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RIVISTA QUADRIMESTRALE - ANNO XIX NUOVA SERIE - N. 56 - SETTEMBRE-DICEMBRE 2005

RIVISTA QUADRIMESTRALE - ANNO XIX NUOVA SERIE - N. 56

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RIVISTA QUADRIMESTRALE - ANNO XIXNUOVA SERIE - N. 56 - SETTEMBRE-DICEMBRE 2005

Pubblicazione quadrimestrale promossa dal Dipartimento di filosofia eScienze sociali dell’Università degli Studi di Lecce, con la collaborazione del“Centro Italiano di Ricerche fenomenologiche” con sede in Roma.

Questa rivista si pubblica anche con i contributi del M.I.U.R., attraverso ilDipartimento di Filosofia e Scienze sociali dell’Università degli Studi di Lecce,e dello stesso Dipartimento.

Direttore responsabile: Giovanni Invitto

Comitato scientifico: Angela Ales Bello (Roma), Angelo Bruno (Lecce),Antonio Delogu (Sassari), Giovanni Invitto (Lecce), Aniello Montano (Salerno),Antonio Ponsetto (München), Mario Signore (Lecce).

Redazione: Doris Campa, Raffaele Capone, Maria Lucia Colì, Daniela De Leo,Lucia De Pascalis, Alessandra Lezzi, Giorgio Rizzo.

Comitato Scientifico e Segreteria hanno sede presso il Dipartimento di Filosofiae Scienze sociali, Università degli Studi - Via M. Stampacchia - 73100 Lecce - tel.(0832) 294627/8; fax (0832) 294626. E-mail: [email protected]

Amministrazione, abbonamenti e pubblicità: Piero Manni s.r.l., Via UmbertoI, 51 73016 San Cesario di Lecce - Tel. 0832/205577 - 0832/200373. Iscritto aln. 389/1986 del Registro della Stampa, Tribunale di Lecce. Abbonamentoannuo: Italia t 25,00, Estero t 35,00, c/c postale 16805731 intestato a PieroManni s.r.l., Lecce. L’abbonamento, in qualunque mese effettuato, decorre dagennaio e dà diritto a ricevere i numeri arretrati dell’annata.

Un fascicolo t 10,00, degli anni precedenti il doppio.

Stampato presso Tiemme - Mandurianel settembre 2005 - per conto di Piero Manni s.r.l.

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SOMMARIO

5Luigi Longhin – Maurizio Zani

ANTROPOLOGIA FILOSOFICA E ANTROPOLOGIA PSICOANALITICA: SULL’INTENZIONALITÀ

18Daniela De Leo

MICHELSTAEDTER E NIETZSCHE: L’UMWERTUNG DELL’IMPERATIVO KANTIANO

34Isabella Aguilar

LA ROSA SENZA PERCHÉHEIDEGGER E LA QUESTIONE DEL VIVENTE

57Giovanni Borgo

CRISTIANESIMO E CULTURA DELLA LIBERTÀ IN PAREYSON

74Augusto Ponzio

LA TRANSIZIONE DELLA CULTURA ITALIANA NELLA COMUNICAZIONE GLOBALESu alcune riflessioni di Tullio De Mauro

Pier Paolo Pasolini, Ferruccio Rossi-Landi

86Spartaco Pupo

LA CONOSCENZA COME “COMPRESENZA” DI FINITI NEL REALISMO DI SAMUEL ALEXANDER

94Graziella Morselli

LE PASSIONI TRA ETICA E POLITICA.ANTIGONE NELLA LETTURA DI FRANCESCA BREZZI

101Sandro Ciurlia

INDIVIDUALISMO ED UNIVERSALISMO NEL PRIMO LEIBNIZ

113Cecilia Gazzeri

PENSIERO, PAROLA, CORPOREITÀ: UN NESSO IDEOLOGICO-SENSISTA NELLA FILOSOFIA

DEL LINGUAGGIO DI GIACOMO LEOPARDI

124Lucia Angelino

MERLEAU-PONTY/MELANIE KLEIN: PROPOSTA DI UN CONFRONTO

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NOTE PER GLI AUTORI

I contributi vanno inviati alla Direzione di “Segni e comprensione” c/o Dipar-timento di Filosofia e scienze sociali – Via V. M. Stampacchia 73100 Lecce. Itesti debbono essere inviati in duplice copia, su carta formato A4, dattiloscrittasu una sola facciata, a doppia interlinea, senza correzioni a mano. Ogni cartel-la non dovrà superare le duemila battute. Il testo deve essere inviato assoluta-mente anche su “floppy disk”, usando un qualsiasi programma che, però, dovràessere indicato (Word, Windows, McIntosh). Il materiale ricevuto non verràrestituito.

Per la sezione “Saggi” i testi non dovranno superare le venti cartelle com-prese le note bibliografiche, per la sezione “Note” non dovranno superare lesette cartelle, per la sezione “Recensioni” e “Notizie” le tre cartelle.

Si raccomanda che i titoli siano brevi e specifici. La redazione si riserva ildiritto di apportare eventuali modifiche, previa comunicazione e approvazionedell’Autore.

Agli Autori saranno inviate tre copie del fascicolo in cui appare il loro lavoro.

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132Nunzio Bombaci

SAVIGNANO LETTORE DI MARÍA ZAMBRANO

140Piero Venturelli

DEMOCRAZIA PLURALISTICA E SOCIETÀ GLOBALE IN MICHAEL WALZER

144Gaetano Scatigna Minghetti

ORONZO SUMA 1880-1954. UNA TESTIMONIANZA

146Antonio Stanca

PIERRE LEROUX E GEORGE SANDLa filosofia e la letteratura “de l’humanité”

150Santo Arcoleo

LA FILOSOFIA: SETE DI VERITÀ E FORMAZIONE INTEGRALE DELL’UOMONota sul pensiero di Maria Teresa Antonelli

160Recensioni

184Libri ricevuti

ANTROPOLOGIA FILOSOFICA E ANTROPOLOGIAPSICOANALITICA: SULL’INTENZIONALITÀ

di Luigi Longhin – Maurizio Zani

La psicoanalisi ha sviluppato percorsi interpretativi dell’intenzionalità chenon di rado la mettono in rotta di collisione con le teorie dell’intenzionalitàofferte dalla tradizione filosofica (Agazzi, 1976, 1985a, 1985b). Il presentelavoro cerca di tracciare le grandi linee di demarcazione che segnano que-sta differenza. Non potendo prendere in esame e confrontare in questa sedetutti gli indirizzi teorici che contrassegnano le letture dei fenomeni intenzio-nali condotte in un’ottica filosofica e in una prospettiva psicoanalitica, ci limi-teremo a individuare solo alcuni luoghi problematici salienti che possano fun-gere da ancoraggio per cogliere, almeno nei loro tratti essenziali, le diver-genze tra i due piani disciplinari.

Filosofia, psicoanalisi e fenomeni intenzionali

A prescindere dalle macroscopiche divergenze teoriche che contrassegna-no i modelli di intenzionalità consegnatici dalle due grandi correnti interpretati-ve presenti nella tradizione filosofica, quella fenomenologia e quella espressadalla “svolta linguistica” (sulle cui divaricazioni teoriche cfr. Gozzano, 1997), sipuò affermare, a grandi linee, che entrambe concettualizzano l’intenzionalità inbase a un comune presupposto: l’idea di un Io o di un Sé già compiuti, privi diparti interne, dunque monolitici, i quali si relazionano a degli oggetti intenzio-nali indipendenti dalla coscienza individuale (oggetti astratti nel caso dellafenomenologia e proposizioni nel caso della filosofia analitica) (Longhin, 1992;Zani, 2000). Posta in questi termini pregiudiziali la questione dell’intenzionalitàdiventa il problema di come una coscienza individuale dai contorni chiaramen-te definiti o puntualmente definibili (almeno in linea di principio) esercita la suacapacità di rappresentarsi individui, eventi, accadimenti interiori e di pianifica-re azioni. Quale che sia la caratterizzazione dell’intenzionalità, essa comunqueesprime l’attività funzionale e relazionale di una mente priva al suo interno dizone intermedie in cui i confini tra il Sé e non-Sé sono saldamente pre-defini-ti, in cui non si danno contenuti intenzionali a carattere concettuale dei qualinon siano predicabili giudizi di verità o di falsità. Sotto condizioni normali, entroquesto duplice orizzonte teorico (fenomenologico e analitico), ciò che è il non-Sé risulta collocato “fuori dal Sé”, mai alla “periferia del Sé”. Non appare infat-ti plausibile –diversamente dalla psicoanalisi– distinguere gradi di identità delSé tali da poter ammetterne, per esempio, una discriminazione tra aree dispo-ste in rapporto a un nucleo centrale da cui si diramano settori concentrici il cuigrado di lontananza corrisponde simmetricamente al livello di intensità del

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senso di identità personale. La trasparenza del Sé, quanto meno a un acces-so di terza persona, –assunto comunque rigettato dalla psicoanalisi– compor-ta la trasparenza dell’intenzionalità e dei suoi oggetti. L’intenzionalità non hapertanto bordi incerti, frastagliature o frange opache.

In un orizzonte fenomenologico o analitico, non meno accettabile apparela prospettiva –di cui la psicoanalisi si è fatta portavoce– che accredita una nor-male oscillazione tra i diversi livelli di intensità dell’identità personale. Se ciòfosse ammissibile, allora si dovrebbe presumere che ne derivi una alternanzadi gradi di identità del Sé, una sua eventuale frammentazione o comunque unasua non operatività funzionale. Analogamente, non sembra acquisibile l’idea diflussi di coscienza che, attraverso una miscelazione continua dei loro contenu-ti e una modulazione di intensità affettiva su una scala qualitativa, promuova-no un’identità del Sé dotata di una certa fluidità interna. Ciò sembrerebbeminare pericolosamente l’idea, ancora persistente ed ereditata per mille cana-li dalla tradizione descartesiana, di un “Quartiere Generale centrale” (per dirlacon Dennett, 1993, pp. 284-285) quale matrice di tutti gli atti intenzionali.

Ancor meno accreditabile è l’idea, che alberga invece in molte riflessionipsicoanalitiche, di un Sé che si ponga all’infuori dei “confini” del proprio corpoe/o della propria mente in virtù di processi proiettivi ovvero quella di un Sé chesi osservi come un oggetto estraneo o che si viva come un oggetto pericolo-so o perturbante capace di inibire o limitare la normale attività intenzionale delsoggetto. La premessa implicita che regola questo atteggiamento filosofico dichiusura verso ciò che appare anomalo rispetto a degli standard condivisi di“normalità” consiste nell’assumere come modello di indagine dell’intenzionali-tà un soggetto adulto dotato di una mente non affetta da patologie che riguar-dano la sfera dell’affettività. La filosofia, in altre parole, in questo in linea conla scienza cognitiva, ritiene di norma che la disamina dei modi distorti di ope-rare dell’intenzionalità in ambito affettivo non sia rilevante ai fini della caratte-rizzazione dei processi mentali. Essa è disposta a prendere in considerazio-ne casi di acrasia, circostanze in cui, cioè, una scelta viene condotta in con-trasto con prove ed evidenze che depongono a favore di un’alternativa miglio-re (Searle, 2003) oppure, e più diffusamente, casi di frammentazione dellaconsapevolezza del soggetto ovvero di dissociazione della personalità (DiFrancesco, pp. 51-53). Tuttavia, non è orientata a fare tesoro di questa e simi-li incongruenze intenzionali fino a spingersi a investire le patologie dei vissutiaffettivi di una dignità cognitiva.

Gli stati intenzionali, tematizzati entro un orizzonte filosofico, non sono inlinea di massima dotati storia (se non evolutiva, in senso biologico, cfr. peresempio: Dennett, 2004). Il problema della loro genesi e della loro trasforma-zione in rapporto all’esperienza pertanto non risulta particolarmente rilevante.Se lo fosse, allora, si incapperebbe in ciò che si intende accuratamente evita-re: lo “psicologismo”. Gli atti intenzionali presentano dunque una struttura giàcodificata e non possono soffrire di alterazioni nel tempo.

Scarsamente significativa si presenta anche la questione della continuaricategorizzazione dei contenuti intenzionali. Si tratta cioè della circostanza,per cui essi, per esempio quelli mnestici, sono sottoposti a una continua riela-

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borazione che ne muta la configurazione concettuale e affettiva tale da altera-re i modi di operare degli atti intenzionali corrispondenti. L’accettazione di unsimile punto di vista, peraltro acquisito dalla psicoanalisi fin dai suoi primi passifreudiani, può implicare, in effetti, che l’immagine autoriflessiva di noi stessi siasottoposta alla varianza delle narrazioni che il soggetto cerca di mettere insie-me al fine di definire la propria identità.

Infine, le relazioni interattive tra intenzionalità, cioè gli incontri tra intenzio-nalità che promanano da diverse coscienze individuali, mantengono salde ledifferenziazioni individuali di coscienza. In altre parole, i modi funzionali di ope-rare delle singole intenzionalità che si confrontano non sono suscettibili dimodificazioni sostanziali e durature. Ciò implicherebbe mettere in gioco speci-ficità psicologiche di operare della mente e, implicitamente, porsi la questionedegli eventuali apporti epistemici che la psicologia, e non da ultimo la psicoa-nalisi, può fornire alla filosofia (Zani, 2000).

Solo per ciò che concerne il problema dell’individuazione del contenutodegli stati intenzionali altrui si è fatto talora appello a una nozione psicologica,quella, di empatia (si veda, per esempio, Goldman, 1992; Darwall, 1998; ecc.),sulla scia di ricerche condotte su questo tema dalla scienza cognitiva. Tuttavia,alcuni fondamentali risvolti mentali, per esempio in termini di decentramento diparti del Sé e di un eventuale depauperamento o potenziamento dell’identitàpersonale, non sembrano comunque essere stati oggetto di una particolareattenzione filosofica (Zani, 1998)1.

2. Intenzionalità e identità personale

In ambito fenomenologico, l’applicazione di procedure empatiche a finicognitivi ed euristici ha trovato un luogo privilegiato nella Quinta delle Medita-zioni cartesiane di Husserl (Husserl, 1960). Altri filosofi di tradizione fenomeno-logica, quali M. Scheler (1980, pp. 52 sgg.), M. Merleau-Ponty, (1945) nehanno approfondito alcuni aspetti; in ambito analitico, tramite il “principio dicarità” tematizzato da W.V.O. Quine (Quine, 1960, par. 45; Quine, 1992, pp.66, 72) e da D. Davidson (Davidson, 1994) l’empatia ha fatto la sua ricompar-sa come regola interpretativa degli stati e dei contenuti intenzionali delle altrementi. Tuttavia, nonostante queste specificazioni “psicologiche”, benché alcu-ni, come Searle (Searle, 1985) parlino di differenti “modi psicologici” dell’inten-zionalità, il quadro complessivo della problematica dell’intenzionalità, tuttavia,non sembra essenzialmente lontano dai tratti che sono stati sopra delineati(Zani, 2005). Il discorso sull’intenzionalità sviluppato entro una prospettiva psi-coanalitica, segna, a questo riguardo una marcata distanza.

Innanzi tutto, il correlato profondo dell’intenzionalità, ossia il Sé, non si pre-senta come un tutto omogeneo. La psicoanalisi, soprattutto quella di matricekleiniana, ha fornito diverse versioni dell’idea di una molteplicità di parti del Sé.Di particolare interesse appare, per esempio, la recente tematizzazione offer-tane da Mancia (Mancia, 2004). A suo avviso il Sé risulta suddiviso in due

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nuclei: un nucleo inconscio non suscettibile di rimozione (“inconscio non rimos-so”) e un nucleo che può andare incontro a rimozione Su questi due nuclei sifondano e si articolano e interagiscono mutuamente parti del Sé riconducibili aimmagini genitoriali interiorizzate.

In linea di massima, la psicoanalisi assume che il grado di unità sistemica diqueste parti (quale ne sia la formulazione teorica) non è mai dato a priori, bensìè il frutto di circostanze, non di rado casuali, che contrassegnano le esperienzebiografiche del soggetto. Le diverse forme di intenzionalità che ne derivano (scis-sione, identificazione proiettiva, introiezione, ecc.) costituiscono funzioni dei modiin questa aggregazione sistemica di parti si è venuta configurando nel tempo.L’intenzionalità non è dunque data a priori, cioè fondata originariamente su basitrascendentali (per dirla con Husserl). Essa è sottoposta a continui ridimensiona-menti che ne inficiano la “purezza”. L’“originario”, inoltre, non è, almeno in lineadi principio, pienamente trasparente all’analisi linguistica dal momento che la psi-coanalisi (soprattutto quella di derivazione kleiniana) mette in gioco una dimen-sione pre-linguistica costitutiva del Sé. L’architettura strutturale dell’intenzionalitàe quella del linguaggio non possono pertanto confondersi né sovrapporsi, come,ad esempio, pensa Searle (Searle, 2003).

3. Molteplicità degli stati intenzionali scoperti in sede psicoanalitica. Il caso del-l’identificazione proiettiva

La psicoanalisi privilegia dunque tipi di intenzionalità non presi in conside-razione dalla tradizione filosofica in quanto legate a esperienze inconsce pre-coci di cui di norma si è disinteressata la filosofia. Tali esperienze devono esse-re considerate rilevanti in quanto danno forma a una specifica organizzazionedel Sé e a una conformazione particolare dei modi di esplicazione dell’inten-zionalità. Per esempio, nel caso di violenze o di un eccesso di frustrazioni, diincomprensioni ecc. finiranno con il prevalere atteggiamenti intenzionali acarattere difensivo contrassegnati da patologie relazionali contrassegnate daun uso distorto di quelle forme di intenzionalità scoperte dalla psicoanalisi, eda queste tematizzate sotto i titoli di scissione, identificazione proiettiva, nega-zione, idealizzazione (Longhin, 1992).

Per ragioni di brevità, tuttavia, ci limiteremo a tratteggiare una di questeforme, quella codificata sotto il nome di identificazione proiettiva, oggetto diindagine soprattutto entro la cornice del setting e considerata come una dellemaggiori scoperte della psicoanalisi dopo quella dell’inconscio (Mancia, 2004;Grotstein, 1983). “Identificazione proiettiva” fa riferimento a un processo men-tale inconscio di espansione del Sé del paziente (Grotstein, 1983; Rosenfeld,1965; Money-Kyrle, 1978; Ogden, 1979, 1982) articolato su tre aspetti: i) unelemento del Sé è ripudiato e proiettato in un altro (analista); ii) il paziente cheproietta compie una pressione interpersonale che costringe l’analista all’iden-tificazione inconscia con ciò che è stato proiettato; iii) l’analista che riceve laproiezione contiene ed elabora, al fine di “bonificarli”, i contenuti proiettati ecosì favorisce la reintroiezione da parte del paziente nella forma modificata.

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4. Identificazione proiettiva e interpretazione

L’importanza della scoperta da parte della psicoanalisi di questa forma diintenzionalità inerisce a tre circostanze. La prima, va relativa alla specificamodalità operativa di questo tipo di intenzionalità il cui esplicarsi in riferimentoa un oggetto induce nello stesso tempo una modificazione inconscia dellanatura di questo (sia nel senso di un cambiamento a livello immaginativo ereale della sua identità, sia in quello di una pressione su di esso). La seconda,attiene al fatto che questo tipo di intenzionalità è legata alla fantasia inconsciadi liberarsi di una parte di sé, cioè a una trasformazione del vettore stesso del-l’intenzionalità, ossia il Sé. La terza, che tale atto intenzionale segue un per-corso di “andata-e-ritorno”, nel senso che torna alla sua fonte dopo aver subi-to una significativa trasmutazione.

Infine, la rilevanza di tale scoperta anche dalla circostanza che essa mettetipicamente in luce alcuni caratteri specifici dell’interpretazione dei contenutiintenzionali condotta dalla psicoanalisi. Balza subito agli occhi che, nella cor-nice del setting, l’“interpretare” implica un “modificare”. Tale cambiamento nonsi limita alla semplice manipolazione da parte dell’analista delle resistenze delpaziente, come pensano, per esempio, P. Ricoeur (Ricoeur, 1965, pp. 437sgg.) o, in un ambito teorico non ermeneutico, A. Grünbaum2 (Grünbaum,1985, 1988, 1993). L’interpretazione, infatti, comporta sul versante dell’anali-sta, da una parte, accoglienza dei contenuti proiettivi (l’analista ne diventa il“contenitore” attivo), dall’altra, una loro rielaborazione controtransferale al finedi permettere al paziente la loro introiezione una volta privati delle loro caricheaffettive “negative” (in termini di angoscia, paura ecc.). Inoltre, l’interpretazionepsicoanalitica mira a recuperare unificare elementi dispersi della mente delpaziente (contenuti mnestici, fantastici, simbolici ecc.) che senza di essa per-marrebbero in uno stato frammentario. In questo senso, “interpretare” equiva-le in qualche misura anche a “comunicare”. Il contesto interattivo della comu-nicazione si definisce, infatti, sia sotto l’egida di un’espansione del Sé da partedel paziente, di cui l’identificazione proiettiva costituisce un importante indizio,sia sotto il segno di un atteggiamento intrusivo da parte del paziente nella per-sona fantasmatica dell’analista.

5. Ermeneutica filosofica ed ermeneutica psicoanalitica

L’interpretazione psicoanalitica non segue, pertanto, una traiettoria linearecome quella postulata dall’ermeneutica filosofica. Quest’ultima, peraltro, assu-me (differenziandosi ulteriormente da quella psicoanalitica) come postulato irri-nunciabile la compattezza dell’Io dell’interprete e, nel caso di un contestocomunicativo plurimo (stile Habermas, per esempio; Habermas, 1986), l’unita-rietà dei Sé che concorrono comunicativamente nella formulazione dell’inter-pretazione (Longhin, 1992, pp. 108-110).

Qualche pur breve nota merita il rilievo delle ulteriori differenze che marca-no le posizioni di due degli esponenti più in vista dell’orientamento ermeneuti-

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co che si sono interessati dello statuto epistemologico della psicoanalisi: P.Ricoeur e A. Lorenzer3.

L’impostazione data da Ricoeur alla questione dell’interpretazione psicoa-nalitica discende da come, a suo avviso, l’intenzionalità viene concepita dallapsicoanalisi. Egli pensa (con esclusivo riferimento a Freud) che la radice ulti-ma dell’intenzionalità vada identificata nell’istinto (Ricoeur, pp. 151 sgg.). Per-tanto, ogni atto intenzionale (per esempio la rimozione) si configura come unodei modi attraverso cui l’istinto si dota di una forma mentale. A questo punto,l’interpretazione non può che combinare un’istanza “energetica” (ponderazio-ne del ruolo dell’istinto in ogni attività mentale inconscia e conscia) conun’istanza ermeneutica (la valutazione delle funzioni intenzionali e dei lorocontenuti) (Buzzoni, 1989, pp. 78-91). Una simile lettura dell’intenzionalità, laquale ne valorizza la matrice biologica senza tuttavia offrire una qualche ipote-si comprovabile dei modi in cui il biologico viene trascritto in termini mentali,conduce implicitamente a un risultato sicuramente non voluto da Ricoeur: quel-lo cioè di fornire un implicito sostegno teorico a chi vorrebbe fare della neuro-fisiologia il tribunale ultimo di ogni giudizio sull’intenzionalità. La psicoanalisirimarrebbe pertanto confinata a un ruolo analitico secondario.

Lorenzer, a sua volta, fonda l’interpretazione psicoanalitica dei contenutiintenzionali sul ruolo centrale delle procedure metodiche empatiche utilizzatedall’analista al fine di pervenire alla comprensione dei vissuti profondi delpaziente (Lorenzer, 1970, 1977). L’esclusiva valorizzazione della funzionemetodica assolta dall’empatia comporta, tuttavia, una sottovalutazione del ruoloattivo svolto dall’analista nel setting. Questi è colto soprattutto nel ruolo di inter-prete (Buzzoni, 1989, pp. 58-78) e non in quello di fattore attivo di trasformazio-ne delle proiezioni del paziente inerenti parti del Sé, come vuole la psicoanalisipost-freudiana4. Il Sé postulato da Lorenzer è, infatti, ancora, tutto sommato, unSé dotato di una struttura verticale su due livelli (il conscio e l’inconscio), ma nonarticolato su parti (gli “oggetti interni” della tradizione kleiniana) che sono esse-re suscettibili di identificazione proiettiva. Infine, il tentativo di giustificare episte-mologicamente il valore cognitivo dell’interpretazione psicoanalisitca appog-giandosi, a titolo di supporto, all’indagine dell’ontologia sociale dei pazientiincorre nel rischio (analogo a quello di Ricoeur) di fondare il valore interpretati-vo della psicoanalisi su una disciplina esterna a essa: in questo caso, la socio-logia (Buzzoni, 1989, pp. 77-78; Longhin, 1992, pp. 106-108).

6. Intenzionalità come matrice di diversi livelli di realtà

Un altro tratto teorico diversifica a nozione di interpretazione psicoanaliticada quella ermeneutica e, più in generale, filosofica. “Interpretazione”, in chiavepsicoanalitica, mette infatti in gioco il concetto di livelli di realtà, assente nellaversione ermeneutica. Uno degli obiettivi dell’intervento interpretativo dell’ana-lista, in effetti, consiste nel cogliere quell’aspetto funzionale della mente delpaziente connesso alla elaborazione, da parte di questi di forme intenzionaliproiettive che lo inducono a una confusione tra il piano di realtà dell’analista e

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quello del soggetto stesso (Mancia, 2004). L’interpretazione, cioè, mira acogliere i modi dell’alterazione da parte dei soggetti in analisi di quella funzio-ne discriminativa nei confronti dei propri oggetti che la filosofia ha tradizional-mente ascritto all’intenzionalità. Attraverso la sottolineatura del nesso intenzio-nalità-livelli di realtà la psicoanalisi coglie dunque una modalità specifica dioperare, cioè di “orientarsi”, dell’intenzionalità.

Ora, nel quadro teorico ermeneutico, come peraltro in quello fenomenolo-gico e analitico, essa ha una “direzione” specifica, cioè procede dalla coscien-za verso i suoi oggetti, ossia rimane su un medesimo livello di realtà. In unorizzonte psicoanalitico, al contrario, essa ha spesso un andamento che com-bina diversi tipi di direzione (verso l’interno, verso l’esterno, a feedback) e dimodalità operative. Nel caso dell’identificazione proiettiva attiva nel setting,essa consiste, per il paziente, in una preventiva scissione a titolo difensivo diparti del sé (dunque diretta verso l’interno) che vengono proiettate (dunqueorientata verso l’esterno) sull’analista e quindi reintroiettata (una sorta diretroazione attiva verso l’interno). L’interazione tra il transfert del paziente e ilcontrotransfert dell’analista (su cui cfr. Longhin, 1992, pp. 130-141) non soloindica la non linearità del percorso intenzionale in quanto sottoposto all’azio-ne di affetti profondi, ma anche come essa contribuisca a modificare progres-sivamente il senso di identità del soggetto. In quest’ottica, l’intenzionalitàassume il valore di uno dei mezzi con cui apprendiamo continuamente aessere noi stessi. Nella sua attività multiforme, infatti, si riversano fattori nor-mativi e affettivi tanto di ordine personale attinenti alla storia delle relazioni pri-marie esperite individualmente, tanto di natura morale filtrati attraverso lanostra relazione con l’ambiente. Quest’ultimo rilievo suggerisce, dunque, ilruolo costitutivo rispetto all’identità personale delle forme funzionali assuntediacronicamente dall’intenzionalità, troppo spesso sottovalutate dalla filosofia(soprattutto di tradizione analitica).

7. L’ascrizione di contenuti intenzionali

Secondo la psicoanalisi, dunque, l’attribuzione di stati intenzionali ad altriindividui segue strade difformi da quelle tracciate dalla fenomenologia e dallascuola analitica. Tali percorsi devono infatti attraversare le accidentate forestedegli affetti e dei loro ruoli cognitivi. L’ascrizione di contenuti intenzionali sicaratterizza, infatti, nei termini di criteri che comunque mettono fuori gioco latradizionale contrapposizione filosofica tra un accesso privilegiato di prima per-sona ai propri vissuti –quali resoconti introspettivi, di matrice cartesiana– e unaccesso di terza persona, per esempio attraverso regole interpretative condot-te mediante l’analisi logica delle espressioni linguistiche [come vorrebbero, peresempio, filosofi analitici come R. Chisholm (1968) o B. Russell (1961) sullalinea tracciata da G. Frege (1988) e da L. Wittgenstein (1967)]. L’identificazio-ne di stati intenzionali, segnatamente entro il setting, richiede la congiunzionedei due tipo di accesso. Si tratta cioè di una combinazione in costante fieri, inquanto mediante l’interazione continua dei vissuti transferali del soggetto e

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controtransferali dell’analista i confini tra le due linee di accesso si interseca-no, si separano, si reintersecano ecc. L’attribuzione dell’intenzionalità da partedell’analista, ma anche dello stesso paziente, gioca dunque sull’intersezione diquesti due piani. Da parte dell’analista, essa è rivolta al fine di condurre pro-gressivamente il paziente a ricostruire e costruire i confini della propriacoscienza deformati e distorti da traumi psicologici e, quindi, a sviluppare unacapacità di accesso personale ai propri vissuti condotta sotto il segno delladistinzione tra livelli di realtà (Longhin, 1992, pp. 135 sgg.).

8. Discriminazione tra stati intenzionali rappresentazionali e stati intenzionaliaffettivi

In un’ottica psicoanalitica, la rete di connessione tra gli stati intenzionali,ossia i nessi inferenziali di natura prevalentemente analogica che danno loroun’apparente coerenza, non è evidenziabile nella sua interezza, almeno inlinea di principio (esistono contenuti e stati intenzionali che permangonocomunque a livello di latenza inconscia). Risulta in effetti difficile in molti casirispettare quella che in ambito filosofico è ritenuta essere una distinzionenecessaria al fine dell’individuazione degli stati intenzionali. Si tratta, cioè,della discriminazione tra stati intenzionali rappresentazionali (quelli che pre-sentano una relazione con un contenuto) e stati mentali privi di una direzioneverso un oggetto (quale ne sia la natura), quali, per esempio, un generico statodi allegria, di ansia ecc. o stati caratterizzati da un diffuso e pervasivo vissutod’angoscia (Green, 154). Confrontiamo, a titolo illustrativo, quest’ultimo caso,l’affetto di angoscia.

In sede filosofica, l’angoscia viene ritenuta uno dei tipici stati affettivi noncaratterizzati da un contenuto condivisibile (in quanto privato) e privo di unaqualche relazione con un contenuto. Di esso infatti, non è predicabile un valo-re di verità in quanto non risponde al requisito che sia descrivibile e isolabilemediante un enunciato assertivo (come pensa, per esempio, Anscombe; cfr.Anscombe, 1957). Inoltre, non gli può essere attribuita una condizione di sod-disfazione, tale per cui, cioè, esistano delle circostanze in cui si realizza (comenel caso, per esempio, del desiderio; cfr. Searle, 1985, 1996, 2003). L’ango-scia, pertanto, non dispone dei titoli minimali per essere qualificata come attointenzionale.

Dal punto di vista psicoanalitico le cose stanno in modo affatto diverso.Prendiamo il caso di un’angoscia depressiva legata a un trauma relazionaleprecoce con una figura genitoriale, quale la separazione dalla madre. In talecircostanza il soggetto potrebbe proiettare inconsciamente a titolo difensivo ilsuo stato affettivo su un oggetto esterno (la persona dell’analista, entro lasituazione del setting, per esempio, vissuta come sostituto della figura mater-na) con cui identificarsi una volta “bonificato” tale stato. Inoltre, il soggettopotrebbe utilizzare questa identificazione proiettiva per studiare le proprie sen-sazioni attraverso l’effetto che esse producono su tale persona. Ciò al fine diricavare, a livello conscio, con l’ausilio del terapeuta, informazioni circa le

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matrici causali della sua angoscia e i modi simbolici attraverso cui essa siesprime e si è manifestata. La natura intenzionale dell’angoscia appare oraevidente; essa: i) possiede dei contenuti anche se non concettuali (l’articola-zione del suo simbolismo); ii) è dotata di una direzione verso un oggetto (lamadre, trasfigurata immaginativamente sotto altre forme personali); iii) occor-re in un sistema di altri stati intenzionali (affetti, rappresentazioni ecc.) e con-tenuti intenzionali (esperienze biografiche pregresse) fissati mnesticamente;iv) svolge un ruolo funzionale (di tipo cognitivo e autoriflessivo) entro la retedegli stati intenzionali; v) emerge grazie all’attività interpretativa del terapeuta;vi) è ragionevolmente trattabile con il linguaggio grazie a tale lavoro ermeneu-tico. L’esempio mostra dunque come l’assunto della discriminazione tra statimentali dotati di un contenuto e stati che ne sono privi non può essere acqui-sito senza ampie riserve da parte psicoanalitica.

9. Il requisito della razionalità di un sistema intenzionale

L’attribuzione di stati intenzionali colta in un’ottica filosofica analitica mettedi solito in gioco l’assunto implicito della razionalità del sistema cui vengonoascritti. Per quanto tale schema interpretativo sia stato sottoposto a interes-santi correttivi (Gozzano, pp. 187-211), permane il presupposto secondo cuiuno degli indicatori più significativi di razionalità vada identificato con il livellodi complessità dell’organizzazione inferenziale degli stati mentali. Il grado dirazionalità di un sistema-mente, in altre parole, è valutabile in rapporto alnumero presumibile di inferenze e di connessioni possibili tra di esse che talesistema è capace di elaborare. Ne consegue, inoltre, che quanto più comples-sa è la rete delle inferenze (per esempio quelle che possiamo estrarre da alcu-ne credenze) e delle conclusioni cui risulta possibile pervenire, tanto maggio-re è il grado di accessibilità cosciente ai loro contenuti. Questo punto di vistaassume implicitamente che un interprete possa ricostruire i passi inferenzialiche contrassegnano l’attività del pensare in base o a criteri di coerenza disenso comune (i quali escludono macroscopiche contraddizioni) o a canoni dicoerenza formale.

Da un osservatorio psicoanalitico il requisito del grado di integrazione infe-renziale tra stati mentali quale indicatore di razionalità risulta quanto menotroppo pretenzioso e comunque corrispondente a un modello antropologicotroppo astratto, se non ideale. Innanzi tutto, sotto il profilo psicoanalitico, qual-siasi predicato di razionalità assegnato a un intreccio di pensieri non può esse-re definito senza fare riferimento al ruolo di fattori inferenziali inconsci (asser-to peraltro condiviso da parte di alcuni filosofi, cfr. Wisdom, 1953; MacIntyre,1995; Audi, 1972; ecc.). In secondo luogo, un orizzonte psicoanalitico ammet-te una pratica inferenziale di connessione tra stati mentali piuttosto trascuratadalla filosofia, in quanto meglio propensa a valorizzare quei nessi tra eventiche sono concettualizzabili e descrivibili con un linguaggio proposizionaleassertivo o modale. Si tratta dell’inferenza per via di “diffusione” (Green, 2004,pp. 150-151), ossia condotta secondo modalità che mettono innanzi tutto in

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gioco connessioni non lineari tra vissuti affettivi, considerati come stati inten-zionali. Tali stati si propagano nella mente in modo pervasivo e diffusivo e vei-colano processi cognitivi, spesso di natura inconscia, grazie alla loro congiun-zione con pensieri di diversa natura (concettuale: rappresentazioni linguistiche,giudizi proposizionali ecc.; non concettuale: immagini mentali, tracce mnesti-che ecc.) associati per via analogica. Si configura così un’interazione tra statiaffettivi e pensieri diversamente miscelati o disgiunti, contrassegnata da unandamento irregolare “a rete” in cui si compongono aspetti di linearità con altrioscillatori o a feedback. Ciascuno di questi aspetti, inoltre, varia in relazionealla specifica modulazione espressiva che lo caratterizza. La proceduta misce-latoria di questi fattori possiede presumibilmente una configurazione più simi-le ai modi analogici in base ai quali la mente produce e inanella metafore lin-guistiche e non linguistiche a fini cognitivi. Si potrebbe forse parlare, a questoriguardo, di “inferenza metaforica” o di inferenza “a grappolo” (Pagnoni, 2002)5.

In terzo luogo, l’articolazione inferenziale dei pensieri è condizionata,soprattutto entro la cornice del setting, da un incessante processo oscillatoriodella mente del soggetto fra il suo punto di vista e quello di altri (dell’analista,segnatamente) del tipo figura/sfondo. L’identificazione proiettiva ne configuraun significativo caso tipico.

In quarto luogo, l’errore inferenziale, il quale nella prospettiva filosoficacostituisce un segnale di scarsa integrazione tra stati mentali e dunque un ele-mento che parzialmente inficia la razionalità di un sistema intenzionale, rappre-senta un fattore di normalità. Per esempio, nel caso del transfert si trasferisco-no inconsciamente su una persona immagini e vissuti genitoriali che alteranola percezione della dimensione reale dell’oggetto della traslazione.

In ultima analisi, la ragione di fondo per cui la psicoanalisi non è disposta afare proprio il criterio della complessità della strutturazione inferenziale deglistati mentali deriva dal suo rifiuto di accreditare l’equivalenza tra razionalità enormalità che soggiace implicitamente all’analisi filosofica dell’intenzionalità.Da un osservatorio psicoanalitico, infatti, la sfaccettatura del Sé di un sogget-to “normale” in molteplici parti implica la possibile compresenza di parti nevro-tiche, narcisistiche, sadiche ecc., di parti arcaiche legate alle prime fasi di svi-luppo della mente, giustapposte, sovrapposte o diversamente integrate conaltre parti non distorte o di più recente formazione. La differente combinazione(spesso gerarchica) di queste componenti si trova a fondamento delle diverseforme di intenzionalità attivate dalla mente. Essa si trova anche all’origine dellaconvivenza di pratiche inferenziali corrette e di procedure inferenziali incerte,come di tutta una gamma di errori inferenziali possibili. La necessità di ponde-rare tutto questo rende piuttosto scettica la psicoanalisi in ordine al valorecognitivo di predicati di razionalità astratti.

La conclusione che si può trarre da questi pur sintetici rilievi è che la psi-coanalisi non può riconoscere come accettabili vincoli di razionalità troppo rigi-di. In particolare, essa rigetta criteri che facciano leva su procedure inferenzia-li lineari informate a grammatiche logiche costruite in base a norme inferenzia-li rigorose o a modelli linguistici. In particolare, non è disposta ad ascriverevalore a un’ipotesi di simmetria tra le regole che sorreggono l’articolazione logi-

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ca del linguaggio e quelle che correlano i pensieri. Infatti, il concetto di linguag-gio cui fa riferimento la psicoanalisi non è sovrapponibile a quello che ci haconsegnato la “svolta linguistica”. Mentre quest’ultimo appare privo di rivesti-menti affettivi e di sovrastrutture sonore, la psicoanalisi rende significativevariabili, quali: il tono, il timbro, il volume, il ritmo, la prosodia, i tempi, la sintas-si (Mancia, 2004). Ciascuna di queste proprietà, in quanto dotata di un gradien-te espressivo, può essere considerata come il vettore di stati intenzionali pro-fondi e di inferenze inconsce da parte dei soggetti linguistici.

1 Presumibilmente, questa chiusura è collegata alla premessa implicita della cristallinità del Séa un’analisi in terza persona mediata attraverso gli enunciati pubblici di un soggetto. I filosofi,soprattutto quelli di tradizione analitica, comunque, hanno parzialmente corretto questa immaginediamantina del Sé introducendo la nozione di “opacità referenziale”. Tale locuzione è nondimenoapplicata esclusivamente a contesti linguistici dove la presenza di locuzioni verbali intenzionali(“credere”, “supporre”, “desiderare”, “auspicare” ecc.) impedisce a tali contesti di svolgere un qual-siasi ruolo referenziale. Essa, comunque, non viene mai riferita alla mente e alle sue rappresenta-zioni mentali (Simons, 1995).

2 Il quale ne coglie impropriamente un aspetto di “suggestione” intrusiva da parte dell’analista.Per una critica all’impostazione metodica di Grünbaum, si veda Longhin, 1989b; Wollheim, 1993,pp. 91-111)

3 Per un ulteriore approfondimento, cfr. Buzzoni, 1989, cap. 2 e Longhin, 1992.4 Inoltre, tale posizione pone in essere una concezione estremamente soggettivistica della psi-

coanalisi. Per esempio, trascura il ruolo “oggettivante” della supervisione nella definizione dellostatuto epistemologico della psicoanalisi, ossia del controllo esercitato, secondo linee metodichestipulate entro una data comunità psicoanalitica, da parte di psicoanalisti esperti sul lavoro di altrianalisti (cfr. in proposito, Longhin, 1989a, 1992).

5 In sede filosofica, alcuni interessanti spunti a questo riguardo si trovano, per esempio, inHesse (1982) e in Hofstadter (1996). Sulle implicazioni in ordini al tema della causalità mentalederivanti da questo andamento pluridirezionale delle inferenze individuato dalla psicoanalisi, cfr.Fornaro (1998).

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MICHELSTAEDTER E NIETZSCHE: L’UMWERTUNG DELL’IMPERATIVO KANTIANO

di Daniela De Leo

Nell’Appendice Zur Kants Metaphsik der Sitten1 agli Appunti di filosofia suEmpedocle del 1910, Michelstaedter affronta, in modo conciso, e aggiungo,sarcastico, le risposte della “sapienza kantiana” alle questioni morali, facendonascere da esse nuove domande sulla genesi della morale: dalla domanda“quale origine abbia propriamente il bene e il male” a quella, più opportuna, di“quale valore abbiano in se stessi”.

L’imperativo categorico kantiano è per Michelstaedter occasione di percor-rere con nuovi interrogativi, «con nuovi occhi l’immensa, lontana e così nasco-sta regione della morale, della morale realmente esistita, realmente vissuta»2,quella zona dal colore grigio3, il documentato, l’effettivamente verificabile.

Il riferimento alle parole di Nietzsche, non è casuale, in quanto può essererilevato, nell’enfasi espositiva e nelle argomentazioni sostenute in questaAppendice, l’accostamento di Michelstaedter alla filosofia del Tedesco4.

Il rilievo a prova del sostrato nietzscheano che sottende tale critica michel-staedteriana5 è quello esplicitato nello scritto del 27 novembre 1908, in cui ilNostro pone in parallelo Nietzsche e Kant, in quella costante ricerca «delmistero dell’essere»6. Da un lato la «filosofia e la morale eroica»7, per cui l’uo-mo «fa d’una sua idea particolare l’universale intuizione della realtà e cheabbatte ogni impedimento per far trionfare quest’idea ed esser così libero […]allora ricrea o crea l’universo»8, dall’altro il «razionare» di Kant «ultima finzio-ne del nostro egoismo?»9.

In quest’ottica, il percorso argomentativo intrapreso sarà quello, partendodall’Appendice agli Appunti su Empedocle e vagliando la filigrana compositadell’opera michelstaedteriana, di affiancare al Goriziano un compagno dotto,ardito e laborioso10, del quale si risente viva la voce nel tono alla critica anti-kantiana: il Nietzsche che avverte, nella difficoltà del filosofo di Königsberg diricondurre le cosiddette scienze della natura organica allo stesso statuto epi-stemologico cui sono ridotte le scienze della natura inorganica, la crisi dellavisione del mondo11.

La premessa, della critica michelstaedteriana, è l’asserzione kantiana chel’imperativo, oltre alla legge, non contiene che la necessità, per la massima, diessere conforme a tale legge, senza che la legge sottostia a nessuna condi-zione, di conseguenza non resta che l’universalità d’una legge in generale, acui deve conformarsi la massima dell’azione, ed è soltanto questa conformitàche l’imperativo presenta propriamente come necessaria12.

L’icasticità delle conclusioni si evince fin dalle prime locuzioni di questaAppendice: «Der granze absolute Kant ist also nur die φιλοψυχια der Men-

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scheit»13, fino a giungere ad asserire, in conclusione, che «quella domandakantiana è una fredda rettorica di chi vuol giustificare il suo istinto bestialmen-te morale»14.

L’assoluto della legge kantiana in quanto universale mostra come l’interes-se dell’io, del singolo, diventi per Kant l’interesse dell’umanità. Questo innalza-mento, in realtà, produce per Michelstaedter, una ricaduta di senso: l’assolutodi queste leggi consiste solo nell’universalità, vale a dire nella possibilità dellavita di tutti gli uomini. La volontà del singolo, le sue inclinazioni, il suo interes-se vengono trasmessi all’umanità, «“Ich” wende zur Menscheit»15, la mia mas-sima è la legge umana universale, il mio interesse è il più alto interesse mora-le umano. In tale prospettiva ermeneutica, l’interesse del singolo, perseguitoper istinto o per calcolo, è l’effetto tangibile della riduzione della sapienza kan-tiana, in quanto fondata su proposito egoistico.

L’uomo kantiano è «piegato sotto un dovere. Che forza ha il dovere? O ioriconosco per paura che per ottenere questo o quello scopo egoistico è neces-sario ch’io mi sottometta alla legge dell’ambiente e la morale è un puro istintodi conservazione. Oppure voglio il bene dell’ambiente e dovere e amore s’iden-tificano. E la felicità corrisponde in ogni caso alla mia volontà libera (sia dellamia abilità personale sia del bene universale)»16.

Nel primo caso, nel quale la morale per Michelstaedter è un puro istinto diconservazione, è quello in cui Kant rinviene nell’amor di sé il principio di leggeuniversale: una natura la cui legge consistesse nel distruggere la vita proprioin virtù di quel sentimento che è destinato a promuoverla, cadrebbe in contrad-dizione con se stessa, quindi non sussisterebbe come natura. Dunque, èimpossibile che quella massima possa valere come legge universale dellanatura, e risulta contraria al principio supremo di ogni dovere, del dovere realeche proviene dal principio unico suddetto: «si deve poter volere che una mas-sima della nostra azione diventi una legge universale: ecco il canone del giu-dizio morale in generale»17.

In modo esplicativo, Michelstaedter così si esprime: «Ogni uomo sa il pro-prio interesse. E se l’istinto è niente per la posizione, l’interesse di questa posi-zione andrà <per> le vie dell’istinto; e l’uomo saprà che così egli può ott.<otte-nere> il proprio αγαθον [beneficio]. E non gli sarà punto utile né necessario quelragionamento “sull’universalità”. E se lo farà così rimarrà una affermazione insi-gnificante come quella “che un terremoto è dannoso per una città ecc”. Ma sedavvero deve aver una forza, allora egli si domanda “che m’importa dell’umani-tà?” Che mi vale l’umanità? E immediatamente tutta la sua morale se ne vaall’altro mondo. E in questo giudizio del valore egli avrà tanta poca sicurezzaquanta in ogni discorso della “reine theoretische Verunnft” [pura rappresentazio-ne teoretica]. “La pura affermazione che una cosa è male per gli uomini non diceniente sul valore degli uomini quindi sul valore morale della “cosa”»18.

Michelstaedter fa la chiosa a tale argomentazione, arguendo: «“che io melo prenda o non me lo prenda il permesso d’ammazzare questo non influiscesugli altri che restano legati in ogni caso – ergo nocemus19”. La sapienza diqueste persone si riduce dunque al loro interesse personale ch’essi conosco-no o per istinto o per calcolo, circa come ogni bestia»20.

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Sfugge loro il possesso delle cose, la padronanza delle rispettive vite, inquanto non possono affermarsi nel futuro, ma solo in rapporto alla “cerchiafinita”. Per il singolo «le cose non gli sono indifferenti ma giudicabili inriguardo a un fine. Questo fine che è nella sua coscienza gli è indiscutibile,fermo, luminoso fra le cose indifferenti […] Questo è il cerchio senza uscitadell’individualità illusoria che afferma una persona, un fine, una ragione: lapersuasione inadeguata, in ciò ch’è adeguata solo al mondo ch’essa sifinge»21.

In questa immagine della “cerchia finita” è rinvenibile la “sufficienza” dellapersona, la sicurezza dell’adattamento a un codice di diritti e doveri, è la viakantiana, secondo Michelstaedter, delle individualità che domandano un valo-re e lo rapportano alla loro volontà libera e incrollabile.

«È cosa spregevole trar la legge per ciò ch’io devo fare da quanto vien fattoo anche per la considerazione di questi limitarla»22.

La critica michelstaedteriana alla morale kantiana, trova il suo apogeo nellacondanna a questa “volontà di essere”, che è la persuasione illusoria per cuil’individuo vuole le cose valide in sé ed agisce come rivolto verso un fine certo.Il fine certo, la sua ragione d’essere, il senso che ha per lui ogni atto, non ènuovamente altro che il suo continuarsi. Questa affermazione di se stessocome individuo che ha la ragione in sé, altro non è che volontà di se stesso nelfuturo. Ma se mancando di se stesso nel presente egli si vuole nel futuro, perla via di queste singole determinazioni, dei singoli bisogni, egli sfugge a sestesso, non può possedersi, avere la ragione di sé, in quanto è costretto adattribuire valore alla propria persona e alle cose delle quali necessita per vive-re. Le cose che lo attorniano sono l’unica realtà assoluta, indiscutibile, come ilbene e il male: «egli non dice: “questo è per me”, ma “questo è”; non dice:“questo mi piace”, ma “è buono”: perché appunto l’io per cui la cosa è od èbuona, è la sua coscienza, il suo piacere, la sua attualità, che per lui è fermaassoluta fuori del tempo. È lui ed è il mondo. E le cose del mondo sono buoneo cattive […] le cose non gli sono indifferenti ma giudicabili in riguardo a unfine. Questo fine che è nella sua coscienza gli è indiscutibile, fermo, luminosofra le cose indifferenti»23.

L’uomo afferma nelle cose soltanto le relazioni superficiali, il suo piccolomondo. E tanto è più piccolo tanto è facilmente riproducibile in cose diverse:«si prende il pesce con un po’ dell’acqua […] e si getta in altra acqua; la pian-ta non colle nude radici, ma con quel tanto di terra, e si mette in un vaso; l’uo-mo con i mezzi di sussistenza, e si fa di lui quello che si vuole»24.

Questo è il “cerchio” senza uscita dell’individualità illusoria, che afferma unapersona, un fine, una ragione, una coscienza: la persuasione inadeguata, inciò che è adeguata solo al mondo che essa si finge. Ed è questo, per Michel-staedter il cerchio della filosofia kantiana, quello di una soggettività che si erigead universalità, e che è, in verità, una ricaduta nella individualità illusoria. Sottoaccusa è sia la morale che la Weltanschauung di Kant, in quanto ciò che esi-ste, secondo il Goriziano, deve cessare di essere tale se gli si toglie il futuro, ildivenire, non l’essere è il postulato dell’esistenza: di nulla si può chiedere l’es-serci, ed è l’esempio del peso che cade, del corpo chimico che aspetta il suo

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affine25. «Non c’è sosta per chi porta un peso su per un’erta, ma quando lodeponga dovrà andarlo a riprender sotto ove sarà ripiombato»26.

In questa congerie di casi, il valore dei valori morali è posto in discussione,in quanto rapportabile ai tópoi koinoí (luoghi comuni) necessari per vestire27 lapersona sociale.

Questo comporta l’acquisizione di una posizione di primato della societàrispetto all’individuo. La società è divenuta l’officina fondamentale dei giudizi divalore.

Con l’avvento della società prende avvio l’istituzione di una gerarchia dibeni, fondata sulla distinzione tra padroni e schiavi, o per usare una metaforanietzscheana tra morale dei signori e quella del gregge.

Bene o male è allora in primo luogo tutto ciò che, rispettivamente, garanti-sce e rafforza o minaccia e indebolisce il potere del gruppo dominante.

«Gli uomini hanno trovato nella società un padrone migliore dei singolipadroni, perché non chiede loro una varietà di lavori, una potenza bastante allasicurezza di fronte alla natura –ma solo quel piccolo e facile lavoro famigliareed oscuro– purché lo si faccia così come a lei è utile, purché non si urti in nes-sun modo cogli interessi del padrone»28.

Ciò che, in linea generale, induce i più ad accogliere la gerarchia deivalori imposta è la paura, e non il dovere per il dovere. In una situazione dipaura gli uomini non misurano le cose e le azioni in base al piacere o aldispiacere che esse procurano loro, ma fingono di condividere i giudizi divalore dominanti.

Col tempo questi giudizi si trasformano in abitudini, inducendo ad attribuireun valore supremo al sacrificio di sé e all’altruismo. Nell’interpretazione michel-staedteriana, ciò vuol dire che i più non fanno nulla per se stessi, ma soltantoper conformarsi ad un modello di uomo, che è solo una finzione costruita dallasocietà e da chi detiene il potere per il proprio vantaggio.

Sono individui ridotti a meccanismi, non vittime delle loro debolezze in balìadel caso, «ma sufficienti e sicuri come divinità. – la loro degenerazione è dettaeducazione civile, la loro fame è attività di progresso, la loro paura è la mora-le, la loro violenza, il loro odio egoistico. […] È il regno della rettorica»29. Ilregno in cui “addomesticati” allo stesso modo gli uomini useranno le parolecome semplici termini tecnici: «come […] si dice “forza d’attrazione”, che nondice niente ma vuol significar solo quel complesso di effetti che tutti hanno vici-ni, ai quali bisogna pur supporre una causa sufficiente, così allora si dirà: virtù,morale, dovere, religione, popolo, dio, bontà, giustizia, sentimento, bene, male,utile, inutile, ecc. E s’intenderanno rigorosamente quelle date relazioni dellavita: i tópoi koinoí saranno fermi come quelli scientifici»30. La fornitrice di que-sti tópoi koinoí è la scienza.

Ma la casa della scienza è costruita sul terreno vulcanico31, sempre prontaa farla saltare in aria, ciò vuol dire che le proposizioni scientifiche non posso-no più pretendersi esatte fuori del divenire storico dell’uomo.

L’accostamento è alla polemica nietzscheana32 intorno al valore conosciti-vo della scienza, che risuona nella centralità del pensiero michelstaedteriano,speculare alla messa fuori gioco del pensiero sistematico di matrice hegeliana.

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Per esplicitare l’ipotesi di fondo che accomuna, nella critica alla scienza ealla società, le due filosofie33, lasciamo parlare lo stesso Michelstaedter: «l’uo-mo […] solo di fronte al grande mistero dell’essere che egli non indaga maintuisce; solo di fronte agli altri uomini, che come lui vivono soli e selvaggisenza la parola che veli e turbi l’unità dell’essere, senza la società che elevi acodice l’egoismo e la conservazione degli uomini, e mentre li toglie dall’univer-salità della loro incoscienza, li avvicina in servitù che la paura ha creato e fac-cia loro crescere sotto la propria egidia ipocrita le tante piccole e grandi viltàsentimentali, che la crescente finzione morale codifica. Così credo parlasse ungiorno un germanico Zaratustra»34.

È la rettorica della scienza che separa il fenomeno dall’affermazione indivi-duale, occorre, dunque, attuare l’Umwertung, il capovolgimento dei valori.Guardare «il quadro generale della vita e dell’esistenza» per «servirsi delle sin-gole scienze senza danneggiarsi: infatti senza un tale quadro complessivoregolatore, esse sono fili che non portano mai alla fine e che rendono il corsodella nostra vita ancora più confuso e labirintico»35.

Riprendendo le parole del profeta Isaia, Michelstaedter accusa gli scienzia-ti moderni di avere dei microscopi e non vedere, microfoni e non sentire. E sug-gerisce, come prova della soggettività nell’oggettività scientifica, di fare l’espe-rimento di «Gilliatt nei Lavoratori del mare quando si lascia uccidere dall’acquache monta, seduto sullo scoglio»36. Nessuna cosa è per sé, ma in riguardo aduna coscienza, non c’è possesso d’una cosa, ma solo mutarsi in riguardo aduna cosa, entrare in relazione con una cosa.

Nelle trame dei rapporti costituiti l’uomo vi immette se stesso per una qua-lunque affermazione di sé, come coscienza di quel rapporto. «Determinazioneè attribuzione di valore: coscienza»37. Parafrasando Husserl: ogni atto implicaintenzionalmente un ambito più vasto che alla fine risulta essere l’intero mondocome orizzonte universale, il mondo è soltanto per un io e che l’io è soltanto inquanto proiettato in un’esperienza di mondo. L’esito al quale perviene Michel-staedter è indicativo della necessità del rapporto medesimo – coscienza/real-tà, mettendo in discussione l’unicità assoluta della realtà sia in se stessa chenella coscienza individuale.

Con l’oggettività la scienza, implica la rinuncia totale dell’individualità, inquanto considera i valori dei sensi, o i dati statistici dei bisogni materiali comeultimi valori.

Sulle orme di Nietzsche, il Goriziano direbbe che, crollata la rettorica,sopravvive la dolorosa tensione dell’essere: «e l’uomo s’innalza eroicamente esi purifica: le arti imitative lo rappresentano nei suoi vari atteggiamenti mistica-mente eroici, la musica manifesta l’empito della sua volontà»38.

«Così dunque nella società organizzata ognuno violenta l’altro attraversol’onnipotenza dell’organizzazione, ognuno è materia e forma, schiavo e padro-ne ad un tempo per ciò che la comune convenienza a tutti comuni diritti con-ceda ed imponga comuni doveri»39.

La trama della loro vita è sottesa dalla paura del dolore: «questo doloreaccomuna tutte le cose che vivono senza persuasione, che come vivono temo-no la morte»40. La paura della morte induce gli uomini a prendersi cura di un

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futuro che è ripetizione del presente, contaminato dalle loro visioni sufficienti.Ma se a questo presente non si riconosce alcun valore, niente ha valore.

La validità implicita nel termine valore è una validità che si può intendere ocome provvisoria o come assoluta.

Gli uomini hanno bisogno, nella allegoria michelstaedteriana, per la loro esi-stenza, d’attribuire valore alle cose nell’atto stesso che le cercano, e nello stes-so tempo riscontrare la loro vita non essere in queste, ma «esser libera nellapersuasione e fuori di quei bisogni. Perciò il valore di quelle cose non confes-sano essere in riguardo al loro bisogno finito; ma sotto sotto c’è il valore asso-luto nel quale essi s’affermano come assoluti»41.

Ma questo è tutto apparenza, questa non è la loro persona. “Sotto sotto”permane la loro persona assoluta, che s’afferma assolutamente nel valoreassoluto «che ha il valore assoluto: la conoscenza finita»42.

Michelstaedter e Nietzsche si ritrovano sullo stesso piano nel pretesto perdistruggere i punti cardinali, i valori, la possibilità di indicare un qualsiasi termi-ne e di usarlo in una assoluta identità con se stesso. La logica dell’identità èsopraffatta da una logica che non concepisce nessun termine in una inconcus-sa ed assoluta identità con se stesso. Il riferimento testuale è incastonato all’in-terno della Lettera del gennaio 1907 alla famiglia, dove è esplicitato quel con-cetto prettamente nietzscheano: «l’uomo superiore nel suo immediato con-giungimento d’amore, d’entusiasmo con la natura, con le forze vive della vita,al di fuori della società, al di fuori quindi da tutti i suoi concetti morali, ha dirit-to di schiacciare senza riguardo, a questi concetti, tutte le barriere che la socie-tà gli mette fra il suo amore e il conseguimento del suo ideale»43.

Da qui la rivolta, verso la sufficienza del piano mondano, radicata nell’esi-genza morale dell’uomo che non si accetta come assorbito dalle categorie tra-scendentali. Ribellione di colui che è arrivato alla conoscenza della persisten-za irreparabile di tutte le cose nella loro qualunque instabilità.

Questo è il composto dal quale Michelstaedter sferra la critica contro la filo-sofia kantiana.

Come Nietzsche, il Goriziano asserisce che la centralità del soggetto dellarivoluzione copernicana, declamata nella filosofia di Kant, finisce col riprodur-re in un’altra situazione quella centralità della terra e soprattutto la sua immo-bilità secondo la concezione tolemaica. «Dopo Copernico l’uomo scivola sem-pre più verso una X»44. Prendendo come punto di partenza la filosofia kantia-na si giungerebbe: «da una forma di scetticismo e relativismo corrosivo e smi-nuzzatore»45 a «quello scoraggiamento e quel disperare di tutta la verità»46.

Inoltre, Kant considera il mondo reale nella sua oggettività, nella sua alteri-tà rispetto al soggetto di conoscenza, infatti sebbene cerchi di vedere, nellasua Critica della ragion pura, come un mondo delle cose possa diventare uncosmo conoscitivo, non nega mai la realtà in sé e per sé, l’indipendenza dellecose rispetto al soggetto di conoscenza.

Questa vastità di contingenze è rapportabile all’impulso kantiano di unacoscienza assoluta, che in Michelstaedter non può essere legittimata, in quan-to la coscienza non sarebbe altro che volontà dell’assoluto cristallizzata nellasua illusione.

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Applicare le categorie e gli a priori, dunque, vuol dire di fatto, per il Gorizia-no, l’illusione dell’individualità, assegnare, cioè, i più diversi significati e fini allarealtà, in quanto si riporta la conoscenza alla coscienza individuale, che sierige a coscienza assoluta. L’esserci consci47 è irrimediabilmente perduto.

Dalla confutazione delle posizioni teoretiche kantiane, si pongono le basidel Michelstaedter moralista: è necessario un soggetto se l’oggetto esisteanche senza di lui? Oppure se si osservano le cose senza essere spinti daibisogni, la coscienza e la cosa, il soggetto e l’oggetto si compenetrano indivi-sibilmente nell’attualità del presente?

Il sum tratto dal cogito è, per Michelstaedter, un errore implicito di logica, incui l’uomo, rinvenendo la forma assoluta, traccia le linee dalle relazioni vitali adun punto messo come assoluto. La coscienza «nel punto che nel presente […]entra in relazione con la data cosa, essa si crede nell’atto del possesso e nonè che una determinata potenza […] L’Attualità – ogni presente, quella che ognivolta, in ogni modo è detta vita, è l’infinitamente vario congiungersi della poten-za localizzata determinatamente negli aspetti infinitamente vari: come coscien-za, per la quale ogni volta nell’instabilità è stabile il suo correlato. […] Il sensodella vita αλλοιουται δ'χωσπερ δχοταν συµµιγη ϑυωµατα ϑυωµασιν [variacome quando si mescolino profumi a profumi]»48.

Il mondo non è significato una volta per sempre, non si ha più una immagi-ne del mondo, ma infinite immagini del mondo. Decostruita la logica dell’iden-tità vacilla anche la sintassi: «la lingua non c’è ma devi crearla, devi crear ilmondo, devi crear ogni cosa»49. L’uomo è solo nel deserto50 e deve creare tuttoda sé, e crear sé stesso per avere il valore individuale51, deve fare di sé stes-so fiamma52.

La critica michelstaedteriana si intreccia con quella nietzscheana53, indirizzataa tutta una impostazione oggettivista e rappresentazionalista ereditata da Carte-sio. L’uomo finge di credere che ci sia un mondo indipendente dal soggetto, chepossa averne una rappresentazione corretta e che la correttezza di questa descri-zione del mondo passi attraverso la corrispondenza fra pensiero e realtà.

Per smontare la versione oggettivista imperante nella storia del pensiero,Nietzsche revisiona il linguaggio perché è al suo interno che risiede la costru-zione del mondo54. Il linguaggio organizza il mondo in generi, categorizza glioggetti in funzione delle necessità umane e costruisce un mondo raggruppan-do ed ordinando il suo contenuto in funzione di preferenze umane incontrate incerte proprietà delle cose.

Comprendere il mondo è dunque possederlo.L’esperienza sensibile cogitandola non può essere resa assoluta. La realtà

percepita dai sensi e quella rielaborata dal pensiero non rappresentano lamedesima cosa, ma son due conoscenze una in rapporto all’altra. Per spiega-re questa dicotomia gnoseologica, Michelstaedter ricorre all’esempio dellapunta: «noi tutti sappiamo che la punta punge: ma invano vorrei ridur questomio sapere a un’esperienza oggettiva: l’occhio vedrebbe una forma puntivaconficcarsi in una mano e gocce di sangue sortirne –e la mano sentirebbe unaspiacevole impressione, ma io non saprei che la punta punge, poiché l’occhionon ha da esser il mio occhio, la mano la mia mano, s’io pur voglia esser

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oggettivo; e la contemporaneità delle due esperienze per l’osservatore ogget-tivo deve esser un caso, che egli ben si guardi dal costituire a regola –appenadopo ripetute energiche esperienze egli potrebbe azzardare l’ipotesi che forsele due cose dovrebbero avere un certo “legame di causa”–»55.

Il nesso di correlatività –di soggetto e oggetto– che Michelstaedter pone allabase della concezione della coscienza, ritorna qui per stabilire l’unità organicae vitale del rapporto uomo-natura.

«Lo stomaco non ha fame per sé ma per il corpo. Lo stomaco solo è assorbi-to dal mangiare –il corpo per esser assorto nel mangiare, non ne è assorbito;quello esaurisce insieme il cibo e sé stesso in ciò che è tutto fame, –questo esau-rendo col mangiare la fame– ha più buona speranza di continuare. –La soddisfa-zione della determinata deficienza dà modo al complesso delle determinazioni dideficere ancora. Il complesso si dice sazio in quel riguardo senz’esser sazio deltutto: poiché nell’affermarsi di quella determinazione c’è come criterio la previsio-ne delle altre: il complesso delle determinazioni non è un caos ma un organi-smo»56. Non qui la natura e là l’uomo, ma unità vitale e organica di entrambi i ter-mini in costante correlazione, se così non fosse invano l’uomo tenterebbe diimpossessarsi della cosa che lo attrae, finita e non in lui sarebbe la correlatività 57.

«La vita è un’infinita correlatività di coscienze»58.Un accostamento alla fenomenologia husserliana e propriamente alla real-

tà dell’intenzionalità, che si rivela come la proprietà della nostra coscienza diessere sempre correlata al mondo esperito nel suo complesso. Poiché ciascunente esperito è circondato da un orizzonte di rimandi, ogni atto implica inten-zionalmente un ambito più vasto che alla fine risulta essere l’intero mondocome orizzonte universale. Per questo motivo, la coscienza intenzionale è vitache esperisce il mondo: il mondo è soltanto per un io, e l’io è soltanto in quan-to proiettato in un’esperienza di mondo.

Il rapporto con le cose è di reciproco condizionamento, asserisce Michel-staedter: l’io dà valore alle cose, le cose volute riconfermano l’esserci dell’io.

In tale visione, la percezione non è solo affezione, passiva e ricettiva, ma èanche un io posso che afferra, apprende, riconosce gli oggetti. Queste inter-pretazioni si snodano in maniera molto simile a quella della fenomenologiahusserliana: «nell’atto in cui l’io cede all’oggetto è sottentrata una nuova ten-denza che è diretta dall’io all’oggetto»59.

Nello specifico, nell’intendere il rapporto del mondo in un costante recipro-co condizionamento con il soggetto, Michelstaedter, da un lato, rende il mondostesso mero strumento e conduce al disconoscimento, che sarà anche heideg-geriano, di un proprio valore oggettivo, pervenendo a sospettare dell’idea dimondo, usando una metafora nietzscheana, e di tutto ciò che è contenuto orealizzato al suo interno.

Dall’altro, come Nietzsche, il Goriziano respinge la soggettività quale astrat-to principio, quello di un io che pretende essere ciò che non è, e costruirsi suun metro assoluto che nessuna unità di misura gli può fornire, in difesa dell’“io”,sentito come finitezza spirituale, quell’io al quale tutte le cose sono insufficien-ti, giungendo all’altra forma di strumentalità, quella dell’io di fronte alle cose.

Nell’orientamento che mette in gioco una rete di rapporti che hanno la loro ori-

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gine nella vita di esperienza60 complessiva della particolare soggettività che laeffettua, permane solo il rapporto tra il soggetto e l’oggetto, come unico principiodi individuazione: «A ognuno il suo mondo è mondo: e il valore di quel mondo èil correlativo della sua valenza, il sapore il correlativo della sapienza»61.

La positività di questo rapporto come identità è rinvenibile nella «coscienzapiù vasta» in cui «la stessa cosa è più reale, poiché riflette quella vita più vasta.Questa l’ha di più poiché nella sua affermazione ci sono i modi della previsio-ne più organizzata a una vasta vita, sufficiente a eliminare maggior vastità dicontingenze, che ha certa, finita, vicina nell’attimo una maggior lontananza.Come quando due giocano agli scacchi, che le stesse figure per l’uno e per l’al-tro non sono le stesse, poiché per l’uno hanno una vasta cerchia di possibilitàconnesse l’una all’altra, a esser sufficienti in una lontana previsione a tutte lepossibilità dell’avversario; – per questo, che gli sia inferiore, s’esauriscono inuna breve cerchia di mosse che non possono connettersi che a un piccolopiano vicino, mentre le mosse dell’altro gli sono una incomprensibile contin-genza per la quale via via egli si vede scalzati i suoi piccoli piani ed è neces-sitato, ogni volta alla nuova situazione adattandosi, a ricominciarli»62.

Ciò che guida l’uomo alla conoscenza della realtà sensibile è rinvenibilenegli uomini in quella facoltà del prevedere, che li colloca in un piano diversorispetto agli animali, e che è riscontrabile nella paura e nel desiderio che crea-no le gerarchie di valori in correlazione alla vita individuale.

Abolito l’orizzonte della trascendenza, della metafisica, la conoscenza veri-tativa è una costruzione dell’uomo, la verità da raggiungere è una aletheia,qualcosa che esce dal nascondimento, da portare alla luce di volta in volta, maiuna volta per sempre. È l’impulso alla verità, che chiede soltanto «a che valein generale l’esistenza?»63.

Non c’è più posto per una comprensione comune delle cose, anche delle cosepiù umili, ma c’è un non sapere dire che cosa è questo o che cosa è quello.

«Dove è che ci muoviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eternoprecipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora unalto e un basso?»64.

Il nichilismo metafisico accomuna le due filosofie, quella michelstaedteria-na e quella nietzscheana, quale punto di partenza. Diverso è lo sbocco argo-mentativo sul piano etico.

Nella divinizzazione dell’uomo come volontà di potenza Nietzsche troval’unica manifestazione che salvi la vita nella sua essenza. Ma questa è anco-ra vita nel mondo, fra le cose.

Di contro Michelstaedter invoca insistentemente la deficienza, come incon-sistenza, della presenza di una assolutezza riempita di cose e voluta in corre-lazione alla propria persona.

Se, come per il filosofo tedesco, la vocazione, quale tensione alla libertà, èassoluta, il tempo e lo spazio mi rideterminano in quell’atto dell’isolamentoassoluto: sono nel mondo ma non ne dipendo più. La vita consiste, per il Gori-ziano, nel non adattarsi ad alcuna via.

«Che giova, dunque, parlare di categorie e di principi e di apriorismi sottin-tendendo una cosa in sé, un mondo assoluto: ma se quello fosse non risareb-

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be questo. […]. È la nostra coscienza che […] ci finge un essere assoluto […]:dando sé per prova dal mondo di là il mondo di là per prova di sé – Mentre pro-prio essa coscienza è prova che non c’è una coscienza assoluta. (Che se quel-la ci fosse questa non ci sarebbe)»65.

Il parallelo è nuovamente, con Nietzsche, che comprende la necessitàumana di costruire concetti mediante il raggruppamento schematizzato diesperienze simili, per l’esigenza di rappresentare il mondo per pensarlo.

È quello che Nietzsche chiama l’impulso verso la costruzione di metafore,che restano chiuse all’interno del linguaggio: «quell’impulso a formare metafo-re, quell’impulso fondamentale dell’uomo da cui non si può prescindere neppu-re per un istante, poiché in tal modo si prescinderebbe dall’uomo stesso, risul-ta in verità non già represso, ma a stento amministrato, dal fatto che con i suoiprodotti evanescenti, i concetti, sia stato costruito per lui un nuovo mondo,regolare e rigido, come roccaforte»66.

Nel campo di quegli schemi è possibile costruire un ordine piramidale, crea-re un mondo di leggi, di delimitazioni, che si contrapponga ormai, all’altromondo intuitivo delle prime impressioni come qualcosa di più solido, di piùgenerale, più noto, di più umano, e quindi come l’elemento regolatore ed impe-rativo67. Questo è il meccanismo di possesso del mondo, ma è anche il rischio.

Come risolutivo si eleva il monito socratico del rispetto: «l’anima trova lapropria felicità e la sapienza in questa suprema virtù umana»68.

Per Socrate il valore dell’umanità non è un dovere astratto: «quando il ragio-namento sulla possibile universalizzazione della propria massima incute rispet-to, l’individuo sa quanto più vale la vita dell’umanità che la sua vita individuale,perché vuole quella soltanto. E alla sua bontà umana corrisponde la somma sag-gezza umana»69. La dialettica socratica riempie di «valore i valori comuni»70.L’esempio lo si trova nel testo Il prediletto punto d’appoggio della dialettica socra-tica del 1910, in cui Michelstaedter discute con Socrate sul significato del “bene”:«Io indico, un bene. Socrate mi fa convenire che il bene non può far male; e miporta col mio bene in una contingenza dove esso è male. Io mostro di non curar-mi più ch’esso sia bene purché sia il mio comodo. E Socrate mi chiede cosa siapiacevole pel corpo, dormire, mangiare cose dolci, ecc. o mangiar sobriamentee faticare negli esercizi ginnastici. Io convengo che il primo. Socrate allora michiede se anche il più comodo pel corpo. Io convengo che no. Sicché è bene pelcorpo non il capriccio della piacevolezza, ma ciò che è conveniente alla sua natu-ra»71. Dunque, Michelstaedter, riprendendo Socrate72 rinviene nella natura del-l’individuo la sede del bene. Una natura che gli uomini ignorano, in quanto nonsi curano di conoscere, illusi dai beni apparenti, e non è che la voce della «pro-pria richiesta d’un essere, d’un possesso attuale; la voce della deficienza»73. Edè proprio questa deficienza, che Socrate vive più vasta, che può portare il filoso-fo greco a parlare in modo vicino e distinto la voce lontana della persuasione.«Egli può condurmi per mano […] e tutte le cose, che colla loro attrattiva vincen-domi mi rendono schiavo del cieco giro della mia illusione, egli mi può così farvedere fragili e vane […] sì ch’io senta raccolta la mia vita, e con maggior forza,uniti i frammentari accenti del mio dolore, chieda un valore sicuro, chieda dovefondar in loco stabile mia speme»74.

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Il bene dell’umanità che egli vuole, lo vuole come il proprio bene, dell’uma-nità avrà rispetto soltanto colui che saprà il valore dell’umanità, rispetto a luistesso: cioè colui che vorrà il bene dell’umanità come il proprio bene»75. L’uo-mo di fronte al proprio simile non deve comunicare il proprio valore individua-le, deve attribuir valore all’altro, come persona che nega, che soffre, che nonha, ch’egli sente dentro di sé: «e questa persona in lui rispettando negare l’ap-parente valore, e più vicine portare le cose lontane e più lontane cose far vive-re nel presente»76.

Quest’uomo non avrà alcun bisogno di chiedere di fronte a un caso pecu-liare come bisogna agire, perché ognuno possa uniformarsi a quell’azione, peril bene dell’umanità stessa, reagirebbe con lo sdegno e l’amore immediatoquali essi sgorgano da una ben definita volontà.

Nel cosmo michelstaedteriano della privazione, dove a domandare è l’ina-deguatezza della individualità illusoria, il valore fondante la morale diviene larealtà, la via socratica, il Logos eracliteo77, l’attività filosofica: il vero sapereequivale non al possesso, ma alla ricerca del correlativo, a quella tensione-a,quale atto morale. La vera conoscenza sta nel cercarsi e nel volersi in questaricerca, non nel possesso di una qualunque, non realizzabile, consistenza.«Essere liberamente e interamente se stesso»78.

Il persuaso deve prendere su di sé la responsabilità e in sé la sicurezzadella propria vita, che altri non gli può dare: deve creare sé e il mondo, deveessere padrone e non schiavo nella propria casa. Ma che cosa è la vita? Larisposta è nello Scritto del 1910, in cui Michelstaedter dialoga con Socrate: «lavita non ha altro scopo se non la vita stessa»79.

«L’uomo deve farsi una via per riuscire alla vita e non per muoversi fra glialtri, per trar gli altri con sé e non per chiedere i premi che sono e non sononelle vie degli uomini»80.

Così l’uomo deve avere la ragione di sé, e averla in sé per darla, senzasoste battendo la dura via lavorare nel vivo il valore individuale81, riempiendola propria vita di negazioni. La conseguenza è la rimostranza michelstaedteria-na alla morale kantiana: «reagisci al bisogno d’affermare l’individualità illuso-ria, abbi l’onestà di negare la tua stessa violenza, il coraggio di vivere tutto ildolore della tua insufficienza in ogni punto – per giungere ad affermare la per-sona che ha in sé la ragione, per comunicare il valore individuale: ed esser inuno persuaso tu ed il mondo»82.

Si tratta, in altre parole, di elaborare una genealogia della morale, senzaassumere l’uomo come un’entità fissa, immutabile nel tempo; l’uomo perMichelstaedter, come per Nietzsche, è divenuto e diviene e in esso matura ilbisogno individuale di azione riformatrice. L’assolutezza dei valori morali siaper l’uomo della persuasione, che per lo Zarathustra è assolutezza vissuta,sperimentata, voluta, prima ancora che proclamata, esigenza radicale checancella ogni norma preesistente e si fa forma e contenuto insieme, via everità, vita assoluta.

