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“SI CHIAMERÀ FUTURA” Il tempo è cambiato I quadri sociali della capacità di nutrire aspirazioni Il futuro che vogliamo tutelare Il presidente dell’Acea parla dei prossimi obiettivi Disinnescata la bomba demografica 2075: flessione della popolazione mondiale L’osteria del futuro 1950/1984 - 2010/2044 - 2050/2084 In questo numero: Alessandro Baricco, Carolyn Carlson, Umberto Croppi, Carlo Freccero, Emanuele Gentili, Mario Morcellini, Monique Veaute Ateneo eriodico di P Ateneo Anno XII, n. 3 - 2010 Anno XII, n. 3 - 2010

Roma Tre News 3/2010

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«Si chiamerà futura»

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“SI CHIAMERÀFUTURA”

Il tempo è cambiatoI quadri sociali della capacità di nutrire aspirazioni

Il futuro che vogliamo tutelareIl presidente dell’Acea parla dei prossimi obiettivi

Disinnescata la bomba demografica2075: flessione della popolazione mondiale

L’osteria del futuro1950/1984 - 2010/2044 - 2050/2084

In questo numero: Alessandro Baricco, Carolyn Carlson, Umberto Croppi, Carlo Freccero, Emanuele Gentili, Mario Morcellini, Monique Veaute

Ateneoeriodico diP

Ateneo

Anno XII, n. 3 - 2010

Anno XII, n. 3 - 2010

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SommarioEditoriale 3

Primo piano1950/1984 - 2010/2044 - 2050/2084 5L’osteria del futuro: ossessione o utopia?di Paolo Leon

Disinnescata la bomba demografica 72075: flessione della popolazione mondiale di Annunziata Nobile

Università sostenibili 11Realizzazione e sviluppo del modello sinergico università-cittàdi Francesco Cellini

Il tempo è cambiato 14I quadri sociali della capacità di nutrire aspirazionidi Paolo Jedlowski

Il futuro che vogliamo tutelare 18Il presidente dell’Acea parla dei prossimi obiettivi di Giancarlo Cremonesi

«E se domani» 19Uso e abuso del concetto di futurodi Michela Monferrini

Rethinking Utopia 21The reciprocal relations between the utopian imaginationand everyday worlddi Victor S. Vakhshtayn

L.a.s.e.r. 23Un lasciapassare per il futurodi Irene D’Intino

The age of stupid 25…is it today?di Giacomo Caracciolo

Oro blu: breve viaggio tra i conflitti moderni,per il dominio sui principali corsi d’acqua del pianeta 26di Giacomo Caracciolo

Cronache e odissee da un altro mondo abitabile 27Quando la letteratura immagina il futurodi Michela Monferrini

Ritratto del futuro? 29Il Giappone e il punto di vista collettivodi Edoardo Lombardi Vallauri

Marshall McLuhan e il mondo di domani 31A cent’anni dalla nascita dello studioso canadese di Gianpiero Gamaleri

Hanno detto per noi... 32

IncontriUmberto Croppi. Culture Valley 35di Federica Martellini

Carolyn Carlson. A rhythm to carry the feet 39di Valentina Cavalletti

Mario Morcellini. I media al futuro 41di Lia Luchetti

Carlo Freccero. Futuro e fantascienza 45di Valentina Cavalletti

Monique Veaute. «Per fortuna è una notte di luna» 48di Alessandra Ciarletti

Emanuele Gentili. Low secret 52di Federica Martellini

Alessandro Baricco. Un tempo nuovo 55di Alessandra Ciarletti

ReportageCortona’s week 56Un esempio di interdisciplinarità per il mondo accademicodi Pier Luigi Luisi

Il Giappone: futuro o tradizione? 58Viaggio attraverso le idiosincrasie di un paese in movimentodi Fabiana Iannilli

I diritti della Madre Terra 59Dal Messico: intervista ad Emanuele De Vincentia cura della redazione

RubrichePopscene 61Ultim’ora da Laziodisu 63Non tutti sanno che... 63

RecensioniIl sillabario della nostra memoria… 64…e forse anche del nostro domanidi Irene D’Intino

Tarda estate 65Quando il cinema italiano “parla” giapponesedi Francesca Gisotti

Inception 67L’architettura dei sognidi Fabrizio Attisani

Futurperspectives 68FotoGrafia Festival internazionale di Roma: è di scena il futuro di Sarah Proietti

Non tutte le profezie (non) si avverano 69«A dire la verità, se cercate un colpevole,non c’é che da guardarsi allo specchio» di Francesco Martellini

«Chi vive in un’isola deve farsi amico il mare» 70Con Le sfide di Israele David Meghnagi ci regala un nuovo,prezioso contributo sul conflitto arabo-israeliano di Fabio Bego

Periodico dell’Università degli Studi Roma TreAnno XII, numero 3/2010

Direttore responsabileAnna Lisa Tota(professore associato di Sociologia dei processi culturali e comunicativi)

Coordinamento di redazioneAlessandra Ciarletti (caporedattore)Federica Martellini Ufficio orientamento - Divisione politiche per gli [email protected]

RedazioneUgo Attisani (Ufficio Job Placement), Giacomo Caracciolo (laureato del C.d.L. inGiurisprudenza e giornalista pubblicista), Valentina Cavalletti (Ufficio orientamento),Gessica Cuscunà (Ufficio orientamento), Irene D’Intino (studentessa del C.d.L. inCompetenze linguistiche e testuali per l’editoria e il giornalismo), Indra Galbo (lau-reato del C.d.L. in Scienze politiche), Maria Vittoria Marraffa (studentessa del C.d.L.in Storia e conservazione del patrimonio artistico), Elisabetta Garuccio Norrito(Resp. Divisione politiche per gli studenti), Michela Monferrini (laureata del C.d.L. inLettere), Monica Pepe (Resp.Ufficio stampa), Camilla Spinelli (studentessa delC.d.L. in Comunicazione nella società della globalizzazione), Fulvia Vitale (studen-tessa del C.d.L. in Giurisprudenza)

Hanno collaborato a questo numeroFabrizio Attisani (laureato del C.d.L. in Giurisprudenza), Fabio Bego (studente delC.d.L. in Relazioni internazionali), Salvatore Buccola (direttore amministrativo AdisuRoma Tre), Francesco Cellini (Preside della Facoltà di Architettura), Giancarlo Cre-monesi (presidente Acea S.p.A. e presidente della Camera di commercio di Roma),Gianpiero Gamaleri (ordinario di Sociologia dei processi culturali e comunicativi ePresidente Adisu Roma Tre), Francesca Gisotti (studentessa del C.d.L. in DAMS),Fabiana Iannilli (Segreteria del Rettore), Paolo Jedlowski (Dip. di Scienze sociali,Università di Napoli “L’Orientale”), Paolo Leon (docente di Economia pubblica),Edoardo Lombardi Vallauri (docente di Glottologia e di Linguistica generale), Lia Lu-chetti (dottoranda in Scienze della comunicazione), Pier Luigi Luisi (docente di Bio-fisica), Francesco Martellini, Annunziata Nobile (direttore del Dipartimento di Studiinternazionali), Sarah Proietti (studentessa del C.d.L. in Scienze della comunicazio-ne), Massimiliano Troiani (Dipartimento di Scienze Geologiche), Victor S. Vakhsh-tayn (Moscow School of Social and Economic Sciences), Simona Vitale (biglietteriateatrale Agis - Roma Tre)

Immagini e fotoGregory Acs, Chico De Luigi©, Emanuele De Vincenti, Dipartimento di Progettazio-ne e studio dell’architettura, Fondazione Romaeuropa, Manuela Giusto©, FabianaIannilli, Pier Luigi Luisi, Frédéric Iovino©, Edoardo Lombardi Vallauri , Sarah Proietti

Progetto graficoMagda PaolilloConmedia s.r.l. - Piazza San Calisto, 9 - Roma06 64561102 - www.conmedia.itIl progetto grafico della copertina è di Tommaso D’Errico.

Impaginazione e stampaTipografia Gimax di Medei MassimilianoVia Valdambrini, 22 - 00058 Santa Marinella (RM) - Tel. 0766 511644

In CopertinaLa Terra vista dalla Luna

Finito di stamparegennaio 2011

Registrazione Tribunale di Roma n. 51/98 del 17/02/1998

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«Oggi non è che ungiorno qualunquedi tutti i giorni cheverranno, ma ciòche farai in tutti igiorni che verrannodipende da quelloche farai oggi»Ernest Hemingway

Se vuoi vederedove va il vento,guarda la sabbia»Gloria Desideri

Il tema del futuro ci affascina da sempre e su di esso sisono interrogati studiosi, poeti, scrittori e artisti di ognitempo. «Il futuro è adesso» scriveva in un bel libro nel1994 Alberto Melucci. Sono passati molti anni, ma ilfuturo continua ad essere nel qui e ora, nell’adessoappunto. Il futuro continua ad essere una dimensioneche illumina il presente, conferendogli qualità e spes-sore. Come diceva Sant’Agostino, il tempo può essereconsiderato come una dimensione dell’anima, laddove ilpassato non esiste, in quanto non c’è più e il futuro nonesiste in quanto deve ancora arrivare.Quel che ci resta è il presente. Il presente è l’unicoluogo in cui passato e futuro possono prendere forma:noi siamo nel presente con una narrazione del passato euna rappresentazione del futuro. La qualità del nostroessere nel presente è strettamente connessa al modo incui ci rapportiamo con il passato e influenza le aspetta-tive che nutriamo verso il futuro.

D’altra parte, il futuro che abbiamo in mente conferisceal nostro presente la sua specifica tonalità. In questaprospettiva, interrogarsi sull’idea di futuro significaprendere atto e accettare il presente, il nostro qui ed ora. Significa non delegare al futuro che verrà la soluzionedelle questioni irrisolte nel presente.Talora il futuro può coincidere, infatti, con quel luogoimmaginario ed ideale, dove finalmente i sogni prende-ranno forma e i progetti si realizzeranno.Il futuro diventa così una mistificazione, a cui delegareogni possibilità di azione che ci neghiamo nel presente.Come dimenticare il Dialogo di un venditore di alma-

nacchi e di un passeggero? «… a patto di riavere la vitadi prima con tutto il suo bene e il suo male, nessunovorrebbe rinascere – dice Leopardi – Quella vita ch’èuna cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella

che non si conosce; non la vita passata, ma la futura.Coll’anno nuovo, il caso incomincerà a trattar bene voie me e tutti gli altri, e si principierà la vita felice. Non èvero? Speriamo», risponde il venditore di almanacchi.Ma qual è la nostra rappresentazione del futuro? Comeci immaginiamo fra cinquant’anni?

Come saremo su questo pianeta? Quali saranno davverole questioni che ci staranno a cuore?Come evolveremo? Saremo sommersi dai rifiuti cheproduciamo o saremo diventati consumatori consape-voli e avremo ridotto l’inquinamento ambientale, acu-stico, visuale che oggi sembra sovrastarci?Avremo cambiato i nostri stili di vita e le nostre abitu-dini di consumo?In quanti saremo e di quanti e quali oggetti avremoassolutamente bisogno per assicurarci una vita felice? Ela nostra felicità sarà sostenibile per le generazionifuture e per l’intero pianeta?

Continueremo a riservare alla nostra specie il monopo-lio delle risorse del pianeta o ci arrenderemo all’idea diessere noi stessi parte dell’universo e saremo consape-voli del fatto che un modello di sviluppo sostenibile èl’unico che ci possiamo ragionevolmente permettere?Come saranno le nostre città?Lo abbiamo chiesto a sociologi ed esperti di media, afilosofi ed architetti, lo abbiamo chiesto ad artisti e dan-zatrici, ad attori istituzionali e politici.Abbiamo chiesto loro di confrontarsi con l’idea difuturo che hanno in mente, consapevoli del fatto chel’attribuzione di senso al futuro è parte del senso dell’a-gire che costruiamo nel presente.Nel 1980 Lucio Dalla in Futura cantava: «Chissà chissàdomani /su cosa metteremo le mani/ … e se è una fem-mina si chiamerà Futura…». Si chiamerà Futuraappunto, ma è adesso!

«Il futuro è adesso»di Anna Lisa Tota

“Il presente è l’unico luogo in cuipassato e futuro possono

prendere forma”

“La qualità del nostro essere nelpresente è strettamente connessa almodo in cui ci rapportiamo con il

passato e influenza le aspettative chenutriamo verso il futuro”

“... a patto di riavere la vita di primacon tutto il suo bene e il suo male,nessuno vorrebbe rinascere - dice

Leopardi - Quella vita ch’è una cosabella, non è la vita che si conosce, maquella che non si conosce, non la vita

passata, ma la futura”

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o pi

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Solo cinque anni dopo il1984, l’utopia nera di Or-well si è rivelata sbagliata:il crollo del muro di Berli-no ha spazzato via il Gran-de Fratello del sistema so-vietico. Ho sempre pensatoche la Fattoria degli ani-

mali fosse un apologo mi-gliore di 1984, perché se si deve pensare di nuovo ad un fu-turo altrettanto lontano, la Fattoria ha in sé più semi di uni-versalità («tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono piùuguali degli altri») rispetto a 1984, che è il risultato dell’a-more-odio per il comunismo di un trotzkista. Certo, che duegrandi classici siano trasformati in spettacoli di evasione, ladice lunga sulla nostra epoca. Personalmente, Orwell miaveva affascinato già dal suo diario della guerra di Spagna(Un omaggio alla Catalogna), e la sconfitta della repubbli-ca mi è sempre sembrata intrecciata con la tragedia del con-flitto tra il partito comunista da un lato e il POUM e glianarchici dall’altro: che sia altrettanto importante battere iltuo alleato come il tuo nemico mi è stato di lezione nell’i-dentificare il settarismo – e nelle utopie c’è spesso la fugadi un settarismo frustrato.Per verità, a me è anche sempre piaciuto il Marx sarcasticodelle “osterie del futuro”. È vero che l’utopia, buona o catti-va, può servire da obiettivo di un tragitto verso un futuromigliore, ma per l’economista il lungo periodo è quello do-ve siamo tutti morti e chi si avventura su quella strada, ri-schia di trasformare il futuro di tutti nel risultato delle pro-prie ossessioni. Dobbiamo riconoscere che il futuro è il re-gno dell’incertezza, e non del rischio, dove si ferma l’anali-si economica e comincia la fantasia.Però. Una cosa è certa, anche nel 2084 ci sarà uno Stato, edè il comportamento della politica in que-sto lungo periodo che ci dirà se si trattadi uno Stato che estende la civilizzazio-ne e i diritti alle future generazioni, ouno Stato che, lasciando fare all’egoisti-co interesse sul mercato di coloro cheogni volta sono i contemporanei, generadivisione e violenza.Negli ultimi trent’anni, lo stato socialeuniversale pensato nel dopoguerra inEuropa, è stato variamente degradato:istruzione, sanità, previdenza, sussidiodi disoccupazione, assicurazione infor-tuni sono stati lentamente trasportati dalsistema pubblico a un sistema misto,pubblico-privato. Le istituzioni pensatein origine per alleviare le imprese dalcosto della sussistenza/riproduzione peri propri lavoratori, e che si erano trasfor-

mate in diritti di cittadinanza, vengono affidate all’incertez-za del mercato, riducendo sia la protezione della sussistenzasia quella dei diritti. Il declino della responsabilità pubblicaha perfino fatto aumentare, illusoriamente, il livello delPIL: perché per la statistica mentre lo Stato lavora al costo,il mercato lavora al profitto oltre al costo. Se nel futuro que-sto processo continuasse, la società del 2044/2084 vedrebbeun aumento delle malattie, dell’ignoranza, dell’emargina-zione, della disuguaglianza: e il processo può effettivamen-te continuare. Nel passato trentennio, gli Stati hanno perdu-to, in tutto o in parte, la propria sovranità monetaria, e lebanche centrali, alle quali l’hanno ceduta, regolano ma noncreano moneta “sovrana”.

Ora, da che mondo è mondo, la sovranità monetaria èl’ultima risorsa in mano agli Stati per coprire la propriaspesa (re e repubbliche hanno sempre venduto moneta);in assenza, come avviene, appunto, da trent’anni, se esisteun massimo di pressione tributaria, se il mercato dei titolipubblici è limitato e se i “bisogni” sociali (o i diritti) ten-dono ad espandersi, il disavanzo nei conti pubblici è ine-vitabile e può solo correggersi riducendo il finanziamentoa “bisogni” e diritti – ed è proprio ciò che avviene con la

riduzione dello stato sociale. Fa riflettereil fatto che quest’ablazione del poterepubblico è un puro frutto dell’ideologia:nasce da un’utopia (Von Hayek, per tutti)che riteneva meno tirannica un’economiasenza Stato, e più ricca una società disu-guale. La realtà mostra, invece, un mondoche diventa progressivamente più egoisti-co e, allo stesso tempo, meno colto, piùsettario e più sporco. Ma non sarà necessariamente così, perchépochi desidererebbero un tale regresso.Ed ecco come si presenterebbe il futuroalla Pangloss. Molto prima di quell’auto-distruzione si formeranno culture politi-che che ricostruiranno una convivenzapiù civile. Nei nuovi paesi emergenti, chenelle difficoltà occidentali del trentenniohanno costruito un grande sviluppo eco-

1950/1984 - 2010/2044 - 2050/2084L’osteria del futuro: ossessione o utopia?

di Paolo Leon

“È vero che l’utopia, buona o cattiva,può servire da obiettivo di un tragitto

verso un futuro migliore, ma perl’economista il lungo periodo è quello

dove siamo tutti morti e chi siavventura su quella strada, rischia di

trasformare il futuro di tutti nelrisultato delle proprie ossessioni”

Paolo Leon

George Orwell, autore di La fattoria de-

gli animali (1945) e 1984 (1948)

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6 nomico, gli elementi tiran-nici, razziali, sessistici nonpotranno non ridurre il loroimpatto, perché non c’èsviluppo senza democrazia.Proprio l’apertura al merca-to, che li ha fatti crescere,libererà in quei grandi pae-si le forze necessarie peruna coesione sociale mag-giore: la loro crescita nonavverrà ai danni del restodel mondo e anche i paesipiù poveri troveranno la viadel benessere. Il benessereimpedirà divisioni etniche elotte tra poveri. Regnerà lapace. Le economie mondia-li soddisferanno la doman-da crescente di servizi,mentre quella per i beni

crescerà meno che in proporzione: l’ambiente miglioreràe i singoli individui avranno sempre più ampie possibilitàdi espressione, perché le tecnologie renderanno spazio etempo molto meno scarsi di oggi. La condizione necessa-ria è un ritorno all’autorità degli Stati, ma ammaestratidall’esperienza, gli individui saranno consapevoli del ri-schio della burocratizzazione e dell’oppressione statale.Perciò, questo pericolo si ridurrà e i singoli si aggreghe-ranno, nelle forme oggi non definibili, per mettere in co-mune ragionamenti e speranze. Ma non ci si potrà aggre-gare restando soli, perché le inclinazioni di ciascuno ren-derebbero impossibile la nascita di una comunità d’inten-ti: anche nel futuro bisognerà appartenere a qualcosa eciò causerà la rinascita dei partiti e del pluralismo. Non èimmaginabile che il lavoro finisca – si ridurrà d’intensità,ma si allargherà a tutto il potenziale di lavoro – e il lavorotornerà ad essere il fondamento della comunità. La Costi-tuzione del 2044/2084 avrà lo stesso articolo 1 di quellaitaliana del 1948. Appunto: questo è Pangloss, l’osteriadel futuro, l’altra faccia del 1984. Possiamo, allora, rappresentarci il futuro alla Orwell. LoStato sarà minimo e si limiterà alla giustizia, alla difesa ealla sicurezza: la sua ragion d’essere sarà la difesa dellaproprietà privata. Non sarà consentito al povero e allosfortunato di importunare i proprietari, e la disoccupazio-ne sarà colpa del disoccupato. Non ci sarà nessuno statosociale, ma ai diseredati sarà offerta una beneficenza de-rivante dal buon cuore dei proprietari. Chi lavorerà saràremunerato in base alla sussistenza, non alla produttività,e poiché ciò determinerà una continua scarsità di doman-da effettiva, la crescita economica sarà limitata alla do-manda che proviene dai proprietari. La società, tuttavia,avrà timore della rivolta dei poveri, e cercherà di surro-gare la miseria di ciascuno con l’illusione di ideali nazio-nali e patriottici: lo scontro tra Stati di proprietari diven-terà inevitabile, e sarà sanguinoso, perché senza sanguel’illusione sarebbe immediatamente percepita come taleda chi sarà sfruttato. La guerra costituirà la nuova do-manda effettiva. Il regime sarà perciò popolare, ma conuna democrazia limitata e protetta: potranno votare tutti,

ma chi avrà interesse a votare saranno solo i proprietari,che desiderano difendersi dalla violenza dei poveri. Laclasse media si restringerà e con essa anche la tolleranza:forme di razzismo diventeranno inevitabili, anche perchésarà necessario provvedere lo Stato con nemici interni enon solo esterni. La Costituzione del 2044/2084 assomi-glierà allo Statuto albertino e il fondamento della Repub-blica sarà la proprietà, non il lavoro.

Non ho avuto bisogno di mettere in campo l’Unione Eu-ropea, i cui trattati sono fondati su un concetto di interes-se generale rappresentato dalla libera concorrenza: per-ciò, l’Unione Europea somiglia più al futuro di Orwellche a quello di Pangloss; com’è stata pensata finora nonpotrà durare nel futuro.Sto, però, disegnando un Orwell alla Dickens: un filmdell’orrore che, purtroppo, ha una corrispondenza con ilpensiero economico standard, per il quale la realtà èsempre in equilibrio e la disoccupazione sempre volon-taria. Nemmeno Von Hayek poteva immaginare che isuoi proseliti nel nuovo millennio sarebbero tornati aBentham. Né Pangloss né Orwell sono accettabili, maguardare al futuro non è inutile: se lo si fa con sufficientecinismo, ci aiuta a comprendere meglio il presente e, for-se, ad indicare come agire.

L’economista Friedrich vonHayek, uno dei più importantidifensori delle teorie liberalidel XX secolo, è stato uno deimaggiori critici dell’economiapianificata e centralista ed èconsiderato uno dei maggioriavversari delle politiche inter-ventiste classiche di JohnMaynard Keynes.

«Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri»

“Appunto: questo è Pangloss, l’osteriadel futuro, l’altra faccia del 1984”

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Nel 1968, il biologo e demografo Paul Ralph Ehrlichpubblicava un best seller dall’apocalittico titolo The

population bomb (titolo peraltro voluto fortemente dal-l’editore e non dall’autore) nel quale, sulla scia del pen-siero malthusiano, sosteneva che la continua crescitadella popolazione avrebbe messo a repentaglio il futurodel pianeta. La capacità di popolamento, infatti, sarebbepresto arrivata ai suoi limiti e il mondo avrebbe dovutoaffrontare, già negli anni Settanta e Ottanta, fame ecarestie di massa – soprattutto nei paesi poveri – concentinaia di milioni di morti.

La popolazione mondiale, in effetti, aveva conosciutosin dai primi anni del Novecento, una crescita senzaprecedenti. Il secolo si era aperto con un miliardo e 600milioni di abitanti e poco dopo la fine della secondaguerra mondiale si era aggiunto un altro miliardo.È, però, dopo gli anni Cinquanta che la velocità accelerain modo inaspettato: alla fine degli anni Sessanta,quando esce il libro di Ehrlich, la popolazione del pia-neta conta un miliardo supplementare. E le previsionidemografiche che in quegli anni vengono effettuate, condati di base di buona qualità e dunque più affidabili,disegnano un futuro inquietante: il Club di Roma, in unoscenario pessimistico, prevede ben 12 miliardi di abi-tanti per il 2000.Protagonisti assoluti della spettacolare crescita di questianni sono i paesi meno sviluppati, che ad essa hannocontribuito per circa l’85%. Tale crescita non si è veri-ficata per un improvviso aumento della loro già elevatafecondità (sei figli per donna nel 1950, a fronte di soli2,8 nell’area più sviluppata), ma perché si è verificatauna rapidissima e intensa discesa della mortalità, soprat-tutto di quella infantile, grazie alla massiccia diffusionedi moderne terapie di prevenzione e di cura delle malat-tie, provenienti dai paesi industrializzati.La durata media della vita è così salita nell’arco di unventennio di oltre 11 anni (dai 41 del quinquennio1950-55 ai 52,2 del 1965-70). La fecondità, per con-verso, essendo fortemente legata a fattori culturali che simodificano lentamente, inizierà molto più tardi (e non

dovunque) la sua discesa. La conseguenza di questedinamiche, pertanto, è stata una crescita senza prece-denti della popolazione mondiale.Il problema demografico, aveva dunque riscontri ogget-tivi. L’obiettivo di Ehrlich non era, però, quello dicreare panico agitando lo spettro della sovrappopola-zione, quanto piuttosto quello di diffondere l’idea dellaliceità degli interventi statali, e di incoraggiare l’ado-zione di politiche che riducessero gradualmente lafecondità, avviando così un processo che avrebbe por-tato ad una dimensione globale della popolazione soste-nibile nel lungo periodo.Molti paesi del mondo meno sviluppato hanno messo inatto politiche di contenimento della fecondità, che però,se si eccettua quella draconiana della Cina, non sonosempre state coronate da successo.Considerando l’area meno sviluppata nel suo com-plesso, la fecondità è tuttavia scesa moltissimo e ilnumero medio di figli per donna dall’inizio degli anniSettanta a oggi si è dimezzato (da 5,2 a 2,7).Malgrado ciò, la popolazione mondiale ha continuato adaumentare in termini assoluti, pur se a una velocità piùridotta. Nel corso dell’ultimo trentennio, ogni anno ècresciuta in media di circa 80 milioni di persone, unaquantità pari all’attuale popolazione della Germania.E il contributo dei paesi meno sviluppati è ormai attornoal 95%, essendo i paesi più ricchi prossimi alla crescitazero, a causa di una fecondità da decenni molto bassa.

La fecondità diminuisce, ma la popolazione aumenta:sembra un paradosso, ma questo è solo apparente. Ladiminuzione del tasso di fecondità, infatti, non si traducein un immediato arresto della crescita di popolazioneperché il numero delle nascite può restare stabile o per-sino aumentare per qualche decennio se c’è un elevatonumero di donne in età fertile nate negli anni di babyboom. È questo l’effetto inerziale, noto come “momen-tum demografico”, che si stima sarà responsabile di metà

Disinnescata la bomba demografica2075: flessione della popolazione mondiale

di Annunziata Nobile

“La popolazione mondiale, nel corsodell’ultimo trentennio, è cresciuta ogni

anno in media di circa 80 milioni dipersone, una quantità pari all’attuale

popolazione della Germania. E ilcontributo dei paesi meno sviluppati èormai attorno al 95%, essendo i paesipiù ricchi prossimi alla crescita zero”

“La sfida demografica è oggi piùregionale che globale. I paesi sviluppati

devono far fronte a un crescenteinvecchiamento, problema che puòmettere in grave crisi i sistemi diwelfare. I paesi meno sviluppati

devono invece gestire un processo diurbanizzazione spesso caotico,

determinato da flussi rurali-urbani difortissima intensità”

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della crescita demografica dei prossimi 100 anni.La popolazione mondiale è oggi di circa 7 miliardi (ver-ranno raggiunti nel corso del 2011); è dunque raddop-piata dagli anni dell’infausta profezia di Ehrlich. Fortu-natamente, le catastrofi alimentari non si sono verifi-cate, se non a livello di piccole aree. Il gigantescoaumento della produttività agricola (la “rivoluzioneverde”) ha contribuito ad aumentare la capacità di popo-lamento del pianeta, ma a costi elevati (degradoambientale causato dai pesticidi, riduzione delle risorseidriche e della biodiversità agricola). Frenare l’aumentodella popolazione resta dunque un’esigenza ineludibile.

La sfida demografica è oggi più regionale che globale. Ipaesi sviluppati devono far fronte a un crescente invec-chiamento, problema che qualcuno ha definito – conroboante metafora – una bomba ad orologeria, che puòmettere in grave crisi i sistemi di welfare.I paesi meno sviluppati devono gestire un processo diurbanizzazione spesso caotico, determinato da flussirurali-urbani di fortissima intensità, devono saper sfrut-tare la cosiddetta “finestra demografica”, caratterizzatada un’elevata incidenza di giovani all’interno dellapopolazione, grande risorsa se viene gestita in modoadeguato, ma che può tradursi in un altrettanto grandeproblema se non si riesce a fornire loro un’adeguata for-

mazione e non si creano sufficienti spazi nel mercatodel lavoro. Queste sfide, o “bombe ad orologeria” per chi ama lemetafore, diventeranno ancora più rilevanti nel futuro,se si dà credito alle previsioni demografiche.Queste hanno un forte margine di incertezza, soprattuttose prolungate nel tempo, perché l’evoluzione futuradelle componenti della crescita demografica (fecondità,sopravvivenza e migrazioni) è molto difficile da ipotiz-zare, in particolar modo quella della fecondità. Farò quiriferimento alle previsioni per il 2050 della Divisioneper la popolazione delle Nazioni Unite – tra le piùaccreditate – che vengono aggiornate ogni due anni percorreggere il tiro alla luce dei più recenti cambiamenti.Farò anche qualche considerazione sulle previsioni apiù lungo raggio, ancora della Nazioni Unite, nellequali i margini di incertezza sono, però, più che propor-zionali alla lunghezza dell’orizzonte temporale.

Le previsioni si articolano, generalmente, in tre scenari,che derivano da tre differenti ipotesi evolutive dellafecondità, ciascuna combinata con identiche traiettoriedi mortalità e migrazioni. Ne risulta una forbice moltoampia, (vedi fig. 1); la popolazione mondiale potrebberaggiungere, nel 2050, un ammontare variabile tra 8 e10,5 miliardi. La differenza non riguarda solo la dimen-sione finale, ma anche le evoluzioni; la variante“bassa”, infatti, prevede un precoce inizio, già nel corsodegli anni Quaranta di questo secolo, del decrementodemografico a livello mondiale.

Fig. 1 - Evoluzione della popolazione mondiale secondo tre va-rianti nelle previsioni delle Nazioni Unite, 2010-2050 (cifre in mi-lioni). Fonte: elaborazione personale su dati United Nations,World Population Prospects. The 2008 Revision, inhttp://esa.un.org/UNPP

Fig. 2 - Evoluzione osservata e prevista della popolazione peraree secondo la variante media delle previsioni a lungo raggiodelle Nazioni Unite 1950-2100 (cifre in milioni). Fonte: elabo-razione personale su dati United Nations, World Population to

2300, New York, 2004

“L’evoluzione demograficadifferenziale delle diverse aree

geografiche è destinata a ridisegnare lamappa del popolamento del pianeta.

Particolarmente rilevante è la perditadi peso della popolazione europea, nel1950 un abitante della terra su cinque

era europeo, oggi lo è uno su dieci ealla fine del secolo il rapporto potrebbe

salire ad uno su diciassette”

“La popolazione mondiale, secondo idati delle Nazioni Unite, conterà nel

2050 9 miliardi e 150 milioni dipersone, ovvero 2 miliardi aggiuntivi

rispetto ad oggi”

FIG. 1

FIG. 2

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Essendo, tuttavia, loscenario medio quelloritenuto più probabile,farò ad esso riferi-mento. La popolazionemondiale – consenti-temi l’arbitrio dell’usodel futuro in luogo delcondizionale – conteràa quella data 9 miliardie 150 milioni di per-sone, ovvero 2 miliardiaggiuntivi rispetto adoggi. La quasi totalitàdi questa crescita(98%), per le considera-zioni fatte in prece-denza, sarà dovuta aipaesi che oggi vengonodefiniti – con grandiforzature, giacché è inclusa anche la Cina – meno svi-luppati. Se le ipotesi che sono alla base di questo scena-rio saranno vere, si profila una lenta ma continua dimi-nuzione della velocità di crescita, fino al suo arresto acui seguirà il decremento demografico.Nelle previsioni a lungo raggio, sempre delle NazioniUnite, il punto di svolta si situerebbe attorno al 2075,poi, per la prima volta nella storia dell’umanità dopo laPeste Nera, la popolazione dovrebbe iniziare un lentodeclino (vedi fig. 2).

L’evoluzione demografica delle grandi aree geografichesarà verosimilmente molto differenziata.L’Africa, all’orizzonte del 2050, dovrebbe raddoppiarela sua popolazione attuale, raggiungendo la quota di 1,8miliardi, mentre l’Europa proseguirebbe la traiettoriadiscendente, malgrado il robusto innesto di immigrati; ilNord America, l’America Latina e l’Oceania dovreb-bero avere una crescita molto contenuta e la popola-zione asiatica, di gran lunga la più numerosa, dovrebbeaumentare di circa 1 miliardo, superando i 5,2 miliardi. L’evoluzione demografica differenziale di queste areeha ridisegnato, e ancor più avverrà nel futuro, la mappadel popolamento del pianeta. I mutamenti geodemogra-fici, che comportano inevitabili conseguenze politiche,sono molto forti (vedi fig. 3). Particolarmente rilevanteè la perdita di peso della popolazione europea, nel 1950un abitante della terra su cinque era europeo, oggi lo èuno su dieci e alla fine del secolo il rapporto potrebbesalire ad uno su diciassette, per contro è fortissima lacrescita del peso della popolazione africana: da un afri-

cano ogni undici abi-tanti della terra nel1950, a uno su sette dioggi e a un probabilerapporto di uno su quat-tro nel 2100.Se si scende al dettagliodel singolo paese, sipossono osservare verie propri stravolgimentinella classifica deglistati più popolosi, chevede oggi ai primi cin-que posti Cina, India e,largamente staccati,Stati Uniti, Indonesia eBrasile. Nel 2050, sem-pre secondo la variantemedia, l’India, con isuoi 1,6 miliardi di abi-

tanti, avrà sorpassato la Cina, al terzo posto sarannoancora gli Stati Uniti e seguiranno Pakistan e Nigeria. Afine secolo, la graduatoria dovrebbe restare inalterata,ma il Pakistan (408 milioni) avrà quasi raggiunto gliStati Uniti.Particolarmente forte sarà la crescita demografica deipaesi con larga maggioranza di popolazione musul-mana.Attualmente, dei 48 paesi con il più alto tasso di incre-mento (superiore al 2% annuo), ben 28 appartengono aquesta categoria ed è verosimile che tale situazione con-tinui nei prossimi decenni.

Questi paesi, molti dei quali sono economicamentedeboli, hanno inoltre una elevatissima quota di giovaniai quali sarà difficile dare occupazione e che sarannoperciò sempre più attratti dai mercati del lavoro europei,nord americani e dell’Asia nord orientale, investiti daun intenso processo di invecchiamento.Questa situazione ha destato preoccupazione tra alcunianalisti politici, che hanno parlato di “bomba islamica”.È, perciò, imperativo migliorare le relazioni tra mondomusulmano e società occidentali.Ciò non sarà facile, dato che molti di questi giovanivivono in comunità povere, vulnerabili al fondamentali-smo radicale e che vedono l’Occidente in modo antago-nistico e militaristico. La “bomba demografica” deglianni Sessanta del XX secolo non è esplosa e non esplo-derà, ma altre sfide si preparano per l’umanità del XXIsecolo.

“Nelle previsioni a lungo raggio ilpunto di svolta si situerebbe attorno al

2075, poi, per la prima volta nellastoria dell’umanità dopo la Peste Nera,

la popolazione dovrebbe iniziare unlento declino”

“È fortissima la crescita del peso dellapopolazione africana: da un africano

ogni undici abitanti della terra nel1950, a uno su sette di oggi e a un

probabile rapporto di uno su quattronel 2100”

Fig. 3 - Distribuzione della popolazione mondiale per grandi aree geografi-che. 1950, 2010, 2050, 2100 (per il 2050 e il 2100, variante media). Fonte:elaborazione personale su dati United Nations, World Population to 2300,New York, 2004

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Le diverse forme dell’in-sediamento degli spaziuniversitari nella cittànon sono state mai casua-li, né puramente occasio-nali. Ad esse, in buonaparte, è affidata l’imma-gine del ruolo civile, cul-turale e politico che l’i-stituzione ha voluto daredi sé; immagine che inogni caso viene quotidia-namente rispecchiata dal-le specifiche quantità,

qualità, densità e tonalità delle occasioni di convivenzacon la città, che appunto dalle forme del suo insedia-mento volutamente conseguono.I due modelli di riferimento più tradizionali e comuni,seppure molto adattati alle circostanze e modificati neltempo, sono stati quello anglosassone del ‘campus’ equello tedesco (humboldtiano) della ‘città universita-ria’. Nel primo prevale il senso della separatezza fun-zionale e, in origine, anche sociale: senso che resta an-che nelle interpretazioni contemporanee, le quali man-

tengono l’idea di uno spazio dedicato ad un ciclo educa-tivo riservato e quindi da svolgersi in un luogo ameno,dignitoso e austero, dotato (possibilmente) di confortiresidenziali e quasi claustrali, lontano dalla città o, alpiù, vicino ad un borgo di servizio.

Nel secondo modello prevale ancora la separatezza, main tutt’altro modo: qui è la dignità dell’istituzione pub-blica, generalista e non più classista, a imporre l’unita-rietà e la distinzione della sua presenza fisica, che vieneinterpretata quindi come una cittadella non più residen-

Università sostenibiliRealizzazione e sviluppo del modello sinergico università-città

di Francesco Cellini

Francesco Cellini

“Roma Tre ha adottato un modello deltutto originale, che punta sulla

diffusione e l’integrazione delle propriestrutture nella città, con l’unica regola

che esse siano comprese in un benpreciso settore urbano in via di

sviluppo e ben collegate da un sistemaefficiente di trasporti pubblici e di reti

metropolitane”

Planimetria del piano di assetto del Valco di San Paolo

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ziale, ma soltanto didattica e scientifica, aulica, recinta-ta e ben riconoscibile, posta in un dialogo paritario collealtre grandi istituzioni pubbliche della città. Contrariamente a tutto ciò, Roma Tre ha adottato unmodello del tutto originale, che punta sulla diffusione el’integrazione delle proprie strutture nella città, con l’u-nica regola che esse siano comprese in un ben precisosettore urbano in via di sviluppo e, soprattutto, sianoben collegate da un sistema efficiente di trasporti pub-blici e di reti metropolitane.Va aggiunto che non si trat-ta di un modello precostituito o adottato per imitazione,a meno che non si voglia ricorrere all’evocazione, sug-gestiva ma in buona misura inadeguata, dei primi inse-diamenti universitari medioevali (Salamanca, Vallado-lid, Bologna) prodotti dalla gemmazione di polarità di-stinte e limitrofe in un’unica struttura urbana, ma di unastrategia ben precisa, elastica e molto calzante alle con-dizioni reali, capace di assorbire, con un successo dimo-strato sinora dai fatti, tutte le ovvie difficoltà ed incer-tezze della pianificazione nella città contemporanea.Il tema dell’identità e della riconoscibilità istituzionaleviene quindi qui posto in un modo nuovo, dovendo farea meno dell’unicità di uno spazio individuato da un re-cinto o da un toponimo, e si sposta prima di tutto su duepiani distinti: quello immateriale dell’immagine pubbli-ca (che deve essere, come in buona parte è oggi, eviden-te e chiara in ogni sua manifestazione culturale e media-tica) e quello fisico offerto dalla omogenea ed alta qua-lità architettonica e funzionale delle sue singole compo-nenti edilizie, ambientali e dei suoi servizi.

