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SALENTO ROCK. Andati via senza salutare

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"Salento rock. Andati via senza salutare" è un romanzo ambientato nella provincia salentina fra la seconda metà degli anni Ottanta e i primi Novanta. Le vicende narrate sono liberamente ispirate a fatti di cronaca e storie di vissuti che l'autrice ha raccolto dalla voce dei protagonisti e dei testimoni, integrando i propri ricordi di adolescente con minuziose ricerche sulla stampa dell’epoca. In quegli anni, Galatina è una cittadina sonnolenta che tenta di rinnegare con ambizioni borghesi il proprio scomodo passato contadino. L’alto tasso di disoccupazione, un asfissiante conformismo sociale, il rifiuto del modello genitoriale nutrono il profondo disagio di ragazzi che finiscono per diventare facili prede del consumo e traffico di droga, amministrato dalla malavita locale. Sono gli anni in cui il dilagare della tossicodipendenza da eroina e del contagio da Hiv assume le proporzioni di una piaga biblica, in grado di disgregare il tessuto sociale di un’intera generazione.

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equilibristi | 01

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FRANCESCA MALERBA

SALENTO ROCKAndati via senza salutare

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Edizioni KurumunySede legaleVia Palermo 13 – 73021 Calimera (Le)Sede operativaVia San Pantaleo 12 – 73020 Martignano (Le)Tel. e Fax 0832 801528www.kurumuny.it • [email protected]

ISBN 978-88-98773-47-3 © Edizioni Kurumuny – 2015

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«Forse il nostro destino è quello di morire dimenticati.»

Maurizio

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I fatti narrati ripercorrono in parte e liberamente la cronaca sa-lentina nel periodo compreso tra la fine degli anni Ottanta e laprima metà dei Novanta. La storia è stata costruita integrando i mieiricordi di adolescente con un’approfondita ricerca d’archivio suiquotidiani dell’epoca e sugli altri documenti indicati in bibliografia.I dialoghi con i testimoni hanno originato la tensione emotiva chemi ha guidato nella scrittura. I personaggi, pur ispirati dalla sugge-stione delle storie che ho ascoltato, sono frutto della mia fantasia. Inalcuni passaggi, la topografia del Salento, la cronologia e i dettaglidegli eventi di cronaca sono stati modificati per esigenze narrative.

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Prologo

Quando il Salento non era il paese dei balocchi,solo il mare ti poteva curare.

Adolescenti nati in un paradiso in periferia,troppo lontano dalle occasioni, dalla vita.

Espugnati dalla noia. Malinconia, paradosso.

Quando l’inquietudine non si placava, volava il rock.Lo stereo in macchina a tutto volume.

Correre controvento.Certi amici sparivano, non cantavano più con te.

Neanche la musica era bastata.I loro nomi sulle locandine dell’edicola.

Andati via, senza salutare.

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AntonioSiamo solo noi – Vasco Rossi

La stessa maledetta domanda tutti i giorni che Dio mettevain terra, da quando aveva finito la scuola: «E mo’ cce faci?1».

Trentasei all’istituto d’arte. «Mo’ cce fazzu?2».Alcuni suoi amici, con poca voglia di studiare, si erano

iscritti all’università: chi a Lecce, chi in una grande città comeRoma o Milano. Altri, a cui non interessava restare parcheg-giati in un ateneo, avevano cercato lavoro vicino casa. Si la-sciavano sfruttare per poche lire in bar o negozi. Quelli piùmotivati, decisi a guadagnarsi uno stipendio decente, emi-gravano a fare la stagione a Cortina o a Rimini.

Per Antonio, di lasciare il Salento non se ne parlava. Avevavisitato l’Italia e l’Europa con viaggi interrail: posti affasci-nanti, vivaci, pieni di storia e cultura. Ma un luogo come casasua non c’era. La terra rossa, gli ulivi nodosi, il cielo e il mareche di quell’azzurro non li trovi da nessuna parte. Il paesaggiomalinconico che ti stringe con la sua forza straziante. Nonavrebbe rinunciato mai a quella bellezza.

D’altra parte, Galatina significava un lavoro comune, unavita anonima. Dal lunedì al venerdì in ufficio, i giorni dispariin palestra. Il sabato e la domenica con gli amici, pizza o ci-

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1 Cosa farai ora?2 Cosa faccio ora?

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nema. Magari trovi una bella ragazza che ti fa scopare, incambio la devi accompagnare a far spese in periodo di saldi.Dopo qualche anno lei vuole sposarsi in chiesa, l’accontenti.Una domenica sì e una no vai a pranzo dai suoceri. Arrivanoi figli, ti svegli la notte, gli cambi il pannolino quando si ca-cano addosso. Crescono, spendi i soldi per la piscina e i libri.Diventi vecchio, non vedi l’ora di andare in pensione per go-derti la vita, e poi... poi niente, poi muori.

Antonio scrutava i suoi genitori, insieme da trent’anni.Non si guardavano più in faccia, eppure dicevano di esserefelici, di amarsi. Rispettavano tutti i loro riti. Nessun marginedi cambiamento per una vita standardizzata: se ti infilavibene nei suoi meccanismi, alla fine ci stavi pure comodo.

No, grazie. Nei viaggi Antonio aveva assaporato la li-bertà. Svegliarsi la mattina e non sapere dove andare, muo-versi a caso, seguendo l’istinto o un segnale piccolo cheindicava la direzione. Ubriacarsi, fumarsi le canne, farel’amore con le ragazze. Dormire dove capitava, sotto le stelle.Svegliarsi con la nausea e la schiena rotta, ma padrone di sestesso, appagato, onnipotente.

Sfortunatamente, in Salento, rompere gli schemi impo-neva una fatica tale da rinunciarvi. La gente modulava i pro-pri comportamenti pubblici in base alle chiacchiere del paese.Tutti si sentivano sotto un controllo globale. Le scelte possi-bili: adeguarsi al giudizio sociale oppure cercare di essere in-visibili. «Ce hanu dire li cristiani?!3».

I genitori di Antonio lo ripetevano anche riguardo alla suacondizione di nullafacente. Era per questa ipocrisia che nonrispondeva mai alla domanda. In verità, di programmi non

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3 Che deve dire la gente?

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ne aveva, anzi... Se avesse saputo prima di questa tortura, sisarebbe fatto bocciare ancora e ancora.

La sera incontrava gli amici al Popeye. Dopo mezzanotteandavano al mare, in discoteca, oppure in un pub a Lecce percontinuare a bere. Tornavano a Galatina poco prima del-l’alba, fumavano una canna dietro la chiesa di San Sebastianoe si salutavano. Antonio rincasava qualche minuto prima chesuonasse la sveglia dei suoi, si alzava dal letto quando lamadre rientrava dal lavoro. Trascorreva il resto del pomerig-gio in pigiama giocando al Nintendo. All’ora di cena, frescocome una rosa, cominciava la sua notte, uguale a quella pre-cedente e a quella prima ancora.

Quelle singolari abitudini costituivano comunque unaroutine. I salentini, giovani e vecchi, si sentono minacciatidalle variazioni di programma: anche cambiare in megliopuò essere preoccupante. Invece Antonio cominciava a stu-farsi. L’unico diversivo era trovare una bella moretta dispostaa farsi palpare e magari aprire le gambe nella Fiat Tipo di suopadre. Se stava fumato, le ragazze gli sembravano più carinee interessanti di quanto non fossero. E pure la vita.

Certi tipi che conosceva sniffavano eroina, e volle provare.Gli amici avevano obiettato che quella era roba forte, e co-stava. Antonio non li ascoltava. Il primo pippotto gli fece ve-nire la nausea. Corse nel bagno del Popeye con i conati divomito. Dopo pochi minuti quel nodo allo stomaco si sciolsee arrivò un piacere dolce. Un sonno ristoratore cosciente,senza sogni. Tabula rasa mentale.