Ciò significa che non esistono valori assoluti, ma che i valori e le normemorali, alle quali la vita viene di volta in volta assoggettata, hanno la loro radi-ce nella vita stessa e, quindi, sono il prodotto di fattori umani, troppo umani.

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1 Nel manoscritto di Michelstaedter, Appunti di filosofia su Empedocle, l’Appendice Zur KantsMetaphsik der Sitten è da pagina 27 a pagina 34. Per la trascrizione del manoscritto rimando almio studio critico: D. DE LEO, Michelstaedter filosofo del “frammento”. In Appendice: CARLO MICHEL-STAEDTER, Appunti di filosofia: Empedocle, Platone, Zenone stoico, Milella, Lecce 2004, pp. 52-62.Oltre agli Appunti di filosofia su Empedocle nel libro sono riproposti anche gli appunti di Michelsta-edter su Zenone stoico e Platone (Ivi, pp. 63-96), in cui il Nostro si cimenta sul confronto-conflittotra unità e molteplicità, due posizioni inconciliabili nella loro assolutezza, che vengono affrontatesecondo una ermeneutica che le troverà inseparabili e inestricabilmente connesse.

2 F. NIETZSCHE, Genealogia della morale Scelta di frammenti postumi 1886-1887, a cura di G.Colli e M. Montanari, Mondadori, Milano 1979, p. 11.

3 È la direzione verso l’effettiva storia della morale, non di quella costruita sulle nuvole: «è anzidel tutto evidente quale colore debba essere per una genealogia della morale cento volte piùimportante del bianco delle nuvole; intendo dire il grigio, il documentato, l’effettivamente verificabi-le, l’effettivamente esistito, insomma tutta le lunga, difficilmente decifrabile, scrittura geroglifica delpassato morale dell’uomo!», Ibidem.

4 La domanda se esista o meno una presunta filiazione di Michelstaedter con la filosofia diNietzcshe è legittima, e una risposta immediata, frutto di una analisi sommaria, porterebbe adescluderla, in quanto il fulcro della filosofia del Goriziano, la persuasione, è certamente un valore.Dunque, proprio il fondamento del pensiero filosofico michelstaedteriano, non è certo passato alvaglio della speculazione nietszcheana. Pur tuttavia esaminando attentamente gli effettivi riscon-tri testuali, si possono notare, nella filosofia di Michelstaedter, tematiche fortemente nietzscheane,che influenzano le interpretazioni critiche e le scelte teoretiche del Nostro. Michelsatedter si acco-sta al Nietzsche del secondo periodo, mutando da quest’ultimo l’idea di una filosofia in rivolta con-tro quel tipo di società sottomessa all’ideologia borghese.

Di seguito si ripropongono stralci di testi dell’opera di Michelstaedter, per poter sottolinearequeste ricadute nietzscheane, alla quali si fa riferimento nel saggio presente.

I rimandi espliciti al filosofo tedesco, nelle opere del Goriziano, si contano sulle dita di unamano, in La persuasione e la rettorica, Nietzsche, risulta praticamente ignorato. È menzionatonelle lettere e in qualche appunto contenuto nelle Opere complete a cura di Gaetano Chiavacci.

– Lettera del gennaio 1907 alla famiglia (in C. MICHELSTAEDTER, Epistolario, a cura di S. Cam-pailla, Adelphi, Milano 1983, pp. 166-168). In cui Michelstaedterdescrive le impressioni avuteandando a teatro ad assistere ad una pièce: Più che l’amore di Gabriele D’Annunzio. In questalettera così scrive: «questa sera andai a sentire Più che l’Amore – il concetto è prettamente Dan-nunziano, o meglio Nietzschiano», (Ivi, p. 167). In questa asserzione il Nostro, mostra di nonleggere Nietzsche attraverso D’Annunzio, bensì quest’ultimo attraverso Nietzsche. Il concetto èesplicitato poco innanzi: «l’uomo superiore nel suo immediato congiungimento d’amore, d’entu-siasmo con la natura, con le forze vive della vita, al di fuori della società, al di fuori quindi da tuttii suoi concetti morali, ha diritto di schiacciare senza riguardo, a questi concetti, tutte le barriereche la società gli mette fra il suo amore e il conseguimento del suo ideale», (Ibidem). Le figureche si contrappongono in questo quadro riassuntivo, del concetto prettamente Nietzschianosono: individuo-società; forze vive della vita [la fedeltà alla terra e il sì alla vita dice Zarathustra]-concetti morali; il suo amore-conseguimento del suo ideale. Per realizzare le proprie aspirazio-ni l’uomo superiore deve, da un lato, aderire alle forze della natura, ed è un aderire immediatoed entusiastico, dall’altro deve “tendere-a”. in questa riflessione, sembra già enuclearsi la dico-tomia persuasione-rettorica, e innescarsi lo scontro, inteso nel linguaggio nietzscheano, tra i duepiani e la relativa azione della ricerca della via persuasa. E, in senso analogico dal teatro allavita, «perché questa azione spicchi è necessario drammaticamente l’ambiente sociale con tuttele sue leggi, i suoi affetti, i suoi pregiudizi, o un suo rappresentante convinto inesorabile, chenon possa nemmeno intendere altre idee, oppure infine un resto di questo mondo nell’animodell’eroe, a produrre la lotta, la crisi, la catastrofe», (Ibidem). Michelstaedter tende ad allonta-narsi dalla volgarizzazione dannunziana della filosofia di Nietzsche ben distinguendo il profon-do spessore filosofico che determina il superuomo di Nietzsche da quello che invece permea ilsuperuomo di D’Annunzio.

– Nella lettera al Chiavacci del 22 dicembre 1907, (in C. MICHELSTAEDTER, Epistolario, cit., pp.265-269), Michelstaedter fa riferimento esplicito all’«elemento dionisiaco», (Ivi, p. 267), assimilan-

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dolo all’elemento mistico che, mancherebbe nella «razionalistica», (Ibidem), religione ebraica: pro-prio questa assenza, dice il Nostro, spiegherebbe «la ragione dell’antisemitismo filosofico (Scho-penhauer e Nietzcshe)», (Ibidem).

– Scritto del 27 novembre 1908 (in C. MICHELSTAEDTER, Opere, a cura di G. Chiavacci, Sanso-ni, Firenze 1958). È un passo in cui scrive di un «germanico Zaratustra […] bestialmente fulvo»,fautore di un pensiero «mistico filosoficamente e disonesto artisticamente. Filosoficamente misti-co perché è una manifestazione d’impotenza nel tempo stesso che della volontà di uniformare lavita alla visione raggiunta», (Ibidem) fautore di tutte quelle «bestie più o meno fulve che da alloracominciarono a infestare il mondo», (Ibidem).

5 Michelstaedter lesse Nietzsche. Di sicuro le opere Zarathustra e La nascita della tragedia.Alcuni indizi che possono renderne prova:

a chiosa di un passo centrale della Hedda Gabler di Henrich Ibsen, Michelstaedter scrive:«Stirb zur rechten Zeit», citazione testuale del paragrafo Vom freien Tode dell’opera di NietzscheAlso sprach Zarathustra,

in una lettera di Vladimiro Arangio-Ruiz a Michelstaedter, si fa esplicito riferimento alla lettura,da parte di quest’ultimo, del testo La nascita della tragedia.

6 Scritto del 27 novembre 1908, cit., p. 664.7 Ivi, p. 665.8 Ivi, pp. 665-666.9 Ivi, p. 666.10 Parafrasando lo stesso Nietzsche, si veda la Prefazione a F. NIETZSCHE, Genealogia della

morale, cit., pp. 5-12.11 Il concetto di organico a partire da Kant, nell’aprile 1868, rappresenta il tema che Nietz-

sche, nell’aprile 1868, aveva avuto intenzione di affrontare in occasione della propria disserta-zione di dottorato, progetto abbandonato all’inizio del maggio dello stesso anno, e sostituito conil problema della contemporaneità di Omero ed Esiodo, basato su una nuova collazione delloscritto Intorno a Omero, Esiodo, la loro stirpe e il loro agone. Evidenziamo i punti perspicui dellaconfutazione nietzscheana. Nella confutazione della concezione finalistica che crivella l’esisten-za di miracoli, «l’eliminazione della teleologia ha un valore pratico», (F. NIETZSCHE, Quaderno P18, Sulla teleologia, in ID., Appunti filosofici 1867-1869, Omero e la filosofia classica, a c. di G.Campioni e F. Gerratana, Adelphi, Milano 1993, P 18, 22, p. 138), in quanto la teleologia solle-va una quantità di problemi insolubili, come il mondo come organismo, l’origine del male. Nietz-sche rimprovera al Kant della Critica del giudizio teleologico l’interpretazione del punto di vistacritico nel senso di un radicale soggettivismo gli fa vedere l’uomo che di fronte all’ignoto inven-ta concetti, che però raccolgono solo una somma di proprietà fenomeniche, non raggiungono lacosa. Il problema diviene, allora, se in senso lato esistano o meno dei giudizi costitutivi aventiuniversalità e necessità. Di ciò Nietzsche dubita fin da quando afferma che solo la matematica,per il fatto stesso di essere una scienza formale, è in grado di costituire conoscenza. I giudiziche la mente umana è in grado di elaborare, come anche quello teleologico, sono giudizi riflet-tenti, non determinanti. Il pericolo dinanzi al quale ci troviamo è quello di disperare della verità.Kant avrebbe svenduto la sua conquista conoscitiva circa l’essenza della ragione per fondareuna metafisica e far sì che la morale avesse ragione.

12«Non c’è dunque che un solo imperativo categorico, cioè questo: agisci soltanto secondoquella massima che, al tempo stesso, puoi volere che divenga una legge universale», I. KANT, Fon-dazione della metafisica dei costumi, trad. it. P. Chiodi, Laterza, Bari 1988, p. 49.

13 «L’intero ed assoluto Kant dunque è unicamente la φιλοψυχια (brama della vita, amore perla vita) dell’umanità», C. MICHELSTAEDTER, Empedocle, cit., p. 60.

14 Ibidem.15«Io” vado verso l’umanità», Ibidem.16 Ivi, p. 61. 17 I. KANT, Fondazione della metafisica dei costumi, cit., p. 54.18 C. MICHELSTAEDTER, Empedocle, cit., pp. 61-62.19 Dunque facciamo del male.20 C. MICHELSTAEDTER, Empedocle, cit., p. 61.21 ID., La persuasione e la rettorica, a cura di Sergio Campailla, Adelphi, Milano 1995, p. 19.22 ID., Empedocle, cit., p. 62. 23 ID., La persuasione e la rettorica, cit., p. 18.24 Ivi, p. 30.

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25 «Un peso pende ad un gancio, e per pender soffre che non può scendere: non può usciredal gancio, poiché quant’è peso pende e quanto pende dipende», C. MICHELSTAEDTER, La persua-sione e la rettorica, cit., p. 7.

«Per esempio il cloro è sempre stato così ingordo che è tutto morto, ma se noi lo facciamorinascere e lo mettiamo in vicinanza dell’idrogeno, esso non vivrà che per l’idrogeno», Ivi, p. 14.

26 Ivi, p. 35.27 Metaforicamente Michelstaedter argomenta: «già ora nessun uomo nasce più nudo ma tutti

con la camicia, tutti già ricchi di ciò che i secoli hanno fatto per render loro facile la vita.. […] Que-sta forma, questa camicia di forza o camicia rettorica è contesta di tutte le cose nate dalla vitasociale. […] La coscienza d’ogni uomo riposa nel possesso d’un grado qualsiasi di queste cono-scenze […] egli conosce i luoghi comuni necessari per vestire la persona sociale, perché il suodiscorso a proposito di questa forma abbia l’apparenza richiesta e accetta fra gli uomini della pre-visione buona a ogni contingenza», Ivi, pp. 119-120.

28 Ivi, p.100. Un riferimento alla società è presente nella poesia Dicembre: «Nella pozza riflet-tete, /gocce unite in società, /grigio in grigio terra e cielo /per i campi e le città. /Ma la noia, il disin-ganno/ fra le gocce sollevar, /ed il bene che non sanno /van col vento a ricercar», C. MICHELSTAED-TER, Dicembre, in ID., Dialogo della salute, Poesie, a cura di V. Arangio-Ruiz, Formiggini ed., Geno-va 1912, p. 66.

29 ID., La persuasione e la rettorica, cit., p. 95.30 Ivi, p. 119.31 Ne La gaia scienza Nietzsche, rivolgendosi agli uomini delle conoscenza, scrive: «Credete

a me! – il segreto per raccogliere dall’esistenza la fecondità più grande e il più grande godimentosi chiama: vivere pericolosamente (gefährlich leben)! Costruite le vostre case sul Vesuvio […].Finalmente la conoscenza stenderà la mano verso ciò che le spetta», F. NIETZSCHE, La gaia scien-za, Adelphi, Milano 1993, p. 54.

Si veda a tal proposito il confronto delle immagini dei fondamenti del sapere scientifico di Car-tesio, Popper e Nietzsche presentato da Negri: «Cartesio […] voleva fondare l’universo del suosapere su un terreno tutt’altro che sismico», non sulla terra mobile e la sabbia, ma sulla roccia el’argilla. «Si tratta di un Cartesio che offre un’immagine dei “fondamenti” del sapere scientifico allaquale si oppone, quasi per espresso, quella di K.R. Popper», per il quale la scienza non posa suun solido strato di roccia, ma risulta essere un edificio costruito su palafitte, che vengono confic-cate dall’alto, giù nella palude. «Non c’è dubbio che l’immagine di Popper, avverso alle certezzedogmatiche di una scienza che pretendeva di esprimersi in proposizioni universali ed oggettive, èpiù vicina a quella di Nietzsche che a quelle di Cartesio. La sabbia della palude sarà anche menomobile o meno improvvisamente catastrofica della terra vulcanica; ma è evidente che la sua imma-gine rende ugualmente conto di una scienza che non si intende più rinchiusa nella cittadella tradi-zionale che nessuna esperienza ulteriore avrebbe potuto, secondo i suoi costruttori e secondoquanti fiduciosamente vi si riparavano dentro, scuotere o far saltare in aria», A. NEGRI, Nietzsche.La scienza sul Vesuvio, Laterza, Bari 1994, p. 5. Per una analisi dettagliata dell’immagine poppe-riana si veda M. PERA, Popper e la scienza su palafitte, Laterza, Roma-Bari 1981.

32 L’uomo e il Vesuvio si incontrano, si uniscono dialetticamente, nell’innocente fanciullo era-cliteo: «giuoco di costruzione e distruzione (Aufbauen und Zerstrümmeni) del mondo individuale,similmente come la forza plasmatrice del mondo viene paragonata da Eraclito l’oscuro a un fan-ciullo che giuocando disponga pietre qua e là, innalzi mucchi si sabbia e di nuovo li disperda», F.NIETZSCHE, La gaia scienza, cit., p. 97. Il riferimento è al seguente frammento eracliteo: «αιων παιϕε’στι παιζων πεσσευων παιδοϕ η‘ βασιληιη», DK, Fr.52. («Il tempo è un bambino che gioca coi dadi:di un bimbo è il regno»). Per una analisi dettagliata cfr. A. NEGRI, Nietzsche il «fanciullo che giuo-ca» di Eraclito, in ID., Nietzsche e/o l’innocenza del divenire, Napoli 1986, pp. 117 e ss.

33 Ricadute nietzscheane si possono ritrovare in Michelstaedter nella germinale polemica anti-ret-torica, in nuce già in questi Appunti. L’analisi demolitrice dell’apparato rettorico, almeno nelle lineeessenziali deve in realtà molto al giovane Nietzsche, che scriveva, non molti anni prima del Nostro, Suverità e menzogna in senso extramorale. In esso, il filosofo tedesco, indagava col medesimo cipigliole costruzioni del filisteismo intellettuale e sociale, soprattutto, traeva conclusioni analoghe di dinsican-to: rispetto al male, al dionisiaco, all’assurdo della vita (non solo umana, ma universale). Cfr. F. NIETZ-SCHE, Su verità e menzogna in senso extramorale, in ID., La filosofia nell’epoca tragica dei greci e scrit-ti dal 1870 al 1873, a cura di G. Colli e M. Montanari, Ed. Adelphi, Milano 1973, pp. 354-372.

34 C. MICHELSTAEDTER, Scritto del 27 novembre 1908, cit., pp. 664-665.35 F. NIETZSCHE, Considerazioni inattuali III, Schopenhauer come educatore, in ID.,Considera-

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zioni inattuali, a cura di S. Giametta e M. Montinari, Einaudi, Torino 1981, pp. 164-246, p. 182. Nel-l’interpretare il quadro della vita come un tutto, secondo l’ermeneutica nietzscheana, Schopenha-uer «è grande, perché segue il quadro, come Amleto lo spirito, senza lasciarsi distogliere, comefanno gli scienziati, o senza rimanere impigliato in una scolastica concettuale, che è la sorte deidialettici sfrenati», Ibidem.

36 C. MICHELSTAEDTER, La persuasione e la rettorica, cit., p. 81. Gilliatt è protagonista de roman-zo I lavoratori del mare di Victor Hugo. (Gilliatt con spirito di sacrificio favorisce le nozze della suaamata con un altro uomo, e seduto sulla sommità dello scoglio, si lascia sommergere dall’altamarea guardando la nave che porta via i due sposi).

37 Ivi, p. 12.38 C. MICHELSTAEDTER, Scritto del 27 novembre 1908, cit., p. 666.39 ID., La persuasione e la rettorica, cit., p. 102.40 Ivi, p. 24.41 Ivi, p. 54.42 Ibidem.43 ID., Lettera del gennaio 1907 alla famiglia, cit., p. 167.44 Nell’aforisma 23 di Al di là del bene e del male Nietzsche dice che i buoni sentimenti fanno

la cattiva psicologia e incita a eliminare l’impedimento che i pregiudizi morali costituiscono per ilsuo sviluppo come «morfologia e teoria evolutiva della volontà di potenza». Solo così, afferma, «lapsicologia ridiventerà signora delle scienze e la via che porta ai problemi fondamentali». Da Coper-nico in poi, afferma, «l’uomo scivola dal centro verso una x». Questa x è la realtà, che non è piùcostruita stabile costituzione delle cose. La realtà è divenuta un enigma, una x, diviene una xanche l’Uomo. L’Uomo non c’è più, ci sono solo gli uomini, che hanno una diversa visione dellavita secondo la diversa misura della loro forza. Cfr. F. NIETZCSHE, Al di là del bene e del male, Adel-phi, Milano 1977, pp. 28-29.

45 F. NIETZSCHE, Considerazioni inattuali III, Schopenhauer come educatore, cit., p. 181.46 Ibidem. Quale effetto della filosofia di Kant, quello scoraggiamento e quel disperare di tutta

la verità, come li visse, ad esempio, Heinrich von Kleist, citato nella terza Inattuale nietzscheana,in cui si riporta la lettera dello stesso Kleist a Wilhelmine von Zenge del 22 marzo 1801. Nella visio-ne kleisteniana la condanna è al soggettivismo di Kant ritenuto “sconvolgente”. Il riferimento è alfatto che lo stesso Kant non esita a proclamare che è l’uomo a prescrivere le leggi alla natura, nonsono, perciò stesso, oggettive. Cfr. I. KANT, Prolegomeni ad ogni futura metafisica, a cura di R.Assunto, Laterza, Roma-Bari 1979, p. 82.

47 «La mia vita in rapporto alla quale io reagisco di fronte a qualsiasi esperienza sensuale èper me certo a priori di questa esperienza, poiché è la mia vita il voús (ragione) d’ogni cosa ioposso νοειν (pensare) cioè τη διανοια θεωρειν (contemplare con il pensiero) le cose. Ma questonon è uno sdoppiamento né un lavoro sulle cose ma un sich inne werden (rendersi conto), unesserci consci, τωυ’τον δ’’εστι νοειν τε και ου‘ νεκεν ε’στι νοηµα (Una cosa è il pensiero e la cosach’io penso)», C. MICHELSTAEDTER, Emepdocle, cit., p. 58.

48 ID., La persuasione e al rettorica, cit., pp. 12-13.49 Ivi, p. 61.50 Ivi, p. 34. «Egli deve avere il coraggio di sentirsi ancora solo, di guardar ancora in faccia il

proprio dolore, di sopportarne tutto il peso», Ivi, p. 44. «Io son solo, lontano, io sono diverso», C.MCIHELSTAEDTER, Risveglio, in ID., Dialogo della salute, Poesie, cit., p. 76.

51 Ivi, p. 35.52 «L’uomo deve far di se stesso fiamma», Ivi, p. 49. Su questa riferimento alla “fiamma” è,

ancora una volta, sorprendente la convergenza tra Michelstaedter e Nietzsche. In La gaia scien-za si legge: «Vivere vuol dire per noi trasformare costantemente in luce e fiamma tutto quel chesiamo», F. NIETZCSHE, La gaia scienza, cit., p. 17.

53 Nel testo Su verità e menzogna in senso extramorale, Nietzsche sostiene che la verità del-l’uomo non è nient’altro che un esercito mobile di metafore, metonimie, antropomorfismi

54 È il linguaggio l’espressione adeguata di tutta la realtà. Sulla tematica del linguaggio si vedaF. NIETZSCHE, Su verità e menzogna in senso extramorale, cit.

55 C. MICHELSTAEDTER, La persuasione e al rettorica, cit., p. 80.56 Ivi, p. 16.57 Ivi, p. 34.58 Ibidem.59 E. HUSSERL, Esperienza e giudizio, Bompiani, Milano, 1995, p. 71.

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60 Rimando alla filosofia huesserliana: «qualunque cosa siano e possano dirsi il mondo e larealtà. Devono essere rappresentati nel quadro di una coscienza reale e possibile per mezzo dicorrispondenti sensi (e proposizioni) riempiti di un contenuto più o meno visivo», E. HUSSERL, Ideeper una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, a cura di E. Filippini, Einaudi, Tori-no 1976, vol. I, p. 300.

61 C. MICHELSTAEDTER, La persuasione e al rettorica, cit., pp. 19-20.62 Ivi, p. 29.63 F. NIETZSCHE, Considerazioni inattuali III, Schopenhauer come educatore, cit., p. 186.64 ID., La gaia scienza, cit., p. 37.65 C. MICHELSTAEDTER, La persuasione e al rettorica, cit., p. 81.66 F. NIETZSCHE, Su verità e menzogna in senso extramorale, cit., p. 368.67 Ivi, p. 368.68 C. MICHELSTAEDTER, Empedocle, cit., p. 61.69 Ibidem.70 «Così Cristo parla denso e complesso ai discepoli e in parabole al popolo […]. Così la dialetti-

ca socratica riempie di valore i valori comuni», C. MICHELSTAEDTER, La persuasione e la rettorica, cit.,p. 48. Le analogie fra Cristo e Socrate le ritroviamo anche nelle kierkegaardiane Briciole di filosofia:«Consideriamo brevemente oscurate, ch’è stato, lui pure, un maestro. Nasce in un determinatoambiente, viene educato in mezzo al popolo al quale appartiene, e quando nell’età matura sentì in séuna vocazione e un impulso egli cominciò ad insegnare, a suo modo, agli altri. Dopo aver vissuto qual-che tempo come Socrate privato, egli si presenta in pubblico –quando il tempo gli sembrò opportuno–come Socrate maestro. Benché anch’egli avesse prima subito l’influsso delle circostanze, poi a suavolta reagì nel suo ambiente. Compiendo la sua opera, egli dava soddisfazione tanto all’esigenza chesentiva in sé, quanto all’esigenza che altri uomini potevano avere su di lui. Così inteso, e così l’inten-deva anche Socrate, il maestro si trova in una situazione scambievole nella quale la vita e l’ambientediventano per lui l’occasione per diventare maestro e ciò a sua volta diventa occasione per gli altri diimparare da lui qualcosa. La sua citazione è quindi sempre tanto autopatica come simpatetica. Com-prese la situazione a questo modo anche Socrate: perciò egli non volle accettare né onori, né postionorifici, né denaro per il suo insegnamento, poiché egli giudicava con la incorruttibilità di spirito di unmorto», S. KIERKEGAARD, Briciole di filosofia, Zanichelli, Bologna 1972, vol. I, p. 113.

71 C. MICHELSTAEDTER, Il prediletto punto d’appoggio della dialettica socratica, in ID., Opere, cit.,p. 875.

72 La figura di Socrate assume un significato differente nelle due filosofie: per Michelstaedterè l’uomo persuaso, per Nietzsche –come si evince dall’analisi condotta in La nascita della trage-dia– è il padre del razionalismo occidentale, simbolo dell’odio della ragione e del sapere nei con-fronti della vita. È, comunque, per entrambi un personaggio che ha condizionato la lro vita, il lorofilosofare. Nietasche, infatti, nell’inattuale Noi filologi afferma che «Socrate –lo confesso– mi ètotalmente vicino, che devo quasi sempre combattere contro di lui», F. Nietzcshe, Richard Wagnera Bayreuth, Considerazioni inattuali IV, Frammenti postumi 1875-1876, trad. it. G. Colli, S. Giamet-ta e M. Montanari, in Opere, p. 159.

73 Ivi, p. 876.74 Ivi, p. 877.75 ID., Empedocle, cit., p. 62.76 ID., La persuasione e la rettorica, cit., p. 45.77 Riproponendo i versi eraclitei Michelstaedter determina la modalità stessa del fare ricerca

propria del persuaso: «cercare con dati negativi così è la ricerca della ragione del valore che nonsappiamo che cos’è ma sappiamo che non deve essere in riguardo all’irrazionalità del bisogno»,C. MICHELSTAEDTER, Parmenide ed Eraclito, in D. DE LEO, Mistero e persuasione in Carlo Michel-staedter. Passando da Parmenide ed Eraclito, Milella, Lecce 2003, pp. 69-106, p. 103.

78 F. NIETZSCHE, Considerazioni inattuali III, Schopenhauer come educatore, cit., p. 187.79 C. MICHELSTAEDTER, Opere, cit., p. 738.80 ID., La persuasione e la rettorica, cit., p. 36.81 Ivi, p. 45.82 Ivi, p. 46.

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LA ROSA SENZA PERCHÉHEIDEGGER E LA QUESTIONE DEL VIVENTE*

di Isabella Aguilar

Die Ros ist ohn warum; sie blühet, weil sie blühet, Sie acht nicht ihrer selbst, fragt nicht, ob man sie siehet.

La rosa è senza perché; fiorisce poiché fiorisce, di sé non gliene cale, non chiede d’esser vista.

Nel suo corso del 1955-1956 su Il principio di ragione Martin Heidegger uti-lizzò per diverse lezioni come filo conduttore questo celebre distico tratto dalpoema secentesco Il pellegrino cherubico del mistico Angelus Silesius1. In que-sto corso Heidegger si interroga sull’essenza del fondamento a partire dal prin-cipio di ragione sufficiente nella sua formulazione leibniziana; formulazione cheper Heidegger inaugura, regge e conforma la metafisica dell’età moderna2.Nella quinta lezione, in cui fa la sua prima comparsa il distico di Silesius, Hei-degger tratta del decisivo carattere di pretesa del principio, sulla scorta di Leib-niz che lo definisce un principium reddendae rationis sufficientis3. La ratio èratio reddenda; “da fornire”, “da porre”. Nel costante rapportarci all’ente noipretendiamo che esso nella sua totalità abbia una ragione, un fondamento chein qualche modo lo “ponga al sicuro”; esigiamo che la sufficienza del fonda-mento sia perfetta, completa. Efficere, sufficere, perficere: i termini che Leibnizutilizza nei pressi della tesi del fondamento, nota Heidegger, non a caso riman-dano tutti ad un molteplice facere, un fare o produrre4.

“Perché c’è il rappresentato?”, “perché esso è così com’è?”: è nel modobanale del chiedere perché [Warum], che noi domandiamo del fondamento,pretendendolo. Cosicché, nota Heidegger, la versione rigorosa della tesi delfondamento, “niente è senza il fondamento che va fornito”, può venire riporta-ta alla forma: “niente è senza perché”5. Ma finché domandare del fondamentosarà inteso come un domandare nel modo del chiedere perché, verrà presup-posta l’identificazione del fondamento con una causa, con una ragione suffi-ciente tale da rispondere alla domanda: “Warum?”; e finché penseremo secon-do questa logica, la logica dell’intelletto e dell’ente compreso come semplicepresenza, non potremo mai arrivare mai a pensare il fondamento nel modo chegli è appropriato. È in questo contesto, come occasione retorica per indicareall’uditorio la possibilità di un altro cammino, che Heidegger cita il distico diAngelus Silesius, contemporaneo di Leibniz, che al principio di Leibniz, “nien-te è senza perché”, indirettamente e poeticamente risponde: la rosa è senzaperché6.

Si entra così in uno dei tanti luoghi heideggeriani in cui s’incontra la rosa,fiore per eccellenza e simbolo guida di questo breve saggio, che si interrogaproprio sul senso del simbolico e dell’esemplare nel cammino di pensiero diHeidegger, in riferimento ai concetti di vita e natura.

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La rosa nelle arti e nel pensiero costituisce un eterno paradosso: è la fragi-lità stessa della sua spoglia sensibile ad aver donato a questo piccolo fiore unaspoglia simbolica immortale. Di cosa è eterno simbolo la rosa? Innanzitutto delmistero della fioritura. Un mistero in sé molteplice: della nascita spontanea,radicata nella terra; della Bellezza; dell’Amore e della Vita; e soprattutto delcarattere effimero di questi, se il fiorire non è che l’inizio del breve e delicatociclo che declina nello sfiorire. Detto questo, la rosa si presta però a tante inter-pretazioni quante sono le filosofie: è exemplum dell’ordine eterno del cosmocome del mistero mistico, o del mero limite del pensiero, dell’ineffabile. «Roseis a rose is a rose is a rose», canta il più celebre verso di Gertrude Stein, e sucosa esso significhi generazioni di interpreti non a caso continuano ad interro-garsi7. Ma l’interpretazione heideggeriana della rosa di Silesius e più in gene-rale del senso della Φúσις in cui cercheremo di addentrarci è forse una tra lepiù sorprendenti dell’intera storia del pensiero occidentale: per il livello di origi-narietà cui si spinge e per il gioco ambiguo, e come vedremo irrisolto, tra la let-teralità e la metaforicità del linguaggio, con cui per decenni il pensatore diMeßkirch ha cercato di catturare e guidare i suoi ascoltatori lungo il difficilecammino che conduce dal misterioso fenomeno del fiorire all’ancor più miste-rioso fiorire del fenomeno.

IHeidegger chiosa l’entrata della rosa di Silesius sulla scena del Principio di

ragione con queste parole:

La rosa sta qui evidentemente come esempio per tutto ciò che fiorisce,per tutte le piante, per tutto ciò che cresce e si sviluppa nel mondo vege-tale. In questo ambito, secondo la parola del poeta, la tesi del fondamen-to non vale8.

La rosa nominata nel distico di Silesius: evidentemente, solo un “esempio”,o meglio una metonimia, dell’intero ambito vegetale. È in questo ambito, nellasua interezza e nella sua particolarità regionale, che la tesi del fondamento inqualche modo sembrerebbe non dover valere. Il riferimento privilegiato all’am-bito naturale è dunque il punto di partenza che Heidegger assume per la suaargomentazione. Interpretare il distico in riferimento alla regione dell’ente dinatura significa partire dalla prospettiva del pensiero comune e lato sensumetafisico. E da questa prospettiva, nota Heidegger, il detto non può che suo-nare enigmatico: infatti, che ne è della catena di ragioni, cause e condizioninecessarie da cui, la scienza ci insegna, dipende il fiorire della rosa? E noncade forse il primo verso in una manifesta contraddizione, riconoscendo subi-to dopo che la rosa “fiorisce poiché fiorisce”? La poesia dice: La rosa è senzaperché [Warum] e tuttavia non senza poiché [weil]. Dietro la diversità dei duetermini, che trova peraltro un corrispettivo in gran parte delle lingue europee,potrebbero forse celarsi due modi diversi di rappresentare la relazione al fon-

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damento: il perché cercherebbe il fondamento nel modo del pretenderlo, del-l’esigerlo; il poiché conterrebbe invece «la risposta che indica il fondamento»,adducendolo. Ma se il fondamento fosse nei due casi il medesimo, e cambias-se solo il modo di rapportarvisi, laddove il perché fallirebbe come potrebbe ilpoiché riuscire nel rappresentarlo? Inoltre, il verso dice chiaramente che il fon-damento è il fiorire (“poiché fiorisce”): può questa risposta tautologica bastar-ci? Insomma, Heidegger si dilunga a mostrarci come il modo rigido di ragiona-re dell’intelletto comune e della logica ordinaria, nonostante i suoi sforzi, nonpossa che dibattersi con impaccio fra le parole del poeta.

Tantomeno si tratta per il nostro filosofo di leggere il distico in chiave misti-ca –come pure sarebbe ermeneuticamente più corretto. Potremmo acconten-tarci di interpretare il primo verso come un monito affinché ci arrestiamo nellanostra volontà di sapere ed accettiamo il mistero del creato attraverso la purafede nel creatore. Ma sebbene l’intero pellegrino cherubico sia inevitabilmentepervaso di riferimenti a Dio e a Cristo, è probabile che il vero motivo dell’inte-resse di Heidegger stia piuttosto nel fatto che nel secondo verso del distico nél’uomo né alcun dio sono nominati, bensì solo la rosa stessa:

di sé non gliene cale, non chiede d’esser vista

Il suo essere senza perché, piuttosto che con il rapporto tra l’uomo e Dio,ha a che fare con il rapporto della rosa con se stessa, con il modo di esseredella rosa stessa. Qui della rosa si parla per così dire “in prima persona”. Mala rosa non è per l’appunto una persona; perché a differenza della persona,ricorda Silesius, alla rosa di per sé non cale di sé. La rosa, per essere ciò cheè, non ha bisogno di curarsi espressamente di se stessa, di prestare attenzio-ne a tutto ciò che le è proprio, tantomeno al suo “che cosa” ed al suo “come”,alle sue ragioni determinanti, al suo fondamento. «Tra il fiorire e le ragioni delfiorire non c’è spazio per quella attenzione alle ragioni, in forza della quale sol-tanto le ragioni potrebbero essere di volta in volta in quanto [als] ragioni»9. Ciòche manca alla rosa nella prospettiva del senso comune è, potremmo dire, l’at-titudine intenzionale e attenzionale, il potere riflessivo o il linguaggio. Piuttosto,alla rosa accade il fiorire e in tale fiorire essa si risolve tutta, senza curarsi diciò che, come un qualcosa di diverso, potrebbe produrre quest’ultimo soltantodopo come effetto. La rosa dunque, a differenza dell’uomo non ha bisogno cheprima le si fornisca espressamente il fondamento del suo fiorire, non necessi-ta di reddere rationem10.

Fin qui si procede sul piano delle ovvietà. L’uomo e la rosa hanno due modidi essere differenti: l’uomo è quell’essere riflessivo e linguistico che ha la pos-sibilità di interrogarsi sul mondo, su se stesso e infine sul fondamento di tuttociò, domandando perché, e in modo tale che questa possibilità è per lui consi-derata la più ovvia e dunque è legittimamente da lui pretesa; il che ci è ricor-dato dal principio di ragione, che è principium ratio sufficientis reddenda. Inve-ce la rosa –e con la rosa, che è solo un esempio, tutti gli enti di natura– ha undifferente modo di essere: in questo senso è “senza perché”.

Il senso comune, rincuorato, può a questo punto notare che non per que-

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sto, però, la rosa è senza fondamento. Piuttosto essa rientra nel dominio delprincipio di ragione; semplicemente, siamo noi e non lei per se stessa a doverchiedere quale sia il suo fondamento. Il suo rapporto con il fondamento è “interza persona”, non in prima. L’intelletto ordinario si sente rassicurato nella sualogica: non gli si voleva sottrarre il potere di reddere rationem della rosa, bensìlegittimarlo; noi siamo più della rosa, che è solo e semplicemente presente inmezzo agli altri enti, vivente, “fiorente” e, lei, non dispone del perché. Entram-bi però, la rosa e noi, sebbene in modo diverso, stiamo dentro al dominio delprincipio del fondamento; il principio vale nel caso della rosa (in quanto ogget-to del nostro rappresentare), solo che essa non vive secondo [nach] ragioni,fondamenti e cause, bensì solo per [durch] ragioni, fondamenti e cause11.

Fin qui può procedere l’intelletto comune in base a ciò che è riscontrabileattraverso l’osservazione quotidiana. Le banali considerazioni svolte finora nonsono che il risultato di quella che potremmo indicare come un’analisi compara-tiva dei differenti modi di essere di due generi di enti semplicemente presentiin mezzo ad un unico mondo comune.

II1 – Un’analisi comparativa metodologicamente affine, ma in quel caso tut-

t’altro che banale, era stata tentata da Heidegger venticinque anni prima, nelcorso del semestre invernale 1929-30 Concetti fondamentali della metafisi-ca12. Oggetto del raffronto con l’uomo era allora non la rosa bensì l’animale,spesso però esplicitamente indicato come exemplum di ogni essere vivente.Un terzo di queste lezioni è dedicato allo sviluppo di una “osservazione com-parata”13 del modo di essere dell’animale rispetto a quelli dell’uomo e dellapietra (dell’ente inanimato), a partire dall’ingenua constatazione del loro carat-tere comune di enti semplicemente presenti “nel” mondo. Dopo la via attraver-so la comprensione quotidiana del mondo-ambiente tentata in Essere etempo e dopo la “via storiografica” tentata l’anno precedente in Dell’essenzadel fondamento, Heidegger presenta ai suoi studenti questa analisi compara-ta come una terza via per rispondere alla domanda “Che cos’è mondo?”14. Sitratterebbe, spiega, di considerare i differenti modi in cui l’uomo, l’animale ela pietra si rapportano al mondo stesso, e di comprendere il mondo all’inter-sezione di questi diversi rapporti, come fosse una sorta di minimo comunedenominatore15. Se, ovviamente, si tratta di un’impostazione che finirà prestosmascherata nella sua ingenuità, non dobbiamo per questo distogliere l’atten-zione dal fatto che Heidegger opera qui la scelta metodologica di partire dauna prospettiva “naturalistica”, da una sorta di metafisica della natura, e chequesta scelta costituisce una sorprendente violazione di ogni indicazionemetodologica presente nei suoi scritti della fine degli anni Venti e dei primianni Trenta. Infatti, se in questo delicato periodo Heidegger sembra ancorapropenso a considerare un’ontologia della natura e della vita, e dunque del-l’animale e della rosa –e così pure altre “ontologie regionali”– come una pos-sibilità e finanche una necessità per il pensiero filosofico, egli ne rimanda però

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decisamente l’elaborazione, subordinandola all’analitica dell’esserci. Solodopo aver guadagnato una comprensione del Dasein nel suo carattere unita-rio, a sua volta preliminarmente orientata dal problema del senso dell’essere,sarà possibile indagare il campo della natura vivente, ripete più volte Heideg-ger in Essere e tempo. Ed è proprio alla fretta di ricorrere al concetto di natu-ra che egli attribuisce il “salto” del fenomeno del mondo da parte delle “onto-logie finora apparse”16. Quello di natura, comunque lo si intenda, resta infattiper Heidegger innanzitutto un concetto legato alla comprensione dell’ente neitermini della Vorhandenheit, della semplice presenza: esso è il frutto di «unadeterminata demondificazione del mondo»17. Se nell’analitica dell’esserci lanatura sembra assente, come si legge nella nota 55 a Dell’essenza del fon-damento, è quindi per delle “buone ragioni”: «Quella decisiva è che la naturanon è qualcosa che noi possiamo incontrare nell’ambito del mondo-ambiente,né la si può incontrare primariamente come qualcosa in rapporto a cui noi cicomportiamo. La natura si manifesta originariamente nell’esserci in quantoquesto esiste in mezzo all’ente, sentendosi situato in uno stato d’animo. Mapoiché il sentirsi situati (l’essere-gettato) appartiene all’essenza dell’esserci, esi esprime nell’unità del concetto complessivo di cura, solo qui si può trovarela base per il problema della natura»18. Finché il nostro originario sentircisituati viene naturalisticamente interpretato in termini di un mero esser piaz-zati in mezzo all’ente, il concetto di natura resta il più insidioso dei concetti;non potrà che essere fuorviante seguirlo, e ciò proprio allo scopo di raggiun-gere un “concetto naturale di mondo”19; solo che qui “naturale” sta per “origi-nario”; e questa idea di originarietà è opposta all’idea di originarietà concepi-ta in base alla categoria della semplice presenza20.

Ora, a dispetto di tutte queste indicazioni, nel corso del 1929-30 non si hapropriamente lo sviluppo di una ontologia regionale, quanto piuttosto una lungaanalisi del modo d’essere dell’animale che in qualche modo vorrebbe prepara-re tale ontologia; e che, sorprendentemente, prescinde di proposito dallo svi-luppo dell’analitica esistenziale. Heidegger sembra voler tentare una descrizio-ne essenziale dell’animale, articolata ed esauriente, in grado di conciliarsi coni risultati della più moderna biologia ed anzi di renderne conto, senza presup-porre esplicitamente i traguardi di Essere e tempo. Un eccentrico interprete deiGrundbegriffe 1929-30, il filosofo americano David Farrell Krell, non ha forseesagerato definendo queste pagine di Heidegger sull’animale “his most splen-did failure”21. Certamente il meno che si possa dire è che Heidegger abbiaseguito qui una via azzardata rispetto ai suoi presupposti metodologici, forsespinto dall’urgenza di confrontarsi con la questione dell’essere vivente ed inparticolare dell’animalità, tanto più mentre andava maturando in lui la consa-pevolezza del fallimento di impostazione della sua opera principale. Certo l’im-presa di Heidegger non è poi così azzardata; in queste lezioni ci si appellaspesso al carattere circolare del discorso filosofico, e di fatto l’intera descrizio-ne è inevitabilmente guidata dai risultati dell’analitica esistenziale. Ma l’esitodell’analisi non risulta affatto scontato. Si cercherà qui di esporlo brevemente,per tornare poi nei pressi di quella rosa che sembriamo aver lasciato indietro.

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2 – L’analisi del 1929-30 del modo d’essere dell’animale trae il suo orienta-mento da quella che a detta di Heidegger rappresenta la tesi guida del sensocomune in merito all’animalità –e che si rivelerà filosoficamente vera, seppuread un livello per il senso comune insospettato. La tesi afferma: “l’animale èpovero di mondo” [das Tier ist weltarm]. Essa è introdotta da Heidegger in cor-relazione e opposizione alle altre due tesi “l’uomo è formatore di mondo” [derMensch ist weltbildend] e “la pietra è senza mondo” [der Stein ist weltlos]22.Rispetto ai modi di essere dell’uomo e della pietra, l’animale sembra così inqualche modo trovarsi “nel mezzo”. Ora, questa posizione intermedia, per Hei-degger, non è che il segno del fatto che l’indagine sull’animale costituisce pernoi l’unico vero caso in cui si dia legittimamente una questione dell’alterità, valea dire un problema relativo alla possibilità di trasporre noi stessi [sich verset-zen] in un ente altro da noi23. Infatti, se riguardo alla pietra è impossibile anchesolo concepire per noi una “sfera di trasponibilità” con essa (se si esclude uncontesto animista, mitologico o “artistico”); e se per motivi opposti nemmeno laquestione dell’alter ego com’è noto, a differenza che per il maestro Husserl,costituisce per il suo allievo un autentico problema, ma è piuttosto una questio-ne superflua, perché già “essere uomo” significa: “essere trasposto nell’altro”[Versetztsein in den Anderen], “con-essere con l’altro” [Mitsein mit den Ande-ren]»24; allora ecco che la questione dell’alterità consiste, si riduce a e si iden-tifica con la questione dell’alterità tra uomo ed animale. Infatti, sostiene Hei-degger, da un lato possiamo sempre legittimamente tentare una descrizionedel modo d’essere dell’animale, poiché la possibilità di accompagnarci ad essoè da noi considerata non problematica a priori; dall’altro però non possiamomai essere sicuri della riuscita, dei limiti della trasposizione e del metodo piùappropriato, cosicché tale alterità costituisce effettivamente e legittimamenteun problema.

Heidegger riassume questo ambiguo stato di cose con una locuzione tantodeterminante quanto inizialmente oscura: nel caso del rapporto con gli anima-li quel che ci si offre è il poter concedere una trasposizione e il dover negareun accompagnarsi [Gewährenkönnen der Versetztheit und Versagenmüsseneines Mitgehens]25. Il fondamento di questo stato di cose lo si incontra in un’al-tra enigmatica formula, con cui Heidegger introduce il modo d’essere dell’ani-male stesso: si tratta, leggiamo, di un non avere nel poter avere il mondo o,anche, di un farne a meno; questo “fare a meno” custodirebbe il vero sensodella povertà di mondo che il senso comune, a ragione, ritiene definire l’essen-za dell’animale: «Armut (Entbehren) als Nichthaben im Habenkönnen», pover-tà (fare a meno) come non avere nel poter avere, sentenzia Heidegger.

Cerchiamo di far luce sul senso di queste espressioni: se l’uomo “può e nonpuò” rapportarsi all’animale, se “può concedere una trasposizione” ma “devenegare un accompagnarsi”, è per via del modo d’essere dell’animale stesso, asua volta duplice o ambiguo: l’animale non è semplicemente “senza mondo”come la pietra. Se così fosse, per esso non vi sarebbe possibilità di alcun rap-porto con l’uomo. Il suo “non avere” è piuttosto fondato su una qualche formadi possibilità, su un enigmatico “poter avere”; che a sua volta è la condizionedi possibilità del suo “poter concedere una trasposizione”. Il punto per Heideg-

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ger sta nella necessità di pensare questa forma di possibilità al di fuori dell’al-ternativa tra la libera scelta –la possibilità in senso umano, in “prima persona”–e la possibilità “in terza persona” –oggettiva, determinata da una forza vitale eanimata da una qualche forma di teleologia. Nel primo caso si antropomorfiz-zerebbe l’animale, nel secondo lo si considererebbe un mero meccanismo. Inentrambi i casi, avverte Heidegger, la sua essenza verrebbe radicalmentefraintesa.

Ora: quella che Heidegger intraprende a seguito di queste indicazioni dimetodo è proprio la descrizione di questa nuova e problematica forma di pos-sibilità di avere un qualche tipo di rapporto col “mondo” per l’animale –possibi-lità che a sua volta fonda l’opportunità per noi di avere un qualche tipo di rap-porto con l’animale.

L’analisi del vivere animale è presentata così da un lato come legittima eaffidabile ma dall’altro come costitutivamente destinata a mantenere un latooscuro, intrinsecamente non svelabile. Infatti, l’oggetto della descrizione è unmodo di essere parzialmente altro da quello dell’esserci umano, e in questamisura solo parzialmente comprensibile: il lato oscuro della descrizione, la suaproblematicità intrinseca, non potranno mai essere risolti, eliminati. D’altrocanto, come vedremo, pur senza smettere di costituire un enigma, il lato oscu-ro della vita animale e della vita in generale a detta di Heidegger potrà esserecompreso in modo autentico solo effettuando un passaggio su un piano total-mente altro da quello descrittivo. Ma giunti su questo piano, il piano del pen-siero originario, sembra aprirsi una falla nel sistema filosofico heideggeriano.Una falla corrispondente a quel punto oscuro che costituiva il residuo delladescrizione. Non possiamo che procedere per gradi: innanzitutto, finalmente,dove conduceva quell’analisi?

3 – Se in Sein und Zeit il modo d’essere dell’esserci era determinato comeessere-nel-mondo [In-der-Welt-Sein] e, nel suo carattere unitario, come Cura[Sorge], nei Concetti fondamentali della metafisica il modo d’essere dell’anima-le è indicato con il termine “Benommenheit”, “stordimento”26. Ciò che più premead Heidegger in queste pagine è di mostrare che, come nel caso dell’esserci,neppure il modo di essere dell’animale deve essere compreso separatamentedal rapporto con il suo ambiente. Ma il polo “oggettivo” cui l’animale si rappor-ta non può essere il mondo [Welt], e nemmeno un mondo-ambiente [Umwelt]come quello di cui parlava il biologo von Uexküll27. Piuttosto Heidegger –avva-lendosi di prove empiriche tratte dall’esperienza quotidiana come da quellascientifica– definisce questo polo come un “Ring” o “Umring”, un “cerchio” o“cerchio ambientale”28: entro questo cerchio l’animale sarebbe incessantemen-te sospinto [getreiben, umgetrieben] da un comportamento all’altro da continuistimoli ambientali in grado di disinibire i suoi istinti [Triebe], senza alcuna pos-sibilità estatica di fuga: come stordito, appunto. Il comportamento animale[Benehmen], completamente altro dalla condotta [Verhalten] o agire [Handeln]propri dell’uomo, è descritto come «il lottare [Ringen] dell’animale con il suocerchio ambientale»29, una lotta cieca in cui l’animale è assorbito dagli “ogget-ti”, piuttosto che apprenderli, rap-presentarli in quanto tali.

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L’io animale, polo “soggettivo” della struttura unitaria dello stordimento, cor-relativamente deve potere in qualche modo “essersi-proprio”, autopossedersi:ciò è espresso da Heidegger con il termine di “proprietà” [Eigentum]; ma que-sta sorta di identità deve essere nettamente distinta dall’umana “personalità”[Personalität] – dotata di “autocoscienza e riflessione”, nota Heidegger limitan-dosi sempre al piano della descrizione, dell’intelletto comune30.

La lunga descrizione di cui si sono esposti a grandi linee i risultati, in con-clusione, fornisce un ritratto dell’animale come di un essere dotato di quelli chepotremmo definire uno pseudo-io, una pseudo-intenzionalità, degli pseudo-comportamenti ed uno pseudo-mondo popolato da pseudo-oggetti. Con que-sta caratterizzazione Heidegger vuole principalmente impedire un’interpreta-zione del modo d’essere animale basata su un concetto di istinto quale forzacieca e svincolabile a priori dai suoi “oggetti”, ed evitare così la legittimità delricorso nella spiegazione a forze vitali e teleologie di qualsiasi sorta.

Ora, il punto è che in base dell’analisi heideggeriana nulla sembra poterciimpedire di parlare nel caso dell’animale piuttosto che di pseudo-, di proto-intenzionalità, proto-oggetti etc… Niente nella descrizione sembra obbligarci ariconoscere una differenza abissale ed essenziale piuttosto che una mera dif-ferenza di grado a separare, per quanto eclatantemente, l’uomo dall’animale.Su questo piano non si può ancora affatto giustificare la posizione che Heideg-ger ha mantenuto con sorprendente costanza lungo il corso di tutto il suo pen-siero: l’idea che l’uomo e l’animale siano separati da un abisso d’essenza. «Ilsalto [Sprung] dall’animale che vive all’uomo che parla è tanto ampio se nonpiù ampio di quello dalla pietra senza vita all’essere vivente», afferma Heideg-ger per esempio nelle lezioni del 1934-5 dedicate all’inno Germanien di Höl-derlin31. «La mano si distingue da ogni altro organo prensile, come zampe, arti-gli, zanne, infinitamente, ossia tramite un’abissalità essenziale», si legge inChe cosa significa pensare?32. Ma i riferimenti sono innumerevoli. Il punto èche questo abisso non può però trovare giustificazione sul piano della descri-zione; nemmeno di quella fornitaci ex novo dallo stesso Heidegger. Certo, l’ani-male è privo di autocoscienza, del linguaggio e della sua struttura elementare,l’in-quanto [Als]; esso non è in grado di comprendere le cose in quanto cose:per la lucertola che si crogiola al caldo su un sasso il sole non è in quanto solee la pietra non è in quanto pietra. Ma basandosi sulla mera osservazione èimpossibile dire, per esempio, che l’uomo faccia altrimenti, che egli abbia dav-vero la possibilità di vedere il sole in quanto sole e così via; è Heidegger stes-so ad averci insegnato, in Essere e tempo, che il modo in cui innanzitutto e perlo più ci rapportiamo agli oggetti è piuttosto quello del “prendersi cura maneg-giante-usante”: atteggiamento molto simile a quello con cui la formica si rap-porta al sassolino, e rispetto al quale la considerazione in base alla mera sem-plice presenza è secondaria e derivata tramite un processo di astrazionedepauperante. Il punto è che il piano della descrizione zoologica e antropolo-gica non può affatto bastare di per se stesso al fine di scardinare una volta pertutte, come vuole Heidegger, l’idea antichissima e resistente che l’uomo sia unanimale in più dotato di ragione, di linguaggio.

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4 – La consapevolezza che non si possano raccogliere vere e proprie proveempiriche a favore di una distinzione essenziale e abissale tra uomo e anima-le è da sempre viva tra i filosofi; anche quelli che più strenuamente hanno dife-so l’idea che tale distinzione esista ne hanno cercato in qualche modo il fon-damento altrove; un altrove che però differisce profondamente da pensatore apensatore.

Kant offre un esempio eminente di questa situazione. Uno dei luoghi kantia-ni più cari ad Heidegger in questi anni è il primo capitolo della prima parte de Lareligione nei limiti della semplice ragione33. Qui Kant, in relazione alla questionedi come l’uomo sia costituito quanto alla facoltà pratica (o, come ancora si espri-me, alla “facoltà di desiderare”), distingue tre “disposizioni” originarie e inelimina-bili della natura umana quali condizioni di possibilità della volontà buona. Laprima disposizione è quella all’animalità [Tierheit]; essa si esprime in un amoredi sé “puramente fisico”, “meccanico” e istintuale; sotto questo rispetto l’uomonon è che un mero essere vivente. Nella seconda disposizione l’amore fisico disé è mediato dalla comparazione con gli altri; per realizzare questo confrontol’amore di sé ha bisogno della ragione. Visto sotto questo riguardo l’uomo noncerca ancora ciò che è bene in assoluto ma ciò che è bene per lui, ciò che ècausa della sua felicità (in un confronto con gli altri che può degenerare in invi-dia, ingratitudine e cattiveria); Kant chiama questa seconda disposizione, conun’espressione per certi versi sorprendente, disposizione all’umanità [Men-schheit]. Questo significa che se l’uomo rimane semplicemente uomo, non si sol-leverà al di là dell’amore fisico di sé e di un uso strumentale della ragione, prigio-niera della brame dell’animalità: per Kant, come per Heidegger, non solo l’anima-lità, ma nemmeno la ragione è di per sé sufficiente a definire essenzialmentel’uomo. Ora: sia la prima che la seconda “disposizione” possono essere filosofi-camente raggiunte attraverso la semplice descrizione del nostro comportamen-to quotidiano. Ma solo per via della terza, quella alla personalità [Persönlichkeit],nota Heidegger, l’uomo può mostrarsi in grado di essere all’altezza del compitoche la sua essenza gli impone; «l’essenza dell’uomo non è definita esauriente-mente dalla sua umanità, essa non si compie e non si determina propriamenteche nella personalità». E la disposizione alla personalità, per Kant, si esperiscequando l’uomo giunge a considerare se stesso non solo come razionale, maanche come “suscettibile d’imputazione”, cioè come soggetto moralmenteresponsabile delle sue azioni. Nella Critica della ragion pratica la personalità cosìintesa viene definita «ciò che eleva l’uomo al di sopra di sé (in quanto parte delmondo dei sensi)».

Quel che interessa ad Heidegger è l’intuizione kantiana che per raggiunge-re la sua essenza più propria, nell’esistenza e nel pensiero, l’uomo debba ele-varsi al di sopra del mondo dei sensi, dell’animalità e dell’umanità a lui proprie,e librarsi così oltre il piano descrivibile osservativamente, per attingere all’“altro-ve” (un altrove dal quotidiano e non ancora dal soggetto, nel caso di Kant) dellaragione pratica pura. L’animale fuori e dentro di noi può essere compreso nellasua “disposizione” restando sul piano dei sensi; ma perché l’uomo sia davverocompreso in ciò che da esso lo distingue abissalmente ed essenzialmente, sirichiede che questo piano venga trasceso in un senso radicale.

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Al contrario, secondo Heidegger, laddove Kant ha cercato di pensare il pro-prio dell’essenza umana a partire da una comprensione ordinaria del cosmo,della natura e della causalità, invece di cercarlo immediatamente nell’altrovedella ragione pura pratica, si è ritrovato in una dimensione irresolubilmente fal-lace e problematica (quella dell’idea cosmologica di libertà)34.

Un filosofo contemporaneo di Heidegger come Scheler non si trova davan-ti a difficoltà tanto diverse. Ne La posizione dell’uomo nel cosmo si trovanodescrizioni dettagliate del modo d’essere della pianta, dell’animale e dell’uomo,tutte esplicitamente riconosciute come compatibili con, anzi implicanti un ordi-namento unico, graduale e gerarchico degli esseri viventi. Così, alla domandase vi sia qualcosa di assolutamente peculiare nell’uomo in grado di scavare unabisso d’essenza con l’animale, Scheler può rispondere positivamente soloattraverso il ricorso alla nozione del tutto altra e nuova di Spirito (e necessite-rà del concetto di Dio per riconciliarla con la vita).

D’altro canto, per Heidegger né Kant né Scheler, pur essendosi spinti moltooltre nella ricerca di un fondamento essenziale alla distinzione tra uomo e ani-male, hanno raggiunto il luogo davvero originario a partire dal quale essapossa essere fondata nella sua abissalità, bensì hanno continuato, in qualchemodo, a pensare l’uomo anche accanto all’animale, nella misura in cui non sisono disfati del tutto da una comprensione del mondo in base alla categoriadella semplice presenza35.

5 – Torniamo all’animale ed al suo lato oscuro e impenetrabile. Come si èdetto, per quanto si possa e si debba ammettere in virtù della nostra stessaesperienza empirica che per l’animale si dia una qualche apertura [Offenheit],ciò che è aperto all’animale, per Heidegger, non è il mondo, non sono gli entiin quanto tali, non è l’ambito della manifestatività [Offenbarkeit]; è invece il cer-chio, all’interno del quale l’animale si trova rinchiuso, in cui è condannato agirare e girare, stordito, sospinto da un comportamento istintuale all’altro, inuna «lotta attraverso l’oscurità»36. Ma il cerchio per Heidegger non deve esse-re inteso affatto come un ambito di manifestatività di tipo diverso e però anchesolo in minima parte coincidente con quello umano (di nuovo, come una proto-maifestatività); e ciò non più in forza di ciò che l’empiria può o potrà maimostrarci. La manifestatività per Heidegger è compresa nella sua origine soloquando è compresa nel suo emergere dal nascondimento e in originaria unitàcon esso. E l’animale, come si esprime Heidegger, «è escluso dall’ambito delconflitto essenziale di velatezza e svelatezza»; preso nella sua lotta per la vita,esso non ha alcun rapporto con un’altra ben più essenziale lotta: la lotta divelamento e svelamento in cui propriamente consiste la verità, compresa nellasua essenza originaria di α-ληθεια, ossia come rapporto originario dell’uomocon l’essere. L’animale è escluso dal rapporto originario con l’essere, per l’ani-male non si dà αληθεια, ed è per questo che nel suo caso non ha senso par-lare del darsi di un ambito di manifestatività, di un mondo di qualsiasi genere,fosse anche il più misero dei mondi-ambiente. «Nello stordimento l’ente per ilcomportamento dell’animale non è manifesto, non è dischiuso, ma appunto perquesto neppure chiuso. Lo stordimento si trova al di fuori di questa possibili-

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tà»37. E se l’uomo, più propriamente, non ha bensì è rapporto con l’essere,quella tra l’uomo e l’animale non potrà in nessun caso essere compresa comeuna differenza accessoria, e nemmeno in generale come una differenza, poi-ché essa si fonda su un piano radicalmente altro da quello dove si situano dif-ferenze qualitative e quantitative specifiche: essa si fonda nel luogo dell’essen-za unitaria e originaria dell’esser uomo. L’originario luogo ove solo può trova-re fondamento la distinzione abissale tra uomo e animale è quel luogo assolu-to in cui si gioca eternamente il gioco del sorgere del mondo come ambito dellamanifestatività, un differenziarsi a partire dal sottrarsi originario dell’esserestesso. Un gioco che l’uomo gioca con l’essere affinché l’essere possa giocar-vi con l’uomo. E che può essere giocato in modo più o meno appropriato. Ungioco ultimo, in cui naufraga ogni ulteriore possibilità di fondazione38.

6 – Solo a partire dalla “logica originaria” del fondamento infondato è possi-bile comprendere quel che Heidegger intende quando nei Grundbegriffe 1929-30 afferma che «all’animale è sottratta [genommen] la possibilità di apprenderequalcosa in quanto qualcosa, e non qui e ora, bensì sottratta nel senso di nondata affatto […] e per questo esso non è semplicemente non-riferito ad altro,bensì appunto assorbito da ciò, stordito»39: il vero senso e fondamento dellaBenommenheit, dello stordimento, è la Genommenheit, la sottrazione delmondo. Sottrarre, esser povero, fare a meno, non avere nel poter avere: tuttiquesti termini non sembrano affatto presentare la condizione animale con neu-tralità, bensì valutarla negativamente. E non potrebbe esserci fraintendimentomaggiore del pensiero di Heidegger che quello di considerare la sua descrizio-ne del modo d’essere animale e questa sorta di valutazione negativa come l’esi-to di un punto di vista “soggettivo”: la povertà di mondo non è un caratteredesunto dal confronto con l’uomo (come ente dotato di capacità empiricamentecostatabili). Al contrario, afferma Heidegger verso la conclusione dei Grundbe-griffe, «se in certe sue varianti il fare a meno è un soffrire, allora, se il fare ameno del mondo e l’esser-povero fanno parte dell’essenza dell’animale, la sof-ferenza e il dolore dovrebbero aggirarsi per l’intero regno animale e per il regnodella vita in generale»40, e che «forse soltanto i poeti, di quando in quando, neparlino è un argomento che la metafisica non può gettare al vento. In fondo nonè necessaria la fede cristiana per comprendere qualcosa di quella parola chePaolo (Romani VIII, 19) scrive della struggente attesa delle creature e del crea-to le cui vie, come dice anche il libro Esdra, IV, 7, 12, in questo Eone sono dive-nute anguste, tristi e faticose»41.

S. Paolo e un testo apocrifo, trattati come testi poetici, alluderebbero a ciòche le scienze non potranno mai vedere: che in qualche modo l’animale è statoprivato di “qualcosa”, e ciò in un senso assoluto. Questo “qualcosa” è definibi-le, se non forse come “grazia”, certamente come una peculiare specie di “sal-vezza”. Nelle lezioni del 1942-43 su Parmenide non a caso Heidegger ripren-de la questione dell’animale proprio in occasione della accentuazione del moti-vo del salvamento [Bergung] come carattere intrinseco alla αληθεια pensatacome disvelamento [Entbergung]42. «In termini iniziali lo svelato è ciò che […]viene salvato e messo in salvo nello svelamento»; quanto è dischiuso [das

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Augegangene] e svelato viene “accolto nella svelatezza”, ne viene “salvato” evi “resta in salvo”: «Das Unverbogene [lo svelato] ist das also Geborgene [sal-vato]»43. Ma «l’aperto salva il sito essenziale dell’uomo, se non altro perchésolo ed esclusivamente l’uomo è quell’ente per cui l’essere si apre nella radu-ra»44; «solo ed esclusivamente l’uomo vede nell’aperto», sebbene ciò possapoi avvenire o meno «nello sguardo essenziale del pensiero autentico»; soloed esclusivamente l’uomo è in rapporto con l’essere nel modo del lasciar esse-re la manifestatività, e reciprocamente e a un tempo e proprio in questo modosolo ed esclusivamente per l’uomo si dà salvezza dell’ente nella sua totalità –e così a un tempo della sua stessa essenza. L’aperto è innanzitutto quello che«giammai la creatura potrà vedere, dal momento che il poterlo scorgere costi-tuisce il contrassegno essenziale dell’uomo, e dunque il confine essenziale einvalicabile tra uomo e animale». Da parte sua, «l’animale è escluso dall’am-bito essenziale del conflitto fra svelatezza e velatezza, e il segno di tale esclu-sione essenziale è il fatto che nessun animale e nessuna pianta “ha la paro-la”»45: l’assenza di linguaggio non è affatto una causa (empirica), ma un segno:la traccia visibile di ciò che è determinato una volta per tutte sul piano dell’es-senza, e che possiamo chiamare una tragica assenza di salvezza.

Se ci si permette qui di saltare indisciplinatamente da un riferimento testua-le all’altro è perché, a dispetto dei mutamenti linguistici e degli slittamenti con-cettuali attraverso cui il pensiero di Heidegger non smette mai di riguadagna-re la radicalità del proprio compito, è sorprendente la costanza con cui nelcorso dei decenni egli ha affrontato il tema della vita animale. Che si guardi aiGrundbegriffe 1929-30, ai Beiträge, al corso su Parmenide, alla Lettera sul-l’umanismo, all’ultimo seminario tenuto con Fink su Eraclito, rimangono immu-tati i termini, i concetti e le locuzioni con cui la questione viene affrontata(anche se, con l’eccezione dei Grundbegriffe, sempre solo di sfuggita).

Ma tutt’altro che risolta, tale questione resta piuttosto irresolubile. E questairresolubilità è ben chiara ad Heidegger, e a ben guardare è sempre esplicita-mente ribadita in questi luoghi: «La vita è un ambito che nel suo esser-aper-to ha una ricchezza che forse il mondo dell’uomo non conosce per nulla»,scrive Heidegger nel 1929-3046. «Unicamente accennando all’esclusione del-l’animale dall’ambito essenziale della svelatezza, l’enigma di tutto il viventecomincia per noi a chiarirsi in quanto enigma», si legge nelle lezioni su Par-menide47. Il pensiero originario della αληθεια non risolve né liquida affattol’enigma dell’alterità animale e in generale del vivente. Al contrario, ne ponein luce il carattere di enigma assoluto, puro e ultimo. Gli animali e più ingenerale i viventi si muovono in ciò che in Parmenide viene indicato –in unasostanziale identità col Ring di quindici anni prima– una Erregbarkheit, un“ambito di eccitabilità”; d’altro canto, essi sono esclusi dall’ambito della mani-festatività [Offernbarkeit]. Questa contrapposizione di due ambiti in definitivaassolutamente altri sembrerebbe però, così espressa, un ultimo baluardodella metafisica, una sorta di punto cieco ove a qualcosa di metafisico anco-ra si accede all’interno del pensiero di Heidegger. L’allodola non vede l’aper-to; ma allora «Che cosa essa “veda”, come vede, e che cosa intendiamo per“vedere” attribuendole occhi, questo resta da domandare»48. L’enigma del

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vivente non è altro che questa domanda residua, in quanto è destinata arestare tale. Infatti, come si potrebbe «intuire tale lato nascosto [Verbogene]del vivente»? «Vi sarebbe bisogno di una facoltà poetica innata, cioè di unpoetare a cui fosse dato qualcosa di più, di più alto e di più essenziale, per-ché intrinsecamente essenziale» ben diverso da quel poetare che antropo-morfizza piante e animali49; ma questa facoltà poetica, che è quella di Paoloe dei testi apocrifi citati quindici anni prima, non costituisce appunto unasorta di ristretto spazio concesso ad un pensiero metafisico? Nella misura incui il vivente è cacciato in modo radicale fuori dall’ambito della manifestativi-tà, nella misura in cui si vuole mantenere il mondo “mondo” dall’animale, inquesta misura l’enigma del vivente è e resta fuori di noi, e questo “fuori” sem-bra non potersi comprendere che come un luogo metafisico. Se in Heideg-ger resta spazio per qualcosa come una dimensione noumenica, in un sensoparagonabile a quello kantiano, la si trova qui; non nel mistero dell’interiori-tà, e nemmeno tanto, paradossalmente, nel mistero dell’essere con la sua“logica salvifica”, quanto nell’enigma del vivente. Entro i confini del Ring,come uno di quei cerchi magici tracciati dagli antichi stregoni per ospitareforze misteriose, resta forse un luogo residuo per quell’antichissima strego-neria del pensiero che per Heidegger è in fondo la metafisica. E la possibili-tà parziale di comprendere l’animale, raggiungibile a partire dal nostro puntodi vista attraverso una legittima “osservazione privativa” (come la chiamaHeidegger in Essere e tempo e nei Grundbegriffe), piuttosto che trovare unagiustificazione essenziale, infine finisce per somigliare ad una sorta armoniaprestabilita.

III

1 – Torniamo finalmente alla rosa e al distico di Silesius e seguiamo Hei-degger per un altro tratto nelle sue lezioni sul principio di ragione.

La rosa è senza perché; fiorisce poiché fiorisce, di sé non gliene cale, non chiede d’esser vista.

Ci eravamo fermati all’interpretazione ordinaria secondo cui la rosa e l’uo-mo sarebbero due enti semplicemente presenti in mezzo al mondo, con duedifferenti modi di essere e di stare nell’unico e universale dominio del principiodi ragione. Per comprendere il detto di Silesius si tratterà ora di compiere unaltro passo, un “passo indietro”, che ha il carattere di un salto [Sprung] del pen-siero «fuori dall’ambito della tesi del fondamento quale principio supremo rife-rito all’ente […], in un dire che parla dell’essere in quanto tale». Se pensassi-mo che il senso del detto consiste soltanto nell’indicare la differenza fra i modiin cui la rosa e l’uomo sono ciò che sono, infatti, saremmo davvero miopi: «Ilnon detto del detto –da cui tutto dipende– dice piuttosto che l’uomo è veramen-te nel fondamento più nascosto della sua essenza soltanto quando, a suomodo, è come la rosa – senza perché»50.

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La rosa, che ci era parsa “meno” di noi, incompleta nel suo mero stare almondo, si scopre avere ora piuttosto qualcosa da insegnarci. L’ente di natura,proprio in virtù del suo essere senza perché, mostrerebbe un altro modo diessere del fondamento, e ad un tempo un altro possibile modo di stare nel fon-damento per l’uomo: l’uomo è come la rosa, scrive Heidegger, ma a suo modo.L’uomo e la rosa: entrambi senza perché, l’uno come l’altro, ma ognuno a suomodo. Questo è per Heidegger il non-detto del detto di Silesio; l’inespressapossibilità che, come sempre avviene nei pensatori essenziali, sola è degna diessere ripetuta51.

Quel che ha la rosa da insegnare all’uomo in merito al fondamento è infineun rapporto al fondamento altro da quello che lo interroga chiedendo “perché”e lo rappresenta espressamente, che viene dato per scontato e sottinteso nelprincipio di ragione. Infatti il poiché «nomina il fondamento, ma un fondamen-to singolare e, presumibilmente, eccelso»52. Il punto è che il “poiché” nonrimanda qui a qualcosa d’altro, a qualcosa che non sia un fiorire e che debbafondare il fiorire “dall’esterno”: né a una catena di cause naturali, né ad unaqualunque accezione di forza vitale. Al contrario, il poiché del detto riferisce ilfiorire semplicemente a se stesso. È in questo apparente vuoto non dire nullache secondo Heidegger si direbbe in qualche modo «la pienezza di ciò che èpossibile dire del fondamento e del “perché?”»53.

Il fiorire si fonda in esso stesso, ha il proprio fondamento presso essostesso e in esso stesso. Il fiorire è puro schiudersi da se stesso, purosplendere. I più antichi pensatori greci dicevano Φυσις54.

2 – Il verbo ϕυω, da cui deriva il termine ϕυσις, significa far nascere, cre-scere, produrre; per i greci esso era riferito eminentemente proprio alla pianta,ai suoi frutti, alle foglie. «La rosa sta qui evidentemente come esempio per tuttociò che fiorisce, per tutte le piante, per tutto ciò che cresce e si sviluppa nelmondo vegetale», ci aveva detto Heidegger nell’introdurci al distico di Silesius.Ed ora prosegue con dei cenni alla Fisica di Aristotele, ove si tenta di determi-nare l’essere degli enti di natura o, come traduce Heidegger, di ciò che è da sé[das von-sich-her-Seiende].

Nel saggio del 1939 Sull’essenza e sul concetto della ϕυσις Heideggerera partito proprio dalla distinzione aristotelica tra enti cresciuti naturalmen-te (Gewachse) ed enti artefatti (Gemachte)55. Qui Heidegger si appropriavainizialmente della definizione di Aristotele della ϕυσις, riformulandola comela «disposizione che avvia la motilità di qualcosa che è mosso, ma gli appar-tiene, sì che questo dispone della sua motilità in esso stesso, da esso e peresso»56. La ϕυσις, in quanto principio genetico della rosa, non la determinacome fosse un urto iniziale che spinge via l’urtato lasciandolo poi a se stes-so. «Viceversa, ciò che è così determinato dalla ϕυσις non solo nella suamotilità resta in esso stesso, ma, dispiegandosi secondo la sua motilità (ilsuo cambiare), ritorna proprio in esso stesso»57. Anche in quel saggio tro-viamo l’“esempio” della pianta, definita un ente cresciuto naturalmente da sé“in senso stretto”.

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La “pianta”, infatti, mentre spunta, si schiude e si distende nell’aperto,nello stesso tempo ritorna nella sua radice, fissandola nel chiuso e otte-nendo così la sua stabilità. Lo schiudersi che si dispiega è, in sé, un ritor-nare in sé. Questo modo di essere essenzialmente presente [Wesung] èϕυσις; essa però non deve essere pensata come un “motore” che, appli-candosi da qualche parte, mette in moto qualcosa, né come un “organiz-zatore” che, presente da qualche parte, organizza qualcosa. Eppure sitenderebbe a cadere nell’opinione che l’ente determinato dalla ϕυσις siaciò che si fa da se. Questa opinione si impone così facilmente e inavver-titamente che ha finito col diventar determinante persino per l’interpreta-zione della natura vivente; ne è espressione il fatto che, sotto il dominiodel pensiero moderno, il vivente è concepito come “organismo”. Forse civorrà ancora molto tempo per renderci conto che l’idea di “organismo” edi “organico” è un concetto puramente moderno, meccanico-tecnico, percui anche ciò che cresce naturalmente da sé è interpretato come un arte-fatto che fa se stesso58.

Tutto sta ad evitare che si intenda «la ϕυσις come un’autoproduzione e iϕυσει οντα onta come un genere di artefatti»59. L’artefatto, per esempio lacasa, venendo a stare nell’aperto e nello svelato, non può mai, stando così,rimettersi nel suo principio d’origine; «la casa, infatti, non mette mai radici, maresta sempre solo messa lì, come appoggiata sulla terra»60. Ciò che conta perla determinazione del modo d’essere della rosa è di certo innanzitutto il fattoche essa non è concepita in base ad un piano razionale determinato dall’uo-mo61. Ma nemmeno questo basta ad assicurare agli enti di natura quella cheè, appunto, la loro specifica natura; è convinzione di Heidegger che nell’interatradizione metafisica, nella filosofia come nella biologia organicista –che puresosteneva dal principio del secolo scorso di aver superato tanto l’interpretazio-ne vitalista quanto quella meccanicista del vivente– nonostante le dichiarazio-ni di principio, l’essenza della rosa, del vivente, sia stata sempre concepitacome autoproduzione62: infatti l’autonomia nei confronti di un progetto raziona-le umano, divino o “naturale”, non è ancora autonomia dalla ratio in senso lato,finché il nomos dell’autonomia del fiorire, del venire da sé alla presenza, restacompreso come un fare, «un porre qui davanti nell’essere presente in quantoavente questo o quell’aspetto, in quanto finito», un produrre se stesso nel veni-re alla presenza, nell’installarsi.

Insomma la preoccupazione di Heidegger (nella prima parte del saggio del1939 come pure nell’introdurci alla rosa di Silesio e in una varietà di altri testisu cui non possiamo qui soffermarci) in prima istanza viene spesso presenta-ta come quella di salvare l’ente di natura nella sua specificità dal fraintendi-mento in base ad una comprensione tratta da altre regioni dell’ente. Ma il cam-mino che dovrebbe condurre a questo salvataggio è destinato ad una svoltatanto brusca da costringerci a perdere di vista lo stesso problema dell’ente dinatura da cui siamo partiti.

3 – La rosa fiorente è innanzitutto un ente semplicemente presente; ma lasua presenza [Anwesenheit], nota Heidegger, è altresì e più propriamente una

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Anwesung in das Unverbogene, un venire alla presenza nello svelato. Il carat-tere verbale, “cinetico”, di motilità proprio di questo ente e indicato dal partici-pio “fiorente” deve essere compreso come avente un primato rispetto al carat-tere “nominale” o “materiale” della presenza; così si apre la possibilità al pen-siero di spingersi verso un luogo più originario. Si tratta di un passo indietroanche nella storia del pensiero, da Aristotele verso i pensatori iniziali, ed in par-ticolare verso Eraclito.

Φυσις è per Heidegger la parola fondamentale del dire dei pensatori “pre-platonici”63. Ma per questi essa aveva un significato completamente diverso daquello aristotelico, più originario, e dal quale l’altro si deve rivelare essere unmero derivato64.