Ma la straordinaria potenzialità di innovazione dellastrategia insediativa di Roma Tre, la sua stessa attualità,sta nell’idea di integrazione che vi è contenuta, come èstato già ampiamente, ma ancora forse parzialmente, di-mostrato dai fatti: con essa uno studente (o un docente,o un funzionario) vive già ora la sua attività didattica (oscientifica o amministrativa) in un ambito proprio manon del tutto esclusivo, anzi in qualche modo permeabi-le ed aperto alla città; poi, potenzialmente, esso potràancor più sentirsi utente di un sistema reticolare checomprenda altre strutture didattiche o culturali ed altrefunzioni e servizi urbani.

Parallelamente l’università diventa in qualche modo piùaccessibile; soprattutto essa cessa di apparire, agli occhidei cittadini, come un organismo sostanzialmente estra-neo alla ‘civitas’ e si costituisce come un’istituzionedavvero, e non solo formalmente, democratica.

“I due modelli di riferimento piùtradizionali e comuni, seppure moltoadattati alle circostanze e modificati

nel tempo, sono stati quelloanglosassone del campus e quellotedesco (humboldtiano) della città

universitaria”

Modello del piano di assetto del Valco di San Paolo

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Questo voleva essere Roma Tre, ed in buona misura lo èoggi, a diciotto anni dalla sua fondazione. Naturalmentenon tutto è stato semplice, né potrà esserlo in futuro.Già dagli inizi c’era la consapevolezza che la desiderataintegrazione funzionale non sarebbe mai derivata da unamera giustapposizione di edifici universitari e di partidella città esistente, e così l’attuale assetto è stato rag-giunto attraverso una faticosa stratificazione di progetti,in cui però è ben riconoscibile, anche a vederli retro-spettivamente, il tratto di un disegno unitario, anche semassimamente pragmatico, adattativo e versatile. Adesso però il tema, reso ancor più difficile da una faseeconomia assai critica, è quello di programmare insiemead un’espansione adeguata e prudente, il completamen-to ed il perfezionamento del già fatto, cosa che compor-ta ovviamente la compresenza di differenti strategie e didifferenti opzioni temporali.Ad una cauta attenzione alle eventuali opportunità piùlontane di sviluppo (varie, ma sempre sull’asse ostiense,sia nel suo tratto urbano che in quello più esterno, finoad Ostia) ed alla tesaurizzazione di alcune occasionispecifiche (le donazioni relative al futuro centro studi diVilla Maruffi ed al centro convegni di Allumiere), si staaccompagnando un’accurata selezione di interventi pun-tuali per il completamento di alcuni servizi, non sempremutuabili da quelli presenti dei dintorni, quale è il caso,fra gli altri, della Mensa nell’area della facoltà di Lette-re e Filosofia o per il restauro ed adeguamento di alcunesedi. In altre situazioni, come sta avvenendo per il Val-co San Paolo, un’area dove è prevista una notevolequantità aggiuntiva di edifici e servizi, lo sforzo di pro-grammazione temporale e progettuale diventa partico-larmente complesso, comprendendo almeno due obietti-vi diversi e tuttavia connessi.Il primo è la realizzazione di edifici di alta qualità tec-nica, funzionale ed estetica, tutti caratterizzati da un ac-centuato rispetto per il carattere ex-industriale del sito eper la sua particolare struttura orografica e urbana.Si tratta della ex Vasca Navale, ora in costruzione perun primo lotto assai significativo; delle Residenze uni-versitarie con la connessa Scuola di alta formazione; delPolo scientifico-tecnologico per la ricerca ‘industriale’

nel campo delle nanotecnologie, dell’Asilo aziendale edel potenziamento dello Stadio degli Eucalipti, tuttiprogetti in fase di avanzata programmazione o di appal-to. Il secondo obiettivo, strettamente collegato al prece-dente, è quello di attuare qui un vero e proprio progettourbano di ampio respiro, che renda coerenti e sinergicitutti gli interventi previsti con quelli già in funzione,dotando l’insieme di un rinnovato sistema di spazi pub-blici pedonali, parcheggi, viabilità e servizi, che anchepreveda ed accolga la futura acquisizione di edifici qua-li la ex-de Laurentis, la realizzazione dell’orto botanicoe che infine abbia la capacità di configurare, in tutta lavasta area compresa nell’ansa del Tevere, un vero e pro-prio sistema coerente e organico, non solo universitario,ma in cui la parte universitaria assuma un ruolo centra-le: una sorta di cuore pedonale, attivo, animato, confor-tevole per i suoi utenti, ma anche capace di rianimare lacittà circostante, di aprirvisi e di servire a chi ci vive.

C’è poi il caso dell’ex Mattatoio, in cui si sta finalmen-te per concretizzare, con l’appalto di vari padiglioni, undisegno rimasto latente da anni: qui la facoltà di Archi-tettura, i dipartimenti ad essa affini e quello di Arte, laloro biblioteca ed i loro laboratori, convivranno construtture culturali comunali (Il Macro, la ex-Pelanda deisuini), con l’Accademia di Belle arti, con la Sovrinten-denza comunale, la Scuola di Musica di Testaccio e convarie altre istituzioni ed associazioni minori, riprodu-cendo, quasi in vitro e anche in questo luogo peculiare edifficile, il modello sinergico ed integrato università-cit-tà che distingue Roma Tre.

“L’università diventa in qualche modopiù accessibile e soprattutto cessa di

apparire, agli occhi dei cittadini, comeun organismo sostanzialmente estraneo

alla civitas e si costituisce comeun’istituzione davvero, e non solo

formalmente, democratica”

I nuovi edifici nell’area della ex Vasca Navale al Valco di San Paolo

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Il comitato scientifico del-la sezione “Vita quotidia-na” dell’A.I.S. ci ha invi-tati quest’anno a riflettereattorno a un saggio di Ar-jun Appadurai, The capa-

city to aspire (“la capacitàdi aspirare”, o di “nutrireaspirazioni”).Il cuore del saggio è l’i-

dea che le rappresentazio-ni e gli orientamenti neiconfronti del futuro sianouna parte importante di ciò

che chiamiamo cultura. Culture matters, scrive Appadurai,la cultura conta, e in particolare per le politiche dello svi-luppo finalizzate alla riduzione della povertà. Queste po-trebbero trovare nella capacità di nutrire aspirazioni da par-te di chi è povero “un naturale alleato”. Per i poveri stessi,questa capacità farebbe parte delle «risorse necessarie persfidare e modificare la propria condizione».Appadurai descrive le azioni di un insieme di organizza-zioni non governative composte da attivisti impegnati amodificare le condizioni di vita degli abitanti degli slums

di Mumbay. Fra le attività di queste organizzazioni rien-tra l’insegnare ai poveri a risparmiare. Il saggio si con-clude con queste note: «Poiché le politiche dello svilup-po e di riduzione della povertà hanno a che fare con il fu-turo, è evidente che una migliore capacità di nutrire aspi-razioni può solo rendere i poveri migliori partner di que-ste stesse politiche». E ancora: «Si tratta di mettere il fu-turo, piuttosto che il passato, al cuore del nostro modo dipensare la cultura».Alcune delle affermazioni con cui il saggio si apre mi paio-no discutibili: non sono sicuro che l’antropologia abbiasottostimato fino ad oggi gli orientamenti al futuro presentinelle varie culture come Appadurai dice; non mi sembravero che le politiche dello sviluppo abbiano sempre man-cato di considerare certe variabili culturali. Penso però cheper chi si occupa di politiche sociali il passaggio dall’usodi nozioni riguardanti i “bisogni” a un discorso focalizzatosulle “aspirazioni” sia estremamente importante. Mette alcentro dell’attenzione la soggettività delle persone, enfatiz-za la loro responsabilità, indica strategie d’azione concrete. Soprattutto, trovo di grande interesse l’invito a prestare at-tenzione agli aspetti per cui ogni cultura comprende certerappresentazioni e orientamenti riguardanti il futuro. Nei termini di Appadurai, le aspirazioni sono orientamentiattivi nei confronti del futuro. Una miscela di immagina-zione e di volontà. Sono, per così dire, dei ponti che i sog-getti costruiscono fra il presente e il futuro. Possiamo arti-colare ulteriormente questa definizione.

Fenomenologicamente, le aspirazioni si collocano fra imeccanismi della protensione e quelli dell’anticipazio-

ne. Traendo linfa sia dalla protensione che dall’anticipa-zione, le aspirazioni sono qualcosa di simile a dei desi-

deri disciplinati, cioè desideri posti in relazione con ilprincipio di realtà (per come il soggetto ha modo di in-tendere la realtà, naturalmente): avere certe aspirazioninon significa infatti meramente desiderare, sperare o at-tendersi che qualche cosa accada, significa immaginareobiettivi plausibili e disporsi a corsi d’azione che al rag-giungimento di questi obiettivi paiono adeguati entro unfuturo probabile.

L’aspetto più interessante delle aspirazioni è che questesono sia un non-ancora (l’obiettivo, per definizione,non è ancora stato raggiunto), sia una modalità del pre-

sente. Aspirare a qualcosa vuol dire dare un senso al fu-turo (scegliere fra i possibili quello più desiderabile; farsì che il futuro non sia indifferente): ma lo si fa nel pre-sente, e il senso del futuro si riverbera così sul sensodell’ora, che dalla presenza dell’aspirazione è modifica-to. Le aspirazioni sono dunque parte del significato cheassumono i nostri corsi d’azione; contribuiscono a dareal presente la sua coloritura. Chi aspira a qualcosa è piùvigile di chi non ha aspirazioni, è attento alle opportuni-tà che all’aspirazione possono venire connesse (e chesolo l’aspirazione, in verità, permette di considerare ta-li); è attivamente aperto al possibile. D’altro canto, co-me nota Appadurai, la capacità di nutrire aspirazioni èsocialmente distribuita in modo ineguale. Nutrire aspira-zioni è in un certo senso saper “navigare” nel tempo: civogliono conoscenze, informazioni, relazioni ed espe-rienze per saperlo fare; chi ne è povero, è povero anchedella capacità di aspirare. Ma, scrive ancora Appadurai,le aspirazioni «non sono mai semplicemente individuali[…]. Si formano nell’interazione e dentro lo spesso tes-suto della vita sociale». Tanto gli obiettivi cui appare sensato aspirare, quanto ilquadro temporale in cui le aspirazioni si situano, quantoinfine il sistema di previsioni collettive sul cui sfondo si

Il tempo è cambiatoI quadri sociali della capacità di nutrire aspirazioni

di Paolo Jedlowski

Paolo Jedlowski

“Come ha scritto John Lewis Gaddis,«conosciamo il futuro solo attraverso il

passato che vi proiettiamo». Lerappresentazioni del passato sono

influenzate dai progetti che coltiviamo;ma anche le rappresentazioni delpassato influenzano i modi in cui

immaginiamo il futuro”

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dipana il progetta-to corso d’azionedipendono daicontesti sociali, esono interiorizzatidagli attori comeparametri che di-segnano il solcoentro cui le aspira-zioni soggettive sicollocano. Datempo abbiamoimparato a parlare

dei “quadri sociali” della memoria: ma esistono quadrisociali anche per il futuro. Come ha scritto lo storico John Lewis Gaddis, «noi cono-sciamo il futuro solo attraverso il passato che vi proiettia-mo». Da sociologi, sappiamo quanto le rappresentazionidel passato siano influenzate dai progetti che coltiviamo;ma, viceversa, anche le rappresentazioni del passato in-fluenzano i modi in cui immaginiamo il futuro. Sappiamocome il passato possa essere oggetto di rimozione oppuredi elaborazione; ma entrambi i processi riguardano ancheil futuro: ciò che è rimosso tende a ripresentarsi immuta-to, mentre ciò che è elaborato permette di progettare il fu-turo responsabilmente. Fra i modi in cui si guarda al pas-sato e quelli con cui si guarda al futuro vi è insomma unacircolarità. Ma entro quali quadri sociali si colloca oggi la “capacitàdi aspirare”? Questa è la domanda intorno a cui il saggiodi Appadurai mi spinge a riflettere. Non posso parlare del-l’India. Ma qui da noi, in Occidente? Lo sfondo su cui le persone hanno collocato le proprieaspirazioni (individuali, famigliari e di gruppo) nell’Oc-cidente moderno è stato fornito a lungo dall’idea di pro-

gresso. Oggi l’idea pare in crisi. I quadri sociali entrocui noi guardiamo al futuro corrispondono a questa ere-dità lacerata.

A proposito del progresso, Robert Nisbet ha scritto chenella nostra civiltà «nessun’altra idea è stata più impor-tante». Sul piano storico non si può dargli torto. Questaidea ha fornito un quadro entro cui aspirazioni soggetti-ve ed attese riguardanti il futuro si sono sostenute reci-procamente.Il “progresso” è una credenza: la credenza che - a livellodella società nel suo insieme - domani sarà migliore di og-gi. Si tratta di una interpretazione del mutamento di cui lesocietà moderne hanno fatto esperienza. Una interpreta-

zione in positivo: capace di selezionare le evidenze a con-ferma e di rimuovere le evidenze contrarie. Non è mai sta-ta esente da critiche e non è mai stata disgiunta da con-trappunti nostalgici, ma è stata un’interpretazione larga-mente egemonica. Raymond Aron la definiva una “religio-ne secolare”. È una “grande narrazione”. Probabilmente lagrande narrazione per eccellenza dell’Occidente moderno. Nelle sue differenti versioni, l’idea di progresso ha corri-sposto a programmi orientati allo sviluppo di scienze etecnologie, all’aumento dell’istruzione e della partecipa-zione politica, alla crescita delle capacità produttive e delbenessere materiale e, almeno in linea di principio, alladistribuzione universale dei benefici prodotti. Ma insieme,e soprattutto, ha corrisposto all’attesa fiduciosa che questiprogrammi si realizzassero. Si è trattato di un orizzonte disenso entro cui certe aspirazioni sono state socialmenteplausibili e sono state legittimate dall’aspettativa che fos-se la società tutta a muoversi “in avanti”, verso un futuromigliore. I processi di modernizzazione, ovunque si sono verificati,hanno comportato una mobilitazione generalizzata diaspirazioni personali coerenti con progetti collettivi il cuisuccesso era fiduciosamente previsto. Questo quadro hareso individui e gruppi capaci di fornire a se stessi ciò cheAppadurai nel suo testo chiama «[…] le giustificazioni, lenarrative, le metafore e le strade per legare l’aspirazione acerti insiemi di beni e servizi ai più ampi scenari sociali»:una logica insomma che permette tanto di interpretarequanto di prefigurare certi corsi d’azione.L’epoca d’oro dell’idea di progresso, a livello di massa, ècoincisa con i decenni fra il 1945 e i primi anni Settanta.Oggi l’idea sta diventando meno scontata. In verità, non ècosì ovunque, e anche in Occidente la crisi procede pergradi. Ma, per i più, alla fiducia nel futuro subentra oggiun regime di attese più incerto. A livello di massa, la prima erosione di questa fiducia èavvenuta negli anni Ottanta. Dall’incidente di Chernobylin avanti si è cominciato a percepire che lo svilupposcientifico e tecnologico dà luogo a rischi imprevisti. Èciò che, nello stesso anno di Chernobyl, teorizzava UlrichBeck: dagli sviluppi delle tecnologie nucleari fino alle ap-plicazioni della chimica e, più recentemente, della geneti-ca, si delinea un panorama in cui scienze e tecniche paio-no fonte di potenziali e originali minacce. Altri fattori di incertezza hanno colpito con forse maggio-re efficacia. A partire dagli anni Ottanta il sistema finan-ziario ha raggiunto un livello di autonomia dalla produ-zione reale che è senza uguali nella storia, e ciò provocaoscillazioni paurose, i cui effetti sono perfettamente per-cepibili a livello di massa. Così come sono percepibili glieffetti della riorganizzazione della produzione in chiavepost-fordista e della inedita precarizzazione del lavoro chequesta ha generato. Unita agli scricchiolii del sistema previdenziale e assi-stenziale, la precarizzazione dei rapporti di lavoro ha al-lontanato le traiettorie di vita da modelli che erano sem-brati assodati. Ma non si tratta solo di incertezza. Il punto è anche unaconcreta riduzione delle opportunità. In una ricerca pub-blicata in Italia nel 2002, Antonio Schizzerotto ha notato:«I trentenni e i ventenni di oggi costituiscono le prime

L’antropologo statunitense Arjun Appadu-rai, autore del saggio The capacity to aspire

“Lo sfondo su cui le persone hannocollocato le proprie rappresentazioni

nell’Occidente moderno è stato fornitoa lungo dall’idea di progresso. Oggil’idea pare in crisi. I quadri socialientro cui noi guardiamo al futuro

corrispondono a questa ereditàlacerata”

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16 due generazioni del XX secolo a non essere in grado dimigliorare le proprie prospettive di vita rispetto a quelledelle generazioni dalle quali discendono». Vale probabil-mente lo stesso per la maggior parte dei paesi occidentali.E vale soprattutto per il nerbo della società novecentesca,i ceti medi, la cui posizione oggi è in bilico.

Incertezza e contrazione del ventaglio delle chances ri-chiedono una sorta di flessibilizzazione delle aspirazio-ni. È possibile che aumenti anche, per alcuni, la tenta-zione di ricorrere a mezzi illegali per realizzare aspira-zioni che con mezzi legali appaiono fuori portata; permolti, cresce la tentazione di affidarsi alla fortuna (lacrescita di spese in lotterie e simili ne è un indicatore). Ma per comprendere in che direzioni si stia modificandoil quadro delle aspirazioni, è necessario rammentare chel’idea di progresso è fatta in verità di diverse nozioni in-trecciate: c’è la fiducia nei progressi della scienza e del-le tecnologie, quella nella crescita del benessere dispo-nibile, e quella nel fatto che tale benessere sarà accessi-bile ai più. I dubbi più diffusi oggi non mi pare riguardi-no i primi elementi. Fra le promesse del progresso, una certa nozione di equitàdistributiva, almeno in quanto equità di distribuzione del-le chances, è sempre stata presente. Ma questa oggi è inforse. Il progresso c’è, insomma, ma non per tutti. Questosospetto genera risentimento. E il risentimento modificaradicalmente il quadro delle aspirazioni. Non si aspira piùa qualcosa cui tutti, in linea di principio, possono aspiraresenza che la soddisfazione degli uni neghi quella degli al-tri: si aspira a conseguire o almeno a mantenere certe po-sizioni che possono essere acquisite o mantenute solo ascapito dei concorrenti. I movimenti regionalisti delle re-gioni più forti, i moti corporativi di tanti gruppi sociali,hanno qui la loro origine. La fiducia nel progresso genera-

lizzato includeva. La prospettiva di un progresso selettivodivide. Per chi ha chiaro di non essere tra i fortunati, “pro-gresso” diventa il nome di una promessa mancata. In alcu-ni, ciò che qui può svilupparsi è, più che un risentimento,un vero e proprio rancore: dove la memoria di ciò che siera imparato a desiderare e che ora è fuori portata assumeil senso di un trauma che non si è disposti ad elaborare. Il progresso va ripensato, scrive Pierre-André Taguieff inLe sens du progrès (2005). Ciò che ritiene definitivamenteinservibile è l’interpretazione del progresso in chiave “ne-cessarista”, cioè tanto la credenza nel suo automatismoquanto la fiducia nel fatto che ogni aspetto del progressosi dispieghi di conserva: dagli ambiti scientifici e tecnici aquelli sociali, morali e politici. Ma come nota Taguieff «[…] alla fittizia necessità delprogresso si potrebbe sostituire la […] volontà più mode-sta di realizzare questo o quel progresso in un dato ambi-to». Quella che si potrebbe salvare, in altri termini, è unanozione che «non rinvii più al progresso (al singolare) maa dei progressi (al plurale)». Che includa prudenza e re-sponsabilità. Il nuovo, in se stesso, non è garanzia di mi-glioramento. Ci sono cose che è opportuno serbare.Si tratta di un atteggiamento che Taguieff definisce un“conservatorismo critico”. Altrove lo chiama “migliori-smo”, e dichiara di riprendere il termine da una donna,una romanziera, George Eliot. Forse non è casuale: Ta-guieff non cita il femminismo della seconda metà del No-vecento, ma l’idea del senso dei limiti (del progresso, del-la perfettibilità, della natura stessa) che anima le sue ri-flessioni dal neofemminismo è stata elaborata ampiamen-te. Il pensiero femminista ha riformulato l’idea del pro-gresso in quella di una crescente capacità di prendersi cu-

ra della vita, delle relazioni, del mondo. Ma elaborare i limiti del progresso per come lo si è fin quiprevalentemente pensato e proporre nuove declinazionidel concetto significa modificare il quadro delle aspirazio-ni. D’altro canto, significa anche riconoscere che esistonoaspirazioni diverse, per tipo e per qualità. Ci sono aspirazioni che, per realizzarsi, hanno bisogno diessere condivise. L’aspirazione del protagonista del ro-manzo di Fitzgerald, Il grande Gatsby, ad esempio, eraavere mille camicie: si tratta di ostentare la propria ric-chezza. In questo caso non c’è bisogno che altri soddisfi-no la stessa aspirazione: anzi, l’obiettivo ha senso solo

“I processi di modernizzazione,ovunque si sono verificati, hanno

comportato una mobilitazionegeneralizzata di aspirazioni personalicoerenti con progetti collettivi il cui

successo era fiduciosamente previsto”

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nella misura in cui altri non lo conseguono. (L’unica con-dizione è che condividano l’idea che l’obiettivo ha valo-re). Ma pensiamo un altro esempio: l’aspirazione a pas-seggiare per le strade di una città pulita. In questo caso,l’obiettivo è raggiungibile solo se altri lo condividono ecooperano al suo raggiungimento. In entrambi i casi si tratta di aspirazioni plausibili; masono essenzialmente diverse. Come quelle del primo tiponon riguardano solo le camicie, ovviamente, quelle delsecondo non riguardano solo la pulizia delle strade. Pos-sono avere a che fare con il desiderio di vivere in unmondo dove la soddisfazione degli uni non sia minatadall’insoddisfazione di altri; dove la dignità umana siagarantita; dove il riconoscimento sia equamente distri-buito. Queste aspirazioni dipendono dal riconoscimentodel fatto che l’umanità di chi non riconosce umanità al-l’altro è irrisoria. Questo tipo di aspirazioni convive nelle nostre culturecon altre aspirazioni (quelle più correnti, non molto dis-simili da quelle di Gatsby). Ma nessuna cultura è un tut-to omogeneo. Le maggiori differenze corrono a volta alloro interno.Si tratta di fare ricerca: di indagare i sistemi di aspirazio-ni, ciò che li influenza, le direzioni in cui si stanno modi-ficando. I nostri studi sulla memoria possono tornare utili.La memoria scava il solco entro cui le aspirazioni si inca-nalano e queste a loro volta spingono a leggere in certimodi il passato. Nel mondo contemporaneo, si dice che lememorie tendano a essere “brevi”: ma ciò riguarda soprat-tutto le memorie di lavoro, connesse a compiti multiformie temporanei per loro natura; altre memorie, di portata piùlunga, convivono entro le stesse persone. Lo stesso valeper il futuro: viviamo in “futuri brevi” a causa dell’incer-tezza di molti ambiti in cui ci troviamo a operare, ma ciònon esclude speranze, investimenti o progetti a più lungascadenza. D’altro canto, contano i modi in cui la societàintera, attraverso i flussi di comunicazione che si intrec-ciano al suo interno, immagina il futuro. Questi influenza-no tanto la percezione della plausibilità di certi obiettiviquanto quella di certi corsi d’azione. La definizione delfuturo ha effetti concreti sui comportamenti: le previsionia riguardo sono dunque oggetto di dispute, di strategie co-municative, di manipolazioni da parte di diversi poteri.

Come per il passato le rappresentazioni del futuro sonooggetto di costruzione sociale. Ciò che è possibile, pro-babile oppure impossibile è raramente un dato incontro-vertibile: è un modo di interpretare quello che abbiamodi fronte. Poiché questa interpretazione influirà sui corsid’azione, si compete per diffondere l’interpretazione piùconveniente. Gran parte dei conflitti che oggi attraversa-no i mondi della comunicazione riguardano esattamentequesto punto: individui e gruppi competono, cooperano,negoziano o cercano di annullarsi a vicenda nel tentati-vo di far sì che la società nel suo insieme finisca per da-re per scontate certe possibilità o certe altre.

Le aspirazioni che le persone coltivano dipendono daquesta costruzione, e d’altra parte vi contribuiscono. In una vignetta di Schultz, il celeberrimo Snoopy, sedu-to sul tetto della sua cuccia, diceva: «Nessun grande ri-cordo eguaglia la più piccola speranza». Dopo un brevesilenzio commentava: «Questa mi piace». Piace anche ame. La speranza non è la stessa cosa dell’aspirazione; necondivide però la radice. È un’attesa venata di desiderio.Apre il presente al possibile. Sperare e aspirare (così co-me progettare, prevedere, temere, essere in ansia e infi-nite altre forme di declinazioni dell’attesa) sono modi diattribuire un senso al futuro: ma lo si fa nel presente, e iloro effetti si riverberano nel senso dell’ora. Le aspira-zioni sono parte del senso che attribuiamo all’agire. (l’articolo è una sintesi dell’intervento presentato alconvegno nazionale A.I.S. - sezione “Vita quotidiana”,Milano, settembre 2010)

“L’epoca d’oro dell’idea di progresso,a livello di massa, è coincisa con idecenni fra il 1945 e i primi anni

Settanta. Oggi l’idea sta diventandomeno scontata. In verità, non è così

ovunque, e anche in Occidente la crisiprocede per gradi. Ma, per i più, allafiducia nel futuro subentra oggi un

regime di attese più incerto”

La centrale nucleare di Chernobyl, com’è oggi. Quello del 26aprile 1986 è stato il più grande disastro della storia del nuclearecivile nel mondo. Dall’incidente di Chernobyl in avanti si è co-minciato a percepire che lo sviluppo scientifico e tecnologico dàluogo a rischi imprevisti

Incertezza e contrazione del ventaglio delle chances richiedonouna sorta di flessibilizzazione delle aspirazioni: cresce la tenta-zione di affidarsi alla fortuna e le spese in lotterie e simili 17

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Roma è oggi la portabandieradi una terza rivoluzione indu-striale economicamente soste-nibile. Lo sostiene Jeremy Rif-kin, l’esperto Usa di energierinnovabili e presidente diFoundation on Economic

trends, ma prima ancora lo so-stiene Acea insieme al sindacoAlemanno. Acea, infatti, dacentouno anni ha stretto un pat-to indissolubile con la città diRoma. Centouno anni di lavoroumano, di valori e di impegno

impiegati nella città con cui Acea ha sempre avuto uno straordi-nario legame, lo stesso che l’ha portata a consolidare e svilup-pare l’impegno quotidiano nell’erogazione dei servizi fonda-mentali. In questi centouno anni Roma da città è diventata me-tropoli. Acea, una grande multiutility al servizio dei cittadini.Distribuire luce e acqua a tutti per noi ha significato garantirevita, uguaglianza di diritti, sviluppo umano. Ed è proprio inquesta prospettiva che abbiamo sempre guardato, fin dal lonta-no passato, al futuro. Acea si è mostrata sempre al passo con itempi e i suoi cambiamenti, anzi se possibile un passo avanti. Egrazie a questa capacità, ancora oggi possiamo rinnovare l’im-pegno verso i principi del risparmio energetico e dello svilupposostenibile. Il nostro obiettivo prioritario è quello di applicareconcretamente la responsabilità sociale d’impresa non nei no-stri interessi, ma in quelli dei cittadini. È per questo che ritengo indispensabile guardare alla sostenibi-lità ambientale come un tassello fondamentale per il futuro. Unfuturo che coinvolge in pieno la città di Roma, la nostra Capita-le. Nel 2009 il sindaco Alemanno ha lanciato una sfida impor-tante, durante il primo summit internazionale sulla sostenibilitàa Palazzo Colonna: il progetto “Roma Città Solare”, che si in-carica di progettare una pianificazione integrata, proprio in vir-tù della grandezza e della complessità territoriale, sul rinnova-mento delle fonti energetiche, affinché Roma possa diventareun esempio di metropoli sostenibile. Questo progetto rappre-senta per Acea una sfida emozionante e prioritaria.È il nostro sogno comune. Un sogno, reso ancora più tangibiledal consolidamento del ruolo di Roma Capitale, recentementevalidato dal provvedimento che ha attribuito un nuovo status al-la città di Roma. Una metropoli con una governance adeguatanon solo al ruolo di capitale d’Italia, ma anche al valore interna-zionale della città. Acea ha dunque davanti una grande sfidaper il futuro, quella di partecipare al consolidamento di RomaCapitale attraverso la realizzazione di una metropoli a impattozero, modello della terza rivoluzione industriale. Minicentralienergetiche sui tetti, reti di distributori di idrogeno misto a me-tano, cogenerazione ed energia solare negli ospedali, sui tettidelle scuole e a copertura di parcheggi, centri commerciali e ca-

pannoni industriali. E ancora, punti luce a tecnologia led per ri-sparmiare energia e colonnine per ricaricare auto elettriche. Sitratta di un modello energetico ed economico decentrato, disupporto al passaggio dal ciclo del carbonio a quello del sole edell’acqua, puntando sulle fonti rinnovabili a disposizione ditutti i cittadini. Con la possibilità per ogni cittadino di essereproduttore, e non più soltanto consumatore di energia. Il tutto avantaggio di una maggiore sostenibilità ambientale e climaticae di una maggiore crescita economica. Tra le tante iniziative inlinea con questi principi, proprio alla fine dello scorso annoAcea ha inaugurato l’impianto fotovoltaico del centro idrico diMonte Mario, una struttura autosufficiente dal punto di vistaenergetico che, oltre a distribuire acqua potabile di ottima quali-tà a mezzo milione di romani, produce energia rinnovabile edevita contemporaneamente l’emissione di ingenti quantitativi diCO2 nell’atmosfera. E ancora, la recente realizzazione da partedi Acea del moderno impianto fotovoltaico del centro Elsa Mo-

rante nel quartiere Laurentino 38, inaugurato in occasione dellaterza giornata dei festeggiamenti per i centoquaranta anni diRoma Capitale. Il contributo di Acea è stato quello di aver in-stallato un impianto fotovoltaico con l’effetto di creare dei verie propri “cubi di luce”. L’impianto, che sfrutta l’energia solare,con la propria tecnologia consente di coniugare l’approvvigio-namento e il consumo di energia elettrica senza emissioni di so-stanze inquinanti ed è caratterizzato da un design integrato nel-l’architettura del centro. Posso aggiungere che entro i prossimianni Acea incrementerà sensibilmente la produzione di elettrici-tà da fotovoltaico. Lo sviluppo delle fonti rinnovabili in questaottica non deve essere considerato uno sforzo inutile una spe-sa mal riposta, ma risorsa ambientale per eccellenza.

Si impiegheranno nel migliore dei modi possibili tecnologia ericerca, per raggiungere gli obiettivi europei in pochi anni erendere i costi delle energie pulite competitivi con quelli dellefonti oggi più usate. È con questo impegno che Acea vuolecontribuire a rendere Roma entro il 2020 la città più sostenibi-le d’Europa. La capitale, insieme ad Acea, potrà davvero as-sumere un ruolo guida nella prossima terza rivoluzione indu-striale. Il progetto è ambiziosissimo, ma la città sarà un esem-pio per tutto il mondo e in primis per l’Europa. Un’immaginedella capitale che può e deve essere trasformata in realtà. Unasfida globale per il prossimo futuro.

Giancarlo Cremonesi

“Il nostro obiettivo prioritario è quellodi applicare concretamente la

responsabilità sociale d’impresa nonnei nostri interessi, ma in quelli deicittadini. È indispensabile guardare

alla sostenibilità ambientale come untassello fondamentale per il futuro”

Il futuro che vogliamo tutelareIl presidente dell’Acea parla dei prossimi obiettivi

di Giancarlo Cremonesi

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«“Sì, certamente, se domaniè bello,” disse la signoraRamsay. “Ma ti dovrai sve-gliare con l’allodola,” ag-giunse». Attorno alla paroladomani Virginia Woolf hacostruito Gita al faro, unadelle sue opere più belle eimportanti, quel romanzoche fin dall’incipit si annun-cia fondato sul tempo e sul-l’attesa, romanzo anzi sultempo dell’attesa. Il piccoloJames Ramsay vorrebbe par-

tire l’indomani alla volta del Faro che si erge in lontanan-za. Attorno a lui, a creargli un’altalena di umori contra-stanti, sua madre che alimenta la speranza, suo padre, co-me pure Charles Tansley, uno degli ospiti di casa, che laspegne. Si susseguono previsioni su “domani”, e prose-guono per capitoli e capitoli: «Ma non sarà bello», «Mapotrebbe anche essere bello. Io credo proprio che sarà bel-lo», «Domani non ci sarà modo di approdare al Faro»,«Non si andrà al faro, James», «Ma forse ti sveglierai e cisarà il sole che brilla e gli uccelli che cantano».L’abitudine a dire e a dirci “domani”, il bisogno di saperecosa ci aspetta, di immaginare cosa accadrà in un futuro piùo meno immediato e di capire cosa è possibile o non è pos-sibile pianificare, affonda probabilmente le sue radici dovele affonda anche il linguaggio umano; così come dell’astro-logia, la pseudoscienza che sarebbe in grado di orientare ilnostro sguardo qualche ora/settimana/mese oltre il presente,restano tracce antichissime, nella storia e quindi nella lette-ratura. Se in Omero, in Virgilio, in Lucano e in generale ne-gli autori classici latini e greci, immancabili e solenni arri-vano tra le pagine predizioni del futuro, voci degli oracoli,domande angosciate alle sibille, agli auspici e agli aruspici(presenti anche nel mito della fondazione di Roma), è per-ché in tempi già avidi o totalmente privi di strumentiadatti per soluzioni razionali, di dati esatti, diun’ampia verificabilità empirica per spiegaree risolvere gli interrogativi dell’uomo, la ve-ra scienza – quella astronomica – era statada molto affiancata dalla superstizione, daletture – quelle appunto astrologiche – piùo meno fantasiose e ambigue del cielo edei suoi segni e segnali: una stessa stradacollegava l’America centrale dei Maya (au-tori della “fortunata” profezia sulla fine delmondo nel 2012 – cioè “domani”) allaCina, come l’India a Menfi, antica capita-le dell’Egitto pretolemaico (e non a casorinomato centro religioso) in cui lo studio

dell’astronomia e dell’astrologia procedevano di pari passofino a sovrapporsi e confondersi in un unico nome, e ancoracome la Grecia all’Italia. Quella strada portava fin sulla so-glia della casa dell’astrologo Nigidio Figulo, che al neonatoOttaviano Augusto fece un oroscopo esaltante, presentan-dolo come futuro dominatore del mondo; e portava a Roma,portava a Cesare e a Pompeo che si affidarono alle stelleper uno stesso responso, entrambi influenzati dall’esperien-za dei Caldei, di quelle schiere di astrologi che si erano ri-versate proprio a Roma imperversando fino all’epoca diNerone, pretendendo un’autorità massima che giustificava-no con le origini mesopotamiche delle loro tesi.

E non si può dire che quella strada si sia a un certo puntointerrotta, perché con l’andare dei secoli e le prime rispostecerte a quegli interrogativi che sempre l’uomo si era posto,con gli strumenti tecnici, i calcoli precisi e sempre più pre-cisi, con la scienza in grado di risolvere problemi di diversanatura, la fascinazione per l’oroscopo non venne meno, an-zi colpì, come una malattia, personaggi come Copernico oGalileo. Girolamo Cardano, cadendo nella trappola, realiz-zò rosei oroscopi all’arcivescovo di Edinburgo e al re d’In-ghilterra, i quali, in meno di un anno, morirono rispettiva-mente per impiccagione e tubercolosi. Ma oggi, come riescono a convivere, per esempio, l’astrofi-

sica e l’astrologia? Perché, pur in un’epoca in cui ilsupporto della scienza è tutto, continuiamo a leg-

gere gli oroscopi, ad aspettare che notizie po-sitive ci giungano dalle pagine finali di gior-nali e riviste, ad affidarci a coloro che ce leprocurano anche quando non sappiamominimamente chi essi siano?Il filosofo Theodor W. Adorno, nel titolodi un suo studio condotto analizzando la

rubrica di oroscopi Astrological Forecasts,diretta da Carroll Righter sul Los Angeles Ti-

mes dal novembre 1952 al febbraio 1953,li ha definiti Stars down to earth, stelle“terra terra” diremmo noi, stelle alla por-tata di tutti (l’indagine è stata recente-

Michela Monferrini

“L’abitudine a dire e a dirci “domani”,il bisogno di sapere cosa ci aspetta, diimmaginare cosa accadrà in un futuropiù o meno immediato e di capire cosaè possibile o non è possibile pianificare,

affonda probabilmente le sue radicidove le affonda anche il linguaggio

umano”

«E se domani»Uso e abuso del concetto di futuro

di Michela Monferrini

I dodici segni dello zodiaco cinese.Dinastia Sui 581-618 d.c. bronzo, MuseoGuimet, Parigi

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20 mente ripubblicata da Einaudi con il titolo di Stelle su misu-

ra). Adorno, che conservava ancora fresco il ricordo diquelle masse tedesche di persone cieche e dipendenti da undittatore che credeva negli oroscopi e nella magia e che conil suo carisma da leader pazzo fungeva lui stesso da orosco-po vivente nei confronti delle folle adoranti, si accosta nonallo studio dell’astrologia in quanto tale, ma di un’altramassa che forse lo spaventa altrettanto e lo inquieta, ed è lasfuggente, sempre più vasta massa americana, che spasmo-dicamente diventa fedele alla parola dell’astrologo di turno,dimostrandosi altrettanto capace di cecità e desiderio diadorazione e narcisismo e conformismo. Ciò che spaventaAdorno è l’incapacità di riflessione, di critica, la sospensio-ne del giudizio personale, l’assoggettamento, l’aggregazio-ne per l’aggregazione. Ai lettori dell’oroscopo del Los An-

geles Times non interessa che il “metodo” utilizzato dall’a-strologo non gli venga minimamente spiegato, non gli inte-ressa capire ma, così sembra, soltanto avere qualcosa in cuicredere totalmente, qualcosa che aiuti a capire cosa fare,che indirizzi e decida per loro, giornata dopo giornata. I benpiù consapevoli astrologi, nella nascente società dei consu-mi, diventano dunque a loro volta pedine di un sistema più

grande che li consiglia e li influenza su cosa consigliare esu come influenzare. Il filosofo accosta, compara e scarnifi-ca i messaggi, arrivando a leggere tra le righe e a capire chetutto quel che viene anche pittorescamente descritto, na-sconde dei messaggi sul domani il cui succo è: lavorate,siate ubbidienti e fedeli, non parlate a sproposito, non vi ri-voltate contro i superiori, siate felici di quel che già posse-dete, non desiderate oltre, non desiderate, non desiderate.Sono consigli mascherati, quelli che negli anni Cinquanta sitrovavano sul Los Angeles Times, che pericolosamente so-migliavano a ciò, appunto, che un dittatore avrebbe potutopretendere dal suo popolo. Oggi che il tentativo di dirigere ilettori come si potrebbero dirigere delle vetture nel trafficointasato è fortunatamente venuto meno per motivi storici,politici e culturali, non è però venuto meno il desiderio del-le persone di sentirsi rassicurate, o di trovare conferma inquel che soltanto possono sperare.