Cominciarono a tirare il sabato sera, poi la domenica. Siconcedevano il pippotto del martedì e quello del venerdì, perpropiziare il fine settimana. A breve, presero a sniffare anche

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tre volte al giorno. Niente più nausea: era tutto godimento,pace, estasi.

L’eroina, però, era diventata economicamente impegna-tiva. Antonio si era sputtanato tutti i soldi che aveva messoda parte per la vacanza estiva. I suoi erano entrambi impie-gati statali, non poteva chiedere troppo; non senza incorrerenelle solite domande sui suoi programmi futuri, e nella noiosatiritera del «Non possiamo mantenerti a vita».

Alcuni si facevano in vena: con una quantità inferiore siotteneva un effetto uguale, se non più intenso. Certo, non erapratico. L’idea di infilarsi un ago nel braccio, con la paura cheaveva delle iniezioni sin da bambino, non lo entusiasmavaaffatto. Col passar del tempo, però, il bisogno di pippare erasempre più impellente, e i soldi scarseggiavano.

Si decise. Gli amici suoi, la prima volta, si erano fatti aiu-tare da qualcuno più esperto. Antonio volle bucarsi da solo,per sfida e per imparare. Versò il contenuto della fialetta nelcucchiaio su cui aveva posto la polverina bianca, attentissimoa non sprecarne neanche un granello. Scaldò con l’accendino;l’eroina si dissolse, aspirò con la siringa. Usò la cintura comelaccio emostatico. Le sue vene si vedevano bene, erano grossee prospicienti all’esterno sopra i muscoli, gli conferivano unaspetto molto virile. Infilò l’ago, l’area sotto il pistone si co-lorò di rosso scuro. Antonio spinse lentamente dentro. Arrivòun flash negli occhi e nella testa. Ogni angolo del suo corposi scaldò e cominciò a vibrare veloce, per lunghissimi minuti.Dopo giunse la pace, quella che già conosceva.

Farsi in vena era un godimento indescrivibile: mille voltemeglio dell’orgasmo migliore. Si maledisse per non aver co-minciato prima. Ma recuperò. Si faceva tutte le sere, con gliamici, anche se, dopo il flash, ognuno restava nel proprio

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mondo magico. Quella consuetudine quotidiana, la routine cheaveva sempre odiato, per la prima volta nella vita non lo infa-stidiva. Aspettava quel momento con ansia per tutto il giorno.

Una sera successe qualcosa di strano. Simone si era fattoprima degli altri. Lo sballo tardava. Erano ormai così espertida sapere quanto tempo dovesse passare prima di sentire ilflash. Simone divenne livido in viso, cominciò a tremareprima, poi a sussultare. Gli amici si chinarono su di lui percercare di fermarlo, ma i suoi scatti erano violenti, incontrol-labili. Gli uscì dalla bocca una bava schiumosa e bianca. An-tonio non si era ancora fatto. Erano dietro la chiesa di SanSebastiano. Ingranò la prima e corse all’impazzata lungo queitrecento metri che lo separavano dal Pronto Soccorso. Disseai medici di averlo trovato in quello stato.

– Fa uso di stupefacenti?– Non lo so... cioè... credo di sì.Antonio aveva pensato fosse overdose, ma l’infermiere gli

spiegò che i sintomi di un’assunzione eccessiva di eroinaerano ben diversi. Molto probabilmente, si trattava di drogatagliata con sostanze tossiche.

– Dovete stare attenti, ragazzi! – L’uomo aveva un’espres-sione seria, tradita dal volto dolce.

– Grazie delle spiegazioni, sì, ma io... non mi faccio. Cioèsolo qualche canna, ogni tanto, in compagnia, ma lo riferiròa Simone, non appena si... riprenderà. Perché si riprenderà,vero?

– Sì, si riprenderà, meno male che c’eri tu, che eri lucido.A volte questi ragazzi muoiono perché i loro amici sono instato di semi-incoscienza e non si accorgono del pericolo.Quando tornano in sé, trovano accanto il loro amico senzavita. È già successo. Ad ogni modo, io spero che Simone de-

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cida di uscire dalla droga. Ha rischiato di morire, deve la vitaa te. È questo che devi riferirgli!

Antonio lasciò le stanze del Pronto Soccorso, rimugi-nando: se anche lui si fosse già bucato, Simone sarebbe morto.Dove cazzo aveva preso quella roba di merda?

Simone l’aveva comprata a Lecce, perché costava menoche a Galatina. Al momento di preparare la siringa, la polve-rina bianca era risultata più refrattaria a sciogliersi nell’acquadistillata. Simone aveva aggiunto qualche goccia di succo dilimone, seguendo i suggerimenti di chi gliel’aveva venduta.

– È roba bruciata – spiegò Gaetano, un ragazzo qualcheanno più grande di loro – A volte ci mettono anche farina oborotalco, quei bastardi. Se ne fottono, perché a Lecce chispaccia non si fa. E ogni tanto qualcuno dae l’anima a Diu 4.

Noi la prendevamo da Brindisi o da Fasano, che è migliore.Ma adesso Mirella, hai capito chi?, quella che studia a Bari,ci ha detto che in città ti danno una dose a ventimila lire. Enon è tagliata, è bona propriu. Ci facevamo scendere un po’ diroba da lei, ma siccome non torna tutti i giorni, a volte an-diamo noi. Se vi interessa fatemi sapere.

L’appuntamento quotidiano era in piazza San Pietro alledue di pomeriggio. I ragazzi più grandi, che disponevanodell’auto, raccoglievano i desiderata e partivano alla volta diBari, quartiere Japigia. Pagavano, si rifornivano, tornavanoindietro: tre ore o poco più. Già verso le cinque si raduna-vano i primi membri del gruppo d’acquisto, in ansiosa attesa.Era un servizio che avevano cominciato a fare i giovani pa-tentati di famiglie meno abbienti per i borghesi. Andando aBari con un ordine ragguardevole, riuscivano a spuntare un

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4 Rende l’anima a Dio [muore].

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buon prezzo, e dosi in più da trattenere per sé. In seguito, lavoce si era sparsa. Tutti i tossici di Galatina, dai disgraziatiche scippavano le catenine alle vecchie, ai ricchi che vivevanonelle ville del centro storico con gli stemmi nobiliari, anda-vano all’appuntamento delle due con la lista della spesa e icontanti per il pagamento.

Il nuovo canale di distribuzione funzionò alla grande,fino a quando la notizia giunse ai mafiosi locali. Non la pre-sero bene. In primis diedero una lezione memorabile ai cor-rieri di turno. Un pomeriggio, i due ragazzi di ritorno da Barifurono fermati sulla via di Lecce e pestati a sangue. Pocodopo, la malavita tutelò il proprio mercato, abbassando ilprezzo di vendita dell’eroina anche a Galatina.

Nonostante il pericolo delle mazzate, qualcuno continuavaa rifornirsi a Bari. I palati più raffinati notavano anche piccoledifferenze: la roba di Bari era pura, l’effetto durava a lungo.Antonio chiedeva in prestito al padre la Fiat Tipo, un paio dipomeriggi a settimana. Nel quartiere Japigia compravano unquantitativo di eroina che sarebbe bastato per qualchegiorno. Avendola a disposizione, però, si facevano più spessoe alla fine rimanevano senza, vanificando l’impresa e il ri-sparmio. Antonio se ne fregava; i problemi li avrebbe affron-tati man mano che si fossero presentati.

Il primo fu insignificante. La tipa con cui si era strusciato iprimi anni delle superiori – ne ricordava a malapena il nome –venne a sapere del suo vizietto e corse a fargli la predica: i ri-schi della tossicodipendenza, le malattie e blabla. Aveva stu-diato. Con tono accorato, al limite del patetico, concluse:

– Antonio, ma cosa ti manca? Sei bello, intelligente, pienod’iniziativa! Perché stai rinunciando alla vita?

