gli occhi e le labbra in un enor-me sorriso, esclamò: "Guardate Marina!". Tutti si voltarono e rima-sero esterrefatti. Marina stava danzando armoniosamente, accom-

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pagnando i suoi movimenti a quei nastri. Alla maestra di educazione fisica parve di vedere il talento delle più famose ginnaste, riteneva impossibile che una bambina potesse raggiungere il loro livello, an-cora più impossibile che potesse riuscirci Marina. " È un genio" sus-surrò nel meravigliato silenzio generale. La notizia arrivò presto ai genitori della piccola che la condussero, pieni di entusiasmo, da un maestro. Quest’ultimo, dopo averla vista danzare: "È un genio - disse tra i denti - sarebbe un onore per me insegnarle a danzare, ma cer-tamente avrò molto più da imparare io da lei". Così ebbero inizio le lezioni, ma subito si presentò un'enorme difficoltà. Marina non po-teva capire le parole del suo maestro. "Ha un grande talento - diceva l'uomo ai genitori - ma non c'è modo di comunicare con lei. Mi di-spiace, ma un talento non può avere successo se non viene indirizza-to". I genitori, dopo aver riflettuto per qualche istante, decisero di chiedere aiuto al neurologo. "Un genio della ginnastica ritmica?!" esclamò il dottore pieno di gioia. "Sì - rispose la madre - se lei vedes-se come si muove col nastro. . . ". "Ma c'è un problema - riprese il padre - vede, noi abbiamo portato Marina da un maestro, anch'egli è convinto che abbia grandi potenzialità, ma se non può esserle im-partito alcun insegnamento è del tutto inutile". Il sorriso del neuro-logo si spense. "Giusto. . . " disse sospirando. Ci fu un lungo attimo di silenzio. "Posso vederla danzare?" chiese. La madre prese la bam-bina, le diede i nastri e mise la musica. Il neurologo si commosse guardandola e, per riflesso, si commossero anche i genitori. Al ter-mine della musica il dottore, sorridendo, disse:" Vorrei parlare con il suo maestro". Fu fissato un incontro. Mi ascolti - disse il neurologo - Marina non è in grado di percepire il mondo intorno a sé, non sa distinguere una tenda da una penna, ma per quanto riguarda la mu-sica è in grado di associare ad ogni singola nota il movimento più perfetto e armonico del corpo, e riesce a farlo in un tempo brevissi-mo, anzi, sul momento!". "È vero, - disse il maestro - ma è una bam-bina. Se non riceve un insegnamento è destinata a rimanere un dia-mante grezzo per sempre. Non possiamo permetterlo!". "Per questo ho avuto un'idea - disse il neurologo -. La danza è l'unico modo che

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la bambina ha per comunicare, ad ogni suono corrisponde un mo-vimento. . . la musica è la sua lingua. Dobbiamo studiarla con atten-zione, dobbiamo riuscire a farle esprimere i suoi pensieri e, dopo averli codificati, darle una risposta". Il maestro accolse l'idea del neurologo e, insieme, incominciarono a lavorare al loro progetto. Trascorsero diverse notti insonni nel tentativo di comprendere il linguaggio della piccola, solo dopo anni di studio e di speranza riu-scirono a decifrare i movimenti di Marina e, finalmente, a parlare con lei. Fu emozionante per il maestro poter impostare una coreo-grafia, conoscere l'opinione di Marina e costruire insieme qualcosa di meraviglioso. Passarono altri armi durante i quali la ragazza di-venne famosa negli ambienti della ginnastica ritmica col nome "Oc-chi di vetro" per quel suo sguardo indifferente e perché il vetro e-sprimeva la grazia e la delicatezza dei suoi movimenti. Quando ebbe compiuto diciotto anni, il maestro le fece sostenere una gara di livel-lo internazionale. Marina superò ogni prova con successo, lasciando a bocca aperta giudici e pubblico. Dopo innumerevoli gare, arrivò la finale. Marina avrebbe dovuto gareggiare contro una ragazza. - Ro-salie, figlia di una famosa ex ginnasta. Ella affiancò alle sue potenzia-lità le migliori scuole, divenendo in poco tempo un fenomeno. Gli allenamenti di Marina divennero più intensi. "Io non so se vincerai - cercava di dirle il maestro - ma una cosa è certa: dobbiamo metter-cela tutta". La ragazza sembrava altrettanto determinata, infatti si impegnava a fondo e non cedeva mai alla stanchezza. Anche l'istrut-tore di Rosalie, famoso ginnasta e intimo amico di sua madre, pare-va preoccupato. "Questa "Occhi di vetro" è un'avversaria temibile - diceva all'allieva - stavolta potresti non vincere". Al sentire queste parole Rosalie raddoppiava il suo impegno, aveva visto le esibizioni di Marina e aveva molta paura. Arrivò il fatidico giorno della finale. “Non è giusto - diceva fra sé Rosalie - io ho dedicato la mia vita a questo sport e adesso una ritardata vuole portarmi via la mia meda-glia d'oro. . . io merito di vincere". Mentre pensava a queste cose, scorse con lo sguardo Marina che, sola in una stanza, provava la sua coreografia. Ella entrò e in un angolo vide un bastone. Lo prese e