I nostri astrologi, ben lontani dalle antiche terre babilonesio foreste messicane, sembrano semplicemente voler “coc-colare” i lettori, confermargli che sì, domani le cose an-dranno meglio, che domani, in fondo, domani è un altrogiorno. L’ha detto chiaramente Rob Brezsny i cui oroscopisono seguitissimi su Internazionale: «Scrivo lettere d’a-more ai miei lettori», e l’ha confermato Herta Herzog ac-costando il funzionamento dell’oroscopo a quello del ca-novaccio di una fiction televisiva: «Prima i guai, poi tuttova per il meglio». Con un pericolo: che i fan di Branko, diPaolo Fox, dell’originale, sorprendente Marco Pesatorinon si rendano conto che le favole sono sempre a lieto fineed è anche bello crederci da adulti, ma la vita è un’altracosa, oggi e anche domani.

In questa ricerca, condotta con un ampio ricorso alle categorie della psico-logia sociale e della psicoanalisi, Adorno analizza il contenuto della rubricaastrologica di un quotidiano conservatore americano, il Los Angeles Times,per capire la natura e le motivazioni di un fenomeno sociale che ha grandediffusione nel mondo contemporaneo: la credenza nei poteri delle stellemediata da giornali e riviste. Secondo Adorno, nel quadro della funzionecomune di promozione della conformità sociale svolta dai mass media, cia-scuno dei mezzi in questione - il cinema, la televisione, le rubriche di psi-cologia popolare e quelle di astrologia - ha metodi specifici di manipola-zione, specifici destinatari e una specifica mescolanza di irrazionalità e diesigenze razionali. La razionalità, o meglio la «pseudorazionalità», questa«zona crepuscolare fra la ragione e le pulsioni inconsce», risiede invece nelfatto che i messaggi trasmessi dagli astrologi riguardano piccoli problemiquotidiani di natura prevalentemente pratica, ai quali fingono di dare la ri-sposta più utile e sensata.

“Perché, pur in un’epoca in cui ilsupporto della scienza è tutto,

continuiamo a leggere gli oroscopi, adaspettare che notizie positive ci

giungano dalle pagine finali di giornalie riviste, ad affidarci a coloro che ce le

procurano anche quando non sappiamominimamente chi essi siano?”

Lo zodiaco rappresentato in un mosaico del VI secolo nella sina-goga di Beit Alfa, oggi in Israele

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First of all, let me confess thatmy interest in utopia studies isnot purely academic. Foreveryone who lives inMoscow, the problem ofutopia is a matter of everydaylife: the inconsistency ofarchitectural ensembles, trafficjams, concentric urbanplanning (probably inspired bythe image of the spider’s web),and at the same time thedemands for universaltransparency, rationality and

representation of the future-in-the-present attitude. Europeanarchitects who visited Moscow in the 1920s and 1930s used tosay that “this is a city living between History and Utopia”.Today, alas, it is a city living at the crossroads of partiallyrealized utopian projects, both social and architectural. Thefuture-in-the-present attitude has given way to the future-in-the-past reality. Etymologically, “utopia” is not just a placethat does not exist. The word derives from the Greek: ού,“not”, and τόπος, “place”. However, ού is not expression ofabsence; it refers to the idea of impossibility. A place that doesnot exist today but may possibly be established somewhere inthe future would be called a “me-topia”. A utopia is a placethat does not exist because it cannot exist at all. However,throughout the history of humanity, constant attempts havebeen made to accomplish utopian projects. So what happensto a utopian project when it has been realized (in part or intoto)? What kind of transformation comes about when the fruitof utopian imagination is imposed on the world of everydaylife, the world of non-reflexive routine activities andimmediate perceptions that William James called “paramountreality” in the twenty-first chapter of his Principles of

Psychology? Utopia turns into heterotopia. Invaded byomnipresent face-to-face interactions andcorrosive everyday practices, utopianprojects undergo a peculiar transpositionfrom place-site to place-locale. Theutopian imagination is one of thepowerful sources of the formal-rationalthinking implemented in urban planningand modernist architecture. Modernurban planners and utopianists of theRenaissance share the idea of space ashomogeneous, initially empty, andintended to be filled with bodies, objectsand actions. A website provides a goodmetaphor for such a “place withoutplace”, planned in detail and createdwithout significant departures from the

plan. Each website is a utopian place in a virtual space. If linkson a Web page? take users to “wrong” destinations or even to“dead ends”, the problem is due, not to resistance by theenvironment nor to the imperfection of human material towhich reorganizers of physical space can always refer, butexclusively to errors in the design of the website or its

realization. The philosophy of practice (M. Foucault, M. deCerteau in France, post-Wittgensteinian philosophy in Britain,and ethnomethodological sociology in North America) usedvulnerabilities in the utopian imagination to attack the idea ofhomogeneous space. More explicitly than others, this positionwas expressed by M. Foucault: «Bachelard’s monumentalwork and the descriptions of phenomenologists have taughtus that we do not live in a homogeneous and empty space,but on the contrary in a space thoroughly imbued withquantities and perhaps thoroughly fantasmatic as well… Thespace in which we live, which draws us out of ourselves, inwhich the erosion of our lives, our time and our historyoccurs, the space that claws and gnaws at us, is also, in itself,a heterogeneous space. In other words, we do not live in akind of void, inside of which we could place individuals andthings… we live inside a set of relations that delineatessites which are irreducible to one another and absolutely notsuperimposable on one another». This non-equality of placesinherent in heterogeneous space has not been taken intoaccount by utopia planners striving for symmetry andtransparency. The heterogeneous space of human practices isnon-transparent and contradictory. To express thiscontradictoriness Foucault used the notion of heterotopia:

«The heterotopia is capable ofjuxtaposing in a single real place severalspaces, several sites that are inthemselves incompatible. Thus it is thatthe theater brings onto the rectangle ofthe stage, one after the other, a wholeseries of places that are foreign to oneanother; thus it is that the cinema is avery odd rectangular room, at the end ofwhich, on a two-dimensional screen, onesees the projection of a three-dimensionalspace; but perhaps the oldest example ofthese heterotopias that take the form ofcontradictory sites is the garden».Modern botanical gardens havemaintained this heterotopian intention.

di Victor S. Vakhshtayn

Rethinking UtopiaThe reciprocal relations between the utopian imagination and everyday world

di Victor S. Vakhshtayn

An attempt of utopia implementation: Moscow’sreconstruction project, VOPR group (1932)

The utopian imagination is one of thepowerful sources of the formal-rational

thinking implemented in urbanplanning and modernist architecture

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22 They bring together plants which grow naturally in differentparts of the world and could never “meet” except in the spacespecially created for their encounter. Museums and librariesare heterotopian in the same way. Fairs and amusement parksare also heterotopian. Foucault noticed the same heterotopianintent in cemeteries: within them there lie the bodies of peoplewho lived in different epochs, and this biographical“heterochronicity”, projected onto the limited area of thecemetery, creates a specific temporal asymmetry of cemetery

space. Towns combining districts with one-thousand, one-hundred and one-year histories? are also heterotopian. Onlycity-utopias – built by the united effort of political will with noreference to what preceded them and therefore as townswithout history – claim to overcome heterotopian space.However, their claim is untenable. In practice, the transparentand logically consistent order of utopian design (not tomention the entire history of its subsequent usage) issubstituted by the logically inconsistent and nontransparentorder of heterotopia. The utopian project based on the axiomsof homogeneity and similarity is not viable in theheterogeneous space of the living world. This is demonstratedby one of the largest utopian projects realized today – the cityof Brasilia. As James Scott put it: «Brasilia was conceived ofby Kubitschek and by Costa and Niemeyer as a city of thefuture, a city of development, a realizable utopia. It made noreference to the habits, traditions, and practices of Brazil’s pastor of its great cities, Sao Paulo, Sao Salvador, and Rio deJaneiro. As if to emphasize the point, Kubitschek called hisown residence in Brasilia the Dawn Palace… Like the SaintPetersburg of Peter the Great, Brasilia was to be an exemplarycity, a center that would transform the lives of the Brazilianswho lived there». The city was planned in the shape of a plane(or a bird) raising its wings above a plateau as its fuselage (orbody) where administrative buildings were situated. Locatedin the cabin (or head) were symbolically important placeswhose mission had to be valued, rather than being spatialreferences. Residential communities, organized into blocks byfour giant buildings (superquadra), were concentrated in thewings. The majority of those who movedto Brasilia from other cities complainedabout a lack of street life, convenientsquares, corner cafes and other places tomeet. They also criticised the city’sanonymity, visual monotony, andabsence of visual reference points.Another researcher James Holstondescribes that tension in terms of formaland practical rationality: «Thus, whilethe topologies of total order produce anunusual abstract awareness of the plan,practical knowledge of the city actuallydecreases with the imposition ofsystematic rationality».

How does the heteronomy of real space penetrate a utopianobject, seize it, and break down its homogeneity? It does sothrough particular human practices: firstly practices ofcreation, then practices of its usage. Umberto Eco summarizesthis process in Brasilia in the following points:a)The amount of Brasilia’s construction workers who lived

there exceeded the dwellings intended for them. The districtof Bandeirante thus arose around the city as a miserablefavela, a huge shanty-town, and a sink of iniquity.

b)The super districts in the south were built earlier and betterthan those in the north. The latter were constructed withshoddy materials so that, although they are newer, there arealready signs of dilapidation. As a result, officials occupyingsenior positions prefer to live in the southern part of the city.

c)The number of immigrants exceeded the number planned,and Brasilia could not accommodate all of them. Thussatellite-cities emerged, which in a short time increased thenumber of citizens tenfold.

d)The overlords of industry and major private entrepreneursrefused to live in the super districts and located in cottagessituated parallel to the “wings” of the city.

e)Because of the abolition of crossroads and footpaths,elongated streets proved to be suitable only forautomobilists. The distances between the districts and the“body” made it difficult to maintain relations andemphasized the non-equivalence of living areas.

Thus, the homogeneous became heterogeneous after the firstcontact with the sphere of practical interactions. Animplemented utopia is a heterotopia: the act of implementationitself introduces heterogeneity into it. However something is missing. The philosophy of practice –which calls itself the “practical turn” – took a wrong turningsomewhere along its theoretical road. It is too simple tocriticize urban planners and the very spirit of modernism as“utopian” from the perspective of everyday life practices. It istoo tempting to oppose utopian imagination againstheterotopian practice. The postmodern obsession with theheterogeneity of local practices prevents us from seeing theopposite process: while omnipresent everyday practices

transform utopian projects, the utopian imagination

transforms everyday practices. We do not live in the world where utopian imaginationand everyday life are clearly separated.When Habermas assumed that utopia is dead becauseutopian energies are depleted, he failed to considerpossible infiltrations or leakages (if I may make this

ambiguous reference to the WikiLeaksaffair) of these “utopian energies” intothe micro-level of social interaction.The new communication media havemade this possible; but not only these.What is really necessary today is anew theoretical language with whichto interpret and understand thereciprocal relations between theutopian imagination and the everydayworld, between homogeneousrationali ty and heterogeneouspractices. This is the task for all of us– sociologists, philosophers andarchitects.A Realized utopia: plan of Brasilia (1957-1960)

Modern urban planners andutopianists of the Renaissance sharethe idea of space as homogeneous,initially empty, and intended to be

filled with bodies, objects and actions

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La parola laser evoca, da sem-pre, qualcosa di sufficiente-mente futuristico. Dal mo-mento in cui è entrata a farparte del gergo comune, que-sto termine ha evocato fanta-sie più vicine alla saga di Star

Wars che all’applicabilitàquotidiana. Almeno per chi,come molti, ne ignora la com-posizione, i possibili utilizzi ela versatilità. Sì, perché il la-ser in realtà si è rivelato adat-tabile a molti ambiti scientifi-

ci, talvolta anche inconsueti e inaspettati, come l’ingegneria,la medicina, fino anche all’industria militare e all’estetica. Elo usiamo anche noi quotidianamente, forse senza neppuresaperlo: è quello che ci permette di leggere il cd all’internodel suo lettore, che fa sì che le cassiere possano “battere incassa” i prodotti che vogliamo acquistare, o che i poliziotti cimultino, misurando la nostra velocità (quando eccessiva!). Oalmeno è questo quello che è accaduto finora, a cinquantaanni dalla realizzazione del primo raggio. Ma di potenzialitàsembra proprio che ne nasconda molte e chissà che da qui acento o più anni non ci ritroveremo ad utilizzarlo, nelle suevarie declinazioni, in ambiti finora inesplorati. Ma per poterlanciare uno sguardo verso il fu-turo, dobbiamo obbligatoriamentecompiere un passo indietro e ca-pire innanzitutto di cosa stiamoparlando: proprio perché per co-noscere le cose bisogna assegnareloro un nome, spieghiamo subito,per chi non lo sapesse, che il laserè stato così battezzato partendodall’acronimo inglese di Light

Amplification by Stimulated

Emission of Radiation (cioè “Am-plificazione di luce tramite emis-sione stimolata di radiazione”).Questo perché, appunto, il laser èper definizione (e cerchiamo didirlo con parole semplici!), «undispositivo che emette radiazioniluminose con un grandissimo nu-mero di fotoni (particelle elemen-tari di luce) identici, concentratiin uno spazio ridotto». Poi, daqui, il discorso si complica e an-drebbero considerati tutti i possi-bili tipi e le diverse applicazioniche un raggio laser può avere.

Ma se ci fermiamo al 1960, forse riusciamo ad immaginarelo stupore del fisico americano Theodore Maiman quando,mostrando al mondo scientifico la sua “invenzione”, si sentìrispondere che aveva trovato la “soluzione in attesa di unproblema”. Come se il laser rappresentasse una grandissimainnovazione, ma non avesse in realtà un’applicabilità risolu-tiva. Si sarà poi tolto una bella soddisfazione Mr Maiman,quando avrà avuto modo di notare (e di far notare ai suoi il-lustri colleghi) quanto la sua “invenzione” abbia rivoluziona-to il nostro vissuto. Ma d’altronde anche Albert Einstein, sindal 1917, sembra si fosse dedicato allo studio delle emissionistimolate di radiazione. Quindi l’antenato illustre, di per sé,rappresentava già una garanzia di qualità. Ed oggi ci trovia-mo qui, nel 2011, esattamente nel cinquantesimo anniversa-rio dalla prima accensione del laser, ad osservare quantoqualcosa di quasi sconosciuto si sia in realtà insinuato nellenostre vite, modificandole. E quante possibilità, soprattutto,abbia spalancato davanti agli occhi della scienza, che ne go-de, per prima, le sue segrete potenzialità, ipotizzando e im-maginando tutte le possibili applicazioni che il raggio potràavere nell’immediato così come nel lontano futuro.«Il laser – ci spiega Roberto Camussi, docente presso il Di-partimento di Ingegneria meccanica e industriale – viene uti-lizzato nella tecnica in una gran varietà di apparecchiature.In ambito industriale il laser viene utilizzato soprattutto pertagliare o saldare lamiere in metallo anche di elevati spesso-

ri. In metrologia grazie ai laser sipossono effettuare delle misure diestrema precisione nel campo cheva dai micron alle decine di me-tri». Ma poi precisa: «Si tratta co-munque di laser di grosse potenzeche non hanno nulla a che vederecon i laser utilizzati per la ricerca,soprattutto nello studio dei mate-riali, nella microscopia ed ologra-fia e nella fluidodinamica». È co-munque indubbio che, anche nelcaso dell’idraulica, «l’uso del laserha permesso di migliorare la quali-tà delle misure di velocità e con-centrazione nei modelli idraulici dilaboratorio», come sottolinea laClaudia Adduce (docente presso ilDipartimento di Scienze dell’inge-gneria civile). «Infatti le modernetecniche di misura di velocità(PTV e PIV) e concentrazione(LIF), che utilizzano laser, hanno ilvantaggio di essere non intrusive;di essere dotate di un’elevata riso-

luzione spaziale e temporale; di

Irene D’Intino

L.a.s.e.r.Un lasciapassare per il futuro

di Irene D’Intino

Il fisico statunitense Theodore Harold Maiman, cui si devel’invenzione del laser nel 1960

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24 realizzare misure simultanee di velocità e concentrazione inpiù punti del dominio di interesse. L’uso delle tecniche PTV,PIV e LIF ha inoltre permesso di ridurre significativamenteil tempo necessario alla misura dei campi di velocità e con-centrazione nei modelli idraulici». Diverso il discorso perl’ingegneria elettronica, come ci chiarisce Lorenzo Colace(docente presso il Dipartimento di Ingegneria elettronica): inquesto caso il laser è un prodotto, «non un ambito applicati-vo come può essere nel caso delle telecomunicazioni o dellamedicina». Ma stupisce sicuramente osservare in quanti con-testi, magari non conosciuti approfonditamente, l’utilizzo dellaser si rivela importante, quando non fondamentale: il dott.Colace ci parla di telecomunicazioni (fibra ottica), telerileva-mento e monitoraggio ambientale, medicina (diagnosi e tera-pia) e processi industriali, ma anche comunicazioni ottiche eapparati elettronici «senza dubbio di maggiore mercato e dif-fusione». Poi c’è l’ingegneria meccanica e industriale, do-ve «le apparecchiature basate sull’impiego di sistemi laser,a differenza delle apparecchiature di misura tradizionali,sono usate per misurare con tecniche non invasive la velo-cità di fluidi, la turbolenza e tutte le proprietà associate aun punto o a una superficie in una vasta gamma di am-bienti, da semplici a complessi fino a ostili» ci spiega ilprof. Camussi. «Essi misurano anche la dimensione delleparticelle, la velocità e la portata volumetrica di particellesferiche, bolle o gocce». Infine, aggiunge la dott. Adduce,«le tecniche PIV, PTV e LIF sono attualmente applicate al-lo studio, mediante modelli di laboratorio, di opere idrauli-che, diffusione di inquinanti, bioingegneria». Infiniti ambiti utili alla scoperta, all’innovazione e alla cre-scita. E allora ci chiediamo: l’Italia a che punto è con lo stu-dio di queste potenzialità? «Solito tormentone sulla ricerca– ci dice Lorenzo Colace – la situazione sui laser e sulletecnologie elettroniche è analoga a quella di molte altre di-scipline. Questo paese è ancora capace di formare buoni ri-cercatori, ma non intende dar loro gli strumenti per lavora-re. In sintesi, oggetti ad alto contenuto tecnologico vengonoimportati (non li progettiamo e non li realizziamo). Esisto-no pochissime eccezioni». Sulla stessa falsariga, o quasi,l’opinione di Claudia Adduce: «In Italia solo alcuni gruppidi ricerca di idraulica posseggono un sistema di misura divelocità e concentrazione che utilizza laser, in quanto talisistemi hanno costi talmente elevati, che non sempre posso-no essere sostenuti dai gruppi di ricerca italiani». A risolle-vare il morale ci pensa il prof. Camussi, che invece ritieneche «malgrado i costi, a volte proibitivi, dei sistemi di mi-

sura basati sull’uso del laser, tecniche laser sono ormai am-piamente diffuse anche in Italia». Non c’è dubbio, e appaio-no tutti d’accordo, invece, quando si esce dai confini nazio-nali: gli stati certamente più all’avanguardia, in questi am-biti, sembrano essere gli Stati Uniti, il Giappone e la Cina.Se ci fermiamo in Europa, non se la cavano male neppureFrancia e Germania, evidentemente più attente di noi a in-vestire in ambiti di ricerca e sviluppo.

Ma quali sono gli ambiti in cui l’applicazione del lasersembra destinata a crescere maggiormente? Cosa ci riservail futuro del famoso raggio? «Nell’ambito della fluidodi-namica – risponde Camussi – lo sviluppo di tecniche olo-grafiche e di analisi tridimensionali rappresentano le appli-cazioni più probabili nel prossimo futuro». «A mio avviso– continua invece Colace – le applicazioni principali sonoe saranno a lungo quelle legate alle telecomunicazioni. Miaspetto anche interessanti sviluppi in ambito medico in cuiritengo che il laser sia ancora largamente sottoutilizzato.Altro ambito con grandi potenzialità è quello delle comu-nicazioni ottiche all’interno dei circuiti integrati». Con-clude la dott. Adduce: «Le attuali e future applicazioni al-l’idraulica sperimentale sono misure di velocità su mo-delli di opere idrauliche e marittime, valutazione delladiffusione di inquinanti in canali a superficie libera emezzi porosi, realizzazione e studio di modelli di bioin-gegneria». Quasi una sfida lanciata dalla scienza di oggiper mettere alla prova il laser sulle proprie capacità dicrescere e migliorarsi più di quanto non abbia già fatto dacinquant’anni a questa parte.

Hercules, un innovativo e potente raggio laser sviluppato da al-cuni ricercatori della University of Michigan

Immagine di un raggio laser attraverso la nebbia riflesso sul pa-rabrezza di un’automobile

“Ma cosa ci riserva il futuro delfamoso raggio? Dallo sviluppo ditecniche olografiche e di analisi

tridimensionali, alle applicazioni legatealle telecomunicazioni e all’ambitomedico fino alle future applicazioni

all’idraulica sperimentale si tratta diuna sfida lanciata dalla scienza di oggi

per mettere alla prova il laser sulleproprie capacità di crescere più di

quanto non abbia già fatto dacinquant’anni a questa parte”

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Riscaldamento globale, scio-glimento dei ghiacciai, innal-zamento del livello del marelungo molti tratti costieri etrasformazioni vegetali. A chepunto sono questi fenomenigeoambientali, dei quali forsenon ci preoccupiamo quantodovremmo solo perché nonne sappiamo abbastanza? Sia-mo noi gli stupidi che in The

Age of Stupid Peter Postleth-waite, pluricandidato all’O-scar, critica (e in un certo sen-

so maledice) dal 2055, per non essere stati in grado di adotta-re tutti gli accorgimenti, grandi e piccoli, per salvaguardare gliequilibri del pianeta? Il docudrama, diretto da Franny Armstrongè virtualmente ambientato in un futuro drammatico, in cui gliequilibri ambientali, come li conosciamo, sono stati trasformatie le normali condizioni climatiche alterate dalla superficialità,dall’imperizia e, soprattutto, dall’incoscienza umana. Per ca-pire se si tratti semplicemente dell’ennesimo film allarmista equali siano le vere prospettive di “degenerazione” del pianetaTerra abbiamo incontrato il prof. Marco Alberto Bologna ed ilprof. Anastassios Kotsakis dell’Università degli Studi Roma Tre.Partendo proprio dal film The age of stupid, dobbiamogià considerarci degli “stupidi” o siamo ancora intempo per… Prof. Anastassios Kotsakis: Non è una risposta semplice. In-nanzitutto bisogna tener presente che alcuni fenomeni di cam-biamenti climatici sono fenomeni naturali a lungo terminementre alcuni di quelli che pensavamo avvenissero a lungo ter-mine, abbiamo invece scoperto che al contrario avvengono nelgiro di poche centinaia di anni (poco per i geologi). Premessociò, non si può sottovalutare come certe attività umane modi-fichino fortemente le caratteristiche fisiche climatiche del no-stro ambiente. Per alcune di queste, attraverso dei modelli, èpossibile prevedere dove si sta andando e cosa si rischia per al-tre, invece, siamo degli apprendisti stregoni. In poche parole come si sta trasformando il pianeta? Si par-la molto spesso di possibili “modificazioni della crostaterreste” e di altri fenomeni geologici.Prof. Marco Alberto Bologna: I problemi delle trasformazioniclimatiche del globo non hanno base geologica e non riguardanola crosta terrestre (i ghiacciai certamente, ma questi non sonostrettamente crosta terrestre, bensì acqua). Le trasformazionioggi più evidenti riguardano invece gli aspetti ambientali,come “miscela” di aspetti di inquinamento (in senso ecologi-co) chimico-fisico e biologico, e conseguenze sugli ecosiste-mi, cioè i sistemi di tutti i viventi. E l’inquinamento dei corsi d’acqua? Prof. Anastassios Kotsakis: In paesi come il nostro è so-prattutto l’inquinamento delle falde acquifere, con diversesostanze che dal suolo penetrano nelle falde e modificano il si-

stema, a dover preoccupare. Non possiamo continuare a uti-lizzare risorse come l’acqua, che pure sono beni rinnovabili,come stiamo facendo (la ricarica dura alcune migliaia di anni,noi la consumiamo in alcune decine di anni).Parliamo dei cambiamenti climatici: il cosiddetto riscal-damento globale è soprattutto colpa nostra?Prof. Marco Alberto Bologna: L’elemento più evidente del-le macro-trasformazioni in atto sono proprio i cambiamenti cli-matici e i loro effetti, oltre all’inquinamento da sostanze tossiche.Abbiamo ormai delle evidenze sperimentali delle cause del-l’aumento dei gas serra (soprattutto anidride carbonica e me-tano), legati direttamente alle attività antropiche, all’indu-strializzazione forzata, alla globalizzazione e al rifiuto dell’i-dea che ci siano dei limiti ecologici anche per la nostra specie. Prof. Anastassios Kostakis: Il riscaldamento dell’atmosfe-ra è dovuto all’emissione di gas. Però occorre una precisa-zione: nella storia del nostro pianeta le temperature medie delpassato sono state anche più alte di quelle attuali. Per i geo-logi siamo in un periodo decisamente freddo. Bisogna inol-tre tener presente che c’è anche un’alternanza naturale di ri-scaldamento e raffreddamento. Poi purtroppo, fin dal prin-cipio della rivoluzione industriale, le attività dell’uomo han-no avuto un impatto significativo.Con un innalzamento, ulteriore, delle temperaturecosa succederebbe?Prof. Anastassios Kostakis: Nel caso delle città in riva almare, a causa dello scioglimento dei ghiacciai di Groenlan-dia e Antartide potremmo avere un innalzamento del livellodel mare e questo creerebbe notevoli disagi. Possiamo dire che il docu-drama, diretto da Franny Ar-mostrong, sia “catastrofista”? Prof. Marco Alberto Bologna: Un approccio scientificodi stampo ecologico ci porta a dire che il problema è serissimoe i modelli previsionali sono più che allarmanti. Se noncambieranno drasticamente e immediatamente le tendenze, loscenario prospettato dal film temo realisticamente che po-trebbero vederlo pochi uomini.Prof. Anastassios Kotsakis: È evidente che l’uomo ha la pos-sibilità di distruggere in pochi istanti buona parte della vita diquesto pianeta, tramite ad esempio gli armamenti nucleari. Altempo stesso non credo che ci sia una possibilità così vicinadi cambiamenti ambientali, pur prendendo in considerazio-ne gli scenari più pessimisti.Siamo davvero, già, al punto del non ritorno?Prof. Marco Alberto Bologna: Di certo non si deve ri-nunciare al tentativo di evitare i danni, adesso che pos-siamo farlo.Prof. Anastassios Kotsakis: Non sono in grado di dirlo, peròvedo che alcuni parametri si stanno alterando rispetto a del-le medie in nostro possesso, ereditate e stimate su dati di due-cento anni fa. Qualcosa si potrebbe sicuramente fare: cam-biando le abitudini di vita, come il consumo smodato di ac-qua e di energia elettrica, ma come si fa senza una giusta po-litica che vada in questo senso?

Giacomo Caracciolo

The age of stupid…is it today?

di Giacomo Caracciolo

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«L’acqua è un bene rinnovabile […] ma non si rinnova nei no-stri tempi, noi abbiamo un consumo di acqua molto maggioredella ricarica del sistema». Non trovavo incipit migliore, perquesta breve analisi sui alcuni dei conflitti più significati scatu-riti, negli ultimi decenni, proprio a causa dell’oro blu, che que-sto estratto dall’intervista al prof. Anastassios Kotsakis, diret-tore del Dipartimento di Scienze geologiche. In questa, tuttosommato evidente, riflessione è riscontrabile la ratio di tutte leguerre per accaparrarsi la gestione di corsi d’acqua: “sprechia-mo” più di quanto il sistema possa (ri)darci naturalmente e nonce ne preoccupiamo abbastanza.

“Oro blu” e “oro nero”. Sia l’economia industriale che le mo-noculture agricole necessitano di un’ingente quantità d’acqua econ la nascita di nuove economie di scala questa risorsa è dive-nuta un bene sempre più scarso e quindi più prezioso, fonte dirivalità e arma potente di ricatto. La differenza sostanziale peròche esiste tra l’oro blu e l’oro nero è che l’uno ha un valore vi-tale per la nostra sopravvivenza ed è, soprattutto, insostituibile,mentre l’altro è sostituibile e se ne può fare benissimo a meno. Acque condivise. Il 40% degli stati mondiali si rifornisce dafonti d’acqua condivise con altri paesi. Il Rio delle Amazzoni,il Congo, il Fiume Azzurro, l’Orinoco e il Yenisei, i corsi d’ac-qua con portata maggiore del globo, scorrono su più di un terri-torio nazionale. Il Tigri e l’Eufrate nascono dal sistema mon-tuoso turco dell’Anatolia meridionale. I due fiumi attraversanola Siria a Sud-Est per poi raggiungere l’Iraq. Nel gennaio del1990 terminò la costruzione della grande diga di Ataturk cheha comportato il più grande sforzo economico mai sostenutodal governo turco. Questo complesso ingegneristico devia l’ac-qua dell’Eufrate fino alla pianura di Harran attraverso un con-dotto lungo 26 km. Il progetto è stato fortemente avversato siadall’Iraq che dalla Siria. Infatti nonostante il governo turco ab-bia garantito ad essi una quantità certa d’acqua, Iraq e Siria sitrovano a dover dipendere totalmente dalle decisioni di Anka-ra. Da allora la questione idrica è stata sempre motivo di ten-sioni politiche tra i tre paesi e i Kurdi, presenti in questi territo-ri, hanno più volte minacciato di distruggere la diga di Ataturk.

In India. Analizzando il territorio indiano, fiumi come ilGange, il Narmada, il Yamuna, il Sutlej, il Mahanadi, ilKrishna e il Kaveri sono stati oggetto di dispute giudiziarietra stati e governo centrale, per accordarsi sull’allocamentoe le quantità d’acqua di cui ogni stato dovesse disporre.Questi conflitti non hanno avuto solamente come scenariole aule giudiziarie del governo centrale ma si sono combat-tuti anche drammaticamente nelle strade di città e villaggi.Dall’indipendenza dell’India, il fiume Kaveri è diventatomotivo di forte conflitto tra gli Stati di Tamil Nadu e Karna-taka. Il primo accordo tra i due sulla divisione delle acquedel fiume Kaveri risale al 1892. Nel 1924 Tamil Nadu eKarnataka si accordano per la costruzione di una diga. Nel1974 scade l’accordo per l’estensione dell’irrigazione gene-rata dalla diga e così cominciano i conflitti tra i due Stati ele rispettive associazioni degli agricoltori. Nel 1983 la crisiarriva alla Corte suprema. Dopo diversi ricorsi nel 1991 siha il verdetto finale che privilegia lo stato Tamil Nadu. Lasoluzione decisa dalla corte genera rabbia e malcontento dacui derivano, inevitabilmente, disordini nella capitale delloStato di Karnataka. Israele e Palestina. La guerra tra Israele e Palestina è, an-che, un conflitto per il controllo dell’acqua. La guerra del1967 che portò all’occupazione israeliana della Cisgiorda-nia e delle alture del Golan fu in effetti un’occupazione ascopi idrici. Oggi le acque della Cisgiordania sono gestiteda una compagnia idrica israeliana, la Mekorot Water Com-pany. I coloni dei territori occupati in Cisgiordania ricevonouna quantità d’acqua tre volte e mezzo superiore alla quotadestinata ai palestinesi. E come se non bastasse esiste un’or-dinanza israeliana che vieta ai palestinesi di scavare nuovipozzi, quelli già scavati non possono superare i 140 metri diprofondità, mentre i pozzi israeliani possono raggiungere gli800 metri. Nei villaggi rurali palestinesi l’acqua arriva solopoche ore al giorno non per cause tecniche, ma perché lacompagnia israeliana che gestisce gli acquedotti può deci-dere di togliere l’acqua ai villaggi palestinesi per non farlamancare ai coloni e alle loro coltivazioni.

Oro blu: breve viaggio tra i conflitti moderni, per il dominio suiprincipali corsi d’acqua del pianeta

di Giacomo Caracciolo

Una veduta aerea del fiume Congo La diga di Ataturk sul fiume Eufrate, completata nel 1990

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È successo, e già da qual-che anno. È successo che ilfuturo immaginato nel No-vecento (appena “ieri”, cipare) sia già passato: supe-rato, e quindi accantonato,il 2001 dell’odissea nello

spazio; superate e accanto-nate pure le visite su Martee le relative Cronache del2004 bradburiano, che aBorges fecero rievocare inomi di Ariosto (per la suaLuna custode di terrene co-

se perdute), del Keplero anch’egli lunare in Somnium Astro-

nomicum, del John Wilkins della Scoperta di un mondo sul-

la Luna, discorso tendente a dimostrare che può esserci un

altro mondo abitabile, in cui si immaginava un oggetto vo-lante – “non meglio identificato”, diremmo noi che invecesiamo in grado oggi di identificarlo perfettamente – cheavrebbe portato gli uomini sulla Luna. E proprio a partireda questa prefigurazione di un’astronave, vien da chiedersi

se oltre ad aver passato cronologicamente ciò che ci era sta-to narrato, se oltre cioè ad aver semplicemente staccato tuttii fogli del calendario 2001 e 2004, non abbiamo forse –Marte escluso – anche passato cioè vissuto davvero, quelleavventure predette. Oggi andiamo a zonzo per lo spazio,usciamo addirittura dai gusci meccanici per fluttuare o ripa-rare, siamo stati sulla Luna, abbiamo lasciato impronte ebandiere, e forse in un angolo del nostro bianco pianeta-sa-tellite – non lo avremo visto, andavamo di fretta – c’eradavvero un cumulo enorme di cose smarrite (lacrime e stra-de, bussole, amori e cani, persino cani): l’avremo scambiatoper un cratere. Certo stiamo rischiando di passare, cioè di

vivere, molto di quanto nel 1949 e nel 1953, rispettivamen-te George Orwell e di nuovo Ray Bradbury immaginaronoin 1984 e Fahrenheit 451: gli schermi televisivi grandi esempre più grandi sino a coincidere con le pareti stesse diuna stanza; l’interattività; il perenne frastuono delle pubbli-cità, anche in strada, anche sui mezzi pubblici; la folle velo-cità delle auto e le relative stragi stradali; l’alcolismo e l’a-buso dilagante di sostanze stupefacenti; la stampa e i gior-nali di carta che, anche grazie a una manipolazione “dall’al-to”, si assottigliano sempre più, sino a sparire e diventare unricordo. Ciò che sorprende, è che i due scrittori, certo alleprese con una stessa società in cambiamento, con la nascen-te massa del pubblico televisivo, con le recenti ferite procu-rate dai totalitarismi e il clima di paura e di attesa generatodalla guerra fredda, immaginarono due situazioni che ave-vano in comune moltissimo, persino quella che veniva indi-cata come l’unica àncora e possibilità di salvezza e nuovoinizio: la salvaguardia della parola, intesa come vero scam-bio comunicativo, conversazione tra esseri umani e crescitae protezione del passato. Ciò che viene nominato si salva, cihanno insegnato Bradbury e Orwell e molti altri scrittoriche definiremmo “di fantascienza”. Ciò che viene nomina-to, anche se non esiste più nella realtà, continua a esisterenel linguaggio, cioè in una diversa forma di realtà. 1984, o

Fahrenheit 451, ci sembrano parlare del futuro, ma ciò chefanno in realtà è immaginare il futuro per parlare del passa-to, di come il passato può essere stravolto, rinnegato e quin-di, rimpianto.Mai abbandonato del tutto. Sono, anche, libri sulla profon-dità che si può raggiungere in tutte le cose, e sulla nostalgia,e su ciò che si perde e forse finisce sulla Luna: libri, peresempio, veicolo di quel linguaggio che si vuole – nel futu-ro immaginato in questi due romanzi, in molti altri romanzi,e forse anche nella realtà del presente – appiattito, mortifi-cato. «Le vostre parole, come sono antiche!» dice Montag aClarisse, in Fahrenheit.

E più avanti, il vecchio professor Faber dirà a lui «Non èdelle cose che amo parlare, ma del significato delle cose». Eperò Montag incendia i libri per volere del regime, e fa inqualche modo ciò che nella trama di Orwell, in quell’altroregime immaginato, si intende fare, come se non fossero al-

Michela Monferrini

“Certo stiamo rischiando di viveremolto di quanto nel 1949 e nel 1953,rispettivamente George Orwell e di

nuovo Ray Bradbury immaginarono in1984 e Fahrenheit 451: gli schermi

televisivi sempre più grandi; il perennefrastuono delle pubblicità; la folle

velocità delle auto e le relative stragistradali; l’alcolismo e l’abuso dilagantedi sostanze stupefacenti; la stampa e igiornali di carta che si assottigliano

sempre più”

Cronache e odissee da un altromondo abitabileQuando la letteratura immagina il futuro

di Michela Monferrini

“1984, o Fahrenheit 451, ci sembranoparlare del futuro, ma ciò che fanno in

realtà è immaginare il futuro perparlare del passato, di come il passato

può essere stravolto, rinnegato e quindi,rimpianto. Mai abbandonato del tutto”

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tro che due racconti di una stessa realtà, di uno stesso paese,di uno stesso totalitarismo: «Nel 2050, e forse anche prima,qualsiasi sostanziale nozione dell’archelingua sarà scom-parsa. Tutta la letteratura del passato sarà completamentedistrutta. Chaucer, Shakespeare, Milton, Byron...». Persino (forse soprattutto) quando a essere immaginate nonsono state società, o regimi, ma scene apocalittiche, da finedel mondo già avvenuta, dunque storie di superstiti, il lin-guaggio umano ha avuto il suo ruolo da protagonista. Sia-mo quasi – cronologicamente parlando e fatta salva l’esat-tezza della previsione catastrofica dei Maya a proposito del2012 – a quel 2013 immaginato centouno anni prima daJack London nella sua Peste scarlatta: lì un anziano uomo,circondato da ragazzi e desolazione, prova a far “ripartire”il mondo nominando le cose, quelle stesse cose che, pure,non esistono più, e che i ragazzi non riescono nemmeno aimmaginare, come se materia della fantascienza, per loro,fosse appunto il passato: «“Che vuol dire pagare, nonno?”»,oppure «“Che significa scarlatto?”». Vengono in mente lescene altrettanto apocalittiche descritte di recente da Cor-

mac McCarthy ne La Strada, in cui a essere rimasti soli inuno scenario di devastazione totale sono un padre e suo fi-glio. Nel silenzio disperante che circola tra le pagine, fannorumore a tratti le domande del piccolo, e sono ancora do-mande che vogliono “mettere in salvo”, cioè apprendere,cose che non si sono salvate affatto: cosa sono una diga,una lattina e una pistola lanciarazzi, cos’è un certo luogo,cosa sono le spugnole e che significa statali. Cosa voglionodire contrattare e in linea d’aria. Dopotutto, lo scrittore non è che un uomo tra gli uomini, ecome tutti vive in bilico tra oggetti e parole, non potendoprescindere dagli uni né dagli altri, non potendoli immagi-nare troppo diversi dagli oggetti e dalle parole che ha avutoe ha intorno nel passato e nel presente.E se il futuro sarà poi molto diverso da quel che finora èstato immaginato, allora sarà meglio per tutti che sulle pre-visioni catastrofiche l’abbiano vinta Leopardi e il suo Dia-

logo d’un venditore d’almanacchi: «Quella vita ch’è unacosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non siconosce; non la vita passata, ma la futura».

