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RIVISTA DELLE FIGLIE DI MARIA AUSILIATRICE damihi animas 2012 Anno LIX Mensile n. 7/8 Luglio/Agosto Poste Italiane SpA Spedizione in Abbonamento Postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art.1, comma 2 - DCB Roma LA FRONTIERA DELLA EVANGELIZZAZIONE

Rivista DMA - La Frontiera della Evangelizzazione (Luglio - Agosto 2012)

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Rivista delle Figlie di Maria Ausiliatrice

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RIVISTADE

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TRICE

damihianimas2012Anno LIX Mensilen. 7/8 Luglio/Agosto

Poste Italiane SpASpedizione in Abbonamento PostaleD.L. 353/2003(conv. in L. 27/02/2004 n° 46)art.1, comma 2 - DCB Roma

LA FRONTIERADELLA

EVANGELIZZAZIONE

4EditorialeVivere per il VangeloGiuseppina Teruggi

5DossierLa frontieradell’evangelizzazione

13Primopiano14IncontriValdocco e Mornese:un unico ardore missionario

16Cooperazione e sviluppoFondazione Madreselva

18Costruire la PaceSu strade di nonviolenza

20Filo di AriannaLe paure

RIVISTA DELLE FIGLIE DI MARIA AUSILIATRICEdma damihianimas

sommario

dmaRivista delle Figlie

di Maria AusiliatriceVia Ateneo Salesiano 81

00139 Roma

tel. 06/87.274.1 • fax 06/87.13.23.06e-mail: [email protected]

Direttrice responsabileMariagrazia Curti

RedazioneGiuseppina TeruggiAnna Rita Cristaino

CollaboratriciTonny Aldana • Julia ArciniegasPatrizia Bertagnini • Mara BorsiCarla Castellino • Piera Cavaglià

Maria Antonia ChinelloEmilia Di Massimo • Dora Eylenstein

Maria Pia Giudici • Palma LionettiAnna Mariani • Adriana Nepi

Maria Perentaler • Loli Ruiz PerezPaola Pignatelli • Debbie PonsaranMaria Rossi• Bernadette Sangma

Martha Séïde

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27In ricerca28CultureCredo nella presenza educativaperchè...

30PastoralmenteOratorio in progetto

32Donne in contestoDonna ed evangelizzazione

34MosaicoFamiglia. Risorsa per la crisi

sommario

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ANNO LIX • MENSILE / LUGLIO AGOSTO 2012

35Comunicare36Comunicazione e veritàProfondità delle relazioni

38A me le affidiI giovani mi hanno indicatola strada

40VideoL’incredibile storia di Winteril delfino

42ScaffaleRecensioni video e libri

44LibroIl linguaggio segretodei fiori

46140 anni di storia

n.7/8 Luglio Agosto 2012Tip. Istituto Salesiano Pio XI

Via Umbertide 11,00181 Roma

ASSOCIATAUNIONE STAMPA PERIODICA ITALIANA

Traduttricifrancese • Anne Marie Baud

giapponese • ispettoria giapponeseinglese • Louise Passero

polacco • Janina Stankiewiczportoghese • Maria Aparecida Nunesspagnolo • Amparo Contreras Alvareztedesco • ispettorie austriaca e tedesca

EDIZIONE EXTRACOMMERCIALEIstituto Internazionale Maria AusiliatriceVia Ateneo Salesiano 81, 00139 Roma

c.c.p. 47272000Reg. Trib. Di Roma n. 13125 del 16-1-1970Sped. abb. post. art. 2, comma 20/c,

legge 662/96 – Filiale di Roma

vorirà una conoscenza “più profonda del-le verità che sono la linfa della nostra vita”per condurre l'uomo d'oggi “all’incontrocon Gesù Cristo“.Nuova Evangelizzazione è in realtà Incon-tro rinnovato con Gesù vivo!

La Madre nella circolare n. 922 ci ha offer-to orientamenti per non passare con indif-ferenza di fronte ad un momento tanto vi-tale della Chiesa, e ci ha invitate a“riflette-re su questo evento … come una chiama-ta urgente a tenere desta la via della santitàe a incoraggiarci a trovare sentieri nuovi diirradiazione del Vangelo”.

Di Evangelizzazione parliamo con passionee gioia in questo numero della Rivista: con-dividiamo in semplicità esperienze di vita difede, sentendoci attivamente coinvolte nelcammino ecclesiale, come lo sarebbero donBosco e madre Mazzarello, per i quali“evan-gelizzare non è stato indottrinare, ma testi-monianza, mediante la parola e l’azione, diun amore concreto a Dio e ai giovani”.

Il 1° giugno è mancata suor Maria Rampini,per vari anni redattrice della nostra rivistaDMA. La ricordiamo con gratitudine: unadonna vissuta per il Vangelo!