Antonio si fermò un attimo a riflettere. La guardò. Se la

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ricordava nuda e accaldata, con quelle gambe lunghe e la vitastretta. Anche lei era bella e intelligente. Molto brava ascuola. Disegnava bene, lo dicevano anche i professori. Gliaveva regalato dei carboncini di nudi femminili, che raffigu-ravano lei stessa, forse; doveva averli ancora, da qualcheparte. A quattordici anni la ragazza diceva di voler diventareuna pittrice, ora faceva la commessa in un negozio di abbi-gliamento. Dieci ore, tutti i giorni. Anche di domenica, neiperiodi dei saldi e a Natale. Per quanto? Quattrocentomilalire al mese, forse cinquecento. Non aveva più tempo per di-segnare. Si era fidanzata con uno di Lecce, un laureato in fi-sica che lavorava come assistente per il suo professore.Antonio l’aveva visto: bassino, esile, con la schiena curva ele spalle rivoltate in avanti. Un viso da topo, i capelli corticon la scrima da una parte, e gli occhiali spessi. Certo un buonpartito: così giovane e già con un lavoro stabile. Se li imma-ginava scopare, ma scacciava il pensiero, disgustato. Lei conla pelle bianca e i capelli profumati, e quel rospo immondo.La fissò ancora, voluttuosamente, e le rispose:

– Sto rinunciando alla vita perché l’eroina è più interes-sante. Dovresti provarci anche tu...

La ragazza scosse il capo e se ne andò, lasciandolo con unsorriso beffardo stampato sul viso.

Non finì lì. Sabrina tornò a casa di Antonio ancora un paiodi volte, durante la pausa del turno al negozio, a ripetere lasolita solfa sulla droga. Lui non l’ascoltava, si domandavaperché non lo lasciasse in pace. Un giorno, osservando i suoiocchi infiammati, le gote rosse su quella pelle candida, l’abi-tino corto e aderente, capì cosa Sabrina volesse da lui. In si-lenzio si avvicinò. La voltò di spalle, le fece poggiare lebraccia sulla scrivania, le sollevò il vestito, mentre lei docil-

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mente lo assecondava. Antonio si slacciò i jeans. Era eccitato,ma notò che la sua erezione non era vigorosa. Forse perchéera passato molto tempo dall’ultima volta? La penetrò. Aogni spinta Antonio sentiva il suo sesso riprendere forza.Ascoltava i gemiti di Sabrina, sempre più acuti. Anche il suorespiro diventò veloce, fragoroso. L’orgasmo stava per arri-vare. Sabrina, con la voce rotta dal piacere, gli chiese di spo-starsi. Antonio uscì dal suo ventre e le fece colare sullaschiena quel liquido caldo dall’odore pungente.

Sabrina tornava da lui tutti i giorni, dopo la pausa pranzo.Lo trovava solo in casa, i suoi genitori lavoravano fino allecinque. Facevano l’amore in cameretta, come quando eranoquattordicenni. Per Sabrina era stato il primo fidanzato, poiAntonio l’aveva lasciata, e lei non se l’era mai scordato.Moro, alto, possente: Sabrina si sentiva protetta tra le bracciadi Antonio, lei così esile, indifesa. Non le importava nienteche si bucasse, bastava solo che non la lasciasse di nuovo.

Certi giorni Antonio non riusciva a raggiungere l’ere-zione. Allora spogliava Sabrina lentamente, la faceva disten-dere, le chiedeva di toccarsi. Lui restava in piedi accanto alletto, guardava l’espressione del suo viso contrarsi, seguivacon le dita l’arco della schiena e il suo corpo tutto, mentre vi-brava per l’orgasmo. Le carezzava la pelle bianca, delicatis-sima, si avvicinava a baciarle le labbra piccole e rosa,dischiuse. Quella ragazza gli piaceva davvero, perché mail’aveva lasciata? Antonio aveva ritrovato i suoi disegni. Queinudi in chiaroscuro di cinque anni prima, in cui si era auto-ritratta. Adesso Sabrina era più bella.

– Stai ancora cu dhru sorice?5

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5 Con quel sorcio?

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– Non lo chiamare così... Sì, ma non ci faccio niente. – ri-spose Sabrina, rivestendosi in fretta.

– E allora perché non lo lasci? Ti dà soldi?– Ma che dici?!– Allora lascialo. Ma non ti fa schifo? – Scusa Antonio, non avevi detto che tra noi non c’è niente

di serio? Che è solo sesso? – puntualizzò Sabrina.– Ho cambiato idea. Tu sei mia.Sabrina lasciò l’assistente di fisica. Quando non lavorava,

stava con il suo ragazzo. Tutte le notti lo vedeva prepararsila siringa, ma distoglieva lo sguardo quando Antonio si bu-cava il braccio. Restava distesa sul suo petto, in silenzio, pertutta la durata dell’effetto della droga. La odiava, perché perore portava il suo amore lontano da lei, chissà dove. Accet-tava l’eroina perché faceva parte di Antonio, e Sabrina amavatutto di lui.

Una notte, dopo aver fatto l’amore in auto, disse decisa:– Voglio farmi anch’io.– Ah, sì? Dammi quarantamila lire, allora.Sabrina aprì la borsetta e mise le banconote sul cruscotto.

Pensò che dovessero dividere tutto. Ed era gelosa dell’eroina,che il suo uomo provasse piacere senza di lei. Immaginò chesarebbe stato come avere l’orgasmo insieme, quella sensa-zione di condivisione massima. Antonio bucò il bracciobianco e delicato della sua ragazza, che aveva voltato la testaper non guardare. Infilò l’ago con cautela, schiacciò il pistonemolto lentamente per non farle sentire dolore. Disinfettò ilbuco con la sua saliva, poi preparò un’altra dose e con lastessa siringa si fece anche lui. Sabrina provò il flash che leparalizzò i pensieri, mentre il corpo volava sopra di lei. Sentìuna forza che la spingeva in alto. Poi, la pace. Si sistemò col

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capo sul torace forte del suo uomo, come faceva tutte le notti,e restò così a godersi la coda del suo primo buco.

Da quel giorno condivisero tutto. L’amore, il sesso, i soldi,la droga. Sabrina sentiva ogni volta molto energica la scaricadell’eroina; forse la dose normale era troppo per lei, cosìmagra e pallida. Gli effetti del buco le duravano per tutta lagiornata. Si sentiva debole, assonnata, al lavoro non smettevamai di sbadigliare. Le colleghe la prendevano in giro, le di-cevano che da quando aveva cambiato fidanzato, evidente-mente non dormiva più. Le strizzavano l’occhio: nonpotevano certo darle torto, visto il salto di qualità. Lei sorri-deva sempre, era orgogliosa del suo bell’Antonio. Ma non sisentiva bene. E per la verità facevano l’amore molto meno:lui non si eccitava e anche lei era più stanca. Ma non impor-tava, stavano insieme e Sabrina era felice.

D’estate, Antonio l’andava a prendere all’una, quandochiudeva il negozio, e la portava al mare. Si stendevano al-l’ombra, sul tappeto di aghi di pino di Porto Selvaggio, ip-notizzati dal canto delle cicale, baciandosi di tanto in tanto,accarezzandosi sotto i vestiti. Sabrina era innamorata perdu-tamente. Anche Antonio si sentiva coinvolto. Quella sirenadelicata gli aveva fatto un incantesimo: calmava la sua in-quietudine, addolciva il suo cinismo. Quando Sabrina era allavoro, Antonio sentiva un languore nella pancia. La deside-rava sempre accanto, anche senza guardarsi, in silenzio.Come in quel momento, in pineta, respirando l’odore dellaresina mischiato al profumo dolce della sua pelle. Quel po-meriggio di luglio avevano fatto l’amore. Sabrina aveva dan-zato piano su di lui. Con gli occhi fissi sul suo ragazzo apercepirne le sensazioni tramite l’espressione del volto, re-golando la velocità dei fianchi sul ritmo del respiro di Anto-

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nio. L’orgasmo arrivò per entrambi, gemettero insieme. «Tiamo», sospirò. «Ti amo», ripetè Antonio. Sabrina lacrimava,per la pienezza del piacere e per l’emozione di quelle due pa-role sussurrate per la prima volta.