Φυσις nel suo senso iniziale ed essenziale per Heidegger non indica affat-to un determinato campo specifico dell’ente; essa è piuttosto «la parola-fonda-mentale greca iniziale per indicare l’essere stesso nel senso della presenzache si schiude da sé e che così regna sovrana»65. La traduzione heideggeria-na del notissimo frammento eracliteo n. 123, Φυσις κρυπτεσθαι ϕιλει, suona:l’essere ama nascondersi, all’essere appartiene un velarsi, un sottrarsi. Il sag-gio del 1939 si conclude così:

L’essenza dell’essere è di svelarsi, di schiudersi e venir fuori nello svela-to - ϕυσις. Solo ciò che per essenza si s-vela [ent-birgt] e deve svelarsipuò amare velarsi. Solo ciò che è svelamento può essere velamento.Perciò non si tratta di superare il κρυπτεσθαι della phusis e di strappar-glielo, ma qualcosa di ben più arduo ci è assegnato: lasciare alla phusis,in tutta la purezza della sua essenza, il κρυπτεσθαι come appartenentead essa […].Φυσις è αληθεια, svelamento, e perciò κρυπτεσθαι ϕιλει66.

Gli enti di natura per Aristotele sono le piante, gli animali, la terra, il fuoco,l’acqua e l’aria; gli enti il cui essere riluce già da se stesso, senza preoccupar-si del fatto di venire espressamente scorto da noi o meno. Ma, mossi dall’ap-parente motivazione di difendere l’ambito dell’ente di natura dal suo fraintendi-mento in base ad un’altra regione dell’ente, siamo stati guidati in un contestopiù originario di quello aristotelico, in cui la distinzione tra un ambito e l’altrodiventa inessenziale e si dissolve. In questo luogo “eracliteo” scopriamo che larosa di Silesius per Heidegger non costituisce affatto un esempio degli enti dinatura, così come la Φυσις non è affatto il modo d’essere loro proprio e pecu-liare. La rosa col suo fiorire è piuttosto “esempio” del modo di essere dell’entenel suo insieme. Il sapere custodito nel detto di Silesius è infine: l’ente fioriscepoiché fiorisce.

Il modo d’essere dell’ente è il fiorire, l’essere dell’ente è la Φυσις, ossia ilvenire alla presenza. Un venire alla presenza che non deve affatto essere a suavolta compreso in base ad un domandare perché; che non è da fondarsi su unacausa, una ratio, e nemmeno da intendersi come autoproduzione, ossia insenso metafisico. Per comprendere il venire alla presenza è necessario piutto-sto pensarlo nella sua provenienza autentica; pensare questa provenienza neitermini di un sottrarsi originario: Φυσις κρυπτεσθαι ϕιλει. Ciò che fonda il veni-re alla presenza è ciò che in esso resta nascosto come ciò che dona alla pre-

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senza la possibilità di darsi; l’essere è [west] proprio questo sottrarsi nel fiorire,nell’apparire. L’apparire ed il sottrarsi si coappartengono originariamente inunità, in modo tale che non si possa parlare del loro rapporto come di un “pro-cesso” nel tempo, in base alle categorie del “prima” e del “poi”. E nulla è piùinsensato del volersi interrogare ulteriormente sul fondamento di questa coap-partenenza. Il reciproco rimando dell’apparire e del sottrarsi nell’essere, comeabbiamo già detto, è piuttosto una sorta di gioco senza perché; esso gioca gio-cando, e «rimane soltanto gioco: il più alto e il più profondo». Così si conclude–nell’evocazione del frammento 52 di Eraclito– Il principio di ragione.

4 – «L’uomo è veramente nel fondamento più nascosto della sua essenzasoltanto quando, a suo modo, è come la rosa – senza perché». Quel che Hei-degger intendeva significare con queste parole, siamo ora in grado di dirlo, èche l’uomo comprende il suo proprio fondamento quando si rapporta ad essocome fa la rosa, ossia senza chiedere perché, senza reddere rationem, bensìstandovi nel modo del poiché: «Nel “poiché” […] lasciamo libero il nostro rap-presentare di andare proprio nella direzione del fondamento e della cosa daesso fondata. Nel “poiché” ci abbandoniamo alla cosa fondata; affidiamo lacosa a se stessa e al modo in cui il fondamento, dandole fondamento, la lasciasemplicemente essere la cosa che è»67. La rosa si lascia essere, e come larosa noi possiamo e dobbiamo lasciar-essere la rosa, l’ente in generale e l’en-te che noi stessi siamo. Il lasciar-essere, l’abbandonarsi, è il modo di rappor-tarsi all’ente che ne rispetta la provenienza da un fondamento inteso come unoriginario donarsi sottraendosi. Come la rosa, l’uomo deve rapportarsi al suofondamento nel modo del lasciar essere, e non comprendere il mondo e sestesso secondo ragioni, cause.

Lasciando essere l’ente in tal modo l’uomo comprende che nel suo sensooriginario «Φυσις significa lo schiudersi al modo in cui la rosa si schiude e simostra sviluppandosi da sé»68: ma la rosa non è ormai che una sorta di meta-fora di qualcosa che in definitiva sembra non riguardarla affatto nello specifico.Piuttosto, tra l’uomo che riesca ad essere “come la rosa” e la rosa quale entesemplicemente vivente si apre un vero e proprio abisso, limite invalicabile chealla “lezione” della rosa non è concesso in alcun modo superare, e racchiusoin quel “ma a suo modo”: questo modo è il modo della possibilità, del poteressere dell’e-sistenza; l’esserci è un ente che costitutivamente si autotrascen-de nel suo progettare: così si esprimeva Heidegger in Essere e tempo, e lanatura essenzialmente estatica dell’esserci non è mai messa in discussione.L’uomo può essere come la rosa è. Ma questa possibilità –che non è una fratante ma è la sua possibilità più propria, nella misura in cui si tratta della pos-sibilità per lui di comprendesi nel fondamento più nascosto della sua essenza,di quel progetto sommamente antisoggettivista dell’abbandono [Gelassen-heit]– non sembra avere infine niente a che fare con la possibilità di riconosce-re l’ente di natura nella sua essenza specifica, né tantomeno di riconoscereuna qualche parentela con esso. Infatti quel che si tratta qui piuttosto di rico-noscere e realizzare per l’uomo nel modo più appropriato è quel rapportoesclusivo con l’essere dal quale la rosa, come l’animale, è esclusa. È per l’uo-

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mo che l’essere appare velandosi in quanto essere e si lascia determinaremalamente nella forma delle cause e dei fondamenti razionali. È con l’uomoche l’essere gioca il gioco del rimando reciproco di velatezza e svelatezza incui accade la storia, ed è a questo accadere storico-destinale che si riduce ilvero senso della finitezza radicale dell’uomo.

Ma che ne è della rosa di Silesius, un ente di natura “in senso stretto”, colpassaggio alla Φυσις eraclitea? Sapevamo che la rosa era solo un esempio;ma non si trattava di un esempio dell’ente di natura, come ci era stata presen-tata all’inizio, bensì di un ente qualsiasi. Quel che aveva da insegnarci la rosacol suo fiorire, ce l’avrebbe potuto insegnare qualunque altro ente. Perché, piùpropriamente, è l’intero ambito della manifestatività a “fiorire” senza perché.

Heidegger, a partire dai secondi anni Trenta, fa spesso e sempre più ricor-so al concetto di Φυσις, come parola fondamentale del pensiero iniziale, va viache sotto l’influenza della poesia di Hoelderlin egli sviluppa il suo progetto diriappropriazione della sapienza dei presocratici. Ma in questa riappropriazioneil concetto di Φυσις sembra è ridotto ad un mero analogo del venire alla pre-senza del mondo, così come il concetto di terra [Erde] sembra rappresentareun analogo del suo reciproco sottrarsi. Il mistero proprio del fiorire della rosasembra dover essere completamente assorbito, identificato col mistero deldarsi dell’apertura del mondo come ambito assoluto. D’altro canto, è innegabi-le che Heidegger non voglia rinunciare al potere di evocazione metaforica, dimessa in immagine di una nascita misteriosa dal grembo della terra che la rosaoffre col suo fiorire all’immaginazione filosofica. Ma questo tipo di “esemplari-tà” residua non può che considerarsi un di più del tutto accessorio.

Si potrebbe obiettare che una rosa, col suo fiorire muto, ciclico e immotiva-to, più di un artefatto si presta a fornirci l’occasione di uscire dalla nostra atti-tudine di pensiero onnipotente, attraverso quello stato d’animo di stupore chein ogni tempo essa sembra essere in grado di suscitare. Ma a ben guardarenemmeno questo tipo di potere esemplare le è concesso. Infatti Heidegger ciha mostrato che qualsiasi ente può divenire occasione per noi di accedere alsuo più proprio fondamento. Un semplice utensile in panne, una penna chesmetta di scrivere, può costituire un’esperienza altrettanto epifanica69. Un’ope-ra d’arte può chiarirci all’improvviso la lotta tra terra e mondo custodita in unsemplice paio di povere scarpe70. E un ente di poco conto preso nella sua sin-golarità qualunque, come una brocca o un ponte di campagna, può rimetterciin contatto con una dimensione ben più conciliante di quella della modernaepoca atomica, ove possiamo prestare ascolto alla sua silenziosa perpetua fio-ritura, in quel misterioso fiore a quattro petali che il tardo Heidegger chiamaGeviert71.

Certo, Heidegger riconosce che per noi l’essenza della Φυσις «risultaimmediatamente evidente nel germogliare del germe di grano sepolto nellaterra […], nello sbocciare della fioritura» o nel sorgere del sole. Ma anche ilnascere dei desideri o il sorgere di un gesto sono parimenti indicate comemanifestazioni evidenti del sorgere. «Dappertutto […] si dà un multiforme ereciproco venire alla presenza di tutti gli “esseri”, e in tutto questo si dà il mani-festarsi, nel senso del mostrarsi che nasce e viene fuori»72.

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E soprattutto, sarebbe “assolutamente errato” credere che ciò la Φυσις nomi-na originariamente per i pensatori iniziali «sia innanzitutto desunto dall’osserva-zione del germe che germoglia, della pianta che nasce, del sole che sorge, perpoi essere applicato in modo corrispondente a tutti i cosiddetti processi naturali evenire infine attribuito in senso traslato agli uomini e agli dei, in modo che a parti-re dalla Φυσις “dei e uomini” possano in un certo senso venir rappresentati “natu-ralisticamente”»73. La Φυσις greca non nasce attraverso un processo di “genera-lizzazione” e “astrazione” a partire da un’esperienza osservativa ordinaria. Essa,al contrario, è il frutto diretto di un’esperienza originaria. Semmai è possibile defi-nire quelle esperienze esemplari in quanto metaforiche messe in immagine, maquesta cogenza, di nuovo, la si può cogliere in modo appropriato e senza rischi difraintendimento solo in un secondo momento, in seguito all’esperienza pura dellaΦυσις. Al contrario, seguire quelle immagini senza la meditazione appropriata nonpuò che condurre all’equivoco, per via del carattere processuale del sorgere delfiore dalla terra, e del suo situarsi all’interno di un ciclo del tempo naturale. «LaΦυσις nomina piuttosto ciò in cui in primo luogo sorgono terra e cielo, mare emonti, alberi e animali, uomini e dei, e tutte queste cose, in quanto sorgono e simostrano in modo tale che possono essere nominate come “enti” proprio in riferi-mento a questo ambito del sorgere. Solo nella luce della Φυσις diventano visibiliper i Greci quelli che noi chiamiamo processi naturali nelle modalità specifiche delloro “sorgere”». Un sorgere che a questo punto non può che essere scritto tra vir-golette, essendo una modalità derivata, “stretta” e impropria, in qualche modometaforica della Φυσις intesa come sua condizione di possibilità74.

Ma anche parlare di una vero e proprio carattere metaforico del fiorire natu-rale è improprio perché, infine, la Φυσις è semplicemente, assolutamenteirrappresentabile; non si dà alcuna intuizione sensibile o “estetica” di essa: «latraccia dell’essere che si può cogliere col pensiero, in quanto rimane all’inter-no dell’essenza inizialmente semplice dell’accordo, è in se stessa priva diimmagine»75. Quello di “metafora” per Heidegger è un concetto proprio delpensiero metafisico: infatti, spiega Heidegger nel Principio di ragione, «l’ideadel “traslare” e della metafora si basa sulla distinzione, se non addirittura sullaseparazione, fra sensibile e non sensibile, intesi come due ambiti a sé stanti»;una distinzione propria del pensiero metafisico, ma che viene invece a caderenel pensiero originario76. Per cui solo a partire dal raggiungimento di questoambito è semmai possibile permettersi messe in immagine come quella dellarosa, o quella dell’arco e della lira di Artemide cui ricorre Eraclito nel frammen-to 51 e nella cui forma, commenta Heidegger, il puro apparire della Φυσιςassume un’immagine e si dà a vedere nel modo migliore»77. Ma si tratta di unprivilegio concesso solo al dire poetante; quello stesso dire con cui S. Paoloaccennava alla struggente attesa delle creature…

IVÈ arrivato il momento di portare a confluire i due rami del nostro discorso.

Si è parlato dell’animale e si è parlato della rosa. Heidegger si riferisce all’uno

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e all’altro per lo più in modo indifferente con il termine di esseri “viventi”. Eppu-re nell’uno e nell’altro caso siamo giunti a conclusioni differenti.

Nel primo caso, seguendo la traccia della muta e docile rosa di Silesio, l’es-senza dell’ente naturale e semplicemente vivente ci è stata indicata nellaΦυσις. Ma la Φυσις è stata completamente identificata con la αληθεια. Il ricor-so all’ente naturale vivente si è rivelato così in definitiva nient’altro che un arti-ficio retorico, una metafora impropria, un simbolo che si distrugge da sé, unascala che salendo attraverso Aristotele, debba essere gettata giunti alla vettaeraclitea; al limite, un lusso del poetare originario. La spontaneità della naturanon sembra avere alcuna peculiarità propria, bensì sembra doversi identifica-re con la spontaneità dell’apparire del fenomeno in generale. Ne consegue cheun discorso sulla natura non possa avere nulla da insegnarci sul piano dellafilosofia prima. La rosa sembra condannata a restare non solo senza perché,ma anche senza poiché, in quanto rosa. Il suo mistero sembra poter esserecompletamente assorbito nel mistero dell’essere.

Nell’altro caso però, nel tentativo di costruirci una via verso l’alterità anima-le siamo stati costretti ad ammettere l’enigma del vivente come un enigma irri-ducibile. Siamo stati portati a considerare la vita come «un ambito che nel suoesser-aperto ha una ricchezza che forse il mondo dell’uomo non conosce pernulla». E così ora anche l’enigma dell’essere della rosa, spinto fuori dalla filo-sofia prima, sembra condannato a restare come residuo metafisico. Il mondodei vegetali, degli animali, ma anche e soprattutto dei viventi che noi stessisiamo, per lo più annientato nella pura luce del pensiero originario, sembra tal-volta cercare di rientrare da una finestra oscura, portando con sé un importu-no vento metafisico.

* Questo saggio è frutto della rielaborazione di una lezione seminariale da me tenuta pressol’Università di Lecce il 13 dicembre 2004, per la cattedra di Filosofia Teoretica del prof. GiovanniInvitto. Ringrazio il prof. Invitto ed i suoi studenti, a cui questo scritto è dedicato, per l’importanteopportunità di dialogo e confronto offertami in quell’occasione.

1 Der Satz vom Grund [1955-56], Neske, Pfullingen 1957, ora in Gesamtausgabe, Bd. X, Klo-stermann, Frankfurt a.M. 1997 (tr. it. di G. Gurisatti e F. Volpi, Il principio di ragione, Adelphi, Mila-no 1991). Angelus Silesius (Johannes Schleffer), Cherubinischer Wandersmann [1657], ed. criticaa cura di L. Gnädinger, Reclam, Stuttgart 1984 (Il pellegrino cherubico, a cura di G. Fozzer e M.Tannini, Paoline, Milano-Torino 1989. La traduzione del distico riportata nel testo è quella appron-tata da Volpi e Gurisatti in conformità all’esegesi heideggeriana.

2 Cfr. HGA X, p. 51 (tr. it. p. 65).3 Cfr. Monadologia, par. 32, cit. in HGA X, p. 50 (tr. it. p. 64) e sgg.4 Cfr. HGA X, ivi.5 Cfr. HGA X, p. 53 (tr. it. p. 67).6 Cfr. HGA X, p. 53 (tr. it. p. 68) e sgg.7 Rosa è una rosa è una rosa è una rosa. Tra le variegatissime interpretazioni suscitate da que-

sto verso –che compare più volte nell’opera poetica di G. Stein– in questo contesto è particolar-mente interessante ricordare come alcuni suggeriscano, assecondandone la naturale accentazio-ne nel parlato, questa lettura possibile del verso: “Arose / is / arose / is / arose / is / arose” (Sorseè sorse è sorse è sorse): il mistero della fioritura, dell’originario sorgere [to rise] come simultaneoed indisgiungibile dall’essere presente [is].

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8 HGA X, p. 55 (tr. it. p. 69).9 HGA X, p. 56 (tr. it. p. 71). 10 Cfr. HGA X, ivi e sgg.11 Cfr. HGA X, p. 63 (tr. it. pp. 79-80).12 Die Grundbegriffe der Metaphysik. Welt – Endlichkeit – Einsamkeit, in HGA, Bd. XXIX/XXX,

Klostermann, Frankfurt a.M. 1983 (tr. it. di P. Coriando, Concetti fondamentali della metafisica.Mondo –finitezza– solitudine, il melangolo, Genova 1992).

13 HGA XXIX/XXX, p. 261 (tr. it. p. 230). 14 Cfr. HGA XXIX/XXX, § 42.15 Cfr. HGA XXIX/XXX, p. 274 (tr. it. p. 242).16 Cfr. Sein und Zeit [1927], in HGA, Bd. II, Klostermann, Frankfurt a.M. 1977 (d’ora in poi SZ;

a seguire la pagina dell’ed. Niemequer e poi della tr. it. di P. Chiodi, Essere e tempo, Utet, Torino1969), p. 65 (tr. it. p. 90).

17 SZ, ivi (tr. it. p. 91).18 Vom Wesen des Grundes [1929], in Wegmarken, HGA, Bd. IX, Klostermann, Frankfurt a.M.

1976, pp.155-6 (tr. it. di F. Volpi, Dell’essenza del fondamento, in Segnavia, Adelphi, Milano 1987,p.112).

19 Cfr. SZ, II, § 11.20 Karl Löwith –in quegli anni promettente allievo di Heidegger dalle attitudini vivacemente cri-

tiche– lamentò al maestro l’assenza in Sein und Zeit della natura «intorno a noi e in noi stessi»,non come ambito regionale bensì come «l’unica natura di ogni ente, la cui forza produttrice fanascere da sé e poi perire tutto ciò che è, in generale, e quindi anche l’uomo», e la sua illegittimascomparsa nella comprensione esistenziale di fatticità e gettatezza. Heidegger gli rispose in unalettera del 20 agosto 1927 che ribadisce esemplarmente la sua posizione: «La “natura” dell’uomonon è una cosa a sé stante, che poi viene incollata allo “spirito”. Chiediamoci piuttosto: è possibi-le ricavare un filo conduttore fondamentale per l’interpretazione concettuale dell’esserci dalla natu-ra, oppure dallo “spirito” – o da nessuno dei due? E in tal caso bisognerà prendere originariamen-te le mosse dalla totalità della costituzione d’essere? È qui, infatti, che l’esistenziale ha un prima-to, sul piano concettuale, per quanto concerne la possibilità dell’ontologia. Infatti l’interpretazioneantropologica è attuabile come interpretazione ontologica solo sulla base di una problematicaontologica chiara» (K. Löwith, “La questione heideggeriana dell’essere: la natura dell’uomo e ilmondo della natura”, in Su Heidegger. Cinque voci ebraiche, a cura di F. Volpi, Donzelli, Roma1998, pp. 78-9).

21 DAVID FARRELL KRELL, Daimon Life: Heidegger and Life-Philosophy, Indiana University Press,Bloomington 1992.

22 Cfr. HGA XXIX/XXX, § 42.23 Ivi, §§ 49-50.24 HGA XXIX/XXX, p. 301 (tr. it. p. 265). Cfr. anche SZ, § 26.25 HGA XXIX/XXX, § 50. 26 Cfr. HGA XXIX/XXX, § 58 e sgg.27 Il barone Jacob von Uexküll è passato alla storia per le sue ricerche sugli animali; in partico-

lare, si deve a lui l’elaborazione del fortunato concetto di “mondo-ambiente” [Umwelt], il contesto divita proprio di ogni specie, compreso così come l’animale stesso lo percepisce in base ai suoi orga-ni senso-motori specifici ed ai suoi comportamenti peculiari. L’intento di v. Uexküll era quello di evi-tare che la biologia antropomorfizzasse il modo d’essere degli animali e che ne ricostruisse inveceil vissuto autentico. I suoi scritti, corredati altresì di curiose illustrazioni del mondo-ambiente del ric-cio di mare, della vespa e di altri esserini, erano ben noti ad Heidegger, che lo stimava uno dei bio-logi dalle intuizioni più felici. Ma anche v. Uexküll non esce da una considerazione ingenua e “meta-fisica” della questione, se per lui il mondo dell’uomo non è altro che una varietà particolarmentericca e articolata di mondo-ambiente fra le altre. La differenza fra il modo d’essere dell’animale equello dell’uomo nei suoi scritti, nota Heidegger, resta compresa come una «differenza di grado neilivelli di perfezione nel possesso dell’ente di volta in volta accessibile» (HGA XXIX/XXX, p. 285; tr.it. p. 251). I testi di v. Uexküll cui Heidegger fa riferimento sono la sua Theoretische Biologie [ed.1928] e Umwelt und Innerwelt der Tiere [ed. 1921], quest’ultimo ora reperibile in inglese nel volumeFoundations of Comparative Ethology, Van Nostrand Reinhold, 1985. Cfr. anche la simpatica espo-sizione delle ricerche di v. Uexküll offerta da Giorgio Agamben nel suo L’aperto.

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28 Cfr. HGA XXIX/XXX, § 60 e sgg.29 HGA XXIX/XXX, p. 374 (tr. it. p. 329).30 Cfr. HGA XXIX/XXX, § 56. Sullo stesso tema cfr. anche i Beiträge zur Philosophie (Vom Erei-

gnis) [1936-1938], HGA, Bd. LXV, Klostermann, Frankfurt a.M. 1989, dove in merito al polo sog-gettivo dello stordimento, si legge (§ 154): «La custodia del sé e il primato del “genere”, che nonriconosce alcun singolo come egoistico [caratterizzato dal sé: selbstisches]».

31 Holderlins Hymnen “Germanien” und “Der Rhein”, HGA, Bd. XXXIX, Klostermann, Frankfurta.M. 1980, p. 75 (tr. n).

32 Was heisst Denken?, Niemeyer, Tübingen 1954 (tr. it. di U. Ugazio e G. Vattimo, Che cosasignifica pensare?, Sugarco, Milano 1978-9, p. 108).

33 Cfr. Die Grundprobleme der Phänomenologie [1927], HGA, Bd. XXIV, Klostermann, Fran-kfurt a.M. 1975 (tr. it. di A. Fabris, I problemi fondamentali della fenomenologia, il melangolo, Geno-va 1989), § 13b; Kant und das Problem der Metaphysik [1929], HGA, Bd. III Klostermann, Fran-kfurt a.M. 1991 (tr. it. di M.E. Reina, a cura di V. Verra, Laterza, Roma-Bari 1981, 1989), § 30; eper un’interpretazione approfondita della morale kantiana, cfr. l’intero Vom Wesen der menschli-chen Freiheit – Einleitung in die Philosophie, HGA, Bd. XXXI, Klostermann, Frankfurt a.M. 1982.

34 Cfr. la critica all’impostazione della questione della libertà come idea cosmologica nellaTerza Antinomia della ragione della Critica della ragion pura, sviluppata da Heidegger in HGAXXXI.

35 Per la critica a Kant in questi anni si vedano i testi indicati nella nota 33. Per la critica a Sche-ler si veda HGA XXIX/XXX, p. 283 (tr. it. p. 250).

36 HGA LXV, cit. in Pöggeler, op. cit., p. 307.37 HGA XXIX/XXX, p. 361 (tr. it. p. 317).38 La caratterizzazione del fondamento in termini di “gioco” è in realtà successiva al 1930, e la

si incontra sovente nell’Heidegger della maturità; la richiamiamo qui in quanto con essa si conclu-de Il principio di ragione, al quale ci accingiamo a ritornare.

39 HGA XXIX/XXX, p. 360 (tr. it. p. 316).40 Ivi, p. 393 (tr. it. p. 345).41 Ivi, p. 396 (tr. it. p. 348).42 Parmenides [1942-3], HGA, Bd. LIV, Klostermann, Frankfurt a.M. 1982 (tr. it. di G. Gurisat-

ti, Parmenide, Adelphi, Milano 1999), § 8.43 HGA LIV, p. 197.44 Ivi, p. 224.45 Ivi, p. 237 (tr. it. p. 282).46 HGA XXIX/XXX, pp. 371-2 (tr. it. pp. 327).47 HGA LIV, tr. it. pp. 282-3 (tr. it. pp. 282-283).48 Ibidem. (tr. it. p. 283).49 Ibidem. Questo poetare non è nemmeno quello di Rilke, che con la concezione dell’aperto,

radicalmente opposta a quella heideggeriana, con la sua ottava elegia duinese costituisce il ber-saglio polemico dell’intero discorso sull’animale nel Parmenide.

50 Ivi, pp. 57-8 (tr. it. pp. 72-3, c.n.).51 Non ci interessa qui la legittimità di una tale forzatura del distico; si tratta piuttosto di com-

prendere l’interpretazione heideggeriana del modo d’essere della rosa, del nostro e del loro rap-porto, in base alla duplice indicazione: l’uomo è come la rosa: senza perché; ma ognuno a suomodo.

52 HGA X, p. 84 (tr. it. p. 103).53 Ibidem.54 Ibidem.55 Vom Wesen und Begriff der phisis Aristoteles, Physik B, 1 [1939], in Wegmarken, HGA, Bd.

IX, Klostermann, Frankfurt a.M. 1976; tr. it. di F. Volpi, Sull’essenza e sul concetto della phisis. Ari-stotele, Fisica B, 1, in Segnavia, Adelphi, Milano 1987, p. 199 e sgg. (d’ora in poi citato direttamen-te dalla traduzione di Volpi come Segnavia)

56 Segnavia, p. 208.57 Ibidem.58 Segnavia, p. 209.59 Ibidem.

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60 Segnavia, p. 212.61 La penna, che è uno strumento, non scrive da sé; la macchina, per esempio la lavabianche-

ria, conosce certo un decorso di processi autonomo, è un automa, è automatica, ma in definitivaè anche essa, come lo strumento, un mezzo [Zeug], semplicemente un po’ più complesso. Lo stes-so vale evidentemente per il computer e per tutto ciò che possa oggi venir entusiasticamente esal-tato dal nome di “intelligenza artificiale”. Al contrario la rosa fiorisce da sé. Nessun piano umano,nessuna ratio umana concorre a determinarne la fioritura.

62 Nei Concetti fondamentali della metafisica Heidegger sviluppava ampiamente questa criticaalla biologia organicista del suo tempo, dimostrando peraltro una certa competenza in materia.

63 Cfr. esemplarmente Der Anfang des abendländischen Denkens [1943], in Heraklit, HGA, Bd.LV, Klostermann, Frankfurt a.M. 1979; tr. it. di F. Camera, L’inizio del pensiero occidentale, in Era-clito, Mursia, Milano 1993, pp. 61 e 70.

64 Cfr. p. es. Segnavia, pp. 197 e 254.65 Nietzsche: Der Wille zur Macht als Kunst [1936-7], HGA, Bd. XLIII, Klostermann, Frankfurt

a.M. 1985; tr. it. di F. Volpi, Nietzsche, Adelphi, Milano 1994, p.174.66 Segnavia,p. 255.67 Ivi, p. 78.68 HGA XLIII; tr. it. p.174.69 Cfr. SZ, § 16.70 Cfr. Der Ursprung des Kunstwerkes [1935], in Holzwege, HGA, Bd. V, Klostermann, Fran-

kfurt a.M. 1977; tr. It. di P. Chiodi, L’origine dell’opera d’arte, in Sentieri interrotti, La Nuova Italia,Firenze 1968.

71 Cfr. p. es. Bauen Wohnen Denken [1951] e Das Ding [1951] in Vorträge und Aufsätze,Neske, Pfullingen 1954; tr. it. di G. Vattimo, Costruire abitare pensare e La cosa, in Saggi e discor-si, Mursia, Milano 1976.

72 Cfr. HGA LV; § 78.73 Ibidem. Dove si legge anche, parimenti: «la Φυσις, il puro sorgere, non viene compresa

esattamente astraendo in primo luogo dal ristretto ambito di ciò che noi chiamiamo comunemen-te natura, né tantomeno più essere attribuita in un secondo momento in senso traslato a uomini edei quale loro tratto essenziale».

74 Ibidem. Cfr. anche p. 62: «l’essenza greca della Φυσις non è affatto l’appropriata generaliz-zazione dell’esperienza dello schiudersi del germe, dello sbocciare della fioritura e del sorgere delsole, che il nostro punto di vista considera ancora ingenua; essa è piuttosto l’originaria esperien-za del sorgere e del venire fuori dal nascosto e dal coperto, è rapporto con la “luce”, nel cui chia-rore il germinare e la fioritura si mantengono nel loro sorgere, e perciò solo in questo processo sipuò osservare il modo in cui il germe “è” nel suo germogliare e il fiore “è” nel suo forire».

75 Ivi, p. 97.76 HGA X, p. 71 (tr. it. p. 89).77 HGA LV; tr. it. p. 98.

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CRISTIANESIMO E CULTURA DELLA LIBERTÀ IN PAREYSON

di Giovanni Borgo

Di fronte alle rovine della cultura moderna, nasce ilproblema d’una nuova cultura, di un nuovo mondoda edificare, nel quale tutti abbiamo da vivere (de renostra agitur), ed è qui che la scelta per o contro ilcristianesimo diventa decisiva. Non meno che laquestione, è filosofica anche la decisione: è la filo-sofia che configura il dilemma, che pone l’aut aut,che esige la scelta.

L. Pareyson, Esistenza e persona

È noto che l’opera di Luigi Pareyson costituisce una compiuta trattazione filo-sofica dell’idea di libertà, pur non essendo facile ripercorrere e dipanare l’insiemedelle conseguenze tematiche contenute nelle pagine pareysoniane e degne diuno sviluppo autonomo. Tuttavia può non essere inutile un tentativo di problema-tizzarne la dinamica fondamentale, volta a definire una cultura della libertà, cheparrebbe essere intrinseca finalità del pensiero, soprattutto in relazione a due nodicruciali, indissolubilmente intrecciati, quali la riflessione sul cristianesimo e sullafilosofia moderna, o, come anche si preciserà, sulla modernità della filosofia e del“pensiero tradizionale”. Si tratterà quindi di mettere in luce la particolare rilevanza,nel pensiero di Pareyson, della «funzione» attribuita alla ricerca filosofica, maanche al particolare metodo intrinsecamente correlato a questo fine e rintraccia-bile nell’itinerario complessivo della filosofia pareysoniana. Tale approfondimentoinfatti potrà portare alla conoscenza di una riflessione che costituisce senza dub-bio un percorso molto più organico e sintetico di quanto sia stato accertato da unacerta prospettiva storiografica, che privilegerebbe, rispetto alla «continuità» del-l’opera, la tesi delle diverse “fasi” o delle “svolte” nella filosofia pareysoniana1; eche, se compreso nella sua distensione globale, si presenta come una vera e pro-pria summa, in cui “pensiero moderno” e “pensiero tradizionale”, in vista di unaproposta filosofico-culturale di stampo personalistico, ben lungi dall’escludersi, sicompenetrano a vicenda e a vicenda si sorreggono.

Il metodo filosofico legato a questa finalità speculativa, potrebbe esseredefinito quello della «mediazione» o dell’«inclusione»2, ed è innegabilmentepresente nell’intero modus operandi del filosofo, pur precisandosi in altredistinzioni terminologiche, tuttavia facilmente riconducibili al senso addotto;si preciseranno in tal modo anche alcune apparenti contraddizioni della ter-minologia pareysoniana, quelle che si riscontrano, per chiarezza, nella scrit-tura del «paradosso», la quale, lungi da rappresentare una rinuncia del pen-siero, manifesta piuttosto la trascrizione dello sforzo del pensiero di supera-re –grazie al simbolo– le numerose aporie scaturite da un certo razionalismomoderno (di matrice illuministica e neoilluministica).

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La finalità –o meglio– la «funzione» della filosofia, nell’accezione pareyso-niana, risulta essere la risposta alle questioni poste dalla concretezza storicae per meglio interpretare –e quindi avvicinare ad una «soluzione razionale»–ciò che viene rilevato come «problema storico»3. La filosofia di Pareyson miradunque alla elaborazione di una cultura che si configura quale risposta ad ognisituazione di «crisi»4, che si presenta in varie forme in ogni epoca, ed è perquesto sempre «attuale». La filosofia –quale impegno di elaborazione di unacultura che resista alla crisi– è come tale ben lontana dall’essere semplice spe-culazione: proprio per questo valore sintetico, «al tempo stesso concreto especulativo»5, essa prende la forma di quel «pensiero della libertà» che –nelsuo più alto spessore teoretico– si amplia in proposta etica e politica, grazie alsuperamento del prassismo ideologico da una parte e dell’integralismo eticodall’altra. A questa prospettiva conducono il ripensamento filosofico del «cri-stianesimo religioso» da un lato e della filosofia moderna dall’altra (operazioneche equivale alla ricerca della modernità di ogni filosofia).

Tale declinazione storica nasce da un impianto speculativo cogente: la filo-sofia (e in ultima analisi la cultura che ne deriva) è mediazione di un «tempo»e di una prospettiva di «eternità», di una libertà in atto e di una donazione tra-scendente. È quindi proprio («funzione») della cultura filosofica –e questo nechiarirebbe anche la pertinenza politica– produrre quell’equilibrio tra azione eriflessione, tra determinatezza temporale e senso dell’ulteriorità, tradizione einnovazione, primato della verità e prassi conseguente, che richiami «il proble-ma di un nuovo mondo da edificare, nel quale tutti abbiamo da vivere (de renostra agitur)», tesi che richiede pertanto la precisazione di una specificaresponsabilità storica del filosofo nel delineare e prospettare dal suo punto divista (ossia il piano della cultura) degli spazi di civiltà.

Il presente saggio, infine, nella ricezione del legame tra cristianesimo elibertà, intende sottolineare una particolare prospettiva rilevata da Pareysonnel cuore di quella sintesi culturale nota come “pensiero tradizionale”, dimo-strando da una parte che il cristianesimo è “pensiero della libertà” e quindi inlinea con il progetto della filosofia moderna («da Cartesio a Fichte»6); e insecondo luogo come la filosofia di ogni epoca possa accertare la modernità delmessaggio cristiano in relazione alla comune e mai sopita esigenza di proble-matizzazione, tipica, oltre che della filosofia, anche della fede. Tale operazionefarebbe venire meno anche quella artificiosa contrapposizione tra tradizionalee moderno che, lungi dal favorire la comprensione della storia del pensiero,continua a limitarne il valore e impedirne una vera e propria incisività. Al tempostesso l’impianto speculativo renderebbe ragione del nesso inscindibile trafides ed intellectum, da Pareyson mai ritenuto un ostacolo ad una vera e pro-pria elaborazione filosofica, anzi, vigorosamente affermato quale sua persona-lissima Weltanschauung. La chiave di lettura pareysoniana è il costante riferi-mento ad un’idea di libertà di chiara ispirazione cristiana, qualificata da unaconsapevole complessità e nello stesso tempo da una decisiva fedeltà; che sipone da una parte il problema di una deriva della libertà, esemplificata dall’atei-smo moderno e delle sue varianti ideologiche contemporanee; ma dall’altraparte capace di valorizzarne la forza propositiva, nel rispetto della propria ori-

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gine. Si tratta in definitiva di una proposta che non si pone contro il pensieromoderno (pur evidenziandone le debolezze e le unilateralità) né si adegua aduna riedizione del tradizionale, ma, in aderenza alla funzione specifica del pen-siero, riconosce un orizzonte di valore che –oltre il contingente e prima di ogninegoziazione– funga da costitutivo di una cultura dell’uomo e della personauniversalizzabile e condivisa.

1. «Cristianesimo e cultura moderna»: il problema della crisi e il suo superamento

Il problema del rapporto tra modernità e cristianesimo7 è uno dei tratti piùoriginali della riflessione pareysoniana, che, pure raccolto in pagine moltoessenziali, presenta dei lati di attualità e una rilevanza speculativa forse nondel tutto valutati nel loro spessore. A ricordare invece l’importanza di questaprospettiva contribuisce un intervento di Giuseppe Riconda8, nel quale vienearticolata una riflessione sulla ricezione dell’idea di modernità (nella tradizioneitaliana più recente) e delle sue «linee» interpretative, attraverso la dialetticatra «pensiero tradizionale» e «pensiero moderno»9; in tale senso egli utilizzacome chiave ermeneutica il percorso di Augusto Del Noce, a cui viene acco-stata –per metterne in risalto le analogie ma anche le differenze– la prospetti-va di Luigi Pareyson10. Del Noce accetta –per ampliarla nelle sue ragioni pro-fond– una lettura della modernità da intendersi essenzialmente nella linea cheva da Cartesio a Nietzsche; secondo tale schema –risalente a Gentile e Croce,e in definitiva al neohegelismo– il moderno sarebbe caratterizzato da unapresa di distanza nei confronti del passato, coincidente con l’insieme valori edella cultura (in senso filosofico) dell’Europa cristiana, e inteso come tradizio-ne da superare.

Tale passaggio al moderno si sarebbe configurato grazie a una rotturaduplice nei confronti della tradizione: dalla trascendenza all’immanenza prima,da Cartesio a Hegel, quest’ultimo essendo considerato il culmine della secola-rizzazione del pensiero cristiano; e dall’immanentismo all’ateismo poi, nellalinea che va, dopo Hegel, da Feuerbach a Nietzsche.

È noto come Del Noce considerasse la modernità nella sua valenza proble-matica, anassiologica, aporetica e quindi ne rifiutasse l’interpretazione di «etàadulta»11 nel senso del superamento di un’era infantile e acritica, retaggio delsonno della ragione di matrice essenzialmente religiosa (ed ambiguamenteinconsapevole). La modernità nasceva anzi grazie a un contrasto e una sem-plice negazione di un ordine precedente (camuffato nella fase iniziale, come fapensare il termine «secolarizzazione», ma diventato aperto nella seconda,quella dell’«ateismo»), ed era portatrice di una nuova proposta che non pote-va certo connotarsi nel senso del valore12. La modernità rappresentava quindiper Del Noce un «problema», proprio perché l’esito nichilistico non potevacostituirne una conclusione: era proprio l’essenza anassiologica a rendere lamodernità un’epoca instabile e quindi non vicina (e nemmeno tesa) ad una sin-tesi storico-culturale alternativa. L’ateismo –come scriveva Del Noce– non eraun «punto di arrivo», il destino di un processo storico, ma una contraddizione

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irrisolta; che, una volta accertata, poneva la nuova questione, assai più urgen-te, del superamento della situazione «problematica» suscitata dal moderno13.

Peraltro, la definizione del moderno come «epoca della secolarizzazione»14

(che, sulla linea del Löwith, è pur sempre secolarizzazione della tradizione cri-stiana) e poi dell’ateismo, non contribuiva a spegnere la linea del «pensierotradizionale», una modernità “seconda” –forse inattuale– ma non per questoinesistente. Del Noce si riferiva a quella linea «tradizionale»15 che, ispirata dalpensiero cristiano, aveva ricevuto una elaborazione filosofica con la metafisicaclassica, «intendendo questo termine nel senso più ampio tale da includervicosì S. Agostino, come S. Tommaso, come Rosmini»16. La conclusione cui egliperveniva era dunque il riconoscimento di una duplice alternativa –«nella filo-sofia dei tempi cosiddetti moderni»17– costituita da «due linee irriducibili» eopposte, il cui esito non era al momento prevedibile e scontato. Nel pensierodi Del Noce saltava infatti la possibilità di una mediazione tra le alternative e ilsuperamento del nichilismo stava dalla parte del pensiero tradizionale, attra-verso una non meglio precisata «esplicazione di virtualità della tradizione»18.Tale compito sarebbe dovuto partire dalle «contraddizioni insuperabili» in cuicadrebbe appunto una tesi puramente “intramondana”, e «sullo sfondo di que-ste contraddizioni insolubili» troverebbero ancora attualità «le verità dellametafisica classica». Proprio per rimarcare ancora l’incompatibilità delle alter-native, Del Noce affermava come non si potesse «cercare di cristianizzarel’epoca della secolarizzazione, sceverandone i motivi progressivi» e come «dalpunto di vista del pensiero religioso», tale epoca non potesse «essere critica-ta che nella sua totalità»19. È questa una ulteriore articolazione dell’aporia dellamodernità che Del Noce sembra non affrontare: posta la superiorità teoreticadel tradizionale rispetto al moderno, non viene chiarito come sia possibile recu-perare il tradizionale senza cadere nello stesso metodo del moderno, senzacioè ricorrere ad una ulteriore (e forse impraticabile) negazione.

È rispetto a tale articolazione che ci sembra significativo sottolineare il meto-do speculativo di Pareyson, legato peraltro a Del Noce da una consonanza dipensiero testimoniata dallo stesso20, riconosciuta anche da studi recenti21, e chepresenta invece ulteriori coordinate per affrontare l’aporia della modernità e delsuo superamento. Come Del Noce anche Pareyson chiarisce fin da subito unsuo punto di partenza: egli sta dalla parte22 del pensiero tradizionale, però nonrigetta le istanze del moderno, consapevole che la negazione moderna possa inqualche modo essere assorbita nella sua aporeticità e resa inoffensiva da unprocesso di «ritrovamento» del tradizionale nel moderno, senza che quest’ultimosia considerato un elemento in aperta contraddizione con il primo (pena la suainefficacia). In un paragrafo di un saggio giovanile già citato e ripubblicato direcente23, dal titolo significativo Cristianesimo e cultura moderna, Pareyson rile-va l’aporia e la «crisi» del moderno nella fine del sistema hegeliano, quindi nellacaduta di una sintesi culturale i cui effetti perdurano anche nel Novecento. Eglisembra intendere il concetto di crisi come assenza di una riconoscibile sintesifilosofica, ancora presente e rilevabile, secondo il giudizio dell’autore, negli annidella propria attività, come si evince da un suo testo eloquente degli anni Cin-quanta e riproposto anche nell’ultima edizione di Esistenza e persona:

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Cento anni fa la crisi del razionalismo metafisico culminato nella filosofiahegeliana poneva un’alternativa: Feuerbach o Kierkegaard. Oggi quellacrisi non è ancora risolta [corsivo mio] […]. Ai problemi della realtà delfinito e della rilevanza filosofica del cristianesimo s’è aggiunto il problemadella natura del pensiero filosofico, e questi problemi s’impongono oggicon una perentorietà tanto più inevitabile, quanto più importante è stataquella corrente filosofica in cui maggiormente si è resa evidente la crisidel razionalismo metafisico: l’esistenzialismo24.

È stata la «dissoluzione» del sistema hegeliano ad aver determinato unasituazione di «instabilità» culturale analoga a quella riconosciuta da Del Nocee che non ha trovato ancora una sistemazione. I postumi della crisi hegelianaavevano disseminato dei frammenti di sistema che non si erano più ricompo-sti: rinunciando alla trascendenza (secolarizzazione del cristianesimo) si erapersa anche «la rilevanza filosofica» del cristianesimo oltre che quella religio-sa; per non parlare della indecisione riguardo «la natura del pensiero filosofi-co», di cui «l’esistenzialismo» novecentesco rappresentava una possibilerisposta dopo la crisi del «razionalismo metafisico». Ma la via di uscita da unacrisi culturale così prolungata, posto che anche l’esistenzialismo, più che unasoluzione, rappresentava l’evidenza di questa instabilità25, poteva essere tro-vata verificando la possibilità di una nuova cultura ispirata al cristianesimo,comprensiva di tutta l’eredità storica, filosofica, intellettuale e religiosa ad essolegata. Pareyson prospettava quindi nella cultura contemporanea –in analogiaa quella moderna post-hegeliana– una duplice possibilità: o il ritrovamento delcristianesimo religioso (e quindi del pensiero tradizionale: «ritrovamento» nonsemplice riproposizione) o la sua definitiva perdita a favore di una nuova cul-tura non più ispirata al cristianesimo (l’ateismo), ma ancora più difficile da edi-ficare vista l’assenza di punti di riferimento. La scelta del cristianesimo –nellaprospettiva pareysoniana– aveva (ed ha) quindi la valenza di una responsabi-lità filosofica, ossia dell’elaborazione di una nuova cultura che, a partire da unaopzione previa, nella complessità indicata, superi le istanze della modernitàsecolarizzata, proponendo una nuova sintesi, uscendo dalla crisi. Tale è il pro-getto dell’opera di Pareyson, il quale fin da allora scorge la presenza di duepossibili inconvenienti: la retorica dell’«aggiornamento» del pensiero tradizio-nale, che per venire incontro alle istanze della modernità finisce per rinunciarealle sue prerogative profonde e quindi cedere alle istanze del moderno (e que-sto non fa che riprodurre il caso tipico del «cristianesimo secolarizzato», rifles-so hegelianamente in pensiero filosofico); e in secondo luogo la demonizzazio-ne dell’esito laico della modernità (che riproduce la semplice formalizzazionedogmatica del cristianesimo: un’altra forma di razionalismo che si coestende alprecedente) a cui finisce per attribuirne quel valore o quella rilevanza filosofi-ca che non ha (proprio grazie alla contrapposizione)26.

Volendo anticipare la conclusione, si potrebbe affermare che per il filosofotorinese la categoria ricostruttiva di una nuova cultura è l’idea di libertà e il pro-gramma filosofico che ne consegue è una «filosofia della libertà», che a parti-re da precisi elementi costitutivi riferibili alla storia del pensiero e della tradizio-ne cristiana, superi l’interruzione attribuibile al moderno, eliminandone la con-

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trapposizione rispetto al “tradizionale”. A questo proposito la filosofia dellamodernità, pur declinando in un radicale rifiuto del teismo, è comunque il luogoin cui con maggiore forza si rivendica il pensiero della libertà, attestata propriodalla negazione, quale segno autonomia e di distanza nei confronti della cultu-ra precedente. Si tratta naturalmente di una libertà negativa, «quella dei Demo-ni», come scrive Pareyson lettore di Dostoevskij27, non certo quella di Cristo,ma che dimostra come l’eredità del cristianesimo –proprio in quanto rigettata–rappresenti comunque, per la modernità, un riferimento indelebile. Certo, ilsemplice accertamento della libertà moderna si presenta nei fatti in sensoalternativo alla libertà della tradizione: Pareyson infatti rileva come l’esito dellamodernità, nel senso dell’ateismo e del nichilismo, rimandi a una diversa (eopposta) interpretazione della libertà. Ma risulta altresì che la libertà negativa(assoluta, si potrebbe aggiungere) dei moderni si rapporta necessariamentecon la libertà della tradizione. La genesi dell’ateismo moderno, come si è visto,non si produce in contrapposizione immediata al cristianesimo, nel senso diuna cesura netta, ma attraverso la mediazione della filosofia hegeliana, ossiacon la tradizione razionalistica. Lo stesso Pareyson afferma esplicitamente chela filosofia moderna, da Cartesio a Hegel, consiste in «una forma di cristiane-simo secolarizzato»28. Soltanto dopo questo passaggio, dalla trascendenzaall’immanenza, si precisa l’ulteriore cesura29. Se questo è vero, l’esito ateisti-co, nichilistico e anticristiano trova addirittura una radice stessa nella culturacristiana, nel senso naturalmente di cristianesimo secolarizzato. A questopunto è possibile trarre una prima conclusione: è il modello di libertà contenu-to nel pensiero tradizionale a fornire un’anima al moderno, sia nella sua ver-sione secolarizzata che in quella nichilistica: in tale modernità peraltro l’assun-zione della categoria di libertà diventa qualcosa di diverso e alternativo rispet-to alla tradizione, assumendo un’assolutizzazione che ne rende problematicala dinamica ricostruttiva. Inoltre, nella ricostruzione pareysoniana si evincecome sia il cristianesimo secolarizzato sia l’ateismo presentino, nello stessotempo in cui la reclamano, un analogo deficit di libertà, e quindi siano più pros-simi all’«ideologia»30 che alla filosofia. Ideologia che nasce a causa del frain-tendimento del significato filosofico del temine libertà, che, in questo caso sirovescia sua negazione. Annota ancora il filosofo in uno dei suoi ultimi testi (informa di frammento):

Chi sceglie il rifiuto lo fa dogmaticamente, senza ammettere ch’è unascelta o un’ipotesi. C’è la scelta di chi la fa ma non lo sa, o non vuolesaperlo, anzi nega di farla (dogmatica acritica). C’è poi la scelta di chi lafa sapendo di farla, e ammettendo di farla, e cercando perciò di motivar-la in ogni modo.31

La libertà è apparentemente presente in entrambe le prospettive (quella cri-stiana e quella atea), ma con una declinazione tanto diversa da renderne equi-voca l’accezione: consapevole nel cristiano, inconsapevole nell’ateo, ovverolibertà “condizionata” nel cristiano, “incondizionata” nell’ateo. Ecco allora comela preferenza accordata al pensiero tradizionale –inteso nel suo riferimento alle

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sue radici profonde– diventi per Pareyson la scelta di una forma di libertà nonideologica, tale da diventare la chiave ermeneutica della modernità (che, infedeltà a questo metodo, anziché essere «rigettata» viene «accolta» e appro-fondita) e base di sviluppo di una ulteriore proposta filosofica contemporanea.Si può ben dire allora come la modernità sia figlia di quel «pensiero della liber-tà» di cui è intriso il pensiero cristiano, nella forma del pensiero tradizionale, ed’altra parte la modernità (o meglio: l’attualità) del cristianesimo sia quella chesi manifesta e incarna nello stesso metodo della libertà. Anzi, è dalla lettura diuna linea della filosofia moderna32 che Pareyson estrae quelle suggestioni diuna «filosofia della libertà» che sarà anche il culmine della propria opera. Ènoto intatti che la proposta pareysoniana di una «filosofia della libertà» si ponequale «passo decisivo» nel percorso della filosofia moderna, come l’autorestesso aveva consapevolmente elaborato, «da Cartesio a Fichte»33. Si trattanaturalmente di una particolare lettura della modernità che si prolunga nel per-corso filosofico di Pareyson– fino all’esistenzialismo e da qui al proprio perso-nalismo ontologico per confluire nell’ultimo contributo dell’ontologia della liber-tà. Il termine di ispirazione appare in tale senso il richiamo al cristianesimonella sua più ampia portata, come risulta anche dalla scelta degli autori da cuiPareyson trae spunto: Pascal, Kierkegaard, Fichte, Schelling, Dostoevskij, pro-fili «moderni» ma nello stesso tempo non prigionieri di una concezione eminen-temente razionalistica della filosofia34. Pareyson quindi –come annota G. Fer-retti– ha saputo cogliere, nel cristianesimo,

quello “spirito”, ovvero quella dimensione di pensiero, che esso porta consé e che può parlare a tutti. Egli ha ritenuto di aver individuato tale “spi-rito” nel “pensiero della libertà”, quale cuore o dinamismo propulsore ulti-mo del reale. […] Quella via del “pensiero della libertà”, che non solo cor-risponde al nucleo essenziale dello “spirito” cristiano, ma anche all’idea-le segreto più autentico della cultura moderna.35

Il cristianesimo –nella sua «essenza» come pure nelle culture cui ha datovita– è «pensiero della libertà»36: in virtù di questa origine, a ben vedere, la cul-tura moderna presenta un innegabile legame con la tradizione cristiana, dimo-strando come il contrasto tra elemento tradizione ed elemento moderno sia piùapparente che reale. Quello che cambia, come già si diceva, è l’accezione dilibertà: una libertà che mantiene il legame con la trascendenza, o il mistero oanche l’«ambiguità» dell’origine, nella sua accezione cristiana; una libertà«puramente umana» e storica, chiusa all’ulteriorità, nell’accezione moderna.Questa differenza prende le forme di un’alternativa filosofica illustrata daPareyson tramite le prospettive di Kierkegaard e Feuerbach.

2. Le «due possibilità» del moderno: Kierkegaard e Feuerbach.

Come l’esistenzialismo –rileva Pareyson sulla scia di Karl Löwith37– è unprodotto della crisi dell’hegelismo, quale reazione all’inglobamento della realtà

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singola e concreta nel sistema panteistico e panlogistico del filosofo di Berlino,così anche l’ateismo è l’esito della riaffermata consistenza del soggetto che sivuole affermare in contrasto con la teologia filosofica in cui l’hegelismo è rece-pito in una posterità romantica. È a questo punto che Pareyson ritiene che siaKierkegaard che Feuerbach siano «due possibilità» paradigmatiche dellamodernità, che nascono dalle ceneri del sistema hegeliano che essi rifiutano ein nome della singolarità (della persona) e della concretezza (della realtà) cheessi affermano. Entrambe le istanze manifestano l’esigenza di una libertà delsoggetto, in nome della trascendenza per l’uno, della natura terrena per l’altro.In riferimento a questa che definisce la «duplice possibilità» della filosofia posthegeliana, Pareyson intende riflettere sulla possibile ricaduta e incidenza delcristianesimo nella filosofia moderna. Ciò che è coinvolto dalla duplice alterna-tiva è infatti il problema del cristianesimo nella sua valenza religiosa ma soprat-tutto nella sua valenza filosofica. È in questo secondo senso che esso diventail centro dell’alternativa messa a fuoco nell’elaborazione e nell’interesse deidue critici dell’hegelismo come Kierkegaard e Feuerbach. La duplice alternati-va, infatti, oltre che affrontare un problema religioso (che l’uno accetta e l’altrorifiuta) o una professione di fede, costituisce un’angolazione filosofica sulsenso della libertà. A ben vedere è la modalità con cui viene esercitata la scel-ta ad essere centrale: la prospettiva di Kierkegaard non è quella della sempli-ce accettazione, mentre quella di Feuerbach è una negazione vera e propria.Le due scelte infatti non sono semplicemente una la negazione dell’altra. Kier-kegaard per Pareyson è il rappresentante di una tradizione che si confrontacon la sua matrice originaria (il cristianesimo), ma si pone anche il problemadell’incidenza storica e della modernità di quest’ultima. Feuerbach invece affer-ma l’ateismo attraverso la semplice negazione del cristianesimo (la religionericondotta ad antropologia, o potremmo dire, ad ideologia), senza tener contodegli esiti storici di questa possibilità:

Kierkegaard contempla la possibilità di uno schietto paganesimo comeultima conseguenza del cristianesimo laico. Ma una nuova possibilità diaffermare il cristianesimo contro la sua fine è quella presentata da Kier-kegaard: e questa possibilità non è contemplata da Feuerbach38.

Il dato che emerge dal testo è che la filosofia di Kierkegaard può includerenella sua prospettiva l’anticristianesimo di Feuerbach, inteso come problema econfronto necessario, e questa inclusione contribuisce a rafforzare il cristiane-simo stesso, proprio perché ne approfondisce l’origine, la specificità, il valorestorico, il significato religioso: in altre parole ne riflette il valore culturale proprioin quanto ne rivendica il valore eterno. Se il cristianesimo secolarizzato sosti-tuisce quello religioso significa allora che ne è stato perso il valore specifico:ma questo non è per forza un destino ultimo. L’ateismo, nell’ipotesi di Kierke-gaard, è quindi una prospettiva che certo può nascere dalla radice del cristia-nesimo secolarizzato e ne deve essere messa in conto anche la deriva schiet-tamente atea. Ma quand’anche accadesse, questo non significherebbe anco-ra rinunciare alla forza culturalmente propositiva di una filosofia cristianamen-

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te ispirata: e questo, a parere di Pareyson, costituisce la modernità della pro-spettiva culturale di Kierkegaard anche di fronte alla professione di ateismo acui perviene la cultura moderna. Più in profondità, il pensiero di Kierkegaardpuò attuare questa inclusione per il fatto che la sua prospettiva si serve infondo dell’opzione filosoficamente consapevole della libertà, intesa come con-sapevolezza di un compito, operazione che invece che nella prospettiva diFeuerbach manca. La filosofia di Kierkegaard viene quindi recepita da Parey-son in modo molto esplicito quale affermazione di una «filosofia della libertà»39.È in quest’ottica che il cristianesimo, o una «filosofia cristiana» (come scrive lostesso autore) non può che presentarsi sotto le insegne di un pensiero che pro-blematizza ed approfondisce l’istanza della libertà presente in ogni formulazio-ne filosofica, e ne valuta la proposta sulla base degli effetti di più lunga duratache tale opzione determina. L’esempio di Kierkegaard non nasconde il costoche questa mediazione della cultura presenta: Pareyson stesso ne ha la con-sapevolezza, quando, in riferimento al danese, richiama che «ciò non soppri-me il carattere d’intensa e drammatica problematicità che il cristianesimo ogginon può non avere»40. Il programma di una filosofia della libertà richiede unacoraggiosa scelta culturale, che nell’esplicito riferimento della libertà ad un rife-rimento di «verità», deve poi assumere l’onere di una laboriosa elaborazionedi sintesi. Scegliere Kierkegaard è molto più scomodo, filosoficamente e cultu-ralmente, che scegliere Feuerbach, perché la responsabilità che ne deriva sitraduce in un intenso impegno intellettuale e morale, personale e collettivoinsieme.

Tutto questo appare molto meno impegnativo nella prospettiva di Feuer-bach. La sua prospettiva, scelta da Pareyson quale esito –alternativo a Kierke-gaard– della filosofia hegeliana, rappresenta invece la scelta dell’esclusionedella dimensione trascendente e della sua conseguente negazione. Ed è attra-verso questo tipo di decisione che nel pensiero moderno si sceglie una dire-zione ben precisa che conduce alla perdita del cristianesimo. Tale rinuncia,nella lettura di Pareyson, equivale alla perdita di una sponda problematica: èla scelta dell’immanenza (intesa come finitismo) a depotenziare l’apertura deldiscorso filosofico, e non viceversa l’ammissione di un “a priori” religioso.Annota a questo proposito G. Riconda nel saggio già ricordato:

Mentre il pensatore religioso è ben conscio di muoversi nell’orizzontedella scommessa e di doverne approfondire indefinitamente i termini, ilsuo oppositore è costretto a parlare un linguaggio necessariamente dog-matico, che si esprime in enunciati assertori senza possibilità di appello(si pensi al ritornello: Dio è morto!): egli non può passare a presentare lasua tesi semplicemente come una scelta, quale pure è, perché ciò signi-ficherebbe riconoscere che non v’è quella trasparenza indiscutibile dellastoria dell’essere che alla sua proposta è essenziale41.

Il nichilismo –a parere di Pareyson– esito della filosofia hegeliana nella ver-sione di Feuerbach e degli epigoni, viene considerato e decostruito non attra-verso le desuete armi dell’apologia e quindi della contrapposizione ideologica.Piuttosto esso viene illustrato per il metodo con cui il suo pensiero agisce, e

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per gli esiti possibili cui può dare origine: il nichilismo è frutto di una scelta diesclusione. Paradossalmente il nichilismo nasce da un rifiuto affermativo, cioènon dialettico, non critico, ossia dalla scelta di non ammettere quale elementodi confronto il fatto religioso. Ma questo rilievo ne mette in luce un altro: il fattoche il nichilismo alla Feuerbach si sostanzia di un metodo che, dimentico dellapropria dimensione prospettica, è sostanzialmente ideologico. Così, comeRiconda chiaramente scrive, gli asserti nichilistici sono «senza possibilità diappello», e lungi dal riconoscere criticamente la propria «tesi» nel senso di una«scelta», di fatto presenta i termini della sua proposta in un «linguaggio neces-sariamente dogmatico». E questo sulla base di una pretenziosa lettura unifor-me della storia del pensiero: va da sé che il porsi da un punto di vista assolu-to («la trasparenza indiscutibile della storia dell’essere»!) nella lettura del realeriproduce il metodo idealistico di Hegel. Pertanto il pensiero di Kierkegaard siè configurato come «risposta a una coerenza come quella a cui Feuerbachporta il cristianesimo secolarizzato»42 e quindi come contributo specifico alriverbero religioso di una crisi filosofica. È il pensiero di Kierkegaard –secondoPareyson– a contenere le premesse per l’elaborazione di una vera e propriacultura filosofica, perché consapevole del proprio punto di partenza e nondimentica di essere “prospettica”, capace di una riflessione che riconosce lacomplessità ontologica non meno che antropologica senza operare riduzioni-smi. Scegliere Feuerbach significa riprodurre in termini di finitismo le conclu-sioni del razionalismo hegeliano, senza produrre al contrario quel pensiero che–pur affermando vigorosamente il punto di vista del finito– non rinuncia al rap-porto con l’assoluto. La preferenza di Feuerbach rispetto a Kierkegaard impli-ca l’esclusione di una ben precisa mediazione filosofica, che richiederebbeinvece, se adottata, una elaborazione di una prospettiva globale sull’esserenon meno che sull’uomo, che abbia una ricaduta sul piano della cultura: a que-sto infatti risponde in Pareyson l’urgenza di un personalismo ontologico chesoltanto attraverso la scelta di Kierkegaard risulta ammissibile, mentre dallaprospettiva di Feuerbach rimane escluso. Il costo della mediazione filosofica èalto perché chiede –superando sia Hegel che Feuerbach– una messa a puntodei piani in questione, distinti ma uniti, che incrociano finito e infinito, personae verità, tempo ed eternità, nella convinzione che soltanto in questa loro com-posizione sia verificabile, alternativa alla crisi, una cultura della libertà chepossa essere duratura.

Due alternative alla crisi: «ritrovamento» o «rinnovamento»

Il riferimento alla filosofia di Kierkegaard, come possibile soluzione di unacrisi culturale che risale alla dissoluzione del sistema hegeliano, ma in genera-le di ogni crisi, è per Pareyson indicativa di una prospettiva di recupero del cri-stianesimo, nel suo significato religioso e insieme speculativo. A patto di ope-rare una scelta precisa e impegnativa, religiosamente non meno che filosofica-mente, nota come «ritrovamento» del cristianesimo:

o si porta fino in fondo il processo di secolarizzazione del cristianesimo,con il che se ne dichiara la fine e se ne conferma perciò il valore puramen-

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te storico-culturale, oppure si dissocia il cristianesimo dalle forme cheessa ha assunto nel processo di secolarizzazione e allora si tratta di ritro-vare il cristianesimo nella sua forma autentica di fede e di esperienza43.

Tale categoria –che potrebbe anche essere convertita in «ripensamento»–si specifica in un duplice movimento circolare: da una parte indica la rilevanza“religiosa” del cristianesimo («la sua forma autentica di fede») e dall’altra nesottolinea la rilevanza speculativa, l’«esperienza» del cristianesimo formatasilungo la storia. Va da sé che il recupero –il «ritrovamento» o il ripensamento–dell’elemento cristiano alla base dell’interesse di Pareyson non avviene sullabase di una riproposizione pura e semplice del «pensiero tradizionale», quan-to invece sulla linea di un fattivo lavoro filosofico che sintetizza tradizione emodernità. Tale approfondimento, che si risolve in un’interpretazione e “stori-cizzazione” della tradizione cristiana, è una vera e propria operazione cultura-le, che prende le mosse da una significativa affermazione della trascendenzadella verità. Affermare la valenza religiosa del cristianesimo, non significadepotenziarne la dimensione storica e culturalmente attiva, perché ammettere«un cristianesimo che intenda affermarsi nel suo valore puramente religioso»non equivale ad attribuirgli un «carattere» «astrattamente metastorico némeramente interiore»44, avendo l’esperienza religiosa una valenza personale equindi concretamente attiva, ed essendo il pensiero a fungere da elementomediatore nel circolo virtuoso di «fede ed esperienza».

«Rinnovamento» o «ritrovamento» sono due termini posti da Pareyson indialettica ed agenti profondamente in ogni dinamica storica e soltanto superfi-cialmente ascrivibili a una dimensione eminentemente religiosa. Se «rinnova-mento» equivale ad «aggiornamento», descritto dalla modalità di aggiungerequalcosa di nuovo ad un elemento invecchiato, o addirittura di sostituire glo-balmente l’elemento considerato oramai inadatto ai tempi, è evidente che essonon risponde ad una prospettiva culturalmente matura. In questo caso, e inriferimento al cristianesimo, si farebbe strada l’idea che esso coincida intera-mente con una cultura storica e possa declinare in contemporanea con il decli-no questa, richiedendo poi un rinnovamento. In questo senso il «rinnovamen-to» finisce per essere il corollario di una rinuncia al cristianesimo stesso, con-siderato nella sua variabilità continua in relazione al tempo, al punto da richie-dere aggiunte o emendamenti che lo rendano di nuovo adeguato, o peggioancora una completa palingenesi di esso facendo piazza pulita della sua sto-ria precedente. I sostenitori della linea del «rinnovamento» compiono secondoPareyson una confusione piuttosto grossolana tra il cristianesimo come «fattoeterno» ed esso come fatto storico. Se così fosse –fa capire Pareyson– allorasi cadrebbe nello stesso errore della teologia liberale dell’Ottocento e oggettodella critica di origine barthiana: il cristianesimo sarebbe ridotto a fatto umano,a messaggio filosofico piuttosto che messaggio teologico, a prassi se si vuole,e perderebbe lo spessore trascendente ch’è l’essenza del cristianesimo stes-so45. Pareyson –formatosi in giovinezza anche sui testi di Barth46– richiamal’equivoco presente nella terminologia del «rinnovamento», e propone in alter-nativa la terminologia –e la conseguente cultura– del «ritrovamento». Tale

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dinamica, che insinua fin dall’etimologia una impostazione alternativa allaprima, dal momento che oggetto di ritrovamento è soltanto ciò che già c’è epermane, non esclude una situazione problematica propria anche di un «fattoeterno». Anch’esso deve sopportare la possibilità di essere dimenticato, con-segnato com’è al tempo e all’arbitrio della storia. Con la precisazione che sel’eterno è consegnato alla storia non per questo si deve dedurre che la storiane disponga, equivoco che è invece conseguente alla prima prospettiva. Suquesta stessa linea interpretativa si pone Roberto Esposito, il quale riconoscecome non esista «un cristianesimo diverso dal cristianesimo storico, dalmomento che la storia –come evento e come durata, come durata dell’evento–gli è cioè, del tutto intrinseca: a meno di non sbilanciarlo drasticamente versouna prospettiva di tipo gnostico che finirebbe inesorabilmente per rinnegarlosottraendogli lo stesso oggetto di salvezza»47. Come si diceva, questa dialetti-ca di rinnovamento e ritrovamento non è interna soltanto al cristianesimo, maanche alla dinamica della cultura, e permette di precisare, perlomeno a livellodi abbozzo, quello che Pareyson intende per tradizione e del suo rapporto conl’innovazione. Tradizione non un semplice deposito del tempo messo in custo-dia e garantito dalla «durevolezza storica».

La tradizione è qualcosa di più profondo, perché non si limita ad esserela trasmissione d’un risultato storico, ma è fondamentalmente ascoltodell’essere, che è dialogo col passato solo in quanto richiamo all’origine;e attraversa i secoli non perché sia collocata nel tempo, ma perché èinserita nel cuore stesso dell’avvento temporale dell’essere 48.

La tradizione storica non è intesa semplice continuità temporale, in sensoquantitativo, come se questa fosse un prodotto naturale; essa è invece la testi-monianza di un lavoro molto più complesso, che include sostanzialmentel’«ascolto dell’essere» e il «richiamo all’«origine», è luogo di mediazione trarivelazione intemporale e ricezione temporale. Può esistere la tradizione sol-tanto a partire da una previa «concezione ontologica del tempo»49, che sottraeil passato dalla «mera temporalità» e lo collega ad un elemento più originarioche è oltre il tempo. Non è la durevolezza storica a fondare la tradizione, mapiuttosto è la tradizione a presentarsi nel senso della continuità e della durata:e questo implica che a costituire la tradizione non entra soltanto una presenzastorica (l’uomo) ma anche una presenza sovrastorica, non meglio specificatada Pareyson se non come «essere» e da intendere verosimilmente comeAssoluto o Dio, come risulta dall’affinità teologica della terminologia. Se pertan-to la tradizione è mediazione di tempo ed eternità, essa permette di superarel’assolutizzazione dell’elemento storico (che è il mondo dell’uomo) e quindi ilsuo riscatto da qualsiasi uso strumentale (e in ultima analisi ideologico), affer-mandone la relatività, la perfettibilità e nel contempo l’autonomia. A partiredalla pregnanza della tradizione è allora possibile porre a tema l’innovazione,che prenderà appunto il significato di «ritrovamento» o ripensamento di unaprospettiva tradizionale: l’innovazione non si definirà nel senso di inizio asso-luto o interruzione della continuità, quanto invece in un ulteriore lavoro di

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mediazione tra senso del tempo e senso dell’origine. Al di fuori della dialetticaripetizione –invenzione, l’innovazione risponderà al problema di ritrovare emantenere nel tempo la presenza dell’essere, coniugando la necessità razio-nale del fondamento con la libertà del tempo: questo significa porre la dimen-sione della cultura, ossia edificare una prospettiva storica senza cedere adassolutizzazioni ed unilateralità, ancorando il tempo ad una autentica base didurata. È in tale senso che Pareyson parla di «coraggio» della tradizione.

E anche qui ci vuole coraggio: il coraggio di dire cose semplici e «tradi-zionali», di spogliarci dalla superbia degli intellettuali e dei dotti, di annul-lare in sé il piccolo io smanioso di originalità, di preferire la verità all’ori-ginalità e la traccia dell’eterno allo spirito del tempo50.

La prospettiva di Pareyson richiede pertanto di superare «la superbia» illu-ministica di porre nella ragione il fondamento della storia e del suo conseguen-te sapere, ed assumere invece l’onestà intellettuale che ammette di non esse-re in possesso di un potere creatore, capace di «originalità», riconoscendoinvece un primato alla «verità» di cui non dispone; è in fondo il coraggio cherichiama il senso del limite, non certo per deprimere la forza «degli intellettua-li e dei dotti», ma per evidenziare i rischi di un certo tipo di approccio storicoche –nella sua conformazione ideologica– produce ampie ricadute collettive.Prospettare il metodo del «ritrovamento» significa porre una sostanziale que-stione di libertà: riconoscere nel tempo la «traccia dell’eterno», riconoscibile achi (persona) decide (liberamente) di cercarla, piuttosto che cedere allo «spiri-to del tempo» al «piccolo io», che nella sua sicurezza affermativa denota la suaimpostazione di parte.

Ritrovare la traccia dell’eterno in ciò che è semplice e tradizionale non impli-ca comunque arrendersi al semplicismo e rinunciare alla problematicità: «ilsenso del difficile»51 è tipico di ogni operazione intellettuale, che per sua natu-ra è complessa e mai definitiva; «semplice», scrive Pareyson, «è ciò ch’èschietto e profondo: è l’originario», che come tale, nel suo rivelarsi nel tempo,«non si lascia imprigionare in singole forme, ma piuttosto tutte le suscita edesige, tutte le genera e rigenera, in un processo tanto più critico e incontenta-bile quanto più ricco e inesauribile»52. È l’originario (il «semplice») a dischiude-re gli spazi dell’iniziativa storica, e a suscitare pertanto tutte le possibili«forme», ogni possibile conseguente cultura, che il soggetto intende costruire.Il soggetto non può sostituirsi al semplice ma soltanto assumere il ruolo dell’in-terprete, riconoscendosi in una situazione mediana di ascoltatore dell’essere etessitore di prospettive storiche.

Sulla base di queste considerazioni è possibile rileggere anche il percorsocomplessivo della filosofia pareysoniana: la dinamica del ritrovamento è lamigliore trascrizione del metodo della libertà, intesa come fedeltà e iniziativa,in relazione al problema storico dell’edificazione di prospettive culturali conse-guenti: nella libertà vi è un ancoraggio necessario al fondamento ontologico,oggetto di costante riferimento e ritrovamento; ed è sempre in relazione al fon-damento (essere, verità) che il soggetto (persona, libertà) diventa rilevante,

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potenziato nella sua autonomia e nel suo compito storico. Se si rilegge sullabase di questo dato il percorso filosofico di Pareyson, sembrano ridimensiona-te le tesi che mettono l’accento sulle “svolte” e sulla discontinuità dell’opera, esi riferisce alle interpretazioni che privilegiano l’evento alla continuità, e quindicontrappongono un “primo” Pareyson legato ad una precisa fedeltà ad un per-sonalismo filosofico compiuto, ad un “secondo” Pareyson segnato da una con-centrazione metafisica sulla libertà ai limiti della disperazione antropologica(riferendosi alla preminenza della tematica del male, del nulla e della dialetticain Dio53). Come appare indebito lo sdoppiamento dell’opera pareysoniana, cosìappare non comprensibile l’insistenza sulla presunta novità (contro la continui-tà) della concezione pareysoniana del cristianesimo, come annotato da LucaBagetto: «il cristianesimo è interruzione [= verità] e realizzazione [= il movi-mento della libertà]. Nel termine stesso realizzazione risuona la tensione tra ildato compiuto e il movimento da compiere. Come vi può essere movimento,se la verità è interruzione del movimento?»54. Tale interpretazione dimentica unnesso da Pareyson sempre ribadito, vale a dire la relazione vitale della «per-sona» con la «verità» e con «l’essere», come pure un’accezione della libertàdell’uomo sempre connotata dall’esser sì «iniziativa», e quindi una discontinui-tà, ma sempre «iniziata», e kierkegaardianamente, una comprensione essen-ziale dell’uomo come «rapporto ontologico» e «coincidenza di autorelazione edeterorelazione»55: non c’è l’uno senza l’altro. L’accezione del «ritrovamento»del cristianesimo è poi indicativa di una procedura filosofica che non rinunciaaffatto al riconoscimento di una continuità storica, di una dimensione tradizio-nale, di una Wirkungsgeschichte, senza per questo, anzi, rinunciare alladimensione personalistica della scelta, che rappresenta certo una «interruzio-ne», ma non totale. In questo caso si può anche parlare di «tensione», chia-rendo però che essa non significa cesura o aporia, ma si inserisce nella dialet-tica tipica di qualsiasi operazione intellettuale o culturale, come di ogni dinami-ca esistenziale. Viene meno quindi il problema della contrapposizione tra con-tinuità della tradizione, o, meglio, eternità della verità, ed evento temporaledella decisione o «realizzazione»: il ritrovamento del cristianesimo è il prodot-to, certo temporale, e frutto di mediazione culturale, religiosa, esistenziale, cherisulta dall’incontro con la prospettiva della sua verità eterna; mediazione cheè resa necessaria in ogni tempo: faticosa, imperfetta, mai conclusa, macomunque necessaria.

Inoltre il riferimento al cristianesimo non è soltanto questione di scelta inti-mistica e privatistica, e in definitiva soltanto religiosa, quanto invece un’opzio-ne filosofica, che riguarda la prosecuzione di una prospettiva di civiltà –e quin-di di una responsabilità per il futuro– che si distende in una dimensione cultu-rale, filosofica, ma anche politica. Un cristianesimo ritrovato è un cristianesimo«attuale», reso possibile innanzitutto da un’operazione sistematica di pensie-ro: «un rigoroso esercizio di critica attenta e vigilante, come si richiede perprima cosa dal pensiero autentico, il quale pone sempre le sue ambizioni neldifficile»56. Precisazione che non esclude affatto, ma anzi, rafforza, la stessacomponente religiosa che nel cristianesimo Pareyson dimostra di valorizzareanche in chiave filosofica57.

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1 La tesi dell’unitarietà dell’opera pareysoniana, escludendo ipotetiche svolte o «stagioni specula-tive» separabili, è attestata anche dalla studiosa Rosanna Finamore, che scrive: «Da questo punto divista ci sembra quanto mai arbitrario raccogliere e sperimentare con artificiosi steccati le opere di unfilosofo che ha avuto sempre vigilissima la coscienza della continuità della propria dinamica specula-tiva. Non può non suscitare perplessità il fatto che l’individuazione delle varie stagioni speculative, ope-rabile a motivo di studio, diventi sguardo miope, incapace di cogliere la complessità dell’Organonpareysoniano, come accade a quei lettori dell’«ultimo» Pareyson –concentrato sui problemi del malee della libertà– che ignorano il «primo» e avanzano la pretesa di conoscere comunque l’Autore, o,cosa ancor più grave, si sostituiscono al suo genio decidendo quale debba essere il suo profilo spe-culativo» (Id., Arte e formatività. L’estetica di L. Pareyson, Città Nuova, Roma 1999, pp. 207-208).

2 In tale senso e per maggiore pertinenza, si segnala come Pareyson, per indicare l’inclusioneo la mediazione, scrive più propriamente di «nuova dialettica», per evitare l’equivoco della dialet-tica hegeliana che egli intende superare: cfr. L. PAREYSON, Una nuova dialettica in Essere, libertà,ambiguità, Mursia, Milano 1998, pp. 92-95.

3 «La filosofia è strettamente legata alla cultura, e si presenta sempre come soluzione raziona-le di un problema storico», L. PAREYSON, La situazione religiosa attuale, in Esistenza e persona, IlMelangolo, Genova, 1985, p. 111.