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colpì Occhi di vetro alle caviglie. La ragazza non espresse neanche un gemito di dolore, non sapeva farlo. "Mi dispiace - disse Rosalie - ma per me è troppo importante". Ripose il bastone dov'era prima e scappò via. Qualche minuto dopo si ritrovò dinnanzi a un numeroso pubblico e dei giudici particolarmente severi, ma non aveva più pau-ra. Alla fine dell'esibizione si guadagnò l’applauso del pubblico e dei giudici. Poi fu la volta di Marina. Mentre si avviava sul palco il mae-stro notò che camminava in modo strano. Si confrontò col neurolo-go e i genitori. "Sarà caduta, e non ce ne siamo accorti!" esclamò la madre disperata. "Pare che abbia dolore alle caviglie - commentò il neurologo - è un dolore troppo specifico, non riesco a capire come possa esserselo provocato. . . ". Marina salì sul palco, partì la musica e incominciò a danzare. Si sforzava molto, ma i suoi movimenti era-no resi mediocri dal dolore! giudici rimasero sorpresi. Il maestro cercò il suo sguardo e, quando lo incontrò, le rivolse tacitamente una domanda: "Cosa devo fare?". Marina tentò di eseguire un mo-vimento che il maestro aveva visto migliaia di volte, e significava:"Di nuovo". L'uomo comprese al volo, si precipitò verso coloro che suo-navano e, dopo aver spiegato la teoria del dolore alle caviglie, pregò loro e i giudici di far ripartire la musica da capo. La musica ripartì, e la ragazza danzò seguendo una coreografia completamente diversa da quella di prima, che prevedeva movimenti armonici e perfetta-mente in accordo alla musica e al suo dolore. In quei passi non vi era nulla di convenzionale, erano puro istinto, sentimento, quello spet-tacolo era. . . perfetto. Il maestro si commosse. Alla fine dell'esibi-zione i giudici furono i primi ad alzarsi in piedi e ad applaudire. Giun-se quindi il momento della premiazione e i giudici dichiararono che il talento e le capacità artistiche di Marina fossero degne della meda-glia d'oro. Rosalie scaraventò la sua medaglia d'argento e, in preda all'ira, urlò: "Non è giusto'. Occhi di vetro non merita la medaglia d'oro, lei non sa nemmeno cosa sia una medaglia! Non ha delle emozioni per poter godere della vittoria, non ha un'anima! È solo un robot!". Piombò il silenzio in quell'enorme stanza. L'istruttore di Rosalie si avvicinò a lei e, con tono severo, disse: "Mi hai deluso,

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Rosalie. Credevo di averti insegnato a riconoscere il valore, il vero valore, dei tuoi avversari. E invece. . . e così pensi che Occhi di vetro non abbia un'anima?'". Sorrise ironicamente e si avvicinò a Marina. Una volta arrivato davanti a lei, guardando i suoi occhi, continuò: "Ti ho vista mentre la colpivi alle caviglie, Rosalie. Stavo per denunciare l'accaduto, ma poi mi sono imbattuto nel suo sguardo. . . ero sicuro che sarebbe riuscita a fartela pagare molto più di quanto potevo fare io. Cosa credi? Che i sentimenti possano esprimersi unicamente con le parole o con le espressioni del viso?". Ancora una volta sorri-se con ironia. "Ogni volta che dirigeva lo sguardo verso di te i suoi movimenti erano violenti e pieni d'ira. Quando guardava il suo maestro si muoveva con classe, mentre per i suoi genitori e per il neurologo ha riservato grazia, delicatezza, e guardarla era come sentire il sapore di una lacrima. Occhi di vetro, se solo sapessero quanto sono miseri e sfortunati coloro che non riescono a vederti. . . ". Ci fu ancora un attimo di silenzio, poi il pubblico esplose in un commosso e vigoroso applauso. Marina era felice e piena di gratitu-dine per ciò che stava vivendo, e adesso lo sapevano anche gli altri.