Rimasero abbracciati in silenzio, poi Antonio preparò laspada. Come ogni volta, baciò delicatamente il punto del-l’avambraccio di Sabrina da cui, quando estraeva l’ago, zam-pillava qualche goccia rosso chiaro. Si fece senza sciacquarela siringa, gli piaceva l’idea di iniettarsi l’eroina mischiata alsangue della sua donna. Unione di due passioni.

Cullati dal piacere e dal canto delle cicale, si addormen-tarono. Al risveglio, Sabrina guardò l’orologio. Erano le cin-que: tardissimo, al negozio si sarebbero infuriati. ScosseAntonio per svegliarlo, ma il ragazzo non reagiva. Esitò unattimo, poi lo scosse più forte, e ancora più forte. Le lacrimele annebbiarono la vista. Si chinò su di lui, l’orecchio sulpetto. Non era possibile. Urlò con tutto il fiato che aveva incorpo. Ripeteva il suo nome tra i singhiozzi.

Doveva chiedere aiuto, ma era un giorno feriale: la baia eradeserta. Si rivestì alla meglio e cominciò a correre in salita,nella pineta. I sassi le ferivano i piedi, gli arbusti le scortica-vano le gambe. Nessun dolore. Sabrina non sentiva che il suocuore sussultare all’impazzata. Respirava a bocca aperta e nonfermava la sua corsa. Arrivò in strada. Si guardò intorno. Solola macchina di Antonio sullo sterrato. Le case dei villeggiantierano a Santa Caterina, troppo lontane. La discoteca ancorachiusa. Nessuno. Si era messa in mezzo alla carreggiata perbloccare le poche auto di passaggio. Gli automobilisti avevanosuonato furiosamente. L’avevano evitata senza fermarsi.

Tornò indietro. In pineta, ancora di corsa. Era pentita.Non avrebbe dovuto lasciarlo solo tutto quel tempo. Si di-

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stese accanto a lui, il viso sul petto di Antonio, in quella po-sizione che le era tanto cara. Pensò che sarebbe morta, chesarebbero morti insieme. Quell’idea la rasserenò. Respiròprofondamente e si addormentò di nuovo abbracciata al suoamore.

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Galatina Rock Citydi Alessandra Avantaggiato

Tra la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta, Galatinanon è davvero un paese per giovani. Del tutto inconsapevoledel boom che di lì a poco farà del Salento una cartolina pati-nata per turisti, questo piccolo paradiso di periferia è tuttopreso dallo sforzo di darsi una lucidata di rispettabilità, rin-negando a ogni costo il proprio scomodo, povero passatocontadino. Così si finisce per perdere la propria anima; o cosìla pensa Antonio – uno come tanti, senz’arte né parte, insof-ferente alla prospettiva di conformarsi al giudizio dellagente, con l’idea vaga che la vita sia altrove.

«Galatina significava un lavoro comune, una vita ano-nima. Dal lunedì al venerdì in ufficio, i giorni dispari inpalestra. Il sabato e la domenica con gli amici, pizza ocinema. Magari trovi una bella ragazza che ti fa scopare,in cambio la devi accompagnare a far spese in periododi saldi. Dopo qualche anno lei vuole sposarsi in chiesa,l’accontenti. Una domenica sì e una no vai a pranzo daisuoceri. Arrivano i figli, ti svegli la notte, gli cambi ilpannolino quando si cacano addosso. Crescono, spendii soldi per la piscina e per i libri. Diventi vecchio, nonvedi l’ora di andare in pensione per goderti la vita, epoi… poi niente, poi muori.»

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È fra i ragazzi come lui che l’eroina s’insinua seducente,e poi prende potere e presto imperversa e miete vittime,come una piaga biblica: un disastro di proporzioni tali da di-sgregare il tessuto sociale di una generazione. Dapprima èsolo la curiosità, una piccola trasgressione, il diversivo con-sigliato da amici più scafati. Al primo incontro si rivelaun’amante irresistibile, capace di procurare piaceri solo so-gnati: «mille volte meglio dell’orgasmo migliore». Ben primache uno se ne renda conto, la roba è diventata un bisogno in-sopprimibile, una tiranna impellente cui si è pronti a sacrifi-care ogni cosa; chiodo fisso e liberazione, dannazione emedicina, buco e rota. Per lei si accettano i lavoretti più di-sparati, si elemosinano prestiti ai conoscenti, si rivendonoper poche lire le catenine d’oro di mamma; presto si è soloruote di un ingranaggio criminale, disposti alla rapina, allospaccio, alla prostituzione, pronti a scendere ogni gradinodell’abiezione e della perdita di sé.

L’eroina sceglie le sue vittime a caso e per capriccio, comeuna dea annoiata; con un certo debole per i giovani disoccu-pati, così privi d’ambizione, di prospettive. Si prende Gae-tano, figlio di un parvenu, che paga al prezzo più alto laproterva miopia e l’ansia di riscatto sociale del padre; e ancheil figlio del primario – il bell’Alessandro, inafferrabile e bril-lante, di eleganza impeccabile, preoccupato solo di godersila vita. Si prende Gigi-dagli-occhi-blu, il figlio del meccanico,sempre pronto a menar le mani e innamorare le ragazze; siprende Daniele e Marina e la felicità perduta di un’infanziain campagna dai nonni, quando i genitori emigranti tornanodalla Svizzera con quattro soldi e un carico pesante d’ambi-zioni frustrate.

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«Daniele si fece guidare dalla sorella: non più diuna volta al giorno. Resistettero per diversi mesi,poi l’effetto dell’eroina cominciò a diminuire. Ilflash arrivava dopo molto tempo, meno intenso.Non placava quel mal di testa molesto e il vuotoallo stomaco. Due volte al giorno. Non di più. Gu-glielmo aveva ripreso a bere e picchiare la moglie.Aveva provato a mettere le mani addosso a Ma-rina. Daniele gli aveva spaccato un vaso in testa.Tre volte al giorno. Non di più. Si erano messi aspacciare tutti e due. Un modo per guadagnare enon pagare le dosi. Avevano preso una casa in af-fitto nel centro storico. Quattro volte al giorno.»

E poi Mirella e Filippo e Bruno, protagonisti di altrettantediscese agli inferi, quasi sempre con un biglietto di sola an-data. C’è poi chi riesce a tirarsi fuori, magari dopo aver in-contrato la morte a quattr’occhi, o averle consegnato unpezzo della propria anima; c’è chi riesce a vincere il drago,accettando con dolore e fatica e immane sforzo di volontà ilcalvario della disintossicazione. Chi si rifà una vita, ungiorno alla volta, ricostruendo sulle macerie. Salvo poi, ma-gari a distanza di anni, scoprirsi sieropositivo o malato diAids, e finire i propri giorni in un reparto arrangiato allameno peggio nel seminterrato dell’ospedale, nella vana at-tesa che il moderno attrezzatissimo padiglione degli Infettivi,costruito con i fondi della Cassa del Mezzogiorno e prontoda anni, sia liberato dalle pastoie degli intoppi burocratici efinalmente reso operativo.