4 L. PAREYSON, Dal personalismo esistenziale all’ontologia della libertà, in Esistenza e persona,Il Melangolo, Genova, 1985, pp. 9 sgg. La «crisi» a cui si allude è sì il tramonto della sintesi hege-liana a cui non ha fatto seguito alcun’altra sintesi speculativa in grado di superarla, ma anche ognialtro momento di crisi, che richiede, per passare, l’elaborazione di una nuova cultura.

5 L. PAREYSON, Prefazione [1988] a Estetica. Teoria della formatività, Bompiani, Milano, 1996.6 L. PAREYSON, Filosofia della libertà, in Ontologia della libertà, Einaudi, Torino, 1995, pp. 463 sgg.7 Pareyson ne scrive in modo diffuso nelle sue opere, ma anche in modo significativamente

insistente nell’ultima edizione di Esistenza e persona (1985): il saggio introduttivo, Dal personali-smo ontologico all’ontologia della libertà (pp. 9-17), richiama in modo programmatico la problema-tica di un altro testo, ivi contenuto, e dal titolo La situazione religiosa attuale (1947). Scrive Parey-son: «Quando uscì questo libro [nel 1950], il tipo di problematica che ho descritto non era così dif-fuso come divenne in seguito, ed è perciò che mi son permesso di indugiare sul modo con cui cre-detti allora di poterla configurare» (ivi, pp. 13-14).Tutto questo sta ad indicare come il problema delcristianesimo e del moderno, come pure del rapporto tra teismo e ateismo, sia stato uno dei temimai abbandonati dalla riflessione di Pareyson. Esistenza e persona è stato pubblicato in quattroedizioni complessive: la prima nel 1950, la seconda nel 1960, la terza nel 1966, la quarta nel 1985.Questa ricorrenza, unica tra le opere di Pareyson, ne mette in rilievo la funzione primaria.

8 Si sta facendo cenno a un articolo di Giuseppe Riconda, interessante per la storiografia filo-sofica contemporanea: Pensiero tradizionale e pensiero moderno, in «Annuario Filosofico», 1987,pp. 17 sgg. È in queste pagine che emerge una prospettiva su Pareyson come interprete delmoderno

9 G. RICONDA, Pensiero tradizionale…, cit. p. 17.10 Pareyson si ispirava in tal senso alle tesi di Karl Löwith in Da Hegel a Nietzsche (Einaudi, Tori-

no, 1949).Cfr. L. Pareyson, Rettifiche sull’esistenzialismo [1975], in Esistenza e persona, cit. p. 253.11 Cfr. per questo A. DEL NOCE, L’epoca della secolarizzazione, Giuffré, Roma, 1970, pp. 75 sgg.12 Così scrive A. Del Noce: «Se si situa l’ateismo nella storia della filosofia crolla quell’idea del pro-

gresso unitario della filosofia moderna, e crolla lo stesso criterio della modernità come valore: si dise-gnano cioè nella storia della filosofia dei tempi cosiddetti moderni, due linee irriducibili, quella da Carte-sio a Marx e a Nietzsche e quella da Cartesio a Rosmini, rivolta all’incontro con la metafisica classicae alla sua riformulazione in relazione ai nuovi problemi». (Id, L’epoca della secolarizzazione, cit., p. 75).

13 A. DEL NOCE, L’epoca della secolarizzazione, cit., p. 75.14 Per una più approfondita ricognizione di questo termine in Del Noce, oltre alle citate, cfr. G.

Riconda La filosofia dopo il nichilismo, in Atti della I edizione dei Simposi Rosminiani, «RivistaRosminiana», n. I-II 2001, pp. 18 sgg. In queste pagine viene anche proposta la distinzione delno-ciana tra «moderno» e «post-moderno».

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15 Giuseppe Riconda, in consonanza con la prospettiva delnociana, precisa l’espressione«pensiero tradizionale» nel senso di una cultura identificabile nell’orizzonte del cristianesimo, ecronologicamente compresa tra l’epoca greco-cristiana e l’umanesimo, «leggendo lo stessomomento scolastico solo come suo momento senza privilegiarlo come suo punto culminante». (cfr.G. RICONDA, Pensiero tradizionale e pensiero moderno…, cit. p. 8). Ciò che caratterizza in modoessenziale il «pensiero tradizionale» è pertanto «l’apriori religioso o teologico», che dal punto divista speculativo si riflette nel riconoscimento «di una superiorità della religione sulla filosofia con-tro ogni forma di razionalismo» (ibidem).

16 A. DEL NOCE, L’epoca della secolarizzazione, cit. p. 183.17 Ivi, p. 75.18 Ivi, p. 7.19 Ivi, p. 183.20 Ivi, p. 5.21 Il legame tra Pareyson e Del Noce riguarda essenzialmente (ma non solo) il problema del

cristianesimo e dell’ateismo, come Pareyson riconosce in Esistenza e persona, Il Melangolo,Genova, 1985, p. 273. Si ricorda a questo proposito le seguenti opere di Del Noce con le qualiPareyson riconosce un’affinità di pensiero: Il problema dell’ateismo, Bologna, Il Mulino 1964; Rifor-ma Cattolica e Filosofia moderna, I, Cartesio, 1965; Da Cartesio a Rosmini, Giuffré, Roma, 1992.

22 Cfr. in tale senso LUCA BAGETTO, Il processo della forma in Aa.Vv., Il pensiero di Luigi Parey-son nella filosofia contemporanea. Recenti interpretazioni (a cura di G. Riconda e Claudio Cian-cio), Trauben, Torino, 2000, pp. 160-163. Nel caso in questione la vicinanza di Pareyson con laprospettiva di Del Noce riguarda la lettura della storia dell’occidente come «ideologia del progres-sivo superamento di ciò che è dato sul mobile fondamento di quanto è fatto sempre di nuovo»,intendendo per «dato» il tradizionale e per «fatto» il moderno (p. 161); tale comunanza, secondol’autore, sarebbe poi in contrasto con il senso generale del pensiero di Pareyson.

23 Chi riconosce a Pareyson una piena consonanza con il «pensiero tradizionale» è lo stessoproposito G. Riconda: oltre al saggio già menzionato, cfr. anche in AA.VV. Filosofia ed esperienzareligiosa. A partire da Luigi Pareyson, Macerata, 1995, p. 134.

24 L. PAREYSON, La situazione religiosa attuale, in Esistenza e persona, cit., pp. 113 sgg. Que-sto saggio, pubblicato come si è detto nel 1947, è stato incluso nell’ultima edizione della raccolta(1985) proprio per l’importanza della riflessione sul cristianesimo.

25 Così Pareyson scrive nella Prefazione alla prima edizione di Esistenza e persona (1950),testo che egli stesso cita nel saggio introduttivo dell’ultima edizione (1985), Dal personalismo esi-stenziale all’ontologia della libertà, pp. 9-10.

26 Negli Studi sull’esistenzialismo (1943) Pareyson connotava tale corrente filosofica nel sensodell’«instabilità»; tale giudizio veniva rovesciato in Rettifiche sull’esistenzialismo (del 1975, ora rac-colto nell’ultima edizione di Esistenza e persona), la cui formulazione però non riguardava tantol’esistenzialismo “storico” (e quindi i propri studi precedenti, come se le «rettifiche» negassero lavalidità complessiva di quelle ricerche), quanto invece le potenzialità degli sviluppi dell’esistenzia-lismo “filosofico”, e quindi del «personalismo ontologico», categoria formulata da Pareyson e indi-cativa degli sviluppi del proprio pensiero.

27 Così Pareyson in La situazione religiosa attuale, già citato: «Il cristianesimo che si limita adifendersi dall’anticristianesimo si pone con ciò stesso al di qua della crisi, e con questo atteggia-mento puramente antitetico conferma l’impotenza dei mezzi di cui dispone, vale a dire tutto l’arma-mentario della cultura in dissoluzione. Perché il cristianesimo abbia qualcosa da dire nel momen-to presente, bisogna che il cristiano riconosca la realtà della crisi, e si ponga non prima, ma dopola crisi. Il che significa che un cristianesimo valido al giorno d’oggi è quello che non si limita aopporsi all’anticristianesimo, ma è capace di oltrepassarlo» (pp. 117-118).

28 L. PAREYSON, L’esperienza della libertà, in Dostoevskij. Filosofia, romanzo ed esperienza reli-giosa, Einaudi, Torino, 1993, p. 133.

29 Cfr. L. PAREYSON, Dal personalismo esistenziale…, cit. pp. 118 sgg. Pareyson sarà moltochiaro anche nel considerare come il cristianesimo «secolarizzato» non debba essere confuso conil cristianesimo «religioso» e come il primo abbia indotto a un equivoco non trascurabile, ossia allariduzione del cristianesimo a sistema filosofico (e quindi a specifica cultura).

30 Cfr. L. PAREYSON, Due possibilità: Kierkegaard e Feuerbach [1950], in Esistenza e persona,cit., p. 78: «La domanda ultima è perciò: il finitismo e lo strumentalismo [vale a dire l’esito ateo]

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non sono per avventura soltanto l’antitesi, o, anzi, la ritrascrizione in termini d’attualità del raziona-lismo metafisico? [vale a dire l’hegelismo]».

31 Per Pareyson il termine ideologia è inteso nel senso deteriore del «pensiero puramenteespressivo», «pensiero ch’è mero prodotto storico», prassistico e strumentale, e quindi comenegazione convinta e consapevole della verità. Cfr. Pensiero rivelativo e pensiero espressivo[1964] in Verità e interpretazione, cit., pp. 16 sgg.

32 L. PAREYSON, Frammenti sull’escatologia, in Ontologia della libertà, Einaudi, Torino, 1995, p. 343.33 PAREYSON accoglie nell’accezione di filosofia moderna quella linea «eminente», derivata dal-

l’insegnamento di Piero Martinetti e Gioele Solari, «il periodo aureo» che «è la meravigliosa eimpareggiabile fioritura che ebbe luogo in Germania da Kant a Schopenhauer, dal criticismo alRomanticismo e all’idealismo tedesco» (L. PAREYSON, Attualità di Martinetti [1972], in Prospettivedi filosofia contemporanea, Mursia, Milano 1993, p. 115).

34 L. PAREYSON, Filosofia della libertà [1989], in Ontologia della libertà, cit., pp. 463 sgg.35 L. Pareyson, Libertà e situazione [1988], in Ontologia della libertà, cit., pp. 7 sgg. Qui Pareyson

riporta gli autori che meriterebbero di essere collocati «sotto l’insegna di una filosofia della libertà»:«Plotino, Pascal, Fichte, Kierkegaard, Schelling, l’esistenzialismo» (p. 9). Inoltre, nei materiali prepa-ratori riportati alla nota 6 della stessa pagina, egli menziona esplicitamente, accanto a Plotino, la «tra-dizione giudaico cristiana» e «l’esperienza religiosa come ruolo privilegiato della libertà». Questirimandi confermano come dalla fonte del pensiero tradizionale sia riconducibile una autentica storiadella libertà che anticipa, attraversa e supera il moderno (lo invera, si sarebbe tentati di dire).

36 G. Ferretti in AA.VV., Filosofia ed esperienza religiosa: a partire da Luigi Pareyson, cit., pp. 38-39.37 La continuità essenziale tra libertà e cristianesimo è confermata da Pareyson anche in Il

nulla e la libertà come inizio [1992] in Ontologia della libertà, cit. pp. 460-462; cfr. anche Filosofiadella libertà, in Ontologia della libertà, cit., pp. 469 sgg.

38 K. LÖWITH, Da Hegel a Nietzsche, cit.39 L. PAREYSON, Kierkegaard e Feuerbach, in Esistenza e persona, cit., p. 77.40 Se ne trova un preciso riferimento in L. PAREYSON, Kierkegaard e Pascal, Mursia, Milano,

1999, p. 135. Il testo qui citato è la riedizione di una dispensa universitaria dal titolo L’etica di Kier-kegaard nella “Postilla”, Giappichelli, Torino, 1971.

41 L. PAREYSON, Dal personalismo esistenziale all’ontologia della libertà, cit., p. 13.42 G. RICONDA, Pensiero tradizionale e pensiero moderno, cit., p. 35.43 G. RICONDA, Pensiero tradizionale e pensiero moderno, cit., p. 77.44 L. PAREYSON, Se muore il Dio della filosofia (intervista a cura di Ciro Sbailò) [1989], in Esse-

re, libertà, ambiguità, Mursia, Milano, 1998, p. 182.45 L. PAREYSON, Dal personalismo esistenziale all’ontologia della libertà, cit. p. 11.46 A proposito di quest’aspetto cfr. L. PAREYSON, Se muore il Dio della filosofia, cit. p. 181.47 Cfr. L. PAREYSON, L’esistenzialismo di Karl Barth [1939], in Studi sull’esistenzialismo, Mursia,

Milano 2001 (prima ed. Sansoni, Firenze, 1943), pp. 81 sgg. Si tratta di un ampio studio sul «bar-thismo» e sulla teologia dialettica.

48 R. ESPOSITO, Immunitas, Einaudi, Torino 2002.49 L. PAREYSON, Valori permanenti e processo storico [1968], in Verità e interpretazione, Mur-

sia, Milano, 1971, p. 47.50 L. PAREYSON, Valori permanenti e processo storico, cit., p. 48.51 L. PAREYSON, Presentazione de Il magnifico oggi di M. F. Sciacca, Città Nuova Editrice,

Roma, 1976, p. X.52 L. PAREYSON, Prefazione a Estetica. Teoria della formatività, cit. p. 210.53 L. PAREYSON, Presentazione de Il magnifico oggi di M. F. Sciacca, cit., p. X.54 È la proposta di Sergio Givone, che privilegia il tema della dialettica in Dio e al «Dio nasco-

sto», «su cui l’ultima opera pareysoniana si soffermerà con esiti altissimi e che forse non hannol’uguale nella riflessione filosofico-teologica contemporanea» (S. GIVONE, Premessa a L. PAREY-SON, Kierkegaard e Pascal, Mursia, Milano 1998, p. 187).

55 L. BAGETTO, Il processo della forma in AA.VV., Il pensiero di Luigi Pareyson nella filosofia con-temporanea. Recenti intepretazioni (a cura di G. Riconda e Claudio Ciancio), Trauben Torino,2000, p. 161.

56 L. PAREYSON, La filosofia dell’esistenza e Carlo Jaspers, Ed. Loffredo, Napoli 1940, pp. 82 sgg.57 L. PAREYSON, Presentazione de Il magnifico oggi di M. F. Sciacca, cit., p. X.

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SAG

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LA TRANSIZIONE DELLA CULTURA ITALIANANELLA COMUNICAZIONE GLOBALE

Su alcune riflessioni di Tullio De MauroPier Paolo Pasolini, Ferruccio Rossi-Landi

di Augusto Ponzio

Questo articolo prende spunto dal recente libro di Tullio De Mauro, La cul-tura degli Italiani (2004) per riflettere sulla transizione o sulla “mutazione” dellacultura italiana verso la globalizzazione considerandola nel periodo che vadalla fine degli anni Sessanta fino ad oggi e attraverso l’interpretazione di treautori particolarmente interessati ai problemi del linguaggio e della comunica-zione: Pier Paolo Pasolini, Ferruccio Rossi-Landi e lo stesso De Mauro. Spe-ciale attenzione è rivolta al rapporto tra segni e valori e ai processi di trasfor-mazione di questi ultimi, soprattutto per quanto riguarda i giovani.

Il libro di De Mauro, che è a cura di Francesco Erbani, è un libro-intervista:una conversazione dell’autore con il curatore sul tema della cultura degli italia-ni. “Cultura” è qui intesa non in senso restrittivo di “cultura intellettuale” ma nelsenso ampio fornito dagli antropologi, utile per qualunque cultura e che sta allabase di quelli che in ambito anglosassone si chiamano cultural studies, secon-do cui qualunque popolazione, anche la più ‘incolta’ –come diremmo in riferi-mento alla cultura intellettuale, ‘alta’– non può non avere una sua capacità dielaborazione culturale. Assumendo quest’accezione larga della nozione, DeMauro considera il passaggio brusco dalla cultura del mondo contadino del-l’Italia fino agli anni Cinquanta. Il centro di questo mondo era la famiglia comebottega familiare, luogo di elaborazione del sapere e del sapere fare e anchedel sapersi orientare nelle relazioni: un complesso di competenze tramandatee messe a frutto. Negli anni Cinquanta e Sessanta, con spostamento dellamanodopera nella città, queste competenze furono messe a bassissimi costi alservizio delle grande industria. Osserva De Mauro:

Chi è arrivato in città non ha trovato nulla, o quasi nulla, di ciò che la bot-tega familiare in una realtà contadina riusciva a garantire. Gli adultihanno trovato lovoro e redditi più alti, e questo era desiderabile. Ma i lorofigli non hanno trovato niente. Hanno trovato scuole assolutamente inca-paci di capire cosa potessero e dovessero fare dinanzi a questi nuovi arri-vati. […] Ma è impressionante che sul campo degli anni Cinquanta soloalcuni, da Pier Paolo Pasolini a don Lorenzo Milani, colgano il rischio diquello che stava avvenendo. Il rischio di quello che quasi vent’anni dopo,in un editoriale del Corriere della sera, Eugenio Montale chiamò “il terre-moto antropologico sotterraneo” che ha devastato il paesaggio culturaleitaliano (ivi: 10).

La scomparsa della “bottega familiare” non ha trovato un’adeguata com-pensazione in una crescita educativa integrale in grado di recuperarne o sosti-

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tuirne il sistema delle competenze e dei valori. Malgrado l’offerta di un’alfabe-tizzazione più alta e di “un pezzo di carta”, la formazione che la scuola fornivaai giovani, nella realtà urbana che si andava via via delineando negli anni Ses-santa e Settanta, si rivelava, secondo De Mauro, carente sotto due aspetti: dauna parte, per quanto riguardava il sapere, risultava sempre più insufficienterispetto alla sempre maggiore complessità dell’organizzazione produttiva, dal-l’altra, circa la capacità di orientamento nel mondo, non riusciva trasmettere néi valori che la scomparsa bottega familiare della società contadina garantiva,né valori sostitutivi. All’inizio degli anni Settanta risultava chiaro che, con lascomparsa dei luoghi della loro formazione, sia i valori sia le capacità artigia-nali elaborate e trasmesse dalla bottega familiare, risorsa fondamentale duran-te passaggio alla vita urbana e industriale, erano spariti. L’istruzione fornita aigiovani era solo “un guscio”, dice De Mauro (v. ivi: 11-12) a cui non corrispon-deva, sia sul piano conoscitivo sia su quello etico, niente di sostanziale. Le gio-vani generazioni imparavano a parlare italiano alla stessa maniera in cui impa-ravano a vestirsi allo stesso modo, ma ciò dava luogo a una omologazione ea un livellamento soltanto apparente perché sotto quel guscio sussistevanodisparità e fratture drammatiche. Evidenziando questo aspetto, De Mauro ritie-ne di discostarsi dal modo in cui Pasolini intendeva l’omologazione dei giova-ni quale si presentava all’inzio degli anni Settanta come effetto del consumi-smo, della scuola dell’obbligo e della televione. In realtà anche per Pasolinil’omologazione è solo apparente, perché è ben consapevole del fatto che nonsolo restano ma si acuiscono le differenze economiche e di condizioni di vita eche persistono in Italia denutrizione, ghettizzazione e sperequazioni socialidrammatiche, al punto tale da sottolineare le diverse forme di frustrazione e dirabbia che la logica del consumismo produce nei ragazzi meno abienti che lastessa scuola dell’obligo fa trovare gomito a gomito a quelli degli strati socialipiù ricchi.

Alla totale esposizione dei giovani all’ideologia del consumismo consegue,dice Pasolini, la frustrazione di coloro che avendo ormai gli stessi bisogni, desi-deri e immaginari di quelli più abienti non ha i mezzi per realizzarli Di ciò sonodirettamente responsabili la televisione e la scuola dell’obbligo. “La televisione,e forse ancora peggio la scuola d’obbligo, hanno degradato tutti i giovani e iragazzi a schizzinosi, complessati, razzisti borghesucci di seconda serie”. Per-ciò la proposta “swiftiana” di Pasolini: abolire immediatamente la scuola del-l’obbligo, abolire immediatamente la televisione che con i loro modelli rendonoi giovani insieme presuntuosi e frustrati, “aggressivi fino alla delinquenza” e“passivi fino all’infelicità” (Pasolini 1976: 165-171).

Pasolini, particolarmente con i suoi articoli pubblicati sul Corriere dellaSera, svolge agli inizi degli anni Settanta fino alla sua morte avvenuta il 2novembre 1975, una lucida analisi del processo di sviluppo in Italia della civil-tà dei consumi, che oggi si presenta nella forma del mercato universale, dellaunificazione economica e della comunicazione globale. Ne individua la basenella “rivoluzione delle infrastrutture” e nella “rivoluzione del sistema di infor-mazione”. Soprattutto la televisione, “autoritaria e repressiva”, divenuta centrodi elaborazione dei messaggi, ha avviato, osserva Pasolini, un’opera di accul-

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NOTE

turazione omologante, che non ammette altra ideologia che quella del consu-mo, secondo le norme di quella che egli chiama “Produzione creatrice dibenessere” (v. Acculturazione e acculturazione, 9 dicembre 1973, in Pasolini1990: 237).

L’accezione secondo cui De Mauro intende “cultura” è anche quella diPasolini. La parola “cultura”, chiarisce Pasolini in un articolo sui giovani e ladroga del 24 luglio 1975 (in Pasolini 1976: 85-91), non indica soltanto la cultu-ra specifica, d’élite, di classe: indica anche, e prima di tutto, secondo l’usoscientifico che ne fanno etnologi, antropologi e sociologi, “il sapere e il modod’essere di un paese nel suo insieme, ossia la qualità storica di un popolo conl’infinita serie di norme, spesso non scritte, e spesso addirittura inconsapevoli,che determinano la sua visione della realtà e regolano il suo comportamento”(ivi: 87).

Tutte le classi sociali sono coinvolte nella perdita dei vecchi valori e nellamancanza di nuovi, alternativi agli pseudovalori del consumismo, ma i più col-piti sono i giovani delle classi povere: “appunto perché essi vivevano una ‘cul-tura’ ben più sicura e assoluta di quella vissuta dalle classi dominanti” (ivi: 89).È sulla base di questa analisi che Pasolini considera il fenomeno della drogae cerca di spiegarne il dilagare fra i giovani e soprattutto fra quelli degli stratisociali più bassi e dei quartieri popolari più emarginati.

Un punto fermo dell’analisi di Pasolini è il fatto evidente che le due culture,quella della borghersia e quella del popolo, come pure le due storie, quella bor-ghese e quella proletaria, si sono unite, in conseguenza di una “borghesizza-zione totale e totalizzante” (Pasolini 1976: 80). La responsabilità ideologica ditale unificazione è, secondo Pasolini, di tutti coloro, intellettuali e partiti di sini-stra, che in buona o in cattiva fede, hanno creduto di dover risolvere il proble-ma della povertà sostituendo la cultura e i modi di vita delle classi povere conla cultura e le abitudini della classe dominante; cioè hanno creduto, dice Paso-lini, che la storia non sia e non possa essere che la storia borghese.

In questo senso Pasolini denuncia il carattere totalitario di tale unificazione,e mostra come la sua repressività non sia “arcaicamente poliziesca”, ma, comela riorganizzazione attuale della forma capitalistica richiede, falsamente per-missivista e ipocritamente tollerante.

“La tolleranza, sappilo”, dice Pasolini, nel suo trattatello pedagogico Gen-nariello (che inizia nei primi mesi del 1975 e si interrompe il 5 giugno 1975, conuna “digressione” politica e la dichiarazione di impegno in questa “digressione”“fin che sarà necessario”),

è solo e sempre puramente nominale. Non conosco un solo esempio ocaso di tolleranza reale. E questo perché una “tolleranza reale” sarebbeuna contraddizione in termini. Il fatto che si “tolleri qualcuno” è lo stessoche lo si “condanni”. La tolleranza è anzi una forma di condanna più raf-finata (ivi: 23).

Il significato efffettivo della parola “tolleranza” e del verbo “tollerare”, è pie-namente avvertito nel participio passato “tollerato”. Pasolini sa tutto questo nel

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senso vissuto, non gnoseologico, della parola “sapere”, sperimentandolo inprima persona, avvertendolo sulla propria pelle: “Io sono come un negro in unasocietà razzista che ha voluto gratificarsi di uno spirito tollerante. Sono cioè‘tollerato’” (ibidem).

“La repressione del potere tollerante, di tutte le repressioni, è la più atroce”.Nei rapporti sessuali fra i giovani la tolleranza subentra alla represione sessua-le, una tolleranza che rende il sesso “triste e ossessivo” (Pasolini 1991: 315).

Il rapporto sessuale è un linguaggio (ciò per quanto mi riguarda è statochiaro ed esplicito specialmente in Teorema); ora i linguaggi o sistemi disegni cambiano. Il linguaggio o sistema dei segni del sesso è cambiatoin Italia in pochi anni, radicalmente. Io non posso essere fuori dell’evolu-zione di alcuna convenzione linguistica della mia società, compresa quel-la sessuale. Il sesso è oggi la soddisfazione di un obbligo sociale, non unpiacere contro gli obblighi sociali. da ciò deriva un comportamento ses-suale appunto radicalmente diverso da quello a cui io ero abituato. Perme dunque il trauma è stato (ed è) quasi intollerabile […]. Il sesso in Salòè una rappresentazione o metafora di questa situazione: questa cheviviamo in questi anni: il sesso come obbligo e bruttezza (ivi: 316).

Da qui l’“abiura” di Pasolini (9 novembre 1975, in Pasolini 1976: 72 e segg.)nei confronti dei suoi film della Trilogia della vita, espressione di un periodo,cronologicamente vicino, ma sociologicamente e culturalmente lontano in cuiaveva senso la lotta per la democratizzazione del “diritto di esprimersi” e per la“liberalizzazione sessuale”. Tale “lotta progressista” è stata “brutalmente supe-rata e vanificata dalla decisione del potere consumistico di concedere unavasta (quanto falsa) tolleranza” (ivi: 72). La liberalizzazione sessuale “anzichédare leggerezza e felicità ai giovani e ai ragazzi, li ha resi infelici, chiusi, e diconseguenza stupidamente preuntuosi e aggresssivi” (ivi: 74). Se nella socie-tà repressiva, il sesso era anche un’irrisione innocente del potere, oggi puòessere assunto, dice Pasolini, come la rappresentazione di quella che Marxchiama la mercificazione dell’uomo: la riduzione del corpo a cosa. In Salò, dicePasolini, il sesso oltre che la metafora del rapporto sessuale, “obbligatorio ebrutto” che la tolleranza del potere consumistico ci fa vivere in questi anni, è“anche la metafora del rapporto del potere con coloro che gli sono sottoposti.[…] Dunque il sesso è chiamato a svolgere nel mio film un ruolo metaforicoorribile” (Pasolini 1991: 316).

Con la “Produzione creatrice di benessere” è connessa la diffusione del“nuovo fascismo consumistico”. Il carattere nuovo di tale “fascismo” sta, perPasolini, nel fatto che a differenza del fascismo tradizionale che non era riuscitoa modificare gli italiani, sta producendo una “rivoluzione antropologica”, “unamutazione della cultura italiana”, un cambiamento radicale delle coscienze, una“irreversibile degradazione,” che si presenta (accanto ai selvaggi disastri edilizi,urbanistici, paesaggistici, ecologici, della “civiltà tecnologica”) come “genocidioculturale”, come un vero e proprio “disastro antropologico” (v. Pasolini, Studiosulla rivoluzione antropologica in Italia, 10 giugno 1974 e Ampliamento del “boz-zetto” sulla rivoluzione antropologica in Italia, 11 luglio 1974 (in Pasolini 1990: 39-

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NOTE

44 e 56-64). L’interclassimo obiettivo del fascismo ma che il fascismo non eraaffatto riuscito a realizzare è invece ottenuto dal consumismo.

Pasolini evidenzia, potremmo dire con un’espressione usata da Walter Ben-jamin in uno scritto così intitolato degli inizi degli anni Trenta, il “carattere distrut-tivo dell’attuale”, il carattere distruttivo della fase economica della “Produzionecreatrice di benessere”. “La sua prima esigenza è quella di far piazza pulita diun universo ‘morale’ che le impedisce di espandersi” (Pasolini 1990: 23).

Salò o Le 120 giornate di Sodoma è il film, dice Pasolini, che raffigura l’Ita-lia com’è diventata nell’arco di una decina d’anni e anche meno:

Un’immensa fossa di serpenti, dove, salvo qualche eccezione e alcunemisere élites, tutti gli altri sono appunto dei serpenti, stupidi e feroci, indi-stinguibili, ambigui, sgradevoli. E tutto ciò a causa a) del loro degradan-te consumismo coatto, e, in secondo luogo e settorialmente; b) dellascuola dell’obbligo che li ha frustrati rendendoli coscienti della propriaignoranza e nel tempo stesso presuntuosi per quelle quattro sciocchez-ze moralistiche e pseudo-democratiche che vi hanno imparato; c) dellatelevisione, che mostra loro i modelli di vita e concretizza i valori attraver-so il suo linguaggio che, essendo pura rappresentazione, non ammetterepliche logiche; d) di una infinità di altre cause tutte concorrenti e tuttenate dalla stessa matrice che è il mutamento della natura del Potere eco-nomico (Pasolini 1991: 319).

Le vittime principali di tale mutazione antropologica sono i giovani (compre-si gli estremisti fascisti che “sono in realtà forze statali”). “I giovani italiani nelloro insieme costituiscono una piaga sociale forse ormai insanabile: sono oinfelici o criminali (o criminaloidi) o estremistici o conformisti: e tutto in unamisura sconosciuta fino ad oggi” (Pasolini 1976: 90). La privazione di valori hagettato i giovani nel vuoto, facendone una “massa di criminaloidi”.

Non solo i criminali veri e propri sono una “massa”: ma, ciò che più conta,la massa giovanile italiana tout court (eccettuate piccole élites…) è costi-tuita ormai da criminaloidi: ossia da quelle centinaia di migliaia o milionidi giovani che patiscono la perdita dei valori di una ‘cultura’ e non hannotrovato intorno a sé i valori di una nuova “cultura”: oppure accettano, conostentazione e violenza, da una parte i valori della “cultura del consumo”,dall’altra i valori di un progressivismo verbalistico” (ivi: 81).

La diretta lettura del processo di trasformazione dei giovani delle classipovere è direttamente offerto a Pasolini dai comportamenti dei giovani delleborgate romane, una trasformazione registrabile nel 1975, –anno in cui vieneproiettato in televisione Accattone, che è del 1961, rispetto al modo d’esseredei personaggi di Accattone– cioè dei giovani della malavita delle borgateromane quali erano meno di una quindicina di anni prima.

I personaggi di Accattone erano tutti ladri o magnaccia o rapinatori o genteche viveva alla giornata. […] In sostanza sono personaggi enormementesimpatici: è difficile immaginare gente simpatica (al di fuori dei sentimenta-

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lismi borghesi) come quella del mondo di Accattone, cioè della cultura sot-toproletaria e proletaria di Roma fino a dieci anni fa. Il genocidio ha cancel-lato per sempre dalla faccia della terra quei personaggi. Al loro posto cisono quei loro “sostituti”, che, come ho avuto già occasione di dire, sonoinvece i personaggi più odiosi del mondo. […] Metà e più dei giovani chevivono nelle borgate romane, o insomma dentro il mondo sottoproletario eproletario romano, sono, dal punto di vista della fedina penale, onesti. Sonoanche bravi ragazzi. Ma non sono più simpatici. Sono tristi, nevrotici, incer-ti, pieni di un’ansia piccolo borghese; si vergognano di essere operai; cer-cano di imitare i “figli di papà”. Sì oggi assistiamo alla rivincita dei “figli dipapà”. Sono essi che realizzano il modello guida. Il lettore confronti perso-naggi come i pariolini neofascisti che hanno compiuto l’orrendo massacroin una villa al Circeo, e personaggi come i borgatari di Torpignattara chehanno ucciso un automobilista spaccandogli la testa sull’asfalto: a due livel-li sociali diversi, tali personaggi sono identici: ma i “modelli” sono i primi,quei fili di papà, che così a lungo –per secoli– sono stati sfottuti e disprez-zati dai ragazzi di borgata, che li consideravano nulli e pietosi mentre eranofieri della loro “cultura”, che dava loro gesti, mimica, parole, comportamen-to, sapere, termini di giudizio” (ivi: 156-157).

Certo, il materialismo consumistico e la criminalità dilagano in tutto il modocapitalistico, e non solo in Italia. Ma ciò che caratterizza quanto avviene in Ita-lia all’inizio degli anni Settanta, osserva Pasolini, è il passaggio violento allaomologazione consumistica. Ciò che oggi avviene violentemente in Italia è,negli altri paesi, il risultato di un lungo processo che ha trovato possibilità dicompensazione:

A New York, a Parigi, a Londra, ci sono delinquenti feroci e pericolosi (quasitutti, toh!, di colore o quasi): ma ospedali, scuole, case di riposo, manicomi,musei, cinema d’essai, funzionano perfettamente. l’unità, l’acculturazione,l’accentramento sono avvenuti in ben altro modo. Dei loro genocidi è statotestimone Marx più di un secolo fa. Che tali genocidi avvengano in Italiaoggi, cambia sostanzialmente la loro figura storica. Accattone e i suoi amicisono andati alla deportazione e alla soluzione finale silenziosamente, maga-ri ridendo dei loro aguzzini. Ma noi testimoni borghesi? (ivi: 158)

Qual è, nei confronti di questi avvenimenti, da parte dei cosiddetti “intellet-tuali di sinistra” l’atteggiamento che Pasolini registra di fronte a questo svuta-mento dei valori tradizionali essi, nella quasi totalità, non sono riusciti a con-trappore l’indicazione di nuovi valori alternativi ai falsi valori del consumismo.Anzi, gli intellettuali progressisti, abituati ad avere a che fare con i valori dellavecchia società clerico-fascista –e questa osservazione di Pasolini sul princi-pio di inerzia che spesso caratterizza l’ideologia quando da progettazionesociale diviene complesso di stereotipi e pregiudizi è particolarmente interes-sante–, hanno continuato, per inerzia, meccanicamente, a lottare per la scon-sacrazione e la de-sentimentalizzazione della vita, anche quando il nuovopotere è ormai esso stesso interessato a liberarsi di quei valori per fare spazioa quelli della “Produzione creatrice di benessere”.

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NOTE

Gli intellettuali progressisti “che continuano a macinare il vecchio illuminismo”fanno dunque cosa utile al potere. Questa critica a un illuminismo vecchio e scle-rotico, che considera la storia come unilineare e orientata al “progresso” (v. ivi: 21)è uno degli aspetti che accomuna il “poeta” Pasolini –come lo connota AlbertoMoravia per sistemarlo nelle “altezze” e “voli” della poesia– e Leopardi, al di làdella formula generica e soporifera di Moravia: “Un poeta civile che nella sua poe-sia civile si riallaccia a Leopardi, ne ha lo stesso atteggiamento: la patria è degra-data, e il poeta piange sulla sorte del proprio paese” (cit. in Pasolini, 1991: 39).

Nel trattatello pedagogico Gennariello, Pasolini mette in guardia contro leillusioni e i danni dell’ideologia del progresso: “Non è vero che comunque sivada avanti. Assai spesso sia l’individuo che la società regrediscono o peggio-rano. In tal caso la trasformazione non deve essere accettatta: la sua ‘accetta-zione realistica’ è in realtà una colpevole manovra per tranquillizzare la propriacoscienza e tirare avanti”. Questa critica del “progresso”, che in effetti è criticadello sviluppo funzionale al profitto e alla riproduzione della forma capitalistica,non è affatto in Pasolini nostalgia di qualche momento del passato: “Capiraipian piano, nel corso di queste lezioni, capirari, caro Gennariello, che malgra-do l’apparenza questi miei discorsi non sono affatto le lodi del tempo passato(che io, in quanto presente, non ho del resto mai amato)” (Pasolini 1976:28).

Un’altro esempio del rilevamento del principio di inerzia a cui vanno soggettislogan e parole d’ordine, anche se inizialmente capaci di rinnovamento, e dunqueanche movimenti collettivi e idee individuali che automaticamente li ripetono, lotroviamo nell’articolo del 24 luglio 1975, in cui Pasolini, fa notare come “disobbe-dienza”, a differenza di una decina d’anni prima, non possa valere più come paro-la d’ordine nella lotta per la critica e la trasformazione dell’ordine vigente, perchéla “disobbedienza” è divenuta una modalità normale, conformista, di comporta-mento. L’intera massa giovanile italiana è normalmente, conformisticamente,“disobbediente”. Per tutti i giovani della odierna realtà sociale organizzata in fun-zione della “Produzione creatrice di benessere”, vale la figura o il modello di disob-bediente. Non c’è nessuno di essi che si consideri obbediente. Il rapporto fra laparola “obbedienza” e la “parola “disobbedienza” si è rovesciato.

Una decina d’anni fa il significato della parola “obbedienza” e quello dellaparola “disobbedienza” erano profondamente diversi da oggi. La parola“obbedienza” indicava ancora quell’orrendo sentimento che essa erastata in secoli di controriforma, di clericalismo, di moralismo piccolo bor-ghese, di fascismo; mentre la parola “disobbedienza” indicava ancoraquel meraviglioso sentimento che spingeva a ribellarsi a tutto questo. […]In realtà, semanticamente, le parole hanno rovesciato il loro senso scam-biandolo; in quanto consenziente consensiente all’ideologia del nuovomodo di produzione, chi si crede “disobbediente” (e come tale si esibisce)è in realtà ‘obbediente’ […]. L’Italia di oggi è distrutta esattamente comel’Italia del 1945. Anzi, certamente la distruzione è ancora più grave, per-ché non ci troviamo tra macerie, sia pure strazianti, di case e monumen-ti, ma tra “macerie di valori’”: “valori” umanistici e, quel che più importapopolari. […]. È chiaro che ciò che, oggi, conta individuare e vivere è una“obbedienza a leggi future e migliori” […] (ivi: 80-84).

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I casi estremi di criminalità giovanile derivano da un ambiente criminaloidedi massa, come quello popolare romano. “Non c’è nessuna soluzione di conti-nuità tra coloro che sono tecnicamente criminali e coloro che non lo sono: ilmodello di insolenza, disumanità, spietatezza è identico per l’intera massa deigiovani”.

Conformismo, neolaicismo egoistico, interclassismo, impoverimento del-l’espressività e riduzione di tutta la lingua a “lingua comunicativa”: sono perPasolini alcune delle conseguenze del diffondersi dell’ideologia del consumi-smo (che è quella che di fatto ha vinto nel referendum sul divorzio –egli dice–.Altro che vittoria della sinistra!), rispondente alla nuova situazione economicaitaliana, in cui si fa avanti un nuovo potere che non è quello del Vaticano, deiDemocristiani, delle Forze Armate e neppure quello della Grande Industria. Èil potere che consiste nel controllo della produzione e della comunicazionedivenute un tutt’uno, un unico sistema, di cui il collegamento comunicazione-consumo è solo l’aspetto più vistoso. Sia al vecchio potere, sia all’opposizionesfugge la metamorfosi delle masse italiane. E sfugge all’analisi dei sociologici,giornalisti, politologi, psicologi, linguisti il “problema italiano”, che non ha equi-valenti nel mondo capitalistico, perché in nessun paese è avvenuto uno “svi-luppo” così travolgente, così “stupido e atroce”. L’omologazione consumistica,osserva Pasolini, è la prima unificazione reale del nostro paese.

Si tratta, allora, prima di tutto, di studiare e comprendere al più presto ilmutamento socio-culturale che le trasformazioni intervenute nel sistema di pro-duzione hanno comportato in Italia; e, in secondo luogo, di affrontare lucida-mente la questione: “come opporsi a questo nuovo modo di produzione?” (ivi:79-80).

Interessato al “problema italiano” Pasolini non perde di vista che esso faparte della complessiva riorganizzazione del sistema capitalistico a livello mon-diale e che va considerato non solo facendo riferimento al Centro consumisti-co, al cosidetto Sviluppo, ma anche alle Periferie, ai paesi del Terzo mondo,ruotanti nell’orbita dello Sviluppo, con le conseguenze disastrose che ciò com-porta per essi.

Ho detto, e lo ripeto, che l’acculturazione del Centro consumistico hadistrutto le varie culture del Terzo Mondo (parlo ancora su scala mondia-le, e mi riferisco dunque appunto anche alle culture del Terzo Mondo, cuile culture contadine italiane sono profondamente analoghe): il modelloculturale offerto agli italiani (e a tutti gli italiani del globo, del resto) èunico. La conformazione a tale modello si ha prima di tutto nel vissuto,nell’esistenziale; e quindi nel corpo e nel comportamento. È qui che sivivono i valori, non ancora espressi, della nuova cultura della civiltà deiconsumi, cioè del nuovo e del più repressivo totalitarismo che si sia maivisto (Pasolini, Limitatezza della storia e immensità del mondo contadino,8 luglio 1974, in Pasolini 1990: 53-54).

Come si vede, nella fase iniziale del processo di inserimento dell’Italia nellanuova configurazione della forma di produzione capitalistica, quella odiernadella comunicazione-produzione, Pasolini è riuscito a coglierne e a descriver-

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NOTE

ne, gli elementi centrali, e a prevederne anche le possibilità di sviluppo. La suaposizione di scrittore, situata fuori dalla lingua divenuta “comunicativa”, (scrit-tore, dice M. M. Bachtin, è colui che usa la lingua standone fuori) lo ha espo-sto a una consapevolezza che egli, a differenza di altri scrittori, non ha esitatoa perseguire e a sviluppare fino in fondo, fino a trovarsi nella condizione di unaestremamente partecipe solitudine.

Un contributo particolarmente importante per la comprensione dell’evolu-zione della cultura e della forma di produzione in Italia a partire dalla fine deglianni Sessanta viene dato anche da Ferruccio Rossi-Landi, soprattutto con lalinea di ricerca avviata con il suo libro del 1968, Il linguaggio come lavoro ecome mercato (nuova ed. 2003), e con la fondazione nel 1967 di Ideologie, larivista che Rossi-Landi diresse fino all’ultimo numero apparso nel 1972. Anchel’analisi di Rossi-Landi è svolta secondo una prospettiva ampia che tiene contodell’evoluzione complessiva del processo della “riproduzione sociale” –concet-to centrale della prospettiva di Rossi-Landi– a livello mondiale. Rossi-Landistudia la cultura da un punto di vista semiotico, come insieme di sistemi segni-co-comunicativi verbali e non verbali (v. Rossi-Landi 2003: 108). Il libro diRossi-Landi del 1968, risulta oggi di grande attualità perché anticipa e affron-ta con lucidità e lungimiranza problematiche centrali della fase attuale dellaforma capitalistica, in cui la comunicazione si presenta come il fattore costitu-tivo della produzione, e il cosiddetto “lavoro immateriale” come la principalerisorsa.

La comunicazione risulta, oggi più che mai, qualcosa di ben diverso da ciòche è stata presentato come tale in base allo schema dell’emittente, del rice-vente, del codice del messaggio e che è descritto in termini di un oggetto chepassa da un punto ad un altro. Ferruccio Rossi-Landi già nel suo libro del1961, Significato, comunicazione e parlare comune (v. Rossi-Landi 1998)prese posizione contro questo modo di concepire la comunicazione, che egliironicamente chiamava “comunicazione del pacco postale”. La comunicazionesvolge oggi un ruolo dominante non soltanto nel momento intermedio del cicloproduttivo, quello della circolazione, dello scambio, del mercato, ma anche, inseguito allo sviluppo dell’automazione, della computerizzazione e dei mezzi edelle vie di comunicazione, nella stessa fase della produzione di merci edanche in quella del loro consumo. Quest’ultimo è fondamentalmente consumodi comunicazione, ed è ormai abbastanza evidente che non solo le merci sonomessaggi, ma che anche i messaggi sono merci. L’intera produzione è comu-nicazione, e viceversa.

Ciò che Rossi-Landi chiama produzione linguistica, lavoro linguistico, capi-tale linguistico, considerandone i rapporti di omologia con la produzione mate-riale, risulta oggi fattore fondamentale della riproduzione sociale. Ad esso siriferiscono espressioni ormai di uso comune come “risorsa immateriale”, “capi-tale immateriale”, “investimento immateriale”, e ad esso si richiama l’afferma-zione della centralità per lo sviluppo e la competitività, nella knoledge society,dei processi formativi, dell’informazione e dell’incremento dei saperi.

Nell’attuale riconoscimento della centralità del “lavoro immateriale”(un’espressione piuttosto infelice, perché implica una concezione abbastanza

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rozza di ciò che è “materia”) si ritrova quanto Rossi-Landi sosteneva in basealla nozione “lavoro linguistico” e alla conseguente connessione, che all’epocapoteva risultare strana o nient’altro che una semplice similitudine, tra produzio-ne materiale e produzione linguistica, e tra linguistica ed economia (Linguisticsand Economics è il titolo di un suo libro, non tradotto in italiano, del 1975).

La produzione materiale e la produzione linguistica, che non molto tempofa apparivano separate sotto forma di “lavoro manuale” e “lavoro intellettuale”,si sono oggi congiunte saldamente. Il computer, unità di hardware e software,rende ormai eclatante la connessione, di lavoro e artefatti materiali, da unaparte, e di lavoro e artefatti linguistici, dall’altra, ed evidenzia, al tempo stesso,la superiorità e il carattere trainante, nella produzione e nello sviluppo, del lavo-ro linguistico, del “lavoro immateriale”. L’assunto centrale di Rossi-Landi nelconsiderare il linguaggio come lavoro è che la produzione linguistica è uno deifattori fondamentali della vita sociale, e come tale è omologa alla produzionedi utensili e di artefatti.

Negli editoriali e nei suoi saggi apparsi nella rivista Ideologie, Rossi-Landirivolge particolare attenzione allo studio del rapporto fra cultura e ideologia,quest’ultima esaminata in termini di “progettazione sociale” (da un punto divista teorico-metodologico questo studio sarà in seguito approfondito nel suolibro intitolato Ideologia (1978 e 1982, nuova ed. 2005). La parte propositivadel discorso di Rossi-Landi sull’ideologia è strettamente collegata con la que-stione del rapporto tra segni e ideologie e di conseguenza con quella del rap-porto tra semiotica e studio dell’ideologia.

Con una capacità di analisi che per lucidità può essere paragonata a quellasvolta da Pier Paolo Pasolini nei primi anni Settanta, del neocapitalismo italianosi evidenziavano alcune dimensioni particolari che ne facessero cogliere la spe-cifica articolazione: il cattolicesimo politico, lo scarto all’interno del fronte dell’in-dustria fra posizioni “progressiste” e reazionarie; la carenza dei servizi civili ele-mentari; l’etnocentrismo razzista; “la brutalità dei rapporti umani non solo inter-classistici ma anche, per antico e complesso retaggio di corporativismo e dimiseria, infraclassistici” (Scritti programmatici di Ideologie, p. 42); la particolaresensibilità della borghesia nei confronti dei miti di evasione. «Ideologie» preco-nizzava un nuovo tipo di “lavoro produttivo” –un lavoro lungo che richiede “mol-tissima nuova prassi creativa con moltissima nuova teoria creativa”– volto a pro-durre gli strumenti di una presa di posizione critica nei confronti della complessi-va organizzazione economico-culturale. Nel quadro complessivo della situazio-ne politica mondiale, si individuavano, alcune tendenze della società neocapita-listica dell’Europa occidentale, che oggi risultano abbastanza evidenti, dato losviluppo raggiunto: l’incremento della stabilizzazione capitalistica, la progressivaestensione della socialdemocrazia, l’eclissi del comunismo, la suddivisione inter-na e la metamorfosi della classe operaia in rapporto a nuovi tipi di lavoro, unamaggiore separazione fra produttore e prodotto. Circa quest’ultimo aspetto, par-ticolarmente perspicaci sono le considerazioni sul progressivo attenuarsi dellafinalizzazione diretta dell’attività individuale verso la produzione, fino all’apparen-te distacco dell’individuo dal piano della produzione. È questo l’effetto degli svi-luppi organizzativi e tecnologici della produzione sovra-individuale nella società

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NOTE

neocapitalistica, che, oltre a rendere possibile esonerare l’uomo dalla necessitàquotidiana della produzione, aumentano, ampliano e rendono maggiormentemistificate le mediazioni della costrizione ad essere produttivi, al punto da crea-re l’illusione di esseri liberi e autonomi dal piano complessivo della produzione,perché non costretti al lavoro da un padrone identificabile da cui direttamente sidipenda. Evidenziando in quelli anni il carattere di lavoro dello stesso linguaggioe il carattere produttivo dello stesso consumo e studiando i rapporti fra segni eriproduzione sociale, Rossi-Landi evidenziava il fatto che l’uomo lavora, in granparte in maniera inconsapevole e inintenzionale, anche linguisticamente e parte-cipando alla riproduzione del ciclo produttivo attraverso il consumo di messaggi-merci oltre che di merci-messaggi.

Il lavoro di analisi svolto da Rossi-Landi, come pure quello prospettato daPasolini, risulta di grande attualità nel contesto odierno della comunicazioneglobale, per la connessione strettissima che intercorre tra comunicazione eideologia, benché nel mondo della globalizzazione tali sono la forza e l’espan-sione dell’ideologia dominante e così aderente è la sua progettazione alla real-tà della comunicazione-produzione che essa tende a identificarsi con la logicastessa di questa fase della produzione capitalistica, risultando una sorta di“ideo-logica” e producendo, tra gli idola fori e idola theatri del nostro tempo,l’idea della “fine della ideologia”.

L’educazione e l’istruzione sono le condizioni essenziali per una visione criti-ca del ruolo che gli individui umani svolgono all’interno dei programmi culturaliverbali e non verbali e nella riproduzione sociale complessiva. Nella parte finaledel suo libro De Mauro, che a questi aspetti ha dedicato gran parte della sua vita,evidenzia i rischi che educazione ed istruzione corrono nell’attuale fase della glo-balizzazione, alla luce della complessiva politica scolastica e culturale di varipaesi, Italia compresa. Il piano è quello dello smantellamento dell’apparato pub-blico dell’istruzione, riducendo l’istruzione da obbligo sociale garantito da leggi aun fatto privato, regolato da scelte delle famiglie. De Mauro, citando quanto hadenunciato nei confronti della Banca mondiale Joseph Stliglitz, premio Nobel perl’economia nel 2001, costretto, come conseguenza di tale denuncia a dimettersidal suo ruolo di vicepresidente della Banca mondiale, fa presente che quest’ulti-ma chiede ai paesi in via di sviluppo, che fanno sforzi eroici per accrescere i livel-li di istruzione della loro popolazione, di bloccare i loro stanziamenti per l’istruzio-ne di base e per l’alfabetizzazione se vogliono accedere ai prestiti e al sostegnodella Banca. L’idea che sta alla base del progetto diffuso di smantellamento del-l’apparato pubblico dell’istruzione è l’idea di un buon mondo sia quella di unmondo “straordinariamente simile al Brave New World di Aldous Huxley: sopragli Alfa Plus, colti, ricchi, forse capaci di autonomia, capaci di controllo mondiale,e sotto via via le altre caste, ben divise e ben irregimentate” (De Mauro 2004:232-233). L’alternativa, dice De Mauro (v. ivi: 234), è un mondo in cui, a turno,tutte e tutti possano essere governanti e governati, in cui la progettazione politi-ca sia quella del libero sviluppo di tutte le persone in modo che ciascuna di loropossa esse messa nella condizione di partecipare attivamente e creativamentealla vita sociale. Non si tratta di un sogno: non siamo pochi a volerlo e insieme ilmondo che vorremmo potrebbe essere vicino, anche in Italia”.

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NOTE

LA CONOSCENZA COME “COMPRESENZA” DI FINITI NEL REALISMO DI SAMUEL ALEXANDER

di Spartaco Pupo

Nell’introduzione a Space, Time and Deity, il trattato di metafisica e ontolo-gia pubblicato a Londra nel 1920, Samuel Alexander (nato a Sidney nel 1859ma trasferitosi ventenne in Inghilterra, ad Oxford, e successivamente a Man-chester, dove fu tra i fondatori della odierna università e dove morì nel 1938)1

dichiara la sua appartenenza al realismo anglo-americano, quel «movimentolargamente esteso», che ebbe inizio «in Inghilterra con Moore e Russell e inAmerica con gli autori del neorealismo»2. Il movimento di pensiero cui si riferi-sce Alexander era talmente esteso che è più opportuno parlare non di un solorealismo, ma di “più orientamenti realistici” che, soprattutto in campo gnoseo-logico, si possono distinguere al suo interno.

Gli impulsi iniziali del neorealismo ebbero il loro centro propulsore, come ènoto, in Inghilterra, nei primi anni del ’900, grazie a G. E. Moore, il docente diCambridge che rappresentava, insieme con B. Russell, l’alternativa logico-analitica all’idealismo anglosassone. Moore contrapponeva alla tesi idealisticadell’esse est percipi, sulla quale insisteva un filone di pensiero, rappresentatoin quel periodo soprattutto da F. H. Bradley, quella realistica che intende la sen-sazione come conoscenza di qualcosa di diverso sia dall’atto della sensazionestessa che dal soggetto senziente. In Refutation of Idealism, il celebre articoloche divenne una sorta di manifesto del realismo, Moore dimostrava che nonesiste alcuna identità tra l’atto della sensazione e l’oggetto dell’atto stesso.Quando cerchiamo di scoprire la sensazione del blu, affermava in un esempiorimasto famoso, «tutto ciò che possiamo vedere è il blu»; la coscienza, la «con-sapevolezza del blu», ci appare in modo chiaro, ma può essere distinta «seguardiamo molto attentamente e se sappiamo che c’è qualcosa da cercare» 3.Anche Russell, in Our Knowledge of the External World, argomentava control’identificazione tra le sensazioni e gli oggetti sentiti, sostenendo che la «cosa»posta a fondamento dei dati di senso altro non è se non una «ipotesi», una«costruzione logica», di cui non può essere dimostrata l’esistenza4.

Sulla strada tracciata con successo dal primo neorealismo inglese si incam-minarono, in America, dopo un breve arco di tempo, due correnti di pensiero.La prima nacque per iniziativa di R. B. Perry, E. B. Holt, W. T. Marvin, E. G.Spaulding, W. P. Montague e W. B. Pitkin, i quali inauguravano il programmadel New Realism per la sottrazione alla coscienza umana della caratteristicadella psichicità (o dell’interiorità), e consideravano la mente come un oggettotra gli oggetti. La coscienza si distingue dagli altri oggetti fisici solo per quelparticolare tipo di relazione che la lega ad essi: il processo conoscitivo. Tuttociò che può essere relazionato in termini di conoscenza ha una realtà propria,

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sussiste per sé, in modo autonomo. Anche gli errori e le illusioni, quindi, hannouna propria realtà. In opposizione a questa prima linea di pensiero, dopo unaventina d’anni, vide la luce il secondo movimento realista americano, che trovòin G. Santayana, A. O. Lovejoy, R. W. Sellars, J. B. Pratt, A. K. Rogers e C. A.Strong, i sei autori di Essays in Critical Realism, del 1920, gli esponenti princi-pali. Essi accusavano i loro predecessori di essere caduti nella trappola delrelativismo per avere identificato l’essere con l’apparire e avere dato oggettivi-tà all’errore e alle illusioni, e tentavano di costruire una forma di esistenza inter-media tra il mentale e il fisico, la cosiddetta «essenza», un dato della «cono-scenza immediata» che è presente nell’esistente fisico e si rivela alla mente,la quale conosce «mediatamente» ed è capace di errare. La conoscenza, perquesti pensatori, è sempre rappresentazione, e come tale è incapace di coglie-re l’esistenza degli oggetti e si ferma di fronte alla loro essenza. Si negava larealtà delle illusioni, dei sogni, ma anche degli enti matematici. La realtà di que-sti eventi è solo legata ad una relazione di tipo mentale. Gli errori, invece, siverificano quando le essenze e le cose non trovano un’identità o anche quan-do si ritengono mentali oggetti invece fittizi.

Alexander può essere collocato in questa seconda forma di realismo,nonostante egli erediti dal Nuovo Realismo la tendenza a ridurre la mente aun oggetto tra gli oggetti, come dimostra la sua concezione della realtà comeuna «democrazia di finiti». Sulla scia di Russell e Moore, Alexander dà unadimensione metafisica alla visione realistica del mondo e dell’uomo, propo-nendo un metodo di indagine che toglie alla mente umana quella reverenzache da secoli le veniva tributata e che consente di condurre ad unità il varie-gato universo della natura, di cui l’uomo e la sua coscienza non sono cheelementi, parti di un complesso «democratico», certamente importanti, mapur sempre dei componenti, eguali alle altre esistenze finite che abitano lamultiforme realtà naturale.

Non ha dubbi R. Metz, tra i più autorevoli studiosi di storia della filosofiainglese del ’900, quando afferma che la novità che un autore come H. Bergsonha rappresentato per la filosofia francese vale per Alexander con riferimento alpensiero britannico, nonostante il filosofo di Sidney sia arrivato più tardi allamaturità «e al conseguimento di una posizione influente rispetto al più famosocontemporaneo francese, suo coetaneo». È vero, aggiunge Metz, che la suainfluenza è stata confinata all’interno del mondo anglosassone, ma egli nonpuò comunque essere escluso, per l’originalità delle sue formulazioni, dallaristretta cerchia dei grandi autori sistematici del suo tempo. Filosofi come«Whitehead, Bradley e McTaggart sono gli unici che possono paragonarsi a luicon riguardo all’impulso verso la formazione di un comprensibile sistema delmondo»5.

Sul finire del primo decennio del ’900, Alexander si appresta ad attuarequella che lui stesso chiama una «rivoluzione copernicana». Attribuisce al suopensiero una valenza storica, come se il progetto di naturalizzazione dellamente, che era stato iniziato da Copernico, continuato da Darwin e su cui tantoinsisteva un pensatore della statura di Freud, possa trovare nella sua filosofiaun contributo decisivo per la soluzione del problema del rapporto uomo-mondo

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NOTE

nella società a lui contemporanea. In un saggio del 1909, dal significativo tito-lo di Ptolemaic and Copernican Views of the Place of Mind in the Universe, Ale-xander sostiene che «la visione geocentrica e quella eliocentrica dell’astrono-mia trovano la loro controparte in metafisica, e la visione geocentrica è anco-ra onnipotente». Ma la vera preoccupazione è che «la mente umana, in quasitutta la metafisica moderna, è il centro dell’universo». La verità che l’idealismoassoluto tenta di nascondere è che la mente fornisce «unità e ordine al mondodelle cose conoscibili, che vuol dire essere la risorsa di quelle nozioni fonda-mentali di permanenza, esistenza sostanziale e causalità da cui dipendono lafabbrica e la vita delle cose»6. La mente non è altro che «una reazione nei con-fronti delle cose che le sono esterne, le quali ad essa si rivelano»7. Alexanderadotta la visione eliocentrica del mondo e colloca il nostro universo all’internodi una miriade di universi. Come la terra assunse il privilegio di essere consi-derata un corpo celeste in mezzo agli altri, «così nella metafisica copernicanala mente è come una cosa o classe di cose tra le altre, essendo i corpi fisici ungruppo coordinato, o piuttosto, per essere più precisi, la mente è una proprie-tà distintiva di un certo gruppo di cose che sono esse stesse fisiche»8.

La visione alexanderiana del mondo appare subito come una delle più pro-rompenti tra quelle che tentarono di far perdere credibilità all’idealismo, nono-stante sia passata per lungo tempo inosservata e scarsamente considerata neldibattito critico. Una prima dimostrazione è data dalla interpretazione di quellache è la differenza tra le dottrine filosofiche del realismo e dell’idealismo.Secondo Alexander la vera differenza sta nel loro punto di partenza e nello spi-rito del loro metodo. Per il realismo, la mente è «la misura delle cose nonchéil punto di partenza dell’indagine. Il nocciolo dell’idealismo assoluto consistenella sua affermazione che le parti del mondo non sono fondamentalmentereali o vere ma che solo la totalità è vera. Per il realismo, la mente non occu-pa un posto privilegiato, tranne che per la sua perfezione»9. Un carattere discri-minante tra le opposte concezioni può venire certamente dalla delucidazionedella specifica funzione della metafisica, dei suoi obiettivi fondamentali e delmodo in cui essa si rapporta alle diverse classi di esistenze. In Space, Timeand Deity, Alexander definisce la metafisica come «un tentativo di studio deisoggetti più disparati, di descrizione della natura ultima dell’esistenza, se ne hauna, e dei caratteri penetranti delle cose o categorie. Se è possibile trascura-re troppi e accurati particolari d’interpretazione, si può utilizzare la definizionedi Aristotele: la scienza dell’essere come tale ed i suoi attributi essenziali»10.

Le peculiarità essenziali di una metafisica realistica sono ampiamentedescritte in The Basis of Realism, un saggio del 1914. Una metafisica che sidichiari realistica, secondo Alexander, non può che ridurre la mente al suostato di esistente finito e materiale. Tutte le esistenze, dalle pietre, alle piante,agli animali, all’uomo ed alla sua coscienza, anche con riferimento alle qualitàetiche di quest’ultima, sono tutte egualmente reali. Il realismo è il metodo ditrattare tutte le forme dell’esistenza allo stesso modo e trova la sua ragion d’es-sere nella deantropomorfizzazione del genere umano, che è il processo voltoalla collocazione dell’uomo e della sua mente al loro proprio posto nel mondodelle esistenze finite. Il filosofo realista ha il compito primario di praticare il

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metodo della «spoliazione delle esistenze», che consiste nello «svestire lecose fisiche delle colorazioni che hanno ricevuto dalla vanità e dall’arroganzadella mente», e di «assegnare loro, in compagnia delle menti, la loro giustamisura di autoesistenza». Per questo motivo il realismo è una filosofia del-l’eguaglianza: esso considera ogni finito come esistente in ciò che è la «demo-crazia delle cose». Filosofia realistica è quella che «spoglia la mente delle suepretese ma non del suo valore o grandezza». È nel lasciare alle altre cose iloro diritti che la mente entra in possesso dei propri, «come in una democra-zia, in cui tutti gli uomini sono uguali, ma dove parlando teoreticamente e tra-lasciando le limitazioni del costume o della tradizione o della povertà, ogniuomo è libero di elevarsi al più alto dei suoi poteri originari»11.

Anche le prime pagine di Space, Time and Deity inneggiano all’universodemocratico di cose e mente: «Le menti sono i membri più dotati che noi cono-sciamo in una democrazia delle cose. In considerazione dell’essere o dellarealtà, tutte le esistenze si posizionano ugualmente. Esse variano per eminen-za; come in una democrazia, dove il talento ha un campo aperto davanti a sé,il più dotato prevale in influenza ed autorità. Questa attitudine della mente sta-bilita dal metodo empirico è e può giustamente essere chiamata, in filosofia,l’attitudine del realismo, se un nome che ha prodotto così tanti significati puòessere usato»12.

L’elemento cruciale di tutta l’epistemologia alexanderiana sta nel significa-to della nozione di «compresenza» (compresence). Essa si rivela come laprima e la più semplice relazione tra gli esistenti finiti. Per rendercene contobasta che ci immedesimiamo nel fare l’esperienza di un comune oggetto fini-to, col quale ci relazioniamo: «Senti te stesso nella situazione totale e capiraiche questa è la compresenza di due cose, di cui l’una, l’atto della mente, frui-sce di se stessa e, nell’atto di fruire se stessa, contempla l’altra. Accorgersi diuna cosa è come essere pescato nella rete comune dell’universo, essereun’esistenza accanto ad altre esistenze […] Ma è questa peculiarità dellamente, la quale fruisce e non contempla se stessa, che ci nasconde, se non ciguardiamo attentamente dai pregiudizi, il fatto sperimentato che un mondocomune ci unisce, gli uni agli altri, con le cose contemplate»13.

La mente e il suo oggetto sono «tenute insieme dalla relazione di «insie-mezza» (togetherness) o compresenza, dove il termine compresenza non èusato per indicare la co-esistenza nello stesso momento temporale, ma solo ilfatto di appartenere ad un unico mondo sperimentato»14. Non c’è di che mera-vigliarsi, avverte Alexander, se la compresenza dell’uomo con un oggetto fisi-co sembra la stessa di quella di un oggetto fisico con un altro: «La nostra com-presenza con le cose fisiche, in virtù della quale noi siamo coscienti di esse, èuna situazione simile alla compresenza di una cosa fisica con un’altra. Capireche la mia coscienza di un oggetto fisico è solo un particolare della compre-senza universale dei finiti è, nei fatti, il modo migliore di comprendere l’analisiche è stata fatta»15.

Una tale concezione della relazione soggetto-oggetto (o oggetto-oggetto) siavvicina molto a quello che Whitehead descriveva come «concrescenza». Perl’autore di Process and Reality, ogni «entità reale», che è legata a ciascun’al-

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NOTE

tra da un rapporto di interdipendenza e che ha un valore dinamico, interagiscecreativamente con le altre entità ed acquista la sua individualità grazie proprioalla concrescenza16, un processo mediante il quale ogni entità reale si incon-tra con i dati resi utilizzabili da altre entità reali, cioè «prende» in se stessa tuttele entità passate e, a sua volta, è presa da tutte quelle future. Whitehead chia-ma «prensione» quel processo attraverso il quale un’entità reale reagisce alsuo ambiente. In altre parole, è un processo di appropriazione, l’essenza del-l’entità reale.

La compresenza, che per Alexander è «la più semplice ed universale dellerelazioni», si articola in due elementi distinti: l’atto mentale, ossia la consape-volezza, da una parte, e l’oggetto di cui essa è consapevole, dall’altra. Ne con-segue che la conoscenza si articola in due momenti fondamentali: quello della«contemplazione», che è la conoscenza che la mente ha degli oggetti ad essacompresenti, e quello della «fruizione», che è la conoscenza che la mente hadi se stessa, dei suoi propri atti. In qualsiasi esperienza, la mente fruisce di sestessa e contempla il proprio oggetto. L’atto mentale è «fruito» (enjoyed), men-tre la cosa percepita o ideata è «contemplata» (contemplated). Le fruizioni,precisa Alexander, sono ciò che Locke chiamava «idee di riflessione», anchese il grande empirista inglese le considerava come classi di oggetti di contem-plazione accanto alle idee di sensazione. Contemplazione e fruizione non sonoatti separati, poiché un soggetto fruisce di se stesso solo contemplando unoggetto. E a fruire di se stesso è il soggetto, non il corpo. Quest’ultimo, quan-do è oggetto della coscienza, viene contemplato dal soggetto. La soggettivitàè «autofruizione della contemplazione», non è mai presente a se stessa, maconosce se stessa solo nella sua attività. L’atto mentale e l’oggetto sono dueesistenze distinte, anche se tenute «unite dalla relazione di compresenza». Laprima, «quella fruita, fruisce di sé, o ha esperienza di sé come una fruizione»,mentre l’altra, «quella contemplata, è sperimentata da quella fruita»17.

Nell’esperienza della percezione, ad esempio, si distinguono: l’atto dellapercezione e l’oggetto percepito. La percezione non si verifica in modo isola-to, afferma Alexander in Foundations and Sketch-Plan of a Conational Psycho-logy, uno scritto di psicologia del 1911, ma è «continuo rispetto ad altri atti dellostesso tipo o della stessa natura, e dal momento che questo continuum è lamente, l’atto della percezione può essere chiamato atto mentale. L’oggettopercepito (o perceptum) è continuo con altri oggetti simili dell’esperienza, e dalmomento che questo continuum è ciò che è chiamato cosa, si può parlare del-l’oggetto della percezione, senza rischio di confusione, come di una cosa»18.Se si estende l’esperienza percettiva ad altre esperienze, sempre due riman-gono gli elementi che, pur nella loro «insiemezza», possono essere distinti. Inuna sensazione, quindi, troviamo il senziente ed il sensum; in un’immaginazio-ne, l’immaginante e l’immagine; in un’idea, l’ideazione e l’ideatum; in una con-cezione, il concepiente e il conceptum. Si ha sempre, in definitiva, «unacoscienza ed un oggetto». E l’oggetto di cui una mente è consapevole è sem-pre un oggetto non mentale, esterno, distinto dalla mente e rivelato ad essa oracome un sensum e ora come un’immagine, un conceptum, e così via.

Nella compresenza con l’oggetto io non solo fruisco di me stesso, ma mi

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trovo con esso in una relazione di spazio e tempo, e mi relaziono all’oggettocome l’effetto alla causa. La contemplazione dell’oggetto non deve intendersicome percezione totale delle esistenze compresenti, ma come «conazione»(conation) del mondo dei finiti in base ai bisogni comportamentali. Tra la merapercezione e la conazione c’è solo una differenza di tipo funzionale. Il termine«conazione» deve essere riservato a certi atti mentali come il desiderio e lavolontà, anche se «ogni atto mentale è una conazione e nient’altro, ad ecce-zione di una possibile aggiunta di sentimento»19. Nella percezione, l’oggettoeccita i sensi con il risultato di una reazione volitiva che è riferita all’oggetto. Laconazione è avviata in parte dallo stimolo ed in parte dalla previsione mentaledella risposta. Entrambe le reazioni sono due fasi dell’atto mentale. Per unamaggiore chiarezza Alexander ricorre a due esempi. Il primo è basato sullarelazione con una mela: «Noi non percepiamo dapprincipio la mela come unacosa rotonda dalle guance rosse e come qualcosa di commestibile, ma siamoconsapevoli del suo essere commestibile nel e dall’atto in cui noi cerchiamo dimangiarla». Il secondo esempio è tratto dal cricket, popolare sport inglese:«Nell’atto mentale che mira a tenere le nostre mani in modo da prendere lapalla da cricket che sta venendo verso di noi in una certa direzione, noi siamocoscienti della direzione che sta seguendo nel venire verso di noi; noi non com-prendiamo dapprincipio la sua direzione e poi compiamo la nostra azione neisuoi confronti; essa ci obbliga ad agire in un certo modo e quindi diventiamoconsapevoli di essa stessa»20.

Quanto alla sensazione, Alexander sostiene che essa non dipende dallamente ma è «immediatamente» riferita alle esistenze esterne, di conseguenzaal mondo del non mentale. Il filosofo di Sidney dimostra di concordare con tuttele scuole del realismo quando afferma: «L’esteriorità e la natura fisica dellesensazioni sono di una materia particolarmente discutibile, perché a qualcunoesse appaiono come immediate esperienze totalmente dipendenti dalla mente,anche se oggettive, poiché distinte dagli atti soggettivi come il desiderio o l’at-tenzione. Io dirò solo che per me ogni atto mentale è ugualmente immediato,pensando tanto alla sensazione quanto al senso come non meno esterni e nonmentali rispetto al pensiero»21.

Ogni esistenza, dalla più semplice alla più complessa, dal più basso al piùalto livello di evoluzione, possiede una sua specifica capacità di fruizione e con-templazione. Alexander la assegna persino ad un oggetto materiale come ilpavimento, nella relazione di questo con un altro finito quale può essere il tavo-lo. Scrive in Space, Time and Deity: «Il pavimento certamente “conosce” il tavo-lo non come esercizio di pressione, neanche come materiale, ma attraversoforme equivalenti più basse, come un insieme persistente di movimenti, comedire, accelerati verso di esso secondo la legge gravitazionale». Il pavimento«fruisce» la materialità del tavolo, «è certo della materialità del tavolo»22.

Da tutto ciò deriva il carattere della oggettività che Alexander assegna alle«qualità secondarie». I colori, i sapori, gli odori sono oggettivi, nel senso chenon sono semplici prodotti della mente. C’è «qualcosa di incomprensibile nel-l’idea che fuori dal materiale eterogeneo la mente possa fabbricare un coloreo un sapore o un odore», se partiamo dal presupposto che «noi non vediamo

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NOTE

i colori nei nostri occhi ma solo con i nostri occhi e nella rosa e nella mela»23.Come si può notare, le nozioni di contemplazione e fruizione sono stretta-

mente collegate a quella di compresenza. Nella relazione di compresenza conun essere finito di un livello inferiore, la mente umana, secondo Alexander, èconsapevole di esso e, mentre lo contempla, fruisce di se stessa. La cono-scenza è, pertanto, un caso di compresenza di due esseri finiti. Ogni oggettofinito, nella relazione di compresenza con la mente, agisce direttamente su diessa, determinando un processo mentale appropriato, per mezzo del quale alvariare dell’oggetto varia il corrispondente stato mentale. La mente che fruiscedi sé non può contemplarsi, ossia non può essere oggetto di se stessa. Lamente cosciente può solo contemplare gli oggetti finiti situati ai livelli di esisten-za più bassi rispetto al suo. Ciò non significa, però, che gli oggetti debbano illoro esse al loro percipi, secondo quanto stabilito dalla formulazione idealisti-ca tradizionale. La mente sceglie gli oggetti. Ad essa, quindi, appartiene solo ilpercipi degli oggetti. Gli oggetti non sono affatto mentali, così come non losono le apparenze illusorie, che si presentano come delle prospettive delmondo reale visto in modo strabico. Esse, però, non perdono il carattere del-l’oggettività, e sono reali.

La teoria della conoscenza alexanderiana, con riferimento al suo procedi-mento metodologico, è senz’altro in linea con l’empirismo inglese tradizionale.La spoliazione degli esistenti finiti suggerita da Alexander non si distacca dallagenerale tendenza dell’empirismo tradizionale (penso a Locke, ma anche aHume e a Stuart Mill) a risolvere i complessi della realtà nei loro dati semplici,elementari. Alexander, da realista, nega alla mente sia l’indipendenza dallarealtà che la capacità di creazione degli oggetti reali e, sull’esempio di Moore,afferma l’assoluta oggettività dei dati provenienti dall’esperienza.

1 Una ricostruzione della vita e del pensiero di questo filosofo, unica in Italia, è contenuta nelrecente volume: S. PUPO, Samuel Alexander. Naturalismo e democrazia delle cose, Edizioni Bren-ner, Cosenza 2003.

2 S. ALEXANDER, Space, Time and Deity, Macmillan and Co., London 1920, I, p. xxvi. L’opera èstata di recente ristampata, insieme ai principali scritti alexanderiani, in The Collected Works ofSamuel Alexander, Thoemmes Press, Bristol, 2000, Voll. 2 e 3. La traduzione di tutti i passi trattidalle opere di Alexander, e qui di seguito, riportati è mia.

3 G. E. MOORE, “Refutation of Idealism”, Philosophical Studies, Routledge & Kegan Paul, Lon-don 1922, pp. 24-25. Per un approfondimento delle tesi di Moore, insuperabili restano le monogra-fie di A. GRANESE, George E. Moore e la filosofia analitica inglese, La Nuova Italia, Firenze 1970 edi E. LECALDANO, Introduzione a Moore, Laterza, Roma-Bari, 1972.

4 Cfr.: B. RUSSELL, Our Knowledge of the External World, The Open Court Publishing Compa-ny, London-Chicago 1914.

5 R. METZ, A Hundred Years of British Philosophy, The Macmillan Company, New York 1938,pp. 622-623.

6 S. ALEXANDER, “Ptolemaic and Copernican Views of the Place of Mind in the Universe”, TheHibbert Journal, VIII, Ottobre 1909, pp. 47-48.

7 Ivi, p. 60.8 Ivi, pp. 53-54.

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9 S. ALEXANDER, Space, Time and Deity, cit., I, p. 8.10 Ivi, p. 2. 11 S. ALEXANDER, “The Basis of Realism”, Proceedings of the British Academy, Humphrey Mil-

ford, Oxford University Press, London, Gennaio 1914, p. 2.12 S. ALEXANDER, Space, Time and Deity, cit., I, p. 6. 13 S. ALEXANDER, “The Basis of Realism”, cit., p. 6.14 Ivi, p. 5.15 Ivi, pp. 6-7.16 In Adventures of Ideas, Whitehead sottolinea la derivazione latina del termine concrescen-

za, che vuol dire «crescere insieme». Essa non è altro, quindi, che un crescere insieme dei variaspetti dell’esperienza (A. N. WHITEHEAD, Avventure di idee, Bompiani, Milano 1961, p. 301). V.Lowe, noto biografo e studioso di Whitehead, ha notato la somiglianza tra la concezione di questofilosofo e quella di Alexander, ma l’ha riferita alla nozione di prensione e non a quella di concre-scenza. Scrive che entrambi gli autori «sostengono che attività e valore pervadono la natura», manon sottolinea la derivazione da Alexander della concezione whiteheadiana (V. LOWE, Alfred NorthWithehead. The Man and His Work, The Johns Hopkins Press, Baltimore 1990, Vol. II, p. 174). InSamuel Alexander. Naturalismo e democrazia delle cose, cit., ho dedicato un paragrafo all’influen-za di Alexander su Whitehead, dimostrando come alcune intuizioni del filosofo di Sidney abbianosenza dubbio anticipato una parte non trascurabile delle teorie di Whitehead (pp. 181-191).