Un’immagine dal film La strada (2009) diretto da John Hillcoat e tratto dall’omonimo romanzo di Cormac McCarthy

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Il Giappone è sempreavanti di un po’. Questo sipensa, e il luogo comuneha i suoi fondamenti. Cisono stato diverse volte adistanza di anni, semprecon lo stesso risultato: tor-nando in Italia, potevo an-nunciare agli amici quelche sarebbe accaduto entroun anno o due. Solo per fa-re un esempio, ho via via“profetizzato” che i telefo-nini da grossi sarebbero di-

ventati piccoli, da neri sarebbero diventati di tutti i colori(compresi i fluo e i metallizzati), che contro ogni aspettativasarebbero ritornati più grossi, che avrebbero incorporato lamacchina fotografica; e così via. Lo stesso valeva per gliidoli che avrebbero di lì a poco dominato l’immaginario deiragazzini occidentali: ho “previsto” Hello Kitty, i Pokémon,Dragonball Zeta e altri minori.La tecnologia e i prodotti dell’industria dello spettacolo fan-no presto a circolare da un paese all’altro, ma gli aspetti piùprofondi di una civiltà si trasmettono più difficilmente. In-vece io vorrei che alcune cose del Giappone arrivassero quisubito, perché ne abbiamo molto bisogno.Ai linguisti è noto che il giapponese incorpora forse piùdi ogni altra lingua strumenti grammaticali destinati aesprimere la cortesia, il rispetto per l’interlocutore e per-fino il rispetto per le persone assenti di cui si sta parlan-do. Per dire che io o mio fratello abbiamo parlato si usail verbo iu, “dire”: boku-wa itta ani-wa itta

io parlai fratello maggiore parlò

Se a parlare è stato un professore o un maestro si usa unverbo diverso, ossharu, quasi a esprimere che il maestroparli in modo degno di maggiore rispetto:sensei-wa osshatta

professore parlò

Lo stesso vale per diverse altre azioni fondamentali. Adesempio i verbi iku “andare”, suru “fare”, neru “dormire”,se si vuole esprimere rispetto per la persona che compiel’azione diventano rispettivamente irassharu, nasaru, o-

yasumi-ni naru. Di solito il verbo più rispettoso è più lun-go, quindi comporta uno sforzo leggermente maggiore peradoperarlo; proprio come più scomodi sono in genere icomportamenti più gentili anche in campo non linguistico.Per andare da una parte all’altra di un salotto dove dellepersone sono sedute a parlare, fare il giro è più rispettosoche passare in mezzo; e anche un po’ più faticoso. Del re-sto, dire: «Per cortesia, saresti così gentile da avvicinarmiil sale?» è più faticoso che dire: «Passami il sale».

Un certo rispetto è riservato anche a entità inanimate, ilcui nome può essere preceduto dal prefisso onorifico go-

oppure o-. Tipicamente, se si tratta di cose legate a qual-cuno a cui si vuole mostrare rispetto; e non solo: adesempio, il tè si chiama cha, ma normalmente viene no-minato come o-cha; e il denaro, kane, è quasi sempre o-

kane. Ma questo atteggiamento non è confinato nella lingua. InGiappone il rispetto e la decenza nei rapporti personali èprassi comune. Nei nostri luoghi pubblici, se due personeparlano fra loro, lo fanno forte abbastanza da essere sicu-re che il loro interlocutore le senta, e poco importa sesentono (e ne sono disturbati) anche gli altri. Nei luoghipubblici giapponesi, due persone che parlano fra loro lofanno piano abbastanza per essere sicure che non le sentae non ne sia disturbato nessun altro; anche a costo di farefatica a udirsi fra loro. Per fortuna la loro scrittura è ideo-grafica – in realtà, logografica; cioè, ogni segno sta peruna parola, non per un’idea – quindi se l’altro non hasentito li vedi rimediare tracciando nell’aria l’ideogram-ma dell’ultima parola che per buona educazione hannopronunciata troppo piano. Il risultato, comunque, è che inun ristorante giapponese molto affollato puoi sentir vola-re una mosca. Mangiare fuori senza baccano è un sognoquasi irrealizzabile nelle nostre città, ma non sarebbe maleun futuro di italiani decenti come giapponesi.Il rispetto per gli altri si vede da mille dettagli. Molti oc-cidentali credono che gli abitanti delle grandi città giap-ponesi portino mascherine di carta sulla faccia per pro-teggersi dall’inquinamento (che invece non è affatto peg-giore del nostro); ma la verità è quasi l’opposto: si trattadi persone raffreddate che non vogliono infettare gli altri,specialmente nei luoghi chiusi. Nei bagni pubblici, spes-so chi ha usato la carta igienica la lascia con una piega atriangolo che facilita il prossimo utente, e soprattutto glicomunica un’impressione di ordine e pulizia.Il concetto giapponese di che cosa sia decente e che cosano è molto diverso dal nostro anche in altri campi. Lavergogna per ciò che attiene al sesso è molto meno per-

Ritratto del futuro?Il Giappone e il punto di vista collettivo

di Edoardo Lombardi Vallauri

Edoardo Lombardi Vallauri

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30 vasiva e opprimente. Si possono vedere distinti signoriche durante i lunghi trasporti in metropolitana leggonofumetti ad alto contenuto erotico, senza doverne foderarela copertina con improbabile carta da pacchi. Ma quelche più conta, in quella civiltà i comportamenti sessualinon danno luogo a censura e discredito. Si tratta sempredi una forma di rispetto.

Mi pare molto civile che in una società le persone possa-no scegliere il loro modo di vivere il sesso senza sottosta-re a millenari condizionamenti e ad anatemi quotidiani. Itreni giapponesi non hanno mai ritardo. Neanche un po’.Arrivano entro il minuto in cui sono previsti. Tutti, sempre.Scendendo da uno Shinkansen a Kyoto, che si trova sul To-kaido, la linea che va da Tokyo a Osaka, basta aspettare (aseconda dei momenti della giornata) cinque o dieci minutiperché passi il successivo. Come fosse Roma-Milano, soloche invece di un’ora, lì quello dopo lo attendi cinque minu-ti. Tutti aspettano secondo certe strisce che ci sono sul terre-no, in modo da prepararsi a entrare nel vagone che hannoprenotato senza fare confusione. Il treno arriva al minutoprevisto, e l’orario dice che partirà tre minuti dopo. Infattiquelli che devono scendere lo fanno in una manciata di se-condi, e altrettanto in fretta salgono i nuovi occupanti. Treminuti esatti più tardi il treno riparte. Nessuno, passeggeroo ferroviere, ha ritardato tutti per un suo problema con lavaligia, con il bambino, con la sigaretta o con una telefona-ta. Ognuno ha fatto in modo di posporre le sue esigenzeperché non danneggiassero centinaia di viaggiatori. Gli au-tobus sono altrettanto seri. Se un amico ti invita a cena, etu abiti dall’altra parte della città, lui consulta l’orariodei trasporti pubblici e può dirti: «Vai alla stazione dellametropolitana di Tamachi, prendi la corsa per Shibuyadelle 19.27. Alle 19.42 sei a Shibuya: esci dall’uscita diHachiko, se fai le scale in fretta ci metti meno di quattrominuti e puoi prendere l’autobus numero 67, che passaalle 19.46. Scendi alla quattordicesima fermata, Nakano

dori, alle 20.01, e alla stessa fermata prendi il numero 91,che passa alle 20.02. Scendi dopo nove fermate, davanti algiardino di Rikugi-en, alle 20.13, e lì trovi ad aspettarti miofiglio, che ti condurrà fino a casa». Di questa orologeria ci si può fidare a tal punto, che perfinoi bambini delle elementari girano da soli nell’immensa me-tropolitana di Tokyo. Tutto ciò è dovuto al fatto che ciascunaddetto a un servizio fa il suo dovere. Anche qui è una que-stione di decenza. Nessuno mai si permette di anteporre lesue esigenze personali al compito di cui è responsabile.Vale anche per i cosiddetti “guasti tecnici”. Perché da noile motrici e gli sportelli dei treni si rompono continua-mente, e da loro mai? Perché da loro la manutenzioneviene fatta ogni volta che è prescritta per essere sicuriche non capiti un guasto; da noi purtroppo molto spessola manutenzione si fa... quando la porta o il pantografo sibloccano senza appello in mezzo alla campagna.I lavori pubblici riflettono la stessa solerzia. Da noi lepubbliche amministrazioni usano chiudere la strada altraffico e abbandonarla per mesi senza portare avanti i la-vori, in totale dispregio dei loro amministrati. Nelle cittàgiapponesi la strada viene bloccata una sera dopo cena;ove necessario l’asfalto è tagliato in blocchi rinforzati datelai in metallo, che potranno essere rimessi a posto; ungran numero di addetti lavora nella buca a ritmo febbriletutta la notte; se la mattina il lavoro non è finito la stradaviene rimontata o coperta con plance metalliche, e ricon-segnata al traffico per non arrecare danno ai cittadini: i la-vori riprenderanno, sempre strenui, la notte successiva. Ecosì via, finché non saranno terminati. Non è questo, pernoi, il sogno di un futuro da immaginare?Se non li ha sul sesso, il Giappone conosce condizionamentimillenari in altri campi. E non tutti a fin di male. Chi fa unlavoro umile non è insoddisfatto. L’uomo che stacca i che-wing-gum dai pavimenti della metropolitana di Tokyo, escopa gli angoli dalle cartacce, lo fa bene. E se lo fa bene èperché ritiene che la cosa migliore per lui sia farlo bene. In-fatti ha un’aria soddisfatta e quasi importante. Da noi nessu-no lo vuole fare, un lavoro così. E se lo deve fare, poi inrealtà non lo esegue; e se è costretto a eseguirlo lo eseguemale, e si lamenta di continuo, e insomma non ritiene chesia per lui un bene farlo. Il fatto è che in Giappone ai lavoriumili è associata più dignità che da noi. Perché?Difficile rispondere, ma un’ipotesi si può fare. In Occiden-te, e ancor più in Italia, si ragiona in prospettiva individuale.In tale prospettiva ci si domanda: questa persona è fallita oè riuscita? Se sta in alto (il miliardario, il personaggio dellatv) è riuscita, se sta in basso (lo staccachewing-gum) è falli-ta. Essendo la prospettiva individuale, è uguale per ognipersona: da ciascuno ci si aspetta che “riesca”, e chi non ri-esce deve sentirsi un fallito. Invece in Giappone il punto divista è collettivo. In questa prospettiva appare subito chia-ro che non possono tutti “riuscire”.C’è bisogno sia di chi sta in alto, sia di chi sta in basso.Sono altrettanto necessari. Quindi per la collettività nonè un fallimento che ci sia qualcuno in basso. Il puntonon è se una persona sia riuscita o fallita, ma se il siste-ma sia una riuscita o un fallimento. Chi stacca i che-wing-gum dal pavimento della metro sa di essere partedi un sistema riuscito. Per questo sulle sue labbra erraun sorriso di soddisfazione.

“Ai linguisti è noto che il giapponeseincorpora forse più di ogni altra lingua

strumenti grammaticali destinati aesprimere la cortesia, il rispetto per

l’interlocutore e perfino il rispetto per lepersone assenti di cui si sta parlando”

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«Il futuro è un territorio delpassato»: questo è uno de-gli aforismi di MarshallMcLuhan, forse non altret-tanto famoso quanto «ilmezzo è il messaggio», macertamente molto stimolan-te e profondo. Mette in ri-lievo, infatti, il problemadelle radici culturali delcambiamento, facendo ca-pire che le profonde tra-sformazioni indotte dalletecnologie possono essere

gestite solo se si riflette sulla propria tradizione, sulle proprieorigini. Si tratta, insomma, di scoprire il “filo rosso” che legapassato, presente e futuro e stabilire dei nessi capaci di co-gliere i valori permanenti all’interno del cambiamento, an-che quello così accelerato come l’attuale. Questo richiamoappare tanto più importante proprio nell’anno in cui si cele-bra il centenario della nascita dello studioso canadese, nato aEdmonton, nello Stato dell’Alberta, sulle coste occidentalidel Canada, l’11 luglio del 1911 e trasferitosi poi a Toronto,nella cui università ha sviluppato la sua esperienza accade-mica e il suo itinerario di pensiero.

Tra Canada e ItaliaOltre al Canada, l’Italia è il paese in cui McLuhan è stato edè maggiormente valorizzato. Anzi si può dire che il suo pen-siero, a trent’anni dalla morte, sia da noi in costante crescitadi popolarità e soprattutto di approfondimenti scientifici. Unrecente convegno allo IULM di Milano è stato intitolato “Ilsecolo di McLuhan” proprio per segnare la profonda im-pronta da lui lasciata nel Novecento e sugli sviluppi futuri.Anche nel nostro Ateneo si prevedono iniziative per riflette-re sulle sue opere e proiettarne le conseguenze sul futuro svi-luppo socio-culturale.Marshall McLuhan, attraverso l’enorme ricchezza della suaconoscenza letteraria, attraverso le sue profonde e provocato-rie esplorazioni della galassia dei media, attraverso i percorsidella sua sensibilità religiosa ci ha infatti portato a rifletteresulla grande parabola della storia umana e della nostra avven-tura individuale e collettiva sulla “astronave Terra”.

L’esplorazione del futuroGli interrogativi che riguardano in particolare il mondo gio-vanile, tanto efficacemente messi in rilievo dal messaggio dicapodanno del Capo dello Stato, esprimono nel modo più ef-ficace questa generale incertezza sul domani. Basti pensare atemi come quelli della globalizzazione – che crea una com-petizione a livello mondiale – e della precarietà – che sem-

bra diventare una condizione permanente di un mondo dellavoro che deve adattarsi a sempre nuove condizioni in archidi tempo sempre più brevi. A ciò si aggiungano le emergen-ze dell’ecologia e del terrorismo, che sono oggi due dellegrandi incognite del futuro. Ebbene, fin dagli anni Sessanta l’esplorazione di McLu-han ha cercato di conciliare questo presente e quel futurocon il passato. Egli soleva dire che solo un recuperato sen-so del tempo può rassicurarci. Leggiamo la conclusione diuna sua celebre intervista, rilasciata a Eric Norden nelmarzo del 1969, che, con sorprendenti accenni poetici, èanche il suo testamento intellettuale e morale: «Nei prossi-mi decenni spero di vedere il nostro pianeta trasformarsiin un’opera d’arte; l’uomo nuovo, integrato nell’armoniacosmica che trascende il tempo e lo spazio, accarezzerà,forgerà e modellerà ogni aspetto dell’artefatto terrestre co-me se fosse un’opera d’arte e l’uomo stesso diventeràun’organica forma d’arte.

C’è un lungo cammino da percorrere e le stelle sono soltantostazioni di cambio, ma abbiamo cominciato il viaggio. Na-scere in questo tempo è un dono prezioso e rimpiango laprospettiva della mia morte soltanto perché non potrò legge-re così tante pagine del destino dell’uomo − se mi permettetel’immagine alla Gutenberg. Ma forse, come ho cercato di di-mostrare nella mia analisi della cultura post-alfabetica, lastoria comincia soltanto quando il libro si chiude».

Marshall McLuhane il mondo di domaniA cent’anni dalla nascita dello studioso canadese

di Gianpiero Gamaleri

Gianpiero Gamaleri

Marshall McLuhan e Woody Allen in una celebre sequenza delfilm Io e Annie del 1977. Ricorre quest’anno il centenario dellamorte dello studioso canadese che ha coniato l’espressione “il vil-laggio globale”

“Marshall McLuhan ci ha portatoa riflettere sulla grande paraboladella storia umana e della nostraavventura individuale e collettiva

sulla astronave Terra”

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Nelle righe che seguono vogliamo ricordare alcuni pas-

saggi dei discorsi tenuti presso il nostro Ateneo da grandi

figure spirituali e intellettuali che hanno messo la propria

vita al servizio dell’ umanità e del suo diritto a vivere in

pace. Qui li vogliamo ricordare perché non si dimentichi

in questa fase storica difficile il mandato più alto dell’ac-

cademia e il suo costante impegno per far fiorire la cultu-

ra, ponte fondamentale sul quale i popoli possono incon-

trarsi e dialogare.

[…] «Compito essenziale dell’Uni-

versità è quello di essere palestra nel-

la ricerca della verità: dalle più sem-

plici verità, come quelle sugli ele-

menti materiali e sugli esseri viventi;

a verità più articolate, come quelle

sulle leggi della conoscenza, del vi-

vere associato, dell’uso delle scienze;

a verità, infine, più profonde, come

quelle sul senso dell’agire umano e

sui valori che animano l’attività individuale e comunitaria.

L’umanità ha bisogno di cattedre di verità e se l’Universi-

tà è una fucina del sapere, quanti vi operano non possono

che avere come bussola del proprio agire l’onestà intellet-

tuale, grazie alla quale è possibile sceverare il falso dal

vero, la parte dall’intero, lo strumento dal fine. Sta già

qui un contributo significativo alla costruzione di un futu-

ro ancorato ai valori saldi e universali della libertà, della

giustizia, della pace.

San Tommaso d’Aquino, di cui lunedì scorso abbiamo

celebrato la festa, osservava che “genus humanum arte

et ratione vivit” (in Arist. Post. Analyt., 1).

Ogni conoscenza immediata e scientifica va rapportata

ai valori e alle tradizioni che costituiscono la ricchezza

di un popolo. Attingendo a quei valori che accomunano e

insieme distinguono un popolo dall’altro, l’Università divie-

ne cattedra di una cultura a misura veramente umana e si po-

ne come ambiente ideale per armonizzare il genio individua-

le di una nazione e i valori spirituali che appartengono all’in-

tera famiglia degli uomini.

Ella, Signor Rettore, ha poc’anzi richiamato quanto ebbi a

ricordare alcuni anni or sono, che cioè l’uomo vive una vita

veramente umana grazie alla cultura. Cultura e culture non

devono porsi in contrapposizione tra loro, bensì intrattenere

un dialogo arricchente per l’unità e la diversità del vivere

umano. Siamo qui in presenza di una pluralità feconda, che

permette alla persona di svilupparsi senza perdere le proprie

radici, perché l’aiuta a conservare la dimensione fondamen-

tale del proprio essere integrale.

La persona è soggettività spirituale e materiale, capace di

spiritualizzare la materia, rendendola docile strumento delle

proprie energie spirituali, e cioè dell’intelligenza e della vo-

lontà. Al tempo stesso, essa è capace di dare una dimensione

materiale allo spirito, di rendere cioè incarnato e storico

quanto è spirituale. Si pensi, ad esempio, alle grandi intui-

zioni intellettuali, artistiche, tecniche, divenute «materia»,

cioè concrete e pratiche espressioni del genio, che le ha con-

cepite in antecedenza nella propria mente.

Questo cammino non può prescindere da un confronto lea-

le a tutto campo con i valori etici e morali connessi con la

dimensione spirituale dell’uomo. La fede illumina il qua-

dro di riferimento fondamentale dei valori irrinunciabili

iscritti nel cuore di ciascuno.

Basta guardare alla storia con occhi obiettivi, per rendersi

conto di quanto importante sia stata la religione nella forma-

zione delle culture e quanto abbia plasmato con il suo influs-

so l’intero habitat umano. Ignorare ciò o negarlo non rappre-

senta solo un errore di prospettiva, ma anche un cattivo ser-

vizio alla verità sull’uomo. Perché aver timore di aprire la

conoscenza e la cultura alla fede? La passione e il rigore del-

la ricerca nulla hanno da perdere nel dialogo sapienziale con

i valori racchiusi nella religione.

Da questa osmosi non è forse scaturito quell’umanesimo di

cui va giustamente fiera la nostra Europa , oggi protesa ver-

so nuovi traguardi culturali ed economici?

Per quanto dipende dalla Chiesa, come ricorda il Conci-

lio Vaticano II, “il desiderio di stabilire un dialogo che

sia ispirato dal solo amore della verità e condotto con la

opportuna prudenza… non esclude nessuno: né coloro

che hanno il culto di alti valori umani, benché non ne ri-

conoscano ancora la sorgente, né coloro che si oppongo-

no alla Chiesa” (Gaudium et spes, 92).

L’incontro di Assisi di giovedì scorso ha mostrato come

l’autentico spirito religioso promuova un dialogo sincero

che apre gli animi alla reciproca comprensione e all’intesa

nel servizio alla causa dell’uomo. Distinte autorità accade-

miche, gentili docenti, carissimi studenti, affido queste

considerazioni a voi, che formate la grande famiglia del-

l’Università Roma Tre. Il vostro lavoro sia sempre sorretto

da un impegno appassionato, sia svolto con costanza e gene-

rosità, sia animato da spirito di comprensione e di dialogo.

Da chi, come voi, lavora nell’ambito della ricerca scien-

tifica, dipende in non piccola parte il rinnovamento della

nostra società e la costruzione di un futuro di pace mi-

gliore per tutti.

Maria, la Madre della Sapienza, vi sostenga nella passione

per la verità e vi illumini nei momenti di difficoltà e di pro-

va. Non perdetevi mai di coraggio! Il Papa vi è accanto e vi

benedice di cuore, insieme con le persone che vi sono care».

Dal discorso di Sua Santità Giovanni Paolo II,

Inaugurazione Anno Accademico 2001-2002

Visita di Sua Santità Giovanni Paolo II

Hanno detto per noi…

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[…] «Soprattutto oggi, che l’atti-

vità di ciascuno ha aspetti così

molteplici, che si vede e si viag-

gia il mondo, che si è specializ-

zati nel lavoro, ogni persona

appartiene a molte unioni. Sono

unioni quest’Università, ma

anche le sue Facoltà e i suoi

Dipartimenti. Italia ed Europa

sono dunque solo due degliambiti

nei quali viviamo la tematica dell’unione. Ma sono i

due ambiti principali nei quali la viviamo nella politica.

E la politica è, per eccellenza, l’attività per mezzo della

quale il ricorso alla violenza è stato gradualmente ban-

dito quale mezzo per risolvere i contrasti.

Tale è la qualità di questa invenzione umana, tale il

valore del bene che essa assicura - la pace - che ancora

oggi fatichiamo a pensare di potere essere contempora-

neamente parte di più unioni politiche.

Ancora oggi l’unione politica nazionale, lo Stato unita-

rio, ci appare come un monolito la cui esistenza stessa -

e con essa il bene supremo della pace che esso ci pro-

mette - sarebbe minacciata ove esso divenisse parte di

una struttura di governo a più livelli.

Temiamo allora che costruire una vera unione europea

significhi perdita dell’unione italiana, o che la stessa

perdita scaturirebbe dalla riorganizzazione in senso

federale dello Stato. Invece, un’unione politica non è

esclusiva di altre e nessuna può aspirare all’universalità

delle competenze senza divenire strumento di oppres-

sione anziché di pace. Diverse unioni non si escludono

a vicenda, al contrario hanno bisogno l’una dell’altra.

Possiamo dirlo con le parole che Dante usa per le lin-

gue: “Chiunque ha ragione così guasta da ritenere che il

proprio luogo natio sia il più bello sotto il sole, pari-

menti stima il volgare proprio, o lingua materna, al di

sopra di tutti gli altri; e per conseguenza crede che pro-

prio esso sia stato la lingua di Adamo.

Io invece, cui il mondo è patria come l’acqua ai pesci, -

benché abbia bevuto dell’Arno prima di mettere i denti

e tanto ami Firenze che, per amor suo, soffro ingiusta-

mente la pena dell’esilio, - appoggio la bilancia del mio

giudizio sulla ragione e non sull’affetto.

E pur se al mio piacere e alla sensazione del mio appe-

tito sensitivo non si presti luogo, al mondo, migliore di

Firenze, - io … ho ponderato e fermamente ritengo

esservi molte regioni e città più nobili e più deliziose

della Toscana e di Firenze, di cui sono originario e cit-

tadino, e parecchi popoli e stirpi usare una lingua più

gradevole e più utile di quella che usano gli Italici”».

Dalla prolusione dell’economista, prof. Tommaso

Padoa Schioppa, Inaugurazione Anno Accademico

2002-2003

[…] «Se vediamo il mondo come

un villaggio globale, dobbiamo

essere partecipi di tutti i suoi

doni e vantaggi, tra gli altri,

anche il sapere. Non possiamo

pretendere di essere una comu-

nità globale se una parte della

popolazione del mondo viene

privata del sapere.

Dobbiamo essere generosi come il cielo, fare fertile

l’albero della conoscenza come la terra, diffondere l’a-

micizia come il vento, essere ostili e furiosi contro l’i-

gnoranza e l’intolleranza, come il fuoco. Dobbiamo

essere umani, essere gentili».

Dalla prolusione del premio Nobel per la Pace Shirin

Ebadi, Inaugurazione Anno Accademico 2003-2004

[…] «Ma poi c’è un’altra cosa.

Nonostante la scienza e la tecno-

logia siano così progredite, penso

che la società umana abbia

ancora molti problemi, molti pro-

blemi emotivi. Quindi se per

questo tipo di problema ci affi-

diamo solamente ai farmaci o a

mezzi esterni, io credo che la

risposta non sia completa, dal

momento che molti problemi

emotivi derivano non necessariamente da elementi

fisici: /è l’uomo stesso/ che ha creato taluni tipi di emo-

zioni. In questo caso la realtà va trovata direttamente

all’interno della stessa emozione.

Quindi l’antica tradizione indiana della mente, della

conoscenza della mente, delle emozioni, può essere

utile quale rimedio ad alcuni problemi emotivi. Poi

però se prendiamo questo metodo, le antiche tradizioni

religiose, e ne prendiamo solo una citazione, facciamo

affidamento su una sola citazione – non è sufficiente.

Dobbiamo esaminare, sperimentare, ricercare in

maniera scientifica. Quindi io la chiamo di solito etica

circolare, non basata sul credo religioso, sulla lettera-

tura di marca religiosa o su entrambe le cose, ma piut-

tosto sulle ricerche, sugli esperimenti condotti da scien-

ziati attenti. Allora credo che possa essere più utile per

la collettività.

E questo quindi il secondo motivo, per trovare un rime-

dio per i nostri problemi emotivi attraverso queste tra-

dizioni antiche – con la cooperazione della scienza

moderna. Questo è il secondo motivo».

Dalla Lectio magistralis del Dalai Lama Tenzin Gyatso

XIV, Laurea Honoris causa in Biologia 14 ottobre 2006

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inco

ntri

Cominciando dall’attualità, sono di scena i tagli allacultura. Il Comune di Roma non ha alla fine aderito al-la serrata dei musei del 12 novembre scorso. La sua vo-ce è comunque rimasta una delle più critiche su questopunto. Il 21 novembre si è fermato il mondo dello spet-tacolo, un settore cruciale, credo, nella realtà romana.Qual è lo stato dell’arte sulla questione? Quali sono inodi sul tappeto e le prospettive?È necessario distinguere innanzitutto. Una prima questioneè quella dei tagli che sono stati operati nella finanziaria ap-provata nei giorni scorsi e che riguardano le spese dellostato sulla cultura (la riduzione del FUS – Fondo unico perlo spettacolo – per il sostegno dello spettacolo dal vivo epiù in generale le disponibilità del Ministero dei beni cultu-rali). In questo contesto va sottolineato che il Comune diRoma in generale per il 2010 è riuscito a mantenere le quo-te di investimento dello scorso anno che erano superiori aquelle degli anni precedenti e quindi non solo ha fatto ilproprio dovere ma ha dovuto anche surrogare le carenzederivanti dallo Stato che sono state progressive negli ultimianni e che hanno attraversato tutti i governi. Su questo na-turalmente la mia voce si è unita a quelle di quanti hannoprotestato per quello che stava succedendo.Altra cosa invece sono le manifestazioni che abbiamo in-detto negli ultimi mesi che riguardano le norme contenutenella Legge 122 del luglio scorso che non sono tagli mache hanno un effetto addirittura peggiore. Non si tratta in-fatti di limitazioni ai trasferimenti della spesa ma di norme,tra l’altro palesemente incostituzionali, che impongonodelle prescrizioni assolutamente folli e incomprensibili alleamministrazioni pubbliche e quindi anche a tutti gli enti lo-cali e a tutte le società in qualche modo partecipate con de-naro pubblico. Si tratta di una decina di norme, le più ecla-tanti delle quali sono quelle che riguardano il limite di spe-sa del venti per cento nel 2011 rispetto al 2009 per mostre,

pubblicità e congressi. Questo comporterebbe che, siccomeè indicata la capacità di spesa degli enti e non la fonte deiproventi, addirittura si potrebbe arrivare all’assurdo che seun’istituzione partecipata con denaro pubblico riceve spon-sorizzazioni o contribuzioni da un privato non può comun-que spendere più del venti per cento. E questo rappresentadi fatto un blocco a una delle attività che sta dando mag-giori risultati, ovvero quella delle mostre.

Vi è poi il punto riguardante la riduzione dei membri deiconsigli di amministrazione entro un limite di cinque il chesignifica che si impedisce di fatto la presenza dei privatinelle strutture: istituzioni come il Teatro della Scala o laFondazione musica per Roma, che hanno più di diecimembri nel consiglio di amministrazione, dovranno quindirivedere tutti i propri rapporti con i privati. E ancora: il di-vieto di sponsorizzazioni da parte di aziende pubbliche, lo

Culture ValleyIntervista a Umberto Croppi*

di Federica Martellini

*L’intervista è stata realizzata il 26 dicembre 2010 durante il suo assessorato alle politiche culturali del Comune di Roma

“Il principio dell’intervento dei privatinelle attività culturali del settore

pubblico attraverso sponsorizzazioni opartecipazioni ha poco più di quindici

anni di vita ma in questi anni sonocambiate molte cose: c’è stata unamaturazione. La sponsorizzazionepura e semplice è una dazione didenari in cambio di una piccola

presenza nella comunicazione, mentreoggi la tendenza che noi stiamo

incrementando è quella di creare dellepartnership vere”

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Umberto Croppi è stato assessore alle politiche culturali e comunicazione del Comune diRoma. Direttore generale della Fondazione Valore Italia (Esposizione permanente delMade in Italy e del design italiano), è membro del Consiglio superiore delle comunica-zioni di cui è stato presidente della quarta sezione, componente del Consiglio del de-sign del Ministero per i beni culturali e segretario del Comitato nazionale per le cele-brazioni del centenario del Manifesto futurista. È inoltre docente a contratto presso laFacoltà di Scienze della comunicazione dell’Università La Sapienza.È autore di numerosi saggi e coautore di volumi collettanei e collabora con diverse te-state giornalistiche e radiofoniche, tra cui L’Indipendente, Il Riformista, Il Foglio, Il

Secolo d’Italia, Charta Minuta. Esperto di comunicazione ha diretto un’agenzia dipubblicità. Ha creato e diretto la galleria d’arte BZF di Firenze, finalista del premio“Impresa e Cultura”, edizione 2003. Nell’ultimo decennio ha lavorato nell’editoria: èstato prima presidente della casa editrice Officine del Novecento e poi direttore edito-riale della Vallecchi di Firenze.

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36 scioglimento di società per i comuni con meno di trentamila abitanti che sono quelli che, proprio perché piccoli,spesso si trovano in società, anche consortili, per la gestio-ne di servizi. Insomma è una follia che provocherà dei dan-ni irreparabili se non verranno riviste queste norme. Per quanto riguarda la manifestazione del 12 novembre citengo a dire che è partita proprio dal Comune di Roma. E ilComune di Roma ha mantenuto in pieno l’adesione. Tutta-via, dal momento che il ministro Tremonti, a tre giorni dallamanifestazione, ha ricevuto una delegazione e ha riconosciu-to la giustezza delle nostre rivendicazioni, il Comune di Ro-ma, come altre istituzioni italiane, ha mantenuto l’adesionema sospendendo le modalità previste. Quindi i musei sonorimasti aperti e hanno presentato materiale informativo sullamanifestazione. Abbiamo poi indetto una conferenza pressol’Ara Pacis che è stata fra l’altro il momento di maggiore at-tenzione sulla vicenda da parte della stampa nazionale e in-ternazionale. Ci siamo anche ripromessi di riprendere conforme di protesta quali quelle già indicate qualora le assicu-razioni che abbiamo ricevuto non si dovessero trasformate inatti. Domani, 17 dicembre, il consiglio dei ministri varerà ildecreto “mille proroghe” nel quale dovrebbero essere recepi-te queste indicazioni. Quindi domani c’è il banco di prova,l’ultimo appello e sapremo se queste modifiche sono stateeffettivamente recepite sul piano normativo.

Un punto che in parte ha già toccato e su cui ciclica-mente si torna a dibattere è quello dell’ingresso dei pri-vati, o meglio di un ampliamento del ruolo dei privati,nella gestione dei beni culturali. Ad esempio per quantoriguarda Roma ultimamente si è molto parlato dellaproposta di Della Valle per la “sponsorizzazione” delColosseo… Qual è la sua posizione su questo punto?Dunque intanto c’è un problema di fondo: il principio del-l’intervento dei privati nelle attività culturali del settorepubblico attraverso sponsorizzazioni o partecipazioni hapoco più di quindici anni di vita. E posso dire, rivendican-do un po’ un primato, che la prima amministrazione a in-trodurre questo principio fu la prima giunta Rutelli nel1994 su mia indicazione (in quel momento collaboravo in-fatti con l’ufficio comunicazione della giunta Rutelli).In questi anni sono cambiate molte cose: intanto questa èdiventata una consuetudine, ma soprattutto c’è stata unamaturazione per cui da un lato le aziende non vogliono piùessere utilizzate come dei bancomat e dall’altro le ammini-strazioni stanno migliorando il proprio standard. La spon-sorizzazione pura e semplice infatti è una dazione di denariin cambio di una piccola presenza nella comunicazione,mentre oggi la tendenza che noi stiamo incrementando èquella di creare delle partnership vere. Per cui, per fare de-gli esempi, Enel che collabora con il museo MACRO le-gando la propria comunicazione all’arte contemporanea, in

una forma di collaborazione che è anche elaborazione co-mune di progetti. Oppure il Palazzo delle Esposizioni dovela Fondazione Roma, che è una fondazione privata, stabili-sce con il comune dei protocolli d’intesa per cui la condu-zione resta in mano pubblica ma con un apporto significati-vo da parte dei privati.La cosa che è importante tenere presente è che gli interven-ti privati non possono essere sostitutivi di quelli pubblici eche per far aumentare l’impegno privato bisogna aumenta-re l’impegno pubblico. Un recente convegno organizzato aMilano dall’Associazione Civita ha reso noti i risultati diuna ricerca molto approfondita, la più approfondita fatta fi-no ad ora in Italia, da cui risulta un dato eclatante: conside-rando tutti gli investimenti di aziende private in cultura, apartire dalle piccole aziende che fanno sponsorizzazioni sulterritorio fino ai grandi interventi, si arriva ad una cifraequivalente a mezza manovra finanziaria. Ciò significa chec’è una grande disponibilità da parte dei privati. Va incre-mentata soltanto una nuova cultura del rapporto. In propo-sito il Comune di Roma si è dato un nuovo regolamento eun ufficio, una figura dedicata proprio a questo che sta co-minciando a operare in questi mesi, proprio per cambiarela cultura e le regole del rapporto con i privati. Anche perché altrimenti il rischio non potrebbe essereproprio che l’interesse dei privati si possa rivolgere ver-so quei beni o l’attività di quelle istituzioni che hannoad esempio un maggiore richiamo mediatico, lasciando“La cosa che è importante tenere

presente è che gli investimenti privati incultura non possono essere sostitutivi diquelli pubblici e che per far aumentarel’impegno privato bisogna aumentare

l’impegno pubblico”

Il 13 giugno 2010 si è conclusa, al Museo Fondazione Roma, laprima grande mostra di Edward Hopper in Italia. L’esposizioneha avuto un ottimo successo, facendo registrare nelle due sedi diRoma e Milano oltre 400.000 presenze

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inevase tutta un’altra serie di istanze?È proprio per questo che dico che si passa dal concetto disponsorizzazione a quello di partnership. L’investimento incultura non è legato tanto al livello mediatico e non è quin-di una forma di pubblicità, ma siccome i privati investono,legittimamente, in funzione dei propri interessi vanno indi-viduati settori e progetti che abbiano un interesse recipro-co. Di conseguenza non è detto che l’interesse sia nellagrande istituzione o nella grande manifestazione, dove alcontrario più spesso è proprio la formula bancomat chefunziona, ma nella costruzione di progetti che devono ve-dere l’investitore privato partecipe e in grado di ricavare

degli utili, non in senso economico naturalmente, ma nellacrescita ad esempio del proprio bilancio sociale.Nel 2008 all’inizio del suo mandato, come assessore allepolitiche culturali del Comune di Roma, utilizzò una me-tafora per descrivere le sue linee programmatiche: «Uncollage in movimento, un caleidoscopio, più che una fotod’autore. Penso ad una Culture Valley fatta dalle univer-sità, dalle accademie, dagli istituti di formazione, dallescuole di specializzazione, dagli istituti culturali di tutti ipiù importanti paesi del mondo». Qual è il suo bilanciodi medio termine di questi primi due anni e mezzo?Sono molto soddisfatto da questo punto di vista perché pursenza risorse specifiche da dedicare a questo e a volte conoperazioni a costo zero abbiamo attivato un network contutte le istituzioni culturali straniere. Roma è l’unica città almondo ad avere una così alta concentrazione di istituzioniculturali internazionali – sono trentatre fra Accademie eIstituti di cultura – alle quali si aggiungono tutte le Amba-sciate che svolgono un’attività culturale e di promozione.Noi abbiamo creato un sito internet dedicato (culturainter-nazionale.wordpress.com) che da informazioni di base eaggiorna quotidianamente il calendario delle attività, co-struendo così, anche attraverso il sito, un rapporto con lacittà che prima era totalmente inesistente. Tutte queste isti-tuzioni vengono coinvolte con una reciprocità ormai quoti-diana, nel senso che noi chiediamo a loro di partecipare atutte le manifestazioni e loro rispondono in funzione deipropri indirizzi, delle proprie esigenze partecipando adesempio a iniziative che sono nel nostro calendario conpropri artisti, ricercatori, delegazioni oppure aprendo i pro-pri spazi per ospitare queste manifestazioni. Ci sono poimanifestazioni realizzate specificamente come il progettoCalliope, fatto insieme all’Auditorium e Musica per Roma,che nell’arco di tutto l’anno utilizzando orchestre, rappre-sentanze e gruppi teatrali dei vari paesi, offre un calendariocomplesso e di grande qualità.