A tessere le fila del racconto è Cristina, narratore tutt’altroche onnisciente, che nella Galatina di quegli anni bruciati

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vive il suo personale, doloroso e delicatissimo romanzo diformazione. Il contesto s’insinua gradualmente nella sua vitaordinata e ordinaria di diligente liceale di provincia: nei pic-coli drammi dei litigi con i suoi per spuntare una mezz’orasull’orario di rientro, nelle giornate divise fra i compiti e lechiacchierate interminabili con le amiche, a favoleggiare diamori che nascono e muoiono nello spazio di un pomeriggio,in cameretta. La realtà brutale del dilagare della tossicodi-pendenza e del contagio da Hiv si svela per gradi agli occhidi Cristina, segnando le tappe di un percorso che è insiemedolorosa perdita dell’innocenza e consapevole conquistad’identità: «Avrei preferito crescere in una vita e non in unanotte». Carpita dapprima nei discorsi degli adulti, indagatacon il desiderio di una conoscenza scevra di pregiudizi, af-frontata con determinazione e impegno quando Cristina de-ciderà di prestare la sua opera di volontaria presso il centroAthena, l’eroina arriverà infine a infliggere ai suoi pochi anniil morso di una lacerazione insanabile:

«Mi venne in mente un intagliatore di legno: con loscalpellino scalfisce la materia e crea una forma. Scopriiche la vita è un susseguirsi di fratture, profonde e su-perficiali, che imprimono negli uomini la sagoma dellaloro anima. L’anima che affiora all’esterno, in una ruga,nella luce che si accende negli occhi, come un fram-mento divino.»

Distante anni luce, il mondo dei ‘grandi’, dei ‘sani’ («Sa-pete che vuol dire sanu sanu a Galatina, no?», scherza Lele).Quelli che non si sentono chiamati in causa perché l’Aids è lamalattia dei drogati, che si credono al sicuro chiedendo al bar

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i bicchieri usa e getta; che si esprimono con i figli a suon didivieti e interdizioni, convinti che a proteggerli basti la lonta-nanza forzata dai luoghi dello spaccio e dalle compagnieequivoche. C’è tutta la questione generazionale degli anniNovanta in questi genitori che si affannano per offrire “tutto”ai propri figli, che a costo di sacrifici regalano jeans firmati epagano studi universitari, finendo però per far mancare l’es-senziale di un dialogo aperto all’ascolto del bisogno, di unacomunicazione affettiva autentica ed efficace. Poche le ecce-zioni: i genitori di Gabriele, aperti e socievoli, che con granmeraviglia di Cristina s’interessano delle opinioni dei ragazzie ne incoraggiano le inclinazioni artistiche; una professoressadi scienze coraggiosa, che osa parlare in classe dell’Hiv, in-correndo nella protesta indignata dei genitori e nelle sanzionidisciplinari della preside. È un dramma che ha il sapore acredel fallimento, quello degli adulti che non sanno o non vo-gliono vedere i segni premonitori del disagio e della caduta:gli ultimi a sapere, costretti brutalmente ad aprire gli occhiquand’è ormai troppo tardi, quando il nome di un figlio o diun nipote finisce sulle locandine affisse fuori dall’edicola.

Ma non c’è solo il drago, in quest’intensa lirica violenta fa-vola rock. Ci sono gli angeli: qualcuno, come nelle chine diGuy Denning, ha le ali lacerate nella caduta, il volto scavato eun velo di tristezza sugli occhi. Figure di donne che amano ecurano e donano la vita, come la madonna terrena Idrusa, ol’artista Sabrina, che trova ragione di vita nel figlio che portail nome del suo amore perduto; uomini di Chiesa illuminati –su tutti, l’esempio fulgido di don Tonino Bello – che condu-cono battaglie sociali e civili al fianco di associazioni di laici,perlopiù atei e aspramente critici rispetto ai valori tradizionali.

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E ci sono i cavalieri, con qualche macchia sull’armaturaprovata da terribili fendenti, e la perenne paura di (ri)cadere:umanissimi cavalieri in bilico fra l’attivismo entusiasta e icupi attacchi di scoramento, la speranza impavida e un sensodi solitudine inconsolabile. Quelli del centro Athena, Lele eLuciana su tutti: la generazione che ha vissuto il ’77, l’ultimaad aver creduto nella rivoluzione; ragazzi per cui – nono-stante le ferite insanabili del corpo e dell’anima, e il peso ine-luttabile di un passato che torna a ri-mordere – la parola“impegno” ha ancora un senso.

E ancora, in Salento rock c’è il coraggio disperato di le-gami che sfidano la malattia e la morte, il sostegno di amici-zie che resistono inossidabili alle intemperie e ai disinganni,il languore struggente dei primi amori, quelli per cui Ti-amoè troppo poco, quelli del Morirei-per-te. Perché, con le paroledell’autrice, «non è la droga la protagonista di questo ro-manzo. Sono i giovani di vent’anni fa. Due generazioni di ra-gazzi che si muovono in un Salento in cui arcaico e modernosono ancora strettamente intrecciati, pur negandosi l’un l’al-tro. Gli stessi disagi, reazioni e destini diversi. Il punk rock eil grunge. La passione e il disimpegno. Le regole e la trasgres-sione. La siringa e la chitarra, o tutte e due. Un passatotroppo recente per essere dimenticato».

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Nota dell’autore

L’eroina arrivò nel Salento verso la fine degli anni Set-tanta, così raccontano i testimoni e scrivono i giornali. Im-portata, anche dall’estero: da studenti e lavoratori fuori sede,da spacciatori alla ricerca di un mercato vergine. Rappresen-tava un business sicuro. L’oppiaceo provoca un piacere moltointenso, induce in breve tempo dipendenza fisica e psichica,e tolleranza: è necessario aumentare progressivamente ladose per ottenere lo stesso effetto. I primi clienti furono sele-zionati con attenzione. I giovani che già usavano droghe leg-gere sarebbero stati più propensi a provare la novità,inconsapevoli dei rischi.

In meno di vent’anni, la tossicodipendenza attecchì e siconsolidò come piaga sociale in tutto il Salento.

Secondo le stime dei Sert, nel 1998 tutta la provincia diLecce contava venticinquemila eroinomani, di cui quattro-mila assistiti per la disintossicazione. Un articolo de «La Gaz-zetta del Mezzogiorno» del 25 Aprile 1998 confronta i datiraccolti dalle strutture sanitarie pubbliche: i tossicodipen-denti sono censiti per paese, età, titolo di studio, sieropositi-vità. Un dato balza all’occhio: il 60% è senza lavoro. L’anellodebole della catena e il target prediletto degli spacciatori: idisoccupati, categoria ben rappresentata in Salento.

Galatina fu un esempio emblematico: l’eroina imperver-sava tra i giovani di differenti fasce culturali e sociali, figli di

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borghesi e di contadini. Nel 1991 circa quattrocento tossico-dipendenti erano seguiti dal Sert per la disintossicazione. Manon tutti si rivolgevano alle strutture pubbliche, e certi ne-anche ci pensavano a disintossicarsi. Occorre quindi consi-derare il sommerso. Secondo stime riportate da «La Gazzettadel Mezzogiorno», il numero di giovani tossicodipendenti aGalatina era superiore a ottocento. Il 95% dei quali aveva traventi e trentanove anni. Considerando il numero di abitantidel paese, e la fascia d’età dei consumatori, stimata pari al24% della popolazione totale, si può facilmente calcolare chela percentuale di drogati nel 1991 era almeno l’11,5%. Cioè,su dieci giovani tra i venti e i quarant’anni che si incontra-vano per le strade del paese, almeno uno consumava eroina.