17 S. ALEXANDER, Space, Time and Deity, cit., I, p. 13.18 S. ALEXANDER, “Foundations and Sketch-Plan of a Conational Psychology”, British Journal of

Psychology, IV, Dicembre 1911, pp. 239-240.19 S. ALEXANDER, Space, Time and Deity, cit., II, p. 118.20 Ivi, p. 119.21 Ivi, I, p. 24.22 Ivi, p. 104.23 Ivi, p. 140.

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NOTE

LE PASSIONI TRA ETICA E POLITICA.ANTIGONE NELLA LETTURA

DI FRANCESCA BREZZI di Graziella Morselli

Davanti ad un tema di così vasta portata come quello che racchiude i moltisignificati dell’Antigone di Sofocle, e che da secoli è alimentato da una stermi-nata letteratura, Francesca Brezzi (in Antigone e la Philìa. Le passioni tra eticae politica, Franco Angeli, Milano 2004, pp. 299) ha scelto di richiamarsi a quel-le letture filosofiche (e poetiche) che rientrano nei contorni ben delineati delsuo progetto, così dichiarato nell’introduzione a questo libro: “intrecciare il pro-blema etico e quello politico […] grazie ad una sorta di rivoluzione morale edantropologica, che giustifica la nostra ipotesi di presentare Antigone come figu-ra della diversità e paradigma del conflitto, in vista di una prassi altra”. Unaprassi, vale a dire, che dallo scontro di personaggi e di valori rappresentatonella tragedia di Sofocle porti a “pensare ad un possibile accordo che eviti l’esi-to tragico” (pp. 10-11). In vista di questa diversa prassi, Brezzi rivisita la figuradi Antigone seguendo e intrecciando le due maggiori direttive attuali del pen-siero politico: da una parte quella d’ispirazione sociologica, che rifiuta gli asso-luti della razionalità normativa e universalistica, e privilegia per contro il con-fronto e la negoziazione tra le differenti culture, dall’altra una direttiva d’ispira-zione etica, secondo la quale lo spazio politico è dato dalla relazione tra le per-sone, è lo spazio dove esse mettono insieme le loro esperienze del dolore efronteggiano il male ricorrendo di volta in volta alle decisioni della saggezzapratica.

Analogamente, anche nella tragedia di Sofocle è possibile vedere rappre-sentate le due istanze: l’una “esterna”, della ribellione politica e l’altra “interna”,della rivoluzione morale e dell’apertura al soprannaturale: sotto il primo aspet-to vi si può rinvenire l’origine delle fratture politiche e sociali, e sotto il secon-do la rigenerazione della comunità, per opera di quanti mettono “in comune” illoro cercar di risolvere i conflitti. Aristotele nella Poetica, come si sa, attribuivauna funzione educativa al teatro tragico, dove gli spettatori sentivano ridestar-si in loro il ricordo delle sofferenze passate e provavano il bisogno di chiarirequei fatti inconciliabili con la ragione, legati alla violenza delle passioni, con-tradditori ed estremi: dalla riflessione nascevano le sagge deliberazioni, condi-vise tra i cittadini.

In questa seconda direzione è significativo il ricorso dell’autrice al pensierodi Paul Ricoeur, quale si evince in sintesi da questa citazione, tratta dal libroSoi-même comme un autre (éd. du Seuil, Paris 1990): “Rifiutando di portareuna ‘soluzione’ ai conflitti che la finzione ha reso insolubili, la tragedia, dopoaver disorientato lo sguardo, condanna l’uomo della prassi a riorientare l’azio-ne, a suo rischio e a sue spese, nel senso di una saggezza pratica in situazio-

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ne che risponde al meglio alla saggezza tragica”. Tra i molti interpreti che Brez-zi esamina nel suo percorso ermeneutico alla ricerca del senso del mito e dellatragedia, Ricoeur appare, infatti, come la sua più autorevole guida, e in parti-colare per l’analisi dell’Antigone sofoclea che si trova nel testo citato sotto iltitolo Le tragique de l’action, in apertura del capitolo 9 (ovvero del neuvièmeétude).

E ancora a Ricoeur s’ispira l’autrice nel delineare il complesso rapporto didistinzione-fusione tra poesia e filosofia, poiché secondo il filosofo francese latragedia greca ha la dimensione della non-filosofia, e tuttavia “funzione dellafilosofia è l’appropriazione del nostro sforzo di esistere e del nostro desideriodi essere, attraverso le opere che testimoniano di questo sforzo e di questodesiderio” (De l’interpretation. Essai sur Freud, éd. du Seuil, Paris, citato daBrezzi a p. 150).

Anche la religiosità si rapporta alla filosofia, secondo Ricoeur, poiché allanostra sensibilità di oggi la trascendenza appare accompagnata dalla dimen-sione simbolica del mito. Religiosità, mito e filosofia, sono i tre momenti essen-ziali attraverso cui il soggetto può comprendere se stesso1. Tale orientamentofornisce a Brezzi il filo conduttore delle scelte nel vasto campo delle interpre-tazioni generate all’infinito dall’opera sofoclea. In realtà, piuttosto che di uncampo d’esercitazione ermeneutica e di dibattito, secondo l’autrice si tratta diun’intricata foresta di miti, simboli, figure poetiche, categorie metafisiche, doveci sembra di non poter distinguere tra poesia e filosofia, teologia e ideologia,anelito al soprannaturale e dettami di giustizia umana. Nei primi capitoli del suotesto Brezzi illustra questi complessi rapporti tra mithos e logos, non solo conun’accurata opera di composizione tra Aristotele (Poetica, Retorica, Politica,Etica nicomachea) e Scheler, Jaspers, Ricoeur, Nussbaum, ma anche attraver-so l’esame di filosofi più specificamente inclinati al linguaggio poetico, comeHeidegger, e Kierkegaard, o di un poeta come Hölderlin, la cui profondità spe-culativa risalta nelle Note all’Antigone.

Inoltrandoci nella lettura dopo il chiarimento introduttivo degli intenti e delmetodo, vediamo che il libro presenta una particolare struttura bipartita. Nella“parte prima” sono trattati i filosofi della tradizione e della contemporaneità, inquanto viste come sedi del pensiero maschile; della “parte seconda” sono pro-tagoniste le filosofe che hanno fatto oggetto d’analisi al femminile la figura diAntigone, con discussione del pensiero maschile al proposito, dando originead una letteratura filosofica molto sviluppata e ancora in corso.

Nel complesso si delinea, così, un confronto tra filosofi e filosofe che per-corre un lungo cammino analitico di interpretazioni della tragedia di Sofocle, ein particolare della figura di Antigone, attraverso una quantità considerevole ditesti di filosofi. Da una parte, oltre a quelli sopra citati, emergono fra i tanti inomi di Hegel, Goethe, Nietzsche, e di studiosi contemporanei come l’ingleseG. Steiner, dall’altra parte prevalgono i nomi di María Zambrano, Luce Irigaray,Marguerite Yourcenar, e quello già citato di Martha Nussbaum. Tutte pensatri-ci del nostro tempo, alle quali si possono affiancare i nomi di Hanna Arendt eSimone Weil, che pure si sono occupate solo marginalmente di Antigone.

È evidente, in questa particolare impostazione, un intento propositivo, che

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nel delineare la “figura della diversità” e l’idea di una “prassi altra”, apre la pro-spettiva verso le possibilità offerte dall’autonomia recentemente conquistatadalle donne nel pensiero, nella visione del mondo, nell’elaborazione espressi-va e riflessiva delle proprie passioni. In altri termini, da quella recente operafemminile di trasformazione della società e della cultura cui Francesca Brezzisi riferisce nell’introduzione, definendola “rivoluzione morale e antropologica”.Ma recensire il libro dovendo districare una linea di svolgimento dell’esegesicondotta dall’autrice, non risulta facile per la complessità con cui i diversi temivi s’intrecciano e per la quantità dei riferimenti testuali, delle citazioni, dellenote. Si tratta nell’insieme di un andare e venire dove la successione linearedel tempo appare soltanto nel capitolo secondo, che traccia rapidamente unastoria delle interpretazioni di Antigone tra ottocento e novecento, sempre rap-portate al mutare del clima politico in cui sono nate. Negli altri capitoli, invece,seguendo un ordine non cronologico, ma interno al discorso, letture esegeti-che e libere rielaborazioni intersecano richiami a filosofi e a letterati antichi emoderni, come a filologi, poeti, teologi e psicanalisti. Rispetto a questo disegnodalla trama compatta, anziché riassumere linearmente il contenuto mi sembrapiù proficuo rivolgere l’attenzione all’ipotesi progettuale esposta nell’Introduzio-ne, e seguire il suo dipanarsi fino a cogliere gli esiti cui approda. Il progetto diFrancesca Brezzi, come si è detto, consiste nell’interpretare Antigone comefigura della diversità di genere, che include anche quella dell’opposizione civi-le, politica, ideologica alle istituzioni: da tale configurazione intende ricavare lepremesse per delineare una prassi che porti a superare i conflitti.

Al riguardo della diversità di genere va notato anzitutto come in Antigone,molto più (e molto più in alto) del suo essere donna, spicca la dimensione eroi-ca, con tutto il carico dei miti di cui la tragedia greca l’ha rivestita. Proprio suquesta dimensione che la pone al centro della scena, non solo in rapporto conil re Creonte, ma attorniata da molti personaggi, si sono misurati nei secoli siai commentatori, sia gli scrittori che s’ispirarono al personaggio, chi privilegian-do il suo lato politico (della disobbedienza al tiranno) chi l’altro lato, quellomorale (dell’osservanza religiosa e dei valori familiari). Su entrambi i lati, que-sta figura ha rappresentato in forma letteraria i più duri scontri e grovigli di pas-sioni, o in sede filosofica i nodi irresolubili delle tante contraddizioni che grava-no sui rapporti umani; perciò fin dall’antichità la rilettura di questa tragedia diSofocle ha costituito il banco di prova d’ogni versione della problematica dellaconflittualità.

Com’è noto, e come Brezzi ci ricorda con un lungo excursus nel capitolosecondo, Hegel all’inizio dell’ottocento ha elaborato una sintesi delle tantedicotomie presenti in questa problematica, sintesi che ancor oggi s’impone perla sua insuperata forza dialettica. Per quanto riguarda, in particolare, il nostroargomento, è a partire dalla dicotomia hegeliana uomo/donna che il punto divista critico della filosofia femminile si è sviluppato, prendendo la forma di unconfronto con il pensiero maschile a proposito di una differenza occultata ocancellata proprio servendosi della figura di Antigone. Nel II volume dellaFenomenologia dello spirito 2, ampiamente citato da Brezzi, Hegel definiva ilfemminile come elemento di eversione, in passi famosi come questo: “Il femi-

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nino, eterna ironia delle comunità, cambia co’ i suoi intrighi il fine universale delgoverno in un fine privato”. Così il filosofo contrapponeva Antigone e Creontecome due lati della sostanza etica, l’uno in rappresentanza della legge divinainsita nella coscienza l’altro in rappresentanza della legge scritta (rispettiva-mente il “senso infero racchiuso nel profondo” e “l’universale senso pubblicoesposto alla luce del giorno”)3. Affermando che le due leggi governavano l’unala famiglia, naturale comunità etica e l’altra lo Stato, comunità umana istituita(ovvero “il concetto privo di consapevolezza e tuttora interiore della effettualitàconscia di sé” e la “eticità che si forma e si mantiene lavorando per l’universa-le” )4 Hegel, al tempo stesso, impostava con la massima nettezza quegli insa-nabili contrasti tra privato e pubblico, coscienza singola e norma universale,individuo e potere statale, che a partire dal regime patriarcale hanno eletto asimbolo la dicotomia donna/uomo.

In modo alquanto sommario si può parlare dell’interpretazione hegelianacome di un paradigma per il pensiero femminile, che nel lavoro di confutazio-ne (o di dissoluzione) di quel simbolismo si è impegnato già a metà del nove-cento. Un punto che esso voleva particolarmente attaccare, a proposito dellepagine ricordate della Fenomenologia, era quello di un dualismo dei sessi chevi appare talora fondato sul predominio del maschile e l’inferiorità del femmini-le, talaltra sulla loro complementarietà.

Il dualismo, comunque, era per Hegel la conseguenza necessaria del movi-mento dialettico delle due essenze in conflitto: le due parti erano egualmentecolpevoli di aver rotto l’equilibrio della sostanza etica, e solo attraverso il rico-noscimento della colpa sarebbero tornate a congiungersi. “Solo nell’egualeassoggettamento di entrambi i lati si consuma e compie il diritto assoluto, ed èsorta la sostanza etica come forza negativa che li inghiotte entrambi; è sortocioè il destino onnipotente e giusto”5. Un finale, questo che, ancora secondoHegel, risponde al senso della giustizia morale “espresso nella maniera subli-me nelle tragedie di Sofocle. Lì si parla del destino e della necessità; il destinodegli individui è rappresentato come un qualcosa di inconcepibile, ma lanecessità è riconosciuta come la vera giustizia”6. Come si vede, si trattava diun destino e di una necessità dettati dal sistema hegeliano, e intrisi, oltre chedei concetti di colpa, sofferenza, riconoscimento, giustizia, di quell’afflato reli-gioso che vi si connetteva alla visione idealistica dell’Assoluto.

Dopo Hegel la conciliazione tra gli opposti contendenti, ovvero tra le dueessenze in conflitto, non sarebbe più stata accettata, a motivo dello spirito diribellione proprio dell’età romantica e in seguito, nel novecento, delle dureesperienze della resistenza alle dittature. Così le due posizioni di Antigone eCreonte si radicalizzarono, e ne vennero interpretazioni sempre più raffinate ecomplesse che Francesca Brezzi percorre con accuratezza, senza tralasciarele figure degli altri personaggi minori e la presenza del Coro.

L’insieme dei conflitti che dividono queste figure sul piano politico, è centra-to sul problema della fondazione della polis, sostiene l’autrice, che estende ilsenso della sua osservazione ad ogni comunità umana e per ogni epoca, comepossiamo cogliere in queste sue parole: “Il conflitto delineato da Sofocle man-tiene la sua perenne attualità proprio nel mostrare lo scontro tra codici arcaici

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NOTE

da un lato e una nuova razionalità dall’altro” (p. 87). Con questa collocazionel’agire della nostra eroina appare anticipare i tempi, quasi a fondare futuremodalità di azione politica che soltanto una donna poteva già sentire e rappre-sentare. Come dice Brezzi: “il richiamo della fanciulla alle leggi non scritte,infatti, prefigura il lungo cammino, che il pensiero politico ha nel seguito com-piuto, sui sentieri dei diritti individuali, della coscienza personale contro i divie-ti collettivi” (p. 88). Poche pagine dopo, è citata in questo senso l’osservazio-ne di R. Rossanda circa la figura del figlio di Creonte, il giovane Emone inna-morato di Antigone, che chiede al padre “di considerare Antigone una partedella polis, un pensato diffuso e taciuto dal quale chi governa non può prescin-dere”7 e in tal modo, sottolinea Brezzi, “affronta il nodo di fondo della democra-zia” (p. 107) ovvero, secondo un passo della stessa tragedia, “la voce delpopolo che non giunge al potere”8.

Dopo le Antigoni viste dalla parte maschile, considerate sia sotto l’aspetto del-l’opposizione politica sia sul piano trascendente, per il carattere religioso che pre-sentano i conflitti della tragedia, il confronto con le interpretazioni dalla parte fem-minile ci riporta all’immanenza. Ponendosi su questo piano, infatti, il pensierodelle donne si è andato piuttosto a misurare con altre forme di trascendenza, pro-prie della sfera relazionale ed emotiva. Così nel breve scritto La tomba di Anti-gone, Maria Zambrano suggeriva l’affascinante metafora della caverna in cui, adifferenza del mito narrato da Platone, la figlia di Edipo discende volontariamen-te alla ricerca del senso della sua propria nascita e della “sua vita non vissuta, econ essa la tragica vicenda della sua famiglia e della sua città”9. In questa caver-na la vita esplode come “seconda nascita che è vita e visione nello speculumjustitiae“, visione sempre tesa verso la trascendenza, poiché l’essere umano èsempre in divenire, sempre “sul punto di nascere” così come lo sono città ecomunità umane: “si direbbe che la radice stessa dell’Occidente sia la speranzadella Nuova Legge, che non è soltanto l’intimo motore d’ogni sacrificio ma sicostituisce in Passione che presiede la storia”10.

Di una seconda nascita, in quel luogo della “passione inaugurale dell’amo-re, dell’arte, del pensiero” che è la filosofia, avrebbe parlato anche la pensatri-ce francese Luce Irigaray, intendendola come “nascita ad una trascendenza,quella dell’altro, ancora sensibile, ancora fisica e carnale, e già spirituale”11.

E Martha Nussbaum avrebbe insistito, nella sua opera La fragilità del bene12,sull’unione di emozioni e ragione, e su quella “sensibilità verso il mondo” allaquale una buona deliberazione non può che connettersi. La filosofa americanarimarcava, nella sua rilettura della Poetica e dell’Etica Nicomachea, come Aristo-tele attribuisse all’arte tragica il merito di rappresentare la vulnerabilità dell’esse-re umano, inducendo il pubblico a riflettere sul conflitto delle passioni che ne sca-turiva, e a cercare la soluzione dei problemi morali attraverso l’accordo, frutto disaggezza pratica. A suo avviso il nodo di eventi fatali, di emozioni e di opposterigidità, di errori e di inevitabili scontri, che Sofocle ha saputo esprimere con stiledi sublime poesia, segnala quella “illimitata contingenza” che è impossibile com-porre e armonizzare come voleva Hegel, ma che, ammoniva la filosofa america-na, dobbiamo fronteggiare tramite quella philìa, quella forza empedoclea chelega insieme i diversi, e sulla quale soltanto può fondarsi una comunità.

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Ma qui viene da osservare che nel senso aristotelico la philìa è l’amicizia trai cittadini, pari di natura e di condizione, cui è demandato di stabilire le normedella città: nulla a che fare, quindi, con le sofferenze e le passioni condivise,con l’accordo che supera le differenze, con una politica che sorga dal confron-to e nella composizione tra ragioni diverse. Il concetto di philìa, peraltro, è inte-so da Nussbaum in senso di politica attuale, in quanto riferito alla condivisionedei valori su cui può fondarsi la legge, e quindi riportato alle esperienze deinostri giorni, ad esempio laddove è riferito ai rapporti di amicizia, desiderio elegame affettivo, cui si accompagnano il reciproco rispetto, la considerazionedell’indipendenza dell’altro, l’amore che mira al suo bene.

Tuttavia (e su questo punto del testo in esame vediamo prevalere il pensie-ro di Francesca Brezzi) proprio dal concetto di philìa è possibile trarre la chia-ve di volta per capire il valore del gesto politico di Antigone, che è al tempostesso gesto di eversione e di ristabilimento della giustizia. Per chiarirlo, èd’obbligo il ricorso agli scritti di studiose come M. Calloni, E. Pulcini, A. Putino,F. Duroux, M. David-Jougneau. In analogia con le loro stesse pratiche, essecolgono in quel gesto un duplice senso: la denuncia della discriminazione delledonne, non appartenenti alla comunità dei phìloi, dalla scena politica dellacittà, e la ricerca di un nuovo legame con la stessa città. Come ha scritto Vir-ginia Woolf, le giovani del suo tempo che protestavano “volevano come Anti-gone non violare le leggi ma trovare la Legge”13.

Ma quale possibilità aveva, come donna, di riscrivere quella Legge che puòsolo rifulgere in un orizzonte proteso al di là della famiglia e della patria? Il pen-siero di Adriana Cavarero implica una risposta negativa a questo interrogativo:secondo lei Antigone “del tutto antipolitica, ha la funzione di comparire comeun’alterità radicale, sia nei confronti dell’Atene democratica, sia della polis tiran-nica […] umana corporeità e identità femminile, dunque nell’Antigone, insiemesi tengono in un solo tremendo e impolitico concetto”14. Nel riportare questa cita-zione, e nel concludere la sua dimostrazione della tesi di una diversa prassi poli-tica, aperta dalla rivoluzione morale e antropologica che le donne stanno realiz-zando, Francesca Brezzi si dice di diverso avviso. Sottolineando la corrente“confusione tra la Legge e l’esercizio del diritto e della giustizia” ingenerata damolti malintesi (p. 283), essa nota che, “se il diritto mette l’accento sulla respon-sabilità del soggetto colpevole, il gesto ‘ribelle’ di Antigone mostra un’altradimensione dell’essere umano, quella di essere sorgente, fonte di diritto, nonperché inventa il contenuto, ma perché manifesta con un atto un altro ordine,più giusto dell’ordine primitivo” (p. 285), e occorre aggiungere che lo mostracome dimensione di tutti, senza differenza di sesso. Il fondamento di questodiverso ordine è nel concetto aristotelico di equità, e il suo nome era già noto aiGreci che, prosegue Brezzi citando Hanna Arendt, “chiamavano filantropia que-sta umanità che si realizza nel dialogo dell’amicizia, poiché essa si manifestanella disponibilità a condividere il mondo con altri uomini”15. Questa citazioneracchiude il monito che possiamo ricavare dalla frequentazione dei testi antichi,poiché oggi, conclude Francesca Brezzi, a noi tutti tocca far rivivere la philìa,sebbene si viva in un mondo più che mai lacerato da ostilità e divisioni senzafine, e proprio perché, sofferenti e disorientati, condividiamo questa vita.

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NOTE

1 Dei testi di P. Ricoeur, in particolare dei più recenti, è fatta ampia menzione nel testo inesame. Si veda, oltre alle pagine del capitolo primo, cui mi sono riferita fin qui, tutto il quinto, e inol-tre altri riferimenti e citazioni in diversi capitoli.

2 G. F. HEGEL, Fenomenologia dello Spirito, 2 voll., Göbhart, Bamberg 1807, tr. it. La Nuova Ita-lia, Firenze 1995, p. 34.

3 Ivi, p. 24.4 Ivi, p. 9.5 Ivi, p. 30.6 ID., Lezioni di filosofia della religione, 2 voll., in Hegels Werke, Berlino 1832-45, tr. it. Zani-

chelli, Bologna 1974, vol. II, p. 140. 7 R. ROSSANDA, Antigone ricorrente, in: SOFOCLE, Antigone tr. it. Feltrinelli, Milano 1987, p. 40.8 SOFOCLE, Antigone, vv. 693-700.9 M. ZAMBRANO, La tomba di Antigone, 1983, tr. it La tartaruga, Milano 1995, p. 48.10 Ivi, p. 46.11 L. IRIGARAY, Etica della differenza sessuale, ed. Minuit, Paris 1984, tr. it. Feltrinelli, Milano

1985, p. 67.12 M. NUSSBAUM, La fragilità del bene, Cambridge University Press, 1986, tr. it. Il Mulino, Bolo-

gna 1996.13 V. WOOLF, Le tre ghinee, London 1938, tr. it. Feltrinelli, Milano 1975, p.181.14 A. CAVARERO, Corpi in figure, filosofia e politica della corporeità, Feltrinelli, Milano 1985, pp.

18-20.15 H. ARENDT, L’umanità e i tempi oscuri. Riflessioni su Lessing, in “La società degli individui”,

I, 2000, p. 24.100

INDIVIDUALISMO ED UNIVERSALISMO NEL PRIMO LEIBNIZ

di Sandro Ciurlia

1. La vocazione nominalistica e l’universalità della metafisica

«Sicuramente la problematica dell’individuo –ha scritto con efficacia Giovan-ni Aliberti– è solo un aspetto della produzione filosofica di Leibniz, ma sembraessere efficace per cercare di fare ordine in quel labirinto di idee: la sua intelli-genza potrebbe essere una delle chiavi per comprendere in quale modo sia daconsiderare il sistema leibniziano»1. Tale indicazione permette di focalizzarel’attenzione su un concetto arduo e sfuggente come quello di individuo, che traele mosse dalla fiducia critica giovanile leibniziana verso la tradizione del nomi-nalismo e finisce con il configurarsi come un ‘termine singolare collettivo’, alladefinizione del quale contribuiscono riflessioni di varia natura, dall’idea di formu-lare un linguaggio universale all’organizzazione di un’enciclopedia fondata sullalogica inveniendi, dalla definizione delle tecniche combinatorie alla maturamonadologia. Né va dimenticato che la fiducia critica dimostrata da Leibnizverso la tradizione logico-metafisica dell’individualismo convive con un altrettan-to definito affidamento nei riguardi dell’universalità della metafisica.

Infatti, riflettere sulla determinazione individuale significa, anzitutto, per Leib-niz, ingaggiare una sistematica revisione dei rapporti con la ‘scienza dell’essere’.Lo conferma il confronto con l’annoso problema del principio d’individuazione discolastica memoria nella Disputazione di baccellierato, dal titolo De principio indi-vidui, discussa a Lipsia nel 1663. Non poteva essere altrimenti, visti gli auctoresche, a suo stesso dire, ne condizionarono la prima formazione: Zabarella, Rubioe l’aristotelismo padovano, da un lato; Fonseca e Suárez, dall’altro2.

Una delle questioni legate all’articolato intreccio di interessi logici e metafi-sici negli anni giovanili è l’adesione al nominalismo, sinonimo, per Leibniz, diindividualismo metafisico e di terminismo logico3. Com’è noto, la logica novadegli scolastici aveva negato la realtà ontologica dell’universale, riconoscendol’individuo in entitate tota come unica realtà metafisica concepibile nonchécome notio completa e termine logico semplice di combinazione. «Il nominali-smo –precisa Carlo Giacon– si caratterizza come reazione all’astrattismo ecome affermazione di una realtà attinta intuitivamente»4. Tale tradizione filoso-fica aveva, inoltre, gettato i presupposti di una moderna concezione empiristi-ca della realtà, non ultimo attraverso l’utilizzo in chiave gnoseologica del prin-cipio logico-ontologico di ‘economia’, altrimenti noto come teoria del «rasoio»di Ockham (entia non sunt moltiplicanda praeter necessitatem)5: dimensionicritiche, queste, dotate di un «aspetto profondamente rivoluzionario»6 e tali daporre il nominalismo «alla radice del movimento scientifico moderno»7.

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NOTE

Parlare di nominalismo come temperie culturale dalla quale Leibniz traefecondi spunti di meditazione partecipandovi significa leggere il suo primo pen-siero come la celebrazione del trionfo del metodo analitico attraverso cui sicoglie l’individuo-termine. Quando si colloca Leibniz nel solco del tradizioneanalitica, si allude a quel diffuso riesame secentesco «delle funzioni del pen-siero alle quali la filosofia affida ogni sua possibilità», perseguito propriomediante il metodo dell’analisi, che permette «con rigorosa precisione la ridu-zione progressiva di ogni dato conoscitivo sino alla massima semplicità possi-bile»8. Una simile impostazione consente di risalire ai grandi poli speculativid’influenza posti a monte delle sue meditazioni: Suárez e Hobbes. Si tratta diautori che soddisfano, per Leibniz, precise esigenze critiche, la cui opera costi-tuisce un costante punto di riferimento nel confronto con la tradizione e con lesfide lanciate dai problemi aperti del suo tempo. Nel loro pensiero, Leibnizvede concentrati, inoltre, gli echi di esperienze speculative con cui egli si era,in quegli anni, variamente confrontato.

Al primo si deve una vigorosa meditazione sul tema dell’individuo. Non sitratta piú, però, secondo Suárez, d’intendere la determinazione individualeall’insegna di una duplice negazione (della molteplicità e dell’ulteriore scompo-nibilità), raccolta nel prefisso verbale del termine in-dividuum, quanto di decli-narne il concetto all’insegna della categoria di relazione. Infatti, l’identità delsingolo è tale solo se distinta da ogni altra. Il processo d’identificazione passa,dunque, attraverso il confronto con la differenza, con l’‘altro’, che esiste, anzideve ammettersi, affinché ciascuna identità possibile possa dirsi esistente.Qui, Suárez dimostra di aver fatto proprie le posizioni nominaliste, sulla sciadelle quali diviene possibile definire l’individuo come l’unico ens reale cui attin-ge la metafisica per definire i principî della realtà. Ne discende un’idea di«mondo» come sistema di relazioni tra entità definite9.

L’individualismo leibniziano si accresce e si problematizza, inoltre, a sègui-to dello studio della filosofia di Hobbes, pensatore, con tutti i suoi motivi, dav-vero onnipresente entro l’intero arco della produzione leibniziana. È il taglioconvenzionalista del razionalismo hobbesiano a sorprendere ed affascinareLeibniz. Com’è noto, Hobbes intende il ragionamento come una forma di cal-colo di concetti semplici che si esprime attraverso il linguaggio, órganon del-l’argomentazione razionale e, se preso in sé, insieme di segni convenzional-mente stabiliti. La parola-segno, nella funzione logica del giudizio, significa lecose, consente di astrarre dal particolare concreto sino a permettere di ragio-nare su concetti quali genere e specie. La scienza diviene, cosí, scire per cau-sas e si dispone ad indagare la natura degli oggetti determinabili10.

In sintesi, il convenzionalismo linguistico, la concezione del ragionamento comecalcolo, mediati da Hobbes; la vigile attenzione per l’individuo, la persuasione di unnuovo e raffinato ruolo da attribuirsi alla logica, l’idea di una categoria di relazioneintesa ad esprimersi mediante uno schema di calcolo di combinazioni sintetiche diparti semplici, idee, queste, in larga parte attinte a Suárez ed alla tradizione nomi-nalista, costituiscono il prezioso apparato di matrici speculative a cui bisogna rife-rirsi per comprendere a cosa pensi Leibniz quando parla di nominalismo.

Gli echi di simili influenze s’avvertono sin dalle prime opere: tra queste, soprat-

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tutto, la citata e spesso trascurata Disputazione di baccellierato. Com’è noto, laquestione dell’individuazione era sorta in seno al dibattito, sollevato da Porfirio11,sullo statuto ontologico degli universali ed aveva alimentato una secolare contro-versia. Dopo aver delineato le dimensioni del problema, Leibniz espone la tesisecondo cui le sostanze create non rintracciano il loro principio d’individuazionené nella materia signata di Tommaso, vale a dire «designata» a fondare la realtàmetafisica dell’individuo12, né nella forma di Scoto, che dà origine all’ecceità delladeterminazione individuale mediante una «contrazione fondamentale» dellamateria13. Leibniz dimostra con chiarezza di aderire all’ipotesi nominalista, secon-do la quale si deve negare la realtà metafisica dell’universale, riconoscendo l’in-dividuo come unica determinazione ontologica concepibile. Egli si orienta, però,verso una soluzione nominalista piú sfumata, volta a cogliere logicamente l’indivi-duo «per negationem adiunctam»14, proprio come aveva asserito Suárez medi-tando l’Ockham. Resta il problema delle fonti. Nella Disputazione, il riferimento aOckham è sempre indiretto. In realtà, Leibniz si nutre di filosofemi della tradizionedell’occamismo, quasi tutti tratti dal De principiis rerum naturalium di BenedettoPereira15. L’altra fonte è proprio Suárez. Ad ogni modo, tutto ciò testimonia la real-tà di un’adesione, quella di Leibniz al nominalismo, che finisce con il rintracciareuna soluzione al tema dell’universale colta per via prioritariamente logica.

Per Leibniz, infatti, è preziosa la disinvoltura con cui il nominalismo hadimostrato di superare le formidabili complicazioni teologico-metafisiche in cuiandavano ad imbrigliarsi le altre positiones. È opportuno, dunque, nel com-plesso, pensare a quella leibniziana come all’adesione ad un nominalismomoderato, frutto dell’influenza combinata di Suárez, Fonseca, del Soncinate edel riflesso, diretto ed indiretto, proveniente dai primi influssi del pensiero diHobbes16. Tantomeno è trascurabile l’influenza dell’aristotelismo luterano delThomasius17, il cui equilibrio storico ed acume critico ebbero a caratterizzarsi,per Leibniz, come i termini di una fondamentale lezione di metodo e di unatteggiamento di riguardo verso la tradizione, specie quella formale in logica,che lo accompagnerà per tutta la vita. Ne discende un nominalismo scaturitodalla circostanziata discussione dei limiti e delle inesaurienze logiche di cia-scuna delle piú autorevoli posizioni sul campo.

Per una conferma, si pensi anche solo al procedimento argomentativo leibni-ziano, fondato, in quest’opera, sul metodo della quaestio disputata: posta una tesi,segue la discussione dei contrastanti giudizi sul suo valore. Ciò sino al progressi-vo crescendo degli argumenta in contrarium, al culmine dei quali risulta scaturireda una sorta di implicita esigenza il passaggio alla positio successiva. La tesinominalista, però, costituisce sin d’ora un provvisorio punto d’arrivo non in quan-to l’unico o il solo, ma soltanto come il piú duttile o, meglio, il piú euristico tra quel-li messi a punto dalla tradizione filosofica. Del resto, in un frammento del 1686,ripensando agli anni giovanili, Leibniz aveva asserito: «Nec hactemus alium videomodum evitandi hos scopulos, quam si abstracta non ut res, sed ut compendialoquendi considerem […] et eatenus sum nominalis, saltem per provisionem»18.

Una professione di fede nominalista, dunque, assai duttile, registrata «permisura precauzionale», quantunque assai problematica, perché convive conun «moderato realismo»19: lo dimostra il Corollario III a chiusa della stessa

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NOTE

Disputatio. Scrive Leibniz: «Essentiae rerum sunt sicut numeri»20. La proposi-zione esprime un’uguaglianza (sicut). L’identità tra i due termini dell’enunciatopermette di sostenere che il numero stesso è «essenza», pertanto la sequen-za numerica risulta dotata di immutabile coerenza interna, perché reale. Trat-tandosi di una tautologia, si deve sostenere che, galileanamente, la realtà siesprime in un linguaggio fatto di numeri. Detto altrimenti: il numero è sostan-za, partecipa di un mondo di forme, non è solo un segno designante la quan-tità. Inoltre, se la «materia» e la «quantità» sono «realmente la stessa cosa(realiter idem)»21, si pone l’esigenza di applicare la scienza dei numeri, lamatematica, alla descrizione dei fenomeni naturali, essendo, gli enti fisici, inconsiderazione della loro stessa dimensione materiale, parametrizzabili. Daquesto punto si diparte quel platonismo aritmologico tipico del Leibniz maturo,su cui si fonda la sua concezione del calcolo logico e numerico.

2. La ricerca dell’unità del linguaggio e dell’universalità della Scienza

L’individualismo metafisico che si ricava dall’opera del 1663 diviene anche sino-nimo di terminismo logico nella sezione introduttiva della Nova methodus (1667)22.Qui egli fa leva sulle proprie riflessioni in merito alle tecniche combinatorie e ripen-sa all’insegnamento hobbesiano intorno al carattere calcolativo del ragionamento,alla volta del perseguimento di una compiuta logica inveniendi da mediarsi, in sedegnoseologica, con il sensismo del filosofo inglese23. Precisa, al riguardo, Corsanocome «l’accostamento al sensismo hobbesiano avesse il còmpito di condurre a ter-mine l’erosione dei presupposti metafisici e antropologici, apparentemente scam-pati alla già avanzata riforma suáreziana»24. Non solo. Meditare Hobbes equivale-va, piú in generale, per il Leibniz di questo periodo, a riflettere su quella fisica delcontinuo al centro sin d’ora della sua speculazione logico-matematica e delle sueriflessioni sulla struttura logico-meccanica dell’universo.

La filosofia di Hobbes rappresentava, inoltre, un’occasione di confronto, trariserve e consensi, con la tradizione gnoseologico-metafisica classica. E se,agli occhi di Leibniz, Hobbes fornisce un sicuro metodo, Suárez si rende cor-responsabile di un atteggiamento sempre piú critico nei riguardi di quell’atomoche la ragione analitica scorge e doma, ma dinanzi a cui presto sarà costrettaa rassegnarsi a non poter mai penetrare.

Se letta in tal senso, l’operetta del 1667 completa ed esalta il punto di vistagià esposto da Leibniz, l’anno prima, nella celebre Dissertatio de Arte Combi-natoria, nella quale trova espressione il primo dei tanti –ed a piú riprese perse-guiti– progetti di Caratteristica universale. Com’è noto, si tratta del tentativo dielaborare un alfabeto logico del pensiero umano ed uno schema integrato ditutte le combinazioni possibili, redatti allo scopo di determinare le premesse afondamento di una lingua universale incentrata sul calcolo logico di concetti25,priva d’interferenze contenutistiche e retta da una sintassi logica coerente erigorosa26. Il modello è il linguaggio formalizzato della matematica27. L’ideadella combinabilità dei termini semplici trova in Leibniz un vigoroso impulsoanche d’ordine ontologico a sèguito della meditazione dell’opera di Johann

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Heinrich Bisterfeld28 e dalla sua concezione olistica –e neoplatonica29– dellarealtà individuale30. Come in un organismo vivente, infatti, ogni elemento assu-me uno specifico significato solo in relazione alla totalità organica del sistema,cosí il termine bisterfeldiano di immeatio rende bene l’esigenza della compe-netrazione tra parti e della loro subordinazione al tutto, secondo un ideale diunità armonica di tutte le possibili determinazioni individuali.

La Caratteristica si colloca in un quadro teorico in cui confluiscono temi dinatura logico-linguistica, ma anche cabbalistica e teosofica, entro quella ricer-ca della lingua perfetta che discende strettamente dalle tradizioni del lullismoe dei poligrafismi universali secenteschi31. A tal riguardo, Frances A. Yates harichiamato l’attenzione sulla rappresentazione iconografica posta in aperturadella Dissertatio: «Il diagramma con cui si apre quest’opera, in cui il quadratodegli elementi è unito con il quadrato logico di opposizione, mostra la sua per-fetta conoscenza del lullismo come logica naturale»32. Del resto, il termine«combinatoria» era stato già utilizzato da Bruno nel De specierum scrutinio(1588) per indicare l’Ars di Lullo. Per Leibniz, la Caratteristica rimane, però, inprincipal luogo, un sistema di tecniche di calcolo linguistico, secondo un meto-do affine a quello di Dalgarno33, ma fortemente influenzato da Kircher34 e dal-l’intera tradizione mnemonica35, e, in piú, deciso a proporre un articolato dise-gno di formalizzazione. Infatti, «le lingue ordinarie sono soggette ad innumere-voli equivoci, né possono essere impiegate per il calcolo» senza riferirsi ai«segni impiegati dagli aritmetici e dagli algebristi», in modo da rendere «ognierrore mentale […] lo stesso che un errore di calcolo»36.

Quest’ultimo punto è davvero di rilievo: risulta ancora condivisibile –lo haricordato Paolo Rossi37– l’idea di Couturat secondo cui il primo intento di Leib-niz nel pensare alla Caratteristica non risiede tanto nel progetto di calcolo logi-co, quanto nella necessità di una formalizzazione del linguaggio ordinario indirezione del linguaggio universale38. Ne costituisce conferma la costanteattenzione leibniziana per i «dizionari numerici», nei quali il numero assumeuna preziosa funzione denotazionale e semantizzante. In tal modo, Leibnizritiene di poter individuare, come si comprende sin dal lungo sottotitolo del DeArte Combinatoria, gli spazi di espressione di un’ars inveniendi tale da diveni-re integrativa della teoria classica del giudizio39.

La Combinatoria trova il proprio suggello nella determinazione di una«Scriptura Universalis […] cuicunque legenti […] intelligibilis»40, la quale è daLeibniz presentata come «Porisma seu usus XI» della medesima logica com-binatoria. Dopo aver accennato a Gaspar Schott41, Kenelm Digby42, Johann J.Becher43 ed al celebre Athanasius Kircher, Leibniz espone il metodo generalesecondo cui «scribantur […] quae ab omnibus intelligi debent, numeris, et quilegere vult, is evolvat in lexico suo vernaculo vocem dato numero signatam, etita interpretabitur»; chi scrive, invece, «necesse est […] et vernaculam et lati-nam tenere, et utriusque lexicon evolvere»44.

La codificazione del linguaggio universale non destituisce di senso, tuttavia,le lingue naturali. Infatti, per un verso è lo studio delle analogie e delle costan-ti presenti al fondo dell’intelaiatura morfologico-sintattica delle lingue d’uso acondurre all’impianto sintattico dello stesso linguaggio universale; per l’altro, gli

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NOTE

idiomi naturali conservano il ruolo di fondamentale mezzo di comunicazione,esprimono l’originaria tensione emotiva con cui gli uomini hanno vissuto ilmondo e, dinanzi al linguaggio universale come linguaggio della scienza, assu-mono una funzione divulgativa. Dunque, è dallo studio comparativo delle lin-gue che si giunge alla prospettiva dell’unità del linguaggio45.

Il linguaggio universale diviene, a sua volta, lo strumento per realizzarel’unità enciclopedica del sapere nel segno della Scienza generale, che costitui-sce l’elemento piú elevato di realizzazione del progetto della Caratteristica.

Tra i cultori dell’unità del sapere a cui Leibniz s’ispira vi sono gli enciclope-disti di Herborn46, in particolare Alsted47 e Comenio48, i quali erano convinti chel’ideale della circolarità della conoscenza traeva le proprie mosse e celebravail misticismo pansofico del lullismo. Un sapere simmetricamente organizzato,infatti, dall’orbis sensualis all’orbis intellectualis, sarebbe stato lo specchio del-l’armonia dell’universo, l’elogio dell’onnipotenza divina e la celebrazione delladignità ontologica dell’uomo49.

L’unità del linguaggio, inteso a realizzare l’unità della conoscenza, riflette ecelebra la simmetrica unità dell’universo, che da macchina diventa sistema direlazioni. Caratteristica, enciclopedia, giustificazione logico-ontologica dell’uni-versale si raccolgono nell’alveo della Scienza generale, la quale conduce alla«saggezza», vale a dire alla «perfetta conoscenza dei principî di tutte le scien-ze e dell’arte di applicarli»50. La Scienza generale, nel trovare i «principî inven-tivi»51 delle singole scienze, diviene un momento di chiarificazione metodologi-ca, uno strumento di coordinazione dei risultati raggiunti da ciascuna. Cosí, sirisponde ai dettami dell’ars inveniendi e si fonda un’autentica «enciclopediadimostrativa», capace di redigere una planimetria degli obiettivi euristici anco-ra da cogliersi. Questo percorso critico è legato ad un ultimo passaggio. Per ilLeibniz della piena maturità, esiste un luogo deputato a garantire il trionfo dellaScienza ed a guidare le ricerche di quei sapienti disposti a pensare in nomedel progresso del genere umano: l’accademia, a cui spetta il còmpito di fonda-re la società universale della conoscenza52.

3. L’individualismo nominalistico come modello metodologico

V’è, dunque, un complesso articolarsi, nel giovane Leibniz, di un duttilenominalismo, volto a far leva sull’individuo-termine, e di un’ontologia del lin-guaggio universale. La Mathèsis universalis, però, pur essendo insieme unprogetto solo in parte realizzato ed un ideale regolativo, è molto piú che unsemplice sinonimo di quel calcolo logico di concetti persèguito a partire dal-l’opera del 1666. L’idea stessa della Caratteristica, infatti, coordinando le gio-vanili convinzioni nominalistiche, la tradizione lulliana della Clavis universalis ela tecnica delle complexiones, costituisce un raffinato modo di riappropriarsidelle ragioni della metafisica attraverso un rinnovato approccio alla logica.Cosí, l’universalismo neoplatonico di Leibniz può essere interpretato come lostrumento che lega tanti motivi speculativi e come una sorta di proficuo prez-zo da pagare alla tradizione metafisica per rendere compiuta l’idea del calcolo

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logico. In quest’ottica, l’ispirazione neoplatonica che alimenta l’universalismodel periodo della Dissertatio assume un’estensione piú ampia e definita rispet-to alla stessa componente lulliana che aleggia sullo sfondo.

Il calcolo, in tal modo, per quanto si serva di sistemi segnici convenzionali,come aveva insegnato Hobbes, tende a conferire a sé una superiore finalitàontologica, determinandosi come un sistema di relazioni legittimato da unasolida fisionomia sintattica. La Dissertatio rappresenta, in questo senso, il veromodello del razionalismo analitico giovanile leibniziano. L’idea di atomo logicoporta a compimento sia la lezione hobbesiana relativa alla teoria della compu-tatio, sia l’invito (ontologico) suáreziano a considerare il carattere fondativodella categoria di relazione. Ciononostante, rimane una sfuggente piattaforma,quella delle numerose e convinte allusioni all’universalità della metafisica spar-se negli scritti di questo primo periodo, che rende assai problematico tanto l’in-dividualismo logico del De Arte Combinatoria, quanto la disinvoltura terministi-ca dimostrata da Leibniz nei brevi scritti del decennio successivo. Per il versoopposto, tale sensibilità ontologica non va nemmeno oltremodo enfatizzata, dalmomento che lo schema calcolativo delle complessioni sarebbe addiritturaimpensabile se disgiunto da quell’individualismo logico che rappresenta unadelle impronte dai contorni piú definiti della filosofia del giovane Leibniz.

Uno dei tratti piú impervi dell’opera leibniziana è quello relativo all’interpreta-zione del «passaggio» dalla produzione giovanile ai tratti metafisici del pensieromaturo. A questo punto, l’adesione al nominalismo costituisce una parentesiormai chiusa? O, piuttosto, ora presenta caratteri di piú specifica singolarità?

Per focalizzare la questione è utile riferirsi all’opera che introduce ai granditemi della piena maturità speculativa: la lunga Prefazione (1670) all’Antibarbarus(1553) dell’umanista italiano Mario Nizolio. Questo testo offre spunti di grandeinteresse, pur nel solco di una sostanziale continuità di vedute rispetto agli scrittiprecedenti. Leibniz vi ribadisce la propria fiducia nella logica come «scienza deiprincipî» e, in quest’ottica, trova luogo un significativo riferimento al valore meto-dologico del nominalismo, trionfo del metodo analitico e lucida guida critica nell’in-dagine dei fenomeni della natura53. Leibniz ne traccia anche una storia, al verticedella quale colloca, accanto ad Ockham, sia Suárez, sia Hobbes54. Tutto ciò infunzione del ritornare a riflettere sul tema dell’universale. Sottoponendo a radica-le critica la concezione «collettivistica» dell’universale proposta dal Nizolio, Leib-niz propende verso un’idea «distributiva» dello stesso, tale da evitare astratte ipo-statizzazioni ed a favore, invece, di una valutazione di questo concetto qualesistema di relazioni tra determinazioni individuali55.

Cominciano, però, proprio in quest’opera, a manifestarsi i primi segni di uncerto distacco dal nominalismo di maniera per il sopraggiungere di nuovi inter-rogativi sulla natura del linguaggio: in quale misura i segni condizionano ilragionamento ed in qual senso andrebbe intesa la verità se la si ritenessedipendente dalla mera volontà del singolo? Qual è il valore di verità dei segni?In qual senso d’essi è possibile proporre un calcolo? Può il linguaggio definir-si un’immagine logica dei fatti56? E, ancora, qual è la natura delle regole che logovernano? Il Dialogus del 1677 si fa carico di un simile orizzonte problemati-co e costituisce un punto di svolta: se è ritenuta ancora agevole la teoria del-

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NOTE

l’accordo convenzionale sui significati e sui procedimenti di denotazione tesi aconnettere il signum alla res, ha pure da ammettersi –scrive Leibniz– un «qual-che ordine che conviene alle cose», legato non tanto alle parole che ne espri-mono le rappresentazioni, vincolate come sono al pensiero, quanto all’intimanatura della «loro connessione e […] flessione»57.

Questo rigurgito realistico non pone in ombra quella mentalità terministica cheproviene da molto lontano. Ne è testimonianza la cosiddetta teoria della substitu-tio logica dei termini dell’enunciato in quanto retti da una relazione di equipollen-za. Solo raffinando il terminismo logico, infatti, si rende possibile un’adeguata teo-ria della dimostrazione fondata sulla convertibilità logico-semantica degli elemen-ti categorematici del discorso. In una comunicazione a Con ring del 1678, il filo-sofo di Lipsia ribadisce la superiorità dell’analisi rispetto allo spirito sintetico, defi-nendo il metodo analitico come la ricerca dei principî di un ragionamento a muo-vere dalle conclusioni cui si è giunti. Perciò, esso s’incentra sul procedimento dicalcolo logico delle proposizioni, fa uso di «mere equazioni, ossia di proposizioniconvertibili», nel senso che, dato un enunciato nella forma soggetto-predicato,dev’essere ammessa la reciproca convertibilità dei suoi elementi sulla base delduplice assunto della loro medesima estensione semantica e della loro congruen-za. Questo procedimento fonda la Scienza, costituendone la struttura logica58.

La teoria della substitutio promuove, inoltre, l’esigenza di stabilire un’equarelazione tra pensiero, linguaggio e realtà. Infatti, se, cartesianamente, idea èrappresentazione, cosa garantisce l’adeguata corrispondenza dell’idea stessaalla cosa e secondo quali ragioni di legittimità, data la res, il pensiero ne ela-bora una veritiera rappresentazione? A questi quesiti Leibniz tenta di offrireuna risposta nelle Meditationes de cognitione, veritate et ideis (1684), occasio-nate dalla polemica tra Arnauld e Malebranche circa la natura delle idee. L’ar-gomentazione è lineare: deve dirsi provvisoria ogni «definizione nominale»delle cose, in quanto destinata a coglierne solo l’involucro esteriore; è neces-sario, piuttosto, proporre una «definizione reale»59, intesa a disvelarne l’essen-za autentica, all’insegna di una posizione complessiva definita da Corsano«realismo critico»60. Il tutto viene considerato come una «risposta» a Hobbes.Leibniz aspira, ormai, ad un deciso passaggio di piano: recare al cospetto delpensiero la res, non piú solo il nomen che la designa.

Con la definizione reale si è ormai alle soglie di una fase di pensiero domina-ta da preoccupazioni metafisiche, ma non certo a discapito della logica. La defini-zione reale stabilisce solo la possibilità logica di una cosa, non la sua dimensioneontologica. In ragione di ciò, è reale solo quanto risulta possibile per il pensiero inquanto esprimibile nel giudizio: l’ontologia, dunque, passa sempre al vaglio del-l’analisi logica, in una sintesi critica che non ammette giudizi di priorità. Nel frat-tempo, s’infittisce il confronto critico leibniziano con le opere di Cartesio, del qualeinizia a commentare gli assunti, con gli scritti di Locke, da cui trarranno origine iNuovi Saggi sull’intelletto umano, e con Pascal, la cui critica del procedimentodimostrativo praticato dalla geometria lo condurrà ad una ridefinizione dei terminidel proprio razionalismo nel segno di una piú decisa impronta realistica.

Come si può osservare, dunque, quando si studia il problema delle convin-zioni nominalistiche giovanili leibniziane si affronta un tema multiverso, ma anche

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carsico: per un verso, il nominalismo costituisce un appiglio a cui si aggrappa lospirito analitico leibniziano dinanzi alle sfide ed alle formidabili difficoltà del reali-smo onto-gnoseologico classico; per l’altro, è un modo per rendere operativa laCombinatoria, per dare un sostegno al calcolo proposizionale, come si arguiscedalla teoria della substitutio, ma anche per battere in breccia il convenzionalismohobbesiano e dare sanzione alla relazione pensiero-linguaggio volta ad espri-mersi nella categoria logico-ontologica della possibilità, formulata nelle Medita-zioni. Si tratta, in fondo, come suggerisce Mugnai, di un «atteggiamento di cautodisimpegno»61 onto-metodologico, secondo la massima del cosiddetto «rasoio»di Ockham. Seguendo quest’itinerario, si getta anche luce sul fenomenismo deglianni in cui s’inaugura la fase monadologica62.

In questo senso è possibile sostenere, inoltre, che, per Leibniz, nominalismonon è sinonimo di semplice occamismo. In altri termini, ribadire la centralità del-l’individualismo non equivale, di necessità, a patrocinare un atteggiamento anti-metafisico, cosí come le convinzioni terministiche in sede logica non escludono lametafisica del linguaggio universale. Ecco perché, a giudizio di Leibniz, il nomina-lismo costituisce un fenomeno culturale di lunga durata, indice di un nuovo modod’intendere l’oggetto della metafisica e sinonimo di profonda apertura ai rinnovatiinteressi metodologici derivati dalla ‘rivoluzione scientifica’, che proprio il secolo diLeibniz celebra come uno dei suoi eventi epocali.

La distinzione è significativa: testimonia il passaggio dallo studio dei motividella tradizione del nominalismo ad una mentalità nominalistica capace di espri-mersi nella trattazione dei problemi piú vari, dall’analisi dello statuto delle monadialla definizione della natura del corpo, verso la professione di una sorta di «reali-smo ipotetico»63, fondato sulla categoria del possibile e governato dall’isomorfi-smo pensiero-linguaggio-realtà. Tale nominalismo metodologico, dunque, finiscecon l’assumere i tratti di una compiuta posizione gnoseologico-epistemologica.

Certo, sono ancora molte le questioni aperte: la definizione della funzione cri-tica assunta dalla Prefazione al Nizolio, il suo rapporto di coerenza rispetto al pla-tonismo matematico colto alla scuola di Weigel ed esibito sin dai primissimi scrit-ti, la determinazione del senso di quell’ambivalente eclettismo su cui si fonda ilsistema leibniziano, reso possibile proprio dalla flessibilità metodologica educatada principî tratti dalla tradizione del nominalismo, l’ordine e l’articolazione internadel progetto-sogno di una Caratteristica universale tale da superare le differenzee celebrare l’unità del genere umano, la definizione dello statuto dell’individuo edell’ambigua fede nell’intuizione mediante cui penetrarlo, l’articolazione isomorfi-ca dei rapporti pensiero-linguaggio-realtà. A questi problemi ci si riferisce quandosi parla dell’assegnamento critico nei riguardi del nominalismo da Leibniz concostanza dimostrato nel corso di tutta la sua vita; un nominalismo che gli avevapermesso di assumere un atteggiamento di scaltrita diffidenza nei riguardi dellestrettoie dogmatiche della tradizione metafisica e che aveva reso possibile laCaratteristica e, nel suo solco, una logica come ars inveniendi. A quest’ultima eraconsegnato il còmpito di celebrare i trionfi della ragione, lungo un sentiero maigarantito, fatto di trionfi e di tonfi, di risposte certe e di ipotesi piú o meno plausi-bili, in una condizione in cui la difficoltà rappresenta un’opportunità, essendo postalì, in fondo, solo per essere affrontata e, prima o poi, risolta.

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NOTE

1 G. ALIBERTI, Introduzione, in G. W. LEIBNIZ, Disputazione metafisica sul principio di individua-zione, a c. di G. Aliberti, Levante, Bari 1999, p. 16.

2 Cfr. G. W. LEIBNIZ, Vita Leibnitii a se ipso breviter delineata, in G. E. GUHRAUER, Gottfried Wil-helm Freiherr von Leibnitz. Eine Biographie, Bde. 2., Georg Olms Verlag, Hildesheim 1966 [giàHirt, Breslau 1846], Bd. II., p. 55: «Interea in Zabarella et Rubio et Fonseca aliisque scholasticisnon minori, quam antea in Historicis voluptate versabar et eousque profeceram, ut Suaresium nonminore facilitate legerem, quam Milesias fabulas solemus, quas vulgo Romanos vocant».

3 Sui problemi scaturiti dalla presenza, nell’opera di Leibniz, di un’evidente vicinanza al nominali-smo, di un profondo spirito anti-sistematico e di un altrettanto forte istinto neoplatonico, si permetta dirinviare a S. CIURLIA, Unitas in varietate. Ragione nominalistica e ragione ermeneutica in Leibniz.

4 C. GIACON, Tracce occamiste nel pensiero leibniziano, in Studi in onore di Antonio Corsano,a c. di A. Lamacchia, Lacaita, Manduria 1970, pp. 349-60: 350.

5 Cfr. A. CRESCINI, Le origini del metodo analitico. Il Cinquecento, Del Bianco Editore, Udine1965, pp. 35-47.

6 Ivi, p. 41.7 Ivi, p. 36. La questione assume contorni assai estesi nel corso del secolo XVII, allorché

sottolineare il nuovo ruolo assunto dalla logica rispetto alla Scienza dell’essere e dei principîprimi equivale ad esprimere l’avvertita necessità di un approccio logico non solo ai grandi pro-blemi della metafisica, ma anche a quelli del mondo naturale: cfr. A. CORSANO, Le origini dellafilosofia analitica da Suárez a Frege, Adriatica, Bari 1962, p. 3. Per uno studio delle relazioni chelegano Leibniz agli sviluppi della filosofia analitica moderna secondo la prospettiva interpretati-va corsaniana si veda S. CIURLIA, Antonio Corsano e la filosofia analitica: il pensiero giovanile diLeibniz, Congedo, Galatina 2002.

8 G. PAPULI, L’affermazione del metodo analitico e il pensiero filosofico e scientifico dell’etàmoderna, “Bollettino di Storia della filosofia dell’Università degli Studi di Lecce”, I (1973), pp. 105-45: 109.

9 Cfr. F. SUÁREZ, Disputationes metaphysicae, voll. 2, Georg Olms Verlag, Hildesheim-Zürich-New York 1998 [ristampa dell’Editio nova, a c. di C. Berton, Vivès, Paris 1866; già Apud Ioannemet Andream Renaut fratres, Salmanticae 1597], II, 1.14, v. I, p. 70, IV, 1.1-27, v. I, pp. 115-22; IV,2.1-10, v. I, pp. 122-25; V, 2.1-40, v. I, pp. 148-61.

10 Cfr. T. HOBBES, Il corpo, in Elementi di filosofia, a c. di A. Negri, U.T.E.T., Torino 1972, pp. 61-489: 80-82.

11 Cfr. PORFIRIO, Isagoge, a c. di G. Girgenti, Rusconi, Milano 1995, 7, 22-26, p. 75.12 Cfr. G. W. LEIBNIZ, Disputazione etc., cit., pp. 136-49. 13 Cfr. Ivi, pp. 149-91.14 Cfr. Ivi, pp. 130-35. 15 Cfr. C. GIACON, Tracce occamiste etc., cit., pp. 352-53.16 Cfr. Ibidem. 17 Cfr. F. PIRO, Varietas identitate compensata. Studio sulla formazione della metafisica di Leib-

niz, Bibliopolis, Napoli 1990, p. 75.18 G. W. LEIBNIZ, Textes inédits d’après les manuscrits de la Bibliothèque Provinciale de Hano-

vre, publiés et annotés par Gaston Grua, voll. 2, P.U.F., Paris 1948, v. II, p. 547. 19 F. BARONE, Introduzione, in G. W. LEIBNIZ, Scritti di logica, voll. 2, a c. di F. Barone, Laterza,

Roma-Bari 1992?, v. I, pp. XI-LXXXIV: XXXVI. 20 G.W. LEIBNIZ, Disputazione etc., cit., Corollario III, p. 190.21 Ivi, Corollario II, p. 191.22 Cfr. G. W. LEIBNIZ, Nova methodus discendae docendaeque jurisprudentiae, in G. G. LEIBNI-

TII, Opera omnia, nunc primum collecta, in classes distribuita, praefationibus et indicibus exhorna-ta, studio Ludovici Dutens, voll. 6, Apud fratres de Tournes, Genevae 1768, v. IV, pp. 169-230: 176e sgg. Per un’analisi della prospettiva metodologica contenuta in quest’operetta giovanile, ancorain parte trascurata, cfr. R. PALAIA, Unità metodologica e molteplicità disciplinare nella Nova metho-dus, in Unità e molteplicità nel pensiero filosofico e scientifico di Leibniz, a c. di A. Lamarra e R.Palaia, Olschki, Firenze 2000, pp. 143-57.

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23 Cfr. A. CORSANO, G. W. Leibniz, a c. di G. Sava, Congedo, Galatina 2000 [già Libreria Scien-tifica Editrice, Napoli 1952], p. 45.

24 Ivi, p. 46.25 Cosí ne parla G. W. Leibniz retrospettivamente in uno scritto, di probabile datazione 1684,

dal titolo Sulla scienza universale o calcolo filosofico: «Se si desse una lingua esatta […] o alme-no un tipo di scrittura veramente filosofica, mediante la quale le nozioni venissero ricondotte aduna sorta di alfabeto dei pensieri umani, tutte le conclusioni che derivano razionalmente dallenozioni date potrebbero esser scoperte per mezzo di una specie di calcolo, allo stesso modo in cuisi risolvono i problemi aritmetici o geometrici» (in Scritti di logica, cit., v. I, pp. 169-75: 170).

26 Cfr. G.W. LEIBNIZ, Dissertatio de Arte Combinatoria, in Die philosophischen Schriften, Bde.7., hrsg. von C.I. Gerhardt, Georg Olms Verlag, Hildesheim 1965 [già Weidemann, Berlin 1875-1890], Bd. IV, pp. 27-104: 39 e sgg. Sui benefici della formalizzazione ha scritto H. SCHOLZ:«Leibniz comprese che l’inaudito sviluppo della nuova matematica si fondava proprio su questoesonero contenutistico del pensiero. Tale sgravio, infatti, facilita straordinariamente il processoinferenziale, liberandolo con intelligenti accorgimenti da tutte le inutili operazioni mentali, e lo assi-cura a un tempo in maniera esemplare contro gli errori da cui il pensiero contenutistico viene inces-santemente minacciato nelle deduzioni» (Breve storia della logica, Silva, Milano 1967, p. 105).

27 Cfr. G. W. LEIBNIZ, Sulla scienza universale etc., cit., p. 170.28 Cfr. J. H. BISTERFELD, Alphabeti philosophici libri tres, in Bisterfieldus redivivus, seu operum

Joh. H. Bisterfieldi tomus primus-secundus, A. Vlacq, Hagae Comitum 1661, pp. 1-132: 17-18. Sulneoplatonismo di Bisterfeld si veda soprattutto M.-R. ANTOGNAZZA, Immeatio and Emperichoresis.The Theological Roots of Harmony in Bisterfeld and Leibniz, in The Young Leibniz and his Philo-sophy (1646-1676), ed. by S. Brown, Kluwer, Dordrecht 1999, pp. 41-64; M. L. BIANCHI, Signaturarerum. Segni, magia e conoscenza da Paracelso a Leibniz, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1987, pp.144-54.

29 Cfr. C. MERCER, Leibniz’s Metaphysics. Its Origins and Development, Cambridge UniversityPress, Cambridge (Mass.) 2000.

30 Cfr. P. ROSSI, The Twisted Roots of Leibniz’s Characteristic, in The Leibniz Renaissance.International Workshop (Firenze 2-5 giugno 1986), Olschki, Firenze 1989, pp. 271-89: 276; M.MUGNAI, Astrazione e realtà. Saggio su Leibniz, Feltrinelli, Milano 1976, pp. 62-112; Introduzionealla filosofia di Leibniz, Einaudi, Torino 2001, pp. 65-66; Der Begriff der Harmonie als metaphysi-sche Grundlage der Logik und Kombinatorik bei Johannes Heinrich Bisterfield und Leibniz, in “Stu-dia Leibnitiana”, V (1973), pp. 43-73. Non va dimenticato, inoltre, l’ormai classico studio di W.KABITZ, Die Philosophie der jungen Leibniz. Untersuchungen zur Entwicklungsgeschichte seinesSystems, Winter, Heidelberg 1909. Si deve proprio al Kabitz l’aver ritrovato, nella biblioteca leibni-ziana di Hannover, il volume delle opere di Bisterfeld annotato dallo stesso Leibniz.

31 Cfr. P. ROSSI, Clavis universalis. Arti mnemoniche e logica combinatoria da Lullo a Leibniz,Il Mulino, Bologna 1983? [già Ricciardi, Napoli-Milano, 1960]; A. CORSANO, Il pensiero filosofico diG.W. Leibniz, Corso universitario, voll. 2, Adriatica, Bari 1952, pp. 235 e sgg.; C. VASOLI, L’enciclo-pedismo nel Seicento, Bibliopolis, Napoli 1978.

32 F. A. YATES, L’arte della memoria, Einaudi, Torino 1993, p. 354. Com’è noto, la prima edizio-ne inglese di quest’opera risale al 1966.

33 Cfr. G. DALGARNO, Ars signorum, vulgo Character Universalis et Lingua Philosophica, J.Hayes, Londini 1661. La lettura leibniziana di quest’opera risale, con ogni probabilità, al 1671,pertanto non può aver influenzato il De Arte Combinatoria: cfr. P. ROSSI, Clavis universalis, cit.,p. 265.

34 Cfr. A. KIRCHER, Polygraphia nova et universalis, ex combinatoria arte detecta, Romae, extyp. Varesij, 1663; Ars magna sciendi in XII libros digesta, qua nova et universali methodo per arti-ficiosum combinationum contextum de omni re proposita plurimis et prope infinitis rationibus dispu-tari omniumque quaedam cognitio comparari potest, J.J. Waesberge et E. Weyerstraeten, Amste-lodami 1669.

35 Cfr. F. A. YATES, L’arte della memoria, cit., p. 355.36 G. W. LEIBNIZ, Sulla caratteristica, in Scritti di logica, cit., v. I, pp. 175-80: 177.37 Cfr. P. ROSSI, The Twisted, cit., p. 277.38 Cfr. L. COUTURAT, La logique de Leibniz d’après des documents inédits, Alcan, Paris 1901, p. 51.39 Cfr. G. W. LEIBNIZ, Dissertatio de Arte Combinatoria, cit., pp. 36-38; Sulla caratteristica, cit.,

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NOTE

p. 178. Cfr. M. MUGNAI, Astrazione e realtà, cit., pp. 32-37; e, a proposito della concezione leibni-ziana della logica scientifica come logica naturale, si rinvia a C. CELLUCCI, Le ragioni della logica,Laterza, Roma-Bari, 1998, pp. 48-55.

40 G.W. LEIBNIZ, Dissertatio de Arte Combinatoria, cit., p. 72.41 Cfr. C. SCHOTT, Technica curiosa, sive mirabilia artis, qua varia experimenta pneumatica,

hydraulica, mechanica, graphica, cronometrica, automatica, cabalistica proponuntur, J. Hertzt,Norimbergae 1664.

42 Cfr. K. DIGBY, A Treatise on the Nature of Bodies, G. Blaizet, Paris 1644; poi ristampato inlatino con il titolo Demonstratio immortalitatis animae rationalis, sive tractatus duo philosophici inquorum priori natura et operationes corporum, in posteriori vero natura animae rationalis ad evi-cendam illius immortalitatem explicantur, B.C. Wust, Francofurti 1664.

43 Cfr. J. J. BECHER, Character pro notitia linguarum universalis, J.C. Spoerlin, Francofurti 1661.44 G. W. LEIBNIZ, Dissertatio de Arte Combinatoria, cit., p. 72.45 Leibniz si confronta anche con quel filone di ricerca orientato a risalire alla cosiddetta «lin-

gua adamitica»: da qui il suo vivo interesse per l’ebraico.46 Cfr. E. LOEMKER, Leibniz and Herborn Enciclopedists, “Journal of the History of Ideas”, XXII

(1961), pp. 323-38.47 Cfr. J. H. ALSTEDIUS, Enciclopäedia septem tomis distincta, J.A. Hugueton et M.A. Rovaud,

Lugduni 16492. L’influenza di quest’opera sui numerosi abbozzi enciclopedici leibniziani fu notevo-le, costituendo un imprescindibile punto di riferimento, per quanto da riformare. Si veda, al riguar-do, G. W. LEIBNIZ, Sur l’Encyclopédie d’Alsted, in Opuscules et fragmentes inédits par L. Couturat,Georg Olms Verlag, Hildesheim 1966 [già Alcan, Paris 1903], pp. 354-55.

48 Cfr. J. A. COMENIUS, Pansophiae Prodromus, L. Fawre et S. Gellibrand, Londini 1639.49 Cfr. C. VASOLI, L’enciclopedismo etc., cit., p. 24.50 G. W. LEIBNIZ, Sulla saggezza, in Scritti di logica, cit., v. I, pp. 129-33: 129.51 Cfr. G. W. LEIBNIZ, Precetti per il progresso delle scienze, in Scritti filosofici, voll. 2, a c. di D.

O. Bianca, U.T.E.T., Torino 1968, v. II, pp. 737-54: 749.52 Cfr. N. HAMMERSTEIN, Accademie e società scientifiche in Leibniz, in Università, accademie

e società scientifiche in Italia e in Germania dal Cinquecento al Settecento, a c. di L. Boehm e E.Raimondi, Il Mulino, Bologna 1981, pp. 395-419; E. J. AITON, Leibniz, Il Saggiatore, Milano 1991,pp. 295-99.

53 Cfr. G. W. LEIBNIZ, Dissertazione preliminare sull’edizione di opere altrui, sullo scopo del-l’opera, sul discorso filosofico e sugli errori del Nizolio, in Scritti di logica, cit., v. I, pp. 63-96: 90:qui Leibniz cita il criterio metodologico occamista del cosiddetto «rasoio».

54 Cfr. Ivi, p. 91: in questa pagina, Hobbes è addirittura definito un «super-nominalista (plu-squam nominalis)».

55 Cfr. Ivi, pp. 93-94.56 Sul tema del linguaggio come «proiezione logica» e sulla riflessione leibniziana intorno al

segno come «corpo sensibile del significare», si rinvia a R. FABBRICHESI LEO, I corpi del significato.Lingua, scrittura e conoscenza in Leibniz e Wittgenstein, Jaca Book, Milano 2000.

57 G. W. LEIBNIZ, Dialogo, in Scritti di logica, cit., v. I, pp. 102-08: 106.58 Cfr. G. W. LEIBNIZ, Lettera a H. Conring (Hannover, 19 marzo 1678), in Scritti di logica, cit.,

v. II, pp. 435-39. Si vedano, inoltre, Sulla definizione in modo matematico delle forme dei sillogi-smi; Ricerche generali sull’analisi delle nozioni e delle verità; Matematica della ragione, tutti inScritti di logica, cit., v. II, pp. 217-26; 271-325; 390-416.

59 Cfr. G. W. LEIBNIZ, Meditazioni sulla conoscenza, la verità e le idee, in Scritti di logica, cit., v.I, pp. 160-67: 164.

60 A. CORSANO, Le origini, cit., p. 21.61 M. MUGNAI, Introduzione, cit., p. 152.62 Cfr. G. W. LEIBNIZ, Nuovi Saggi sull’intelletto umano, voll. 3, a c. di M. Mugnai ed E. Pasini,

U.T.E.T., 2000, v. II, p. 356.63 M. Mugnai, Introduzione, cit., p. 152.

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PENSIERO, PAROLA, CORPOREITÀ: UN NESSO IDEOLOGICO-SENSISTA

NELLA FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO DI GIACOMO LEOPARDI

di Cecilia Gazzeri

1. Filosofia del linguaggio e teoria della mente

La riflessione leopardiana intorno al linguaggio prende forma e si sviluppanell’ambito di una ben più ampia indagine sull’uomo che ha le sue radici in unaconcezione sensista della natura delle facoltà dell’intelletto e del loro funziona-mento nell’appropriazione conoscitiva della realtà. Si può dire che il linguaggiooccupi un posto privilegiato nell’indagine filosofica di Leopardi essendo profon-damente collegato quasi ad ogni altro settore di ricerca. Per questo motivo itemi linguistici occupano circa mille delle 4526 pagine dello Zibaldone e per lostesso motivo, con ogni probabilità, essi non trovarono posto in un trattato spe-cificamente linguistico cui l’autore pensò più volte di dedicarsi.

In una lettera datata 13 luglio 1821 e indirizzata al Giordani, Leopardiannunciò il progetto di voler dare forma ad un libro di argomento linguistico illu-strandone in modo dettagliato gli obiettivi. Dello stesso progetto torna a parla-re nel 1929 in un’altra lettera, questa volta indirizzata all’amico Pietro Colletta,in cui afferma che pur avendo una grande disponibilità di materiali questi nonriuscivano ancora a trovare né un ordine né uno stile. Non stupisce che que-sto libro non sia mai stato scritto se consideriamo il legame strettissimo che lariflessione linguistica intratteneva nella filosofia leopardiana con la più ampiaindagine sul processo conoscitivo e sulla natura delle facoltà della mente.

In particolare, le argomentazioni riguardanti il rapporto tra linguaggio e pen-siero sono inscindibili dalla generale scienza dell’uomo elaborata dal Leopardie sono esse stesse uno dei momenti che più di altri contribuiscono a definirla.Il materialismo leopardiano, o, più esattamente il sensismo della filosofia delrecanatese, emerge in questo settore rivelando degli indubbi legami, sia puredi non facile definizione, con la filosofia francese della fine del XVIII secolo.

2. Status quaestionis

È proprio a partire dal problema della non sistematicità del pensiero leopar-diano che prende le mosse la bibliografia critica sulle note linguistiche delloZibaldone. La considerazione del “carattere asistematico e piuttosto episodicodel pensiero leopardiano”1, anche e soprattutto in riferimento al problema lingui-stico, è per Salvatore Battaglia un chiaro segno della natura preparatoria dellemeditazioni zibaldoniane rispetto al più autonomo e compiuto momento poeti-

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NOTE

co. Il quadro interpretativo dello studioso risente evidentemente ancora del-l’estetica di Benedetto Croce che per lungo tempo aveva orientato la bibliogra-fia critica leopardiana in particolare quella relativa allo Zibaldone. La concezio-ne crociana della poesia come pura intuizione e il correlato convincimento cheun vero poeta non potesse essere al tempo stesso un grande pensatore, haritardato di molto l’individuazione di un Leopardi linguista accanto ad un Leopar-di poeta ed erudito. Il primo convinto assertore dell’esistenza di una vera e pro-pria teoria linguistica elaborata dal Leopardi è Tristano Bolelli. Il discorso chetenne a Recanati il 29 giugno 1975 riconosceva già nel titolo l’esistenza di un“Leopardi linguista” e portava avanti la convinzione che: “per valutare l’impor-tanza di Leopardi linguista, ci vuole un linguista e non uno storico della lettera-tura”2. Ricerche successive hanno poi dimostrato la fondamentale importanzadello studio delle fonti, o meglio, della collocazione del pensiero linguistico leo-pardiano nella giusta prospettiva critica. Solo negli ultimi tempi si sono fatti gliagganci giusti con la linguistica francese e italiana del Settecento e del primoOttocento, in particolare con i Philosophes e con gli Idéologues. Del 1984 è ilsaggio di Stefano Gensini: Linguistica leopardiana, la prima monografia intera-mente dedicata all’argomento, in cui lo studioso ricostruisce i percorsi chehanno portato il giovane Leopardi ad elaborare le proprie teorie linguistiche, evi-denziandone da un lato i rapporti con il pensiero dei diversi filosofi che più omeno direttamente hanno agito sulla formazione del recanatese, e contempo-raneamente procedendo ad un’analisi che esamina le note linguistiche zibaldo-niane nel contesto della più ampia “filosofia dell’uomo” elaborata dal Leopardi.Ulteriori contributi allo studio delle fonti sensiste e ideologiche del pensiero leo-pardiano si leggono in Dardano (1991)3 che attua una ricostruzione dei riferi-menti culturali all’interno dei quali poté muoversi il Leopardi e in Andria, Zito(2002)4, i quali, esaminata anche una lista di volumi conservata tra gli autogra-fi leopardiani nella Biblioteca Nazionale di Napoli e soltanto nel 2000 resa nota5,concludono che: “l’indagine sulla natura del linguaggio, tenacemente meditatadal recanatese nell’arco di oltre un decennio, convoglia al suo interno e assimi-la in profondità le sollecitazioni di una filosofia d’oltralpe […] E, come altrove, laricostruzione dell’itinerario si imbatte in ambiguità e in reticenze, in citazioniimplicite non certo perspicue, in nessi e accostamenti di dubbia decifrazione”.

3. Le fonti ideologico-sensiste del pensiero leopardiano

Ripercorrendo, o meglio, cercando di ricostruire questo itinerario di studi leo-pardiani, pur con le difficoltà più volte segnalate da tutti gli studiosi della materia,tre sono in particolare gli autori di riferimento da cui ormai non si può prescinde-re per una reale comprensione del pensiero linguistico di Leopardi: Condillac,Destutt de Tracy e Cabanis. Rimane tuttora aperta la domanda riguardante unalettura diretta da parte del nostro delle opere dei tre autori d’oltralpe, mentre certane risulta ormai una loro conoscenza almeno indiretta. Nonostante gli Idéologuesvengano citati nello Zibaldone, delle loro opere non c’è traccia né nel catalogodella biblioteca paterna, né negli elenchi di letture pubblicati dal Pacella6.