Lo stesso lavoro lo stiamo portando avanti in maniera gra-duale con le università.Stiamo sottoscrivendo convenzioni su singoli progetti didurata anche pluriennale; collaboriamo con le universitàper quanto riguarda la ricerca su temi di interesse pubblico,abbiamo attivato meccanismi di partenariato internaziona-le. È in corso ad esempio un progetto, finanziato dalla Co-munità europea, di partenariato con Mosca e Kiev sul recu-pero del patrimonio edilizio del Novecento che vede a Ro-ma come casi di studio il quartiere del Trullo e quello delTufello. Il progetto serve a noi per approfondire la ricercasul nostro patrimonio e ai russi per acquisire una cultura disalvaguardia, sull’importanza di mantenere e riutilizzarequello che c’è, una cultura che loro non hanno perché han-no un patrimonio architettonico che sta andando distrutto.Un altro ospite di questo numero ci faceva notare comesiamo forse protagonisti di un’epoca antirinascimenta-

“Roma è l’unica città al mondo adavere una così alta concentrazione diistituzioni culturali internazionali chevengono coinvolte con una reciprocità

ormai quotidiana”

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38 le. Immaginando di dover allestire una sorta di capsuladel tempo, che racconti, alle generazioni che verranno,di noi e della nostra cultura (di quella che produciamooltre che del patrimonio che siamo chiamati a conser-vare), cosa ci metterebbe dentro? E cosa racconterà diquesta nostra postmodernità un po’ in bilico o se vo-gliamo in transizione, che ha forse finalmente perdutoil mito del progresso?Ma intanto penso che se questa è un’epoca antirinasci-mentale ce lo diranno i nostri figli. Semmai se dovessi uti-lizzare una formula direi che la nostra è più un’epoca anti-romantica. Ci sono tutte le premesse per un nuovo rinasci-mento, quello che manca eventualmente sono i mecenatiche comunque, tornando anche al discorso iniziale, a par-tire da Mecenate, non sono mai stati dei filantropi ma piut-tosto persone che hanno utilizzato l’arte come fattore diaccrescimento dei propri interessi politici o aziendali. Inquesto momento quello che manca spesso è la committen-za però esistono certamente energie forti.Il riferimento era anche alla carenza di collegamenti,di sinapsi fra mondi e ambiti diversi, fra scienza eumanesimo sostanzialmente…Questo in parte è vero e in parte no. Penso ad esempio atutto ciò che è collegato alle nuove frontiere dell’ITC e atutto ciò che offre la rete dove invece i collegamenti sonofortissimi. Per fare un esempio paradigmatico lo sviluppodi internet e della rete, che oggi è diventato non solo lostrumento ma il terreno primario di scambio di informazio-ni e di interrelazione sociale, non è stato creato dagli inge-gneri e dai tecnici ma dagli umanisti. Uno strumento mili-tare come internet è diventato di uso civile perché sono leuniversità che hanno cominciato a utilizzarlo in questo mo-do e che ne hanno poi creato anche tutte le forme successi-ve: la trasmissione di immagini, di file visuali, di filmatinasce da esigenze di scambio di informazioni fra universi-tà. Così come sono degli umanisti che hanno dato la formaalla rete, perfino nella semantica utilizzata (si pensi a ter-mini come “icona”) che deriva da questo tipo di bagaglio.Direi anzi che questo è un momento di grandi “mischia-menti”. Le premesse e le energie ci sono tutte. Senza cade-re nei rischi dei limiti che la rete può generare, le possibili-tà che oggi vengono date da questa facilità di apertura dinuovi territori, la velocizzazione di scambio di informazio-ni, di accumulo di saperi sono un’occasione straordinaria.Poi non c’è dubbio che su certi piani l’Italia sia indietro, adesempio il fatto che solo il trenta per cento delle impreseutilizzi la rete, o tutte le po-tenzialità della rete, è uncampanello di allarme serio.Al contempo, tuttavia, ab-biamo anche delle eccellen-ze. E in questo, per quelloche è consentito ad un am-ministratore locale, io credoche noi stiamo facendo deigrandi sforzi e Roma è di-ventata un laboratorio rico-nosciuto. C’è, ad esempio,il progetto che ormai ha unanno e mezzo di vita, delcapitale digitale, avviato in-

sieme a Telecom e alla rivista Wired, che è diventato unterreno costante di incontro e di sperimentazione.Partendo proprio da questo tipo di discorso. Ho vistodi recente una splendida riproduzione in 3D della Cap-pella Sistina, realizzata in tre anni di lavoro dalla Uni-versity of Pennsylvania. Mi sembra che le tecnologiesiano destinate a influire radicalmente non solo, come èovvio, sui prodotti culturali contemporanei ma anche esoprattutto sull’accesso alla cultura e sulle modalitàdella fruizione culturale. Che mestiere farà l’assessorealla cultura del Comune di Roma fra cinquant’anni?Di cosa si occuperà? È una bella domanda. Va detto intanto che questo degli as-sessorati è un modello italiano. In altri paesi non sempre leamministrazioni pubbliche sono strutturate in questo mo-do. Il fatto che l’amministratore locale sia diventato di fat-to un promotore di cultura ha depresso altre possibilità.Oggi siamo nel guado, tanto che parliamo di assessoratoalle politiche culturali. Ed è un guado non facile da attra-versare perché negli ultimi venti anni si è creata una dis-torsione per la quale si tende a vedere nell’assessorato unafigura ibrida che da un lato finanzia in maniera anche mol-to frastagliata, segmentata e poco progettuale tante piccolee grandi iniziative proposte dai privati, compreso il siste-ma dei teatri ad esempio, e dall’altro si fa promotore diiniziative. Molto poco invece realizza quello che dovrebbeessere il suo mandato e cioè quello delle politiche culturalie cioè creare delle strutture di sistema che siano di promo-zione per i diversi sistemi della cultura piuttosto che di so-stegno alle singole iniziative.

Questa situazione che si è consolidata ha dato origine a uncircolo vizioso, per cui le risorse che dovrebbero essere uti-lizzate per educare i cittadini ad andare a teatro o al cinema,per favorire alcuni aspetti infrastrutturali – la gente a voltenon va a teatro perché i mezzi non vengono pensati anchein funzione della fruizione dei servizi culturali – e di cui be-

neficerebbe tutto il settorein maniera trasversale fini-scono per disperdersi inmille rivoli, distribuiti adattività che senza i ventimi-la euro di contribuzionepubblica finiscono perchiudere. Quello che è ne-cessario quindi è ricalibrarei pesi, rivedere le modalitàdi utilizzazione del denaropubblico in funzione di atti-vità di sistema, spostare ilpeso sulle politiche piutto-sto che sul sostegno.

“Lo sviluppo di internet e della rete, cheoggi è diventato non solo lo strumentoma il terreno primario di scambio di

informazioni e di interrelazione sociale,non è stato creato dagli ingegneri e dai

tecnici ma dagli umanisti”

Attraverso Enel Contemporanea Award prosegue la partnership, iniziatanel 2009, fra Enel e il MACRO, Museo d’Arte Contemporanea di Roma

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You are an international well-known dancer and anestimated choreographer. You have trod the stages allover the world from New York to Paris, fromStockholm to Venice. You danced with the greatestdancers in the world, as Rudolf Nureyev and MauriceBéjart. What is dance for you?Dance is a state of Being. A grace of becoming in eachinstant of renewed energy. A visual poem of fleetingimages in chance potentials.

the sun sets behind the ocean

you see a beautiful light descending

you hear the waves in constant motion

you perceive the wind on your body

you feel the color and atmospheric change

there is no definition

only a perceived beauty of passing

the Dance.

You write poems and you love painting too. Youcollaborate with famous musicians who composemusic for your ballets. Where do you get inspirationfor your performances? What role does improvisationplay?I receive inspiration fromall walks of life, be it astone on the road, the skyin thunder, the peoplewalking with us on ourearth, the greatest painters,both known and unknown,all sounds of nature andthose man - made geniuscomposers. So I draw fromlife itself, an idea cancome travelling on a trainor just looking out mywindow. If one has thenecessity within to create

all things are an inspiration. Improvisation plays a greatrole in my creations... I give the idea I have in mind tomy collaborators, and each one has his own contributionto the unfolding of the process. I am not thecontroller...each one of my dancers and music composershave a say within the ideas. Yes, I put it all together in theend, with a joy that all have been an integral part of theprocess. This experience that brings my work to thedefinition of Visual Poetry.In this magazine we speak about the future. In yourperformance you combine body experience andtechnology, Eastern philosophy and the classicaltheatre, the Nature and the Sacred. Time and spaceare mixed. Which culture has influenced you the most?

This question is hard to define... I am an American,influenced by the work ofmy Master, AlwinNikolais... My roots ofhigh rhythmic energy intime and space and motion,as well as discovering theEastern philosophy ofJapan and Zen Buddhism.All cultures have inspiredme, as all include thesacred and profound. Ihave studied the esotericphilosophies of manydomains, so I must say,perhaps I am a synthesis of

A rhythm to carry the feetCarolyn Carlson’s interview

di Valentina Cavalletti

Danzatrice e coreografa Carolyn Carlson definisce se stessa innanzitutto una nomade.Da San Francisco alla University of Utah, dalla compagnia di Alwin Nikolais a New Yorka quella di Anne Béranger in Francia, dall’Opera Ballet di Parigi al Teatrodanza La Fenicedi Venezia, dal Théâtre de la Ville di Parigi a Helsinki, dal Ballet Cullberg a La Cartouche-rie a Parigi, dalla Biennale di Venezia a Roubaix, è stata sempre un’instancabile viaggiatri-ce. Ha calcato i palcoscenici più prestigiosi cercando di sviluppare e condividere il propriouniverso poetico. Per descrivere il proprio lavoro preferisce parlare di “poesia visuale” piuttosto che di co-reografia. Ha creato oltre cento assoli, alcuni dei quali hanno segnato tappe importanti nel-la storia della danza, fra questi ricordiamo: Density 21.5, The Year of the Horse, Blue Lady,

Steppe, Maa, Signes, Writings on Water and Inanna. Nel 2006 le è stato conferito dallaBiennale di Venezia il primo Leone d’oro mai attribuito a una coreografa. Oggi è direttoredel National Choreographic Centre Roubaix Nord-Pas de Calais, e dell’Atelier de Paris-Carolyn Carlson, Master classes centre, che ha fondato nel 1999.

“Dance is a state of Being. A grace ofbecoming in each instant of renewed

energy. A visual poem of fleetingimages in chance potentials”

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my most beloved texts and writings of the valued poemsand illuminations that serve man for seeing an openinginto doors of light and wisdom.

When you are on the stage, you use your body tocommunicate and to bring out the emotions in yourpublic. Your style is made of sudden bursts, pauses insuspension, plastics gestures. How did you developyour style?Style is like living life, where one finds his true nature.Over the years of choreographing and performing, onefinds his inherent voice through practice and search. Itjust doesn’t happen, it grows through time. «Thingshappening spontaneously by themselves».Nowadays dance seems to be an elitist art. Sometimesfor the young people the dream to become a dancer isoffered by TV programs.You said that dance can be transmitted through theteaching and not through books. You are the CCNRoubaix (National Choreographic Center) Directorand you founded two important schools in Paris, the

Atelier de Paris-Carolyn Carlson, and in Venice too.Teaching can give perspective to the dance. What’sthe future of contemporary dance? What is the roleof the television?I do not think dance is an “elitist” art. Mankind hasdanced since the beginning of time, and as music, it isone of the oldest art forms. Our culture has defined thisas something outside of the ordinary beauty ofexpression of the body and spirit. As for the televisionprograms... These are commercial extravagances thathave nothing to do with the true communication ofDance as communicating profound ideas (exceptionwith the Art Channels). ARTE and those of the Italianprograms on Dance.

So the role of TV is to produce high quality art, as to theessence of what makes a dance an art form. There needsto many more cultural stations that can convey thismessage. You can dance in your home, enjoy and go outand share with the others in the disco... this is good,however the true value inherent in the communication ofdance as a cosmic-mystic energy to convey the spiritualis indeed a knowledge of in-depth study andperseverance. Therefore the next answer, yes, teachingis the fundamental foundation to further future artists. Ihave been privileged to have founded the Academy IsolaDanza in Venice, where in four years, all students havenow been performing their own works, as well as greatperformers on their own. The Atelier De Paris has agreat number of dancers who have experiencedmasterclasses from the best of the world, thus theteaching from Mentor to protege continues.As for the future of contemporary dance? Only time willtell of those genius creators coming. I aspire that dancecontinues in the poetry of the body and spirit.All art encompasses the impulse of Life

a brush stroke on canvas

a word to envision a thought

a sound to inspire

a rhythm to carry the feet

A dance to remember.

“I am not the controller... each one ofmy dancers and music composers havea say within the ideas. Yes, I put it alltogether in the end, with a joy that all

have been an integral part of theprocess. This experience that bringsmy work to the definition of Visual

Poetry”

“Style is like living life, where one findshis true nature”

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I media al futuroInnovazione culturale e abilitazione sociale: intervista a Mario Morcellini

di Lia Luchetti

Questo numero di Roma Tre News in cui pubblichiamola sua intervista è dedicato al tema “il futuro che imma-giniamo”, in un ipotetico sguardo di prospettiva al 2084.Come vede il futuro dei media?Affrontando il tema del futuro dei media, bisogna sempreanticipare un caveat generale: è difficile, infatti, immagina-re quali saranno le tecnologie che agiranno, in particolarequali saranno i media che noi definiamo strategici, quellicioè che sono capaci di condizionare il clima culturale. Alnetto di questa osservazione tautologica (perché è chiaroche noi immaginiamo le tecnologie di oggi o le loro evolu-zioni) due dimensioni si possono azzardare meno rischiosa-mente. La prima riguarda l’impatto culturale della comuni-cazione del futuro, e dunque in quale misura la comunica-zione del futuro accorcerà le distanze tra comunicazione ecultura, mentre la seconda enfatizza il rapporto tra tecnolo-gie e persone, o meglio tra tecnologie e generazioni.Sull’ipotesi che il futuro veda abbreviare le distanze tramedia e cultura, mi sento di escludereche la comunicazione del futuro sia cosìpovera di qualità e di innovazione comequella di oggi. Per quanto si possa parla-re positivamente della comunicazione dioggi, e ciò implica chiudere gli occhi sumolte contraddizioni, è difficile non an-notare che due vertenze sono al centrodella scena: la prima è la vertenza quali-

tà, che tradotta in termini non demago-gici parte dalla circostanza che non dirado i soggetti sociali sembrano più fortidei contenuti offerti dalla vetrina deimedia. Si assiste, cioè, ad una asimme-tria della comunicazione rispetto ai si-stemi di attese e all’evoluzione dellamentalità collettiva.

La seconda è la vertenza contenuti. I messaggi mediali sonopoco innovativi, incredibilmente fotocopiati tra i diversimedia, a volte anche nel rimbalzo della rete, e sono comun-que caratterizzati dal fatto di essere scarsamente elaborati.Quindi sia qualità che contenuti (le due cose non sonouguali ma per il momento le possiamo considerare interdi-pendenti) costituiscono una vertenza aperta. È impensabileche i media sopravvivano non alzando la qualità media, equindi non innovando i meccanismi produttivi, le professio-nalità coinvolte e, alla lunga, i contenuti stessi della comu-nicazione. Quindi la mia ipotesi un po’ azzardata è che il fu-turo sarà dei contenuti. Fondo questa idea sulla presa d’attoche la bolla comunicativa di oggi, che vede confusione, ri-petizione, cascami della cultura di massa, sia destinata adesaurirsi, forse travolgendo quegli studiosi che hanno trop-po euforicamente cantato le bellezze della comunicazione. Sul combinato disposto tra soggetti sociali e strategie diselezione nel mercato dell’offerta di consumi culturali è

più difficile fare una profezia che non siaavventata. Una questione, però, si ponedrammaticamente e coincide con un radi-cale spartiacque di generazione. Già oggisi può procedere a una sorta di tracciabi-lità del dividendo digitale per età. Co-mincia a vedersi chiaramente che la ver-tenza non è più sociale, ma un age-divi-

de. È difficile non pensare che questoaspetto si riprodurrà senza adeguate po-litiche di contrasto. Almeno a breve, l’es-sere giovani (o essere adulti in una fami-glia con juniores), sarà l’elemento strate-gico per innovare le diete comunicazio-nali. Penso che i centri propulsori d’inno-vazione, ma anche di acquisizione delletecnologie pregiate o di elettronica di

Mario Morcellini è direttore del Dipartimento di Comunicazione e ricerca socia-le alla Sapienza Università di Roma. Dal 2003 al 2010 è stato preside della Fa-coltà di Scienze della Comunicazione alla Sapienza, dove insegna Processi cul-turali e comunicativi e Analisi dell’informazione e dei pubblici. Dal 2002 è pre-sidente della Conferenza di scienze della comunicazione e dal 2003 portavocenazionale dell’Interconferenza (Coordinamento nazionale dei presidi di Facoltà);attualmente è consigliere del CUN (Consiglio universitario nazionale). È statodirettore di ricerca e consulente, tra l’altro, per il Ministero dell’Università e del-la Ricerca, il CNR, la Rai, l’Ordine dei giornalisti, la Federazione della stampa,la Regione Lazio, la Provincia e il Comune di Roma. Gran parte del suo impe-gno istituzionale è stato dedicato alla nascita e al consolidamento accademicodell’area disciplinare delle Scienze della comunicazione. I suoi temi di studio e

di ricerca si sono incentrati sui percorsi dell’educazione nell’età dei media, entro una prospettiva tesa a indagare l’in-fluenza dei media sulla modernizzazione dell’industria culturale e televisiva italiana e sul giornalismo. Tra le sue prin-cipali pubblicazioni: Il Mediaevo italiano. Industria culturale, tv e tecnologie tra XX e XXI secolo (a cura di, Roma,Carocci, 2005); Contro il declino dell’università. Appunti e idee per una comunità che cambia (con V. Martino, Mila-no, Il Sole24 ore, 2005); La tv fa bene ai bambini (Roma, Meltemi, 1999).

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consumo, siano giovani e adulti con figli in età di forma-zione. Sono quelli più assetati di gestire la comunicazionecome elemento di rimediazione delle differenze di età.

Lei infatti negli ultimi anni ha lavorato moltissimo sulrapporto tra media e giovani generazioni e sul tema del-la soggettività della scelta. A suo avviso come è cambiatae come cambierà la mappa dei consumi culturali o com-portamenti culturali dei giovani?Intanto è altamente probabile che non ci siano le sacche didipendenza monomediale che ancora caratterizzano il mon-do giovanile di oggi. Quasi nessuno lo dice: è vero che sonopiù gli adulti i monomediali, ma ci sono curiose resistenzenel cluster giovanile. È sostenibile l’ipotesi che i giovanisaranno per definizione multipiattaforma, o meglio, con unaparola più rigorosa, multitasking. Dovrebbe attenuarsi quel-l’avvitamento bizzarro in forza di cui oggi gli adulti sono illuogo del generalismo e i minori il luogo dell’innovazioneculturale. È più probabile che ci sarà una compenetrazionedi cluster e una minor differenza linguistica tra i contenutidelle due province di comunicazione. Oggi il generalismo siriconosce facilmente rispetto allo spontaneismo linguisticodella rete. Non è impossibile pensare che la rete si possa –questa è una formula su cui non mi sento di azzardare unaproposta, ma la voglio almeno enunciare – istituzionalizzaredi più, e dunque la rete possa riproporsi come ricompensa

del generalismo in crisi, risarcimento sociale di un vuoto dicontenuti che oggi non si può più intercettare nel grande at-lante dei vecchi media.Come vede i linguaggi espressivi che caratterizzano iconsumi e i comportamenti culturali? Si assiste ad un ri-torno alla testualità?Questo evento si è già realizzato, e devo dire che è statopuntualmente annotato dagli studiosi contro le profezie apo-calittiche dei sociologi e l’eccesso di diagnosi impegnatesull’oralità la rete ha imposto, con incredibile forza, un ri-torno alla centralità della parola scritta. Sempre più soggettiaccedono ai testi, e questo meriterebbe una più attenta valu-tazione storica e culturale. Il fatto che il testo, l’espressionepiù compiuta della “mentalizzazione” della vita, dello stoc-caggio dell’esperienza e della codificazione (anche ai finidella memoria sociale), coinvolga un numero imponente dipersone è davvero una novità rivoluzionaria, che dovrebbeessere colta più adeguatamente dagli studiosi di linguistica.Troppi credono che l’influenza della comunicazione si con-centri sull’oralità, ma è soprattutto sulla scrittura che agiscel’impatto dei media. È impressionante prendere atto diquanto il circuito ristretto della scrittura, fondato su unmeccanismo minoritario, si sia infranto. E i giovani ne sonola testimonianza d’avanguardia.Lei ha ampiamente documentato il ruolo dei media digi-tali (i blog, il giornalismo online etc.) nello sviluppareforme di consumo partecipativo. Le tecnologie potrannoessere usate in chiave formativa?Certamente. È difficile vedere chiaro nell’esperienza com-plessiva del giornalismo sulla rete. Da un lato siamo assolu-tamente convinti che l’esposizione dei soggetti è aumentata,contrariamente a quello che raccontano molti studiosi delgiornalismo. Se si fa l’addizione del mondo dell’editoriagiornalistica, del libro, e dell’informazione online il numero

“Sull’ipotesi che il futuro vedaabbreviare le distanze tra media e

cultura, mi sento di dire che èimpensabile che la comunicazione delfuturo sia così povera di qualità e di

innovazione come quella di oggi”

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di utenti è più imponente chein passato. Che tutto ciò si tra-duca anche in un uso pedago-gico è ovviamente più compli-cato. Dipende molto dalla for-za educativa dei docenti e dal-la sintonia che riescono a sta-bilire con gli allievi. Le espe-rienze di media education so-no affascinanti ma minoritarie.Occorre capire meglio perchénon riusciamo a generalizzar-le, e a farle diventare un patrimonio di massa. Che posto si immagina avranno nel futuro le tradiziona-li agenzie di socializzazione?Dipende molto dal clima culturale del nostro tempo, chenon è certo in buone condizioni di salute, al punto che noiparliamo esplicitamente di “recessione culturale”. Occorre-rà seguire con grande attenzione la dinamica di questa re-cessione, documentando i punti di crisi e le parole chiave aifini di un atlante della cultura moderna. Solo da una autori-flessione di questo genere può prendere le mosse un proget-to di trasformazione, che dia una diversa meta ai bisogni so-ciali, all’insoddisfazione per lo stato di cose esistente e allacoscienza civile.Con una radicale precisazione: una vertenza qualità implicaanche rivendicare un ruolo per la mediazione. Questo è unaltro messaggio che bisogna dare esplicitamente ai giovanie ai moderni: non è cultura se non c’è mediazione. E quindila mediazione la devono praticare gli adulti consapevoli delloro ruolo, i genitori che non fanno finta di essere amici deifigli, ma che tornano a esercitare la genitorialità i professoriche non fanno gli amici degli studenti, ma esercitano la fun-zione magistrale. Vale anche per la politica non politicante.Vale per tutti quelli che sanno che la funzione di guida èstata sempre storicamente al centro dei processi educativi. Che ruolo potrà assolvere la scuola come agenzia educati-va rispetto al rapporto tra giovani e consumi culturali?È fondamentale, anche dal punto di vista della storia recen-te. L’unico punto su cui non mi sento di attaccare i media ènella presa d’atto che la scuola non ha fatto il suo mestiere.La comunicazione potrebbe avere oggi un bilancio sociale eculturale diverso se i media fossero stati “accompagnati” daquel territorio che si chiama formazione. La scuola non c’èstata. Tutte le battaglie che abbiamo fatto sono state minori-tarie e intellettualistiche. Non abbiamo saputo convincere idocenti e di conseguenza nonè raro che essi non sappianocomunicare ai loro allievi.Con due conseguenze: a scuo-la c’è dolore, noia, ripetizio-ne, liturgia; al tempo stessoquesto trend a ignorare i lin-guaggi dei media ha finito perfavorire un’interpretazioneevasiva della comunicazione.E tuttavia non mancano di-mensioni più positive: nei datidi ricerca, nelle sperimenta-zioni sociali più coraggiose,nella presa d’atto che i giova-

ni sono attivisti culturali sianel tempo della scuola chenell’alone degli anni successi-vi. Si afferma, infatti, un’in-fluenza positiva della scuolache in passato non si rintrac-ciava mai e che darà effetti neltempo. I giovani di oggi saran-no gli adulti di domani.Come si potrebbe educarealla comunicazione e alcambiamento?

La risposta provocatoria è che occorrerebbe cambiare la te-sta dei docenti. Ma per contraddirmi ricorro ad una famosacitazione che dice che gli uomini li puoi uccidere, non cam-biare. Con la forza di questa constatazione bisogna convin-cere i docenti che se loro non cambiano la scuola è finita.La vertenza è lì. Ovviamente riguarda anche la politica ita-liana, e non certo solo quella di questa stagione.

Ci potrà essere un futuro di conciliazione tra cultura ecomunicazione?Direi di sì. Mi sembra impossibile che incassiamo un’al-tra sconfitta anche nel futuro, dopo averne registrata unasul passato. Sono più convinto che in passato che il cen-tro di attenzione dei media non sia quello dell’ignoranzae del populismo. Alla lunga l’ignoranza uccide anche lacomunicazione, perché non c’è innovazione né curiosità,l’ignoranza è beata di sé, è soddisfatta e non ha bisognodi stimoli. La comunicazione di grado zero è per defini-zione più virale, non è conservatrice. Se non innova nonè comunicazione, ma una semplice tautologia della vita.

Si può capire meglio questoaspetto ricorrendo a un esem-pio: dalla poesia noi abbiamosorpresa, eccitazione, ricono-scimento. Dalla banalità delreality noi abbiamo solo ras-sicurazione senza alcuna in-novazione. Essendo sempredestinata ad essere un passoavanti rispetto alla vita, la co-municazione dovrà capire cheil suo baricentro è l’accultura-zione. Non la pedagogia so-ciale, ma una lettura più atten-ta dei bisogni di superamento

“La rete ha imposto, con incredibileforza, un ritorno alla centralità della

parola scritta. Il fatto che il testo,l’espressione più compiuta della

“mentalizzazione” della vita, dellostoccaggio dell’esperienza e dellacodificazione (anche ai fini della

memoria sociale), coinvolga un numeroimponente di persone è davvero una

novità rivoluzionaria”

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44 dell’individualismo che sono insiti nell’atto comunicati-vo. Fino ad oggi non possiamo escludere che comunica-zione e individualismo non siano stati profondamente al-leati; domani non potrà più essere così perché l’indivi-dualismo è già ambientato nella stilistica del rapportocon la rete. Non può essere anche il contenuto dei media.Un indizio potente di questo bisogno di trasformazione èrintracciabile proprio sulla rete, dove le forme di socialitàsono quelle che più tematizzano le nuove accelerazioni:si va verso forme di gestione della rete internet che enfa-tizzano di più l’aspetto dell’inter, non quello della solitu-dine del soggetto davanti agli schermi. La piramide dei consumi culturali, che per anni èstata metafora delle disuguaglianze comunicative.Secondo lei è ancora attuale e applicabile come figurageometrica?Sicuramente è molto cambiata perché la piramide che èstata così caratteristica del passato recente si presentaoggi come un tronco di piramide. È vero che c’è ancoraun cluster di consumatori in difficoltà a stare nellamodernità, di cui nessuno si occupa, ma non è cosìfacile raffigurarla con una metafora espressiva comequella della piramide.Certamente non è finita la concezione piramidale dellacultura, e questa è una prova che cultura e media non sisono davvero sinergizzati. Questa è la vera vertenza.Abbiamo creduto troppo facilmente che estendere lacomunicazione significava favorire la cultura. Oggi sonodisponibili prove che sembrano sostenere (anche) il con-trario: alcune forme di ignoranza diffuse nella societàsono profondamente innervate e supportate da una dor-sale espressiva di arroganza che si fonda su costrutti sem-plificati appresi dai media. Ci sono isole della comunica-zione – e i vertici sono alcuni talk show, i reality omeglio il surreality – che non solo non allargano minima-mente il sapere, ma danno al soggetto l’arroganza di poteressere indifferente a qualunque sforzo di acculturazione.Se questa ipotesi è plausibile si tratta di una novità sto-rica. Un esempio che entrerà nei manuali di comunica-zione è dato dal racconto dell’omicidio di Sara Scazzi, edal tessuto sotto-culturale che esso ha messo in luce. Inpassato la deprivazione culturale si ritraeva dalla scena,adesso la cerca. Usa spietatamente persino il dolore peravere cinque minuti di notorietà.Lei ha coniato delle locuzioni fondamentali comeMediaevo e Risorgi-mento dei consumi.Quale potrebbe esseresecondo lei la parola ade-guata per raccontare ilcambiamento e tematiz-zare il futuro dei media?Cerco di arrivarci perapprossimazione. Sedovessi fare una scelta chetradisce il mio spiritopositivo, forse il terminepiù pertinente è quello di“abilitazione sociale”. Misembra che la più aspracritica ai media è che ci

sono sembrati abilitatori sociali ma in realtà sono stati deiregistratori. È difficile sostenere che la comunicazioneabbia spostato le persone verso l’area della competenza epersino che abbia favorito i processi che più facilmente siassociano alla competenza: partecipazione, conoscenzadel mondo, redistribuzione e innovazione dei saperi.

Per anni sono stato uno di quelli che più convintamenteha lavorato sul concetto di comunicazione come socia-lizzazione dei moderni, ma si è trattato essenzialmentedi una socializzazione figurativa. Su questo devo dichia-rare una brusca autocritica. È vero che per i giovanisembra manifestarsi anche un incremento delle capacitàcritiche, altrimenti non ci spiegheremmo come mai essisono comparativamente più interessanti proprio là dovegli adulti sono più deboli. Ma se osserviamo l’interasocietà, non si è rivelata fondata la speranza che lacomunicazione allarga l’esperienza sociale e la capacitàdi lettura del mondo e del nostro tempo. È da revocare ildubbio, perché la lettura troppo euforica del mondo deimedia si è rivelata unilaterale. La seconda parola è innovazione. Si tratta, è vero, di untermine a rischio di retorica, come molte delle paroleinvestite da una fortissima moda. Proviamo a intenderecon innovazione un cambiamento del comportamentoculturale del soggetto che lo porta ad essere più capacedi gestire il proprio destino. Così diventa una variante dicapitale sociale e culturale, un altro modo di alluderealla competenza, all’azione e non solo alla riproduzionedi parole in cui si può pericolosamente vedere una dellefonti di fortuna della comunicazione oggi dominante.Gli studi oggi disponibili sulla comunicazione ci diconoche essa è stata incredibilmente capace di mettere inmostra prove dei cosiddetti “effetti profondi” dei media.Trovo che qui ci sia una bella vertenza per i comunica-tori: dove la comunicazione interferisce e modifica –userò un verbo forte – la coscienza, mettendo in discus-sione il nodo dove si elaborano valori che orientano l’a-zione individuale. Insisto che ormai gli studi ci possono

consentire uno scatto dianalisi sul potere deimedia e su questa fun-zione si può ritrovare ilconcetto di innovazione:come la comunicazionedel passato ha inciso sullepersone ma non le haarricchite e rafforzate. Inpresenza di una svolta deicontenuti e di un allarga-mento sociale delleopportunità, si possonodare le condizioni di unastraordinaria innovazioneculturale.

“A me sembra che la più grande criticache dobbiamo fare ai media è che ci

sono sembrati abilitatori sociali ma inrealtà sono stati dei registratori sociali”

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Futuro e fantascienza:un binomio ancora in voga?Carlo Freccero e i telefilm di fantascienza americani degli anni Settanta

di Valentina Cavalletti

Come si caratterizzavano i telefilm di fantascienzaamericani degli anni Settanta? La fantascienza è da sempre un genere letterario e filmi-co, che ha per scopo la descrizione del reale. Relegare inmondi lontani nello spazio e nel tempo vicende che ci ri-guardano da vicino è un modo per eludere la censura eper tradurre in termini narrativi critiche che, espresse informa razionale e saggistica, risulterebbero ostiche algrande pubblico. Da sempre la fantascienza è una speciedi utopia positiva o negativa che mette in scena e celebrail mondo a cui aspiriamo e in cui vorremmo vivere o, alcontrario critica il presente fornendocene una visione piùcupa e straniante. Non solo. Ogni periodo storico ha unproprio immaginario, frutto della realtà sociale e politicae dello spirito del tempo. Così, come tutti sanno, negli an-ni Cinquanta, dominati dalla guerra fredda tra Stati Unitie Unione Sovietica, lo straniero, l’alieno, è presentato co-me un nemico. Si vedano ad esempio classici della fanta-scienza come La guerra dei mondi e L’invasione degli ul-

tracorpi. In epoche di distensione internazionale e pacifi-smo percepito come valore universale, l’alieno diventaamico e fratello come nei film di Spielberg degli anni Ot-tanta, da E.T. a Incontri ravvicinati del III tipo. Mentrecon il ritorno della guerra in seguito al terrorismo, anche

Spielberg si cimenta con il remake de La guerra dei mon-

di in cui gli alieni ritornano cattivi, mostruosi, ostili.La fantascienza degli anni Settanta si pone nel solco tral’uscita dalla guerra fredda, la rivoluzione del Sessantottoe l’attesa quasi messianica dell’alieno spielberghiano,portatore di verità e di luce. Il telefilm icona di quegli an-ni è sicuramente Star Trek, prima grande produzione difantascienza televisiva e ancora oggi oggetto di culto pergenerazioni successive di fan. Star Trek nasce alla vigiliadel Sessantotto in un’America in cui l’integrazione raz-ziale era al centro del dibattito politico e delle manifesta-zioni degli attivisti. Un’astronave si muove nello spazioalla ricerca di nuove civiltà, con l’obiettivo di conoscerle,non di dominarle.Del resto il suo equipaggio è un campionario di culturediverse, non solo terrestri, ma anche di diversi pianeti. InStar Trek si registra anche il primo bacio cinematografi-co interraziale. Un manifesto dei fenomeni degli anniSettanta. Ha dichiarato in proposito Gene Rochenberry,ideatore della serie: «mi accorsi che creando un mondo aparte, un nuovo mondo con nuove regole, si poteva trat-tare con più facilità di sesso, religione, Vietnam, allean-ze, politica, missili intercontinentali: è quello che facem-mo in Star Trek».

Carlo Freccero, attuale direttore di Rai 4, insegna Linguaggi della televisionegeneralista e Teoria e tecniche del linguaggio radiotelevisivo all’interno del Cor-so di Laurea in DAMS presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Universitàdegli Studi Roma Tre e presso il Corso di Laurea in Scienze della Comunicazio-ne dell’Università degli studi di Genova.Esperto di comunicazione e autore televisivo, ha svolto ruoli di primo piano siaper la televisione italiana che francese. Negli anni Ottanta, è stato direttore deipalinsesti di Canale 5 e di Italia 1 e ha lavorato per Rete 4 come curatore dellaprogrammazione del canale. Nel 1993 è responsabile della programmazione diFrance 2 e France 3. Lavora per la Rai dalla fine degli anni Novanta: dal 1996 al2002 è stato direttore di Rai 2, dal 2007 al 2010 è stato Presidente di Rai Sat.

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Quei telefilm hanno in qualche modo permeato l’im-maginario collettivo della mia generazione. Il loro ca-rattere fantascientifico prefigurava un futuro fatto dimondi sconosciuti e di supereroi in grado di salvarel’umanità dal male. Tornando al presente, qual è la dif-ferenza tra i telefilm di oggi e quelli di allora? Penso adesempio a Lost, a Flashforward o a Fringe. La fanta-scienza può tornare ad essere protagonista dei telefilmdel futuro? Anche Fringe o Flashforward sono telefilm di fantascien-za ma sono costruiti su un immaginario completamentedifferente, un immaginario che non ha più al centro il so-ciale e il politico, ma i grandi temi del presente: la tecno-logia, la scienza e, al contrario, la religione, il mistero. Ri-flettendo su questi titoli possiamo dire che per la primavolta la fantascienza esce dall’utopia, dal non-luogo politi-co, per incamminarsi verso una nuova forma di non-luogo:la realtà parallela. Penso che questi telefilm siano diretti aun pubblico di giovani utenti di internet, appassionati dinuove tecnologie ma, allo steso tempo, affascinati da sitidi incerta credibilità. Su internet vero e falso si confondo-no facilmente così come si confonde nella società ameri-cana il confine tra scienza e fede. Pensiamo ad esempio aigruppi di pressione religiosa che pretendevano che nelleore di biologia, venissero presentati ai ragazzi sullo stessopiano, la teoria dell’evoluzione di Darwin e il creazioni-smo della Bibbia. Lost e Fringe sono divagazioni sul rap-porto spazio tempo coniugate con mitologia, misticismo evia discorrendo.In questo senso possiamo dire che la fantascienza è ormaiun supergenere in grado di mettere in scena qualsiasi sog-getto, dal politico, al sociale, allo scientifico, alla pura fan-tasy, senza doversi tutelare dalla censura o dover rispettare

le regole della razionalità, della scienza, della credibilità.Un universo di puro immaginario che le nuove tecnologie,i nuovi effetti speciali, rendono finalmente realizzabile an-che sul piano puramente visivo.

Nella sua programmazione televisiva sono semprepresenti i telefilm americani. America fa rima con fu-turo? Perché gli americani producono telefilm diqualità? Cosa abbiamo da imparare?Gli americani hanno costruito con Hollywood prima econ la televisione poi, l’immaginario universale contem-poraneo. Nuovi centri di produzione stanno nascendo, aBollywood come in Cina, ma, almeno sino ad oggi, l’A-merica ha rappresentato il centro simbolico in cui con-fluivano e si rigeneravano in una grande koinè, anche leculture periferiche degli altri paesi, dal kung fu, alla ma-fia, al ballo latino-americano.La matrice della fiction italiana è costituita nei suoi mo-delli alti dal neorealismo, nei sui modelli bassi, dallaversione edulcorata e manierata del realismo coniugatocol melodramma. Con una gamma di eroi che vanno dal

I personaggi di Goldrake

“Gli americani hanno costruito conHollywood prima e con la televisione

poi, l’immaginario universalecontemporaneo. Almeno sino ad oggi,l’America ha rappresentato il centrosimbolico in cui confluivano anche le

culture periferiche degli altri paesi, dalkung fu al ballo latino-americano”

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santo al carabiniere, dal mafioso da sceneggiata napole-tana, al padre di famiglia. È una fiction che anziché al-l’immaginario e al mondo globale, si rivolge al quoti-diano e al locale. In quanto alla qualità dei telefilm americani, penso chesi possa riassumere in due momenti: grandi disponibilitàdi mezzi economici, coniugata ad una precisione assolu-ta nella costruzione della trama e dell’intreccio. Primaancora del contenuto è il ritmo impresso agli eventi aconferire successo al prodotto.Negli anni Settanta e Ottanta, lo stesso target ideolo-gico dei telefilm lo si assegnava ai cartoni, dove i ro-bot (da Mazinga Z a Goldrake, da Jeeg Robot a Bal-

dios) avevano il potere di utilizzare la loro forza stel-lare per portare il bene sulla Terra e distruggere ognigenere di malvagità. In che modo gli anime e i tele-film di oggi costruiscono l’immaginario e l’identitàdei nostri figli? Quali sono i nuovi modelli culturaliche imperano e quale messaggio vogliono trasferire? Il Giappone ha dimostrato nel tempo la capacità di lavo-rare a una robotica che esalta le forme antropomorfe: ilrobot diventa un essere umano. Nella figura del robot sifonda quindi l’aspetto tecnologico e umano dell’imma-ginario Mecha giapponese: l’ibrido tra carne e meccani-ca. E l’ossessione del Giappone per la mutazione deicorpi in chiave meccanica non si limita alla dimensionedegli anime, basti pensare a un film paradigmatico comeTetsuo di Tsukamoto, che tratta in modo estensivo l’im-maginario derivante dalla mutazione della carne in mec-canica/ingranaggio.Nel genere Mecha possiamo distinguere diverse evolu-zioni che si configurano come metafora della vita deigiovani adolescenti, adolescenti che devono affrontareuna società dura, severa, selettiva. Queste figure cine-matografiche, televisive, letterarie rappresentano nel-l’immaginario una vendetta, una sorta di uscita di sicu-rezza dalla suddetta società.