FEDERICO BEAN I.P.S.I.A. “Mons.D’Alessi” di Portogruaro(VE)

(Racconto segnalato)

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“Pochi momenti come questo belli”

Un’immensa distesa di sabbia, confusa in lontananza con uno squar-cio di cielo. Poi un ghiacciaio, nessun essere vivente, nessun movimento. Solitudine. A tanto lo avevano spinto le note chiare di una sinfonia di Chopin, compositore che preferiva a qualsiasi cantante commerciale per cui le sue costose cuffie erano state pensate. Non udiva le parole dell’allenatore, per quanto cariche di energia e ambizione: «tene-mos que ganar jugando bien. . . ». Le solite frasi di circostanza che ormai era abituato a sentirsi dire da molti anni. Un contatto inatteso. Forse un compagno lo aveva urtato involonta-riamente o forse qualcuno cercava di incoraggiarlo. Si risvegliò quin-di da quella piacevole sensazione di torpore nella quale si era immerso e affiorò in lui un’incontenibile tensione, che tentò di sfo-gare tormentando con i denti le unghie. Osservava asfittico il muro bianco di fronte a lui, ma non riuscì che ad anelare alla dimensione utopica raggiunta in precedenza dalla sua mente. Aveva ormai superato le quattrocento presenze nella massima divi-sione spagnola, aveva già infranto molti record, personali e di squa-dra, ma non gli era possibile sottrarsi a quelle sensazioni, bollate dagli psicologi con l’insignificante etichetta di «ansia da prestazio-ne». A lui sembrava di trovarsi nella condizione dello studente in attesa di affrontare un difficile esame, conscio per altro che non sarebbe stato l’ultimo. A ciò si aggiungeva il fatto di essere osserva-to da migliaia di spettatori: subire i rimproveri da parte di un profes-sore pedante era molto più facile che sottoporsi allo scherno di mi-gliaia di tifosi, pronti a rimarcare qualsiasi passo falso. Per non parla-re dei giornalisti, cosi bravi a incensarlo e poco dopo a stroncarlo, come se fosse una pellicola cinematografica e non un essere umano. Del resto, molti si sono chiesti e continuano a chiedersi se in realtà sia un marziano e lui dava il merito (o la colpa) a una sorta di «buon demone» che gli permetteva quelle giocate meravigliose.

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Era animato da emozioni contrastanti e da sensazioni per lo più sgradevoli, eppure questo era ciò per cui valeva la pena vivere. Poco contava che la partita si giocasse in uno stadio di quella grandezza o che calpestasse i fangosi campetti di periferia: era nato per giocare e ogni giorno ringraziava il Cielo per quella possibilità unica. Conser-vava ancora nella sua magione gli scarpini regalati dalla madre, che per lui aveva fatto molti sacrifici. Li aveva posti in una teca, pur lon-tana da sguardi indiscreti, per ricordare a se stesso da dove veniva e per non perdere mai l’umiltà che gli aveva permesso di raggiungere vette così alte. Due colpi alla porta annunciavano l’imminente inizio della partita. Un assordante silenzio invase lo spogliatoio, che proruppe poi in un boato di incoraggiamento. Qualche frettolosa stretta di mano, con-sigli dell’ultimo minuto e poi l’ingresso in campo. Miedo scenico. Cuffia, occhialini, costume preso per l’occasione, infradito, pesante accappatoio, scarno beauty case. Preparò la borsa all’ultimo minuto, subito dopo essere tornata dalle lezioni pomeridiane, con il timore di poter dimenticare qualcosa. La gara era prevista per le 19. 00. La piscina distava quaranta chilometri da casa e l’autobus avrebbe im-piegato circa un’ora. Scese le scale di corsa, dovette risalirle per prendere la borsa. Trovò un posto a sedere, ma lo cedette quasi subito a un’anziana signora che faticava a reggersi in piedi. Giunta a metà del tragitto, l’autobus si svuotò e rimase quasi da sola. Si posizionò nell’ultima fila, l’unica ad essere climatizzata: corse l’alea di spostare una boc-chetta dell’aria e una goccia d’acqua rigò il suo volto, quasi fosse una lacrima. Per distrarsi prese dalla tasca sinistra gli auricolari con-sunti con i sottili fili in evidenza. Il cellulare con il jack poco funzio-nante trasmise, prima attraverso gli altoparlanti e poi finalmente dalle cuffiette, l’ultima hit di Ariana Grande. Scandiva mentalmente ogni nota con una bracciata, fingendo che la musica fosse una corda in grado di trainarla al traguardo. Tuttavia, nel momento in cui le sue logore scarpe da ginnastica toccarono il suolo del marciapiede, senti tutto il peso della forza di gravità.