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Del pensiero del padre del sensismo e dei due principali esponenti delgruppo degli Idéologues (questi ultimi annoverati in una nota zibaldoniana nel-l’elenco dei grandi pensatori insieme a Kant e Leibniz)7 il Leopardi poté peròcertamente avere notizie tramite l’opera di divulgazione che ne fece in Italia ilSoave. Padre barnabita molto attento alla diffusione delle idee filosofiche d’ol-tralpe nel nostro paese, Francesco Soave curò nel 1794 l’edizione italiana delSaggio sull’intelletto umano di Locke, arricchendo il testo con un’appendicesulla filosofia sensista. Operando una sorta di cattura dei più importanti temiculturali del suo tempo, Leopardi riuscì a supplire alle carenze, più volte lamen-tate, della biblioteca paterna e all’isolamento culturale in cui viveva traendonotizie del movimento idéologique anche dai pochi opuscoli e riviste letterariee filosofiche dell’epoca e rielaborandone i temi con un acume che risultava raroin qualunque altro luogo dell’Italia di quel tempo. Tra queste pubblicazioni varicordata almeno la “Scelta di opuscoli interessanti”, che il Leopardi possede-va in un’edizione del 1781, curata proprio dallo stesso Soave e che contenevauno scritto del condillacchiano Sulzer dal significativo titolo di “Osservazionisull’influenza reciproca della ragione sul linguaggio e del linguaggio sulla ragio-ne”. Infine va detto che una conoscenza diretta delle opere di Tracy e di Caba-nis, non può essere affermata con certezza ma neanche del tutto esclusa sesi guarda alla storia editoriale di queste opere. Dei Rapports du physique et dumoral de l’homme di P.J.G. Cabanis, saggio del 1802, esisteva un’edizione ita-liana, la prima, pubblicata nel 1820, anno dell’avvio della riflessione zibaldonia-na intorno ai problemi di linguaggio e conoscenza. Ancora più rilevante èosservare che gli Eléments d’idéologie del conte de Tracy, stampati in Francianel 1804, vennero pubblicati per la prima volta in Italia nel 1817, in una versio-ne curata dall’ideologo italiano Giuseppe Compagnoni e pubblicata dall’edito-re milanese Antonio Fortunato Stella, grande amico del Leopardi, il quale tral’altro ne fa riferimento in una lettera inviata al recanatese il 3 febbraio 18278.

Quel che più conta è però il fatto che, anche se mediata da una conoscen-za indiretta e frammentaria la filosofia degli Idéologues in tutti i suoi nodi teo-rici più importanti ha sicuramente agito come riferimento preciso nello svolger-si della ricerca zibaldoniana. Un primo generale punto di contatto è dato giàdalla vocazione “interdisciplinare” propria sia della indagine degli Idéologuesche della disposizione filosofica leopardiana. Esaminare l’uomo nella suacomplessità e specificità: è questa la prospettiva che subito colpisce nella let-tura di opere pur così diverse come l’Essai sur l’origine des connaissanceshumaines di Condillac (1746), i Rapports du physique et du moral de l’hom-me di Cabanis, gli Eléments d’idéologie di Tracy e lo Zibaldone. D’altra partegli Idéologues vengono spesso definiti esponenti di un gruppo di pensiero,filosofi certo, ma non solo. Nel salotto di M.me Hélvetius si riunivano infattipensatori di diversa formazione, quali economisti, matematici, medici (grandeimportanza, come su vedrà riveste in particolare la figura di Cabanis, medico-filosofo) e più in generale coloro che erano interessati, sulla scia dell’empiri-smo inglese e del sensismo francese, a porre le basi di una nuova antropolo-gia che, ripulita di ogni istanza metafisica, si fondasse su un’ipotesi materiali-stico-sensista da verificare con l’aiuto delle scienze sperimentali.

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NOTE

Le idee leopardiane sul linguaggio prenderanno forma proprio da un’ana-loga visione dell’uomo in cui la sensibilità e in ultima analisi la corporeità lungidall’essere cartesianamente considerata il polo opposto dell’anima, verrà riabi-litata come fonte della conoscenza, per cui anche il linguaggio, funzione supe-riore dell’essere umano, non può nascere se non in stretto rapporto con lanostra fisicità, con la nostra attività percettiva e sensibile, posto che: “tutto èmateriale nella nostra mente e facoltà” (Zib.1657).

4. “… perché noi pensiamo parlando”: la sostanza linguistica del pensiero

Inscrivendosi nella linea di pensiero empiristico-materialista che da Lockegiungeva fino a Condillac, Leopardi accoglie dunque il principio dell’antiinnati-smo delle idee e del loro formarsi a partire dall’esperienza sensibile. È proprioin questo percorso di indagine che egli approda alla profonda convinzione delcarattere formativo del linguaggio. Già Condillac, riconoscendo che ogni ope-razione conoscitiva ha origine da una percezione sensibile e che la formazio-ne di ogni idea presuppone la mediazione del dato materiale, aveva dedicatoun’ampia parte del suo saggio allo studio di come le operazioni conoscitivepossano nei fatti avere luogo, riservando al linguaggio una funzione fondamen-tale in questo processo.

Il padre del sensismo infatti, considerando ogni operazione dell’anima,anche il più astratto ragionamento, come originato da una sensazione trasfor-mata, aveva indagato proprio sulle modalità per cui le diverse operazioni del-l’intelletto (tra cui il discernimento, la comparazione, l’astrazione) potesseroavere luogo pur partendo tutte da quel principio elementare che è il sentire, eaveva individuato proprio nel linguaggio il ponte gettato tra i processi percetti-vi più elementari e quelli cosiddetti superiori. Funzione fondamentale dei segniè infatti quella di esprimere in successione ciò che nella percezione si dà simul-taneamente, permettendo di distinguere, categorizzare e istituire rapporti traidee semplici. La formazione di ogni nuovo concetto poggia sul sentimento diun rapporto tra due idee precedentemente individuate e ben distinte. I segni,concorrendo alla separazione delle singole idee dalla globalità delle percezio-ni con cui veniamo in contatto e costituendole così come idee circoscritte edefinite, permettono poi alla mente di poter percepire eventuali rapporti disomiglianza o differenza tra di esse e di procedere nella formulazione delleidee composte, di idee cioè che non avendo un referente concretamente indi-viduabile, restano nella nostra memoria e nella nostra coscienza solo graziealle parole che le esprimono.

Per Condillac il linguaggio ha la possibilità di innestare le facoltà superioridella mente umana a partire dall’analisi che possiamo operare grazie ai segnidelle nostre sensazioni e percezioni, cioè dei dati primari della conoscenza. Ilpassaggio da una conoscenza percettiva e sensibile ad una modalità conosci-tiva fondata sulla riflessione cosciente, si compie con gradualità, senza rotturetra le due modalità e soprattutto senza bisogno di ricorrere a un deus ex machi-na meta-fisico come attivatore del processo di pensiero.

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Risulta dunque chiaro che nella linea di pensiero seguita da Leopardi laparola è ben lontana dall’essere un semplice contrassegno formale di un con-cetto già precostituito. Essa risulta, al contrario, un dispositivo che media lacognizione permettendo di determinare l’idea, nel duplice senso di tracciarne iconfini rispetto al pensiero nebuloso prelinguistico e di determinarla come idea;il linguaggio conferisce al pensiero di per sé vago e indeterminato, la possibi-lità di trovare un ordine. È in questo senso che la moderna linguistica parla diformatività ed è questo il primo cardine su cui ruota la ricerca leopardiana: stu-diare la funzione di condizionamento che i segni linguistici esercitano sulla for-mazione del pensiero.

Posto dunque che noi “pensiamo parlando”9, la riflessione leopardiana sivolge ad esaminare l’effetto che le differenti lingue possono avere sulla nostracapacità di ragionare nonché il vantaggio che deriva dal conoscere più di unalingua concludendo che “la nuda cognizione di molte lingue accresce ancheper se sola il numero delle idee e ne feconda poi la mente” (Zib.2214). Nonsiamo lontani dalla concezione novecentesca nota come ipotesi di Sapir-Whorf, tanto più che anche nel caso di Leopardi il discorso riguardante l’in-fluenza delle lingue sulle cognizioni umane si riferisce sia al singolo individuoche alla nazione. Mutuando anche qui una teoria molto diffusa nella linguisticasettecentesca di stampo illuminista10, egli individua l’esistenza di un nesso pre-ciso tra popolo nazione e lingua. Il tema della indole, o più precisamente delgenio delle lingue, è affermato già nella lettera al Giordani del 1821 in cui silegge che: “la lingua e l’uomo e le nazioni per poco non sono la stessa cosa”e sviluppato in numerose note dello Zibaldone dedicate all’analisi delle carat-teristiche dei differenti idiomi e delle diverse potenzialità espressive che neconseguono11.

5. Immaginazione, metaforicità e vaghezza: la dimensione non calcolabile delsignificato

È nell’ambito di questo discorso che si sviluppa il secondo aspetto dell’in-dagine leopardiana intorno ai fatti di linguaggio e pensiero. Già Condillacaveva rilevato che le diverse lingue possono diversamente favorire le varieoperazioni del pensiero, quindi alcune risulteranno più adatte all’analisi, altreall’immaginazione. Leopardi distingue a questo proposito, tra lingue basatesu termini, come ad esempio il francese12 e lingue basate sulle parole, comela lingua italiana e sommamente il greco antico. Naturalmente una stessa lin-gua è poi al suo interno formata sia di termini, ossia di segni che “determina-no e definiscono la cosa da tutte le parti, presentando la nuda e circoscrittaidea di quel tale oggetto”, che di parole, le quali presentano anche delle“immagini accessorie”. Per prima cosa, c’è da osservare qui una sostanzia-le differenziazione delle idee di Leopardi da quelle dei suoi predecessori:mentre la linea di pensiero Locke-Condillac-Tracy auspicava una razionaliz-zazione del linguaggio che garantisse una maggior “esattezza” al discorso euna maggior certezza alla comprensione e quindi accordava la sua preferen-

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NOTE

za ai termini, al contrario, per Leopardi, la considerazioni dei confini apertidel significato delle parole, ricche di immagini accessorie (connotazioni)costituisce, oltre che un dato imprescindibile del linguaggio umano ancheuno dei suoi maggiori pregi.

In questo, più che in altri ambiti del pensiero linguistico leopardiano i riferi-menti extralinguistici o generalmente filosofici, i riferimenti cioè allo “schemaconcettuale” dello Zibaldone, sono piuttosto complessi. In particolare egli isti-tuisce un preciso collegamento tra l’indeterminatezza semantica delle parole eil più generale desiderio di infinito e di indefinito caratteristico della naturaumana. Le parole, soprattutto le parole poetiche, ma più in generale le parolein quanto tali e in contrapposizione ai termini, in virtù del loro carattere vago eappunto in-determinato, hanno la capacità di dar forma al desiderio di infinitoesposto da Leopardi nella nota “Teoria del piacere”, poiché appunto: “la bellez-za del discorso e della poesia consiste nel destarci gruppi di idee e nel far erra-re la nostra mente nella moltitudine delle concezioni e nel loro vago, confuso,indeterminato, incircoscritto” (Zib. 1234). Nella semantica leopardiana è infattichiara la distinzione tra significato e quello che dalla moderna linguistica è defi-nito “referente extralinguistico”; l’oggetto, per esempio una pianta, può esseresignificato mediante un termine o attraverso una parola, la differenza tra le duemodalità è sostanziale, infatti scrive Leopardi: “s’io nomino una pianta colnome Linneano invece del nome usuale, io non desto nessuna di queste idee[concomitanti], benché dia chiaramente a conoscer la cosa” (Zib. 1701). Il refe-rente viene dunque indicato in entrambi i casi, ma “significato” in due modi pro-fondamente diversi, poiché utilizzando la parola “comune” in luogo del nomescientifico si introducono nella sfera semantica tutta una serie di idee, ricordi esentimenti legati all’esperienza del singolo individuo. Ci si riferisce alla stessacosa, ma la si significa in un modo diverso, e dunque, realmente, non si dicela stessa cosa.

È grazie ai confini aperti del significato delle parole che è possibile recupe-rare nella significazione le connotazioni (le infinite idee e ricordanze) che i ter-mini invece escludono. Ma non solo. La funzione delle parole è anche una fun-zione produttiva, come Leopardi illustra in Zib. 110:

e riducendo l’osservazione al generale troveremo il suo fondamento nellanatura delle cose, vedendo come la filosofia e l’uso della pura ragioneche si può paragonare ai termini e alla costruzione regolare, abbia stec-chito e isterilito questa povera vita, e come tutto il bello di questo mondoconsista nella immaginazione che si può paragonare alle parole e allacostruzione libera varia ardita e figurata.

In queste poche righe è già racchiuso il nocciolo della filosofia non solo lin-guistica di Leopardi: la precisione e l’univocità dei termini sono proprie dellaparte razionale della mente umana, mentre la vaghezza semantica delle paro-le trova il proprio corrispettivo nella facoltà immaginativa. Ed è l’immaginazio-ne, per Leopardi, il motore principale del processo conoscitivo, che lo porta adaffermare non solo che “la ragione ha bisogno della immaginazione e delle illu-

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sioni ch’ella distrugge” (Zib. 1839) ma che “immaginazione e intelletto è tut-t’uno” (Zib. 2134). È la facoltà immaginativa infatti che, permettendo di coglie-re i rapporti, le somiglianze e le affinità tra le cose attiva quel meccanismo diliaison dei idées che permette di arrivare alla costituzione di nuovi concetti.L’elemento creativo e “poetico” del pensiero risiede dunque in questa facoltà etrova il suo corrispettivo linguistico nella procedimento metaforico, il quale con-cretizza quei legami tra idee intuiti dall’immaginazione.

Le metafore, lungi dall’essere dei puri ornamenti retorici, rivestono un ruolofondamentale nel processo di appercezione del reale in quanto sono il mezzo“di cui l’uomo naturalmente si serve a significare le cose nuove o non ancoradenominate” (Zib. 1266). Le metafore dunque gettano luce sul procedimento dicostituzione dei significati delle parole. Riallacciandosi nuovamente alla filoso-fia sensista, Leopardi illustra la modalità attraverso cui le lingue arrivano adenominare le nozioni più astratte partendo dalla denominazione di elementiconcreti e sensibilmente percepibili.

Da un punto di vista filogenetico, le prime parole dovettero essere denomi-nazioni di oggetti che cadevano immediatamente sotto i sensi, In seguito, pro-prio grazie all’appoggio di questi referenti concreti, si andò incontro, nellediverse lingue, a un processo di estensione del significato necessario ad espri-mere le nozioni più astratte. Così ad esempio “anima” deriva da vento, e puressendo una nozione che non cade sotto i sensi ha derivato la sua prima ori-gine da un’idea sensibile. Su questo punto così si esprimerà Leopardi in unanota del 26 luglio 1821:

chiunque potesse attentamente osservare e scoprire le origini ultime delleparole in qualsivoglia lingua, vedrebbe che non v’è azione o idea umana ocosa veruna la quale non cada precisamente sotto i sensi, che sia stataespressa con parola originariamente applicata a lei stessa e ideata per lei.Tutte simili cose […] non hanno ricevuto il nome se non mediante metafo-re, similitudini, ecc. prese dalle cose affatto sensibili, i cui nomi hanno servi-to in qualunque modo e con qualsivoglia modificazione di significato o diforma ad esprimere le cose non sensibili […] tale è la natura e l’andamentodello spirito umano. Egli non ha mai potuto formarsi un’idea totalmente chia-ra di una cosa non affatto sensibile se non ravvicinandola, paragonandola,rassomigliandola alle sensibili e così, per certo modo, incorporandola13.

La necessità di conferire un corpo (tramite le parole) alle nostre percezioniè per Leopardi una chiara conseguenza della natura materiale della menteumana, come ribadito in Zib. 1658:

tutto è materiale nella nostra mente e facoltà. L’intelletto non potrebbe nien-te senza la favella, perché la parola è quasi il corpo dell’idea la più astratta.Ella è infatti cosa materiale, e l’idea legata e immedesimata nella parola èquasi materializzata. La nostra memoria, tutte le nostre facoltà mentali, nonpossono, non ritengono, non concepiscono esattamente nulla se non ricon-ducendo ogni cosa a materia, in qualunque modo, ed attaccandosi semprealla materia quanto è possibile; e legando l’ideale col sensibile; e notando-ne i rapporti più o meno lontani e servendosi di questi alla meglio.

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NOTE

6. La riabilitazione della corporeità nell’ambito della teoria conoscitiva

Nel passaggio sopra riportato non soltanto c’è un riferimento alla teoria con-dillacchiana secondo cui il pensiero è un processo che ha bisogno del datosensibile per poter giungere a compimento, ma il quadro teorico in cui questeesemplificazioni sono inserite sembra risentire fortemente delle teorie di unidéologue in particolare: il medico e filosofo Pierre-Jean-George Cabanis. Nonsappiamo se Leopardi –che sicuramente lo conosceva poiché lo inseriscecome si è detto nell’elenco dei grandi pensatori– avesse letto la principaleopera di questo filosofo, e cioè i Rapports du phisique et du moral de l’homme.Come si è detto, una conoscenza diretta di questo saggio non può essereaffermata mancando al riguardo esplicite indicazioni del Leopardi, (sempreperaltro piuttosto restio a dichiarare le proprie fonti), ma neanche del tuttoesclusa se si guarda alla storia editoriale dei Rapports, di cui esisteva un’edi-zione italiana datata proprio 1820, anno dell’avvio della riflessione zibaldonia-na intorno ai problemi di linguaggio e conoscenza.

Partendo come Condillac dallo studio della sensibilità come origine dellaconoscenza, Cabanis elaborò i suoi Rapports con l’intento dichiarato di anda-re oltre Condillac, di dimostrare cioè come quel principio conoscitivo non aves-se nulla di spirituale ma fosse una funzione interamente appartenente al corpoil quale era in grado di compiere autonomamente quelle funzioni cosiddettesuperiori –come quelle di pensiero e di linguaggio– che fino a quel momentola filosofia, compresa quella sensista dell’abate di Condillac, aveva riservatoall’anima e di conseguenza come il pensiero, che da quel principio discendeavesse una natura completamente organico-materiale.14

Il materialismo leopardiano, portato all’estremo in un a nota del 9 marzo1827 in cui si legge che: “la materia può pensare, la materia pensa e sente”, siricollega alla concezione cabanisiana di un corpo che non è in alcun modo unfatto meccanico e inerte ma che risulta dotato di proprietà vitali interne che sigenerano grazie a continue aggregazioni di carattere chimico-fisico e che dun-que non necessita di alcun intervento esterno da parte di un ente meta-fisico.

La riabilitazione della corporeità in chiave antimeccanicistica era per gliIdéologues il dato fondamentale su cui innestare la nuova scienza dell’uomo.Non ci si accontentava più di escludere l’âme dalla science de l’homme, sichiedeva invece un’analisi nuova e specifica dell’organisation corporea. Que-sta organisation cui fa riferimento Cabanis è il risultato dei rapporti tra il fisicoe il morale, termini ben lontani dal riproporre l’antico dualismo corpo-anima, inquanto con moral precisa, si fa riferimento al complesso, relativamente auto-nomo, delle operazioni intellettuali e affettive dell’uomo, complesso che nonpossiede un proprio statuto ontologico, “non essendo altro che il fisico consi-derato sotto certi punti di vista più particolari”15. L’uomo dunque non è nellaconcezione cabanisiana, come non sarà in quella leopardiana, la somma didue nature eterogenee, ma il risultato di una complessa organisation materia-le che da sola giustifica l’esistenza e il funzionamento di tutte le facoltà, com-prese quelle cosiddette superiori di pensiero e di linguaggio. Ed è proprio que-st’ultimo che consente l’attivazione del processo conoscitivo, il quale, stabilita

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la natura materiale della mente umana può essere innescato solo rivestendodi una forma materiale i contenuti psichici. L’idea infatti, per poter essere com-patibile con il congegno tecnico della facoltà conoscitiva ha bisogno di “incap-sularsi” nell’elemento sensibile, come scriverà Leopardi in Zib. 2584:

nelle parole si chiudono e quasi si legano le idee come negli anelli legemme, anzi s’incarnano come l’anima nel corpo, facendo seco lorocome una persona, in modo che le idee sono inseparabili dalle parole, edivise non sono più quelle, sfuggono all’intelletto e alla concezione, e nonsi ravvisano, come accadrebbe all’animo nostro disgiunto dal corpo.

L’idea dunque assume consistenza grazie alla parola, mentre una “idea” pre-linguistica sfuggirebbe in breve anche alla persona stessa che l’ha concepita.

7. Linguaggio e memoria

Di questa complessa organisation umana sono parte integrante anche altrefacoltà, tra cui va ricordata almeno la memoria, che occupa un posto centralenella indagine linguistica sia di Leopardi che di un ideologo in particolare:Destutt de Tracy. Con maggior precisione rispetto a Condillac, Tracy esaminail ruolo giocato da questa facoltà nel funzionamento “linguistico” della mente,evidenziando come sia proprio la limitatezza della memoria a rendere neces-sario l’uso dei segni. Le parole infatti sono punti di riposo e di ancoraggio peruna mente, quale è la mente umana, che non è in grado di ritenere una quan-tità troppo estesa di informazioni. Per illustrare questo concetto, Tracy ricorread un esempio tratto dall’algebra: affermato che la lingua algebrica è un siste-ma di segni, l’autore degli Eléments d’idéologie invita a riflettere sul fatto che“non si ha mai bisogno di pensare al significato di questi segni durante il tempoin cui li si combina.” Durante i calcoli operiamo cioè una combinazione dellequantità basandoci sulle regole algebriche senza dover continuamente richia-mare alla mente il significato dei segni, tanto che se le regole saranno stateseguite nel modo corretto, giungeremo ad un risultato esatto. Ora, posto chele lingue storico-naturali non hanno l’esattezza della lingua algebrica (purtrop-po, secondo Tracy, il quale contrariamente a Leopardi si dimostra estrema-mente favorevole nei confronti di una lingua razionalizzata ed epurata di ognivaghezza semantica) egli conclude analogamente che “ragionando, noi, senzaaccorgercene, siamo condotti dalle parole come dai caratteri algebrici; la loroutilità” –è qui il nesso parola-memoria– “è di dispensarci in parte dall’aver pre-sente le idee che rappresentano.”16

Oltre all’estrema modernità della conclusione tracyana, per cui il soggettoparlante sarebbe in buona parte condotto dalle parole, ciò che dunque emer-ge esaminando il funzionamento collaborativo di pensiero memoria e linguag-gio, è il problema del significato. Scriverà Leopardi che senza la favella ci èpossibile contare fino ad un numero estremamente limitato di oggetti, ad esem-pio di pietre, forse fino a cinque o sei, poiché solo fino a quella cifra ci è pos-

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NOTE

sibile avere una conoscenza intuitiva e individuale degli oggetti17. Di fronte aentità più complesse, come ad esempio cento pietre, in luogo di una conoscen-za individuale di ogni singolo elemento, ci serviamo di una conoscenza simbo-lica di esso. Il significato linguistico delle parole fa dunque le veci della cono-scenza individuale di ciascuna delle cento pietre, conoscenza che, se maifosse possibile, bloccherebbe la mente dal compiere qualunque passo succes-sivo poiché occuperebbe troppo spazio in una memoria che invece ha dei limi-ti. Possiamo dunque parlare delle cento pietre senza conoscerle una per una.Senza che ci sia un accesso diretto agli oggetti, senza conoscere le loro carat-teristiche, possiamo nominarli attraverso i simboli e procedere nel calcolo e,più in generale, nel pensiero.

Già Leibniz aveva rilevato che per la mente umana è possibile concepiresenza la parola solo un numero limitato di oggetti; per concepirne un numeropiù ampio, ma non illimitato la mente ha invece bisogno del segno, infine, ci siaffida ad una conoscenza esclusivamente simbolica nel caso di numeri altissi-mi o illimitati. In quest’ultimo caso il linguaggio diventa un vero e proprio “tele-scopio della mente”, permettendole di guardare dove ella non arriverebbesenza il segno. Senza la parola dunque non potremmo avere il concetto. Que-sto genere di considerazioni sono per Leibniz come per Tracy e per Leopardi,l’ennesima riprova del fatto che la nostra mente ha bisogno del linguaggio perfunzionare, cioè per pensare.

C’è poi un altro aspetto presente nella riflessione di Leopardi e degli Idéo-logues intorno al rapporto tra parola e memoria, che li porta ad affermare cheun essere umano privo di linguaggio sarà con ogni probabilità anche privo dimemoria. Gli esempi riportati dagli Idéologues, come dal citato scritto del Sul-zer, si riferiscono ai casi, proprio in quei tempi molto studiati, dei cosiddetti“ragazzi selvaggi”. Riportando il caso di un ragazzo vissuto nei boschi senzacontatti con altre persone, che non ricordava nulla della propria esistenza pre-cedente il ritrovamento e l’avvio dei rapporti interumani, relazioni cioè non soloaffettive ma anche linguistiche, Sulzer imputa la mancanza di memoria allamancanza di linguaggio, affermando che “la memoria manca a chi non hasegni per fissare le idee”. Analogamente, Leopardi avanza l’ipotesi che la pocamemoria che abbiamo degli avvenimenti della nostra infanzia potrebbe essereattribuita ad uno scarso sviluppo nei bambini non solo di questa facoltà in séma anche della facoltà linguistica, cosa che non avrebbe permesso di fissareidee e ricordi. Questi, afferma, cominciano proprio dal punto in cui il bambinoha acquistato un linguaggio sufficiente, concludendo con un pensiero che haagli occhi del lettore di oggi il sapore proustiano della madeleine: “come laprima mia ricordanza è di alcune pere moscadelle che io vedeva e sentivanominare al tempo stesso.”

Per pervenire alla costituzione di un’idea e per far sì che questa resti nellanostra memoria, è necessario dunque che essa venga “materializzata” tramite laparola ed è rilevante ed estremamente moderna la consapevolezza che Leopar-di ha del fatto che questo percorso avvenga sempre per “tentativi” e “alla meglio”.Il processo conoscitivo ha dunque un carattere provvisorio, è la ricerca di unaforma che ha un carattere maieutico: si tenta di dare un ordine al pensiero trami-

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te i segni materiali che permettono, come scrive il Sulzer, di “trarre dall’oscuritàqualche idea.” La base su cui poggia questo processo è la nostra corporeità,base imprescindibile per la nascita del pensiero, poiché, scrisse Tracy:

si è tanto detto, senza prove, che se fossimo tutta materia non potrem-mo pensare, è dimostrato, al contrario, che se fossimo totalmente imma-teriali e senza corpi non potremmo pensare come facciamo e nonsapremmo nulla di tutto ciò che sappiamo.

1 S. BATTAGLIA, “La dottrina linguistica del Leopardi”, in Le dottrine linguistiche del Settecento,Liguori, Napoli 1963.

2 T. BOLELLI, “Leopardi linguista”, in Leopardi linguista e altri saggi 1982, G. D’Anna, Messina1975.

3 M. DARDANO, “Le concezioni linguistiche del Leopardi”, in Lingua e stile nell’opera di Leopar-di. Atti dell’VIII Convegno internazionale di studi leopardiani. Recanati 30 settembre – 5 ottobre1991, 1991.

4 M. ANDRIA, P. ZITO, “Tutto è materiale nella nostra mente. Leopardi sulle tracce degli idéolo-gues”, in S. Gensini (a c. di) “D’uomini liberamente parlanti.” La cultura linguistica italiana nell’Etàdei Lumi e il contesto intellettuale europeo. Editori Riuniti, Roma 2002.

5 ZITO, op. cit. (pp.114-116).6 G. PACELLA, op. cit., “Elenchi di letture leopardiane”, in Giornale storico della letteratura italia-

na, LXXXIII, 1966, vol.143, fasc. 441, pp. 557-577.7 Si veda Zib. 946; gli altri due riferimenti diretti agli Idéologues si leggono in Zib.1235 e in zib.

2616.8 Nell’epistola (1043) c’è un breve riferimento al Compagnoni e “alle note da lui apposte alla

Grammatica del Tracy.” Il riferimento parrebbe sottintendere una conoscenza di quest’opera daparte del Leopardi.

9 Zib. 2214.10 E in generale nella linguistica settecentesca che aveva ben chiaro il nesso fra popolo, nazio-

ne e lingua. Su questo tema si veda L. ROSIELLO, Linguistica illuminista, Il Mulino, Bologna 1967.11 Si cfr. ad esempio Zib. 2591: “La storia di ciascuna lingua è la storia di quelli che la parlaro-

no o la parlano e la storia delle lingue è la storia della mente umana.”12 Per una dettagliata analisi della polemica leopardiana nei confronti della lingua francese, si

veda, su tutti, S. GENSINI, Linguistica leopardiana, Il Mulino, Bologna 1984.13 Vicinissimo è questo brano ad un passaggio di Locke (Essay, libro III, cap.I, § 5) che così

suona: “non dubito affatto che se potessimo ricondurre tutte le parole fino alla loro sorgente, tro-veremmo che, in tutte le lingue, le parole che si usano per significare cose le quali non cadonosotto i sensi, hanno derivato la loro prima origine dalle idee sensibili.”

14 La più completa analisi del pensiero cabanisiano è tuttora, nel panorama italiano, il saggiodel 1974 di S. MORAVIA. Il pensiero degli Idéologues: scienza e filosofia in Francia (1780-1815), LaNuova Italia, Firenze.

15 P.-J.-G. CABANIS, Rapports du physique et du moral de l’homme, 1802-1805.16 Questa e le precedenti asserzioni sono riportate dal Tracy in una lunga e importante nota al vol.I,

cap.16, pp. 340-349; la traduzione delle citazioni tracyane come di quelle cabanisiane è di chi scrive.17 Si veda Zib. 360-361: “l’uomo senza la cognizione di una favella non può concepire l’idea di

un numero determinato. Immaginatevi di contare trenta o quaranta pietre senza avere una deno-minazione da dare a ciascheduna, vale a dire una, due, tre, fino all’ultima denominazione, cioètrenta o quaranta, la quale contiene la somma di tutte le pietre e desta un’idea che può essereabbracciata tutta in uno stesso tempo dall’intelletto e dalla memoria essendo complessiva ma defi-nita e intera. […] [senza i segni] bisogna che l’intelletto concepisca e la memoria abbia presenti inuno stesso momento tutti gli individui di essa quantità, la quale cosa è impossibile all’uomo.”

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NOTE

MERLEAU-PONTY/MELANIE KLEIN: PROPOSTA DI UN CONFRONTO1

di Lucia Angelino

La realtà del legame contro l’a priori della distinzione

Come Merleau-Ponty sottolinea nel capitolo della Fenomenologia della per-cezione intitolato “L’altro e il mondo umano”, la relazione con l’altro è incom-prensibile se la si pensa come il ‘faccia a faccia’ di un soggetto, concepitocome pura coscienza, con un oggetto, posto di fronte a lui e dispiegato davan-ti al suo sguardo senza segreti. “L’esistenza dell’altro”, scrive il filosofo, “costi-tuisce una difficoltà e uno scandalo per il pensiero oggettivo”2. Un tale pensie-ro oggettivo, così come la filosofia riflessiva che ne è l’opposto speculare, riflet-te la struttura dell’ontologia classica, derivata da Cartesio, che oppone un Sog-getto come puro essere per sé (presenza a sé) e come coscienza costituentea un Oggetto inerte pensato come puro essere in sé, che si offre interamentedavanti al suo sguardo. Affinché l’altro sia comprensibile, bisogna rinunciarealla “biforcazione della ‘coscienza di’ e dell’oggetto”3 e prendere finalmente sulserio la realtà del legame, che abbiamo vissuto durante l’infanzia, nella formadi una “tranquilla coesistenza”4 con gli altri. Come Merleau-Ponty scriverà inuna Nota di lavoro del Visibile e l’invisible, “In realtà né io né l’altro siamo daticome positivi, come soggettività positive. Si tratta di due antri, di due aperture,di due scene in cui accadrà qualcosa, –e che appartengono entrambi allo stes-so mondo, alla scena dell’Essere”5. E aggiunge in una nota dello stesso anno:“Se si parte dal visibile e dalla visione, dal sensibile e dal sentire, si ottiene unaidea completamente nuova della ‘soggettività’ : non ci sono più ‘sintesi’, c’è uncontatto con l’essere attraverso le sue modulazioni, o i suoi rilievi –L’altro nonè più tanto una libertà vista dall’esterno come destino e fatalità, un soggettorivale di un soggetto, ma è preso nel circuito che lo collega a noi– E questomondo ci è comune, è intermondo – E c’è transitivismo per generalità” 6.

Nel campo della psicoanalisi, Melanie Klein deve risolvere un problemaanalogo, nel momento in cui descrive la genesi della prima relazione con l’al-tro, incentrata, durante la “posizione schizo-paranoide” (0-4 mesi), sul senomaterno. In effetti, la distinzione tra un soggetto e un oggetto, così come lanozione di oggetto perdono la loro pertinenza in una relazione arcaica di que-sto tipo, che è plasmata dall’alternanza tra l’introiezione e la proiezione, e cheimplica un va-e-vieni fluido tra situazioni e oggetti interni ed esterni, parti allon-tanate da sé e integrate in sé.

Tuttavia, Klein ricorre a un sistema che, come scrive Jean Laplanche, “fon-ctionne par jeu de paires opposées permettant toutes les mécaniques et tou-tes les stéréotypies”7 e non riesce ad eliminare l’inadeguatezza esistente tra i

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concetti che utilizza e l’esperienza che descrive. In poche parole, siamo tenta-ti di rimproverarle di aver conservato, nella forma la più classica, la nozione dioggetto e la distinzione soggetto-oggetto, che sembra nondimeno contestare,quando descrive il processo che conduce alla genesi della prima relazioneoggettuale, vale a dire il meccanismo paranoide dell’“identificazione proiettiva”.

Tutta la mia argomentazione si sviluppa intorno alla seguente domanda:qual’è la nozione di oggetto che deriva più direttamente dalla descrizionedell’“identificazione proiettiva”? Qual è il senso attribuito da Klein alla primarelazione oggettuale, malgrado il ricorso, talvolta infelice e impreciso, a unaconcettualizzazione inappropriata? Per proporre un abbozzo di risposta a taliquestioni, propongo di utilizzare la filosofia di Merleau-Ponty, che, naturalmen-te, manipola con tutt’altra disinvoltura le grandi coppie concettuali ereditatedalla tradizione metafisica occidentale, per venire qui in soccorso a Klein.

Procedo quindi a una ‘lettura incrociata’ della psicoanalisi di Klein e dellafilosofia di Merleau-Ponty, per stabilire tra questi due autori un dialogo chedovrebbe permettere di mettere in evidenza il fatto che le grammatiche concet-tuali kleiniana e merleau-pontiana, almeno dal punto di vista delle insufficien-ze individuate nel sistema della psicoanalista, si completano in maniera felicee feconda. Così facendo, vorrei fare un passo nella direzione della localizza-zione di un campo di risonanze concettuali tra fenomenologia e psicoanalisi.Che sia completamente fedele o no allo spirito del pensiero di Klein, questa let-tura mi permette di attribuire un senso più forte e chiaro alla nozione di ogget-to che è implicita nella sua descrizione del processo che conduce alla costitu-zione della prima relazione oggettuale.

Il mio percorso si articola in tre momenti. In un primo tempo, faccio una cri-tica della concettualità alla quale si è riferita Klein per descrivere questa primatappa dello sviluppo del bambino, che corrisponde alla posizione “schizo-para-noide” (0-4 mesi). In un secondo tempo, esamino la nozione merleau-pontianadi “carne”. Infine, mi propongo di ritrovare, grazie a questa nozione, una descri-zione più soddisfacente del meccanismo paranoide dell’“identificazione proiet-tiva” e di far valere questa stessa descrizione come espressione del senso,nascosto e originale, della nozione kleiniana di oggetto. È quindi da un’analisidelle insufficienze, individuate nella grammatica concettuale kleiniana e piùprecisamente nella concettualizzazione di questo meccanismo, che occorrecominciare.

In questo tentativo, seguirò le analisi che le dedica Julia Kristeva, nelsecondo volume del suo libro su Le génie féminin, intitolato Mélanie Klein oule matricide comme douleur et comme créativité8.

La coppia io-oggetto e la sua critica

Occorre innanzitutto precisare che Klein presuppone, sin dall’inizio dellavita, l’esistenza di un Io “primitivo”, benché privo di coesione, e di un “primo”oggetto, benché parziale, che corrisponde al seno materno. Ma una letturaattenta dell’articolo Note su alcuni meccanismi schizoidi, permette di accorger-

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NOTE

si che, in questa prima tappa dello sviluppo, denominata “posizione schizo-paranoide”, non esiste una tale distinzione netta (concettuale, naturalmente,non empirica) tra il bambino e il seno materno, tra il cosiddetto io e il suo ogget-to, perché al contrario questi sono presi l’uno nell’altro in un gioco incessantedi proiezione-introiezione, riproiezione-reintroiezione. Detto altrimenti, quelloche esiste all’esterno proviene, secondo questa prospettiva infantile, da quel-lo che è stato espulso, proiettato al di fuori e, reciprocamente, quello che esi-ste all’interno proviene da quello che è stato integrato o introiettato. Brevemen-te, e per riprendere le parole di Julia Kristeva: “Une lecture attentive de ces tex-tes révèle que, malgré l’utilisation de termes comme ‘objet’ et ‘moi’, l’auteur secontente d’établir, à cette étape précoce du début de la vie, une distinctionentre dedans et dehors, intérieur et extérieur”9. Si può ipotizzare che, introdu-cendo il nuovo termine di “identificazione proiettiva”, Klein cercasse di espri-mere proprio questa situazione. Ma, come dimostrerò tra poco, questo termi-ne non risolve il problema di fondo e non evita a Klein una ricaduta nel duali-smo tra l’io e il suo oggetto che cerca di evitare; al contrario, non fa che rive-lare la continuazione inopportuna di questo dualismo.

Mi limiterò per il momento a tratteggiare l’essenziale della spiegazione klei-niana di questo meccanismo, quale si coglie dall’articolo Note su alcuni mec-canismi schizoidi 10.

L’“identificazione proiettiva”

L’identificazione proiettiva è un meccansimo che consiste in una proiezionefantasticata delle pulsioni d’amore sul seno buono e delle pulsioni distruttricisul seno cattivo della madre; questa identificazione nasce dalla deflessioneverso l’esterno della pulsione di morte, e permette al bambino di superare l’an-goscia primaria di essere annientato da questa forza distruttrice sentita all’in-terno.

Melanie Klein introduce per la prima volta questo nuovo termine –“identi-ficazione proiettiva”– che diventerà un concetto centrale nella dottrina deisuoi allievi, nell’articolo Note su alcuni meccanismi schizoidi (1946), nelmomento in cui descrive “la première étape dans la capacité de se relier aumonde extérieur”11 durante la quale nascono l’uno per l’altro il mondo psichi-co del bambino e il mondo dei suoi oggetti esterni. L’introduzione di questoaltro termine –“identificazione proiettiva”– per definire il processo costitutivodella prima relazione del bambino con la madre (incentrata inizialmente sulseno) è il segno di uno spostamento da riconoscere e da interrogare: quelloche Melanie Klein intende sottolineare, è, forse, che il meccanismo della pro-iezione, in quest’epoca arcaica della vita psichica che lei osserva, è ben piùcomplessa di quanto non si accontenti di descrivere e di esplicitare la psicoa-nalisi classica, e quindi che essa esige uno statuto e una determinazione piùprecise. In effetti, quello che lei osserva (e che descrive) è un movimentocomplicato di proiezione-introiezione, di riproiezione-reintroiezione permezzo dei quali l’io primitivo del bambino e questo quasi-oggetto che è il

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seno della madre entrano l’uno con l’altro in un gioco interminabile di identi-ficazioni: per mezzo della proiezione, nella propria fantasia, il bambino sigetta su, o nel, corpo della madre, per prenderne possesso, in modo tale cheil corpo della madre è vissuto/percepito nella fantasia come pieno di partiproiettate del bambino e identico ad esse. Come spiega Hanna Segal, “nellaidentificazione proiettiva parti del Sé e degli oggetti interni sono scissi e pro-iettati sull’oggetto esterno, che diventa allora posseduto e controllato dalleparti proiettate, con le quali viene inoltre identificato”12.

Il difetto principale del concetto dell’“identificazione proiettiva”, che vorreimettere qui in evidenza, risiede in un’illusione legata al concetto di proiezione,di cui l’identificazione proiettiva è una modalità particolare13, tipica della posi-zione “schizo-paranoide”. In effetti, nel momento in cui si parla di proiezione, sisuppone l’esistenza di due termini o entità distinte. Al contrario, l’io primitivo delbambino, in questo periodo di inizio della vita –come sottolinea Kristeva– nonè veramente separato dal seno della madre “comme le sera un ‘sujet’ d’un‘objet’, mais ne cesse de le prendre au-dedans et de l’expulser au-dehors, ense construisant-vidant soi-même tout en construisant-vidant l’autre”14.

Il rischio qui è di vedere sovrapporsi e confondersi (e ciò non significa chia-rirsi reciprocamente), da una parte, il postulato di partenza, riguardante l’esi-stenza, dalla nascita di un io primitivo, benché privo di coesione e di un primooggetto, (il seno della madre), benché parziale, e, dall’altra parte, la descrizio-ne di una relazione che implica un va-e-vieni fluido tra un contenuto, quello cheil bambino proietta et un contenitore, il corpo della madre che arriva a conte-nere le parti ‘cattive’ del bambino. In altri termini, il rischio è qui quello di unacircolarità viziosa che comprometterebbe almeno la pretesa di descriverel’emergenza di una coppia concettuale che, al contrario, è sotterraneamentepostulata alla radice di questa cosiddetta descrizione, o meglio di una descri-zione, già investita e caricata concettualmente.

Si potrebbe suggerire che il meccanismo dell’“identificazione proiettiva”–nella misura in cui stabilisce un va-e-vieni fluido di parti espulse/proiettateall’esterno e integrate all’interno– assomiglia molto alla famosa porosità carna-le dei limiti dentro/fuori. Allora, di fronte a questa incertezza dei limitidentro/fuori che caratterizza la prima relazione oggettuale, parlare di “carne”,piuttosto che di relazione tra un soggetto e un oggetto, sarebbe forse più per-tinente. Per verificare questa ipotesi, occorre ora riprendere la nozione merle-au-pontiana di “carne”.

La carne

La “carne”, in senso merleau-pontiano, il più proprio e fondamentale, designala circolarità nel corpo, nello stesso tempo senziente e sensibile. Essa “è il sensi-bile nel doppio senso di ciò che sentiamo e di ciò che sente”15. Come scrive Pier-re Rodrigo, “fait inaugural de la convenance réciproque d’un sensible et d’un sen-tant, par où se dévoile avec plus ou moins d’acuité et de finesse un sens, la chairs’affecte en étant affectée, s’émeut en étant mue, se ressent en sentant”16.

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NOTE

Si potrebbe dire che la carne si lascia descrivere come uno stesso tessuto,piegato e ripiegato tante volte che è difficile stabilire una vera distinzione tra ildentro e il fuori. Così compresa e incorporata all’analisi della visibilità, la carnedenomina il campo totale del visibile che, da una delle sue pieghe diviene inqualche parte vedente, in modo tale che il vedente, pronunciandosi nell’incavodel visibile, è ancora del visibile. Essa denomina propriamente e fondamental-mente il “medium formatore dell’oggetto e del soggetto”17, il “mezzo di comuni-cazione” tra “la visibilità propria della cosa” e la “corporeità propria del veden-te”18; o anche il tessuto comune del corpo vedente e del mondo visibile,nascenti l’uno per l’altro da una “deiscenza del sensibile”19 che è l’apertura delmondo. In altri termini, con questa nozione, Merleau-Ponty cerca di pensareuna vera co-originarietà tra soggetto e mondo. In questo senso, come lo sot-tolinea T.F. Geraets, “elle n’est pas une ‘solution’ du paradoxe fondamental,elle est ce paradoxe même, en acte, plus éclairant, plus authentiquement‘rationnel’, que tous les concepts purs, mais fermés de ‘sujet’, d’‘objet’, de ‘poursoi’ et d’‘en soi’.”20 Vorrei a questo punto mettere in evidenza l’affinità dellanozione merleau-pontiana di “carne” con l’“identificazione proiettiva”, per pro-porre una lettura di questo meccanismo, che espliciterà la nozione d’oggettoche vi è implicata.

Confronto tra l’“identificazione proiettiva” e la “carne”

Mi sembra che la famosa impurità della “carne” che implica una “ramifica-zione del mio corpo e ramificazione del mondo e corrispondenza del suo inter-no e del mio esterno, del mio interno e del suo esterno”21, rappresenti adegua-tamente questo va-e-vieni fluido “fra oggetti e situazioni interni e oggetti esituazioni esterni”22 che modella la prima relazione oggettuale del bambino conil seno materno. Come nella carnale porosità merleau-pontiana dei limiti inter-no/esterno, il soggetto percipiente, incessantemente intrecciato in chiasma conil mondo, al quale appartiene, mai si perde, ma al contrario si ritrova ancora làdove il mondo si apre a lui, allo stesso modo l’io del bambino si costruiscevedendo se stesso, costruendo-vedendo l’altro. Così compresa, in un prismamerleau-pontiano, l’“identificazione proiettiva” designa una relazione inaugura-le della coppia io/oggetto, io/altro nella quale si osserva che soggetto e ogget-to non diventano se stessi che nascendo l’uno per l’altro sullo sfondo di unasituazione d’indifferenziazione, ma già di discriminazione iniziale tra dentro efuori, tra interno ed esterno. Essa esprime anche, allo stesso modo, il fatto chequesta relazione d’identificazione proiettiva, di proiezione-introiezione, sareb-be impossibile tra un soggetto e un oggetto concepiti secondo il modello car-tesiano come entità positive, piene, distinte l’una dall’altra, pienamente dispie-gate l’una davanti all’altra, e quindi prepara un rinnovamento radicale dellanozione classica di oggetto.

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Conclusione

Al termine di questo esame, m’interessa sottolineare ancora una volta cheil processo costitutivo della prima relazione con l’altro nel mondo del bambino,descritto da Klein, implica la messa in questione della distinzione tra soggettoe oggetto; che questo processo deve essere considerato come la prova empi-rica della realtà del legame e sembra così confermare quello che Merleau-Ponty dice nel capitolo della Fenomenologia della percezione dedicato all’al-tro, vale a dire che non bisogna descrivere la relazione con l’altro come il ‘fac-cia a faccia’ di un soggetto con un oggetto posto di fronte a lui, perché perce-pire il corpo dell’altro, è trovarvi “come un prolungamento miracoloso delle[sue] proprie intenzioni, una maniera familiare di trattare il mondo”23, come se“il corpo altrui e il mio [fossero] un tutto unico, il rovescio e il diritto di un solofenomeno…”24.

Dopo aver messo in evidenza l’inadeguatezza delle nozioni di soggetto e dioggetto e dell’a priori della distinzione, che utilizza Klein, il mio tentativo, con-sistente in un confronto tra il meccanismo paranoide dell’“identificazione pro-iettiva” e la nozione merleau-pontiana della “carne”, non solleva la presunzio-ne, in senso forte, che le riflessioni psicoanalitiche di Klein sarebbero per cosìdire ‘in attesa’ di ricevere una fondazione filosofica. Il mio tentativo non solle-va nessun’altra pretesa che quella di far avanzare la realizzazione del pro-gramma che Merleau-Ponty definiva, quando suggeriva che “la fenomenologiaapporta [sotto questo aspetto] alla psicoanalisi categorie, mezzi di espressio-ne di cui essa ha bisogno per essere del tutto se stessa”25. In questo senso, lafenomenologia merleau-pontiana farebbe ‘avanzare’ la psicoanalisi di Klein,non tanto, lo ripeto, in direzione di una fondazione del suo discorso o della sualegittimità, ma piuttosto nella direzione di una accresciuta coscienza di sé, diuna consapevolezza più acuta delle proprie implicazioni e dei propri presuppo-sti. Più precisamente, si potrebbe sostenere la tesi secondo la quale la descri-zione della genesi della coppia io-oggetto proposta da Klein, sottratta al qua-dro cartesiano e situata all’interno del pensiero merleau-pontiano della “carne”,ci fa meglio comprendere la nozione di oggetto, implicita in questo va-e-vienifluido di frammenti espulsi all’esterno e integrati all’interno.

In effetti, l’oggetto precoce della posizione schizo-paranoïde (vale a dire ilseno materno) è un oggetto paradossale e ontologicamente instabile: essoappartiene al “per sé” perché è una rappresentazione, un’immagine interiorecostruita dal fantasma inconscio e, nello stesso tempo, appartiene all’“in sé”perché essendo costituito di elementi sensoriali e materiali come dei pezzibuoni e cattivi del seno esiste all’esterno dove –come sottolinea Julia Kriste-va– “le moi infantile le situe comme extériorité dès le début de la vie”26. Si dirà,da un lato, che l’oggetto della posizione schizo-paranoïde si lascia descriverecome dentro, che ossessiona o minaccia l’io e che questi è costretto ad esor-cizzare per mezzo di un processo proiettivo, situandolo fuori di sé, in un ogget-to esterno onnipotente; e si dirà dall’altro lato, che il ‘successo’ di quest’opera-zione di proiezione dipende dalla presenza di un oggetto reale. Un tale sconfi-namento dell’oggetto sull’io e dell’io sull’oggetto sembrerà strano solo se ci

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NOTE

rifiutiamo di considerare, con Merleau-Ponty, la carne come punto di partenzadella relazione soggetto-oggetto, la carne che è, lo ripetiamo, “indivisione diquesto Essere sensibile che io sono, e di tutto il resto che si sente in me”27.Detto altrimenti, un tale sconfinamento ci stupirà solo se pensiamo la relazio-ne io-oggetto senza tener conto della situazione d’indivisione tra il corpo e ilmondo che ne è lo sfondo.

Si dovrà ammettere anche che, in un’ottica cartesiana, l’oggetto orale delbambino è un oggetto molto strano e sconcertante perché, visto attraverso lelenti proiettive del bambino, l’oggetto della posizione schizo-paranoide è, perun verso, l’istanza esterna alla quale si attacca la pulsione di morte –vale a direuna realtà esterna– e, per l’altro, un’istanza interna d’identificazione –vale adire una realtà psichica.

Per quanto incomprensibile possa sembrare da un punto di vista cartesia-no, una tale situazione dell’oggetto non sembrerà però sconcertante se siammette con Merleau-Ponty che il “dentro” e il “fuori” sono “dimensions de lacorporéité, avant d’être dimensions d’esprit et corps ou réalité”28.

Concludo sollevando la seguente domanda: un tale oggetto nel quale ilbambino investe una parte del suo io e che esprime di ritorno quello che è, untale oggetto che, nella sua fantasia onnipotente fa parte di lui e continua la suaunità prenatale con la madre, a cosa sarà destinato? Se si segue il camminoaperto da Merleau-Ponty, un tale oggetto si rivela utile e pertinente –mi sem-bra– per comprendere il nostro rapporto con l’altro, che è inconcepibile se sitenta di pensarlo come uno star di fronte ad un oggetto visto dall’esterno, per-ché l’altro “è preso nel circuito che lo collega al mondo, come noi stessi, e conciò anche nel circuito che lo collega a noi”29.

Proprio come l’oggetto precoce, il corpo dell’altro “è come una replica di mestesso, un doppio errante ; esso frequenta il mio ambiente più che comparir-vi, è la risposta inopinata che io ricevo altrove, o come se per miracolo le cosesi mettessero a dire i miei pensieri”30. “Ogni altro”, prosegue Merleau-Ponty, “èun altro me stesso. È come quel doppio che quel malato sente sempre al suofianco, che gli assomiglia come un fratello, che non sa come fissare senza farloscomparire e che visibilmente non è che un prolungamento oltre se stesso”31.Questo tipo di oggetto permette dunque una comprensione più adeguata dellanostra esperienza dell’altro e costituisce, a questo fine, una risorsa ontologicapiù appropriata del sistema concettuale cartesiano.

1 Questo saggio è stato presentato il 12 marzo 2005 all’Université de Paris –I Panthéon– Sor-bonne con il titolo Merleau-Ponty/Mélanie Klein: Une confrontation possibile, in occasione di unconvegno di formazione dottorale sul tema “Phénoménologie et psychanalyse”.

2 M. MERLEAU-PONTY, Fenomenologia della percezione, Bompiani, Milano 2003, p. 453.3 M. MERLEAU-PONTY, Il visibile e l’invisibile, Bompiani, Milano 1999, p. 157.4 M. MERLEAU-PONTY, Fenomenologia della percezione, cit., p. 461.5 M. MERLEAU-PONTY, Il visibile e l’invisibile, cit., p. 274.6 Ivi, p. 280.

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7 J. LAPLANCE, Faut-il brûler Mélanie Klein? in La révolution copernicienne inachevée, Aubier,Paris 1992, p. 221.

8 J. KRISTEVA, Le génie féminin, Gallimard, Paris 2003.9 Ivi, p. 101.10 M. KLEIN, Note su alcuni meccanismi schizoidi, in Scritti (1921-1958), Boringhieri, Torino

1978.11 H. SEGAL, Mélanie Klein: développement d’une pensée, P.U.F, Paris 1982, p. 114.12 H. SEGAL, Introduzione all’opera di Melanie Klein, Martinelli, Firenze 1968, p. 33.13 Ricordiamo che Melanie Klein distingue l’“identificazione proiettiva”, quale modalità della

proiezione dall’“identificazione introiettiva”, che è una modalità dell’introiezione. 14 J. KRISTEVA, Le génie féminin, cit., p. 102.15 M. MERLEAU-PONTY, Il visibile e l’invisibile, cit., p. 271.16 P. RODRIGO, Ni le corps ni l’esprit. La chair de Husserl à Merleau-Ponty, in “Studia Phæno-

menologica”, vol.III, n. 3-4, 2003, p. 117.17 M. MERLEAU-PONTY, Il visibile e l’invisibile, cit., p. 163.18 Ivi, p. 151.19 Ivi, p. 160, nota. 20 T.F. GERAETS, Vers une nouvelle philosophie transcendantale, Martinus Nijhoff, La Haye

1971, p. 181.21 M. MERLEAU-PONTY, Il visibile e l’invisibile, cit., p. 150, nota.22 M. KLEIN, Note su alcuni meccanismi schizoidi, in Scritti (1921-1958), cit. p. 410.23 M. MERLEAU-PONTY, Fenomenologia della percezione, cit., p. 459.24 Ibid.25 M. MERLEAU-PONTY, Prefazione a A. Hesnard, L’opera di Freud, Sansoni, Firenze 1971, p. 7.26 J. KRISTEVA, Le génie féminin, cit., p. 103.27 M. MERLEAU-PONTY, Il visibile e l’invisibile, cit., p. 267.28 M. MERLEAU-PONTY, Nota inedita, volume XVII dei Manoscritti depositati presso la Bibliothè-

que Nazionale de France, foglio 99 verso.29 M. MERLEAU-PONTY, Il visibile e l’invisibile, cit., p. 280.30 M. MERLEAU-PONTY, La prosa del mondo, Editori Riuniti, Roma, 1984, p. 137.31 Ibid.

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NOTE

SAVIGNANO LETTORE DI MARÍA ZAMBRANOdi Nunzio Bombaci

Armando Savignano, docente di Filosofia Morale presso l’Università di Trie-ste nonché autore di importanti saggi su Miguel de Unamuno, Xavier Zubiri,Ortega y Gasset, è indubbiamente uno dei più noti studiosi italiani della filoso-fia spagnola del Novecento. Questo volume –piccolo nella mole ma estrema-mente ricco di riferimenti agli autori suddetti– è dedicato al percorso intellettua-le di María Zambrano (Vélez-Malaga 1904 – Madrid 1991) e costituisce unaulteriore attestazione della competenza con cui egli tratta i nodi teoretici più rile-vanti di tale filosofia. Per lo studioso che non si è mai accostato al pensiero ibe-rico novecentesco, esso può costituire un valido stimolo a prestare maggioreattenzione a un ambito culturale non ancora conosciuto in modo adeguato.

Il libro (María Zambrano. La ragione poetica, Marietti 1820, Genova-Milano,2004, pp.163) ripercorre la parabola esistenziale e filosofica di un’autrice chela cultura italiana ha scoperto solo da qualche lustro e, nella ricorrenza del cen-tenario della nascita, intende offrire –in una prospettiva tutt’altro che “venerati-va e meramente esegetica”– un contributo alla valutazione della originalità delsuo pensiero, “la cui attitudine può essere considerata una filosofia in tempo dicrisi” (p.9). Sul piano dossografico, peraltro, il volume offre un valido approccioalla più autorevole letteratura secondaria riguardante l’opera zambraniana (A.Guy, A. López Quintas, J.J.L. Aranguren, J.F. Ortega Muños, J. Moreno Sanz,Ch. Maillard, A. Bundgard).

In particolare –osserva Savignano– Chantal Maillard, ha esaminato le con-dizioni di possibilità della “ragione poetica” di Zambrano quale peculiare formadi conoscenza. Tale indagine pone in luce che “il fare proprio dell’uomo che fase stesso, è ragione poetica, ragione creatrice (p.15). Opportunamente, Mail-lard presta attenzione al topos zambraniano espresso metaforicamente come“sogno creatore”: la vita stessa è sogno, la nascita comporta sia la nostalgiaper il paradiso perduto sia l’accesso alla libertà connaturale all’esistenza. AnaBundgard, da parte sua, evidenzia che, con il passare degli anni, per Zambra-no la ragione poetica “si trasforma da metodo di apprensione della realtà edella storia a attitudine mistica” (pp.15-16). Ancora, secondo questa studiosa,nelle opere della maturità, allorché l’autrice andrebbe “al di là della filosofia”(más allá de la filosofia), la scrittura zambraniana diventa “trascrizione” delle“ragioni del cuore”, luogo di rivelazione dell’essere e della verità. Sta qui il“segreto” che coincide con lo stesso atto di scrivere, come sottolinea proprioZambrano in Por qué se escribe (1934) e Hacía un saber sobre el alma (1950).Savignano ritiene di potere sintetizzare quanto i critici summenzionati hannoaffermato riguardo alla ragione poetica scrivendo che essa costituisce una

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“attività fenomenologica”, poiché “non si tratta di descrivere il darsi diretto di unoggetto nella sua intentio recta ma di costeggiarlo, facendo sorgere da un direindiretto la sua configurazione come accadimento intimo. La ragione poetica[…] svela l’azione stessa in cui hanno luogo le forme intime della vitaumana”(p.18).

Nel suo saggio, Savignano mette in rilievo la forte connotazione etico-poli-tica degli scritti anteriori all’esilio, nei quali la filosofa si schiera a favore dellacausa repubblicana e contro le forze reazionarie. Zambrano vi propugna una“riforma dell’intelligenza” volta a “rompere il mutismo del mondo”. In questi anniella sottolinea l’esigenza di contribuire all’affermazione di una democrazia fon-data sui valori della persona. Mentre la coeva riflessione personalista, in augesoprattutto in Francia e Germania, contrappone non di rado le nozioni di “per-sona” e “individuo”, negli scritti politici dell’autrice si riscontrano lapidarie affer-mazioni riguardanti la differenza tra “persona” e “personaggio”: “il personaggio,per quanto sia storico, lo rappresentiamo, mentre la persona lo siamo”(Perso-na y democrazia, 1958, cit. a p. 62). Essere necessariamente persona equiva-le, per Zambrano come per Ortega, a essere “necessariamente libero”. Lademocrazia, poi, è per la filosofa “la società dove è permesso, anzi necessa-rio essere persona”.

A giudizio di Savignano, gli scritti giovanili di Zambrano vanno comunqueesaminati “alla luce delle suggestioni mutuate dal maestro Ortega, del senti-mento tragico di Unamuno, della metafisica pratica di Machado e del siste-ma antropologico-religioso di Zubiri” (p.9). Negli anni del lunghissimo esilio,poi, l’autrice va elaborando la categoria di “ragione poetica” e tributa grandeattenzione alle connessioni, vitali e tenaci sebbene non sempre manifeste,tra filosofia, poesia e mistica. La “ragione poetica”, in fondo, viene conside-rata da Savignano come il principium individuationis del pensiero maturo(ovvero della “filosofia poetica” o “poesia filosofica”) di questa “discepola ete-rodossa” di Ortega y Gasset, l’assertore della “ragion vitale”. Per l’autrice, laragione poetica offre un percorso volto ad affrancare il pensiero dall’astrat-tezza del razionalismo e dell’idealismo. Nelle opere più tarde, inoltre, si rav-visa una chiara attitudine mistica, e “Zambrano volta le spalle alla storia perfare appello al sogno creatore e decifrare attraverso la scrittura quel segretoonde comunicarlo nel segno della pietà che equivale a saper trattare ade-guatamente con l’altro”(p.10). In tali scritti l’intento dell’autrice è quello direcuperare l’“unità originaria” di filosofia, poesia e religione, ovvero quell’uni-tà antecedente al costituirsi della metafisica nel pensiero occidentale. Ellaspera che, dopo l’allontanamento della filosofia dalla poesia, la loro unità siricomponga, e scrive: “Non sarà possibile che un giorno fortunato la poesiaraccolga tutto ciò che sa la filosofia, tutto ciò che apprese nel suo allontana-mento e dubbio, per fissare lucidamente e per tutti il suo sogno?” (Filosofiay poesia, 1939, cit. a p.100).

Uno dei motivi di interesse del saggio di Savignano è costituito dal serratosusseguirsi degli agili quanto penetranti parallelismi che esso istituisce traZambrano e autori quali Unamuno, Ortega, Zubiri e Machado, rilevando il debi-to intellettuale da lei contratto nei loro confronti e, al contempo, l’autonomia con

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cui la filosofa –come, del resto, ogni autentico discepolo– sa avvalersi dei gua-dagni teorici di questi maestri per costruire il suo percorso. Lo studioso, per-tanto, non manca di rilevare le analogie e le differenze tra la ragione poetica diZambrano, la ragion vitale di Ortega, la religione poetica nell’agonismo di Una-muno, la fede poetica di Machado, nonché tra il “sentire illuminante” di cui parlal’autrice e l’“intelligenza senziente” delineata da Zubiri.

Zambrano, che appartiene alla “generazione del ’27”, nutre una profondaammirazione per “don” Miguel de Unamuno, il gigante della “generazione del’98”, del quale apprezza –e, in España, sueño y verdad (1965), fa suo– il“discorrere per metafore”, modalità originaria di accesso al reale, radicata nel-l’immaginazione creatrice, e che nel reale stesso coglie ciò che sfugge allapresa del pensiero concettuale. La metafora, per Unamuno e Zambrano, vei-cola quella sapienza poetica che è l’unica matrice della poesia e della filosofia,e in particolare della filosofia spagnola, poco propensa ad esprimersi nellaforma dei grandi sistemi. Per entrambi, solo un pensiero che sappia restaura-re i legami vitali tra la filosofia e la conoscenza poetica, la quale coglie la veri-tà delle cose quasi per tactum intrinsecum, può validamente delineare un per-corso di salvezza per l’uomo europeo prostrato dalla crisi spirituale.

Ancora, per Unamuno e Zambrano, l’uomo si coglie originariamente nel“sentirsi” anziché nel “pensarsi”. Zambrano, in Para una historia de la piedad(1989), scrive che l’uomo concreto “ha” determinate “funzioni psichiche”, men-tre non si può propriamente dire che “abbia” il “sentire”, poiché “è”, innanzitut-to, “sentire”. In questo sentire originario, l’uomo coglie, per Unamuno, la suastessa finitezza. A quella che Ricoeur chiamerebbe “la tristezza del finito”, l’uo-mo di Unamuno reagisce affermando vigorosamente la sua volontà di immor-talità, e abbraccia pertanto una fede fortemente permeata dal volontarismo.Per Zambrano, invece, nello stesso “sentire” l’uomo fa esperienza della “lace-razione del proprio essere rispetto all’essere originario, dove il reale formavaun tutto armonico e unitario” (pp. 24-5). Alla nascita consegue la nostalgia perl’essere originario, ma anche l’impulso ad autocrearsi per riunirsi ad esso.

Per Zambrano, se Unamuno è “autore” in quanto reca “parole di poeticacomunione” ed esprime in modo paradigmatico il genio spagnolo, Ortega è“scrittore” e “filosofo” (Ortega, filósofo español, 1949). La ragione di Ortega,per l’autrice, vuole innanzitutto intendere se stessa “per poter intendere la vita”.Aranguren ha scritto che, se la filosofia di Ortega è fatta di idee, quella di Zam-brano è fatta con le parole; il primo, cui non è estranea “l’ansia di sistema”, siesprime di preferenza nel saggio, la seconda nel frammento. La differenza trala “ragion vitale” di Ortega e la “ragione poetica” di Zambrano (variante o rin-negamento della prima?) ha costituito materia di ampia discussione tra i criti-ci, per i quali è inoltre tutt’altro che scevro di problematicità il rapporto della filo-sofa con la “scuola di Madrid”. La ragion vitale, ovvero il “logos del Manzana-res” è volta a integrare, a “salvare le circostanze”, la ragione poetica è inveceluce che si proietta su una zona di penombra, poiché, nelle parole di Zambra-no, “si fa carico delle viscere” (De la aurora, 1986), penetra nelle viscere stes-se, nelle entrañas, fondo oscuro dell’umano che è al di qua e al di là della cor-rente dicotomia tra “mente” e “cuore”. Allo scrivente sembra di potere aggiun-

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gere che la ragione poetica vuole desentrañar, ovvero portare alla luce/le-viscerare, ciò che trova il suo luogo nelle entrañas.

Ancora, il logos zambraniano, che pur non nega di avere avuto nellaragione orteghiana uno stimolante punto d’avvio, riconosce la sua ascenden-za orfico-pitagorica, nonché l’affinità con il logos di cui parlava Empedocle, ilquale “si deve ripartire bene per le viscere”. Osserva Savignano al riguardo:“Zambrano ricerca l’oscurità delle ‘viscere’, quell’‘abisso della divinità’, chesostiene l’essere e che si tinge di nostalgie religiose e di rivelazioni mistiche:altrettante attitudini affatto distinte e distanti” (p. 38). In sintesi, per il critico,ella, a differenza di Ortega, non ravvisa un percorso di salvezza semplice-mente nella “riforma della ragione” propugnata dal maestro, ma in una ragio-ne che si ampli e si transvaluti fino ad accostarsi senza timore alle “zoneinsondabili dell’irrazionale” o, in altre parole, fino ad attraversare “le viscere”.Ancora prima della prognosi della crisi, è differente, nei due autori, l’analisidella temperie culturale europea. Per Ortega, essa comporta il declino dideterminate “credenze” sulla vita e sul mondo, mentre Zambrano, che purnon nega tale fenomeno, rileva tuttavia il carattere di “rivelazione” propriodella crisi, che permette di “poter vedere con più chiarezza” la vita umana.Per l’autrice di La agonía de Europa (1945), non si tratta soltanto dell’avven-to di una crisi delle “credenze”, ma “della messa in discussione del rapportotra l’essere umano e la realtà, con il conseguente venir meno del fondamen-to stesso di ogni credenza che in definitiva è di origine sacra” (p. 65). Eppu-re, l’esperienza della precarietà, del non-essere, del negativo, che la crisicomporta è, per Zambrano, il terreno in cui si può affermare la speranza, lalotta contro il nulla per “nascere continuamente”.

Se per Unamuno (Agonía del cristianesimo, 1924) è innanzitutto il cristia-nesimo ad essere “agonico”, per Zambrano è l’Europa tutta a dovere dispiega-re una tempra “agonica” per superare una crisi che è soprattutto spirituale. Asuo giudizio, inoltre, l’Europa non ha realizzato il cristianesimo tout court, ma“la versione europea del cristianesimo”. Mentre il Mounier di Feu la chretienté,nella Francia degli anni Quaranta, rileva nella cristianità europea i segni di unaagonia che prelude alla morte, senza che ciò precluda il sorgere, anche in altricontinenti, di altre culture vivificate dal cristianesimo, Zambrano ritiene legitti-mo chiedersi se sia possibile l’avvento di un’altra “versione” del cristianesimo,che sia cristiana ed europea al contempo. Per lei, comunque, l’Europa, anchese “agonizza”, non potrà morire del tutto.

Savignano non manca poi di rilevare i punti di convergenza tra il pensierozambraniano, aperto peraltro alle sollecitazioni dell’umanismo socialista, e la“metafisica poetica” di Antonio Machado, “con speciale riferimento alla ragionepoetica incentrata sul nulla quale base dell’essere, alla dialettica tra sacro e divi-no, alla funzione della parola creatrice quale via di incontro dell’essere alla lucedella critica all’attitudine razionalistica” (pp. 41-2). Zambrano ravvisa in Machadoun poeta profondamente partecipe della “mistica popolare” e animato nella suaopera da una forte tensione etica. Va detto, comunque, che, mentre Machadodistingue tra poesia e filosofia, Zambrano, che filosofa poeticamente e poetizzafilosoficamente, vuole risalire all’unità originaria tra la prima e la seconda.

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Anche il rapporto tra Zambrano e Zubiri presenta non pochi motivi di inte-resse. I corsi su Aristotele tenuti a Madrid da questo grande metafisico sem-bravano particolarmente “oscuri” alla giovane, che comunque trasse dallalezione zubiriana un forte impulso a studiare Spinoza e Plotino. Per quantoattiene agli esiti teoretici del rapporto Zambrano/Zubiri, si può dire che per l’unoe per l’altra, distanti al riguardo da Ortega, “l’essere ci viene dato nel sentire”.D’altronde va posta in rilievo la non sovrapponibilità tra l’“intelligenza senzien-te” di Zubiri e il “sentire illuminante” di Zambrano. Per il primo, è in virtù dell’in-telligenza senziente che l’uomo –unico “animale di realtà”– “apprende” la real-tà stessa. Nell’apprensione del reale non ha luogo alcuna dicotomia tra “intel-lezione” e “sensazione”, in quanto queste sono compresenti in un unico atto,l’intelligenza senziente. Quanto al sentire illuminante di Zambrano, per Savi-gnano esso è “un’esperienza ineffabile e mistica, in cui si attua l’identità trapensare e sentire” e che si potrebbe accostare “all’apprensione primordiale direaltà dell’intelligenza senziente” (p. 54).

Sempre per quanto riguarda il confronto tra Zambrano e Zubiri, il rapportotra uomo e divino si configura in modo diverso nei due filosofi, autori rispettiva-mente di El hombre y lo divino (1955) e El hombre y Dios (1984). Se “per Zubi-ri si perviene a Dio attraverso l’analisi della realtà nella quale anche l’uomo èimpiantato e ‘re-legato’, per Zambrano il divino si mostra, non senza nostalgia,nell’assenza, nel nulla. La ‘scoperta’ di Dio assume in Zambrano una dimen-sione di vera ‘tragedia’, consistente nel ‘non poter vivere senza dei’, mentre perZubiri l’uomo è fondamentalmente esperienza di Dio” (pp.124-5). In El hombrey lo divino Zambrano delinea una sorta di “topografia dell’Occidente”, attraver-so la ricognizione delle forme in cui si è articolato al suo interno il rapporto tral’uomo e il trascendente, dalla primigenia avvertenza del “sacro”, del “pienodella pienezza arcana, sacra” che “perseguita” l’uomo, alla rivelazione del divi-no –gli dei appaiono allorché si apre un varco nel “pieno”del sacro– all’avven-to del cristianesimo, fino al processo spirituale che si svolge nella modernità econduce all’eclissi del divino.

Il saggio di Savignano, oltre a porre in rapporto María Zambrano con i piùgrandi filosofi spagnoli del Novecento, prende anche in esame l’originale mododi declinarsi dell’identità ispanica nel pensiero dell’autrice, soprattutto duranteil periodo dell’esilio (pp. 75-91). La riflessione su tale identità si afferma proprioallorché ella fa l’esperienza dello sradicamento e le si rivela la verità della con-dizione dei “des-terrati” (desterrados), di coloro che non trovano più sostegnonella “storia”, né in un “mondo”: l’esiliato è l’uomo estraniato persino dalla pro-pria “circostanza”, per dirla con Ortega. Durante l’esilio, nella prospettiva zam-braniana destinato a transvalutarsi da evento storico a categoria metafisica, lafilosofa apprende che la temporalità è la “sostanza della nostra vita” e che lacondizione umana è pellegrinaggio di chi “vive morendo”. Allora, il “muero por-que no muero” di Teresa d’Avila –che, da mistica, considera questa vita comeun esilio dall’Amato, voluto dall’Amato– potrebbe essere condiviso da chi spe-rimenta la realtà di un esilio diverso, imposto dalla violenza degli uomini eaccettato per rimanere fedele alle proprie convinzioni.

L’esilio assurge comunque nella riflessione di Zambrano a luogo di rivela-

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zione dell’essere, nel quale los bienaventurados, “i beati”, possono fare espe-rienza dell’unità originaria, accostata nella nostalgia e nel sogno, tra essere evita. Nel libro Los bienaventurados (1990), ella afferma che la stessa”immen-sità dell’esilio” è simbolo della patria anteriore alla nascita, luogo al di qua dellaseparazione tra senso e bellezza, giungendo a scrivere: “Amo il mio esilio”.

Savignano osserva che, negli anni dell’esilio, la filosofa coglie l’essenzadello spirito spagnolo “in una dimensione a-storica e mediante la ragione poe-tica” (p. 76). Per Zambrano, il nucleo generativo della cultura spagnola, esegnatamente della cultura popolare, non è tanto l’“impressionismo” volto acogliere la “sensazione viva delle cose” di cui parla Ortega, ma è un singolarerealismo, una peculiare attitudine conoscitiva svincolata dalla volontà, checomporta “una relazione immediata e spontanea con le cose, delle quali si èinnamorati e a cui ci si sente legati, incatenati a tal punto da mettere a repen-taglio la stessa libertà” (pp. 83-4). La filosofa ravvisa in Seneca –pensatorealieno dalla “volontà di sistema”, fautore non di una “ragione pura” ma di una“ragione addolcita”, la quale sa dare voce alle ragioni del cuore ed essere tera-peutica e consolatrice dei mali dell’animo– un testimone autorevole del geniospagnolo (El pensamiento vivo de Séneca,1944). Il carattere ispanico consen-te a Seneca, pur in un tempo di profonda crisi, di mantenersi fedele ai valoridella tradizione in cui si è formato.

Zambrano si rapporta con una pietas discreta non solo alle figure storichedal destino tragico, come Seneca, ma anche ai personaggi del romanzo e dellatragedia. Ha scritto una studiosa spagnola: “In diversi luoghi della sua opera,María Zambrano, di fronte a un fatto, o a un personaggio della letteratura, haconsiderato il romanzo, o la tragedia, come luogo di salvezza, ove sembra ver-rebbero a consegnarsi questi personaggi ormai dotati di un ‘essere’ dal lorocreatore, e che hanno trasceso la loro propria storia” (Julia Castello, “La tumbade Antigona”: tragedia y misericordia, in AA.VV., El pensamento de María Zam-brano, Madrid, 1983, p.106).

È di particolare interesse, alla luce di tali considerazioni, la rilettura propo-sta da Zambrano dell’Antigone sofoclea. In La tumba de Antígona (1967), ellaapporta un’importante modifica alla vicenda dell’eroina, suicida nella tragediadi Sofocle. Nella reinterpretazione di Zambrano, Antigone, reclusa nella tomba,vive invece un ulteriore dramma interiore, che la conduce a una nuovacoscienza di sé. Savignano osserva che questa opera, vista talora dai criticicome”tragedia autobiografica e religiosa” o come “confessione poetica” di chiha conosciuto la guerra civile e l’esilio, è stata anche interpretata quale “arche-tipo della coscienza aurorale dell’uomo mediante il sacrificio quale scaturiginedella coscienza umana nella libertà e nella pietà” (p. 106). L’Antigone zambra-niana, attingendo la chiara coscienza di sé, aprendosi all’amore e alla pietà, siaffranca anche dalla predestinazione divina. Ella diventa qui l’archetipo della“stirpe dei murati”, alla quale appartiene anche María Zambrano: non solo“murati vivi”, ma “viventi”, che conducono la loro esistenza “in luoghi sognati oin mezzo alle città tra uomini indifferenti”, in un tempo “che li avvolge in unaspecie di grotta che può nascondere un prato o un giardino in cui viene offer-to loro un frutto puro o un’acqua viva che occultamente li sostiene: sogno, car-

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cere, a volte, silenzi impenetrabili, malattia, alienazioni” (La tumba de Antigo-na, cit. a p.107). Come Giobbe, altra figura su cui ha indugiato la pietas di Zam-brano in El hombre y lo divino, allorché è abbandonato dal “suo” Dio –dal Diofino allora che aveva vegliato sulla sua tenda– avverte il mistero della propriatrascendenza, nella impossibilità stessa di sopprimere la sua coscienza, persi-no quando non è più che un “viscere” nudo che geme e grida, così Antigone,nella sua reclusione, perviene alla chiarezza dell’autocoscienza che, insoppri-mibile, trascende anche la condanna degli uomini e i dettami del destino.

Lo stesso atteggiamento di rispetto informa la lettura del Don Chisciotte diCervantes proposta da Zambrano. Anche don Chisciotte diventa nella riflessio-ne dell’autrice una figura paradigmatica, archetipo dell’uomo “la cui volontàurta con la realtà storica rispetto alla quale egli si rifugia nella follia per addita-re la giustizia e il bene” (p. 109). L’eroe di Cervantes, testimone dei valori chesostengono la convivenza umana, quali la solidarietà e la fiducia, è “solo e lon-tano dagli uomini”, ma non ne è isolato, poiché è “unito e coinvolto con essimediante la volontà”. La sua volontà, anzi, è così forte da rendere reale que-sto “ente di finzione” quanto gli essere umani in carne e ossa. Ciò vale perZambrano come per Unamuno. Ancor più degli uomini in carne e ossa, donChisciotte custodisce un mistero e un’ambiguità che resiste a ogni tentativo dichiarificazione. Zambrano, pertanto, non manca di rilevare il limite delle inter-pretazioni di questa figura proposte da Unamuno e Ortega, che credono con leloro analisi di potere dissolvere il mistero del personaggio, di “questa figuraquasi mitologica della coscienza”. Essa, come i personaggi letterari e gli uomi-ni reali, reca in sé un “sogno” refrattario alla descrizione fenomenologica. Neiconfronti di don Chisciotte, l’atteggiamento di Zambrano è forse più simpateti-co rispetto a quello di Cervantes, cui viene rimproverato l’avere trasformatol’eroe tragico in personaggio romanzesco, esposto alla burla per avere tentatol’impresa, legittima perché umana quanto nessun’altra, di “inventare se stes-so”, identificandosi con il proprio sogno.