Negli anni Novanta, Galatina divenne una delle piazzepiù importanti per lo spaccio. Non fu scelta a caso. Posizionecentrale nella penisola salentina, ventinovemila abitanti,scambi commerciali e culturali: una cittadina ricca e frequen-tata da giovani. Piena di potenziali clienti, in grado di pa-gare. L’iter era sempre lo stesso. Dosi a basso costo finoall’insorgere della dipendenza. Tra gli stessi drogati, la ma-lavita locale reclutava spacciatori. Per i ragazzi era conve-niente: avevano un giro di amici a cui proporre la roba epotevano farsi gratis. Molti di loro son finiti in galera. Le per-sone più esposte e a rischio di arresto, infatti, erano le stessevittime: chi dirigeva le fila del commercio restava nascosto,al sicuro.

I morti. Troppi. Undici giovani galatinesi uccisi da over-dose fino al 1989. Almeno otto suicidi e un omicidio correlaticon l’abuso di eroina. Poi arrivò l’AIDS. Ventisei giovani vit-time di HIV tra il 1987 e il 1993. Dieci solo nel 1995. Duecentosieropositivi in cura presso il reparto infettivi dell’Ospedale

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“Santa Caterina Novella” alla fine del 1994. Un’intera gene-razione spazzata via dall’eroina.

Anni di lacerazioni, ma anche di rabbia, di lotte, condivi-sione, partecipazione. Giovani, della stessa età di quelli chestavano sbriciolando la loro vita nella droga, combattevanoper svegliare l’opinione pubblica ipocrita, per sollecitare leistituzioni, per salvare i loro coetanei più fragili. Per salvarsi.Anni di manifestazioni imponenti, di rivendicazioni. Di bat-taglie, come quella per l’apertura del nuovo reparto Infettivi,e le altre narrate nelle pagine di Salento Rock.

Perché non è la droga la protagonista di questo romanzo.Sono i giovani di vent’anni fa. Due generazioni di ragazziche si muovono in un Salento in cui arcaico e moderno sonoancora strettamente intrecciati, pur negandosi l’un l’altro. Glistessi disagi, reazioni e destini diversi. Il punk rock e ilgrunge. La passione e il disimpegno. Le regole e la trasgres-sione. La siringa e la chitarra, o tutte e due. Un passatotroppo recente per essere dimenticato.

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Appendice

Dagli atti del Convegno “L’erba dalla parte delle radici –Esperienze di volontariato a confronto”

Maglie, 6 Luglio 1992Relazione del Centro di Interesse Giovanile

È veramente difficile trovare un’espressione che aiuti a renderechiaro chi siamo, il perché delle strade percorse e di quelle che ab-biamo ancora davanti a noi.

Quell’espressione può essere rintracciata scartabellando nellanostra memoria storica, riportando alla mente uno striscione cheapparve a Galatina sei o sette anni fa e che conteneva un invito di-sperato e rabbioso: “Deludi chi ti vuole drogato”.

Ecco, forse qui c’è la chiave di tutto, c’è l’essenza stessa del mo-vimento... c’è la rabbia, la disperazione e anche la volontà di agire.Il Centro di Interesse Giovanile nasce proprio da questo e via viaacquista sempre maggiore coscienza di quello che bisogna fare e deimetodi da adottare, che non possono essere legati a niente se nonal dolore, alla sofferenza e all’emarginazione vissute da centinaia diragazzi sulle nostre strade.

Ecco perché non possiamo definirci un’associazione di volonta-riato tipo. Noi siamo operatori della strada, il nostro fare volonta-riato non è finalizzato soltanto all’aiuto di qualcuno; abbiamo lapretesa di essere il PROBLEMA ed al tempo stesso il progetto.

Abbiamo cercato, se permettete, di stravolgere il concetto stessodi volontariato, non più il ritaglio di tempo da dedicare a un’asso-ciazione, per poi rientrare nella propria vita. Questo per noi vuol

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dire vivere le dinamiche, sentirsi anzi parte di esso, coinvolti neisuoi meccanismi.

Riteniamo che in questo modo si possa capire più chiaramenteil disagio che porta i giovani a drogarsi e soprattutto che si possaportare così un messaggio di solidarietà concreto.

Come accennato all’inizio, all’incirca verso il 1986-87 il movi-mento cominciava il suo cammino. Obiettivo immediato, concreto:risvegliare le coscienze, coinvolgere la gente, far esplodere la rabbiaper quelle siringhe che riempivano e riempiono ogni angolo di villa.

Quello striscione, “Deludi chi ti vuole drogato”, è stato uno deinostri primi atti e confessiamo che nessuno di noi aveva idea didove ci avrebbe condotto, sapevamo solo che non volevamo esserepiù spettatori inerti dello sfacelo che ci circondava.

Un anno dopo, era il 1988, nasce la manifestazione studentesca:ci sono tutti, il parroco, esponenti delle forze politiche locali, ma cisono soprattutto tanti ragazzi che ritrovandosi sul sagrato dellachiesa Matrice cominciano a farsi delle domande.

Era questo ciò a cui avevamo puntato; certo per moltissimi èstato solo uno dei tanti modi per perdere un giorno di scuola, manon per tutti, qualcuno, fosse anche uno solo, si sentiva partecipe,arrabbiato.

Dopo questa, che fu la nostra prima esperienza di coinvolgi-mento, abbiamo assistito a un lento avvicinarsi a noi di gruppi diragazzi, alcuni drogati, altri no.

Un anno dopo, e precisamente nell’aprile del 1989, siamo ancorain piazza, anzi su entrambe le piazze galatinesi, per sensibilizzareogni compagine sociale sul dilagare della droga.

Tre giorni dopo, un ragazzo di 17 anni viene trovato assassinatoin una contrada di campagna. In una perquisizione nella sua casa,in mezzo alle prove del suo stato di tossicodipendente e spacciatoresi trovò un blocchetto per raccogliere sottoscrizioni per il Centro diInteresse Giovanile. Era uno di noi. Ci siamo sentiti inutili e impo-tenti!

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Chi bisogna vedere in un ragazzo di 17 anni: il tossico o lo spac-ciatore? Cosa fare? Privilegiare il tossicodipendente che chiedeamore e comprensione o isolare lo spacciatore che comunque nonintendiamo giustificare? A ciò pochi hanno saputo rispondere. Noiabbiamo scelto l’essere umano.

Qualcuno potrà non capire, ma ci sembra questa una dellestrade da seguire per uscire dagli schemi di una società perbenistae chiusa nel suo guscio ipocrita.

È vero, noi abbiamo molta paura delle pallottole e della droga,ma abbiamo ancora più paura della vostra indifferenza. Quella in-differenza che in noi alimenta la rabbia.

E questa rabbia ci ha portato a occupare il consiglio comunaleper smuoverlo dalla sua non-presenza, per renderlo consapevoledella distanza che lo separava da quella piazza dove i ragazzi gala-tinesi si facevano uccidere dalla droga.

E poi, lo sciopero della fame, in villa attorno a una simbolica tendaad aspettare che la gente ci chiedesse il perché di tanto darsi da fare.

Il 1989 ha segnato momenti importantissimi per il movimento;uno di questi si concretizza in un’assemblea dei ragazzi del centro,parte la richiesta di utilizzare tutti gli spazi utili per analizzare e af-frontare il disagio e l’emarginazione.

Questa strada ci ha condotto verso l’occupazione e la pulizia didue campi da tennis situati nel Rione Italia (strada di Soleto). An-cora oggi i ragazzi di quel rione dormitorio vengono illuminati daifari di quei campi, che sono diventati un luogo di sport e soprattuttodi incontro. Ma già prende forma il progetto che ci ha accompa-gnato fino a questi ultimi tempi, “Il villaggio della Speranza”.

Infatti, constatata l’inesistenza nella nostra zona di un qualsiasisupporto ai tossicodipendenti e alle loro famiglie, abbiamo elabo-rato la creazione di un Centro di accoglienza, là dove sorge in statodi totale abbandono l’ex Villaggio Azzurro.