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Valicò l’uscio della palestra che le era così familiare, ma vedendo le scalinate piene - senza dubbio genitori - si sentì per un attimo estra-nea a quel contesto. Entrò nel piccolo spogliatoio che doveva condi-videre con le compagne di nuoto, già in vasca per compiere gli eser-cizi di riscaldamento. Si cambiò in fretta, interrotta solo dall’inaspettato squillo del cellulare: impegni inderogabili, sua ma-dre non avrebbe assistito alla gara. Non era una notizia del tutto negativa, perché credeva che la tensione si sarebbe in tal modo al-lentata, ma l’assenza creava un contrasto con chi invece era presen-te. Un blando augurio da parte dell’allenatore, entrato nella stanza solo per andare in bagno, le ricordò quanto lei non fosse la favorita, mentre le urla un po’esagerata degli altri genitori le suscitarono un sorriso sardonico. L’acqua gelida della doccia fece germogliare in lei una certa inquie-tudine, tanto più perché le altre nuotatrici sembravano veloci come della barche a motore. Riuscì a fare appena qualche esercizio di stre-tching e un paio di vasche, quando l’inequivocabile richiamo del giudice la costrinse a uscire dalla piscina. Ricevo palla, scarto un uomo, un secondo, ma ne arriva un altro e la perdo, sì la perdo proprio al limite dell’area, dove - mi dicono - sono letale, ma la perdo e loro ripartono, ripartono velocissimi, è quello il loro stile di gioco, difendere e ripartire, e lo fanno bene, benissimo, creano un grande pericolo, per poco non segnano, il mister urla, «Despertar!», rivolto a me e oggi non ne faccio una giusta, è già il settantesimo e siamo sotto e per poco non chiudevano la partita col contropiede, ma ci è andata bene e speriamo di recuperarla, però se il demone non arriva non c’è niente da fare e a volte sparisce il demone e i tifosi fischiano e i giornalai mi danno del finito, al capo-linea, bollito, eppure so che se in qualche modo mi sblocco la partita la vinciamo e il campionato è nostro, in tasca praticamente, ed ecco che mi arriva palla di nuovo. Le altre si sono già tuffate ed io penso ancora al riflesso del pubblico sull’acqua, quei genitori che prima mi facevano ridere e adesso sarò io a far ridere loro, perché le altre sono già avanti e il trofeo in

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memoria del ragazzo morto non passerà mai in mano mia, ma lo sapevo già dall’inizio, però potrei anche fare a meno di bloccarmi ogni volta sulla pedana e buttarmi quando le altre hanno già finito la gara e, quindi, stavolta mi butto e prontamente annaspo come un gatto, perché i gatti non sanno nuotare, provo a muovere bene le gambe, lo faccio sempre in allenamento, lo dice anche l’allenatore, quello che ha puntato tutto su un’altra non su di me, ma stavolta le gambe vanno dove vogliono loro e quindi sono dietro a tutte e i primi cinquanta metri la prima li ha fatti da un po’ed io l’altro bordo non l’ho mica toccato ancora e chissà quando lo toccherò se le gam-be non vanno come voglio io, e non è lo stile, la tecnica, il fiato, la determinazione, l’ambizione, la voglia, sono proprio le gambe, ma anche le braccia, che non sono mai decise, non fendono l’acqua come fossero dei remi, la sfiorano appena l’acqua e l’acqua mi sal-tella davanti come fa quando una bambina getta una pietra sullo stagno ed io sembro essere di marmo, la gravità mi schiaccia, la spinta di Archimede non esiste, sembrò naufragare. È entrato in lui. Un uomo. Due uomini. Tunnel. Sinistro da cineteca. 1 a 1. Il pubblico si rianima. Compagni festanti. È imprendibile. Punizione. Fuori di un soffio. E poi trovò il suo ritmo. Non un ritmo da campionessa, ma era il suo. Bracciate più veloci delle fanfare militari. Recupero inesorabile: dall’ultimo al primo posto. Mancano solo cinquanta metri sui quat-trocento totali. Ma poi arriva un crampo. Implacabile. Colpisce il polpaccio sinistro. Scosse arrivano alla testa. La seconda recupera. Ma lei tiene duro, si sforza, arriva allo stremo. La spinta non è più quella della fanfara, ma di un contrabbasso diretto da Morricone. Negli ultimi dieci metri il sorpasso, eppure riesce a strappare un insperato secondo posto. Mancano due minuti. Il difensore tenta di aggrapparsi alla sua maglietta. Un altro interviene duramente sulla tibia. Sta in piedi però. Corre verso la porta e neppure un proiettile potrebbe fermar-lo. Movimento consueto da destra verso sinistra.