Ancora, la pietas di Zambrano nei confronti degli “enti di finzione” –espres-sione che, alla luce di quanto detto, non rende giustizia alla consistenza dellaloro verità umana– ha modo di dispiegarsi in pagine molto suggestive allorchéella presta attenzione ai personaggi dei romanzi di Benito Perez Galdós (1843-1920). Questi, in particolare nel romanzo Misericordia, ha per lei il merito diavere “transustanziato” in poesia l’essere della Spagna, di avere rappresenta-to il popolo spagnolo “come è in realtà, vero, come una parola di Dio” (Delirioy destino, 1952, cit. a p. 117), perforando la superficie dei fatti storici per rag-giungere la “corrente della vita che li alimentò” (La España de Galdós,1960).

Nei personaggi galdosiani, Zambrano coglie il conflitto connesso “al duali-smo tra vita e storia, vita e realtà, realtà e verità: altrettanti elementi che allu-dono ad un principio unitario perduto, ad un centro preesistente al risvegliodella coscienza” (p. 120). La realtà si presenta come caos, lacerazione, disper-sione –quasi come il regnum dissimilitudinis della tradizione agostiniana– men-tre la vita è “unità” allorché è vissuta non dal personaggio ma dalla persona.L’esperienza della vita come unità accade in momenti, in luoghi privilegiati, nei“chiari del bosco che gli alberi hanno nascosto”. Claros del bosque è, appun-

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to, il titolo di uno dei libri più noti di Zambrano, pubblicato nel 1977. Per il poetaJ.A. Valente il sapere che si rivela nel chiaro del bosco è un “sapere della paro-la perduta”, secondo A. Bundgard nell’opera “la verità si mostra in un’esperien-za al di là del linguaggio, nell’ineffabile simboleggiato nel ‘chiaro’, che allude auna ‘parola originaria’ trascendente il linguaggio ordinario” (p.154). Savignanoscrive che l’autrice prospetta nel libro “una ‘nuova filosofia’, incentrata sul-l’ascolto della voce dell’essere occulto che a tratti si svela rendendosi visibi-le”(p.155). La ragione poetica coglie qui un sapere frutto di esperienza, “la pre-senza di un’assenza” che è indice del sacro e che precede ogni articolazionelinguistica. Non si tratta di una verità oggetto di una visione, ma della verità cheesige l’attitudine dell’ascolto.

Il claro del bosque, analogamente alla Lichtung di Heidegger è “luogo diincontro simultaneo di luce ed oscurità, dove l’esistente è illuminato nel suostesso essere” (p. 156). Si tratta, per Zambrano, di un luogo accessibile nonalla ragione strumentale –ché, anzi, l’egemonia di questa ha condotto finoall’oblio dell’essere e all’eclissi del divino– ma alla ragione poetica del poeta-filosofo, di colui che in momenti di abbandono mistico può, attraverso la disce-sa agli inferi, alle “viscere” (quasi attraversando la “notte del senso” e la “nottedello spirito”, nel linguaggio di San Giovanni della Croce), attingere quel “sen-timento illuminante” ove coglie il vincolo tra l’uomo e il sacro nell’amore, fiam-ma che arde senza mai consumarsi.

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DEMOCRAZIA PLURALISTICA E SOCIETÀ GLOBALE IN MICHAEL WALZER

di Piero Venturelli

Da sempre scettico nei confronti di ogni sorta di filosofia speculativa o stretta-mente normativa, Michael Walzer è interessato ad esaminare situazioni reali e amisurarsi con gli aspetti più prosaici della dimensione politica (marce, congressi,campagne ecc.), prestando contestualmente attenzione cospicua al particolare, etuttavia rifiutando di arrestarvisi: mentre da un lato egli sovente non disdegna diallargare la sua prospettiva d’indagine, dall’altro mostra però di considerare vellei-taria la pretesa di raggiungere dimensioni onnicomprensive. Basare le proprieanalisi su casi concreti e sulle tensioni del vivere associato, richiamandosi allasfera dell’ordinario, lo porta a ricusare sistematicità e ambizioni fondative, cui convigore contrappone una critica effettuata nel nome del senso comune. Inoltre, egligiudica opportuno adottare un approccio laico e pragmatico per prestare ascoltoalla voce degli uomini riuniti in società, salvaguardando la facoltà di ciascuno didissentire, e per promuovere più acute interpretazioni del mondo. Come si osser-va, Walzer intende mettere sotto scacco le forme assolutistiche di pensiero grazieagli strumenti della pubblica discussione e della trattativa, evidenziando così diattribuire un ruolo cruciale nell’esistenza umana alla dimensione attiva e parteci-pata della politica, nelle cui possibilità egli nutre grande fiducia.

Di queste posizioni walzeriane offre una testimonianza di prim’ordine larecente selezione di saggi Il filo della politica. Democrazia, critica sociale, gover-no del mondo1, volume che raccoglie sei testi scritti dal critico americano tra il1971 e il 2000. Considerevole è, in particolare, lo spazio che l’Autore qui riservaall’idea e alle funzioni della società civile. “L’espressione ‘società civile’ –affermaWalzer– definisce lo spazio di associazione umana non coercitiva e altresì l’in-sieme di sistemi relazionali –formati per motivi di famiglia, di fede, d’interesse, ed’ideologia– che riempiono questo spazio”2. In tale “ambiente degli ambienti”, gliindividui possono essere liberi ed eguali, connessi fra loro e mutuamente respon-sabili, giacché sono tutti potenzialmente inclusi e nessuno vanta privilegi. Suquesto terreno agisce la politica che –spiega Thomas Casadei nell’ampia notaintroduttiva all’opera– si configura, per Walzer, “come delimitazione di spazi,creazione di forme, relativamente stabili, di confini, come costruzione di relazio-ni fra soggetti e gruppi identificabili anche nelle loro differenze”3. Pertanto, secon-do l’autore americano, il compito della politica consiste nel garantire la possibili-tà delle relazioni sociali, nelle loro manifestazioni cooperative e conflittuali, men-tre per i communitarians più radicali essa è finalizzata a costituire l’identità, adare ragioni di vita o ad assicurare la rigenerazione spirituale. Tuttavia, egli ritie-ne che la politica possa stimolare il dibattito e la capacità deliberativa dei cittadi-ni, ossia dare veramente i suoi frutti, solo nel caso in cui non venga delegato

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completamente a funzionari, esperti o giudici il compito di decidere. Questa suacritica è palesemente indirizzata a filosofi normativi contemporanei quali JohnRawls, Ronald Dworkin, Bruce Ackerman e Jürgen Habermas.

La presenza di uomini e donne dinamici e impegnati a diversi livelli fa sor-gere un aperto e proficuo contraddittorio intorno ai differenti progetti circa lostato, la nazione, l’economia e il mercato, concezioni che sono relativizzate eriunite insieme nell’ambito della società civile affinché una di queste dimensio-ni non diventi onnicomprensiva e non limiti quindi le possibilità di autodetermi-nazione e di felicità di ciascuno. Nel complesso e ambivalente mondo contem-poraneo, gli individui sono più che mai esseri multipli e flessibili, dotati cioè diidentità formatesi per moduli sovrapposti attraverso la possibile appartenenzaa più di un gruppo; onde, per Walzer, il trionfo di una prospettiva unilateralesarebbe oggigiorno un’evenienza dagli effetti distruttivi4.

È sua convinzione che ogni singolo individuo possa vedersi riconosciuta lapropria identità “parziale molteplice” ed avere accesso a infinite opportunità peril presente e per il futuro solo se è ben salda una democrazia radicale e parteci-pativa, sociale e pluralista. Il potere esercitato dai comuni cittadini sancisce l’in-staurazione e la permanenza di una contestatory democracy, contrassegnata daquel conflitto “mite” (ovvero da quella “coesistenza agonistica”) che, come osser-va Casadei, lo studioso americano ritiene immanente a una società civile accor-ta e vivace. A giudizio di Walzer, la “vita associativa della società civile è l’effetti-vo terreno ove tutte le versioni del bene sono elaborate e testate […] e si rivela-no parziali, incomplete, in conclusione insoddisfacenti. Non si tratta del caso percui vivere su questo terreno è bene di per sé; non vi è alcun altro posto in cuivivere. Ciò che è vero è che la qualità della nostra attività politica ed economicae della nostra cultura nazionale è intimamente connessa alla forza ed alla vitali-tà delle nostre associazioni”5. Per questo motivo, nella partecipazione sociale adiverse sfere e attività è possibile riconoscere la robustezza degli assetti demo-cratici e il miglior antidoto contro i rischi di disintegrazione.

Avverte Walzer che alla società civile non sono connaturate aspirazioniantistatalistiche; anzi, essa si giova dell’intervento politico dello stato (ma diuno stato autenticamente democratico), in modo che il luogo di confronto e dinegoziazione tra gli uomini, lungi dal degenerare nella legge del più forte, con-servi inalterata la sua funzione di sintesi ed espressione del pluralismo. Lostato, in altri termini, è disposto ad ammettere una molteplicità di posizioni epunti di vista, ma pretende che, al medesimo tempo, i loro sostenitori si tolleri-no (o agiscano come se si tollerassero) reciprocamente: solo così, su un pianodi uguaglianza politica e in forma “mitigata”, vengono resi possibili il disaccor-do e il conflitto senza fine, e la trattativa giorno per giorno (il cuore stesso del-l’agire democratico), fra tutti i portatori di opinioni e valori.

Unicamente nella società civile l’uomo impara ad essere socievole e a collocar-si in una dimensione comunitaria che non sacrifichi capacità e caratteristiche indi-viduali, bensì le valorizzi. Secondo Walzer, solo in questo ambito l’uomo può vive-re bene, dal momento che la società civile è “la sfera della frammentazione e dellalotta, ma altresì di solidarietà concrete ed autentiche, ove […] diventiamo uomini edonne socievoli o comunitari. E questo è, naturalmente, di gran lunga la cosa

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NOTE

migliore che si possa essere. Il quadro qui è quello di persone che si associano ecomunicano liberamente le une con le altre, formando e riformando gruppi di ognigenere, non per amore di un qualche schieramento particolare –famiglia, tribù,nazione, religione, comunità, fratellanza o sorellanza, gruppo d’interesse o movi-mento ideologico– ma per amore della socialità stessa. Poiché noi siamo, per natu-ra, esseri sociali, prima che esseri politici o economici”6. In queste ultime conside-razioni del critico americano, si può rinvenire una certa affinità col punto di vista delfilosofo della morale e del diritto, anch’egli di origine ebrea, Joseph Raz e con laposizione espressa da Hannah Arendt soprattutto in Vita Activa.

Nel complesso, Walzer definisce la sua prospettiva “associazionismo critico”.Oltre a rivelarsi frutto della radicalizzazione dell’orientamento già costitutivamen-te ‘plurale’ del modello americano di coesistenza e integrazione, la cui funziona-lità gli sembra scaturire in primo luogo dall’aver “fatto propria l’idea protestantedell’associazione volontaria”7 e dal porsi come obiettivi cardinali la salvaguardiadella massima libertà individuale e la lotta contro l’“irenismo” e il “silenzio” pub-blico8, l’“associazionismo critico” walzeriano –puntualizza Casadei– sottendeuna “idea di socialismo altra rispetto alle forme dominanti nel corso del Novecen-to […]: un socialismo innervato di istanze morali, umanistico ed etico, e ospitalenei confronti di alcuni elementi marcatamente liberali”9, i cui principali referentisono autori statunitensi quali John Dewey, Irving Howe, Michael Harrington e lacerchia di intellettuali raccolta fin dagli anni Cinquanta del secolo scorso intornoalla rivista radical «Dissent», ma anche figure significative del movimento opera-io europeo, tra cui spiccano quelle di Richard H. Tawney e di Eduard Bernstein.

Walzer giudica inattingibile la pace eterna e assoluta. A suo avviso, non sidà un bene ultimo, sommo, dominante sul quale tutti concordino (egli si rivela,in questo, distante dall’aristotelismo e dai communitarians neoaristotelici piùortodossi), perciò la tutela della vita ordinaria e della coesistenza richiede unaccordo autenticamente alla portata degli sforzi umani. Walzer indica nellapace politica, fondata sul dialogo e sul compromesso sempre fragile, questotipo d’intesa concretamente raggiungibile dalle collettività. Dimensione pereccellenza in cui a trionfare è l’agire costituito da un intreccio di ragione e pas-sione, di sfera razionale e sfera emotiva10, la politica consente di pervenire nontanto a una verità univoca, quanto a innumerevoli verità sempre contingenti,che traggono origine dall’assenso conquistato tramite il processo di decisionedemocratica: quindi, anche i sostenitori di prospettive unilaterali (filosofiche,religiose, ideologiche) sono da considerarsi alla stregua di semplici portatori diconvinzioni e, come tali, essi devono imparare a ‘politicizzarle’, rinunciandoalla loro assolutezza, per divenire compartecipi a pieno titolo di negoziazioniche producano forme di convivenza soddisfacenti.

Walzer confida che, rafforzando l’amicizia sociale e la cooperazione tra isingoli come pure potenziando il ruolo della politica, sempre più individui giun-geranno a riconoscere la legittimità delle decisioni democratiche, evitando cosìche il dogmatismo rappresenti l’ultima parola: “in una società pluralistica l’im-pegno della gente [ha] l’effetto di sradicare ideologie e prese di posizione raz-zistiche o sciovinistiche”11, e di promuovere la costituzione di un ancor piùvasto e tollerante dibattito pubblico, ove critiche, adattamenti, compromessi e

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revisioni senza fine siano riconosciuti quali aspetti ordinari e imprescindibilidella vita in comune.

Nell’ultimo saggio della raccolta, intitolato Governare il mondo: qual è lacosa migliore che possiamo fare?, Walzer instaura un parallelismo tra societàcivile e società internazionale: ambedue si configurano come regni della fram-mentazione, del contrasto e della trattativa. A suo giudizio, anche su scala glo-bale si deve edificare un “regime capace di fornire un contesto per la politicanel suo senso più pieno e per il più profondo impegno di comuni cittadini”12, unpluralismo che possa rafforzarsi praticandolo, che sappia salvaguardare i dirit-ti individuali e le differenze culturali e religiose, e che offra la più ampia gammadi opportunità per l’azione politica a favore della pace e della giustizia; concor-re altresì a rafforzare il baluardo contro la non impossibile affermazione di unatirannia planetaria il riconoscimento di centri alternativi e di una rete sempre piùfitta di legami sociali, che valichino i confini di stato. Accantonate a priori le teo-rizzazioni di carattere giusglobalistico e “la speranza di conseguire la pace per-petua, la fine del conflitto e della violenza, ovunque e per sempre”13, egli pro-spetta una forma di global pluralism che consiste, per usare le sue parole, nella“nota anarchia di stati, mitigata e controllata da un triplice insieme di agenti nonstatali: organizzazioni come le Nazioni Unite, le associazioni della società civi-le internazionale e le unioni regionali come la Comunità Europea”14.

Dunque, come risulta ben evidente anche in questa selezione di saggi, alloscopo di far convivere le tensioni tipiche del mondo contemporaneo, tanto a livel-lo locale quanto a livello globale, Walzer propone un modello di democrazia aper-ta, radicale e partecipativa, caratterizzata dal conflitto e da momenti di coesione,cioè dal contrasto fra rivendicazioni particolaristiche e attitudini solidaristiche. Edè grazie agli strumenti della politica che gli antagonismi possono trovare una com-posizione, anche se solo temporanea e continuamente rinegoziata.

1 M. WALZER, Il filo della politica. Democrazia, critica sociale, governo del mondo, a cura di Th.Casadei, Diabasis, Reggio Emilia 2002.

2 Ivi, p. 71.3 TH. CASADEI, Fragilità e permanenza della politica: gli itinerari di Michael Walzer, saggio intro-

duttivo a M. WALZER, Il filo della politica, cit., p. XXXV.4 Sulla multi-dimensionalità degli individui, cfr. soprattutto M. WALZER, Geografia della morale.

Democrazia, tradizioni e universalismo, Dedalo, Bari 1999, pp. 41-49 e 91-109.5 M. WALZER, Il filo della politica, cit., p. 82.6 Ivi, pp. 81-82. 7 M. WALZER, La libertà e i suoi nemici, intervista a cura di M. Molinari, Laterza, Roma-Bari

2003, p. 20. Sui legami associativi “volontari” e “involontari”, cfr. M. Walzer, Ragione e passione.Per una critica del liberalismo, Feltrinelli, Milano 2001, pp. 13-36.

8 Sul pluralismo garantito dal modello politico-sociale americano, cfr. soprattutto M. WALZER,Sulla tolleranza, Laterza, Roma-Bari 1998, pp. 43-49 e 129-154.

9 TH. CASADEI, Fragilità e permanenza della politica, cit., p. XXV.10 Sul ruolo della ragione e del coinvolgimento emotivo nell’ambito della lotta politica, cfr. M.

WALZER, Ragione e passione, cit., in particolare pp. 61-85.11 M. WALZER, Sulla tolleranza, cit., p. 148.12 M. WALZER, Il filo della politica, cit., pp. 138-139.13 Ivi, p. 141.14 Ivi, p. 138.

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NOTE

ORONZO SUMA 1880-1954UNA TESTIMONIANZAdi Gaetano Scatigna Minghetti

“La verità di dio come verità di esperienza”; esperienza interiore, beninteso!È, essa la massima, il principio che può essere ricavato, grosso modo, dallostudio delle opere edite e manoscritte che il filosofo Oronzo Suma ha redattonel corso della propria esistenza di ricercatore e di uomo di pensiero, svoltasisempre all’insegna della più rigorosa coerenza speculativa, all’ombra del suomaestro Franz Brentano, che, agli inizi del ’900, e fino allo scoppio del primoconflitto mondiale, aveva soggiornato in Firenze, all’epoca il centro cultural-mente più vivace dell’intera Penisola italiana.

Qui, il Suma, giovane sacerdote della diocesi di Oria, nell’antica Terrad’Otranto, si era recato per la laurea in filosofia, che conseguì poi, brillante-mente, con Francesco de Sarlo, un meridionale della Lucania che, all’universi-tà di Firenze, teneva cattedra partecipando con forza ed intensità inusitate aldibattito culturale e filosofico che in seguito sarà continuato, sempre con lostesso alto profilo, dai suoi discepoli Gaetano Capone Braga, Giovanni Calò,Eustachio Paolo Lamanna, Antonio Renda.

Oronzo Suma, in un rapporto di filiale devozione e di amicale confidenza,invece legatosi al Brentano, ne seguì l’itinerario speculativo rielaborando poi,per quarant’anni e fedelmente, il pensiero del maestro avendo comunquecome costante riferimento Francesco Pietro Maine de Biran, alla cui vicendagnoseologica aveva dedicato la propria tesi di laurea, discussa, a Firenze, il 24luglio del 1911.

Nato a Ceglie Messapica, a quel tempo ancora in provincia di Lecce, il 23luglio del 1880, Oronzo Suma si era subito rivelato come persona dotata di uningegno perspicace e di una versatile vivacità.

Intrapresi gli studi nel seminario vescovile di Oria, importante per aver for-mato generazioni di sacerdoti colti ed intelligenti, Oronzo Suma ricevette l’or-dine sacro ma volle continuare gli studi fino a pervenire alla laurea e al diplo-ma del Corso di Perfezionamento in Filosofia. Il 27 giugno del 1914.

Sempre nel 1914, la sua prima pubblicazione: Dell’origine e del fondamen-to psicologico dell’idea di Giustizia, che ebbe la città di Pistoia come luogo distampa, seguita, nel 1915, dalla edizione de L’analisi della coscienza. Lacoscienza come forma di apprensione per i tipi della casa “Attilio Razzolini” diFirenze, che “scosse il de Sarlo dai suoi sogni speculativi”, come ebbe adesprimersi Michele Giorgiantonio, su “Il Mondo”, il 25 settembre del 1926.

Rientrato a Ceglie, anche per le pressioni della famiglia, Oronzo Suma miseal servizio della comunità di origine la propria esperienza culturale e didatticamaturata a Terni, nell’odierno Lice ginnasio “G. C. Tacito”, e a Taranto, presso

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l’“Archita”, uno degli Istituti liceali ad indirizzo classico più prestigiosi del Mez-zogiorno d’Italia, fondato nel 1943, la prima Scuola Media Comunale Autoriz-zata, che diresse per alcuni anni, in seguito ritirandosi a meditare, con paca-tezza appartata; in un suo podere nella campagna di Ceglie.

Nello scorso mese di novembre 2004 si sono compiuti cinquant’ anni dallasua scomparsa, che è avvenuta a Ceglie Messapica il 24-XI-1954; ricorrenzapassata nel più totale silenzio: “Hai fatto bene a inviare un necrologio di Sumaa ‘Sophia’. Egli merita di essere segnalato e distinto dai vanitosi cerretani dellafilosofia contemporanea”. In questi termini, che chiaramente sottolineano laconsiderazione notevolissima in cui era tenuto Oronzo Suma, si espresseGaetano Capone Braga, dell’Università di Firenze, alcuni giorni dopo la dipar-tita del Filosofo, scrivendo a Michele Giorgiantonio, a Napoli.

Ora, questo scritto intende aprire un piccolissimo varco nella persistentedimenticanza per ricordarlo agli studiosi, ma altresì per testimoniare la memo-rabile, attiva presenza nell’ambito degli studi filosofici italiani e per evidenziarecome in Italia, nella prima metà del XX secolo, non esistessero soltanto i capi-scuola del neoidealismo ed i loro epigoni, ma anche altri ricercatori, altre cor-renti di pensiero, altri itinerari, ancora, speculativi di profonda ed “interioreorganicità” che, senza alcuna fanfara e privi di ogni battage massmediatico,operavano, si, nel silenzio, ma con estrema efficacia, per rispondere credibil-mente ed in modo significativo agli eterni interrogativi che l’uomo, nella com-plessità della sua articolata realtà interiore, sin dalla sua genesi, si è posto con-tinuamente.

Uno di questi era il filosofo Oronzo Suma, l’“ultimo discepolo di Franz Bren-tano”, che si era prefisso, come stile, come cifra di vita, l’estrema coerenza traricerca teorica e prassi reale, giungendo ad una sintesi viva che non lasciavaiati si sorta nel proprio percorso intellettuale e morale.

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NOTE

PIERRE LEROUX E GEORGE SAND(La filosofia e la letteratura “de l’humanité”)

di Antonio Stanca

Nella storia il pensiero filosofico ha accompagnato la produzione letteraria edartistica contribuendo a caratterizzare, con essa, l’atmosfera culturale di unadeterminata epoca o periodo storico. Gli esiti delle due attività sono rimasti, tut-tavia, distinti giacché il processo della creazione artistica è diverso da quello del-l’elaborazione filosofica, più libero dai vincoli della ragione, della logica, piùimmediato, più pronto a seguire il sentimento, l’istinto, la passione.Questo nonimpedisce che tra opere di filosofia e opere d’arte possano esserci delle relazio-ni o mutuazioni soprattutto quando il filosofo e l’artista sono o si sentono parte-cipi dello stesso clima culturale o sociale, della stessa spiritualità. Così è avve-nuto nella Francia dell’ ’800 per la filosofia di Pierre Leroux (1797-1871) e la let-teratura di George Sand (1804-1876). La scrittrice, in una fase della sua vastis-sima produzione, dichiarava di voler volgarizzare la dottrina lerouxiana poiché “lasola che parli al cuore come il Vangelo” e da lei sentita come l’unica che potes-se soddisfare i suoi bisogni di donna e narratrice, le sue esigenze umane ed arti-stiche. L’incontro con Pierre Leroux e il suo pensiero era avvenuto quando laSand aveva già prodotto opere di narrativa ed aveva rappresentato per lei la sco-perta di una dimensione e prospettiva più ampie rispetto a quelle fino ad alloraperseguite. Verranno i romanzi “Spiridion”, scritto forse da Sand e Leroux insie-me, “Il compagno del giro di Francia”, “Il mugnaio di Angibault”, “Il peccato delsignor Antonio”, “Horace”, “Consuelo”, “La contessa di Rudolstadt”, pubblicati, gliultimi tre, nella “Revue Indépendante”, fondata dalla scrittrice a Parigi insieme alfilosofo. Queste opere sono pervase da un profondo spirito di umanità, socialità,religiosità. In esse viene esaltato il popolo perché depositario dei veri valori mora-li, denunciata la grave corruzione degli aristocratici, auspicata la caduta dellebarriere tra classi sociali e all’interno di queste nonché la fusione tra popolo e ari-stocrazia. Si tende, inoltre, alla formazione di una nuova società, nella quale ilpopolo non soffra più1 e regnino i principi dell’amore, fraternità, uguaglianza, adinserire il problema dell’emancipazione femminile in un più ampio contestoumano e sociale, a diffondere ed affermare una religione dell’anima diversa daquella istituzionale. È evidente l’influenza della filosofia di Rousseau ed in parti-colare del sansimonismo rivelatosi alla Sand tramite la lettura di Leroux. Di que-sti ella si era dichiarata “fedele discepola” una volta conosciuti il pensiero e lafamosa opera che lo conteneva, “Dell’umanità”2. Ne aveva ricavato una via daseguire, un modo per ordinare ed esprimere quell’accensione spirituale mostra-ta nelle opere precedenti, ”Indiana”, “Valentine”, “Lélia”, “Jacques”, “Mauprat,” erimasta una protesta piuttosto confusa contro i pregiudizi e le convenzioni socia-li in nome di una libera e straripante passionalità: l’incendio diffuso era divenuto

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una sola fiamma! Erano sopravvenuti il pensiero, la ragione ad arginare e dirige-re l’impeto di una sensibilità traboccante, di un amore privo di precisi obiettivi. Loschema della confessione e il tono lirico, usati in precedenza per presentare eroi-ne impegnate a rivendicare i propri diritti, avevano ceduto il posto ad una visio-ne più estesa, l’individualità era divenuta socialità, l’uomo umanità, l’amore reli-gione. Tale maturazione e passaggio sono contenuti nei romanzi, definiti “socia-li”, della seconda fase della produzione sandiana3. In essi trovano la loro rappre-sentazione migliore delle tesi fondamentali in Leroux quali la perfettibilità dell’uo-mo, l’immortalità della specie, la proprietà collettiva, la rivalutazione del popolo edel proletariato delle città e delle campagne.Questo avviene soprattutto ne “Ilcompagno del giro di Francia” e “Il mugnaio di Angibault”.

È il periodo della vita e dell’opera della Sand che va dal 1840 al 1848 edallora il suo “socialismo” si manifestò oltre che nelle opere di letteratura anchenel favore, nei vari aiuti da lei accordati a poeti proletari quali Magu, Reboul,Jasmin, Poncy ed in altre iniziative di carattere politico e sociale. La scrittricesentì l’influenza della filosofia di Leroux in modo così intenso da farne una con-dotta di vita ed arte, una regola di azione e pensiero quasi fosse stata per lei“una nuova religione”. Non a caso Sainte-Bevue, nel 1843, affermava che“Béranger, Lamennais, Sand e Sue erano le quattro grandi potenze socialistee filantropiche della nostra età4.

“Il compagno del giro di Francia” e “Il mugnaio di Angibault” saranno le operemaggiormente espressive del “socialismo” e “filantropismo” della Sand, del suoamore per il popolo, della sua volontà di contrapporre le virtù di questo ai vizi del-l’aristocrazia. Nella prima si dirà del falegname Huguenin, che è della “medesi-ma stoffa divina” del carpentiere Gesù, e lo si opporrà al conte di Villepreux edalle sue convinzioni in campo sociale; nella seconda il protagonista, Grand-Louis, sarà presentato come un santo e l’aristocratica Marcelle de Blanchemontmostrerà di risentire delle nuove idee e di voler educare a queste il figlio poichédirà: “Mio Dio, datemi la forza e la saggezza necessarie per fare di questo ragaz-zo un uomo: per farne un patrizio, mi sarebbe bastato incrociar le braccia”5.

La Sand aveva mutuato da Leroux anche l’idea del miglioramento e perfe-zionamento dell’uomo nonché l’aspirazione ad una diffusa solidarietà umanaed alla formazione di una società migliore. Per trasferire simili ideali in lettera-tura le era sembrato opportuno farli impersonare dai suoi eroi e mostrare comedai pensieri ed azioni di questi potessero derivare effetti tali da convertire alla“nuova religione” anche chi, come gli aristocratici, era rimasto ancora comple-tamente estraneo. Arte e vita s’incontravano nella Sand e facevano in modoche le istanze socialiste vissute accanto all’amico filosofo s’identificassero,nelle opere, con quell’anima popolare che, secondo lei, aveva preservato daogni contaminazione di tempo o luogo i valori umani più autentici.

Non si tratta di un fenomeno di primitivismo o puritanesimo o nostalgia chéla Sand non si dedica al culto di certi valori isolandoli dal contesto umano esociale ma affida loro un’azione, li investe di un compito di rinnovamento mora-le, li trasforma nei termini di un confronto. Di questo compito e confronto sonoespressione le sue creature impegnate a diffondere un messaggio e, per que-sto, a lottare contro ambienti e persone. È un’operazione di richiamo ai doveri

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NOTE

umani, una missione di evangelizzazione che esse svolgono sulla terra e l’ope-ra e l’eroina che più di tutte interpretano il fenomeno è “Consuelo”. Come altrefigure della Sand anch’essa è di origine popolare ed è persona eccezionale perle sue qualità stavolta non solo morali ma anche artistiche. Queste le permet-teranno di accedere ad ambienti elevati ed intraprendere un lungo viaggioattraverso le più varie vicende ed esperienze della vita.

Il modulo del viaggio era già noto in letteratura e sarà ripreso anche in tempia noi recenti. La Sand lo usa in maniera particolare giacché ne fa un evento vis-suto naturalmente dalla protagonista e presenta le sue varie situazioni comenecessarie. È la vita vera quella attraversata da Consuelo durante la lungaavventura descritta nel romanzo. Nelle diverse tappe la vediamo spesso inten-ta a lottare per affermare la sua presenza, il suo pensiero, il suo sentimento. Ilpercorso sarà continuamente e variamente insidiato ma niente lo fermerà inmodo definitivo, nessuna minaccia potrà sottrarre la protagonista ai richiamidella coscienza, ai doveri dell’anima. A volte sarà costretta a fuggire il pericoloincombente ma le sarà pure possibile imbattersi in “anime gemelle” e stabilirecon loro quella “comunione di affetti”, quella “solidarietà umana” da lei tanto cer-cate. Queste anime, però, hanno generalmente rinunciato all’azione, abbando-nato l’impegno nel mondo mentre in lei sempre vivo, anche se tormentato, saràil desiderio d’agire perché l’amore e il bene si diffondano nella vita di tutti. Taletratto distintivo della figura di Consuelo, tale strenua lotta tesa a combinare ilproprio sentimento con l’altrui, fanno sì che essa diventi la proiezione più imme-diata dell’anima dell’autrice, la personificazione migliore dello spirito di “sociali-tà”, del bisogno d’azione sentiti e vissuti dalla Sand. Sarà questo bisogno a farein modo che la scrittrice, col tempo, giunga a sentirsi diversa da Leroux ed arimproverargli di creare dei sistemi astratti, di rimanere nell’utopia. Ella era,invece, per un’azione concreta che attuasse l’utopia, per degli obiettivi precisicome attestano altri aspetti e momenti della sua vita quali la presa di posizionecontro Luigi Filippo, la fondazione dell’“Eclaireur de l’Indre”, l’adesione al movi-mento riformatore di Louis Blanc, la partecipazione alla rivoluzione parigina del1848 insieme a gruppi repubblicani e socialisti, la fondazione del settimanale“La Cause du Peuple”, la collaborazione ai “Bulletins de la Rèpublique”, l’asiloofferto a profughi politici. Le idee umanitarie e sociali, provenutele da Leroux,erano state completate con un proprio contributo, quello dell’azione necessariaad attuare le finalità perseguite. L’azione la Sand cercò nella vita e rappresen-tò nelle opere di quel particolare momento e se il fenomeno rimase indistinto inaltre narrazioni, in “Consuelo” acquistò precisione ed evidenza. In quest’operaed in questo personaggio si esprimono, nel migliore dei modi, la lezione diLeroux e il “socialismo” della Sand inteso come teoria e pratica, pensiero e azio-ne, necessità dell’anima e del corpo. Agire significava per lei muoversi alla ricer-ca di un accordo tra elementi opposti, di un equilibrio tra forze contrastanti,significava dividersi ed unirsi in continuazione, perdere e vincere incessante-mente: “il funambolo è il tipo di questa vita penosa, ardente e pericolosa. Eglideve provare un piacere nervoso e terribile su quelle corde e quelle scale su cuicompie prodigi superiori alle umane forze; ma quando ne è sceso vincitore devesentirsi venir meno all’idea di risalirvi e di abbracciare ancora una volta la morte

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e il trionfo, spettro a due facce che spazia incessantemente sulla sua testa”6.Questa è la figura dell’errante e fuggitiva Consuelo. In lei, come nel funambolo,c’è una continua alternanza di pensieri, come lui vive perennemente esposta aipericoli e, sebbene sia consapevole che nessun successo potrà mai eliminarlidel tutto, che ogni nuova impresa glieli comporterà nuovamente, è sempre pron-ta ad affrontarli. Nel romanzo c’è un’immensa galleria di personaggi e situazio-ni che spesso ostacolano l’azione di Consuelo ma non saranno mai temuti alpunto da fermarla né saranno mai tali da superare la forza del suo animo, laluce di verità e d’amore che l’accende e la muove.

L’insegnamento di Leroux non avrebbe potuto avere allievi ed esiti migliorise si tiene conto che dalla Sand esso viene sviluppato ed arricchito poichéadattato alla vita e rappresentato negli effetti positivi che da ciò derivano. Sol-tanto se inserito in simile processo si può spiegare il concepimento di Consue-lo, il suo significato: tramite lei il popolo viene promosso per le sue qualità, perqueste può fondersi con le alte classi sociali ed operare per smascherarne ecombatterne i vizi, per preparare una nuova, migliore società.

È uno degli sviluppi più importanti del pensiero di Leroux sia perché mostracome la filosofia possa diventare vita, come l’idea possa realizzarsi, sia perchéaffida un’operazione di rinnovamento individuale e sociale, una rivoluzionemorale ad una donna. Questo fa di Consuelo-Sand la precorritrice di modernifenomeni culturali e sociali quali il femminismo, l’affermazione del popolo, ilrecupero degli oppressi, la diffusione nella letteratura, nell’arte, nella società,soprattutto del moderno Occidente, di tendenze di pensiero dette neoumanisti-che perché volte a restituire all’uomo d’oggi l’identità smarrita.

Con la Sand la filosofia di Leroux ha acquisito una dimensione moderna. L’adat-tamento alla vita, ricevuto grazie all’opera della scrittrice, l’ha trasformata in un’im-portante anticipazione della modernità, un riferimento essenziale, un’indicazionevalida per ogni umanità che abbia bisogno di ritrovarsi. Se oggi si sta parlando dineoumanesimo, se si sta cercando, dopo tante dissipazioni, di recuperare l’uomonei suoi elementi ed aspetti autentici, si deve riconoscere che modelli quali PierreLeroux e George Sand sono stati e sono utili, che dalla loro comparsa non hannomai smesso di operare all’interno della cultura e della coscienza europee.

1 G. SAND, Correspondance, vol. II, Garnier, Paris 1964-1990, pp. 218-220: “L’umanità che sof-fre […] è il popolo, il popolo ignorante, il popolo abbandonato, pieno di passioni focose che ven-gono eccitate in un cattivo senso, che vengono compresse, senza rispetto di quella forza che Dionon gli ha tuttavia concesso senza motivo”.

2 P. LEROUX, De l’Humanitè, Perrotin, Paris 1845.3 E. SEILLIÈRE, George Sand, Mystique de la passion, Alcan, Paris 1920, pp. 200-212: “Sogget-

to dei suoi nuovi romanzi era ora il proletariato delle città e delle campagne, i suoi lavori, le suemiserie, e ne contrappose le virtù all’egoismo dei grandi e dei ricchi”.

4 SAINTE-BEUVE, Correnspondance générale, vol. V, Stock, Paris 1935-1949, p. 323.5 G. SAND, Le meunièr d’Angibault, édition présentée, établie et annotée par B. Aidier, Libraire

générale française, Paris 1985, p. 154. 6 G. SAND, Consuelo, vol. III, Fratelli Treves editori, Milano 1930, p. 211.

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NOTE

LA FILOSOFIA: SETE DI VERITÀE FORMAZIONE INTEGRALE DELL’UOMO

Nota sul pensiero di Maria Teresa Antonellidi Santo Arcoleo

La filosofia: sorgente alla quale tutti si abbeveranoe si rinfrescano.Nessuno penetra nella profondità da cui sgorga.

L’invocazione che da millenni esprime la sofferenza e il disagio dell’Uomo-Diosulla Croce è stata ripresa, con la carica emotiva ed allusiva, dalla percezionesensibile e dall’ascolto attento, dalla dottrina teoretica di M. T. Antonelli che, dellasete di verità e della sua ricerca ininterrotta, ha fatto lo scopo della propria esisten-za e del proprio pensiero. La sete e la ricerca della verità si rivelano particolarmen-te esigenti ed incisive nel suo ultimo corso su Nietzsche dedicato all’approfondi-mento di due problematiche fondamentali: il richiamo alla dimensione umana deldolore, sullo sfondo della tragedia della Croce (Io nuovo Crocifisso) e la fedeltàdell’uomo alla propria identità tellurica (Rimanete fedeli alla terra). Al pensiero diNietzsche si è più volte riferita nel suo insegnamento e con le note dolenti dellasua dottrina ha concluso la sua trentennale ricerca filosofica.

A chi scrive è rimasto il compito di illuminare le pieghe nascoste di un pensie-ro, che si manifestava, oltre che nei trattati filosofici, anche nei piccoli scritti d’occa-sione e nelle osservazioni argute e preziose di cui è piena la sua corrispondenza.

Sono stato suo assistente, anzi, come preferiva Lei, il suo assistente, perquasi vent’anni, legato a Lei da un sentimento di stima profonda e di affetto.Nei rari incontri degli ultimi mesi si compiaceva nel ricordare i vari momentidella nostra collaborazione, iniziata con la mia stesura delle dispense dedica-te alla “Introduzione programmatica e metodologica” attinente al dibattito “Filo-sofia-Storia della Filosofia”, esposto ed esaminato nel semestre del suo primocorso di professore ordinario alla cattedra di storia della filosofia, presso lafacoltà di lettere dell’Università di Genova, e successivamente proseguita conla correzione delle bozze del volume: Morale: linee1, con la revisione delle cita-zioni testuali del prezioso articolo sulla matematica in Porfirio, inspiegabilmen-te perduto nella redazione di una rivista di filosofia, in cui anticipava un’inten-sa stagione di studi sul neoplatonismo iniziata con il saggio Introduzione del-l’idea di matematica in Giamblico 2.

Con le lezioni dedicate a Porfirio, e in special modo al dibattito filosofia-reli-gione-teologia alla luce della Lettera ad Anebo e la Lettera a Marcella, propo-neva un ripensamento critico della filosofia neoplatonica, considerata nella suarealtà ed anche nella sua eredità storica, principale momento di riflessione perl’approfondimento di una teoresi che si offre come una delle tematiche fonda-mentali del suo pensiero. Iniziata alla fine degli anni ’50, l’analisi ed il commen-to critico dell’Enneade III3 aveva inaugurato questo processo.

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Sin d’allora la ripresa della dottrina neoplatonica l’aveva convinta anche ariconsiderare le radici dello spiritualismo cristiano, che dalle problematicheneoplatonico-agostiniane traeva molte delle sue argomentazioni. Gli studi e latraduzione delle Enneadi a cura di V. Cilento4, le sollecitazioni critiche del Cara-mella5, i corsi del Bruni6, i saggi del Prini7, evidenziano con chiarezza l’impor-tanza delle dottrine neoplatoniche per la filosofia spiritualista italiana, all’uniso-no con le ricerche condotte in quegli anni anche in Francia, in Belgio, in Ger-mania ed in Inghilterra, che anticipavano conoscenze più solide ed obiettive,successivamente consolidate dopo l’edizione critica del testo di Plotino, adopera di P. Henry e H. R. Schwyzer8.

Il neoplatonismo, con Plotino, Porfirio e Giamblico, è anche alla radice diquell’afflato intimistico e religioso che apre la via al misticismo9, al quale conumiltà e quasi con gratitudine l’Antonelli si accosta più intensamente nei suoiultimi terribili giorni. L’atteggiamento e l’adesione mistica appartengono allasfera del suo intimo e del suo privato, alla sua coscienza torturata e tormenta-ta le cui tracce possono cogliere solo gli intimi10. L’Antonelli aborriva l’esterna-zione dei sentimenti e spesso questo suo atteggiamento riservato è stato con-siderato da quanti la conoscevano solo superficialmente, se non con ostilitàalmeno come segno della rivendicazione di un élitismo intellettuale, quasi chel’intelligenza e la cultura si potessero separare dal buon senso!

Descartes, con il suo atteggiamento sornione, aveva auspicato un usoregolativo del “buon senso” fin dalle prime battute del suo celebre Discorso, ePascal, con il sottile richiamo a l’ésprit de finesse, aveva indirizzato verso unritorno all’interiorità, da Agostino in avanti uno degli elementi caratterizzanti delCristianesimo. Descartes e Pascal sono Autori che l’hanno plasmata all’intelli-genza dell’agire e del pensare, alla ricerca appassionata e vissuta della verità,alla quale non lesinò mai le sue forze e le sue migliori energie.

Improntato a chiarire il significato autentico, genuino e fondamentale dellafilosofia, a cominciare dal suo primo saggio dedicato alle Figure dei Sofisti inPlatone11, il pensiero dell’Antonelli si nutre delle opere della tradizione classica(Platone, Aristotele, Plotino), delle dottrine dei Padri della Chiesa (Origene,Atenagora, Agostino), della filosofia medievale (Bernardo, Anselmo, PierDamiani, Abelardo, Tommaso), di singolari filosofi del Rinascimento (Telesio,Erasmo) e si apre alla cultura moderna e contemporanea riproponendone latradizione razionalistica (Descartes, Pascal,) e pre-illuministica (Locke, Hume),di Kant e della dottrina idealistica (Hegel in primis, la cui influenza ritrovava nelpensiero di Bradley, autore preferito assieme a Maine de Biran e Rosmini).All’ultimo periodo del suo insegnamento universitario risalgono rinnovati inte-ressi per Nietzsche, per la metodologia storiografica della scuola analiticainglese, Onians, Ryle, F. M. Cornford e per la scuola “psicologistica” francese:Lavelle, Le Senne, Mounier. Non è mai venuta meno la passione per la psico-logia e la sociologia, discipline basilari del suo insegnamento alla Scuola diServizio sociale di Genova, e per la pedagogia, che l’hanno vista impegnata inuna docenza pluriennale nella facoltà di Magistero di Genova.

La psicologia e la sociologia hanno contribuito ad alimentare la sua prospet-tiva pedagogica ancorata alla concezione cristiana dell’uomo, realtà spirituale,

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ma anche creatura che vive in una dimensione nella quale, con il comporsi el’alternarsi dei sentimenti, interagisce una “Natura” momento intrinseco e fon-damentale, segno di una telluricità che talvolta reclama la sua libertà di frontealle norme e alle regole.

Lo sforzo trentennale di osservazioni e meditazioni legate ad una pedago-gia di indirizzo spiritualistico, teso a valorizzare il ruolo di una psicologia speri-mentale, si sarebbe dovuto concretare in un complesso volume dedicato allescienze umane ed ad una organica concezione di un neo umanesimo, criticoma non contrapposto alla pletora degli umanesimi del XX secolo12.

Lavorava a questo progetto quando la morte la colse e purtroppo le quasi2000 pagine dattiloscritte sono andate irrimediabilmente perdute. Se ne pos-sono trovare anticipazioni nei numerosi corsi del suo insegnamento universita-rio e negli articoli pubblicati nelle riviste di pedagogia, negli Atti dei Congressi,nelle dispense della scuola di Servizio sociale ed in quel saggio dal titolo Carat-teriologia, ancora inedito13.

Questo testo ben si collega ad un breve saggio Psyche e psichicità14 digrande interesse teoretico, una specie di testamento filosofico spirituale. Vi sianalizza, seguendo una metodologia ed un procedere teoretico del tutto per-sonale, l’elemento determinante per la riaffermazione di un neo umanesimoche si radica in una visione dell’uomo considerato persona. La novità sta pro-prio nel soffermarsi su un aspetto taciuto della persona: la sofferenza. Espe-rienza personale e meditazione filosofica si fondono in questo percorso autobiografico che si offre come momento emblematico di un vissuto che rendediversi ma terribilmente umani. Ma non è del dolore tout-court che l’Antonellivuol discutere: altri, e forse con maggior forza, se non con maggiore sincerità,ne hanno trattato gli aspetti molteplici e mai esaustivi. Il dolore, che secondoLei investe l’uomo, quello che più di ogni altro ne delinea la diversità e nellostesso tempo ne segna la distanza dagli altri, è la sofferenza psichica, chedistrugge la mente e impedisce di pensare o meglio per curare la quale siimpongono delle medicine che impediscono di pensare e che quindi distruggo-no il pensiero. La chimicizzazione dell’uomo, attraverso l’adozione di una tera-pia che lenisce la sofferenza e talvolta la guarisce, è il risultato dell’oscenitàcon la quale si guarda all’uomo quando lo si riduce a cosa. L’Antonelli ritieneche fra le forme peggiori di reificazione quella psichica sia di gran lunga la piùpenalizzante.

Da queste premesse emerge come sua direttiva filosofica la cultura spiri-tualistica, di cui si fa portavoce, che non si limita a costruire sistemi, a verifica-re teorie, a fondare dottrine, architettate forse in forma più compiuta da subli-mi esperienze mistiche o da ideologie politico-sociali. Gli scritti di Rosmini,meditati anche alla luce dei Pensieri di Pascal o dei testi di Agostino e dei Padrisia Greci che Latini, l’hanno condotta per mano a scrutare il mistero ed il disa-gio dell’uomo, la sua grandezza e la sua miseria in questo itinerarium deiectio-nis nel quale l’uomo si scopre debole e miserabile.

L’uomo delle origini, che ricapitola l’uomo sofferente ed annichilito, caccia-to dal Paradiso terrestre è l’essere atterrito, che si sente perduto in una natu-ra sconosciuta, tremante preda delle belve e degli uragani. Solo un Dio lo può

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salvare: le astuzie e la prontezza dell’intelligenza non servirebbero a nulla, sequesta salvezza non fosse decretata dall’alto, come si ipotizzava già dai tempidi Omero.

La natura dell’uomo non si mortifica quando se ne indicano le debolezze edil riconoscerle fino in fondo, anche quando l’abisso sta per inghiottirlo, è ilsegno della sua grandezza. Quest’aspetto l’Antonelli volle tenere presentenelle sue conferenze romane dedicate al problema del “giusto sofferente”.Commentando “il libro di Giobbe” sottolineava che persino l’enormità dellabestemmia finale: “Sia maledetta la notte in cui è stato detto: ‘È stato concepi-to un uomo’”, lungi dall’essere l’espressione di un atto di ribellione, d’insoffe-renza verso il male diventato radicale, è la preghiera di lenire una sofferenzache superava il limite del sopportabile. La tentazione di Giobbe è più radicaledi quella di Adamo, meno violenta dell’azione di Caino e della testimonianza difede di Isacco; il male gli si presenta progressivamente, anzi sembra anchegarantire lo spazio per una pausa di riflessione: “Se da Dio abbiamo accettatoi beni perché non accettarne anche i mali?” si chiede sgomento, ma non vinto,Giobbe. Questo spazio però rischia di rimanere vanificato perché proprio daiSaggi che si offrono di consolarlo ogni tentativo di riflessione è annullato: l’ine-sorabile va accettato, non si può discutere. La stessa moglie, pia e fedele,anche lei prostrata dalla sofferenza per il sofferente, lo supplica di avanzareuna estrema richiesta liberatoria: “Rivolgi la tua preghiera a Dio e muori!”. Ununiverso di sentimenti e di affetti frana ed all’uomo, ormai solo con se stesso,non resta che la soluzione estrema; l’abisso della disperazione che nessunaragione può giustificare, nessun sentimento può lenire e che forse solo Dio puòrisolvere.

L’Antonelli scopriva, nella vicenda di Giobbe, una caratteristica fondamen-tale dell’esistere, quasi l’anticipazione di quel suo dramma personale cheavrebbe condizionato la sua vita di donna e di studiosa.

E. Bonanati, nella prefazione al volume di A. Nobili dedicato alla Storia dellacattedra di Pedagogia dell’Istituto universitario di Magistero15, ha espresso pro-fonde osservazioni sull’attività intellettuale dell’Antonelli docente e maestra,sottolineando che “sullo sfondo della premessa metafisico-antropologica, daltimbro ateistico-personalistico, la valenza teleologico-assiologica della peda-gogia trova […] una trattazione concettuale rigorosamente fondata e partecipe:il fine dell’itinerario educativo vi si rivela come l’inveramento, in pienezza, diuna creazione seconda […] attraverso cui si conferma come definitiva la crea-zione prima, divina dell’uomo”16.

Per l’Antonelli l’educazione è finalità elettiva nell’ambito della quale si avviala “formazione integrale della persona in tutte le sue componenti e strutture.Con il Cristianesimo nasce il concetto che l’uomo è nel mondo per trasformar-si ontologicamente nella sua struttura a immagine del divino”; Cristo “propugnala grande pedagogia del farsi uomini in senso umano integrale, attraverso ladilatazione del senso soprannaturale del farsi figli di Dio e dà all’educarsi ilvalore di un’azione metafisica di autocostruzione dell’io”.

A. Nobile ha messo in luce l’ampio orizzonte in cui matura la concezionepedagogica personalista antonelliana nella quale è sempre presente l’istanza

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NOTE

della formazione integrale, nel solco della migliore educazione umanistico-cri-stiana: “ottica globale al cui interno l’Antonelli privilegia la dimensione morale,civile e religiosa, oltre che la formazione del carattere e della volontà”17.

“Il discorso pedagogico dell’Antonelli si sviluppa […] interessando frequen-temente, con sensibilità educativa, anche quelli che definiremmo oggi ‘svan-taggiati’ o deprivati o emarginati, o anche ‘soggetti a rischio’, sia pure avvalen-dosi di una terminologia un po’ datata; in questo senso non solo il fanciullo mail minorato fisico, cioè l’uomo che non ha a disposizione tutte le sue forze cor-poree, il prostrato psichico, cioè l’uomo che subisce un collasso nelle suedisponibilità psichiche e superiori, il traviato, cioè l’uomo che trova compresseper abitudini negative le sue disponibilità spirituali sono tutti termini cui si rivol-ge di diritto l’educazione istituzionale”18.

M. A. Raschini ha ricordato, con annotazioni suggestive19 che “nella profes-sione di docente di filosofia, che ella esercitò splendidamente, gli interessi filo-sofici trovano per lei singolare incremento nel tessuto culturale ricco di atten-zione storica, acribia filologica, spirito critico, punte teologiche ed altezze spiri-tuali che la caratterizzavano. Dimensioni nelle quali ella riversò quella che,sotto il profilo intellettuale, fu forse la sua dote più caratteristica: una straordi-naria acutezza interpretativa che rendeva impareggiabili le sue letture ed i suoicommenti dei testi. Nelle sue mani un autore si rinnovava: quasi fatto ricco dinuove possibilità che M. T. Antonelli traeva con eccezionale spirito di penetra-zione: leggere un autore, anche il più noto, attraverso la interpretazione anto-nelliana, diventa una scoperta e suscita meraviglia”.

Secondo M. A. Raschini, “il suo lavoro intellettuale portava il segno dellasua personalità spirituale. Donna temperalmente forte, segnata da problemiesistenziali sofferti nel nascondimento, coltivava una religiosità intima edessenziale che la fortificava di fronte al mondo. La penetrazione del pensierorosminiano era divenuta in lei intima partecipazione: la propria creaturalità, vis-suta come dramma della carità quale rosminianamente è e quale essa la vide[…]. A M. T. Antonelli pensiamo come ad una singolarità creaturale, miracolo-samente vittoriosa della fragilità categoriale dell’esistenza che la martirizzò, leiconsapevole del martirio e consenziente”20.

M. R. Montagna, che fu sua assistente, ne ha tracciato un profilo dal qualeemergono le qualità singolari del suo pensiero: “Di eccezionale levatura intellet-tuale e di finissima sensibilità, viveva una dimensione di spiritualità profonda; cre-deva nei valori e ne trasfondeva l’amore a chi le stava vicino […]. Le tematicheche prediligeva erano quelle di tipo metafisico e morale. Il suo pensiero svilup-pava, nel senso della trascendenza, i motivi centrali della filosofia di GiovanniGentile, iscrivendosi nella corrente dello spiritualismo cristiano […]. Aperta avasti interessi, attenta alle problematiche della coscienza e della prassi dell’uo-mo contemporaneo, la si scopriva sempre sorprendentemente aggiornata”21.

Alla dimensione spiritualistica dell’uomo l’Antonelli abbina la “natura cosmi-ca”, che accanto alla telluricità illumina un aspetto spesso misconosciuto: l’uo-mo non solo partecipa della realtà terrena, ma attraverso la terra è anche unanello della realtà cosmica, secondo una concezione del concetto di Naturache lei collega alla complessa realtà cosmologica.

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Vorrei citare, a questo proposito, alcuni momenti salienti di una sua lezionedell’11 marzo 1961 dal titolo Natura e la natura umana. Dopo una sintetica ana-lisi dei processi conoscitivi che inducono l’uomo ad accostarsi alla natura, l’An-tonelli dichiara: “La Natura è il reale sensorio o il condizionamento della vita, cisiamo trovati a dire, in quanto originarietà. Ha la stessa struttura, sostanzial-mente nei tempi moderni, l’idea di natura umana: in fondo (e l’allusione più faci-le può essere a Dewey e ai precedenti roussoviani) i bisogni o le tendenze fon-damentali della vita e del suo sviluppo possono essere considerati originarietàrispetto al vivere: la Natura è dunque questo qualcosa analizzabile e ricompo-nibile secondo leggi che potremmo denominare lo spessore o il ritmo origina-rio (e quindi anche la base ed il riferimento costante di ciò che è vita). La vitacome effettualità o fisicità è in questo senso in forma evidente Natura o radica-ta nella Natura; ma anche quanto fiorisce nell’esistenza e rappresenta nonl’area direttamente e determinatamente fisica o effettuale, bensì ciò che è spi-rituale e che diciamo libero, ha il suo riferimento alla natura visto in questomodo”. C’è un atteggiamento theillardiano in questa rivendicazione dello spiri-tuale nella Natura, ma anche l’intimo convincimento di una radice unica nell’im-mensa realtà cosmica, favorita dell’eco di lontane radici pitagoriche e neopla-toniche. In un momento nel quale la filosofia era stimolata dal confronto fra lesollecitazioni delle discipline scientifiche, per una corretta ed organica cono-scenza nel formulare dottrine filosofiche nell’allora nascitura “filosofia dellascienza”, e l’invasione massiva delle correnti esistenziali ed heideggeriane,l’Antonelli formulava una teoria della Natura ricollegandosi sia alle dottrinemedioevali ed ad un ortodosso, il bergsonismo, sia alle ipotesi teoriche sullascienza, privilegiando le teorie cosmologiche.

In questa prospettiva indubbiamente hanno avuto notevole influenza le let-ture delle opere di G. Galilei, di Theillard de Chardin (in quegli anni a Genovac’era un discreto movimento Theillardiano, sostenuto dai Gesuiti) e, ma nonsembri strano, soprattutto dei mistici. Sosteneva l’Antonelli che “in fondo anchelo sviluppo della complessità intera dell’agire e del pensare è da Natura, inquanto appunto sia radicata in condizionamenti originari: in questo senso nullaprescinde dalla Natura, né il nutrimento, né la crescita, né il pianto né il riso, néil poema, in cui s’esprime una personalità, né l’ideologia politica. Si può giun-gere a dire che la storia, in quanto indirettamente costruita a partire da ciò, èda Natura. Chi veda, a parte post, ciò che s’è svolto a partire dai condiziona-menti originari e sul loro binario, può forzare i termini del problema e giungerea dire che, attraverso questi concatenamenti, lo sviluppo attivo non più fisico evisibilmente fisiologico o biologico, non più legato alla vita organica e del corpo,ma spirituale, storico, civico o sociale, rientra nella Natura”.

Questo concetto ampio ed articolato di natura allude anche, valorizzandoli,agli aspetti della costituzione geo-orografica del territorio e stabilisce un paral-lelismo fra la “biografia” della Natura e la biografia dell’Uomo: i caratteri distin-tivi, la storia, le componenti essenziali dell’una e dell’altro, costituiscono il fon-damento della loro autonoma, specifica, unica identità.

La Natura è la “premessa” dell’identità dell’uomo. Essa si può considerarecome “originarietà di condizioni base. Non è condizionante ma generante. La

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natura umana in quanto tale non è in fondo che l’episodio dell’universo di fron-te ad una osservazione globale; per altro verso, entro il funzionamento e lastruttura stessa di ciò che è natura umana, spesso ogni limite è trasbordato edè la Natura che si presenta come natura umana […]. Il tema della vita investela Natura prima che la natura umana, quindi presenta in qualche modo un con-tinuum ed una continuità. Dove cominci la natura umana e dove finisca la Natu-ra è cosa difficile da determinare ed in fondo è da questo punto di vista chel’elementare concetto di natura umana diventa problematico. Che cos’è natu-ra in fondo? Potremmo dire, forse, l’appartenenza alla terra, il rientrare nel suoritmo e nella sua storia, l’appartenere all’Universo”.

L’Antonelli ha considerato criticamente le teorie e le dottrine scientifiche delsuo tempo e, per certi aspetti, ha anticipato alcuni temi che costituiscono l’ani-ma del dibattito filosofico contemporaneo. Ha illuminato, con la medesima sen-sibilità, le grandi tradizioni teoretiche, soffermandosi con mente pensosa e cri-tica sulle categorie filosofiche che poi ha applicato alla pedagogia, alla psico-logia ed alla sociologia. Se dal Rosmini ha mutuato principalmente l’attenzio-ne profonda rivolta al dibattito interiore, se lo ha seguito in toto nella ripresa deicriteri che regolano la carità, nodo cardinale della teoresi cristiana, del mistici-smo rosminiano, in accordo ed in armonia con Paolo, ha saputo percorrere ladifficilissima strada, tutta in salita, difficile e dispersiva, contornata com’è dadirupi e burroni; solo l’amore, alla fine, conduce in quel porto dove finalmentequieto riposa il cuore22.

La sua filosofia, personalissima e profondissima, quando rivela i tratti del-l’animo inquieto, indica anche la via maestra che apre alla “veritas”. Non si dàverità senza carità e la carità comincia e si conclude con l’amore per la perso-na, che è anima, vita, natura. L’anima umana, sosteneva alla fine di questalezione magistrale, non si lascia definire, proprio come non si lascia definire lanatura. Spesso la natura dell’anima umana scompare nella forte assunzionevolontaristica dello Spirito o del suo essere un io: l’io che crede e che vive eche spiega l’uomo come sovrastruttura pensante e volente, ma, come organi-smo, può anche essere assorbita nel fluire della vita reale e fisica del mondo.È questo l’equivoco della prospettiva materialista della natura umana”. L’Anto-nelli insiste nel sottolineare come la natura umana, in quanto tale, altro non èche l’episodio dell’universo del quale presenta in qualche modo un contributoed una continuità. “Dove cominci la natura umana e dove finisca la natura ècosa difficile da determinare e in fondo è da questo elementare punto di vistache l’elementare concetto di natura umana diventa problematico. Ma cos’è lanatura in fondo? Potremmo dire, forse, l’appartenenza alla terra, il rientrare nelsuo ritmo e nella sua storia, l’appartenere all’Universo. Una natura umanacome tale nasce dunque da una definizione che è sempre astratta e restrittivama per sé e la scienza recentissima ha insistito proprio su questi temi:c’è o lasingola natura umana o il distendersi della continuità della natura, o la naturain quanto inglobanza, unità psico-fisica o il fenomeno ed i fenomeni naturali.Da qui il fatale scomparire della natura umana nella forte assunzione volonta-ristica dello Spirito o il suo essere un io: l’io che crede e che vive, che ècoscienza di sé e persona che si fa e che sussiste o l’immergersi della natura

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umana nella distesa della natura che diviene. È più facile parlare forse di leggidella natura umana che di natura umana. La natura di un soggetto spirituale èin sostanza sempre unica, anche se la natura la travolge, la alimenta, la frustao la sostiene: l’immagine della gran madre natura è in fondo correlativa a que-st’altra, l’unicità della natura umana. Quando essa sia pensata nel suo compi-mento, potremmo dire nella sua hecceitas, nella sua ‘autoctisi’, nella sua formadi persona conscia e libera, la natura risulta sempre unica, in qualità di un sog-getto spirituale e persona come personalità. Pertanto la natura umana diventain questo senso inesistente: assorbita in quella che potremmo dire la vita o lascena naturale del mondo ovvero involta nell’esistere dell’unità integrale delsoggetto”.

Innamorata della metafisica l’Antonelli ha contribuito con i suoi scritti teore-tici23 e con le sue interpretazioni storiche a delinearne le caratteristiche salien-ti rinnovando la concezione aristotelico-tomista e proiettando la metafisicaverso orizzonti “ulteriori”: “L’avvertimento kantiano della differenza qualitativatra sapere scientifico e sapere filosofico condiziona in assoluto l’impostazioneche è possibile dare oggi al problema metafisico e si può trasformare […] inapprofondimento della natura della metafisica. E un possibile sviluppo di untale approfondimento ci appare, per l’appunto, quell’idea di significato e disignificanza che si introduce nel corpo della metafisica, intorno al quale venia-mo qui disquisendo […]. Noi condividiamo la convinzione antinaturalistica checaratterizzò già le proteste degli spiritualismi recenti contro le impostazioni filo-sofiche che continuavano la tradizione del Seicento e soprattutto del Settecen-to cartesistico [sic!], newtoniano, wolfiano […]. Kant tendeva a specificare nonl’interrogativo metafisico in sé […] ma a esplicare questo attraverso l’oggettomateriale della domanda metafisica, determinando appunto la metafisica con isuoi oggetti primari e identificandola con la inchiesta su Dio, sull’anima, sulmondo. Legata a degli oggetti precisi […] la metafisica subisce tutti gli attacchiinerenti la verifica dei suoi contenuti […] e sembra che in questo possa venirtravolta”24.

L’Antonelli ritiene che merito di Kant sia stato il riconoscimento della meta-fisica come scienza unificante, in quanto l’unificazione del sapere, attraversole tre Critiche, è opera della metafisica. Il carattere intrinseco della metafisicaè il sapere e il sapere metafisico altro non è che la maggior conquista dellacoscienza critica moderna25.

1 M. T. ANTONELLI, Morale: linee, Bozzi, Genova 1964. Sull’argomento cfr. S. ARCOLEO, L’emer-gere del problema morale alla luce della speculazione di M. T. Antonelli, “Segni e Comprensione”,VII, 18, 1993, pp. 95-103.

2 M. T. ANTONELLI, Introduzione dell’idea di matematica in Giamblico, “Arts libéraux et philoso-phie au Moyen Age”, Vrin, Paris 1969, pp.1007-1021.

3 In particolare III, 5, “Eros”; III, 7, “L’eternità ed il tempo”; III, “La natura, la contemplazione el’Uno”.

4 PLOTINO, Enneadi, voll. 1-3, t. 4, a c. di V. Cilento, Laterza, Bari 1947-49.5 S. Caramella aveva tenuto, nel 1939, all’Università di Catania, un corso di lezioni pubblicate

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NOTE

successivamente in volume. S. CARAMELLA, La filosofia di Plotino e il neoplatonismo, G.U.F., Cata-nia 1940. Il volume del Caramella, redatto in un momento particolarmente difficile –erano i primieventi dello scoppio della seconda guerra mondiale– ha un duplice interesse, teoretico e storico.Teoretico perché segna la radice neoplatonica del pensiero del Caramella e, con lui, dello spiritua-lismo cristiano, cui Caramella è legato in maniera appassionata; storico perché mette in luce glistrumenti didattici e storiografici di cui disponeva la storiografia dell’epoca. Con Caramella, duran-te il mio soggiorno all’Università di Palermo quale borsista di un anno di perfezionamento post-lau-rea, avevamo deciso l’aggiornamento del volume. Conservo ancora le note che avevamo prepa-rato. Caramella ha pubblicato, nel 1959, una nota interessante dal titolo Il problema eucaristico nelNeoplatonismo, “Convivium dominicum”, 1959, pp. 35-49.

6 G. BRUNI, Studi sul Neoplatonismo, Gregoriana, Roma 1958; ID., Note di polemica neoplato-nica, “Giornale critico della Filosofia italiana”, 39, 1960, pp. 205-236.

7 P. PRINI, L’etica della contemplazione creatrice e il suo fondamento nella teologia di Plotino,“Quaderni dell’almo Collegio Borromeo”, Pavia 1946, pp. 1-36; ID., Plotino e la genesi dell’umane-simo interiore, Abete, Roma 1968, 3 ed. Milano 1992.

8 P. HENRY-H. R. SCHWYZER, Plotini Opera , 3 voll., Desclée de Brouver, Paris-Bruxelles 1951,1959, 1973.

9 Il misticismo è una costante nei rappresentati più “conseguenti” dello spiritualismo cristianoitaliano, Caramella e Antonelli, che spesso si riferiscono a Teresa d’Avila ed a Giovanni dellaCroce. Un’indagine assai profonda, volta ad evidenziare i legami fra stati mistici e malattia menta-le, è stata recentemente proposta da J. CHR. GODDARD, Mysticisme et Folie. Essai sur la simplici-té, Paris 2002. La “mistica della follia” si può considerare quasi una perdita della propria identità inun’umanità totale. Si tratta, riprendendo una indicazione di G. Deleuze, di preparare l’acquisizionedi una dimensione della follia come “promozione filosofica e spirituale della follia schizofrenica”. Misembrerebbe opportuno chiarire che si tratta di proposizioni, ipotetiche e però orientative, comemomenti assai stimolanti della letteratura filosofica e non solo. Ma se la dimensione più alta delmisticismo è l’estasi, allora non si può convenire con Goddard: la via maestra rimane ancora Plo-tino, che ci insegna come l’estasi è un semplice contatto, “una dolcezza che nello stesso temposarebbe odore, nel quale il sapore del vino s’unirebbe a tutti gli altri sapori” (VI, 7 12); l’estasi è untoccare, un contatto ineffabile che non ha nulla d’intellettuale, “toccare non è pensare” (V, 3 10).L’estasi si configura in maniera essenziale con l’immagine della visione in cui scompare la distin-zione soggetto-oggetto. Dell’emozione mistica Bergson dirà che “rassomiglia indubbiamente […]al sublime amore che è per il mistico l’essenza stessa di Dio”: E. BERGSON, Les deux sources dela morale et de la religion, Alcan, Paris 1932, p. 271.

10 Mi riferisco a notizie ed eventi a me noti in parte perché testimone ed in parte perché comu-nicatemi dalla signora Pina, madre dell’Antonelli.

11 M. T. ANTONELLI, Figure di Sofisti in Platone, SEI, Genova 1948.12 Anticipazioni di un certo rilievo teoretico sono presenti in alcune pagine dell’ultimo testo pub-

blicato dal titolo emblematico: M. T. ANTONELLI, Se Metafisica. Metafisica e Metarazionalità, Bozzi,Genova 1973. Il titolo allude alla complessità dell’universo della metafisica, sulla quale ci può esse-re il disaccordo più completo fino a negarne l’esistenza. L’Antonelli invita quanti vogliono discute-re, privi di preconcetti, di metafisica (da qui quel “Se Metafisica”, nel titolo del volume) ad abban-donare le vie battute da tutta una tradizione razionalistica e ad affidarsi alla “metarazionalità”,segno della centralità di un “nuovo umanesimo”. Scrive infatti: “L’umanesimo non è pensabilesenza il termine dell’uomo e della sua creatività. Tutta la vastità di differenziazione dell’umanesi-mo sta nel modo di vedere l’uomo: egli è più che altro la creatività nel suo ruotare intorno ad untermine piuttosto che ad un altro. L’uomo […] è il fulcro della visione umanistica e di ogni umane-simo; l’essenza dell’umanesimo consiste nel fare dell’uomo un’alfa anche se non il principio […]questo uomo può dilatarsi a principio divino […]. Ogni umanesimo muore ogni volta che si accettidi fare dell’uomo strumento e non fine”, p. 197.

13 Il saggio avrebbe dovuto essere pubblicato nella rivista “Incontri culturali dei P.P. Domenica-ni”, 1976, nel numero dedicato all’antropologia.

14 M. T. ANTONELLI, Psiche e psichicità, in Dal Micro al Macro, “Accademia teatina delle scien-ze”, Chieti 1961. Nella prefazione al volume Se Metafisica, cit., l’Antonelli accenna all’origine diquesto scritto considerandolo come indagine sul concetto di coscienza e di “egemonicità”, alluden-do alla concezione critica che svilupperà nelle non sempre agevoli pagine di questo volume.

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15 A. NOBILI, Storia della cattedra di Pedagogia nell’Istituto universitario di Magistero di Geno-va (1946-1967), LU, Genova 1998.

16 M. T. ANTONELLI, L’Educazione. Appunti sul fatto educativo, IUM, Genova 1953, pp.1-16.17 A. NOBILI, op. cit., p. 289.18 Ivi, pp. 12-13.19 M. A. RASCHINI, Maria Teresa Antonelli: una memoria, in A. NOBILI, op. cit., pp. 320-324.20 M. A. RASCHINI, op. cit., p. 324.21 M. R. MONTAGNA, L’Antonelli docente e studiosa ricordata da una collaboratrice, “Il Giorna-

le”, 30 agosto 1983, recentemente riedito in “il Ticino”, maggio 2004.22 Una delle allieve più fedeli, precocemente scomparsa nel 1965, Anna Maria Arbasino, aveva

saputo tradurre l’insegnamento e la dottrina dell’Antonelli in pratica di vita. Di Lei voglio ricordarequesta dedica, emblematica ed incontestabile: “Amare più che la vita è amare al di là di ognimaniera possibile. Lo testimonia la guglia più alta della vecchia cattedrale e l’eternità sarà locuple-tante del limite dell’ora”. L’Antonelli l’aveva definita “La iperbolica e la solitaria della verità”. Gli scrit-ti di A. M. Arbasino sono stati pubblicati da me e da M. T. Morano, dall’editore Della Casa, a Geno-va, nel 1968.

23 M. T. ANTONELLI, Metafisica ed esperienza religiosa, “Archivio di Filosofia”, 1956; ID., DellaMetafisica ovvero della significanza, Morcelliana, Brescia 1957; ID., Se Metafisica. Metafisica eMetarazionalità Della Metafisica ovvero della significanza, Morcelliana, Brescia 1957; Id., Se Meta-fisica. Metafisica e Metarazionalità, Bozzi, Genova 1973.

24 Id., Della Metafisica ovvero della significanza, cit., pp. 52-53.25 L’analisi e l’approfondimento della concezione della Metafisica dell’Antonelli è oggetto di uno

studio che verrà pubblicato, in seguito, sulla rivista di cui è stata per lunghi anni segretaria di reda-zione.

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NOTE

A. ALES BELLO – Ph. CHENAUX (edd.), Edith Stein e il nazismo, Città Nuova,Roma 2005, pp.120.

«Padre Santo! Come figlia del popolo ebraico, che per grazia di Dio è daundici anni figlia della Chiesa cattolica, ardisco esprimere al Padre della cristia-nità ciò che preoccupa milioni di tedeschi. Da settimane siamo spettatori, inGermania, di avvenimenti che comportano un totale disprezzo della giustizia edell’umanità, per non parlare dell’amore per il prossimo. Per anni i capi delnazionalsocialismo hanno predicato l’odio contro gli ebrei. Ora che hanno otte-nuto il potere e hanno armato i loro seguaci –tra i quali ci sono dei noti elemen-ti criminali– il seme dell’odio si schiude […]. Tutto ciò che è accaduto e ciò cheaccade quotidianamente viene da un governo che si definisce “cristiano”. Nonsolo gli ebrei, ma anche migliaia di fedeli cattolici della Germania e, ritengo, ditutto il mondo, da settimane aspettano e sperano che la Chiesa di Cristo fac-cia udire la sua voce contro tale abuso del nome di Cristo […]. Noi tutti, cheguardiamo all’attuale situazione tedesca come figli fedeli della Chiesa, temia-mo il peggio per l’immagine della Chiesa stessa, se il silenzio si prolunga ulte-riormente» (pp. 104-105). In calce la firma: «Dott.ssa Edith Stein – Docenteall’Istituto tedesco di pedagogia scientifica presso il Collegium Marianum diMünster» (p. 106).

Con la parziale apertura degli archivi vaticani è stata resa pubblica la letterache la filosofa fenomenologa scrisse a papa Pio XI per segnalare i pericoli del-l’ideologia nazionalsocialista e dell’antisemitismo. Scritta nell’aprile 1933, sol-tanto tre mesi dopo l’avvento di Hitler al potere, questa lettera rappresenta undocumento di grande valore non soltanto per gli studiosi del pensiero di EdithStein, ma anche per gli storici e per gli specialisti della storia della Chiesa in par-ticolare, che lo hanno inserito nel dossier sui “silenzi” in merito alla persecuzio-ne degli ebrei nella Germania nazista. L’appello lucido, consapevole, responsa-bile, fondato su ragioni etiche, religiose, spirituali e politiche, è stato oggetto diriflessione nella Giornata di studio (24 ottobre 2003) tenuta presso la PontificiaUniversità Lateranense, e recentemente pubblicato nella raccolta di saggi EdithStein e il nazismo, con contributi di Philippe Chenaux e Hugo Ott (Parte I: Situa-zione storica), di Angela Ales Bello e Vincent Aucante (Parte II: Questioni filoso-fiche), con una Prefazione e una Postfazione dei curatori.

Lo storico della Chiesa Philippe Chenaux pone subito alcune questioni informa interrogativa: si può storicamente parlare di un esplicito atteggiamentodi “resistenza” in Edith Stein, o la sua missiva è piuttosto da interpretarsi comeun gesto isolato, preludio di una sorta di disimpegno nei confronti della vitapubblica, come l’ingresso nel Carmelo di Colonia nell’ottobre di quello stessoanno sembrerebbe confermare? C’è nel pensiero della Stein una specificariflessione filosofico-politica sulla natura del nazismo e sull’avvento TerzoReich, di questo male assoluto e radicale, denominato totalitarismo? E anco-ra: vi sono legami attendibili tra questa lettera, che denuncia i pericoli delnazionalsocialismo per la fede cristiana, e la condanna del “neopaganesimo”razzista da parte dell’enciclica Mit brennender Sorge del marzo 1937?

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Dichiarando quest’ultima ipotesi «difficilmente dimostrabile» (p. 14) e docu-mentabile da un punto di vista storico, Chenaux si sofferma su alcuni punti del-l’enciclica degni di nota: il vile non rispetto del concordato da parte delle auto-rità del terzo Reich; l’incompatibilità del nazismo (mai nominato esplicitamen-te) con le verità essenziali del cristianesimo; la condanna della divinizzazionedel popolo (si tratta della degenerazione del concetto di Volk, secondo quantoattestano più avanti lo studio di Hugo Ott sotto il profilo storico, e quello di Vin-cent Aucante sotto il profilo filosofico), della razza e dello stato; e infine l’idola-tria e il culto neopagano, profanazioni dei concetti religiosi cristiani fondamen-tali. Chenaux offre preziosi contributi allo studio della prima associazione filo-semita della storia della Chiesa, l’Opus sacerdotale “Amici di Israele” (1926),successivamente condannata dalla Congregazione del Sant’Uffizio (1928); e inparticolare del dossier sul “Syllabus” contro il razzismo del 1938. A quest’ulti-mo riguardo, egli sottolinea l’impegno di Pio XI che, preoccupato dalla diffusio-ne in Italia delle teorie razziste e antisemite, volle spingersi oltre nella suadenuncia dell’eresia, definendo senza mezzi termini una vera e propria formadi apostasia il famoso Manifesto della razza (14 luglio 1938), pubblicato da ungruppo di scienziati italiani. Nel novembre del 1938 il pontefice scrisse poi aMussolini e al re, per protestare vivacemente contro un progetto di legge raz-ziale che impediva i matrimoni tra “ariani” e “non ariani”.