È stata entusiasmante l’elaborazione del progetto e la sua forzaci ha portato a superare ogni ostacolo e intoppo burocratico. Ab-

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biamo raccolto 2000 firme e in seguito all’approvazione popolareabbiamo inviato una petizione al Presidente della Repubblica, ilquale ci ha risposto appoggiando la nostra iniziativa.

Intanto comincia a muovere i primi passi la cooperativa da noicreata per il reinserimento dei ragazzi ex tossicodipendenti e pertentare di dare nel nostro piccolo una risposta al problema della di-soccupazione giovanile. Ci si occupa di serigrafia e oggettistica, eanche la cooperativa diventa simbolo di qualcosa che cambia, chesi muove.

In concomitanza con il progetto si sente l’esigenza di un dialogocon le istituzioni pubbliche. Questo è un punto dolente e contro-verso della vita del Centro di Interesse Giovanile perché il tentativoè stata fatto, ma è fallito.

Dopo una consulta comunale sulla condizione giovanile, che faproprio il progetto del centro, si approva all’unanimità in sede diconsiglio comunale una delibera che lasciava sperare in una suapossibile e rapida attuazione. Subito dopo, però, assistevamo a ten-tativi sempre più evidenti da parte dei vari partiti di strumentaliz-zazione e lottizzazione, di quello che doveva essere il progetto piùavanzato per far fronte al disagio crescente.

I soliti signori della politica, abituati a vivere in un mondo in cuisi rende di uguale urgenza la morte di un ragazzo e un appaltinoda destinare al miglior offerente, non hanno capito che il disagionon può essere lottizzato.

Non hanno mai capito, i nostri amministratori, l’importanza diconiugare l’agire quotidiano con l’agire politico per affrontare ledrammatiche emergenze che la realtà ci presenta.

Analizzare i problemi, cercando di attuare quei progetti che neavviino la soluzione, vuol dire essere in continuo coinvolgimentocon la realtà di ogni giorno. Vuol dire, per un politico al passo conla storia, assumersi le responsabilità che il sociale pone sul suo cam-mino.

L’accorgersi progressivamente di questa realtà ci ha portato ad

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allontanarci da un mondo che sicuramente non parlava il nostro lin-guaggio.

Sempre sul progetto “Villaggio della Speranza” si accentraronogli interessi di un gruppo di ipocriti intolleranti che, calpestando ognidignità umana e cristiana, ebbero la stupidità di raccogliere 50 firmeper notificare la loro repulsione ad avere come “vicini” i drogati.

Gli argomenti portati da loro li conoscete tutti: sono i soliti ar-gomenti intolleranti e razzisti inalberati ogniqualvolta qualcunoparla di solidarietà verso chi soffre.

Inoltre, da successive indagini, saltò fuori che dietro a quei nomisi celavano e si celano speculatori che avevano posto gli occhi sulVillaggio Azzurro per offrirlo al migliore offerente. Non ci sono riu-sciti, non ci hanno venduto; il progetto è ancora lì ed è e sarà finoalla sua attuazione un faro per portare alla luce l’ipocrisia di queipolitici che si lasciano scorrere la storia addosso, per guidare chi in-vece la vive ogni giorno nella coscienza e sulla propria pelle.

In tutti i nostri progetti, la Chiesa ha assunto un atteggiamentopoco chiaro. Mentre ha espresso con coraggio e determinazione lasua solidarietà verso il disagio giovanile, attraverso la voce del no-stro vescovo Vincenzo Franco e dei frati francescani della parrocchiadi Santa Caterina, per il resto siamo stati osteggiati, per non diresbattuti fuori dalle chiese.

Forse questi uomini di Chiesa pensano che basti qualche donPicchi o qualche don Gelmini a ripulire i nostri oratori, le nostrestrade e quel che è peggio, le loro coscienze; la Chiesa è e deve re-stare un’opera d’arte o, se non è bella esteticamente, che almeno siaun monumento al perbenismo! Questa sembra essere la filosofia diquesti signori.

C’è un solo modo per affrontare il disagio: uscire fuori dallechiese e dalle sezioni e non attenderlo nelle proprie sedi; perchél’emergenza droga non rispetta né i tempi degli uomini di Chiesané quella degli uomini di partito. Sarebbe quindi auspicabile il coin-volgimento di tutte le forze sociali.

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Non possiamo dimenticare il segno di apertura in tal senso di-mostrato da tutte le associazioni presenti sul nostro territorio, in oc-casione dell’ultima manifestazione del 22 Dicembre. Il grandeprotagonista di quella giornata fu Gandhi, il suo messaggio semprevivo e attuale è stato lo sfondo su cui inserire la nostra gioia di vi-vere. Eravamo in tanti in piazza, presi per mano a testimoniare lanostra volontà di protesta contro la droga e i suoi mercanti. Maquelle mani unite volevano portare la solidarietà fino agli emargi-nati più reietti: i malati di AIDS del reparto Infettivi dell’ospedale“Santa Caterina Novella”. La piazza era tappezzata di cartelloni conl’immagine dell’apostolo della non violenza, con una miriade dipensieri tratti dalla sua opera. Anche in questa occasione l’arcive-scovo era lì con noi a testimoniare anche lui la priorità della vitasulla morte, a protestare contro l’indifferenza e l’egoismo. Nellanotte qualcuno incendiò la casa del volontariato, una baracca inlegno montata al centro della piazza che era servita per raccogliereadesioni e offerte per la lotta alla droga e a qualsiasi emarginazioneche avvilisca la dignità umana.

Noi del Centro avemmo solo un attimo di sconforto e riflessione,per ripartire subito sicuri di aver fatto bene.

Come Gandhi, siamo convinti che l’intolleranza non si vince inun giorno e siamo certi che con la solidarietà si può cambiare ilmondo. E sempre avanti così, senza mai perdere la voglia di pro-porre e lottare per una migliore qualità della vita.

Arriviamo ai nostri giorni ed ecco un altro tratto di strada dapercorrere insieme, con la voglia di ognuno di esprimersi e di ap-portare la propria originalità e fantasia al servizio degli altri.

Nasce e si concretizza il centro polivalente “Giovani in Campo”,che da piccolo spazio polveroso e vuoto è diventato un modo nuovoe originale di coinvolgere i giovani, di portarli appunto “in campo”,protagonisti assoluti della scena.

In questo centro i ragazzi avranno la possibilità di confrontarele proprie esperienze e di assimilarne di nuove, di strappare uno

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spazio alla quotidianità. Qualcuno ha scritto che lo slogan “Giovaniin campo” apparterrà alla «Galatina che è giovane, che soffre epiange, che lotta e a volte vince e a volte perde», ma in fondo noivogliamo che appartenga proprio a tutti. Offre il suo spazio soprat-tutto a quelli a cui sembra non importare niente di quello che av-viene intorno a loro. Per tutto questo, noi sentiamo più forte chemai il bisogno di non arrenderci, di continuare ad abbattere i recintientro cui vogliono costringere la nostra fantasia e la nostra creati-vità. Ecco, ancora una volta siamo pronti a deludere tutti coloro checi vogliono sconfitti, calpestati, drogati o rincoglioniti! E ce la fa-remo! La nostra forza è nel realismo che è possibile trovare in ogniutopia.

Non so se avete notato, ma sinora abbiamo accuratamente evi-tato di parlarvi del perché uno si droga e del perché bla bla bla. Sa-rebbe troppo facile.

Sulla condizione giovanile si è parlato e si parla ancora molto,forse troppo, fino al punto di fare di noi giovani un problema, unproblema a tutti i costi, un problema di subalternità, nel senso chegiovane è sinonimo di materia da plasmare, elemento da salvare.Non che non ci sia paura nell’essere giovane, ma noi pensiamo, elo abbiamo dimostrato anche con i fatti, che si può essere risorsa enon problema. Chi pensa il contrario vuole strumentalizzare, ricat-tare o più chiaramente mercificare. Non ci possiamo esimere co-munque dal fare un esempio di conduzione al disagio.