Negli ultimi dieci anni la programmazione televisivaè stata centrata sui reality che sembrano essere moltolontani dalle tematiche fantascientifiche. Quale saràil tema centrale della TV del futuro? Mai fare previsioni sul futuro della televisione. Sarebbe-ro tutte smentite. In televisione ci sono lunghi periodi dipermanenza di un genere e brusche fratture che proietta-no all’improvviso il presente nel passato. Succede giàoggi: il reality mostra la corda e cresce la domanda diinformazione ed impegno. Vieni via con me ha bruciatoil Grande fratello.

Nell’ultimo Telefilm festival 2010, che si è svolto aMilano la scorsa primavera, si è parlato delle ragioniche hanno determinato una flessione degli ascolti del-le serie in generale e di alcuni titoli di punta, che nel-le stagioni precedenti avevano segnato invece recordstorici. Alla luce di quanto emerso nel dibattito, incui si è parlato di frammentazione degli ascolti e del-la moltiplicazione delle piattaforme, i telefilm posso-no fare ancora audience? A quale pubblico parlano?L’interazione tra web e televisione decreterà la mortedel piccolo schermo? Come la TV può «somatizzare»le novità che giungono dal web, per usare una suaespressione? Siamo sempre alle previsioni. Qui però più sul pianodella tecnologia che dei contenuti e forse, in questo ca-so, si possono fare ipotesi.I telefilm si rivolgono ad un pubblico “alto” in sensocontemporaneo, a un pubblico cioè che più che ad unacultura umanistica, fa riferimento a competenze tecnichee a interessi narratologici. Un pubblico che, a differenzadella mia generazione, ha imparato a maneggiare audio-visivi, a cimentarsi con videogiochi, prima di imparare aleggere e scrivere.

È un pubblico che non conosce il digital divide, ma, allostesso tempo e inconsciamente, ha imparato a padroneg-giare una storia, un intreccio, perché sin da piccolo hagiocato innumerevoli partite sulla propria console comeprotagonista di storie fantastiche. È lo stesso pubblicoche scarica le serie da internet perché non può aspettarela messa in onda del prossimo episodio del serial prefe-rito. Indipendentemente dalle piattaforme di fruizione(internet, DVD, Blu Ray, televisione, telefono, play sta-tion) questo pubblico continuerà a chiedere storie persaziare la propria fame di immaginario. Il telefilm hacomunque un futuro.

“Mai fare previsioni sul futuro dellatelevisione. Sarebbero tutte smentite.In televisione ci sono lunghi periodi di

permanenza di un genere e bruschefratture che proiettano all’improvviso

il presente nel passato”

“La matrice della fiction italiana ècostituita nei suoi modelli alti dal

neorealismo, in quelli bassi, dalla versioneedulcorata e manierata del realismoconiugato col melodramma. Con unagamma di eroi che vanno dal santo al

carabiniere, dal mafioso da sceneggiatanapoletana, al padre di famiglia”

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Ci racconta come è nato il Romaeuropa Festival e qual èstata la sua idea fondante?Il Romaeuropa Festival nasce come tante altre cose: per ca-so. Già venticinque anni fa ero assolutamente europea, madel nord Europa! Quando l’allora direttore di Villa Medici,Jean-Marie Drot mi chiese di lavorare con lui a Villa Medi-ci, devo ammettere che inizialmente ebbi qualche esitazione:non conoscevo il sud e per me l’Italia era perlopiù collegataal mondo mediterraneo e distante dalla piattaforma culturalerappresentata da Parigi, Londra, Vienna, Amsterdam, dovetutto circolava e si scambiava velocemente. Roma mi sem-brava molto lontana da tutto ciò. Ricordo bene che la miaprima impressione, fu di una città buia con un pesante caricoarcheologico. In questo senso all’inizio ebbi dei dubbi nel-l’accettare l’incarico. Dopo di che, come sempre accade, gliincontri giocano un ruolo fondamentale nel caratterizzare iluoghi. Infatti ebbi la fortuna, fra gli altri, di incontrare Re-nato Nicolini, Roberto D’Agostino e Fabrizio Grifasi: giova-ni che mi fecero scoprire un’altra città, più sotterranea ma-gari e con una grande domanda di modernità. Mi fu subitochiaro che l’unico spazio possibile a Roma era quello deltempo contemporaneo, lavorando sia con alcuni personaggidel teatro come Giorgio Barberio Corsetti e Mario Martone,ma anche con tutto il teatro che si faceva nelle cantine, inte-grandolo ovviamente con il mio background nordeuropeo.L’idea era di fare un innesto: non a caso uno dei primi temiche ho affrontato è stato proprio Barocco e modernità. Per-ché? Perché nel 1984/85 il periodo delle grandi avanguardieera quasi arrivato alla fine e si capiva bene che c’erano mol-te cose che potevano convivere insieme e in questo sensoper me quella era sicuramente un’epoca barocca. Si poteva-no mischiare i generi, ritrovare il classico, andare su certeforme musicali contemporanee, affini per strumenti proprioall’epoca barocca. Insomma, quello che all’inizio mi sem-brava un grande difetto divenne per me interessante svilup-parlo in qualcosa di positivo: il che è sempre fondamentalese si vuole riuscire a convivere bene con qualcosa che sem-bra molto distante.

L’impatto di questa modernità con una villa storica, comeVilla Medici appunto, e in più in un contesto come Roma- una città con duemilacinquecento anni di storia! - era unacombinazione forte, se vogliamo anche ambiziosa… mal’interazione ha funzionato. L’altro aspetto che mi sembròfondamentale integrare era la portata culturale e internazio-nale che in qualche modo le ambasciate garantivano su Ro-ma insieme agli Istituti di Cultura, il tutto raddoppiato graziea quelli della Santa Sede. Non solo. C’erano e ci sono le Ac-cademie legate al Grand Tour e tanto altro ancora. Quindicon questo tipo di piattaforma ci siamo detti: perché faredelle cose nazionaliste? Siamo a Roma e siamo in Europa!Cominciai così a sentirmi parte di quel tutto, perché perso-nalmente ho sempre fatto fatica a dire questo è francese,questo è tedesco, questo è inglese etc. Mi è sempre suonatomolto stonato, rispetto alle mie corde: nel mondo artistico unbravo musicista lavora sia con un’orchestra che con un’al-tra… un po’ come un professionista del calcio. Quindi ancheil semplice fatto di ritrovarmi in gruppi in cui si parlava te-desco, italiano, francese, inglese, mischiando un po’ tutto,mi diede l’impulso a intraprendere un cammino.Per circa venti anni lei è stata il Direttore artistico delfestival più innovativo, sperimentale e internazionale.Qual era/è il suo criterio nello scegliere un progetto ar-tistico piuttosto che un altro? L’artista che nella suacarriera l’ha colpita di più e quello, se c’è, su cui si èricreduta?Il criterio è stato sempre la modernità, la contemporaneità,l’innovazione. Qualsiasi sia la forma espressiva è fondamen-tale che l’artista abbia qualcosa da dire, non importa il cam-po. Può essere anche molto astratto. Per questa ragione all’e-poca mi interessai di danza contemporanea, perché era unmodo di approcciare il palcoscenico che rimetteva in discus-sione tutti i parametri tradizionali. La danza contemporaneava a cercare l’architettura, la letteratura, la musica, il lavorocon la luce e può entrare nel mondo astratto senza problemi:un po’ come l’arte contemporanea, se vogliamo. Sì, lo spet-tacolo dal vivo più vicino all’arte contemporanea è sicura-

Monique Veaute dopo gli studi in Scienze umane all’Università di Strasburgo, inizia la sua car-riera come giornalista a Radio France nel 1977 e dal 1984 diventa responsabile degli eventi in-ternazionali a France Musique. Fonda e dirige nel 1982 la sezione Musica della Biennale di Pa-rigi e organizza nel 1984 l’apertura della Grande Halle de la Villette. Nel 1984 crea a Roma ilFestival di Villa Medici, che nel 1986 diventa Fondazione Romaeuropa-arte e cultura, di cui èstata direttore artistico sin dalla prima edizione e direttore generale fino al 2007. Mantiene oggila carica di vicepresidente. È stata consigliere culturale all’Ambasciata di Francia a Lisbona,consigliere scientifico dell’Istituto nazionale di dramma antico. Dal 2005 al 2008 è stata mem-bro del consiglio di amministrazione dell’Accademia di Francia a Roma e dal 2008 è membrodel consiglio di amministrazione del Théâtre national de Chaillot. Da agosto 2007 al 2009 è sta-ta amministratore delegato di Palazzo Grassi a Venezia.Monique Veaute è stata insignita in Francia del titolo di Chevalier des arts et lettres dal Ministro

della cultura e ha ricevuto l’Ordre National du Mérite dal Ministro degli affari europei; nel 2006 in Italia è stata insigni-ta del titolo di Cavaliere al Merito della Repubblica Italiana.

«Per fortuna è una notte di luna»Intervista a Monique Veaute

di Alessandra Ciarletti

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mente la danza: si gioca con i corpi e non a caso grandi arti-sti della body art hanno avuto un grande rapporto con la dan-za. Ho sempre cercato registi che avessero avuto a che farecon la danza. Basti pensare a Robert (Bob) Wilson, PinaBausch. Per quanto riguarda il tema dell’innovazione biso-gna dire che si è molto evoluto nel tempo: all’inizio proba-bilmente la questione che mi ponevo era sostanzialmente ilrapporto fra patrimonio e modernità, dopo di che la mia at-tenzione si concentrava nel trovare il modo di superare lefrontiere. Fu una necessità anche storica dal momento che lacaduta del Muro avvenne proprio nel mezzo del nostro viag-gio. Oltre all’innovazione mi stimolava molto approfondireil rapporto col mediterraneo: pur partendo da una posizioneprivilegiata – siamo una grande civiltà occidentale – dall’al-tra parte del Mediterraneo si apriva un orizzonte est moltoricco e variegato. Il confronto con questi vari est mi permisedi entrare in relazione con culture e modalità espressivecompletamente diverse dalle nostre, con le quali valeva lapena dialogare, quantomeno farle conoscere al grande pub-blico. Certo, all’inizio per me fu complicato capire come farentrare il mondo iraniano piuttosto che indiano, cinese egiapponese in un contesto in cui all’epoca gli incroci eranomolto meno evidenti. Per questo mi interrogavo sul patrimo-nio, sul tipo di civiltà che c’era dietro; volevo conoscere ledinamiche sociali e culturali che li caratterizzavano, ero cu-riosa di capire il loro concetto di modernità e come si decli-nava nella loro società. Volevo capirlo e integrarlo con le al-tre culture, correnti artistiche, espressioni concettuali. Ovvia-mente oggi tutto circola rapidamente e senza troppe difficol-tà. Inoltre c’è da dire che essendo una fondazione era impor-tante crearci uno spazio nostro all’interno di questa città, benconsapevoli che se le cose avessero funzionato, saremmostati un traino anche per altre istituzioni. Quindi era necessa-rio mantenersi sempre alla ricerca. Oggi per noi la ricerca èmolto concentrata sul mondo delle tecnologie, senza trala-sciare ovviamente lo spettacolo fatto dagli esseri umani. Hosempre tenuto a proporre progetti artistici in cui i singoli ar-tisti avessero un modo di comunicare cose interessanti conmodalità nuove. Un artista che mi ha colpita da subito è si-curamente Peter Sellars… un progetto, invece, che all’inizionon mi convinceva e che poi si è rivelato strepitoso è statoLe zingaro.Roma è una piattaforma culturale piuttosto difficile:ogni scelta stilistica, avanguardia artistica, o semplicemoda del momento non può non tener conto della tradi-zione in cui si inscrive. Il rapporto con questo passatopuò essere anche molto castrante. Eppure lei ha dimo-strato sul campo una grande intuizione artistica unita aun’ottima dose di diploma-zia. E scommetterei che hasaputo condire il tutto conbuona ironia. Come si è rela-zionata con le diverse istitu-zioni. Ha avuto momenti didifficoltà?Sempre, fin dall’inizio. Consi-glio a qualsiasi persona cheabbia un’idea, di non mollaremai e resistere sempre. Equando dico mai mollare in-tendo mai mollare il progetto,

non adattarsi, non fare delle cose per cercare di piacere alpolitico o al pubblico. Se uno è convinto di quello che fa de-ve trovare i mezzi e i modi per convincere il politico e ilpubblico. Partendo da questo principio ci siamo dati tantissi-mi strumenti di comunicazione, incontrando sempre gli arti-sti. Alcuni dapprincipio non volevano venire a Roma. Unesempio? Peter Sellars. Diceva «mi uccideranno, non mivorranno, non ha senso, parlo solo inglese, non mi sembrache l’Italia sia aperta a questo tipo di innovazione».

Gli dissi: «ti sbagli completamente»… Venne e da allora tor-na in Italia quasi ogni anno. Un altro punto di forza è statoquello di lavorare in collaborazione con altre istituzioni, sen-sibili al nostro lavoro: Guido Fabiani è fra coloro che hannocreduto in questo progetto, lo ha accompagnato e ha contri-buito a realizzarlo attraverso il Palladium, per esempio. Gra-zie a persone come lui non si è soli nella lotta. Anche perchécome si può immaginare ci sono gelosie, la corsa ai fondi, sesi finanzia uno non si finanzia l’altro, il successo, e il succes-so crea una forma di invidia. Per salvarci abbiamo avuto bi-sogno di partner. A volte avevamo partner anche più forti dinoi, basti pensare a Musica per Roma. Ma il nostro impattosulla stampa ha avuto spesso più carattere… questo ha crea-to qualche distanza. Al contrario, quando hai un partner co-me l’Accademia di Santa Cecilia, non ci sono problemi… lesinergie funzionano quando c’è intelligenza. L’altro proble-ma è la politica: in Italia la politica vuole intervenire tropposulla cultura e questo non funziona. Un’istituzione culturaleè una azienda: molta gente non si rende conto che durante unfestival ci sono centinaia di persone che lavorano per realiz-zarlo: non solo gli artisti. Ci sono i tecnici delle luci, gli sce-nografi, i macchinisti, gli elettricisti e tanti altri ancora. Undirettore bravo deve essere lasciato al suo posto: non lo sipuò cambiare ogni volta che cambia il quadro politico. In-nanzitutto perché questo mestiere richiede una grande dispo-

nibilità di tempo: per guardarei video, gli spettacoli, le mo-stre, spostarci, conoscere lenuove forme ed espressioni ar-tistiche, studiare il bilancio, in-contrare gli artisti. Tutto que-sto non si può inventare da ungiorno all’altro perché si vuolfare qualcosa di visibile. Recentemente è stata Ammi-nistratore delegato di Palaz-zo Grassi, impegnata anchenella creazione dello spazioMonique Veaute e Trisha Brown

“Il tema dell’innovazione si è moltoevoluto nel tempo: all’inizio

probabilmente la questione che miponevo era sostanzialmente il rapportofra patrimonio e modernità, poi la mia

attenzione si è concentrata nel trovare ilmodo di superare le frontiere. Fu una

necessità anche storica dal momento chela caduta del Muro avvenne proprio nel

mezzo del nostro viaggio”

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5050 di Punta della Dogana. Roma eVenezia, due grandi città, artisti-camente a pari merito e con storiealtrettanto importanti e opposte.Una pragmatica, imporporata, an-corata alla tradizione, una pro-spettiva che dà su una cupola; l’al-tra in movimento, fluttuante, scal-tra, mercante, indipendente, la suaprospettiva è il mare. In base allasua recente esperienza, è un qua-dro che conferma? Dove si è piùpronti al cambiamento che l’arteanticipa?Volendo comparare le due città biso-gna dire, per cominciare, che sonorealtà differenti a partire dalle di-mensioni: una grande città e una pic-cola città. Dopo di che c’è una cittàmolto politicizzata che è Roma e unacittà molto elitaria che è Venezia.Quindi da una parte c’è la possibilitàdi investire in grandi eventi, dall’al-tra c’è il fatto che tutte le grandi fa-miglie internazionali passano da Venezia, hanno casa a Ve-nezia, realizzano eventi e aiutano Venezia. Solo per citarneuno: François Pinault che ha comprato Palazzo Grassi, ha re-staurato Punta della Dogana, completamente a sue spese efra trenta anni lo restituirà allo Stato. È un investimento chefa per un certo periodo della sua vita, ma lo fa da grande me-cenate. Il mecenatismo nel suo significato tradizionale esistea Venezia, credo un po’ meno a Roma, perché qui è lo Statoche fa molte cose. Venezia è più aperta alla contemporaneità,sembrerà strano, ma per Venezia questa è la sua storia. I pri-mi musei sono nati a Venezia, i primi mecenati che non fos-sero principi o uomini di Chiesa, sono arrivati a Venezia. Imercanti d’arte che fecero nascere il collezionismo li trovia-mo a Venezia, la città dei grandi scambi mercantili. Tuttoquesto ha portato quasi naturalmente alla Biennale: oggi cisono biennali, quadriennali dappertutto, ma la Biennale na-sce a Venezia più di cento anni fa. Si capisce quindi che que-sta città ha qualcosa da dire, da dare. Qualche volta resisteun po’, ma c’è. Roma è più complicata. Fare una manifesta-zione a Venezia è anche più semplice, immediatamente sicoinvolge tutta la città. E chi va lì in due giorni gira tutto ilcentro storico, oltre a partecipare all’evento di richiamo. Ro-ma è molto più dispersiva, difficilmente si riesce a coinvol-gere l’intera città: si va a quartiere. Eppure io a Venezia hosentito le stesse resistenze che ho sentito a Roma. Ma a Ro-ma tutto si disperde con più facilità. Pensiamo al teatro diavanguardia, per il quale l’Italia è al primo posto: nessuno almondo fa le cose che fa la Socìetas Raffaello Sanzio. Ciònonostante Roma non si scuote mai più di tanto; è una cittàche ha tanta storia, ha vissuto e vive molto. Per dirla fuor dimetafora, Roma reagisce al nuovo come se lo avesse già vi-sto. La sua storia mantiene per così dire una sovranità sulpresente. E questo ovviamente per alcuni aspetti è utile. Alcontrario, a Venezia qualsiasi cosa si sa subito e in un attimodiventa l’unico punto all’ordine del giorno, di discussionelocale e internazionale. Una piccola cosa che succede a Ve-nezia, la si sa un attimo dopo a Parigi, Londra o New York,

perché le famiglie sono in contatto.Roma è decisamente più dispersiva,e dunque più difficile da contestare.Quale delle due città è più apertaal cambiamento?Per tradizione Venezia. Venezia è laBiennale e tutti i tentativi che sonostati fatti per duplicarla altrove nonhanno avuto la stessa capacità attrat-tiva e trainante. Con questo non vo-glio dire che il Festival del Cinemadi Roma non sia importante, masemplicemente che quello di Vene-zia ha un altro respiro, un’altra sto-ria: la gente è abituata ad andare lì ea vedere le cose lì. Anche nell’arte:Punta della Dogana ha avuto ungrande impatto a livello internazio-nale… tutto il mondo dei collezioni-sti era lì, sul mare! E c’erano i gio-vani. Ho visto arrivare delegazionida tutti i musei del mondo, in conti-nuazione, settimana dopo settimana.E quando si pensa che è soltanto un

decimo del MAXXI, che pure è un museo bellissimo, ci sichiede il perché. Il perché sta nella storia di Venezia e nellasua capacità indiscutibile di tagliare l’onda. Tuttavia ilMAXXI funzionerà, è bellissimo, ci vorrà solo un po’ ditempo, ma funzionerà. Punta della Dogana è stato aperto eimmediatamente ha decollato. La forza di Venezia è anche lamemoria collettiva: ciascuno di noi sa che se va alla Bienna-le del cinema o dell’arte vedrà delle cose incredibili, nuove ele vedrà lì. Questo è un dato di fatto.

L’Italia ha prodotto numerose eccellenze artistiche. Checlima si respira oggi?Be’ abbiamo personaggi enormi a livello internazionale co-me Ronconi, i Raffaello Sanzio, ma anche Emma Dante. Al-l’Italia non mancano le eccellenze artistiche… all’Italia dioggi manca in campo artistico il riconoscimento da parte deipolitici e dei media. Ma non solo. Ho spesso l’impressioneche siano proprio gli italiani a non credere di essere all’altez-za del loro passato; e qualche volta anche gli artisti italianipensano che sia meglio lavorare fuori.L’espressione artistica cambia strumento e modo di rap-presentarsi col mutare del tempo, ma resta sempre fedeleal suo “credo”. L’arte contemporanea suscita spesso deiperché, scardina certezze… volendo fare una proiezioneun po’ pretenziosa ma comunque possibile, che arte si fa-rà fra cento anni? Partiamo da un presupposto fondamentale: l’arte non dà ri-sposte. L’arte è uno specchio della realtà: non è un caso cheoggi ci siano così tanti morti sulle tele, nelle sculture, osser-

Storia dell’Africa contemporanea, Socìetas Raffael-lo Sanzio, Villa Medici, ottobre 2010

“Roma non si scuote mai più di tanto. Èuna città che ha tanta storia, ha vissuto e

vive molto. Per dirla fuor di metafora,Roma reagisce al nuovo come se lo

avesse già visto. La sua storia mantieneper così dire una sovranità sul presente”

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vazioni morbose di cadaveri imbalsamati; tutto questo è sen-z’altro una rappresentazione visiva di come si sente la socie-tà. Dopo di che l’arte è anche interrogazione: ci sono delleopere che obbligano il pubblico a partecipare anche attraver-so il rifiuto; impongono per così dire nuove prospettive. Do-po aver guardato alcuni video, si continuerà a guardare lestrade, la natura, gli oggetti e il significato che hanno allostesso modo? L’arte contemporanea si interroga e ci interro-ga sulla concezione che ciascuno di noi ha rispetto a ciò chelo circonda. Non solo. Interroga anche sulla storia. Perchéalcune opere sono così rappresentative per un paese? Perchél’individuo e la collettività ci si riconoscono così tanto?L’arte non può risolvere, qualsiasi sia la sua forma di espres-sione. Se si fa ricerca è una cosa, se si fa l’applicazione dellaricerca è un’altra ancora. Qualsiasi forma assuma l’arte èsempre un momento di ricerca. L’applicazione di essa diven-ta quello che lo spettatore si porta dietro nella sua vita quoti-diana. Inoltre ci sono due aspetti importanti: da una parte ilfatto che gli Stati Uniti non sono più il referente della culturamoderna contemporanea nel mondo. Questa perdita di cen-tralità, non ci ha aperto un altro mondo, ma tanti altri. Lascoperta dell’India, della Cina, del Sudamerica: nuove formedi civiltà tutte estremamente interessanti dal punto di vistadell’arte e che propongono nuovi approcci. Faccio un esem-pio. Per realizzare Punta della Dogana ho lavorato con l’ar-chitetto giapponese Tadao Ando: nel realizzare uno spazioespositivo noi (occidentali) a priori apriamo una porta inmodo tale da entrare direttamente nello spazio centrale; loroinvece aprono porte laterali, non ci sono mai grandi corridoi,ci sono interruzioni, lo spettatore esce da una stanza e entrain un’altra attraverso porte laterali. Mi ricordo, durante i la-vori di restauro, che per me sarebbe stato ovvio fare unagrande apertura sul lato di Campo della Salute verso il mare.Voila, Tadao Ando, ha sovvertito completamente l’assetto.Poi mi è stato spiegato che gli spiriti maligni vanno dritto ese hanno un qualcosa, come un muro, che li blocca non en-trano nella casa, mentre lo spirito intelligente può fare il la-birinto; questo fa parte ovviamente della cultura orientale.Partendo da un piccolo esempio come questo ci si rendeconto che quando si lavora in sinergia con un’altra cultura,con un altro approccio è fondamentale essere aperti, prontiad accogliere nuove prospettive, nuovi mondi. Credo che lacaduta dell’egemonia americana nell’arte, ma anche nel ci-nema e nella letteratura ci porterà a un mondo policentrico ea livello culturale a una poli-centricità. Inoltre, visto chealcune culture sono legatealla riproduzione del passa-to, anche noi per fare questopassaggio saremo obbligatia capire meglio il rapportofra patrimonio e modernità,passato e presente e come idue mondi si incrociano edialogano. La seconda gran-de evoluzione ha a che farecon Orwell: in Orwell si èbloccati in un modello, lefamose avanguardie, oggino, ciascuno reagirà a modoproprio, chi lo farà superan-

do le avanguardie, quindi distruggendo le loro regole, ma inevoluzione con esse, e chi non lo farà e si inventerà una cosacompletamente nuova. La cosa che mi stupisce di più è chel’invenzione è infinita, abbiamo un cervello geniale. Ovvia-mente in questo percorso si perderà anche qualcosa… va co-sì! La seconda cosa è la tecnologia e le sue numerose appli-cazioni. La possibilità di utilizzare internet e la sua gratuitànell’accesso ai libri, alle biblioteche del mondo, agli spetta-coli è una grande possibilità; quello che dobbiamo ancorasviluppare è il farlo in modo conviviale, che non significachattare, no, intendo sedersi accanto a una altra persona, sen-za perdere il rapporto umano… a meno che non ci trasfor-miamo definitivamente in computer, come sostiene un astro-fisico canadese! Alcuni esperimenti sui computer dimostra-no che messi in batteria, dialogano, si scambiano informa-zioni… un po’ come la nostra telepatia, no?! La combinazio-ne macchina – uomo ci dimostra già da qualche anno chefunziona e spesso risolve grossi disagi, basti pensare a OscarPistorius. Chi lo sa, magari la macchina ci aiuterà semprepiù a risolvere situazioni di disagio fisico.Come sarà il museo del futuro? E il suo pubblico?Credo che ci saranno due tipologie di museo: un gran museosu internet, che vuol dire la possibilità di costruirsi il propriomuseo, mettendo insieme, una accanto all’altra le opere chepiacciono di più – la Gioconda accanto a un Picasso o a unKlee – e di condividerlo poi comodamente a casa con gliamici. Un museo immaginario, per così dire. L’altra possibi-lità, potrebbe essere una cosa tipo, passatemi la parola, seb-bene non mi piaccia, un grande Disneyland: quindi un gran-de spazio, all’interno del quale ci sono tanti percorsi e lospettatore sceglie di volta in volta cosa vuol vedere, qualeesperienza fare, perché l’arte è e rimane un’esperienza emo-tiva. Immagino uno spazio, come fosse una città, dedicatocompletamente all’arte e all’interno di questo spazio si puòstare interi giorni e intere notti, con grandi spazi per condivi-dere le esperienze. Immagino un museo come una sorta diviaggio: tu ti sei costruita una storia e poi vai lì, in questoenorme spazio artistico e sviluppi la tua esperienza, la scam-bi e la rinnovi anche attraverso gli altri. Insomma immaginouno spazio grande e un grande spazio dato all’arte… ancheperché già oggi gli artisti realizzano opere fisicamente moltograndi… chissà fra cento anni!!Una cosa che resterà uguale a oggi è la capacità dell’artedi impressionarci, faccio un esempio: dopo aver visto, vis-

suto le istallazioni di Ri-chard Long, non posso piùvedere, passeggiare su unastrada di ciottoli senzapensare a lui. Già oggi icollezionisti commissiona-no giardini agli artisti…tutto lascia supporre che cisarà bisogno di grandi spa-zi. Ecco, l’idea è questa:nel 2084 si potrà decideredi andare una settimana inquesto meraviglioso spa-zio/mondo artistico nonsolo per conoscere le ope-re, ma anche per parlarecon gli artisti.Cappuccetto Rosso, di Joel Pommerat, Teatro Palladium, febbraio 2011

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Tu sei molto giovane e sei un esperto di sicurezza infor-matica piuttosto affermato. Ci racconti quali sono statele tappe della tua formazione?La mia formazione ha ben poco di classico o convenzionale.Parlando di titoli di studio standard, sostanzialmente detengoun diploma di Liceo scientifico tecnologico sperimentale.Ho frequentato il primo anno del Corso di Laurea in Sicu-rezza dei sistemi e delle reti informatiche, presso l’Universi-tà degli Studi di Milano, distaccamento di Crema, poichéprevedeva modalità di didattica a distanza: vale a dire possi-bilità di seguire le lezioni in orari “non standard”, con il soloobbligo di sostenere gli esami in sede. Scelsi questa formulaperché già lavoravo come consulente e programmatore peruna grande azienda di telecomunicazioni italiana, ma la miadecisione, non me ne vogliano i docenti di Crema, risultòpoco proficua in termini di “bagaglio tecnico” e così decisidi interrompere. Da quel momento ho continuato ad arric-chire le mie conoscenze quasi esclusivamente in maniera au-tonoma, fino ad arrivare a certificarmi “Offensive SecurityCertified Professional” (OSCO), certificazione per EthicalHacker, di cui ad oggi sono anche unico trainer a livello eu-ropeo. La certificazione OSCP è un percorso formativo mol-to tecnico, giudicato tra i più duri nell’ambito dell’EthicalHacking, basti pensare che il tempo massimo consentito percompletare l’esame è stimato in ventiquattro ore, senza alcu-na interruzione. Tale certificazione è ad oggi erogata special-mente a enti di intelligence e reparti governativi della difesatra cui la National Security Agency.Il tuo è un “mestiere” poco convenzionale e, almeno nel-l’immaginario collettivo, molto “futuristico”. Il futuro,secondo te, è ancora delle professioni informatiche?Concordo sul fatto che fare di professione l’ethical hackersia poco convenzionale, ma la crescente brama di nuovetecnologie rende questa figura indispensabile sulla scenaodierna. Basti pensare a cosa potrebbe succedere se venissero mes-

si in produzione sistemi di gestione di quelle infrastrutturedefinite critiche, quali quelle elettriche, idriche e telefoni-che, senza effettuare in modo ciclico, dei test di penetrabi-lità dei sistemi, o ancora cosa potrebbe accadere se allabase dei classici sistemi di home banking o semplicementedei computer di bordo delle nostre auto, non ci fossero ci-cli di analisi con unico fine quello di scovare bug (ovveroerrori) di programmazione che potrebbero permettere amalintenzionati di ottenere accesso non autorizzato ad ar-chitetture sensibili.Il futuro è delle professioni informatiche in modo diretta-mente proporzionale alla pigrizia, alla voglia di comodità eall’amore per le nuove tecnologie dei consumatori.

La rete è una grande risorsa, forse una delle più de-mocratiche fra quelle nate negli ultimi decenni, mapuò diventare anche una trappola? Quanti dati perso-nali vengono immessi ogni giorno in rete? Qualcunoci guadagna?Con uno sguardo privilegiato sulla questione posso dirti cheinternet è apparentemente una democrazia, ma in realtà un“far west” gestito e controllato, per quanto possibile dato ilgrande flusso di dati, dagli sceriffi di turno (governi e ope-ratori delle telecomunicazioni). Perlopiù abitata da normaliutenti (consumer), internet può tuttavia dimostrarsi moltopiù pericolosa di una normale passeggiata per strada. Para-gonando il personal computer alla propria casa ed un mal-ware (che esso sia worm, keylogger o un qualsiasi virus de-dito a minare il normale funzionamento del sistema operati-

Low SecretIl far west delle informazioni in rete: intervista a Emanuele Gentili

di Federica Martellini

Emanuele “emgent” Gentili è un esperto di sicurezza IT ed ethical hacking. Consulente nelsettore della sicurezza offensiva, è trainer partner della società americana di formazione Of-fensive Security: si occupa della formazione live in lingua italiana per i master di certifica-zione. Ha maturato una lunga esperienza nell’analisi dei livelli di sicurezza delle infrastrut-ture (penetration test) ed è un ricercatore accreditato nel campo della sicurezza informatica.Attualmente è Chief executive officer di Tiger Security e ha svolto consulenze e collabora-zioni con Arma dei Carabinieri, istituti bancari, associazioni creditizie, aziende del settoreanti fraud, enti di intelligence e servizi di sicurezza italiani. È coordinatore del progettoBackTrack Linux, cofondatore di Exploit Data Base, security developer della distribuzioneGNU/Linux Ubuntu e membro di OWASP (Open Web Application Security Project) edAIP (Associazione informatici professionisti). Ha sempre pubblicato le proprie scopertein “responsible disclosure” (rivelazione responsabile).Si definisce un libero pensatore con un forte background tecnologico, che ama scambiareopinioni su temi tecnici e “new ways of thinking”. Si dice fiero di aver rifiutato offerte la-vorative in sedi prestigiose, tra cui quelle di Google e Verizon, per poter sviluppare le pro-

prie idee e la propria professionalità, almeno a livello core, all’interno del territorio italiano.

“Il futuro è delle professioniinformatiche in modo direttamente

proporzionale alla pigrizia, alla vogliadi comodità e all’amore per le nuove

tecnologie dei consumatori”

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vo) ad un ladro, la statistica ci dice che probabilmente sia-mo già quasi tutti stati derubati molteplici volte e ci tengo asottolineare che quasi a nulla serve un antivirus (paragonan-do ad un caso reale: “allarme per i ladri”). Ma andando oltrei “furti con scasso virtuali”, vorrei far presente la vera mi-naccia, quella che da qualcuno viene definita brutalmente“stupidità umana”. Con il boom dei social network, Face-book e Twitter per citarne due, tutti si sentono motivati acomunicare e far presente alla rete ogni singolo istante dellapropria vita: c’e’ chi si diletta nell’upload di foto personaliin condizioni pietose e chi invece “verbalizza” ogni singolopensiero che gli passa per la testa, tutto ciò con incoscienzadisarmante e facilità tecnica estrema, data da strumenti or-mai ovunque accessibili (smartphone, tablet, netbook etc.) edal look accattivante.Pochi si soffermano a leggere e riflettere sulle policy concui verranno trattati i dati pubblicati. Nessuno o quasi è dif-fidente per natura, sembra un gioco, ma in futuro potrebbedivenire una brutta esperienza in quella dimensione dove il“diritto all’oblio” è tecnicamente impraticabile.È ormai notizia di pubblico dominio che la CIA (Central In-telligence Agency), tra i propri progetti strategici ne avevauno con obiettivo quello di profilare nella maniera più pre-cisa possibile ogni cittadino americano al fine di salvaguar-dare la sicurezza nazionale. Il progetto sarebbe stato tal-mente dispendioso da risultare operativamente non attuabi-le. In questo intento però è riuscito Mark Elliot Zuckerberg,fondando Facebook, unica e sostanziale differenza è quellache alla base non c’e’ alcuna azione di intelligence e sele-zione ma l’accoglienza di uno strumento graficamente ac-cattivante e semplice da utilizzare, che vanta l’inserimentoautonomo di informazioni personali, foto o video in costan-te aggiornamento.Il guadagno è da riassumersi in due ottiche: pubblicità mira-ta e forse vendita di informazioni e dossier “targhettizzati”,ma questo, sicuramente, non ci sarà dato saperlo.Quante delle informazioni che pensiamo riservate, unavolta scambiate o inviate on line, restano tali?Partirei dal semplice concetto che tutto quello che passa perla rete internet non rimane privato. Esistono forme di dialo-go o scambio file definibili, al momento, “sicure” come peresempio l’invio di documenti tramite l’ausilio di tecniche dicrittografia del contenuto, ma come la tecnologia insegna:quello che ieri era nuovo, oggi è quasi sorpassato. La stessaidentica cosa avviene per la sicurezza delle informazioni.È davvero impossibile sparire da Facebook o sparireda Google? Perché?Come accennavo precedentemente il “diritto all’ oblio” ècosa praticamente impossibile. Quando si pubblica un con-tenuto in rete, esso può essere scaricato, stampato e ripro-dotto, spesso in barba alle norme relative al copyright, quin-di far sparire un fatto accaduto o della documentazione pub-blicata in rete è cosa veramente ardua. Basti pensare cheesistono dei servizi che si occupano di fare copia di tuttoquello che trovano, al fine di conservare un archivio di in-ternet, dato un sito, un articolo o dei contenuti multimediali.Per quanto riguarda Facebook la questione è leggermentedifferente, accettando infatti le norme proposte al momentodell’iscrizione si dà a Facebook la comproprietà di tutto ciòche poi verrà inserito: siano essi video, messaggi di testo ofoto. Tuttavia Google in casi particolari, con tempi di delay

biblici, permette la “rimozione” dei contenuti dalla parte vi-sibile, conservandone sempre e comunque i contenuti all’in-terno della propria base dati.Se penso alle tecnologie che ci spiano, da profana, mivengono in mente film come Nemico pubblico o The Net

o anche le acrobazie telematiche di Lisbeth Salandernella trilogia di Stieg Larsson. Ma nella realtà quotidia-na la rete ci spia? O meglio chi è in grado di spiarci at-traverso la rete? In futuro saremo tutti sempre più“tracciabili”?La rete è un ottimo terreno per recuperare informazioni mi-rate su persone, indipendentemente che esse siano di pub-blico dominio o al contrario “riservate”. Basti pensare alleazioni mosse dal colosso Google, che si affacciava sullascena come semplice motore di ricerca con grafica pulita epriva di pubblicità e che oggi invece è diventato il migliorstrumento di intelligence sulla piazza. Si pensi alla sua sto-rica evoluzione che ha visto la messa a disposizione di unsistema di posta (Gmail) comodo e con molto spazio o a“Google Analytics” (progetto acquistato per milioni di dol-lari e offerto oggi a costo zero) che serve per tener tracciadelle statistiche relative a visite di siti web e per ultimo al-l’arrembaggio alle piattaforme mobile con Android. Facen-do una quadra di questi tre strumenti, e sono solo la minimaparte di quelli offerti a costo zero da Google, si può com-prendere quante informazioni passino in mano al colosso diMountain View. Voci di corridoio dicono che Google sareb-be in grado ad oggi di tracciare, attraverso i propri servizi,oltre il 99,62% dei navigatori della rete. La spiegazione èpresto fatta sulla base della percentuale dei siti web cheospitano all’interno delle proprie pagine codice di bigG (peresempio Google Analytics, cui facevo riferimento prima),degli utenti che utilizzano il browser Chrome e di quelli chegiornalmente si appoggiano ai servizi di posta di Google.Ciliegina sulla torta poi è sicuramente Android, che alla ac-censione dello smartphone chiede di inserire il proprio ac-count Gmail per accedere alle funzionalità di telefonia.Questi dati devono far riflettere i normali utenti della rete,non tanto per cercare di scavalcare una profilazione così mi-rata, ma bensì per essere coscienti che tutto ciò che faccia-mo in rete è potenzialmente tracciato e tracciabile.Secondo il dizionario specialistico dell’hacking curato

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da Eric S. Raymond l’hacker è «Una persona che traepiacere nella sfida intellettuale di scavalcare o aggirarecreativamente dei limiti». Un hacker è un militante, untecnico o un burlone? Cioè quello che fa un hacker èuno scherzo, una prova di abilità o un atto “politico”?Esistono varie accezioni nel linguaggio comune legate altermine hacker: per i media si tratta sostanzialmente sempree comunque di un sinonimo di “criminale informatico”, inrealtà però potremmo definire gli hacker in due macroaree:“White Hat” e “Black Hat”.