Dobbiamo al puntuale studio di Angela Ales Bello la comprensione dellenozioni filosofiche di “Stato”, “società civile”, “comunità”, “massa”, così comeEdith Stein le ha elaborate nell’opera giovanile Psicologia e scienze dello spi-rito (1922), in Una ricerca sullo Stato (1925), e in La struttura della personaumana (1932). Le analisi condotte negli anni Venti costituiscono un amplia-mento di quelle di Adolf Reinach, e tendono a individuare la “struttuta ontica”dello Stato, il suo essere fondato sul diritto, la sua genesi, la sua funzione e ilsuo rapporto con la sfera dei valori. Ales Bello, definendo centrale il ruolo attri-buito da Edith Stein alla “comunità”, lo relaziona alla vita politica, sociale e cul-turale tedesca, dove è determinante, rispetto alla tradizione latina (più indivi-dualistica e contrattualistica), l’importanza attribuita al gruppo, all’associazioneumana, e persino alla struttura tribale, nella quale il legame di sangue e quel-lo strettamente familiare forniscono la prossimità. Con la regressione dellanozione di Volk e il ritorno alla prevalenza dei legami di sangue e della razzaè di fatto impedita l’apertura spirituale verso gli altri esseri umani. Nell’etàmoderna, il superamento di tale visione avviene proprio sul piano dello spirito,grazie all’impostazione idealistica (si pensi all’impegno etico segnalato daFichte, o al disvelamento dello spirito nel passaggio dalla fase soggettiva aquella oggettiva in Hegel), molto apprezzata dalla scuola fenomenologica clas-sica, la quale misura con maggiore armonia il rapporto tra il momento dellacomunità e quello dell’individualità, assegnando alla persona umana i momen-ti correlati, costitutivi e inscindibili della corporeità vivente, della psiche e dellospirito: «Seguendo un’indicazione presente nella sociologia di Tönnies, maripresa dai massimi esponenti della scuola fenomenologica, Husserl e Scheler,la Stein ritiene centrale la comunità, come luogo di formazione etico-sociale delsingolo, luogo di solidarietà e di coinvolgimento reciproco di responsabilità […].

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È importante notare che è sulla “comunità statale” che si fonda lo Stato. Puressendo un’entità giuridica, quest’ultimo non vive, se non è sostenuto da unconsenso che nasce da una visione comunitaria, pertanto, si può parlare delloStato come una persona giuridica caratterizzata dalla sovranità, la quale corri-sponde alla libertà in senso personale» (p. 69).

Nel pensiero di Edith Stein gioca un ruolo fondamentale la concezione cri-stiana della persona umana. Si tratta di un’antropologia cristocentrica, checoglie la complessità dell’essere umano sia nel senso soggettivo individualesia in quello intersoggettivo interpersonale. Edith Stein mostra, anzi conferma,una straordinaria visione d’insieme, capace di tener conto del particolareessendo sempre orientata all’universale. Spiega Ales Bello: «Secondo EdithStein, le forme associative corrispondono all’assolutizzazione degli aspetticostitutivi umani: se prevale l’attività psichica, allora abbiamo la massa, trasci-nata dagli impulsi e dalle prese di posizione spontanee puramente reattive, seprevale l’aspetto intellettuale dell’organizzazione finalizzata a uno scopo sidelinea la società, se prevale la struttura giuridica, allora c’è lo Stato; la comu-nità mantiene la sua centralità rispetto a tutte queste forme associative perchécoinvolge l’essere umano nella sua complessa articolazione, frutto di legamipsichici e spirituali attraverso i quali si delinea propriamente la vita etica, chesfocia nel bene del singolo e del gruppo» (p. 110).

In quest’ottica, il momento spirituale-religioso non è una semplice appendi-ce della vita associata, ma il suo fulcro. Se invano si cercherebbe una defini-zione esplicita di “Stato totalitario” nelle opere di Edith Stein, il suo accoratoappello a Pio XI può però essere letto come denuncia dello smarrimento edella manipolazione degli autentici valori cristiani; e come lotta alla violazionedei diritti umani, causata dalla distorsione della fonte ebraico-cristiana che li hastoricamente determinati e che ora si vorrebbe eliminare. Un tema di grandeattualità, nell’Europa oggi dominata dal dibattito, non sempre lucido né intellet-tualmente onesto, sulle sue radici e sui suoi fondamenti.

Patrizia Manganaro

L. KOLAKOWSKI, Bergson, a c. e con post-fazione di L. Lestingi, Palomar, Bari2005, pp.168.

Nella collana “Dia-loghi” dell’editrice barese Palomar è uscita in questi gior-ni, a cura di Leo Lestingi, una monografia su uno dei più influenti pensatoridella prima metà del Novecento, il francese Henri Bergson (1859-1941). Auto-re è Leszek Kolakowski, il filosofo polacco divenuto celebre per la sua criticaabbastanza precoce (a partire dalla metà degli anni Cinquanta) delle societàdel “socialismo realizzato” dell’Est europeo e soprattutto per la sua vicendaintellettuale, che può essere considerata esemplare del rapporto tra cultura epolitica proprio dei regimi delle cosiddette “democrazie popolari”. Come tantialtri intellettuali del dissenso, dopo la repressione della rivolta studentesca del1968 e di quella operaia del 1970-71, Kolakowski constata da un lato l’allergia

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delle élites di potere dominanti alle istanze del revisionismo da loro propugna-te che andavano nella direzione di un marxismo antidogmatico e antitotalitario,dall’altro l’irriformabilità dei sistemi socialisti.

Come sottolinea Lestingi nella sua puntuale e documentata Postfazione,Kolakowski recupera le fonti morali del socialismo classico, che pone l’accen-to sulla libertà e la responsabilità degli individui nella storia, e in testo monu-mentale, Cristiani senza Chiesa (1962), rilegge la storia del cristianesimo allaluce dell’“antagonismo tra fede e confessione”. Colpisce in questo lavoro nonsolo la convinzione di Kolakowski delle matrici teologiche della cultura occiden-tale, ma soprattutto l’idea, che diventerà sempre più centrale nella sua rifles-sione teorica, secondo cui la religione non è una mera sovrastruttura dellabase economica e dei conflitti di classe, ma una “forma autonoma dellacoscienza sociale”. A Oxford, nella solitudine dell’esilio e degli studi, scriverà itre grossi tomi della storia del marxismo, Nascita, sviluppo, dissoluzione delmarxismo (1977-78-79), in cui il filosofo polacco rimarca la dimensione eticadel marxismo, nato dalla rivolta contro lo sfruttamento e l’oppressione.

Sempre più interessato al “senso e non-senso” della tradizione cristiana,Kolakowski si avvicina a una concezione della religione come quella dello sto-rico delle religioni Mircea Eliade, per il quale il linguaggio dei simboli e dei mitinon è da considerarsi come uno stadio arretrato e primitivo della razionalitàlogica e scientifica, ma un aspetto originario della vita spirituale. In Presenzadel mito (1972) il filosofo polacco difende la “necessità” del mito, il suo essereparte integrante della cultura, la sua funzione ineliminabile rivolta a fornire dellerisposte alle domande ultime dell’esistenza. La dimensione del sacro, sembradi capire, per Kolakowski non può essere completamente prosciugata dallasecolarizzazione, pena altrimenti la difficoltà o l’impossibilità di percepire il“male” nelle forme che oggi assume, ad esempio, relativamente ai paradossi ealle antinomie del progresso scientifico-tecnologico, ma anche relativamentealla povertà, alla fame e alla miseria di gran parte degli abitanti del pianeta.

Nella cornice di questo spiccato interesse per il religioso si colloca il volumesu Bergson (1985), caratterizzato da un approccio peculiare: discutere fino ache punto la critica bergsoniana dell’evoluzionismo e del materialismo del suotempo è una critica dello scientismo e delle ideologie su di esso costruite, e nonanche una liquidazione del sapere scientifico tout court. Kolakowski ricostruiscel’itinerario speculativo di Bergson evidenziando come la fama di questo filosofonasce da una sorta di reazione all’egemonia del darwinismo e del positivismoallora imperanti. Alla celebrazione da parte di questi ultimi dell’intelligenza ana-litica –“geometrica”, astratta, spazializzante– egli contrappone la facolta dell’in-tuizione, che coglierebbe il tempo reale della coscienza interiore, la “durée”,cioè la continuità qualitativa dell’esperienza, con cui possiamo afferrare la real-tà “assoluta”, non contaminata da pregiudizi utilitaristici. Ciò che a Kolakowskiinteressa in questo efficace ritratto del filosofo francese è verificare quanto siasostenibile una concezione della coscienza radicalmente distaccata dal cervel-lo e dagli stati fisici, un tema che oggi ritorna nella polemica tra gli esponentidelle neuroscienze e coloro che non si arrendono al riduttivismo monistico.

E quanto sia sostenibile una contrapposizione tra le forme puramente

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sociali della morale e della religione (le religioni e le morali ufficiali) da un latoe le forme differenti in cui lo spirito umano e l’immaginazione si emancipanocreativamente da vincoli ed obblighi coercitivi dall’altro. Sotto questo profilo, sele polemiche antiscientifiche di Bergson appaiono datate –come faceva notareGaston Bachelard, il maggior epistemologo francese del Novecento–, le sueavvertenze sui limiti e i pericoli del credo razionalista restano quanto mai attua-li contro il sempre risorgente complesso di onnipotenza dell’“homo faber”.

Francesco Fistetti

Identità femminile in formazione – Generazioni e genealogie delle memorie, ac. di M. Durst. Franco Angeli, Milano, 2004, pp. 199.

Il volume, curato da Margarete Durst, docente di Filosofia dell’educazionepresso la Facoltà di Lettere e filosofia dell’Università di Roma Tor Vergata, rac-coglie i contributi di un gruppo di studiose accomunate dall’interesse per la“questione donna”, centrata sui rapporti generazionali e sulle genealogie dellememorie nei processi di formazione e di auto-formazione femminile, in cui ilmodello materno e le memorie femminili, costituiscono esempi di identità e diriferimento in diversi spaccati generazionali.

Il filo conduttore dei saggi raccolti in questo testo, è quello della costruzionedi un’identità femminile a partire dai processi di formazione e di autoformazionee dai luoghi e mezzi di educazione, come principali strumenti di crescita, di rea-lizzazione, ma anche veicoli di condizionamento e di inglobamento in un conte-sto di tradizione che per le donne non ha agito sempre come punto di riferimen-to e di confronto, ma come meccanismo di omologazione in un immaginario col-lettivo sociale e culturale, di cui sono rimaste spesso vittime. Le stesse figureparentali, la madre sin da quando si è bambine, poi il marito successivamente,fungono in positivo o in negativo da punto di riferimento, a volte di legittimazio-ne, approvazione, consenso, poche volte, invece, di crescita e confronto.

La conquista di una propria identità autodeterminata, che parta da un sanoconfronto con queste figure, senza che esse diventino elementi condizionanti,è un lungo cammino di conquista e di libertà che tutte le donne vivono quoti-dianamente, qualora se ne rendano conto. Le autrici di questi saggi, ci parla-no di donne, protagoniste della storia o dei romanzi, che vivono questa scoper-ta, spesso anche molto dolorosa, di una propria identità ignorata perché calpe-stata o perché sopraffatta da ogni tipo di manipolazione.

La stessa storia dell’educazione ci mostra come il modello pedagogico pen-sato per le bambine sia di genere minore, minore spessore teoretico e conte-nutistico, maggiore tentativo di veicolare e produrre virtù tradizionali, rassicu-ranti, mai pericolose nell’attentare gli equilibri sociali e culturali costruiti e mani-polati al maschile da secoli di storia e di civiltà; virtù intramontabili e mai in evo-luzione e che coincidono sempre con l’amore, l’umiltà, la fedeltà, il rispetto, lapietà, la cura, ecc.

La relazione con la madre, con una tradizione che attrae, ma da cui si è ten-

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tate di distanziarsi è molto presente in tutta la letteratura e la narrativa asiaticadi formazione e di autoformazione, ove il confronto generazionale femminile(madre-figlia-nonna), è narrato in modo magistrale, sottolineando quanto latentazione di porre distanze generazionali, significhi prima di tutto mettere dinuovo in gioco se stesse, rinascere. Sicuramente ripercorrere la storia dellegenealogie, è un cammino interno alla tradizione, nel tentativo, come è eviden-ziato da Margarete Durst di valorizzare la tradizione stessa come strumento diorientamento, ma anche come spinta progettuale proiettata verso il futuro.

Proprio la rimessa in discussione dell’identità di genere socialmente costrui-ta e la conseguente decostruzione e critica degli stereotipi femminili ed anchemaschili, avvenuta con maggiore incisività nel secondo Novecento ad operadel pensiero femminista, ma iniziata già nel Settecento, ha reso evidente l’am-biguità e le deformazioni dei modelli formativi e di ogni tipo di educazione,dimostrando così lo stretto nesso esistente tra istruzione femminile, costruzio-ne di “modelli pedagogici muliebri ideali” e consolidamento dei pregiudizi sulladonna. Vi è altresì un filo conduttore, una coordinata comune a legare pregiu-dizi e ideali di virtù femminili ai modelli di donna privilegiati, connubio resoancor più forte dal collante dell’educazione. Queste virtù, spesso in un passa-to, ancorché recente, venivano tramandate di generazioni in generazione, dimadre in figlia, senza che spesso vi fosse alcuna elaborazione evolutiva o cri-tica verso questa “eredità genealogica”, ma semplicemente per un “automati-smo di nascita”, per lo più di parte materna.

Nella genealogia maschile, tradizionalmente trasmessa, la nascita, ovveroil passaggio generazionale, acquisisce una valenza di potere, di affermazionedi una continuità storica di stirpe e quindi di conferma di autorità patriarcale cherimanda però sempre a consolidare un passato, pur proiettandolo nel futuro.

La relazione materna, afferma sempre la Durst, acquista una diversa colo-ritura poiché la donna, nel mettere al mondo un nuovo essere umano, viveinnanzitutto in sé il cambiamento irreversibile che quella presenza comporta eche, impedendole di rimanere ancorata al passato, la proietta verso un futuroche ha in quell’evento le sue radici, ma che assume tutte la connotazione pro-pria della trasformazione.

Trasformazioni che sono argomenti di riflessione del saggio di Heather Gar-dner dedicato alla narrativa anglo-asiatica, in cui proprio il legame madre-figliaè il modo centrale di una conflittualità accentuata dai cambiamenti generazio-nali e che mette in dubbio la validità della tradizione. All’interno della tradizio-ne, come in un caleidoscopico labirinto costituito da cerchi concentrici, non sipuò non fare i conti con l’educazione e la sua storia, da cui appunto anche l’im-magine e l’identità femminile vengono condizionate con il loro portato di idealie valori, tramandati sempre dalla tradizione stessa.

Nel saggio di Caterina Poznanski, come in quello di Anna Rossi Doria, simette in luce proprio questa continua operazione, a volte di distanziamento,altre di assimilazione delle donne rispetto alla tradizione, in un conflitto esisten-ziale in cui è in gioco un intero sistema di valori. Ovviamente, fa notare anco-ra Durst, il rapporto critico con la tradizione e con il suo spessore valoriale, haprofondamente inciso sull’itinerario formativo delle donne che hanno dato

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avvio alle ricerche di genere, femministe, e al femminile. Tant’è che la messain discussione di percorsi educativi e di una trasmissione di valori tanto obbli-gati, quanto negatori dei diritti delle donne, all’autonomia, alla cittadinanza, allapari dignità e alla differenza, ha dato inizio a una nuova tradizione educativa(al femminile, femminista, o alla differenza), che sta curando un proprio cano-ne culturale e metodologico, mantenendosi sempre vigile nei confronti dellestandardizzazioni, con ricadute più o meno indirette sull’immaginario dell’iden-tità femminile e sull’esistenza concreta delle donne. Immagine e rappresenta-zione femminile fortemente condizionata dalla costruzione simbolica maschile,finendo finanche per deformare la stessa percezione delle donne, che proprioattraverso la conferma maschile e l’adesione ad un modello, socialmente e tra-dizionalmente legittimato, realizzano sin da piccole la propria identità.

Va infatti aggiunto, continua ancora Durst, che parlare di autoformazionedelle donne, significa sempre mettere in campo l’uomo, cioè l’identità maschi-le vissuta a livello d’immaginario ed esperita nei rapporti di realtà, non solo per-ché l’identità femminile si è in larga misura determinata in maniera specularerispetto a quella maschile, ma anche perché la complementarietà dei due sessiè tutt’oggi iscritta nella struttura genetica dell’essere umano. Di certo, comeosserva Giovanna Providenti in un altro contributo contenuto nel saggio, il pen-siero intuitivo, concreto, la sintesi, la comunicazione psico-affettiva, il linguag-gio corporeo, attengono alla dimensione esistenziale femminile e mettono ingioco la differenza sessuale come criterio ermeneutico con cui analizzare ilreale, contribuendo ad elaborare una nuova cultura, più ricca e complessa,anche in prospettiva pedagogica.

Diverse voci, quelle presenti in questo testo che rimandano però tutte allungo processo di gestazione del divenire donna, reso e testimoniato da diffe-renti storie femminili, forme di narrativa e biografie di donne, riflessione sull’at-tività di formazione e di rispetto della educazione che sappiano restituire respi-ro, differenza e dunque libertà ad entrambi i sessi.

M. Camilla Briganti

C. MORÓN ARROYO, Hacia el sistema de Unamuno. Estudios sobre su pensa-miento y creación literaria, ed. Cálamo, Palencia 2003, pp. 228

È apparso nelle librerie spagnole il testo di uno dei pionieri e più importan-ti studiosi di Miguel de Unamuno: Ciriaco Morón Arroyo, colui che ha apporta-to un decisivo contributo negli studi unamuniani attraverso l’individuazione diquattro tappe fondamentali nella riflessione dell’autore, necessarie per la com-prensione della sua opera.

In realtà, per chi scrive, i contributi apportati da C. Morón Arroyo allo studio diUnamuno sono molti, perché la sua profonda formazione filosofica e filologica, egli studi da lui condotti sul tempo storico in cui s’inserisce e vive don Miguel,costituiscono un punto di vista fondamentale per comprenderlo appieno.

E ciò lo si può vedere nel modo in cui C. Morón Arroyo interviene sulle sup-

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poste contraddizioni unamuniane, e la sua asistematicità, distinguendo fra ciòche la cultura centroeuropea intende per sistema (= Hegel) e ciò che è siste-ma in Unamuno, che è invece pensatore spagnolo; un modo diverso quindi disvolgere la propria riflessione, ma non per questo meno sistematica, ed in ciòrivelando una particolarità tutta spagnola, e dei pensatori più in generale. Edanzi proprio a proposito dei pensatori (Unamuno, Ortega, Borges, Servet…, L.Valla, Machiavelli…), di coloro che hanno cambiato la direzione del pensierooccidentale, C. Morón Arroyo coglie l’occasione per lamentare un’assenza diun’attenzione della Storia della filosofia nei loro confronti, oltre che di studi ocattedre universitarie dedicate allo studio del loro fondamentale apporto.

Altri argomenti trattati nel testo, che raccoglie saggi pubblicati nel corsodegli anni in riviste o atti di convegni, sono studi analitici su: En torno al casti-cismo (1895) nel quale viene illustrata la prima tappa del pensiero di donMiguel (1884-1897) dedicata allo studio dei problemi della Spagna del tempo,presa nel dibattito fra tradizionalisti e progressisti per ciò che concerne la rige-nerazione della patria. Rispetto ad essi, Unamuno preferirà, come sottolineal’autore, la tradizione eterna: paradosso che esprime la volontà di cercare unconcetto nucleo che unisca due contrari quali sono tradizione e modernità. Taletradizione eterna si trova nel popolo contadino, ossia nell’intrahistoria, oppostaalla historia, costituita invece dagli avvenimenti esterni che non lasciano trac-cia profonda nel popolo, ossia da ciò che è passeggero e superficiale e noninfluisce nella lingua del popolo, vera fonte della sua storia. Una posizione chetuttavia cambierà con il 1901, quando sparirà il dualismo historia/intrahistoriaed i significati prima attribuiti all’intrahistoria saranno assorbiti dalla historia,oltre al fatto che ora il simbolo della civilizzazione storica viene scoperta nellacittà, e nei cittadini, anziché nelle campagne e nei contadini.

La novella Niebla è occasione per C. Morón Arroyo di un’altra acuta rifles-sione nella quale, inseguendo la ricostruzione scientifica del sistema di Una-muno, parte dalla definizione di scienza quale studio dell’essenza ed apparen-za delle cose, che prescinde dalla causa esistenziale che le produce, per pro-porre, contrariamente ad altra critica, uno studio della novella distaccato dallabiografia del suo autore. Questo perché, proprio quando si prescinde dall’au-tore, l’opera artistica che pure resta individuale ed in ultima istanza incompren-sibile come la vita, si tesse con altre, assume esistenza autonoma, e va a for-mare quella che definiamo come la cultura di quel particolare momento. E sic-come per lo studio di un’opera d’arte occorre un metodo morfologico, se talemetodo viene utilizzato per riordinare l’opera unamuniana, l’autore ritiene checiò possa permettere di ricostruirne il sistema. Un sistema in cui le note princi-pali sono: l’eliminazione di elementi descrittivi nella presentazione dei drammiumani, la fusione di finzione e realtà, il richiamo alla teoria tomista della visio-ne beatifica, come al mito della caverna platonico. Un sistema che troverà lasua sintesi nell’altra novella San Manuel Bueno, mártir (1930) e che «risulta uninventario –afferma l’autore– delle idee di Unamuno. Ed è fino a tal punto uninventario e sunto, che ci sono frasi indecifrabili, perché sono ritagliate da con-testi più ampli» (p. 123). Insomma Niebla è l’espressione della problematicaradicale della persona umana: essere/non essere, che si struttura in base agli

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elementi della filosofia classica, precedente all’esistenzialismo, come sottoli-nea l’autore, e finisce per essere –nell’opera complessiva di don Miguel– «l’in-crocio in cui si passa a trattare esplicitamente un nuovo nucleo di temi: i pro-blemi della personalità» (p. 85).

Ma Unamuno è anche poeta, ed il suo poema forse più importante è El Cri-sto de Velázquez che Morón Arroyo analizza nell’intenzione di rilevare comes’inserisca il poema nel pensiero di don Miguel ed in cosa consiste il poeticorispetto alla poesia spagnola del tempo. La divisione del poema in quattro partied i temi in esse trattati corrispondono a quelli che pre-occuparono Unamunodurante tutta la sua vita: il Cristo crocefisso/redentore dell’umanità (= Dio); ilCristo che vince la morte donando al mondo la speranza (= la cultura ed ilposto svolto dalla Spagna); descrizione del quadro di Velázquez in quanto tale(= arte e quindi la scrittura); speranza della resurrezione, per cui don Miguelchiede di identificarsi con Cristo per sempre. Nel poema si rispecchiano peròanche problemi su cui Unamuno si concentrò negli anni che vanno dal 1913 al1920 e quindi il contrasto parola/lettera, la relazione universale vita-coscien-za/vita-cultura; il dibattito con i protestanti sulla concezione di Cristo come eroemorale/garante dell’immortalità di ogni individuo e perciò senso ultimo per lavita e l’universo; da qui che il Cristo che si consegna alla morte, non solo dàvita alla cultura della manifestazione di Dio, ma con la fede nella resurrezionedella carne, dà vita ad una specie di dualismo o distinzione fra quel tipo di fededei primi cristiani e la fede nell’immortalità dell’anima introdotta da S. Paolo.Insomma il poema si configura come una meditazione o un dialogo dell’autorecon Cristo e come contemplazione nella misura in cui ha davanti a sé il qua-dro. Inoltre nel poema parla l’autore con la carne y hueso della sua anima equale espressione, portavoce di tutto un popolo ed anzi dell’umanità. Il fatto poiche Unamuno lavorò a tale poema per sette anni e che le sue parti siano col-locate in ordine logico, fa ritenere a Ciriaco Morón che sia questo un poemasistematico, nel quale don Miguel pur parlando tante volte contro la ragione,opta per una poesia densa, di pensiero che sente. Ciò sta a dire che la ragio-ne è per Unamuno la facoltà suprema dell’uomo –sulla concezione della qualepoi l’autore ritorna in un altro capitolo in cui la illustra parallelamente a quelladi Ortega (pp. 209-228)–, quella che ignora e cerca il fine dell’universo e noncerto quella che amputa la questione umana per eccellenza: da qui l’accusa disadduceismo per H. Cohen e la proposizione del Cristo corpo come rispostaalla conoscenza pura ed alla volontà pura e contro cui realizza un poema:riflessivo, figlio del sentimento (= attitudine totale dell’uomo), in cui la lingua èprimo scoppio di significato e riverbera in tutte le sue possibilità di significazio-ne, e dove la storia è assunta a centro imprescindibile perché la vita dell’uomoabbia senso. Il poema di Unamuno è allora, secondo Morón Arroyo, un«modello di poesia classica: realizzazione di un mondo di senso, non sempli-ce espressione di sentimenti personali né ricerca d’immagini senza riferimen-to alla realtà» (p. 100) come era invece per i coltivatori della poesia pura dellaSpagna intorno al 1916, e motivo per cui l’uscita del poema di don Miguelpassa sotto silenzio.

Ed a proposito di scrittura e di essere, un’altra illuminante analisi è quella

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che l’autore ci offre in Ser y escribir: consistencia de Unamuno y paradojas dela realidad, nel quale si ribadisce la fondamentale consequenzialità dell’Una-muno pensatore, unitamente alla sua asistematicità, se si considera il terminesistematico nel suo senso convenzionale. Una consequenzialità che resistenonostante apparenti contraddizioni come quella che si potrebbe riscontrarenella visione ora negativa, ora positiva circa la scrittura; ciò infatti riguardasempre il libro che si legge, perché ci sono libri vivi che sono fonte di vita, altriinvece che mortificano la vita. Così possono sembrare contraddizioni le con-trapposizioni: verbo/palabra, sempre celebrata da don Miguel come spirito evita e contemporaneamente la sua volatilità fuggitiva; letra que mata/vivifica eda qui la tendenza di Unamuno a scrivere come «scrittore oviparo che fecon-da le proprie posizioni con lavoro, mediazione e costanza» (p. 116). «La pre-ferenza per la parola parlata sulla scrittura –continua l’autore– si fonda sul fattoche certamente la prima è spontanea, sincera ed autenticamente nostra; men-tre la seconda è artificiosa, libresca e non personale […]. Parlare e scriveresono due forme di realizzare la lingua, che nulla hanno a che vedere con laspontaneità e la sincerità. La sincerità dell’uomo non è il suo primo movimen-to davanti ad uno stimolo, ma la decisione che si prende per un motivo ragio-nevole» (p. 117). Insomma la relazione palabra/escritura in Unamuno rifletteuna «lotta fra il dovere, il volere ed il poter dire. Il testo è il risultato di quellalotta» (p. 119); qualcosa che si riflette in ognuno di noi e che quando si realiz-za, in testo appunto, si fa forza storica, l’anima del proprio autore. E propriopartendo dalla scrittura, si può cercare di definire l’opera di Unamuno; e forseil termine che più la indica è quello di differenza, come sostiene Ciriaco Morón,spiegando la scelta di questo termine con l’uso che don Miguel fa della Y (= e),non solo come congiunzione copulativa, bensì come «una forma di presenzadell’autore nel proprio scritto» (p. 145). Quest’uso della Y che è topico di Una-muno, spiega la differenza come punto di convergenza di due concetti contra-ri che se da un lato si respingono, dall’altro invece si richiedono a vicenda pernegarsi. La Y è allora il vincolo che fonda i contrari e la differenza è una riela-borazione del concetto hegeliano –ed a proposito di Hegel, l’autore si preoccu-pa anche di stabilire l’influenza e la presenza nei vari periodi intellettuali di donMiguel (pp. 179-207)– e marxista di dialettica. Ora don Miguel, sui temi fonda-mentali di cui si occupa la filosofia e che afferiscono all’esistenza umana (iden-tità, senso dell’esistenza, tempo ed eternità…), scrive dei poemi. Da questopunto di vista si può quindi affermare che la sua poesia è filosofica, ma con-temporaneamente che si tratta di una poesia autentica. Ecco allora che la E difilosofia e poesia va ad esprimere un’identità ed al contempo una differenza,perché ognuna fa riferimento ad una funzione diversa espressa dalla parolaumana: comunicazione d’idee, di sentimenti, di sensazioni di musica e colore,e di tipo strutturale. Don Miguel, come afferma Ciriaco Morón, nelle sue con-torsioni linguistiche esprime «l’anelito di fusione di contrari presenti nei primiarchetipi dell’immaginazione» (p. 157). Se infatti la filosofia trova la sua origi-ne nello studio delle categorie primarie della mente (essere/non essere,io/altri…); e la poesia incarna le immagini che incarnano le forze della vita edella morte (Dionisio/Apollo, ragione/istinti…); ecco che la poesia di Unamuno

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non fa altro che drammatizzare le immagini primarie della mente. «È una poe-sia –dice Ciriaco Morón– filosofica nel più stretto senso; da una parte, perfet-tamente razionale, ma non puramente razionale, perché realizza le quattrofunzioni del linguaggio» (p. 156).

Da qui che si può intendere il lemma usato da don Miguel: siente el pensa-miento, piensa el sentimiento.

Carmine Luigi Ferraro

Marialuisa Pulito, Identità come processo ermeneutico. Paul Ricoeur e l’Anali-si Transazionale, Armando, Roma 2003.

Il testo di Maria Luisa Pulito costituisce il lucido tentativo di tracciare unalinea trasversale tra filosofia e psicoanalisi non tanto e solo per sondarnel’aspetto interdisciplinare, quanto per rinvenire, attraverso la specifica opera diPaul Ricoeur e di Maria Teresa Romanini, una zona di convergenza profonda,rappresentata dalla questione della identità personale. Il complesso lavorodunque, più che interdisciplinare, potrebbe definirsi con-disciplinare, o fondati-vo quanto alla legittima possibilità tanto per il discorso filosofico quanto per lateoria/pratica psicoteraupeutica di collocare rettamente e, conseguentemente,trattare la persona nel rispetto e nella prospettiva della sua identità.

A dispetto di una tale complessità della sfida proposta, il linguaggio utilizza-to dall’autrice è fluido, semplice e lineare pur senza risultare mai riduttivo. Gra-zie alla felice confluenza della formazione filosofica con la sua intensa attivitàprofessionale di psicoterapeuta, Maria Luisa Pulito riesce inoltre ad enuclearee tenere nel discorso linee teoretiche complesse come quelle relative alla dot-trina della sostanza, alle teorie del corpo, del linguaggio, dell’ermeneutica edella ontologia, accanto a frequenti esemplificazioni pratiche, di fenomeni vita-li quotidiani –vere e proprie Lebensformen– tentando costantemente di mostra-re l’operatività della teoria nella prassi, e la possibilità di rinvenire, con meto-do, il nucleo di senso soggiacente a manifestazioni, situazioni, modi di dire edi agire, relativi al sempre vivo relazionarsi dell’io con sé attraverso l’altro e del-l’io con l’altro attraverso di sé.

La questione centrale, come emerge dal titolo, è cogliere l’identità della per-sona, quale processo ermeneutico. Tale processo, come insegna Ricoeur, ecome attentamente mostra l’Autrice specie nella prima parte della sua opera,pur oscillando tra volontario ed involontario, pur marciando attraverso le stret-toie di una identità in bilico tra la pura autouguaglianza dell’io con se stesso(idem) ed il fuggevole e dinamico tratto dell’io che agisce, gioisce e soffre, con-taminandosi con gli altri pur rimanendo il medesimo sé (ipse), costituisce fon-damentalmente un processo unitario, che si snoda nella complicata trama nar-rativa del tempo, nell’intreccio di vita destinato poi a diventare materiale di rac-conto nelle sedute di analisi psicoterapeutica (cfr. p. 178).

Dunque, la persona non ha una sostanza già costituita, né una essenzaidentica e singolare che brillerebbe di per sé nella costellazione di altre analo-

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ghe identità personali. L’identità è la risultante di un processo, ciò che derivada una ampia articolazione di elementi mobili come la mente, il corpo, gli statidell’io, la coscienza, gli atti linguistici, le pulsioni, i vissuti, la trama di vita con-divisa attraverso Altri.

Riprendendo Ricoeur, l’identità dunque, inerisce il cogito integrale (cfr. p.173), sospeso tra il «volontario» articolato in progetti, decisioni, motivi raziona-li e moventi pulsionali (tale differenza, non teorizzata da Ricoeur, viene inseri-ta dall’A. – cfr. p. 45) e l’«involontario» rappresentato in primo luogo dal corpointeso come luogo della passività e affettività, delle emozioni, delle sorprese edelle abitudini (cfr. pp. 49 ss.) e in secondo luogo dal carattere che, lungo l’evo-luzione del pensiero di Ricoeur (da Il volontario e l’involontario, lungo Finitudi-ne e Colpa sino a Sé come un altro), ha inizialmente rivestito il lato immutabi-le dell’identità personale per poi invece, in modo più elastico, venire definitocome quell’“insieme della note distintive che consentono di reidentificare unindividuo umano come il medesimo” lungo la “continuità ininterrotta e la perma-nenza nel tempo” (cfr. p. 59).

La questione dell’identità è dunque una trama compartecipata da moltelinee di attività e passività, dove la mediazione dell’Altro, interviene sempre ecostantemente, in senso discorsivo, etico ed ontologico, nella mutevolezza delSé: proprio dall’incidenza di molte variabili, è possibile dunque pensare ad unaidentità della persona, e, in senso reversivo, tracciare a partire da questa iden-tità una ipotesi di comprensione umana.

Nella seconda parte del libro e dettagliatamente dal capitolo quarto, l’A. tentadi traslare i contenuti forti della questione dell’identità tracciata da Ricoeur entrola teoria analitico-transazionale teorizzata, nello sviluppo della psichiatria socia-le, da Berne e, successivamente, in maniera originale, da Maria Teresa Romani-ni. Tale teoria, nata negli anni ’50 analizza, nel senso ermeneutico di adagiar-fuori secondo il significato proprio dell’Auslegung, i singoli Stati dell’Io. Nel rac-contarsi, e nello scambio di comunicazione con il terapeuta, l’analizzato, attraver-so l’attività linguistica/emozionale intersoggettivamente articolata nel tono dellavoce, nel modo di espressione, nei significati e segni emergenti, lascia scaturireuna serie di informazioni che rivelano i mutevoli quanto strutturali, Stati dell’Io,intesi, secondo Berne, come sistemi compatti di sentimenti o comportamenti rife-riti a un determinato soggetto o come schemi uniformi di sensazione e esperien-za cui corrispondono schemi di comportamento (cfr. p. 112). Entro questa visio-ne, la personalità si sviluppa in un tempo condiviso ed interpolato con altri, attra-verso transazioni, attraverso in particolare giochi più o meno consapevoli e nor-malmente ricorrenti, allo stesso modo di un copione scritto diretto e interpretatodall’io stesso nel ritmo dei suoi progressivi vissuti, attraverso l’articolazione delcorpo e della mente interagente con altri (cfr. p. 124).

L’idea del copione, si riferisce a quel processo ermeneutico in ordine alquale, noi cerchiamo di attuare un programma di vita inconsapevolmente auto-determinato, di realizzare la nostra propria identità nella autoesplicitazione diuna vita, seguendo spesso modelli definiti di personalità o di destino, di cui,secondo Berne, i miti come quelli di Ercole, Damocle, Tantalo, Aracne, Sisifocostituiscono precise esemplificazioni (pp. 125-126).

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Su questa scia, Maria Teresa Romanini, approfondisce il discorso sullo svi-luppo e sulla struttura della personalità, passando attraverso la teoria dell’at-taccamento, a partire dall’attività protomentale dell’embrione e della vita pre-natale, lungo l’attività motoria e conoscitiva del bambino, culminante nella pro-nuncia del proprio pronome personale “io”. Riprendendo la dinamica tempora-le della personalità, la Romanini, come in modo preciso e accurato mostra l’A.,assume l’idea di copione come processo fisiologico di interpretazione/com-prensione della vita personale, che si struttura e si mantiene attraverso pro-gressive identificazioni. Nelle parole stesse di Maria Teresa Romanini, il copio-ne, che mantiene il significato teatrale di una identità che si vuole costante, èun programma di vita, il migliore possibile lungo cui si snoda congiuntamentela crescita psicologica e la parabola biologica (cfr. p. 136): il che comprende,nel senso di Ricoeur, la questione ontologica della identità avvinghiata allaistanza etica, ripresa sulla scia di Aristotele, del vivere con e attraverso gli altriuna vita buona all’interno di istituzioni giuste (cfr. pp. 84 ss.).

In questa parte del libro particolarmente densa e palpabilmente sentita dal-l’A., Maria Luisa Pulito esplora, attraverso la reinterpretazione dell’opera dellaRomanini, la triplice dimensione bio-psico-esistenziale della persona, la costi-tuzione della mente umana e dell’autoconsapevolezza, intesa come autono-mia, autenticità dell’essere, piena accettazione della propria ed altrui identità.

Il contributo del testo è chiaro: tentare una strada omnicomprensiva, diaccerchiamento della comprensione umana, dove si mostra che nella curadegli altri siamo implicitamente inclusi, così come siamo avviluppati alle dina-miche interattive della costituzione del nostro sé. L’Analisi Transazionale per-metterebbe, una volta individuati gli Stati dell’Io interagenti nelle varie situazio-ni, di liberare la persona dalle strettoie copionali.

In questo senso, Maria Luisa Pulito, propone di operare, nell’ambito dellaricerca psicoterapeutica, una sostituzione prototipica, sovrapponendo la trage-dia e il modello dell’Antigone a quello di Edipo, giacché, a differenza dell’Edi-po, tragedia afferente al potere della verità e al tentativo inconscio di masche-rarne gli ineluttabili effetti, Antigone esprime, entro il dramma della giustizia,quel conflitto tra autorità del diritto vigente e legge eterna del sentimentoumano, tra quello che siamo e quello che vorremmo essere o che saremmo,che lascia risaltar fuori, ancora più forte di un destino, la nostra fragilità affetti-va e la nostra aperta, precaria identità.

Pier Paolo Fiorini

G. INVITTO, Sartre. Dio: una passione inutile, Edizione Messaggero, Padova 2001,pp. 96.J.-P. SARTRE, La mia autobiografia in un film. Una confessione, traduzione e curadi Giovanni Invitto, Cristian Marinotti Edizioni, Milano 2004, pp. 160.

Giovanni Invitto è certamente uno dei più attenti e dei più costanti cultoridella filosofia francese del Novecento. I suoi studi su “Sartre e dintorni” sono

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notissimi, e non solo in Italia. È stato ed è un protagonista di prim’ordine neldibattito filosofico e storiografico da oltre un quarto di secolo. I suoi più recen-ti contributi alla migliore comprensione dell’autore di L’être et le néant riguar-dano il tema della religione, affrontato in una bella monografia, Sartre. Dio: unapassione inutile, e la cura e la traduzione, accompagnate da una puntuale“Nota in premessa”, di una sorta di autobiografia tracciata da Sartre nella sce-neggiatura del documentario Sartre par lui même: Jean-Paul Sartre, La miaautobiografia in un film. Una confessione.

La monografia del 2001, inserita in una raffinata collana diretta da GiorgioPenzo: “Tracce del sacro nella cultura contemporanea”, percorre tutta la consi-stente e corposa produzione del filosofo francese per evidenziare il tipo diapproccio al sacro e al tema di Dio. Le analisi di Invitto non si fermano alla sem-plice sottolineatura del ben noto ateismo sartriano. Non vogliono ribadire lanatura “pregiudiziale” di questo ateismo e l’impegno del filosofo a progettare unmondo senza Dio, un mondo che abbia al suo centro la coscienza umana, inte-sa come libertà, e l’esistenza, concepita come contingenza. E neppure intendo-no recuperare e riproporre l’affermazione secondo cui Dio è l’idea di un essereverso cui tende l’uomo, in quanto “Dio è la realtà umana come totalità”, con laconseguenza di sentire il sentimento religioso come una “struttura permanentedel progetto umano”. E, nonostante il titolo, non si propongono come finalitàesplicita di mostrare la faccia negativa, il rovescio dell’impegno a considerarel’ateismo come il segno dell’emancipazione umana, vale a dire la “solitudine” elo “spaesamento”, prodotti dalla convinzione che “l’uomo è un creatore e che èabbandonato, solo, nel mondo”, e che, pertanto, “l’ateismo non è un allegro otti-mismo, ma nel suo senso più profondo, una disperazione”.

L’indagine fine e acuta del “cattolico” Invitto non è neppure sfiorata dallatentazione di un eventuale “recupero” ad un qualsivoglia spirito di religiosità laricca e complessa riflessione sartriana dalla metà degli anni Trenta agli anniSettanta. Punta, invece, intelligentemente a capire e ad evidenziare le motiva-zioni profonde, le movenze concettuali e le procedure logico-zetetiche che giu-stificano e sottendono la scelta di ingaggiare la lotta contro quella che il filoso-fo parigino considera come la grande “illusione trascendentale”, come il “rove-sciamento” della “passione” di Cristo, del Dio, cioè, che muore perché “l’uomoviva”. Al contrario di quella del Cristo, infatti, la “passione” dell’uomo, consi-stente nel sacrificarsi perpetuamente perché Dio esista, è “inutile e dannosa”.

Per meglio procedere in questa indagine, Invitto procede ad un’attenta erigorosa contestualizzazione del pensiero sartriano all’interno della fitta rete direlazioni, comprendente non solo l’articolato mondo dell’esistenzialismo e dellafenomenologia, da Kierkegaard a Merleau-Ponty, ma anche la filosofia tedescada Marx a Feuerbach a Nietzsche. Questa ricostruzione del reticolo culturaleeuropeo gli consente di recuperare e di evidenziare il senso profondo del ter-mine “umanismo” usato da Sartre per qualificare il suo esistenzialismo, e dicomprendere le strutture portanti di un tipo di moralità e di responsabilità eticache, proprio da parte di un pensiero fondato sulla negazione di Dio, richiede diessere attentamente indagato nella sua genesi e nel suo costituirsi. Il puntocentrico della domanda su Dio anche da parte di un pensiero dichiaratamente

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e pregiudizialmente ateo sta, infatti, proprio nel bisogno di fondare una mora-le a partire dal grido di Zarathustra, “Dio è morto”. A Invitto, infatti, interessaevidenziare proprio i risvolti umani e morali della “fede” sartriana nell’ateismo.Ed interessa, altresì, mostrare che l’affermazione nietzschiana relativa allamorte di Dio non è assunta in proprio dal filosofo francese per il semplice gustodi essere irriverente o comunque eccentrico, ma con tutta la serietà possibile,con la conseguenza di tentare di fondare, a partire da essa, un’antropologiafilosofica e una morale antisistematica e antiprecettiva, che abbiano, entram-be, come punto fondante la contingenza dell’esistenza e l’essere in situazionedell’uomo.

La morale è al centro anche dell’altro volume curato da Invitto ed inseritonella collana “Sartriana”, di cui è responsabile Gabriella Farina. La mia autobio-grafia in un film, infatti, non rappresenta soltanto l’ampliamento dell’arco ditempo della vita del filosofo ricostruita da Sartre stesso attraverso i ricordi. È,come tutti i suoi scritti, un libro di filosofia. È un’autobiografia costruita con fina-lità e procedure filosofiche. Sartre intesse con Simone di Beauvoir, con AndréGorz, con Michel Contat e con altri, un “dialogo”, che a Invitto sembra assume-re l’andamento dei dialoghi platonici. E lo fa al fine di fare chiarezza non soltan-to al proprio interno, illuminando il suo passato, il suo formarsi come “borghe-se” avverso alla borghesia, ma soprattutto per illuminare un periodo storico, unarco di tempo denso di eventi e di scelte assai significative. Se è vero che adessere preso in considerazione da Sartre è tutto l’arco della sua vita, dall’infan-zia fino al 1972, è vero anche che gli anni fino al 1962 erano già stati ricostruitie ripensati in Les mots. La novità vera, perciò, è rappresentata dal decennio1962-1972. Sono gli anni in cui il filosofo aveva scelto di “essere con” il popolo,di mettere a disposizione dei giovani attivi nella primavera del ’68 tutto il suoprestigio di intellettuale “intoccabile” e tutto il “suo intemerato coraggio civile”.

Nel far luce sul periodo storico indagato, da analista attento, capace di farrisaltare la tessitura relazionale che lega il soggetto alla situazione e agli altri,Sartre riflette su se stesso, sulla sua “ambiguità” di uomo dalla “pelle borghe-se”, che si affianca a quanti vorrebbero liquidare la società borghese, con lapiena presagita consapevolezza che non starà poi “molto comodo” nella socie-tà che augura agli altri. Egli sa che è questione di “pelle” e che, perciò, la scel-ta intellettuale e morale di impegnarsi in una lotta a favore delle masse si scon-tra –come annota acutamente Invitto– con “l’impossibilità ‘situazionale’ d’impe-gnarsi in maniera decisiva e ‘appartenente’”. Nella densa e acuta “Nota in pre-messa”, Invitto coglie e discute tutti i temi affrontati nel testo: dal rapporto let-teratura-filosofia a quello autobiografia-filosofia; dall’esame della “personaliz-zazione” della libertà e della responsabilità individuale del singolo all’orizzontecivile, politico e morale in cui maturano le sue scelte e che fanno del soggettol’“universale singolare”; dal ruolo dell’intellettuale alla “più volte ribadita impre-scindibilità della morale”.

Lo scenario non è una pratica psicanalitica, con tutti gli addenda che l’ac-compagnano. Sartre non crede al subconscio né ai condizionamenti che irre-tiscono la coscienza menomandone o frustrandone la libertà. Lo scenario èla ricostruzione e la riaffermazione di un percorso di pensiero che affonda le

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sue radici nella fiducia antidealistica che l’esistenza è il primum da cui tuttodiscende: “je suis donc je pense”; di un percorso che consuma anche attesee aspettative, amicizie e collaborazioni (come nel caso di Merleau-Ponty e diCamus), ma che sintetizza “paradossalmente e forse involontariamente”–come finemente annota Invitto– “circa sessant’anni di un engagemet radi-calmente etico”.

Aniello Montano

MICHELE BRACCO, Sulla distanza. L’esperienza della vicinanza e della lontanan-za nelle relazioni umane, con uno scritto di Lorenzo Calvi, Stilo Editrice, Bari2003, pp. 124.

Non si può non provare una piacevole sorpresa nel leggere, con gusto econ profitto, un libro di filosofia dalla scrittura scorrevole, semplice, eppurerigorosa e impegnata. Tanto più se opera di un giovane studioso: le opere gio-vanili, specialmente se filosofiche, risentono, si sa, di forme di scrittura mutua-te dalla scuola e dai maestri da cui si proviene e si dipende. Al contrario è lamaturità che, di solito, consente libertà di pensiero e di stile. Nel libro di Miche-le Bracco, giovane e filosofo, non si avverte, se non per qualche dovuto riferi-mento teorico, l’area culturale di formazione. La lettura, agevole e veloce,passa con libertà e, insieme, con pertinenza, dalla filosofia alla pratica psico-logica e psichiatrica, ai temi della più attuale riflessione morale, senza condi-zionamenti di scuola e dimostrando la capacità dell’Autore non solo di muover-si in maniera agile e sicura tra le righe degli autori citati, ma anche di saperpensare con la propria testa.

Nella libertà intellettuale che l’Autore rivendica nei riguardi dei suoi stessiauctores, l’approccio al tema della distanza –nozione che assieme a quella divicinanza e di lontananza proviene dall’ambito della geometria e della fisica,ma che qui viene indagata e discussa in una chiave tutta filosofica– assumeuna valenza eminentemente etica, le cui tracce mi pare di cogliere fin dall’In-troduzione, nella quale, come è d’uso, si riversano le personali dichiarazionid’intenti e di princìpi. È qui che egli si impegna a dare particolare risalto a quel-la distanza dell’Altro, “la cui prossimità… rende possibile la dimensione etica”(p. 10): distanza, prossimità, dimensione sono componenti di un discorso etico.Infatti, “senza distanza non potremmo mai andare incontro all’altro” e “senzadistanza non ci sarebbe per l’uomo alcuna libertà” (ibidem).

La distanza, dunque, come supporto della differenza e della libertà; ma dif-ferenza e libertà, tra loro connesse, sono componenti della democrazia. Senzala distanza esistenziale tra l’uno e l’altro verrebbe meno la precondizione dilibertà, che rende irripetibile il singolo: scomparirebbero le differenze e prevar-rebbe il conformismo. Tutti eguali. Si vedano le pagine dedicate al tema dellamolteplicità delle lingue e del pluralismo dei costumi e dei valori che caratteriz-za il nostro tempo, nel capitolo su “La distanza culturale”. Qui spazio, differen-za, multiformità linguistica si contrappongono alla “desolante omologazione”

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che è la necessaria conseguenza di una “imposizione totalitaria”: le uniformidelle organizzazioni fasciste e naziste.

Privilegiando il tema del rapporto tra noi e gli altri, Bracco per un versomanifesta la sua sensibilità intellettuale verso la contemporanea antropologiafilosofica (dalla Kristeva a Todorov, e, in Italia, da Remotti a Fabietti), per laquale identità e diversità sono prodotti culturali, così come per Bracco è lo spa-zio; per un altro verso, l’insistenza con cui egli attribuisce al linguaggio la fun-zione di esplicitare non solo un “modo di dire”, ma anche un modo di “dischiu-dere e di significare qualcosa” (pp. 16-17) mi pare che lo sospinga, in modoper dir così naturale, al di là di quei confini di scuola, ai quali pure rivolge “l’ono-re delle armi”, mostrando di non rifiutare a priori un confronto con indirizzi teo-rici che, partendo dalla svolta linguistica avviata da Wittgenstein, usano il lin-guaggio come uno strumento più idoneo a denotare i percorsi delle relazionitra gli uomini di oggi, per una soluzione dell’intricato problema della conviven-za tra culture, religioni, tradizioni, che nell’èra della globalizzazione è quantomai urgente per mettere fine alle tremende e preoccupanti deflagrazioni chehanno aperto il terzo millennio.

Filosofi appartenenti all’area culturale anglosassone hanno riconsideratoinfatti da circa mezzo secolo, in termini di filosofia morale e politica, l’impiantoteorico delle relazioni interpersonali senza essenzialismi, né irrigidimentisostanzialistici, che quasi necessariamente portano a trasformare il dialogo inun duello. Non è un caso che la critica alla filosofia come specchio della natu-ra e la sua riformulazione come un insieme di “vocabolari,” più semplicementedi linguaggi differenti, condotta da Richard Rorty –o, ancora meglio, la defini-zione di Jürgen Habermas del dialogo come un discorso volto all’intesa e del-l’umanità come comunità di dialoganti– caricano sulle spalle dei singoli laresponsabilità di un raccordo tra gli uomini.

È quanto mi sembra voglia dire l’Autore (pp. 32-37) a proposito dei diver-si significati dell’“abitare”, come rapporto di familiarità, di condivisione dellaquotidianità, un prendersi cura di persone e cose che ci circondano. Viverelo spazio, osserva appunto Michele Bracco, induce a ripensare “in terminiassolutamente nuovi la prossimità e la distanza”. Riferendosi, d’altro canto,alla nozione heideggeriana di “visione ambientale preveggente”, egli conclu-de che “non esistono affatto cose né tantomeno spazi neutri” e che pertantonon può non esserci un “rapporto costitutivo” che faccia da cerniera al rap-porto tra noi e le cose. Ma, al di fuori del linguaggio heideggeriano, in cosaconsiste questo rapporto? Su questo motivo l’autore ritorna più volte e, fortedi una sua dimestichezza con pratiche pedagogiche e psichiatriche, si richia-ma ad alcune figure: l’alunno annoiato e angosciato dalla scuola e lo schizo-frenico chiuso in se stesso, ambedue precipitati al fondo della loro esisten-ziale “distanza inattingibile”, che –pur nella diversità dei due casi esemplifi-cati e prescindendo da aspetti di natura patologica– si può tradurre con“chiusura del dialogo”, che invece andrebbe ad ogni costo riaperto, giacché,io credo, solo il dialogo consente di scavalcare la rigidità esistenziale dellacostitutività dell’esserci.

Mi permetto di aprire questa breve e cordiale discussione con l’Autore a

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proposito di quell’incontro con l’Altro, su cui si sofferma con efficace capaci-tà argomentativa nel capitolo su “La distanza assoluta”. A me pare, infatti,che non sia il caso di andare alla ricerca di una costituzione preordinata, diun fondamento cioè di natura ontologica. Secondo me il rapporto nasce dallanecessità od opportunità di conoscersi e di convenire su qualcosa, parlando,discutendo, magari anche azzuffandosi. Ciò che serve all’intesa è che non cisia nulla di preordinato, se non la volontà di concludere. Non mi pare che laprossimità sia qualcosa di antecedente alla volontà, comunque determinata,di contattare l’altro, come si sostiene sulla scia di Emmanuel Lévinas (p. 99).Ritengo invece più convincente il richiamo che J. Habermas fa in Etica deldiscorso ad una volontà volta all’intesa. Nulla di trascendentale anche qui,ma solo un’esigenza della nostra società che, sempre secondo Habermas,per un agire coordinato ha bisogno di un determinato quantitativo di comuni-cazione.

È un bisogno che si è accentuato oggi, nelle condizioni di un mondo non piùseparato nelle sue parti. Con i viaggi intercontinentali, con la trasmissioneistantanea di somme di denari da un capo all’altro del pianeta, con gli scenaridi guerra o di distruzioni immani, come l’attacco alle Torri di New York, che leimmagini televisive ci hanno dato in tempo reale coinvolgendoci drammatica-mente, la distanza non divide e non sgomenta, così come la prossimità non rie-sce a tenerci legati al nostro villaggio, indifferenti e ostili all’altro, al nuovo, aldiverso, al forestiero. Oggi, Ulisse o Robinson Crusoè non sono più modellisuggestivi di vita. Dal telefono alla radio, dal computer a Internet e alla postaelettronica, il mondo è percorso da flussi d’informazione e di input che si sot-traggono ad ogni controllo. È la via percorsa ogni giorno dal mondo degli affa-ri, della cultura e della scienza, ed anche, è vero, dalla criminalità internazio-nale. L’infittirsi della rete di interconnessioni, la velocità e la quantità di implica-zioni che ne derivano, conducono ad una intensificazione delle reciprochedipendenze e il modello dei mondi separati viene sostituito da un’interdipen-denza transnazionale.

In questo bel libro, Michele Bracco, partendo dai luoghi austeri della filo-sofia, non chiude gli occhi dinanzi a questo scenario e, mettendo in discus-sione la nozione di distanza e dei suoi correlati, ha aperto un itinerario cheobbliga la ricerca teorica a non sottrarsi alla valutazione di quanto ormai èsotto gli occhi di tutti.

Franz Brunetti

M. T. RUSSO, Corpo, salute, cura. Linee di antropologia biomedica, Rubettino,Cosenza 2004, pp. 252.

Per coloro che dubitano dell’utilità della riflessione filosofica circa questio-ni ormai padroneggiate con crescenti successi dal sapere scientifico e tecno-logico, questo libro può valere come una provocazione. Certamente ogni pro-vocazione è sempre in qualche modo enigmatica, soprattutto in quanto alle

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reazioni che può effettivamente suscitare e, in questo caso, è lecito immagi-nare che l’eventualità più immediata possa essere di segno negativo. Infatti,leggendo i tre termini che compaiono nel titolo del volume –corpo, salute,cura–, viene subito da chiedersi se farne oggetto di una discussione basatasu problematiche, strumenti concettuali e semantici inevitabilmente differen-ti da quelli più ‘esatti’ della scienza biomedica, non equivalga infine ad unmero esercizio retorico: uno dei tanti con cui certi filosofi tentano di arginarel’orgogliosa eppur incoraggiante convinzione della comunità scientificamoderna di riuscire, prima o poi, a risolvere tutte le questioni che maggior-mente inquietano la vita umana.

Sennonché, proprio rivolgendo un’attenzione costante e rispettosa a questasorta di promessa che impronta il ‘metaracconto’ della scienza moderna, laRusso riesce in effetti a provocare una risposta positiva alla questione dell’utili-tà della filosofia –disciplina che ella tende assimilare all’antropologia filosofica(cfr. cap. II)– rispetto ai temi presi in esame. È appena il caso di ricordare, perinciso, che la categoria dell’utile è forse la più denigrata dai filosofi stessi, nono-stante costituisca di fatto una sorta di leit motiv delle nostre pratiche di giudizioe di valorizzazione. Ebbene, gran parte di ciò che Maria Teresa Russo scrive, adispetto di qualche espressione di diffidenza verso tale concetto, non fa cheriproporne la insormontabile validità nel nostro modo ordinario di pensare, digiudicare i nostri e gli altrui atteggiamenti mentali e comportamentali. Ciò tantopiù in quanto si tratta, nel suo discorso, di discutere lo spessore esistenziale diuna serie di attitudini socio-culturali che, a ben guardare, molti di noi non esite-rebbero a definire inutili o, quanto meno riduttive, rispetto al pieno riconosci-mento della complessa realtà dell’essere umano. In questa luce, infatti, laRusso si impegna man mano in un approfondimento della domanda filosoficaforse più scomoda da maneggiare: quella circa una definizione sufficientemen-te motivata di ciò che può dirsi ‘umanamente utile’ nel corso delle circostanzepiù dolorose e inquietanti di quelle entità tanto fragili che, nonostante i meravi-gliosi progressi scientifici, noi continuiamo ad essere.

Così, già nel primo capitolo, dopo aver illustrato con cura e senza eccessipolemici le ambiguità che circondano la semantica delle nozioni di corpo, salutee malattia nell’orizzonte post-moderno, l’autrice lascia emergere la sua proposta:occorre “recuperare un approccio antropologico alla malattia, per valutarla nelsuo spessore di esperienza biografica, nonché un approccio morale, che la con-sideri dal punto di vista del malato”. È però importante non confondere il primoaspetto con l’antropologia culturale –cioè con una descrizione delle usanze rela-tive alla malattia– così come è importante non confondere il secondo aspetto conl’etica medica o l’etica della relazione clinica. Piuttosto, si tratta di mettere manoad una “teoria della malattia come esperienza, nella quale il malato si rapporti ase stesso” e questo compito passa, a suo avviso, attraverso un appello alla ten-denza a comprendere e riflettere che è propria di ogni persona (cfr. p. 37).

Il punto di vista specifico cui si intende far spazio è comunque quello di untipo di riflessione antropologica che riesca ad emanciparsi dalle strettoie delnichilismo e dello scientismo materialista e, soprattutto, che sappia accoglierel’interrogazione filosofica sul senso e sul valore della vita umana. A sostegno

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di tale prospettiva, risulta senz’altro efficace il capitolo III del volume, intitolato“L’enigma del corpo”. Suddiviso in due sezioni, la prima dedicata all’inquadra-mento storico e l’altra alle discussioni teoretiche del tema della corporeità,esso fornisce una rassegna delle diverse teorie del rapporto corpo-mente (cor-redata anche da utili schematizzazioni) nonché un resoconto degli aspettimaggiormente indicativi della difficoltà di ridurre la componente fisica dell’es-sere umano ai meri meccanismi dei fattori materiali. A quest’ultimo riguardo, siistituisce un proficuo intreccio di osservazioni filosofiche e storico-antropologi-che, che aiutano a chiarire alcune specifiche funzioni della corporeità (adesempio la sua carica espressiva e comunicativa) ma anche una serie di atteg-giamenti concreti dai quali traspaiono i vissuti individuali e collettivi per cui essaacquista la sua multiforme valenza semantica.

È tuttavia soprattutto negli ultimi due capitoli del volume –il V e il VI, rispetti-vamente dedicati al binomio salute/malattia e al tema della morte– che si puòritrovare il significato più intenso di quel potenziale di ‘provocazione’ che sisegnalava all’inizio di queste note. Se, infatti, il suggerimento esplicito dell’autri-ce di recuperare lo spessore etico della corporeità, nella sua duplice possibilitàdi salute e di malattia, implica –come si è detto– un’apertura alla domanda sulsenso e il valore della vita, è certo giusto indicare –secondo il suo approcciofenomenologico alla questione– la sofferenza e il dolore come la sorgente piùpropria da cui tale domanda può e di fatto tende a nascere. Ma il problema veroè di vedere quali risposte si possono dare a tale domanda e qui ciò che la filoso-fia può offrire è essenzialmente la lucida consapevolezza della propria finitudine.Non è poco, perché è solo a partire da questa elementare verità, cui tutti appar-teniamo, che si può infine parlare sensatamente di etica della sofferenza, di par-tecipazione e di compassione, di cura e consolazione.

Eppure, affinché il riconoscimento dell’umana finitudine non rischi –come inrealtà sovente accade– di convertirsi in sentimenti inesorabilmente negativi o inopzioni nichilistiche più o meno devastanti –quel che più conta è forse proprio ciòche definisce lo spirito autentico della filosofia: la sua riluttanza ad accontentarsidi risposte definitive ovvero la sua attitudine a spostare sempre in avanti ogni sin-gola domanda, il che significa qui interrogarsi circa il senso della morte metten-done in questione proprio la sua figura più scontata, quella di mero culmine eattestato della nostra limitatezza. Ma allora la vera provocazione della Russosembra essere questa: in una atmosfera di ‘nomadismo’ culturale, teorico ed esi-stenziale, nonché di arroganza della ragione scientifico-tecnologica, atmosferache ella descrive e analizza con molteplici riferimenti, è ancora possibile aprirsiad una interrogazione profonda sulla nostra finitudine e sulla morte, che è poil’unica vera certezza di cui disponiamo e non solo, per parafrasare Heiddeger,“la possibilità più propria” dell’essere umano? E ancor più: fino a che punto pos-siamo parlare di dolore e di malattia trattandoli solo ed esclusivamente comeeventi e non piuttosto anche come misteri da accogliere con tutta l’umiltà che ilriconoscimento della nostra finitezza dovrebbe dettarci? Ma è evidente che quila riflessione filosofica resta e non può che restare un’utile attività propedeutica.

Rosa Calcaterra

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ROSARIA LONGO, Figure dell’anti-hegelismo in Italia. Martinetti, Rensi, Pareyson,Bonanno, Acireale-Roma 2004, pp. 168.

È tendenza comune dei libri presentarsi come più coesi, omogenei ed esau-stivi di quanto in realtà essi siano. È quindi con una certa sorpresa che ci sitrova, leggendo Figure dell’anti-hegelismo in Italia. Martinetti, Rensi, Pareysondi Rosaria Longo, presentato come una trilogia di saggi e con una comunanzadata dall’anti-hegelismo dei tre pensatori, a rilevare l’intricata ragnatela dirimandi che si stende da un saggio all’altro, e a coltivare l’impressione cheesso sia stato concepito già “intero” nella mente dell’autrice. È la stessa intro-duzione ad indurre nel lettore avvertito questi pensieri. L’anti-hegelismo, infat-ti, vero per tutti e tre i pensatori qui presi in esame, finisce con il costituire uninsieme prudenziale, quasi l’autrice abbia voluto predisporre gli elementi di affi-nità, li abbia messi in rilievo, ma voglia che sia il lettore ad attivarsi per scopri-re l’ordito che li lega.

Innanzi tutto viene ridotta la distanza cronologica fra i tre attraverso il taglioparticolare dato al saggio su Pareyson, imperniato sulla formazione del filoso-fo fino a contenere un “sotto-saggio” sul suo maestro Augusto Guzzo, e finen-do con il collocarsi quindi nel periodo della piena attività di Rensi e Martinetti.

Non che la Longo, dei tre pensatori in esame, rammentandoci che «diver-se sono le prospettive che ne caratterizzano i rispettivi percorsi» (p. 8), tacciadifferenze ed estraneità, spesso anzi le evidenzia (si veda la messa in rilievodell’ammirata ma recisa critica martinettiana all’interpretazione che Rensi dàdel pensiero di Kant) ma lo fa anche, seppure con estrema discrezione, neiconfronti delle non casuali tangenze: la comune attenzione di Martinetti ePareyson al pensiero di Fichte come possibilità di un idealismo “altro” rispettoa quello hegeliano, oppure la segnalazione in nota di come, proprio Martinetti,sia stato presente tra le prime letture di Pareyson.

Ma non è su questo piano che si gioca la questione. Non è semplicemente laconfutazione di Hegel (magari con l’acrobatico e sofistico “tutto ciò che è reale èirrazionale” di Rensi) né la sua rilettura in sede storiografica (problema checomunque Pareyson affrontò magnificamente) a costituire l’anima di questo volu-me. Pareyson, Martinetti e Rensi sono prossimi non negli esiti, ma in un aspettopiù profondo, che Rosaria Longo fa emergere con una precisa strategia.

Nell’introduzione, infatti, la studiosa mostra la vicinanza tra le filosofie diCroce e Gentile rispetto allo “schiacciamento” della storia nella contemporanei-tà che essi, pur separatamente, mettono in atto presentando «elementi comu-ni che le rendono riduttive dell’idea di storicità, così come dell’idea di realtà»(p. 9). A fronte di questa riduzione Rensi, Martinetti e Pareyson disegnano stra-tegie che mirano ad affrontare «il rapporto problematico tra essere e pensiero,ragione e realtà, verità e storia, filosofia e religione» (p. 9). In costoro vi è chia-ra coscienza, come precisa l’autrice, che «il negativo non può essere né oppo-sizione logica da superare, secondo una dialettica di stampo palesementehegeliano, […], né tanto meno errore veritativo da comprendere nella sintesiinterpretativa del presente, perché esso domina la storia e costituisce una con-tinua minaccia per la vita» (p. 10).

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La vasta categoria dell’anti-hegelismo va precisandosi sino a far emergerela piena consapevolezza che il problema possa essere, piuttosto, quello di illu-minare con una luce pietosa lo scandalo del male e della morte. Conoscendol’itinerario di ricerca di Rosaria Longo credo non si sbagli collocando le radicidi questo lavoro nella seconda parte della sua precedente monografia suPareyson (L’abisso della libertà, F. Angeli, Milano, 2000), laddove scandaglia-va con attenzione i temi del tragico o del negativo. È forse la genesi pareyso-niana del problema a permetterle di contestualizzare la questione: «L’identitàdi pensiero ed essere si è scissa con la crisi dell’attualismo» (p. 146), senzaarrestarsi però alla sola ricostruzione storica.

L’irriducibilità del negativo al pensiero, a fronte dell’idea rensiana che visiano «intere filosofie costruite apposta per non far pensare gli uomini al nega-tivo della vita» (p. 90), viene più volte sottolineata. Per Martinetti, che insiste-rebbe «sulla trascendenza del mondo ideale rispetto a quello storico […] esulla irriducibile realtà del male nel mondo» (p. 10), come per Rensi, il cui pen-siero «si fa inevitabilmente dualistico, esplicitandosi come radicale “esperien-za teologico-negativa del malum mundi”» (p. 11). E infine per Pareyson, secon-do cui vi è un «tragico che si annida nella conoscenza ovvero la drammaticitàdell’atto interpretativo, […] nella possibilità che l’interpretazione fallisca e laverità dilegui, lasciando il posto all’ideologia, alla menzogna, al male» (p. 13).In tutti loro la tentazione del dualismo è presente, sebbene diversi saranno gliesiti: per Rensi e Martinetti, «la restaurazione di un impianto dualistico» (p.108), per Pareyson non la «coincidenza tra pensiero ed essere, ma una para-dossale convergenza» (p. 147) espressa «infinitamente nelle forme storichesenza mai ridursi ad esse» (p. 148).

La centralità del negativo e del tragico in questi autori è solida e sembre-rebbe configurarsi in una dimensione che definirei quasi pre-teoretica (nelsenso in cui per Fichte era pre-teoretico decidersi tra idealismo e dogmatismoo per Unamuno usare il corpo per produrre una filosofia che avesse un valo-re). È già la stessa autrice a instradarci lungo questo itinerario attraverso unpasso dei rensiani Lineamenti di filosofia scettica in cui si collegano le posizio-ni filosofiche “al temperamento del pensatore”. Ed è nella categoria del pre-teoretico che mi sembra si possa inserire l’attenzione per gli aspetti biografici,posti sotto l’occhio del lettore con un taglio mirato e non certo aneddotico. Piùvolte viene posto in evidenza il carattere di contrapposizione frontale, di infles-sibilità, tipica della figura di Martinetti. Di Rensi, la Longo sottolinea con delica-ta attenzione le oscillazioni, i mutamenti, direi quasi le convulsioni di chi nontrova pace in alcuna parziale posizione e non crede a sufficienza nella ragioneda poter pensare che possa esisterne una imparziale.

Le sofferenze di Giuseppe Rensi (la sua speculazione è, non a caso,definita tragica dall’autrice) nei confronti dei temi del male, del dolore, delnegativo, della storia che lo strazia con la sua contraddittorietà si rispec-chiano nella messa in evidenza della radice dello scandalo, della tensionetra spirito e mondo che spinge a quello gnosticismo solitario, splendidamen-te anacronistico, cui indulge Martinetti, e nelle accorate ricerche sull’essen-za del male dell’ultimo Luigi Pareyson.

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Qui, nella capacità di non espellere il negativo, di non risolverlo, ma di “sop-portarlo” all’interno delle proprie decennali riflessioni, sta il segno della profon-da vocazione teoretica dei tre pensatori, ed anche, se è vero quello che ciricorda Figure dell’anti-hegelismo, cioè l’idea rensiana «che la grandezza spi-rituale di un uomo si possa ben valutare con la quantità di assurdo che questiriesce a sopportare» (p. 103), la loro grandezza umana.

Davide Miccione

E. DE MARTINO, Vita di Gennaro Esposito napoletano. Appunti per una biogra-fia di Ernesto De Martino, a c. di L. Chiriatti, Kurumuny, Calimera 2004, pp. 52.

Le Edizioni Kurumuny, curate con coriacea passione dal sempre attentoLuigi Chiriatti, hanno pubblicato un percorso nelle parole più intime di ErnestoDe Martino, assaporate dalla viva voce della compagna Vittoria De Palma, checon lui condusse numerose ricerche, accompagnandolo sempre nei suoi viag-gi-studio nel Sud amaro di un’Italia che poneva le basi per il boom economicodegli anni ’60, ma che conservava in alcuni luoghi –anche mentali– caratteriancora arcaici e poco indagati.

“Vittoria ci racconta, come se niente fosse, che Ernesto aveva già comin-ciato a scrivere la sua biografia e le aveva dato anche un titolo: ‘GennaroEsposito’. Ci consegna un indice di argomenti: Coscia e bancarella e merda ecane; L’ingegnere di Porta Nuova; La controra; Il miracolo di San Gennaro”. InVita di Gennaro Esposito napoletano, De Martino racconta la notte della pro-pria nascita, i riti antecedenti il travaglio e gli auspici, mentre in strada (Via Fon-seca) rumoreggiava la napoletanità fragorosa di una processione che chiede-va indumenti per i terremotati di Calabria e Sicilia. E leggendo questo raccon-to si compie il miracolo della scrittura: alzando lo sguardo dalla pagina, ci sisprofonda in quel presepe suburbano, si cammina con gli occhi nel travaglio diuna quasi-madre che dona “le cose” ad altre madri o a donne sopravvissute aipropri figli dopo il tremore della terra. Il ricordare, il dire di Vittoria su Ernestonon è mai al passato; mai scomparso o perso nella memoria. Dai suoi raccon-ti traspare un amore, un ideale, che non sono mai venuti meno sia nei confron-ti di Ernesto, sia per i tanti soggetti e luoghi “indagati” e visti insieme.

Lo stesso De Martino lamentava che di lui fossero stati scandagliati gliaspetti politici, etnologici, intellettuali, ma non la sua dimensione umana, fattadi paure, amori, ansie, delusioni, rabbia, gioie, lotte, passioni. Un lamento inte-riore che si fa parola negli occhi e nella bocca di Vittoria. E nello scorrere delleparole, Ernesto De Martino affiora per davvero dalle pagine di una quasi bio-grafia che lo rende vivo ancora, in tutta la propria umanità e nell’impegnocostante, concretizzati in un’esistenza dedicata ai lati “minimi” della società,alle genti umili e umiliate. Al riscatto del Sud.

Il racconto di una vita, sciolto all’inseguimento dei ricordi di Vittoria DePalma, è tenero e duro. Di quella durezza autentica che il Sud soltanto sa cuci-re alla pelle di chi ne incontra i colori e i dolori. Colpisce un passo d’intenso

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amore postumo fra i due: “lei, anticonvenzionalista per eccellenza, tanto cheper amore di Ernesto aveva abbandonato gli agi e i valori etici e sicuri di unaclasse benestante e borghese, davanti alla perdita della persona amata e aldolore della morte, si veste dei colori tradizionali del lutto e tradizionalmente liporta per anni e per moltissimo tempo si rifiuta di raccontare di Ernesto e delloro rapporto”. Ogni episodio è poesia visiva, amara e tenue vita vissuta daguardare a fior di labbra.

Il rapporto di De Martino con la religione è fatto di rispetto e ricerca sul filodel dubbio: “Attraverso la religione l’uomo cerca un compenso alla sua debo-lezza. Non ho difficoltà a riconoscere che la religione cattolica risponde stori-camente nel modo migliore alla situazione psicologica di chi si sente misere-vole e fragile in un mondo che lo schiaccia col suo mistero e la sua estraneità.La religione cattolica dà una risposta al dolore degli oppressi e offre un leni-mento all’anima affranta e al mondo che non va. Essa spiega che l’uomo è unacreatura di caduta che invano potrebbe con le sole sue forze vincere la propriacondizione di limitazione e di miseria. Essa insegna che attraverso il sacrificiodel dio uomo è stata inserita nella storia una promessa di redenzione e di sal-vezza, promessa che si attua attraverso la chiesa depositaria legittima deglistrumenti di salvezza. Io non posso quindi darti torto, piccola mia, se credi fer-mamente nella religione cattolica […]. Io ti comprendo, mia cara, e non verràmai da me il consiglio di rinnegare il tuo dio, di abbandonare la tua religione.[…] Ma non credere che io faccia professione di ateismo, e che con leggerez-za voglia distruggere ciò che nella società presente con le sue ingiustizie e isuoi dolori è inevitabile, cioè la consolazione, della preghiera fatta al padre, eanche io, in dati momenti, come figlio di questa società, come figlio del doloree dell’oppressione dico a dio la mia preghiera”.

In un’altra, struggente, lettera di Ernesto a Vittoria affiora l’ardore e l’ardiredella leggerezza che solo l’innamorato con la penna intinta nell’inchiostro del-l’Amore totale può scrivere. Bastano quelle parole a comporre un ricordo del-l’uomo Ernesto De Martino, testimone del passato di un Sud ancorato a sestesso. Un uomo di straripante umanità. E l’unico limite e peccato del libro è iltempo. Tempo che accarezza i pensieri mentre si legge. Tempo che è duratotroppo poco quando si rigira l’ultima pagina.

Alessandro Errico

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PUBBLICAZIONI RICEVUTE DA «SEGNI E COMPRENSIONE»

Volumi:

F. AFFERGAN, S. BORUTTI, C. CALAME, U. FABIETTI, M. KILANI, F. REMOTTI, Figure dell’uma-no. Le rappresentazioni dell’antropologia, Meltemi, Roma 2005, pp. 426.T. ANDINA, Il problema della percezione nella filosofia di Nietzsche, prefazione di M. Fer-raris, Abo Versorio, Milano 2005, pp. 419.N. BADALONI, Laici credenti all’alba del moderno. La linea Herbert-Vico, Le Monnier,Firenze 2005, pp. 196.C. BARBERO, Madame Bovary: something like a melody, Albo Versorio, Milano 2005, pp.124.M.L. BIANCHI, Commento alla “Critica della facoltà di giudizio” di Kant, Le Monnier, Firen-ze 2005, pp. 260.V. CAMERINO, Nelle utopie del Sud e del Cinema. La vita, le passioni, le speranze, Icaro,Lecce 2005, pp. 246.Ch. FOURIER, Il nuovo mondo industriale e societario, introd. di L. Tundo Ferente, trad.M.A. Sarti, RCS, Milano 2005, pp. 444.B. LATOUR, Il culto moderno dei fatticci, trad. e c. di C. Pacciolla, Meltemi, Roma 2005,pp. 120.S. MASCHIETTI, L’interpretazione heideggeriana di Kant sulla disarmonia di verità e diffe-renza, Il Mulino, Bologna 2005, pp. 240.S. SALVATORE, Visioni di università. Indagine sulle culture di ruolo di docenti e ricercato-ri, Carlo Amore, Roma 2005, pp. 18.

Periodici:

Acta philosophica, f. I, n. 14, 2005; Pontificia Università della Santa Croce, Istituti Edi-toriali e Poligrafici internazionali, Pisa-Roma.Aesthetica Preprint, n. 73, aprile 2005: T. ANDINA, Percezione e rappresentazione. Alcu-ne ipotesi di Gombrich e Arnheim C.I.S.d.E., Palermo.Annuario filosofico, n. 19, 2003; Musia, Milno.Foedus, n. 10, III quadrimestre 2004; Associazione Artigiana e Piccole Imprese, Mestre.L’immaginazione, n. 211, 2005; n. 212, 2005; Manni, San Cesario di Lecce.Notes et documents, n. 1, janvier-avril 2005; Institut International Jacques Maritain,Roma.

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