Non per sfruttare il momento di popolarità della parola corru-zione, ma per fare una denuncia verso le famiglie e verso noi stessi,sentiamo di dover gridare a tutti i giovani e alle famiglie di rigettarequella cultura dell’asservimento delle coscienze, comunementechiamata clientelismo o raccomandazione. Questo meccanismo nonè altro che un rapporto tra corruttori e corrotti. Chi, come noi gio-vani spesso facciamo, va a chiedere una raccomandazione è un cor-ruttore e chi favorisce qualcuno è un corrotto! Tutto ciò non fa altroche svilire la nostra iniziativa, rassegnare, sconfiggere, svuotare. E

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dove c’è il vuoto cresce il disagio, e dove c’è il disagio c’è l’eroina.Chiediamo scusa per il nostro linguaggio forse un po’ gergale,

ma ci troviamo un po’ a disagio in questi incontri, il più delle volteservono solo ad appuntare medagliette sul petto di qualche politico;e poi crediamo poco alle risposte che possono dare le parole. Siamoqui solo perché speriamo di essere riusciti a dare il nostro piccolocontributo alla comprensione del complesso mondo giovanile a per-sone che quotidianamente vivono a contatto con i giovani.

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Fonti

Per il Salento:«La Gazzetta del Mezzogiorno» e «Il Quotidiano di Lecce» (ar-ticoli vari: periodo 1980-1999).Antonio Liguori, Duemila e dintorni. Pagine di cronaca galatinese,

1992-2005, Panico, Galatina 2005.Antonio Bello, Sud a caro prezzo. Il cambiamento come sfida, La Me-ridiana, Molfetta 2007.Atti del Convegno “L’erba dalla parte delle radici – Esperienzedi volontariato a confronto” Maglie 6 Luglio 1992, Regione Pu-glia Assessorato alla Pubblica Istruzione. Realizzazione Giof-freda Maglie.

Per l’AIDS:«Notiziario dell’Istituto Superiore di Sanità» (Aggiornamentodelle nuove infezioni da HIV e dei nuovi casi di AIDS in Italia),volume 26 n. 9, supplemento 1, 2013.Rosalba Baldini, Scintilla AT20. Il buio dell’AIDS. La scoperta di

Arnaldo Caruso, Falco Editore, Cosenza 2014.Enzo Biagi, Il sole malato. Viaggio nella paura dell’AIDS, Monda-dori, Milano 1987.Fiorentini S., Giagulli C., Caccuri F., Magiera A.K., Caruso A., HIV-

1 matrix protein p17: a candidate antigen for therapeutic vaccines against

AIDS, in «Pharmacology & Therapeutics», volume 128 n. 3, 2010. Janeway C.A., Travers P., Immunobiologia, Piccin Editrice, Padova1994.

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Per il 1977 e Roma:

Sébastien Croquet, Il Settantasette. Le componenti politiche del Mo-

vimento in «la Repubblica: storia d’Italia dal ’45 ad oggi»,

http://www.storiaxxisecolo.it/larepubblica/repubblica77e.htm.

Luigi Cancrini, Figli invisibili nella conflittualità familiare,

http://www.dipendenze-emmanuel.org/wp-content/uplo-

ads/2014/11/Figli-invisibili-nella-conflittualita-familiare.pdf

Citazioni:

Andrea Pazienza, Gli ultimi giorni di Pompeo, Fandango, Roma 2011.

Pier Vittorio Tondelli, Camere Separate, Bompiani, Torino 2014.

Fabio Genovesi, Chi manda le onde, Mondadori, Milano 2015.

Nicola Lagioia, Riportando tutto a casa, Einaudi, Torino 2009.

Paolo Giordano, La solitudine dei numeri primi, Mondadori, Mi-

lano 2008.

Documentari:

L’ala creativa. La luna e il dito, Bologna 1977, Rai Storia.

La droga dietro l’angolo, réportage di Giuseppe Marazzo, Rai Storia.

Dossier 56, Speciale 1977, Teleroma 56.

Oltre le solite Storie. Fatti & Parole di Mario Monsellato.

Movimento 77 di Alberto Berlini.

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Ringrazio

Tutti coloro che mi hanno aiutato a rintracciare testimoni, rac-contato i loro ricordi e fornito materiale per la ricerca: Fabio Bianco,Tommaso Moscara, Piero De Matteis, Rossano Marra, ApollonioTundo, Fabrizio Renna, Raffaele Longo, Raffaele Guido, AugustoFachechi, mia madre, Massimiliano Martines, Gianni Finocchietti,Albino. Tra questi, un ringraziamento speciale per l’affetto e iltempo che mi hanno dedicato, a Enzo Del Coco e Luciana Ma-sciullo, nuovi amici.

Brunella Luzi e Bruno Bruni Ercole, i miei primi lettori. CarmenMariano, Enrica Mariano e Andrea Cavallo per le consulenze pro-fessionali. Armando Serafini per i consigli musicali e il romanesco.Eliana Papa, Giovanna Vizzari e Simone Coluccia, per le traduzioninei dialetti che non conosco.

Fulvio Colucci che mi ha insegnato ad addomesticare le parole.Davide Potente, per i suggerimenti (compresi quelli inconsapevoli).

Giovanni Chiriatti, per aver creduto nel progetto, sin dall’inizio.Luigi Chiriatti, per aver apprezzato il lavoro di ricerca, e per la te-lefonata piena di entusiasmo dopo la lettura del manoscritto. Ales-sandra Avantaggiato, per l’accurato lavoro di redazione, svoltonottetempo, ma soprattutto per l’empatia con la storia e con l’au-trice. Dario Tommasi, ché una copertina più giusta non era possi-bile.

Gemma Azuni, per la disponibilità e l’interesse. Lara Piffari, sempre presente, per le telefonate interminabili, al-

ternando consigli professionali e supporto psicologico.Umberto Papadia, perché la sua canzone Gabriele suona ancora è

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stata un punto di partenza. Per i racconti del Capo di Leuca, la di-scussione appassionata di parti del romanzo, ma soprattutto peravermi spronato a superare la paura, a crederci.

Ringrazio infine chi non vedeva l’ora che uscisse questo libro ein particolare: Emilia Frassanito, Francesca Congedo, Monia Sapo-naro, Luigi Angelucci, Livio Romano, Gianluca Ricciato.

Salento Rock è dedicato a Gabriele, Maurizio e Michele, anche senon li ho mai conosciuti.

Francesca

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Indice

9 Prologo

11 Antonio

24 Alessandro

38 Gaetano

47 Sabrina

Storia di Cristina 57 I 64 II 69 III 79 IV 84 V 89 VI

101 VII

107 VIII

111 IX 117 X 121 XI

133 XII

142 XIII

151 Bruno e Filippo

160 Luigi

47

Page 50: SALENTO ROCK. Andati via senza salutare

169 Daniele e Marina

181 Mirella

Cronaca di una generazione perduta 193 XIV

199 XV

208 XVI

216 XVII

220 XVIII

227 XIX

235 XX

245 XXI

252 XXII

259 XXIII

264 XXIV

269 XXV

276 XXVI

Vent’anni dopo 285 Simone

289 Luciana

293 Cristina

299 Nota dell’autore

303 Appendice

311 Fonti

313 Ringrazio

48

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Questo libro è stato fatto da

Luigi ChiriattiArt director

Alessandra AvantaggiatoRedazione, bozze, editing

Dario TommasiIllustrazione di copertina

Alessandro SicuroProgetto grafico di copertina

Laura CasciottiUfficio stampa

Arti Grafiche Panico Stampa tipografica

Stampato su carta ecologica certificata FSCproveniente da foreste gestite in modo responsabile

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