I White Hat Hacker, anche chiamati ethical hacker, sonoprofessionisti con un solido background tecnologico chesvolgono in modo estremamente etico le proprie ricerche, di-vulgando i risultati ottenuti in maniera prettamente confiden-ziale, innanzitutto verso i vendor (soggetti commerciali enon che hanno la proprietà intellettuale del prodotto/architet-tura su cui sono stati riscontrati problemi di sicurezza) al fi-ne di accordarsi in modo diretto per un piano di rientro ope-rativo che possa fornire quanti meno disservizi o pericolipossibili ai normali utenti, cittadini o infrastrutture.I Black Hat Hacker sono l’esatto opposto, vivono di venditadi informazioni o di utilizzo di informazioni ottenute in mo-do non lecito a discapito dei semplici utenti che tutti i giornientrano in rete per lavorare, per studiare o per puro svago. Inquesta area rientra ad esempio Russian Business Network,generalmente abbreviata in RBN, organizzazione criminalespecializzata nell’appropriazione di identità, carte di creditoe diffusione di malware.In queste due macroaree sono poi presenti anche gli “Hackti-visti”, soggetti politicizzati che usano la rete per dare risaltoalle proprie convinzioni politiche: spesso con “defacement”(ovvero cambio delle homepage dei siti per divulgare unmessaggio politico, senza toccare il resto dell’infrastrutturainformatica) o ancora progetti come Wikileaks che fannodella volontà di veicolare informazioni confidenziali militariil proprio obiettivo.

Che cosa si intende per ethical hacking?L’ethical hacking è un test di hackeraggio (psicologico edinformatico) verso personale aziendale e infrastrutturetecnologiche. Ha come scopo quello di mettere a cono-scenza il proprietario di un azienda delle problematicheprocedurali, psicologiche e informatiche della propria in-frastruttura e dei propri dipendenti al fine di valutare uneventuale piano di rientro.Questa azione viene generalmente effettuata in gruppo (co-munemente chiamato “tiger team”) che si occupa di verifi-care e sfruttare tutti i punti deboli di infrastrutture informa-tiche, fisiche e psicologiche al solo fine di prelevare inmodo non autorizzato più dati confidenziali possibili mo-strando così poi al proprio cliente (generalmente ammini-stratore delegato dell’azienda) quali punti deboli ha la suastruttura e come potrebbero essere risolti. Tutto ciò vienefinalizzato con la redazione di due report, rispettivamente:Executive Summary (report non tecnico per la parte diri-genziale) e Technical Summary (report tecnico contenentele vulnerabilità sfruttate che hanno permesso accesso alleinformazioni confidenziali) che vengono poi utilizzati perrendere l’infrastruttura più sicura possibile.

Wikileaks: un nome che è venuto alla ribalta della cro-naca la scorsa estate in seguito alla pubblicazione didecine di migliaia di documenti classificati del Penta-gono sulla guerra in Afghanistan e che negli ultimi me-si ha continuato a far discutere. Che cos’è?Wikileaks è un’organizzazione internazionale nata permettere in pubblica evidenza documentazione coperta dasegreto di stato, formata da giornalisti, dissidenti, attivistie scienziati, l’organizzazione si occupa di verificare l’au-tenticità di materiale fornito da fonti coperte dall’anoni-mato per poi procedere alla pubblicazione. Wikileaks na-sce per fare giornalismo trasparente rendendo di pubblicodominio fatti e documenti di cui altrimenti non saremmomai venuti a conoscenza.

“La rete è un ottimo terreno perrecuperare informazioni mirate su

persone, indipendentemente che essesiano di pubblico dominio o al

contrario “riservate”. Google oggi èdiventato il miglior strumento di

intelligence sulla piazza”

“Per i media il termine hacker è sempree comunque un sinonimo di criminale

informatico, in realtà potremmodistinguerli in White Hat e Black Hat.I primi, chiamati anche ethical hacker,

sono professionisti che svolgono inmodo etico le proprie ricerche; gli altri

sono l’esatto opposto”

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Lei dice che viviamo in un mondo in cui conta quelloche raccontiamo non quello che effettivamente risul-ta reale. Cos’è la realtà e qual è il suo tempo?Tempo presente = reale; tempo futuro = sogno?La realtà oggi è in gran parte quel che raccontiamo. Poirestano alcuni fatti che sembrano esenti da qualsiasi ge-nesi narrativa: la nascita, la morte.Sempre lei dice che il futuro è finito, soprattutto intermini economici e politici; gli intellettuali in questaterra di nessuno “minuettano” con intelligenza e acu-me. Sembra che solo la tecnologia con le sue numero-se applicazioni abbia diritto al futuro.Il campo della creatività sembrerebbe essere riserva-to a dei selvaggi di genio, sempre per utilizzare unasua espressione. Non è poco?No, non è poco, perché i selvaggi di genio sono gli uniciche oggi possano ricomporre le novità antropologiche etecnologiche che vediamo sotto i nostri occhi in un pae-saggio coerente e forte: sono quelli che possono tradurretante diverse innovazioni in un unico quadro di civiltà.Dal 2006 ci racconta la mutazione che viviamo. Diceche i grandi cambiamenti storico culturali sono dasempre apportati dai barbari, o meglio, da coloro chevengono definiti tali perché non riconosciuti dai lorocontemporanei. Infrangono canoni come fossero gris-sini e danno vita a un nuovo impasto per il futuro.In queste ultime settimane ho letto ancora il dialogofra lei e Eugenio Scalfari. Forse allora il futuro non èsoltanto dei selvaggi di genio…Diciamo che il futuro è costruibile da pochi selvaggi digenio, spesso barbari, e da moltitudini di persone nor-mali che imparano da loro schemi mentali e liturgie ge-stuali dove ritrovano se stessi.

Dice: Beethoven come Shakespeare sopravvive aqualsiasi mutazione, non invecchia mai.Alle mutazioni sopravvivono meglio gli artisti o gliintellettuali? E chi fra loro, pescando dal XX secolo,ci sarà nel 2084?Artisti e intellettuali, direi che non fa grande differenza.Ci sono opere e ci sono idee che resistono a qualsiasimutazione. Ma mai è possibile dire PRIMA quali so-pravviveranno.

In Next parla dello strapotere del marchio, delbrand. E con quel brand si vende un mondo, o me-glio un immaginario. Giustamente dice che la globa-lizzazione è grigia perché la fanno i banchieri.Chi la potrebbe fare in un modo diverso e colorato?Beh, la Rete lo sta facendo, ad esempio. Il fatto che sipossa dialogare con chiunque nel pianeta, con la solamediazione di una tecnologia e una lingua comuni, è giàun bell’esempio di globalizzazione virtuosa: e non hascopi di lucro, è giusto un game. 2084: si gioca l’ultimo tempo della partita, barbari eimbarbariti. Chi è in vantaggio? E chi vince?Vincono i barbari, a prezzo di un certo, inevitabile, im-barbarimento.

Alessandro Baricco (Torino,1958) ha esordito con Il genio in fuga. Due saggi sul teatro musi-cale di Gioacchino Rossini (1988). Castelli di rabbia (1991) è il suo primo romanzo. Da allo-ra ha scritto e pubblicato Oceano Mare (1993), il monologo teatrale Novecento (1994), Seta

(1996). City (1999) e Senza sangue (2002). Tra i saggi, da ricordare anche L’anima di Hegel e le mucche del Wisconsin (1993), Barnum.Cronache del Grande Show (1995) e Barnum 2. Altre Cronache del Grande Show (1998).Nel 2002 pubblica Next. Piccolo libro sulla globalizzazione e sul mondo che verrà.Compare in televisione nelle trasmissioni L’amore è un dardo e Pickwick. Per il teatro è auto-re, regista e interprete di Totem, City Reading Project e di Omero, Iliade. Pubblica Questa storia nel 2005 e poi I Barbari. Saggio sulla mutazione (2006). Nel 1994 ha fondato la Scuola Holden, e dal 2005 è socio di Fandango Libri. Il suo ultimo la-voro teatrale è del 2007: una lettura interpretata (e ridotta) di Moby Dick. Nel 2008 a Locarnopresenta il film Lezione 21, da lui scritto e diretto, e nel 2009 pubblica il romanzo Emmaus.

“Perché ciò che si salverà non sarà maiquel che abbiamo tenuto al riparo dai

tempi, ma ciò che abbiamo lasciatomutare, perché ridiventasse se stesso inun tempo nuovo” Da I barbari. Saggio

sulla mutazione”

Un tempo nuovoParla Alessandro Baricco

di Alessandra Ciarletti

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C’è un paradosso interes-sante nel nostro sistemaeducativo accademico.Prepariamo degli speciali-sti in una sola disciplina,poi spediamo questi spe-cialisti nel mondo e chie-diamo loro di risolvere oper lo meno cimentarsi coni problemi della nostra so-cietà. Ma tali problemi –siano l’inquinamento, il

cloning, le staminali, la globalità economica, il riscalda-mento terrestre, la fame nel mondo – non sono mai risolvi-bili, e neppure affrontabili, con una disciplina sola alla vol-ta. Richiedono una sinergia tra discipline diverse, un dialo-go fattivo tra specialisti – cose che però i nostri laureati edottori non hanno mai imparato a fare nelle nostre universi-tà. E c’e’ anche un altro problema nel nostro sistema educa-tivo: che i nostri studenti lavorano per anni e anni solo allaloro specializzazione, e non hanno più né il tempo né l’e-nergia di occuparsi degli altri aspetti della vita che sia l’arte,la musica, la letteratura, la religiosità, il loro stesso corpo ela loro stessa salute mentale. Naturalmente queste sono tut-te generalizzazioni, ci sono per fortuna varie eccezioni. Marimanendo nel quadro statistico di carattere generale, si av-verte il problema di una università che crea specialisti bravie competenti che poi non sono preparati a cimentarsi con laproblematica complessa del mondo di oggi e per di più so-no minacciati da un certo inaridimento culturale e spirituale.Per sopperire a questa mancanza, che crea anche problemi alivello di mercato, sempre più alla ricerca di persone con unorizzonte aperto e versatile, si è da tempo cominciato a par-lare di interdisciplinarità, creando dei programmi all’internodi alcune università – per lo più americane – con l’idea ap-punto di arricchire il bagaglio dei giovani scienziati di unpo’ di cultura umanistica o, viceversa, di innestare nellamente dei letterati l’importanza di certi valori scientifici su

cui il mondo moderno si sorregge. Uno degli esperimenti dimaggiore successo in questo senso è la settimana residen-ziale di Cortona, finanziata e organizzata dal Politecnico fe-derale di Zurigo, da molti considerato il MIT europeo. LaCortona’s week è un progetto con delle particolarità salienti(www.cortona.ethz.ch) nato nel 1985 per iniziativa di unprofessore di Roma Tre, (il sottoscritto) che allora era do-cente di chimica al Politecnico di Zurigo. Mi sono ritiratodalla direzione di Cortona proprio quest’anno, in cui abbia-mo celebrato il venticinquesimo anniversario, un quarto disecolo, quasi un miracolo.

La settimana è dedicata per lo più a dottorandi del Politec-nico, quindi studenti di scienze naturali e ingegneria chevengono “mescolati” con studenti di Facoltà umanistiche dialtre università e poi con artisti, musicisti, filosofi, psicote-rapeuti, leader religiosi. L’altra caratteristica originale è cheoltre alle lezioni e conferenze di tipo teorico (che si svolgo-no in genere nella mattinata), l’intero pomeriggio è dedicatoad aspetti sperimentali: nei cosiddetti workshop i parteci-panti possono – a loro scelta – dipingere o scolpire, dedicar-si alla musica, al Tai Ji o allo yoga o a esercizi respiratori epsicologici di vario genere. Al primo mattino ci sono sedutedi meditazione. Moltissimi workshop quindi, non con l’ideadi farli tutti, al contrario, ogni partecipante deve sceglierneun numero ristretto e attenersi ad essi per l’intera settimana.La scelta è sulla base di quello che è necessario a ciascuno,

Cortona’s weekUn esempio di interdisciplinarità per il mondo accademico

di Pier Luigi Luisi

di Pier Luigi Luisi

Scene di lavoro alla settimana di CortonaCortona’s week art

“Nel nostro sistema educativo i nostristudenti lavorano per anni e anni soloalla loro specializzazione, e non hanno

più né il tempo né l’energia dioccuparsi degli altri aspetti della vita

che sia l’arte, la musica, la letteratura,la religiosità, il loro stesso corpo e la

loro stessa salute mentale”

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individualmente, per raggiungere una propria integrazione.L’alta professionalità degli insegnanti è un altro criterio di-stintivo, tanto più importante quando ci si muove su un ter-reno che ha il pericolo di essere imparentato con new age efacilonerie varie. Ogni settimana vede la presenza di circa centocinquantapartecipanti, insegnanti inclusi. Provengono da varie partidel mondo, si sono viste anche delegazioni dal Giappone,dal Canada e da alcune università americane. Studenti edottorandi provengono per lo più da Svizzera, Germania eAustria. Pochissimi dall’Italia a dispetto del fatto che siamoin Italia e l’Italia dovrebbe essere la patria del Rinascimentoe quindi della simbiosi tra scienza e umanesimo. Il perchédi questo assenteismo è una domanda interessante e impor-tante. Forse siamo in un periodo di anti-rinascimento.Negli ultimi anni si è cercato di estendere l’esperimentoCortona’s week all’esterno del Politecnico di Zurigo. Cosìcon l’Istituto americano Fetzer del Michigan si è organizza-ta nel giugno del 2009 una settimana dedicata a Science and

Spirituality, anche con la collaborazione del Dipartimentodi Biologia di Roma Tre (Cortona-Fetzer: www.ics-s.org).Da notare che spiritualità non vuol dire religione. È un con-cetto più generale, basato sugli aneliti primordiali dell’uo-mo verso l’ascensione interna, e verso l’etica, l’altruismo,l’ecologia. Poi può anche diventare religione, il che rendeper molti le cose molto più facili. Quali sono le principali questioni sollevate in un meetingcome questo tra scienza e spiritualità? Le questioni al cen-tro del dibattito in quell’incontro, per fare un esempio, era-no le seguenti:- Who is the final judge of reality? Science or spirituality?- Do we need spirituality to give a meaning to life?- Will spiritual insights be critical to future science? Will

science be critical to seeing the spiritual dimension?- The mistery of order: is the order of the universe spiritual,

or natural?- Is the brain the only responsible for extraordinary states

of experience, such as out-of-body states, near deathencounters, ecstasy etc.

È di adesso la collaborazione tra il Politecnico di Zurigo euniversità tecnologiche indiane per la organizzazione aHyderabad, India, di una settimana dedicata a Science and

the Spiritual Heritage of India (www.cortona-india.org),pure finanziata dal Politecnico di Zurigo (alla ricerca di re-lazioni internazionali con l’Asia) – che mi ha onorato del-l’incarico di organizzarla. In questo caso l’enfasi è di stu-diare e discutere insieme se ed in qual misura l’eredità spiri-

tuale dell’India antica – dai Veda, al Mahabarata, alle Upa-nishadas, fino al messaggio pacifista di Gandhi – può essereresa compatibile con il mondo moderno della globalizzazio-ne, della tecnologia avanzata, del consumismo…In questo caso, molti dei conferenzieri sono naturalmenteindiani, ma ci ho portato anche una buona componente deileader di Cortona in quanto si tratta anche di fare scambi econoscenze interculturali. Così, un filosofo francese parleràdella stretta relazione tra Schrödinger, uno dei padri della fi-sica quantistica e le Upanishadas.

Non tutti sanno che il diciottenne Schrödinger si formòsugli antichi testi di saggezza indiana (rileggete la prefa-zione e la conclusione del suo libro What is life? in questaottica). Poi c’è stata una sezione dedicata alla spiritualitàdelle donne in India, una dedicata alla coscienza e una de-dicata ai problemi economici dell’India. Ci sono statiworkshop che paragonavano lo yoga con il nostro metodoFeldenkrais, l’astronomia indiana con la nostra, il cantoindiano “kirtan” con le nostre melodie canore… L’ex pre-sidente dell’India, Dr. Kalam, ha aperto i lavori della con-ferenza, il 20 novembre. Ho amici a livello internazionale che vorrebbero fare conme una Cortona-Cina, e una Cortona-Thai e il mio sognosarebbe naturalmente quello di creare un Network CortonaInternational, una rete di Cortona che collega le maggioriuniversità del mondo in una unione preposta alla creazionedi migliori leader del nostro futuro. Sarebbe bello naturalmente creare in questa luce una Cor-tona-Italy. Difficile. In parte per lo spirito anti-rinasci-mentale di questa fase politica italiana, in parte per moti-vi finanziari – una Cortona’s week costa in media cento-mila euro, e circa cinquecento euro al singolo partecipan-te – inutile chiederli alle nostre università barbaramentedecurtate, e in Italia non c’è la tradizione che i privatimagnati finanziari facciano qualcosa per la cultura. Sequalcuno ha un’idea, si faccia avanti…

“Uno degli esperimenti di maggioresuccesso in questo senso è la settimanaresidenziale di Cortona, finanziata e

organizzata dal Politecnico federale diZurigo, da molti considerato il MIT

europeo”

La settimana di Cortona: workshop sperimentali Francisco Varela (a sinistra) ad una delle prime edizioni dellasettimana di Cortona 57

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A guardarlo da vicino ilGiappone appare ancorapiù misterioso e imperscru-tabile di quello che sembradall’Occidente.Il mistero di una culturamillenaria che tiene il pas-so con le più sofisticate tec-nologie, la simbologia lin-guistica e il misticismo re-ligioso avvolgono questolembo di terra in una coltre

spessa ma allo stesso tempo sottile di indescrivibile fascinodal sapore aspro ma accogliente. Per otto lunghissimi giorniho provato, correndo tra Tokyo e Kyoto, le due macroanimedel Giappone, a cogliere l’essenza di questo paese, della suacultura, della sua società... oggi mentre scrivo ho ancora mil-le domande che mi affollano i ricordi e mi arrendo al pensie-ro di stabilire un confine tra quello che è presente, proiettatoprepotentemente al futuro e quello che è stato il passato, mache è costantemente presente. Questo complesso gioco tem-porale sta nelle due anime del Giappone: Tokyo e Kyoto.Tokyo, la capitale, la città dove i giovani lavorano, studiano,vivono perennemente immersi nella più avanzata tecnologia,alla costante ricerca della propria personalità talvolta espres-sa con forti tinte di egocentrismo, dal look radicale e colora-to; Kyoto, l’altra capitale, quella spirituale, quella dei templibuddhisti, shintoisti e zen dove si corre da un luogo all’altroa porgere omaggio alle divintà dell’affollato pantheon nip-ponico. Due anime, due contrasti, due opposti che non si al-lontanano ma convivono armoniosamente. Festeggiare l’ar-rivo del nuovo anno in Giappone è stata un’esperienza incre-dibile; eravamo immersi in un educato e composto mare dipersone nella gelida notte di Kyoto, in attesa di poter acce-dere all’interno del tempio, lo Yasaka-Jinja (santuario chesorge nei pressi di Gion, quartiere storico di Kyoto) doveabbiamo assistito al rituale comportamento durante l’Hatsu-moude (festeggiamenti del capodanno giapponese). C’era chi sceglieva di mettersi in fila per la preghiera con

rintocco della campana, chi ha acquistato la Hamaya, la frec-cia della buona fortuna, o chi ha lasciato legato al tempio unmessaggio di buona speranza con gli Ema, piccoli pezzi dilegno con un disegno su un lato e il desiderio da scrivere sul-l’altro. Tutto questo si svolge ogni anno, mobilitando mi-gliaia di persone che compiono brevi o lunghi viaggi votivi,momenti durante i quali è possibile incontrare tutte le animedel Giappone: manager, donne e uomini in costumi tradizio-nali, madri e figlie, famiglie, giovani e anziani tutti accomu-nati da un solo obiettivo, la visita al tempio durante i primigiorni dell’anno nuovo. Questo immenso ma composto flus-so di persone non coinvolge solo la città di Kyoto, anche aTokyo le celebrazioni dell’Hatsumoude sono presenti e im-ponenti. Migliaia di persone ci hanno inconsapevolmentecoinvolto nella massiccia visita al Meiji jingu (santuario co-struito in memoria dell’imperatore Meiji e dell’imperatriceShoken) appena ritornati a Tokyo: all’uscita della metro diHarajuku non abbiamo potuto opporre resistenza all’intensoe variopinto flusso umano che si dirigeva educatamente ver-so il santuario della capitale. Al permeante fervore rituale-re-ligioso, così visibile durante i primi giorni del nuovo anno,fa da controparte l’esponenziale sviluppo economico e tec-nologico del “made in Japan” a conferma di quanto siano in-tense le tinte dei contrasti che animano il paese. Il Giapponedi questi giorni è un paese che sta vivendo una fase moltodelicata della sua storia: si sta risollevando a fatica e consecolari cambiamenti sociali dalla crisi economica deglianni Novanta, e sta vivendo il traumatico successo dellagrande rivale Cina, con il rinnovato interrogativo di comedomare l’Oriente continentale dopo secoli di frenetico con-fronto con l’Occidente. In questo complesso contesto anco-ra da definire, tradizione e rilancio economico (o futuro)sembrano essere le parole chiave per interpretare la fase at-tuale del Giappone; dopo l’intenso vagare nella terra dellegeishe e dei videogiochi io scelgo armonia come lettura fi-nale a tutto il caos emotivo che ho vissuto. Senza armonia,credo, queste anime così radicali non riuscirebbero a so-pravvivere e ad offrire nuove possibilità di rilancio-slancioverso l’Oriente come verso l’Occidente.

Il Giappone: futuro o tradizione?Viaggio attraverso le idiosincrasie di un paese in movimento

di Fabiana Iannilli

Fabiana Iannilli

Ema Shibuya,Tokyo

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Negli ultimi tre anni haidocumentato, con unamole imponente di mate-riali audiovisivi, i movi-menti che a livello plane-tario pongono il proble-ma del cambiamento cli-matico, di cui troppo po-co si sa e si parla nel no-stro Paese. In particolarehai realizzato video inAmerica Latina (Bolivia,Perù, Ecuador, Messico),seguendo sia gli appunta-

menti dell’ONU sul tema sia le altre occasioni d’incon-tro che sono state sollecitate dai Paesi latino-americani,con un forte impegno delle popolazioni indigene. Perchésono proprio i popoli amerindi i più attivi nel porre ilproblema del cambiamento climatico? Più in particola-re, qual è stato il senso della Conferenza mondiale dei po-

poli sul cambio climatico e i diritti della Madre Terra con-vocata fra il 19 e il 22 aprile 2010 a Cochabamba, in Bo-livia? La conferenza di Cochabamba ha rappresentano il culminedi un processo non solo regionale ma globale e non soloecologico ma anche politico ed economico.

Malgrado l’urgente necessità di un accordo internazionaleper frenare il processo di degrado ambientale del pianeta, igoverni dei Paesi del mondotardano a unificarsi intorno auna visione e una strategiacomuni.Il fallimento del vertice diCopenhagen sul cambio cli-matico (Cop 15), nel dicem-bre 2009, ha mostrato il pre-valere degli interessi partico-lari di alcuni paesi, come StatiUniti e Cina, sul benesseregenerale, il sumaq qamaña, laconvivenza armonica con lanatura e fra gli uomini, unconcetto che la cultura ayma-ra condivide con le cultureandine, amazzoniche e ame-

rindie in generale, e che ha trovato spazio nelle recenti nuo-ve Costituzioni di Ecuador e Bolivia. Sono proprio l’emer-gere degli antichi saperi tradizionali, la nuova visibilità deipopoli indigeni, le loro proposte e soprattutto le loro lotte indifesa di ecosistemi di vitale importanza per l’intero pianetaa costituire un fenomeno nuovo e di grande interesse. Unfenomeno che meriterebbe di essere conosciuto e sul qualesi dovrebbe aprire un’ampia riflessione da parte degli altriPaesi, tra cui il nostro. Un fenomeno che occupa un posto dirilievo nel contesto attuale dell’America latina, la «regionepiù progressista del mondo», come l’ha definita NoamChomsky.

La Conferenza di Cochabamba dell’aprile 2010 è stato unospazio in cui si sono potute ascoltare, sul tema del cambia-mento climatico, le voci di centocinquanta Paesi (tante sonostate infatti le delegazioni ufficiali, cui vanno aggiunte lerappresentanze di organizzazioni ambientaliste, contadine,sociali e politiche provenienti da tutto il mondo). Delega-zioni che hanno messo sul tavolo sia il parere degli espertisia il sentire della gente, i bisogni e le proposte di ampi stra-ti della popolazione. Fra le conclusioni della Conferenza diCochabamba che sono state portate al vertice di Cancún,anche se poi disattese, c’erano quelle di realizzare un refe-rendum mondiale sulla crisi climatica, di redigere una di-chiarazione dei diritti della Madre Terra e di istituire un tri-bunale internazionale per i crimini ecologici.

A Cancún, tuttavia, la Boli-via è rimasta isolata nellesue proposte, perché gli al-tri Paesi, anche latino-ame-ricani, hanno firmato l’ac-cordo. Un accordo che, perquanto minimale, ha avutoil consenso della totalità deiPaesi dell’ONU.La posizione della Bolivia èstata presentata come intran-sigente mentre in realtà soste-neva coerentemente il man-dato datole a Cochabambadai trentacinquemila parteci-panti e dai numerosi rappre-sentanti di governi.

I diritti della Madre TerraDal Messico: intervista ad Emanuele De Vincenti

a cura della redazione

“La conferenza di Cochabamba harappresentano il culmine di un

processo non solo regionale ma globalee non solo ecologico ma anche politico

ed economico”

Marcia per la giustizia climatica e i diritti della Madre Terra, Can-cún, Messico, 7 dicembre 2010

“L’emergere degli antichi saperitradizionali, la nuova visibilità deipopoli indigeni, le loro proposte e

soprattutto le loro lotte in difesa diecosistemi di vitale importanza per

l’intero pianeta costituiscono unfenomeno nuovo e di grande interesse”

Emanuele De Vincenti

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60 La Bolivia si è sentita tradita anche da paesi a lei vicini, co-me dice Luis Hernández Navarro «l’hanno lasciata moriresola». Tra l’altro si è creato un pericoloso precedente quan-to ai meccanismi decisionali delle Nazioni Unite, perché gliaccordi di questo tipo devono riscuotere l’unanimità e ildissenso della Bolivia non è stato tenuto in considerazione.Il presidente boliviano Evo Morales ha annunciato che ilsuo governo presenterà un ricorso alla Corte Internazionaledi Giustizia dell’Aia per invalidare il documento approvatodalla Cop 16.Per combattere il cambio climatico c’è solo una misura effi-cace: ridurre le emissioni dei gas da effetto serra. Come hasegnalato la delegazione boliviana: «recenti rapporti scienti-fici mostrano che trecentomila persone stanno già morendoogni anno per i disastri relazionati al cambio climatico». Equesto studio prevede l’aumento di morti annuali fino a unmilione.L’accordo di Cancún è buono per Stati Uniti, Canada e ipaesi sviluppati, che hanno già calcolato la relazione costi-benefici derivanti dal cambio climatico. Con il rapido scio-glimento della calotta polare, il Canada, per esempio – in-sieme a Stati Uniti, Russia, Norvegia e Danimarca – saràavvantaggiato dall’apertura di nuove rotte marittime e dal-l’accesso a giacimenti petroliferi e minerari finora irrag-giungibili. Hanno calcolato che possono permettersi di peg-giorare la crisi. I paesi più pregiudicati, invece, sarannoquelli del terzo mondo, in particolare gli arcipelaghi e leisole già oggi minacciati dall’innalzamento del livello deimari. Alcune regioni, come quella andina che contiene lamaggior concentrazione di ghiacciai tropicali, vede sparirerapidamente le risorse idriche e vitali non solo per il suosviluppo ma per la stessa sopravvivenza.

Qual è il ruolo degli intellettuali e degli studiosi in que-sto contesto?I ruoli degli scienziati edegli intellettuali sonogià definiti con la sceltadi campo che ognunodi loro ha fatto. Il capi-tale multinazionale, cheattraverso le sue attivitàproduttive ed estrattiveè il maggior responsa-bile della contamina-zione ambientale e del-la crisi climatica, siostina a negare l’evi-denza e, in alcuni casi,la stessa esistenza diuna crisi climatica.

Le grandi imprese multinazionali, grazie al loro potereeconomico, non hanno difficoltà ad avvalersi di studiosi eintellettuali per difendere queste teorie. Dall’altra parte lericerche più avanzate nel campo dell’ecologia appaiono insintonia con alcuni elementi fondativi delle antiche civiltàcontadine e delle attuali culture indigene: la Terra è vistacome un organismo vivente, come la Madre Terra che vacurata e rispettata.L’ottica del capitalismo nella sua fase neoliberista è quelladi un pianeta da cui estrarre tutte le risorse possibili in vistadi uno sviluppo illimitato. È una concezione che si è rivela-ta non solo errata, ma anche suicida. È un modello econo-mico che ha dimostrato ampiamente la sua insostenibilità.

E purtroppo, nonostante diversi intellettuali, scienziati eistituzioni dei paesi sviluppati critichino oggi fortementequesta concezione, il potere economico delle grandi multi-nazionali orienta in modo determinante le decisioni politi-che, anche a livello planetario, continuando a spingere losviluppo in una direzione opposta. Un esempio? Una dellesoluzioni proposte dalle grandi corporazioni multinazionali,e sostenute dai governi a Cancún, è quella del REDD (la Ri-duzione delle Emissioni per Disboscamento e Degrado) checonsiste nell’attribuire a ogni paese una quota di emissionidi carbonio consentite. Questo permette ai paesi più indu-strializzati di comprare ai paesi in via di sviluppo la loroquota di inquinamento, frenandone di fatto lo sviluppo aproprio beneficio. Per le foreste, è ancora peggio.Se finora le grandi estensioni boscose del pianeta si sonosalvate è proprio grazie al fatto che si tratta di territori pocoospitali, come l’Amazzonia, e scarsamente popolati. Sonostati i popoli indigeni, unici abitanti di quelle regioni, che nehanno garantito la conservazione. I loro diritti di usufrutto egestione di quelle terre sono oltretutto ancestrali e ricono-sciuti dal diritto internazionale.

Ora, con l’ultima trovatadel REDD, si pretendedi affidare la salvaguar-dia dei boschi ai grandiorganismi finanziari in-ternazionali, estromet-tendo gli abitanti origi-nari. Un po’ come affi-dare la cura del gregge aun branco di lupi. Le de-cisioni di Cancún, ancheda questo punto di vista,non fanno ben sperareper il 2011, dichiaratodall’ONU «anno inter-nazionale delle foreste»!

Conferenza mondiale dei popoli sul cambio climatico e i diritti della MadreTerra, Cochabamba, Bolivia, 19-22 aprile 2010

“Il capitale multinazionale, cheattraverso le sue attività produttive ed

estrattive è il maggior responsabiledella contaminazione ambientale e

della crisi climatica, si ostina a negarel’evidenza e, in alcuni casi, la stessa

esistenza di una crisi climatica”

“Le ricerche più avanzate nel campodell’ecologia appaiono in sintonia conalcuni elementi fondativi delle anticheciviltà contadine e delle attuali culture

indigene: la Terra è vista come unorganismo vivente, come la MadreTerra che va curata e rispettata”

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rubr

iche

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«Nello stesso modo in cuinon potrai mai tornare in-dietro ad un computer piùlento, non potrai mai torna-re indietro ad uno stato mi-nore di connessione». Dou-glas Coupland, A Radical

Pessimist’s Guide To The

Next Ten Years

È appena uscito anche suglischermi dei nostri cinemaThe Social Network, il filmdi David Fincher su Mark

Zuckerberg, il ragazzo che nel 2003, mentre era una matrico-la di Harvard, un po’ per scherzo un po’ per rivalsa nei con-fronti della ex fidanzata, mise on line le fotografie delle ra-gazze delle università della zona per sottoporle all’impietosogiudizio della platea studentesca maschile, ponendo le basi diquello che di lì a poco sarebbe diventato Facebook. Il film,pur basato sul libro di Ben Mezrich ispirato dalle confessionicertamente di parte di Edoardo Saverin, il cofondatore di Fa-cebook poi estromesso da Zuckerberg, celebra e pone un pun-to definitivo su quelli che Le Luci Della Centrale Elettrica nelsuo album d’esordio del 2008, Canzoni Da Spiaggia Detur-

pata, aveva definito come gli “Anni Zero”, anni in cui il pro-gresso tecnologico ha imposto un cambiamento talmente ra-dicale da andare a minare anche le basi considerate più solidedei rapporti umani. La cosa che però più ci ha colpito nel filmdi Fincher è stata, ed è curioso pensare come dopo solo diecianni lo avessimo già dimenticato, il ricordarci come a fare damotore di propulsione a questo cambiamento sia stata propriola musica. Nel film, infatti, assume una posizione centrale lafigura di Sean Parker, uno dei due creatori di Napster, il pri-mo programma di peer-to-peer, cioè in grado di permettereagli utenti online di scambiare file musicali a distanza comesi scambiavano fino a quel momento messaggi in chat attra-verso i programmi di instant messaging. Parker rappresentaagli occhi di Zuckerberg un punto di riferimento e allo stesso

tempo un eroe. In qualche modo Parker e il suo collegaShawn Fanning, alla fine degli anni Novanta, poco più cheventenni, sono stati i primi ad intuire le possibilità di libertàfino ad allora inimmaginabili insite in internet. E il veicolocon cui questa geniale intuizione e la rivoluzione che ne èconseguita si sono affermati è stata proprio la musica. Tuttoquesto il film ce lo ricorda, e in un modo ancor più ammic-cante, e chissà quanto involontariamente ironico, facendo in-terpretare Parker da Justin Timberlake, superstar della musicapop americana. L’esistenza di Napster durò soltanto due anni,dal 1999 al 2001, quando venne poi sommerso dalle denunciemilionarie degli artisti che si vedevano privati di quelli che ri-tenevano essere i loro giusti guadagni e dalle azioni di distur-bo perpetrate addirittura contro i singoli utenti del program-ma di file-sharing grazie agli ingenti mezzi messi a disposi-zione dalla RIIA, la potentissima associazione delle impresediscografiche americane. Nonostante ciò, per un Napster checessò di esistere, nacquero in progressione geometrica altriprogrammi o strumenti per condividere file, ora non solo piùmusicali ma anche video, sostenuti dall’ormai universalmenteaccettata convinzione che la libera condivisione sulla rete fos-se un valore talmente preponderante da travolgere in un solcolpo i diritti di proprietà intellettuale e le legittime aspettati-ve di ritorno commerciale dell’industria. Come la cosa sia an-data a finire è cosa ben nota: ad oggi i negozi di dischi sonopressoché scomparsi se si escludono le grosse catene di distri-buzione e con loro anche i supporti come vinile, cassette e cd;la musica viene fruita attraverso molteplici strumenti comecomputer, lettori MP3, smartphone, sempre comunque sottoforma di file; ma soprattutto, giusto o sbagliato che sia, pergran parte delle nuove generazioni la musica è un bene da ac-quisire gratuitamente. Ancora oltre, la possibilità di arrivare

Ugo Attisani

Justin Timberlake e Jesse Eisenberg in una scena di The social network

I Radiohead sono stati fra i primi a mettere a disposizione sulproprio sito un intero album, In Rainbows

Popscene«Vivevamo nelle fattorie, poi abbiamo vissuto nelle città e ora vivremo su internet»

di Ugo Attisani

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62 ad una quantità di musica pres-soché illimitata in un tempo irri-sorio (e uno dei fattori che piùha inciso nella diffusione di con-nessione veloci a banda larga èstato proprio il diffondersi delfenomeno del file-sharing) hamodificato in modo radicale eprofondo i principali attori diquesto scenario, gli ascoltatorima nondimeno i musicisti stessi.Siamo pienamente subentrati inquello che il giornalista ChrisAnderson, direttore della rivistaWired, ha definito in un suo li-bro del 2004 un modello dieconomia della coda lunga, ovvero un sistema in cui un nu-mero indefinito di minuscole nicchie di consumatori/ascol-tatori caratterizzati dagli stessi gusti supera nel suo insiemela fetta di mercato rappresentata dai gusti predominanti.Questo lo osserviamo in prima persona quotidianamente adesempio quando incontriamo quindicenni che sono fan ac-caniti della musica elettronica tedesca degli anni Settantaoppure quando ascoltiamo opere prime di musicisti che sirichiamano a fenomeni musicali che pensavamo dimentica-ti. Ed è forse in questo aspetto che si è prodotto il muta-mento profondo che ha portato la nascita della musica digi-tale e dei suoi strumenti di diffusione a diventare, da sem-plice momento di evoluzione tecnologica, un grande feno-meno sociale, grazie alla creazione e allo sviluppo di unanuova base sociale, dai confini ampi e poco definiti, che siè affermata insieme con il sorgere del cosiddetto Web 2.0,delle piattaforme come Youtube, Myspace e infine Face-book stesso. La musica quindi, così come negli anni Cin-quanta e Sessanta con il rock era stata un fenomeno di natu-ra dirompente nella società, negli ultimi dieci anni è stataalla base di una vera e propria rivoluzione delle forme disocialità che potremmo definire digitali. E se è vero chequalcuno potrebbe obbiettare che ciò è avvenuto a scapito didiritti acquisiti e di interi rami dell’industria commerciale,provocando un vero e proprio terremoto economico e co-stringendo la giurisprudenza arivedere le proprie posizioni inmateria di diritto d’autore percercare di arginare il fenomenodel file-sharing, è anche veroche chi ha saputo non fermarsi auna visione tradizionale e limi-tata ha poi capitalizzato in modoclamorosamente vincente lenuove prospettive apertesi inquesti dieci anni. È il caso sututti della Apple di Steve Jobsche, proprio grazie all’intuizio-ne di creare un lettore MP3 chenon fosse solo un oggetto fun-zionale e dalle elevate presta-zioni nella resa dell’ascolto, maanche un oggetto di design ingrado di colpire e impressionareil mercato, ha dal 2001 pratica-

mente monopolizzato il merca-to della musica digitale con ilsuo Ipod, le cui generazioni e icui modelli si sono velocemen-te succeduti fino ad oggi. Lalungimiranza della azienda diCupertino non si è poi fermataalla creazione di uno strumentodi ascolto come l’Ipod ma, nel2003, è riuscita, almeno in par-te, a portare l’industria disco-grafica da una posizione di stre-nua difesa nei confronti delMP3 ad un’apertura nei con-fronti di questo nuovo mercato,grazie alla nascita di Itunes Sto-

re, il primo negozio di musica online su larga scala. Così co-me per il mercato anche chi tra gli artisti è stato più sensibileall’evolversi dei nuovi scenari è stato poi premiato dal pub-blico. Del resto paiono del tutto superati i timori che all’ini-zio del decennio paventavano la fine della musica, nascon-dendo in realtà soltanto la paura di perdita di profitti. In que-sti dieci anni infatti sono innumerevoli i casi di giovani arti-sti che proprio grazie alla possibilità di bypassare i tradizio-nali passaggi imposti dall’industria discografica hanno potu-to far conoscere la propria musica ad una platea altrimentiirraggiungibile di ascoltatori, mettendo i file MP3 delle lorocanzoni in rete tramite siti, social network musicali comeMyspace o direttamente nei canali di file-sharing, raggiun-gendo poi le vette delle tradizionali classifiche di vendita,come è accaduto tra gli altri a gruppi come gli Arcade Fire,gli Arctic Monkeys o alla cantante inglese M.I.A. Tra gli ar-tisti già affermati non si possono invece dimenticare i casiesemplari dei Radiohead che per primi tra i grandi gruppihanno messo a disposizione sul loro sito un intero album, InRainbows, permettendo ai fan di scaricarlo versando la cifrache essi ritenevano giusta o i Nine Inch Nails, che dopo averpermesso lo scaricamento gratuito del loro album Ghosts I-

IV ne hanno poi venduto duecentocinquantamila copie delcofanetto in vinile, al prezzo da collezionisti di 300 dollari.Rimane quindi evidente come la rivoluzione della musica

digitale, lungi dall’essere unfenomeno esclusivamente de-leterio come era stata dipintain partenza, ha introdotto inve-ce nuova linfa in un mondoche prima del suo affermarsisembrava ancorato a categorievecchie di vent’anni, espellen-do dal mercato le forze piùconservatrici e orientate sol-tanto al guadagno e fornendoinvece nuove opportunità diascoltare e di farsi ascoltare auna massa prima invisibile erealmente indistinta di perso-ne, intendendo però stavoltaindistinto in un accezione posi-tiva, cioè senza badare alla suaetà o alla sua provenienza siageografica che sociale.Arcade Fire

Arctic Monkeys

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Celtic Forever. You’ll never walk alone è una cavalcatatra la miriade di successi e i tanti personaggi che hannofatto grande il club cattolico di Glasgow, nato nel 1887su intuizione di un prete, Fratello Wal-frid, per finanziare la mensa dove tro-vavano un aiuto e del cibo caldo i po-veri di origine irlandese della città. Daiprimi Old Firm con i Rangers, ai Li-sbon Lions che nel 1967 conquistaronouna storica Coppa dei campioni control’Inter di Herrera, fino ad arrivare aigiorni nostri, la splendida maglia a stri-sce bianco-verde del Celtic è divenutaun’icona, il simbolo di un’intera comu-nità, quella irlandese, sparsa per tutto ilmondo. Nel 1981 il Celtic incontravala Juventus in Coppa dei campioni, ilturno lo passò la Juventus. Quel Celticguidato dal capitano Danny McGrain

era arcigno, con poca classe ma vendeva cara la pelle ein Italia si fece molte simpatie tra cui quella di chi scri-ve. Charlie Nicholas, l’attaccante, e Paul McStay il regi-

sta, che nelle movenze somigliava tantoa Giuseppe Giannini, sono i giocatori acui sono più legato, insieme al barbutoDanny McGrain, capitano degli anniOttanta, ma sono tante le storie e i per-sonaggi che il libro raccoglie e custodi-sce. La storia di una comunità che si ri-conosce in tutto e per tutto in un clubormai tra i più famosi del pianeta. Nona caso anche i supporter del Celtic han-no adottato come loro inno il celebreYou’ll never walk alone . Perché i“Bhoys” non cammineranno mai soli enon scorderanno mai le loro origini e laloro storia, che vale certamente la penadi essere raccontata.