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Fulmineo. La difesa ultima vana, caduta. Il portiere non può nulla, la faccia a terra a non veder l’amara luce. Urla. Folla in delirio. Prese al volo l’ultimo autobus per tornare a casa e tentò di confon-dere il rumore del motore con i suoi auricolari. Applicò del ghiaccio istantaneo sulla gamba malconcia, avvertendo subito un piacevole sollievo. Scese appoggiandosi alla porta e. per un momento avvertì nuovamente la fitta di dolore, che per fortuna non continuò a lungo. A fatica, sostenendosi sul poggiamano, giunse all’uscio di casa e suonò il campanello. «Come è andata la gara? A scuola tutto bene?». Qualche altra domanda risolta sbrigativamente. Non aveva voglia di parlare con la madre. Giunse in salotto e dalla tv giungeva la voce squillante di un commentatore. «Resiste alla carica del difensore. Numero! Va verso la fascia. Ma attenzione! Si accentra improvvisamente. Sinistro a giro. Rete!!! Incredibile! Proprio lui! 2 a 1. Alla fine. Non poteva che andare così, perché ci ha abituato a cose impossibili!». Il giorno successivo i giornali nazionali e internazionali titolavano: “El dios del futbol gana de nuevo”, “Immer entscheidend”, “Magic in the end”, “Encore le phénomène”, “Estasi finale”. Della competizio-ne in onore del ragazzo morto, solo poche righe nella diciottesima pagina di un giornale locale. Nessuna menzione a lei, ma solo la grande soddisfazione di aver superato i suoi limiti.

MARIA ELENA ALBERTI Liceo Classico Europeo“Bernardino Telesio”

Cosenza (Racconto segnalato)

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CONCORSO DI SCRITTURA CREATIVA “SCENDINCAMPO: RACCONTARE DI SPORT” - 2017 - XII edizione

REGOLAMENTO

Possono partecipare al concorso tutti gli studenti regolarmente iscritti per l’a.s. 2016-2017 a scuolesecondarie di 2° grado, presenti sul territorio nazionale. Ogni studente può partecipare con un solo testo, che deve essere inedito. I testi devono essere sviluppati in forma di racconto breve e avere come argomento centrale unevento sportivo o comunque una situazione connessa allo sport, di qualsiasi natura esso sia. Gli elaborati, redatti al computer e stampati su fogli A4, non devono superare la lunghez-za di10.000 battute, spazi inclusi. Il Liceo Leopardi - Majorana si riserva la possibilità di utilizzare i testi, che non saranno restituiti, peruna eventuale pubblicazione a stampa. A garanzia delle condizioni di riservatezza e trasparenza del concorso, nella busta con il raccontoandrà inserita un’altra busta più piccola e sigillata contenente nome, cognome, indirizzo, recapitotelefonico e scuola di appartenenza. All’esterno di questa busta, il parte-cipante al concorsoindicherà un motto scelto liberamente che riporterà accanto al titolo del racconto. Gli elaborati, in duplice copia, dovranno pervenire entro martedì 20 giugno 2017 al seguenteindirizzo:

Segreteria Concorso “Raccontare di sport” c/o Liceo Leopardi - Majorana

piazza Maestri del Lavoro, 2 - 33170 Pordenone

La premiazione avverrà nel mese di ottobre 2017. I vincitori del concorso saranno avver-titi, presso ilrecapito da loro indicato, mediante comunicazione scritta. Essi ritireranno personalmente il premioodaranno delega scritta ad un familiare o ad una persona di fidu-cia. La giuria, composta a cura del Comitato organizzatore, sarà formata da docenti e giorna-listi sportivie presieduta da Gianni Mura, giornalista di Repubblica. Il giudizio della giuria è insindacabile. Gli elaborati giudicati vincitori riceveranno rispettivamente i seguenti premi:

1° premio 1.500 euro 2° premio 1.000 euro 3° premio 500 euro

La partecipazione al concorso implica l’accettazione del presente Regolamento. IL CONCORSO È PROMOSSO DALLA FAMIGLIA LUTMAN PER RICORDARE IL FIGLIO PAOLO