Non tutti sanno che...Celtic Foreverdi Massimiliano Troiani

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Ultim’ora da Laziodisu di Salvatore Buccola

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Le parole sono preziose.Permettono l’identificazio-ne, la descrizione, la cono-scenza. Ma proprio cometutte le cose realmente im-portanti che si rispettino, ri-sultano allo stesso tempoimperiture e fragili. Nasco-no con noi, crescono e sievolvono al nostro passag-gio. E inevitabilmente si tra-sformano, dando nuova for-ma alle cose e assumendo su

se stesse nuove sfumature. Poi, ad un certo punto, pro-prio così come sono arrivate, a volte scompaiono, per poiriapparire molto tempo dopo, oppure semplicemente perabbandonarsi all’oblio. Ognuno di noi ne ha un bagagliopersonale: parole legate alla nostra infanzia, a fatti, que-stioni, modi di dire che abbiamo incontrato nella nostraesistenza. E che ogni giorno continuiamo a conoscere,apprendere, apprezzare, scegliere oppure scartare. Pen-siamo allora come sarebbe raccoglierle tutte, partendo daquelle che caratterizzano gli anni della nostra crescita,per creare un proprio sillabario personale. Il risultato, si-curamente, sarebbe molto simile al Sillabario della me-

moria (Salani Editore) di Federico Roncoroni, autoredella grammatica italiana che molti di voi avranno avutosul proprio banco, negli anni di scuola. «Sono parole –scrive Roncoroni nella sua premessa – che mi hanno fat-to e mi fanno diverso dagli altri uomini e dalle altre don-ne, che amano o odiano altre parole, ma, nello stessotempo, mi rendono uguale o si-mile a tanti altri uomini e a tantealtre donne, cui, in modo miste-rioso, quasi sensuale, mi leganocon il sottile filo di seta dei lorosignificanti e dei loro significa-ti». Si inizia con “abballinare” esi termina con il classico “zuzzu-rellone”, passando per i menoconsueti “donneare”, “lisciva” e“smargasso”. Un viaggio nelleparole che è anche un percorsonella memoria, che ognuno, amodo suo, potrebbe ripetere e ap-puntare, proprio per non perdereciò che ci ha cresciuto, nutrito edescritto. Perché la perdita èsempre in agguato: la dimenti-canza, la sostituzione o anche ilsemplice disuso costituiscono irischi più grandi per le parole. Enoi neppure ce ne rendiamo con-

to. I modi di dire, per esempio. Oppure il linguaggio gio-vanile. Quella che un tempo poteva essere considerataun’espressione di tendenza, “cool” (ecco un’altra parolache si usa oggi, ma che non si usava prima e forse non siuserà dopo) magari oggi è obsoleta, o ancora peggio nonsignifica proprio più nulla. Stessa cosa per gli stranieri-smi: un tempo, quando la lingua della cultura era il fran-cese, che aveva esportato nelle scuole lo studio dei suoitermini, chi avrebbe mai pensato che presto sarebbe statosostituita dall’inglese? Andateglielo a spiegare, ai “cugi-ni d’oltralpe”, che ancora non si riprendono dallo shock!Le parole sono il senso che gli diamo e che assumono inrelazione al contesto. Se i presupposti cambiano, nonpossiamo sperare che la parola resti immutata. Cosa suc-cederà, quindi, al nostro linguaggio, guardando avantinegli anni? In che direzione vanno le nostre parole, e do-ve le stiamo portando? Presumibilmente bisogna dare perscontato un certo numero di termini che perderemo, conil passare del tempo. Ma quali? Innanzitutto, certamentequelli che stanno ad indicare qualcosa che un domaninon esisterà più. Basti pensare al “walk man”, termine,ancora una volta inglese, che negli anni Ottanta spopola-va, ma che oggi è stato sostituito prima dal “lettore Cd” epoi, oggi, dal “Mp3”. Il “walk man” è diventato quasi,nel giro di dieci o quindici anni, un oggetto d’antiquaria-to. E la stessa fine è riservata al suo significante. Magari,però, la stessa sorte toccherà al “Mp3”, quando verrà so-stituito dal suo successore tecnologico. Probabilmente scompariranno anche molti termini che legenerazioni precedenti alla nostra ritenevano di uso quo-tidiano, e che noi abbiamo perso, rinnovandole, modifi-

candole o sostituendole. E nuoveparole invece nasceranno, peridentificare oggetti, luoghi, situa-zioni nuove che soppianterannooggetti, luoghi, situazioni e paro-le vecchie. Anche le tecnologie probabilmen-te incideranno molto nel parlatodel futuro, facendo sopravvivere,secondo un principio darwiniano,quei termini più veloci, che pos-seggono una possibile abbrevia-zione, che vengono usati piùspesso e che quindi, in linea diprincipio, sono destinati a soprav-vivere, a discapito di altri.Ci auguriamo però sentitamenteche non scompaia il “ch”, sop-piantato da un più semplice, e ve-loce, “k”. E soprattutto, che qual-cuno si ricordi di tramandare ilcongiuntivo.

Il sillabario della nostra memoria…… e forse anche del nostro domani

di Irene D’Intino

Irene D’Intino

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Una storia d’amore spez-zata dal destino, il disagioesistenziale di un uomo“in sospeso”, le atmosferedelicate e nostalgiche del-l’Estremo Oriente. Questoe molto altro ci raccontaTarda estate, il lungome-traggio dei giovani registiMarco De Angelis e Anto-nio Di Trapani.Realizzato grazie alla col-

laborazione fra la casa di produzione La Fabbrichetta e ilDipartimento comunicazione e spettacolo dell’UniversitàRoma Tre, il film è stato presentato alla 67° Mostra del ci-nema di Venezia, nella sezione Controcampo italiano, di-stinguendosi per la capacità di analizzare in maniera tra-sversale molteplici aspetti della società giapponese, in bili-co fra una modernizzazione estrema e la volontà di restareancorata alle proprie tradizioni.Il film è soprattutto la storia di Kenji, un giornalista giap-ponese che dopo tanti anni passati a Roma decide di riper-correre a ritroso il proprio percorso. Ecco allora che il rien-tro a casa rende possibile una riscoperta di sé, facendo rie-mergere pensieri e sentimenti tenuti sotto la polvere, fram-menti di un’esistenza passata a ricercare quel senso dell’es-sere uomo che solo rivolgendo lo sguardo alle proprie radi-ci si può cogliere pienamente.Kenji trova un Giappone molto diverso da quello che ave-va lasciato; grattacieli e strade gremite di macchine, di uo-mini e donne vestite all’occidentale ne hanno stravolto“l’involucro esterno”; ma accanto a questa realtà se nemuove, parallelamente, un’altra, quella che vive nei rac-conti della madre vecchissima e che riaffiora nei ricordi diun amore mai dimenticato. Fra sogni,proiezioni mentali e salti temporali, sifa sempre più nitida la figura di Noriko,la donna che mentre tutto scorreva con-tinuava ad aspettarlo, pagando con lamorte la propria dedizione verso di lui.Ora un’altra donna, la giovanissima ni-pote, offre a Kenji l’opportunità di so-spendere per un attimo la sua “corsa” eriscoprire la parte dell’anima rimastaancora fanciulla, tutta protesa verso unprocesso di conoscenza destinato a con-tinuare oltre i confini temporali dellavita materiale. Il viaggio in Giapponediventa così l’ultima tappa di un lungoitinerario interiore, prima di spiccare ildefinitivo volo verso l’alto.La scelta di riprese frontali, di movi-menti di macchina lentissimi, l’uso di

una musica evocativa e mai di semplice accompagnamen-to, rendono Tarda estate un film affascinante e misteriosoche è anche un omaggio dei due registi alla tradizione e al-la cultura del cinema orientale, con la sua capacità di crea-re attese e dolci smarrimenti. Fondamentale il lavoro sullasceneggiatura che gioca con i silenzi tanto quanto con leparole, e sulla fotografia che restituisce, come dietro un ve-lo sottile ed impalpabile, i colori e la delicatezza dei pae-saggi nipponici.Abbiamo parlato di Tarda estate con i due registi AntonioDi Trapani e Marco De Angelis.Come nasce il soggetto di questo film? La decisione diambientarlo proprio in Giappone è stata dettata da unamore e da una curiosità verso questa realtà o è stataanche una scelta “estetica” frutto cioè della passioneper la tradizione cinematografica orientale?Andare fuori dall’Italia ha risposto al bisogno di allonta-narsi dalla contingenza dell’attualità quotidiana (con cuimolti registi italiani preferiscono invece ancora, a voltestancamente, confrontarsi) e, allo stesso tempo, ricercare labellezza lì dove un nostro innamoramento fosse stato piùimmediato. Non solo l’amore per il cinema dei maestrigiapponesi, dunque, ma anche l’interesse per un mondoche ancor più del nostro si presenta già stilizzato (bastapensare, per fare un esempio, ai tratti somatici), un univer-so segnico allo stesso tempo impenetrabile e nostalgico.Il film è stato presentato alla 67° Mostra del Cinema diVenezia, com’è stata questa esperienza e che tipo di ac-coglienza ha ricevuto da parte della critica?Venezia per noi è stata un’esperienza importantissima. Inu-tile soffermarsi sul valore e sulla tradizione di un Festivalche nel corso dei decenni ha mostrato i capolavori di tanticineasti da noi amati. È come un punto di arrivo e di parten-za insieme. La critica sembra aver accolto bene il film, in

particolar modo quelle persone al cuigiudizio diamo sempre un particolarepeso per la loro capacità di vedere in fi-ligrana la sincerità di un’opera, oltre cheil suo valore estetico. Il film è stato realizzato a quattro ma-ni in tutte le sue fasi. Qual è il valoreaggiunto di un lavoro che nasce dauna collaborazione fra due personali-tà artistiche?Il processo creativo è qualcosa di perso-nale e irripetibile, ma se si riesce a tro-vare la giusta intesa l’opera può esserela somma di due forze, piuttosto chel’ambiguo risultato di quotidiani com-promessi. Occorre però trovarsi in unasintonia quasi perfetta, sia nella sensibi-lità, nella percezione, che nella volontàcreatrice. Possiamo avere opinioni di-

Tarda estateQuando il cinema italiano “parla” giapponese

di Francesca Gisotti

Francesca Gisotti

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verse su molte cose, ma non su cosa è bello e cosa non lo è.Com’è avvenuta la scelta del cast? Com’è stato lavora-re con attori stranieri provenienti da un sistema di la-vorazione molto diverso dal nostro?Non solo il cast, ma tutto il film nasce da una certezza: HalYamanouchi. Protagonista di un nostro precedente corto-metraggio, Voci di rugiada, ci ha colpiti per le sue dotiumane, oltre che artistiche, per la sua capacità di rinnovarsicontinuamente e mettere la sua lunghissima esperienza adisposizione di due esordienti in un progetto assolutamenteautarchico. Al fianco dei pochi altri professionisti, comeAndrea Tidona in Italia e Masato Mitani in Giappone, cisono molti esordienti che ci hanno sorpreso per la loro bra-vura: soprattutto per quanto riguarda gli interpreti giappo-nesi, non abbiamo potuto fare dei veri e propri provini. Cisiamo basati su foto trovate cercando nei social network esulla preziosa intermediazione di alcuni amici.A livello di distribuzione quanto è difficile riuscire apromuovere la diffusione di un film come questo, total-mente estraneo a certe logiche commerciali?È già stato difficile produrlo. Non avremmo potuto fareniente senza il preziosissimo aiuto del Dipartimento comu-nicazione e spettacolo, il cui sostegno, non solo logistico etecnico, ci ha permesso di ridurre notevolmente i costi, ren-

dendo possibile la realizzazione del nostro piccolo film.Distribuirlo sarà probabilmente ancora più difficile poichénon dipende più solo dalla nostra incosciente imprudenza,ma da un confronto non più rimandabile con la realtà delcinema italiano, con i suoi spazi ristretti o nulli per le opereindipendenti e difficilmente collocabili come Tarda estate.Sarà compito di Gianluca Arcopinto e Emanuele Nespeca,co-produttori del film, riuscire a trovare la giusta formuladistributiva.Tarda estate è la storia di un processo di trasformazionesia individuale che sociale. Quanto la storia del prota-gonista può essere inquadrata all’interno di un deter-minato contesto storico-culturale e quanto invece puòessere letta come la storia universale di ogni uomo difronte alla propria esistenza?La storia di Kenji non è solo la storia di un giornalistagiapponese che ritorna nel proprio Paese dopo tanti anni: èla storia di un uomo che, vicino alla fine della propria esi-stenza, fa i conti con il proprio passato. Viene mandato inGiappone per capirne la realtà attuale, ma lui se ne distaccasempre di più per abbandonarsi ai ricordi: solo attraverso larievocazione del proprio passato riesce a riconciliarsi con ilpresente, ma non con la realtà contingente e mutevole chelo circonda, bensì con l’eterno presente della vita che vedeviversi e che, serenamente, accetta la propria “meravigliosastraziante” caducità. Nel film i personaggi spesso raccontano storie, favole, leg-gende che sono state tramandate oralmente nei secoli.Quanto il cinema può essere ancora oggi un mezzo per sal-vaguardare la cultura e la memoria storica di un Paese?Il cinema ha un rapporto ancora più complesso con il tem-po, con i diversi tempi (diegetico, percettivo, storico etc.).Al di là della sua capacità di registrazione – come nei bellis-simi cortometraggi di Vittorio De Seta degli anni Cinquanta– il cinema, per la sua riproducibilità infinita dell’istanteperduto, si pone già costituzionalmente come “eterno ritor-no” o, meglio, come presente inesauribile, dimensione ases-suata dove il tempo è sempre perduto e ritrovato.I due registi Antonio Di Trapani e Marco De Angelis

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Tentiamo di ragionare suInception prima che Nolandiventi un’istituzione equindi un intoccabile. Per-ché il passaggio da istitu-zione a museo e da museoa mausoleo è troppo breve,e l’unico modo di rintrac-ciare un pizzico di umanitàin quest’opera è quello discovarne i difetti. Innanzitutto, Nolan con-fonde il secondario col pri-mario, il discorsivo col fi-

gurale, la struttura con la costruzione, l’ingegneria con l’ar-chitettura, la regia con la sceneggiatura. A dire il vero, alNolan di Inception sembra interessare soltanto il contenutomanifesto del sogno, prodotto della censura onirica, e non ipensieri onirici latenti, scaturigine dell’inconscio. Anche lacostruzione a strati, i sogni nei sogni e l’ascensore chescende nel “subconscio” (termine per altro rifiutato daFreud) sono in realtà ben poco freudiani, dato che la re-gressione operata dal sogno non è tanto spaziale quanto to-pica. Il logos, poi, non è certo una legge del sogno. In In-

ception, invece, tutto risponde alla logica del racconto e delmontaggio, laddove l’inconscio si esprime per metafore(sintomi) e metonimie (oggetti), cioè immagini (condensa-zione e spostamento), ed è estraneo al principio di non con-traddizione. L’inconscio non è lingua (codice e struttura)ma linguaggio. E così il cinema.Nolan, poi, imbastisce una struttura complicatissima (bencinque livelli di sogno!) ma trascura la costruzione e i per-sonaggi. Le sequenze d’azione, per esempio, si mettono inevidenza per l’inedito profilmico (il combattimento a gra-vità zero) e non per una messa in scena a dire il vero nonmolto innovativa. Passeranno alla storia ma non la faranno.E a parte Dom Cobb, a cui conferisce vita il solito immen-so Di Caprio (vero plusvalore in senso marxiano), gli altripersonaggi sembrano solo pedoni da disporre sulla scac-chiera della sceneggiatura, ognuno con una funzione inrapporto con l’altro e con l’intera impalcatura dell’intrec-cio. Da ciò deriva la freddezza di Inception: se lo spettatoresi immedesima prima con lo sguardo del regista e poi coipersonaggi, e il primo è anonimo e i secondi meramentefunzionali, non può scattarel’empatia e la fruizione restasolo su un piano intellettuale.Anche il paragone con Ku-brick mi pare abbastanza fuor-viante. È vero, sia Nolan cheKubrick amano i film-cervellochiusi e labirintici, solo che ilprimo semplicemente non si

fida del cinema mentre il secondo vi riponeva una fede tal-mente cieca da investire 12 milioni di dollari, un’enormitàper l’epoca, in un film senza dialoghi come 2001: Odissea

nello spazio. Dov’è il rischio, autoriale e imprenditoria-le, di dirigere un blockbuster da 160 milioni di dollarifacendo esclusivo ricorso alla parola (soggetto, sceneg-giatura e dialoghi), che è l’unica lingua conosciuta dallospettatore medio?E sgombriamo il campo da un altro malinteso. Inception

non è perfetto. Nessun film lo è perché in realtà lo sonotutti: qualcosa di imperfetto necessita di modifiche, soloche – una volta apportate – questo diviene qualcos’altro eil primo resta imperfetto.Allora, non potendo venire modificato, questo qualcosa sa-rebbe già perfetto in sé.Inception, in definitiva, è un insieme strutturato di segni

che non ha altro da comunica-re se non… la propria struttu-ra. Come nel sogno di Cobb:una topografia di grattacielidiroccati che hanno persocompletamente la loro faccia-ta e si erigono in un mondoche non contempla nient’altroche il suo demiurgo.

Fabrizio Attisani

InceptionL’architettura dei sogni

di Fabrizio Attisani

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FotoGrafia Festival Inter-nazionale di Roma, è arri-vato alla sua nona edizio-ne. Il tema scelto que-st’anno è Futurperspecti-

ves ossia: può la fotogra-fia interpretare il futuro?Questa domanda è la co-lonna portante dell’interamostra, che dal 24 settem-bre al 24 ottobre scorso, èstata ospitata al MACRO

– Museo d’Arte Contemporanea Roma, a Testaccio. Mar-co Delogu, direttore artistico del festival, parla di visioni,visionarietà e futuro: tre parole che riecheggiano, con si-gnificati e sfumature diverse, nell’ultima edizione del fe-stival. Qui ci si interroga sugli sviluppi della fotografiacontemporanea; le influenze sul futuro e le sue prospettivesono stati esplorati proponendo in maniera critica le visio-ni dei singoli autori; altrettanta rilevanza è stata attribuitaalla relazione sempre più salda tra la ricerca di libertà, sianell’identità visiva che nel processo produttivo, e la foto-grafia contemporanea. Ad affiancare il direttore artistico,tre curatori: Marc Prust per la sezione fotografia ed edito-ria, Valentina Tanni per fotografia e new media e PaulWombell per fotografia e arte contemporanea. Il primo si èoccupato della mostra Unpublished – Unknow che presen-ta una selezione di lavori ancora non pubblicati. Si può af-fermare che una fotografia vista da nessun altro al di fuoridel fotografo stesso, esista? Più che una mostra di lavorinon pubblicati, si tratta di una mostra di lavori non ancoracompletati. Prust ha selezionato più di novanta progetti didiversi fotografi: Alessandro Gandolfi, Gianfranco Mag-gio, Sergio Ramazzotti, Massimo Mastrorillo, AntoniaZennaro, Anton Kusters, Alessandro Serranò, KosukeOkahara, Donald Weber, solo per citarne alcuni. Anche illavoro di ricerca compiuto da Valentina Tanni cerca di ca-pire qual è il possibile lavoro di interpretazione della foto-grafia sul futuro. Il rapporto tra fotografia e new medianon è definito, ma è al contrario alla ricerca di una propriaidentità e determinazione,proprio perché i confini traquesti due campi non sonopiù individuabili. L’introdu-zione del linguaggio digitale,la possibilità di creare, mani-polare e condividere le im-magini, da una parte portanoalla perdita di immediatezza,al disperdersi della compe-tenza tecnica e linguisticadella fotografia mentre dal-l’altra la potenziano: l’imma-gine fotografica è ovunque,

siamo in una proficua fase di sperimentazione. Questo in-fluenza lo stile e i linguaggi degli artisti, che agevolanol’osmosi tra video, cinema, web, grafica e fotografia. Lamostra si intitola Maps and legends proprio perché vuolemappare questo territorio in continua evoluzione, tracciar-ne la cartografia. Accanto alle mappe, le leggende per de-cifrarle. Nella mostra trovate le gif animate e le fotografienei mondi virtuali, le immagini di Google street view e gliscatti che cambiano in tempo reale con il flusso dei dati.Dieci fotografi, Marco Cadioli, Carlo Zanni, Filippo Mi-nelli, Martijn Hendriks, Harm Van den Dorpel, JustinKemp, Phillip Toledano, Jaime Martìnez, Sascha Poh-flepp, Jon Rafman per una mostra che cerca di scrutare nelfuturo della fotografia. La mostra curata da Paul Wombellè intitolata Bumpy ride. Una fotografia viene spesso guar-data come articolazione di un passato, di una storia. Unavolta scattata, è già ricordo. Ma alcuni fotografi stanno ri-voluzionando questa concezione, realizzando immaginiche guardano in avanti, a un avvenire possibile. CédricDelsaux, Mirko Martin, Kader Attia, Ilkka Halso, PeterBialobrzeski, O Zhang, Ebru Erülkü e Jill Greenberg usa-no il digitale e l’analogico per realizzare immagini che sfi-dano il nostro immaginario. Fantascienza, città dilaniatedalle catastrofi, bambini che piangono in attesa del doma-ni, natura rinchiusa nei musei. Il Festival FotoGrafia haospitato, in anteprima assoluta la nuova produzione delMese Europeo della Fotografia: Mutations 3 – Public ima-

ge, private views, curata da Emiliano Paoletti. Altro ap-puntamento prestigioso è quello con la Commissione Ro-ma, giunto all’ottava edizione, che ogni anno chiede a unfotografo internazionale di ritrarre Roma secondo il suopunto di vista. Tod Papageorge, fotografo americano capo-stipite della Scuola di Yale, è l’artista scelto per questaedizione. Inoltre le più importanti Accademie internazio-nali hanno presentato alcuni progetti realizzati apposita-mente per il festival: L’altro lato a cura di Éric de Chasseydi Philippe Gronon e Petites Histoires di Agnès Geoffray,presentata all’Accademia di Francia a Roma; A question

of time a cura di Alessandra Capodiferro, Lavinia Ciuffa eMarco Delogu, presentata all’American Academy in Ro-

me; Zoo di Carlos Abalá eIgnasi López, presentata allaReale Accademia di Spagna.Infine, è stato esposto il vin-citore del Premio Libro 2009,Deformer di Ed Templeton.Un festival ricco e articolato,che offre diversi spunti di ri-flessione. Neil Leifer, foto-grafo statunitense diceva:«La fotografia non mostra larealtà, mostra l’idea che sene ha». Qual è la vostra ideadi futuro?

FuturperspectivesFotoGrafia Festival internazionale di Roma: è di scena il futuro

di Sarah Proietti

Sarah Proietti

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«Una visione del futurosenza compromessi» cosìrecitava nel 2006 la lo-candina di V per Vendetta,

il lungometraggio scrittodai fratelli Wachowski,ispirato al fumetto omoni-mo di Alan Moore, in cuila celebre coppia di sce-neggiatori si inventaun’Inghilterra proiettatain un futuro molto prossi-

mo, sottomessa a un regime dittatoriale molto simile nel-l’atteggiamento ai totalitarismi europei del XX secolo eche evoca in più passaggi gli scenari di 1984 di GeorgeOrwell. Proprio la scelta di un futuro che é quasi contem-poraneità e gli innumerevoli riferimenti, anche filmati, afatti storici o episodi realmente accaduti in passato contri-buiscono a dare al tutto una patina che appare via viasempre meno favolosa e sempre più storica, slegandoquella visione senza compromessi dello slogan da un vin-colo puramente artistico e conferendogli un’atmosfera diserietà che spinge il pubblico, inevitabilmente, a chiedersise lo scenario prospettato non possa, a tratti, diventarerealtà in un periodo storico-politico come quello attuale.A ben guardare, in effetti, le analogie si trovano; non chesi siano instaurate di nuovo dit-tature o vi siano in giro organidi polizia politica come i “ca-stigatori” a fare piazza pulitadei non affiliati al potere; l’Al-to Cancelliere Sutler e il male-fico signor Creedy, l’uomo deicappucci neri, li lasciamo an-cora alla pellicola; potremmoavvertire però una certa corri-spondenza di scenari se pensia-mo al personaggio forse piùsgradevole per aspetto e storia,sul volto del quale si apre ilfilm: Lewis Prothero, la “vocedi Londra”, ex comandante im-piegato nei campi di concentra-mento, divenuto uomo di pri-mo piano del regime e volto te-levisivo per eccellenza, l’incar-nazione stessa del mezzo:«L’Inghilterra domina perchélo dico io!» urla ad un suo col-laboratore in una scena, minac-ciando di licenziarlo.L’intera sceneggiatura gira in-torno all’importanza fonda-

mentale che i media hanno nell’instaurazione e soprattut-to nel mantenimento di una forma di potere autoritaria, ilpartito di Sutler è salito al potere, come dice anche V, in-fondendo nella popolazione la paura di epidemie, attentatie pericoli imminenti per la nazione, e proclamandosi co-me l’unico in grado di fronteggiarle. La paura é la cartavincente, e quando Prothero viene ucciso da V, nel film,l’intero stato maggiore del regime è in allarme; il respon-sabile della propaganda Dascomb sulla scena del delitto:«... la perdita della voce di Londra potrebbe essere deva-stante per la nostra credibilità», e ancora dopo la distru-zione del vecchio Bailey: «... il nostro compito è riferirele notizie, non fabbricarle, quello é compito del gover-no». Ed è ancora con un messaggio televisivo che V ap-pare la prima volta in pubblico per spiegare il suo obbiet-tivo e chiamare a raccolta gli inglesi sotto il palazzo delparlamento che avrebbe fatto esplodere. Se i media sonocentrali nelle meccaniche del film il protagonista non po-teva che risultare il personaggio mediatico per eccellenza,essendo lui paradossalmente un fuggitivo, un clandestino,un uomo di cui persino l’identità é sconosciuta, ma che sirende noto nel suo anonimato. V usa la violenza, ma solocontro quei personaggi che lo “meritano”, verso i qualianche il pubblico farebbe lo stesso, diventando così eroee anti-eroe allo stesso tempo. Il suo parlare per citazionicolte, la sua fermezza di voce e la sua linearità di pensie-

ro quasi ostentata stridono siacon i tratti dei personaggi delregime, sottolineandone la bru-talità e l’incapacità di agire senon con la forza, sia con quellidi Evey, che accompagna in unpercorso di crescita personalea tratti sereno, a tratti tragico.Non é un rivoluzionario cheagisce con la forza bruta, nonè un macho, è astuto e intelli-gente; il messaggio che arrivachiaro al pubblico è quello diavere sempre una propria co-scienza critica e capacità dianalisi, non solo di ciò che civiene proposto dai media, madel mondo in cui ci muovia-mo, in generale. E alla finedella pellicola, osservando ilparlamento inglese che esplo-de, se ci si sta ancora chieden-do se Sutler e Creedy nonpossano, a tratti, diventarerealtà, forse ci si può rispon-dere che dipende solo edesclusivamente da noi.

Non tutte le profezie (non) si avverano«A dire la verità, se cercate un colpevole, non c’é che da guardarsi allo specchio»

di Francesco Martellini

Francesco Martellini

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Israele come tutte le na-zioni ha fondato la pro-pria esistenza su una pro-gressiva conquista dellalegittimità. Il processo diconsolidamento dello sta-to ebraico rimane ancoraoggi incompleto poichétrova un’opposizioneconsistente da parte diforze interne ed esterne,le quali minacciano lacomposizione territoriale

e mettono in discussione la sovranità della nazione.La definizione e la portata delle minacce sono per DavidMeghnagi le sfide cui lo stato deve rispondere per garan-tire la sicurezza dei cittadini e portare a compimento ilsogno dei padri fondatori, ossia quello di vivere in unpaese libero, democratico e tollerante, dove le diversitàetniche e religiose costituiscano una ricchezza socio-cul-turale e non il pretesto per una disintegrazione reciproca.Soffermandosi sugli aspetti politici e sociali che determi-nano la competizione tra il popolo ebraico e quello ara-bo, l’autore dimostra come la violenza non scaturisca dacontingenze recenti, ma comel’aggressività cui assistiamo siapiuttosto il canale di sfogo di ri-sentimenti reciproci covati dallamemoria sociale, nel corso deisecoli. Emerge dal libro la visio-ne di un popolo ebraico supersti-te, sempre ingaggiato in una lot-ta per la sopravvivenza che hadovuto combattere senza alleati.La diaspora ha vissuto il dram-ma delle persecuzioni e dei di-ritti negati, languendo nei tor-menti di un estenuante esposi-zione alla violenza strutturale efisica. La condizione di preca-rietà e pericolo ha infuso nellacomunità una sensazione dipaura che ha pervaso l’esperien-za collettiva di generazione ingenerazione.Questo sentimento continua aperseguitare gli ebrei d’Israele.Il conflitto contro i vicini paesiarabi é latente dal 1948. La ca-denza sporadica degli attacchi e

il modo indiscriminato con cui vengono messi a segnorendono tutti i cittadini dei potenziali bersagli. Secondol’autore, il bisogno di protezione ha indotto il governodi Tel Aviv a intraprendere azioni di sicurezza preventi-va e a dotarsi di un arsenale capace di annientare il ne-mico al primo segno di ostilità.Alle minacce di "teatro" si aggiunge la retorica di gruppipoliticizzati dell’Occidente. Un amalgama eterogeneosul quale pesa la crisi ideologica della politica occiden-tale, accusa lo stato israeliano di essere il principale re-sponsabile delle tensioni tra Occidente e Islam. Parados-sali argomentazioni di un razzismo che inverte la suarotta, hanno risvegliato un antisemitismo che trascende icircoli dell’estrema destra.Uno dei casi più eclatanti citati da Meghnagi é quellodella Fiera del libro di Torino del 2008, con le polemi-che che ne seguirono per la scelta di Israele come paeseospite da parte degli organizzatori.Israele é l’avamposto dell’Occidente in una regione do-minata dalla cultura islamica. Arabi e ebrei, israeliani epalestinesi sono «condannati come separati in casa acondividere i pochi spazi a disposizione».Questa affermazione dell’autore ci fa supporre che gliindividui percepiscono la convivenza sotto forma di pe-

na alla quale non possono sot-trarsi.Come ci fa riflettere Meghnagi, itentativi di imporre una pace ba-sata solo su compromessi diplo-matici, tendono a fallire poichél’azione dei radicalismi politici edei fondamentalismi religiosi de-stabilizza continuamente i fragiliequilibri raggiunti.Diviene quindi imperativo con-cepire una pace implementatadall’azione collettiva, basata sul-la riconciliazione e la capacità diperdonare l’altro.Non possiamo rassegnarci allaspettrale immagine di un futuroperseguitato dai fantasmi e perciò impegnato a rivendicare ilpassato come un cane che cercadi mordersi la coda.Uno scenario simile sarebbe unavorticosa discesa nell’abisso diun conflitto viscerale. Un con-flitto in grado di fagocitare per-sone, idee, nazioni e popoli.

«Chi vive in un’isoladeve farsi amico il mare»Con Le sfide di Israele David Meghnagi ci regala un nuovo, prezioso contributosul conflitto arabo-israeliano

di Fabio Bego

Fabio Bego

Page 71: Roma Tre News 3/2010

Quelli che sul futuro si erano sbagliati….

Anche quest’anno, con l’inizio della stagione teatrale ha riaperto il servizio di biglietteria Agis all’interno del nostroAteneo. La biglietteria teatrale è parte integrante del più ampio progetto Teatro trenta... e lode!, voluto e sostenuto daRegione Lazio, Provincia di Roma e Comune di Roma d’intesa con i tre atenei romani La Sapienza, Tor Vergata e RomaTre. Il progetto, al quinto anno di vita, vuole avvicinare segmenti della realtà culturale cittadina e agevolarne lo scam-bio, facilitando l’accesso della popolazione universitaria ai luoghi dello spettacolo e invitando gli artisti presenti sullapiazza romana ad incontrare gli studenti e i docenti del nostro Ateneo. Il servizio, la cui sede a Roma Tre è al piano terradi via Ostiense 169, si rivolge agli studenti e al personale dell’Ateneo con una rete di convenzioni che raccoglie quasitutti i teatri romani. I biglietti si acquistano presso il botteghino (mart. - merc. - giov. 13.00-16.00; tel. 06.57332243;[email protected]; www.spettacoloromano.it) con riduzioni che vanno dal 20 al 50%. Il servizio emette anchebiglietti a prezzo intero per gli accompagnatori degli studenti e del personale che non abbiano diritto alla riduzione.Un capitolo a parte merita Un abbonamento per tutti, uno strumento dinamico ed economico che permette al pubblicoromano di assistere a 12 spettacoli, scegliendoli tra i ben 150 che 36 teatri romani e 4 teatri della regione propongono,al costo di soli 96 euro, più 3 di prevendita.

Teatro 30 e lode... a Roma Tre

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«Le televisione è tecnicamente possibile. Ma commercial-mente è una perdita di tempo»(Lee De Forest, scienziato e inventore statunitense, pio-niere della radio, 1926)

«Cartoni animati con un topo? Che idea orribile: terroriz-zerà tutte le donne incinte»(Louis B. Mayer, capo della Metro Goldwyn Mayer, rifiu-tando il personaggio di Topolino nel 1928)

«L’auto rimarrà sempre un lusso per pochi»(The Literary Digest, 1899)

«Quando l’Esposizione di Parigi sarà finita, la luce elettri-ca avrà chiuso e non ne sentiremo più parlare»(sir William James Erasmus Wilson, presidente dello Ste-vens Institute of Technology, 1879)

«Che bisogno ha una persona di tenersi un computer incasa?»(Kenneth Olsen, ingegnere statunitense, cofondatore dellaDigital Equipment Corporation, 1977)

«Pensare di attraversare l’Atlantico con una nave a vaporeè come pensare di andare sulla Luna: una follia»(Dyonisus Lardner, docente di filosofia naturale e astrono-mia presso lo University College di Londra,1838)

«È impossibile che qualcosa più pesante dell’aria possavolare»(Lord William Thomson Kelvin, fisico irlandese, presi-dente della Royal Society britannica, 1895)

«La fotografia durerà poco, per l’evidente superiorità dellapittura»(Le Journal des savantes, 1829)

«Penso che nel mondo ci sia mercato forse per quattro ocinque computer»(Thomas Watson, presidente della IBM, 1943)

«La bomba atomica non esploderà mai. Parlo come esper-to di esplosivi»(William Daniel Lehay, ammiraglio statunitense, 1945)

«L’ipotesi di viaggi nello spazio è una totale assurdità»(Richard van der Riet Woolley, astronomo inglese, 1956)

«Scavare sotto terra per cercare petrolio? Siete pazzi?»(gli esperti della compagnia mineraria consultata da Ed-win Laurentine Drake per il primo progetto di trivellazio-ne petrolifera, 1859)

«In futuro un computer potrà forse pesare non meno di 1,5tonnellate»(Usa Popular Mehanics, 1949)

«Gli aerei non andranno mai veloci come i treni»(William Henry Pickering, astronomo statunitense, 1908)

«I treni ad alta velocità sono impossibili: i passeggeri nonpotrebbero respirare e morirebbero di asfissia»(Dyonisus Lardner, docente di filosofia naturale e astrono-mia presso lo University College di Londra, 1856)

«Il microchip: ma a che serve?»(un ingegnere della IBM, 1968)

«La clonazione di un mammifero è impossibile: sia oggi,sia in futuro»(Michael A. Froham, biologo della State University diNew York, 1993)

«Il Sole non gira attorno alla Terra? Folle, eretico, assurdoe falso»(Tribunale dell’Inquisizione sulle teorie di Copernico eGalileo, 1616)

«Il rock’n’roll morirà entro giugno»(Variety, 1954)

Page 72: Roma Tre News 3/2010

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