[email protected]

Vivere per il Vangelo …Giuseppina Teruggi

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… perché è la radice che alimenta il nostrocrescere e perché tutto nella vita cristiana èfinalizzato al Vangelo. Vivere per il Vangeloha valenza causale e finale. È passione che faardere il cuore e dinamizza l’azione. È luceche accende lo sguardo proteso al futuro.Siamo in prossimità della celebrazione del-la 13ª Assemblea generale del Sinodo dei Ve-scovi (Roma, 7-28 ottobre). Un’opportunitàper intensificare la preghiera e approfondir-ne il tema: “La Nuova Evangelizzazione perla trasmissione della fede cristiana”.

Benedetto XVI ha voluto intrecciare l’even-to del Sinodo con l’inizio dell’Anno della fe-de. Incontrando i Vescovi della CEI in mag-gio, ne ha giustificato la coincidenza. “Lamissione antica e nuova che ci sta innanziè quella di introdurre gli uomini e le don-ne del nostro tempo alla relazione con Dio,aiutarli ad aprire la mente e il cuore a quelDio che li cerca e vuole farsi loro vicino, gui-darli a comprendere che compiere la suavolontà non è un limite alla libertà, ma è es-sere veramente liberi […]. Dio è il garante,non il concorrente, della nostra felicità, edove entra il Vangelo, e quindi l’amicizia diCristo, l’uomo sperimenta di essere ogget-to di un amore che purifica, riscalda e rin-nova, e rende capaci di amare e di servire”.Il Papa ha spiegato che l'Anno della fede fa-

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tri. Si tratta di aprire un dialogo con chi noncessa di interrogarsi su Dio, non tralascian-do di stabilire relazioni anche con chi è in-differente nei confronti di tale questione.Frequentare il cortile dei gentili per la co-munità ecclesiale significa riservare spazid’incontro con quelle persone che cono-scono Dio soltanto da lontano e vivono in-soddisfatti dei loro dei, dei loro riti e miti.Ma siamo in grado di affrontare questo nuo-vo compito?La vita religiosa, nonostante le difficoltà cheattraversa, è in grado di rispondere positiva-mente alla missione evangelizzatrice. Essa haavuto origine nel Vangelo e questo unico ele-mento l’ha sempre resa evangelizzatrice.Siamo chiamate a mostrare di essere esper-te di comunione, nonostante l’esperienza deiconflitti e delle fragilità relazionali, e di pre-senza nelle frontiere sociali, culturali, religio-se, capaci di inserirci là dove si trova l’umanitàimpoverita, emarginata, esclusa, nonostantel’invecchiamento e la scarsità di vocazioni indiverse zone geografiche dell’Istituto.In Europa e in alcuni contesti dell’America,la fede sta incontrando diverse resistenze,ma nelle giovani chiese l’azione dello Spi-rito ci dà un’iniezione di speranza e di gioiapasquale come nel caso della Corea.

“Evangelizzazione venti venti”

È il programma della Chiesa coreana chepunta a raggiungere il venti per cento diaderenti alla chiesa cattolica nel 2020. Non

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Uno dei tratti che caratterizzanoil nostro tempo è il misurarsicon il fenomeno del distaccodalla fede di società e cultureche da secoli apparivano impregnatedi Vangelo.

L’istituzione di un dicastero per la nuovaevangelizzazione da parte di Papa Benedet-to ha suscitato non pochi interrogativi:perché la fede cristiana ha bisogno di unanuova evangelizzazione, cioè di un nuovoannuncio? Che cosa sta mutando nel mon-do perché si giustifichi una tale impresa?

Il “cortile dei gentili”

La nuova evangelizzazione interpella tuttala Chiesa e, di conseguenza, ci sentiamochiamate in prima persona a collocarci inquesto importante processo con la stessapassione di don Bosco e di Maria Mazzarel-lo. Evangelizzare nella loro esperienza nonè stato indottrinare, ma testimonianza, nel-lo Spirito, mediante la parola e l’azione diun amore concreto a Dio e ai giovani.In una recente intervista rilasciata allaCONFER (Confederazione spagnola deireligiosi) il Rettor Maggiore, don PasqualChavez Villanueva, ha affermato che la ra-gione della nuova evangelizzazione stanel fatto che la Chiesa si trova davanti a uo-mini e donne culturalmente nuovi, piùsensibili a certi valori, più refrattari ad al-

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solo boom economico: anche quest’annoin Corea del Sud decine di migliaia di cate-cumeni entrano nella Chiesa cattolica.Non c’è forse paese al mondo che nell’ul-timo mezzo secolo abbia registrato una cre-scita così sostenuta di conversioni.La Chiesa cattolica nella Corea del Sud èquella che in Asia cresce di più.In Corea c’è piena libertà di religione e i co-reani manifestano una forte tendenza al cri-stianesimo, perché introduce l’idea dell’u-guaglianza di tutti gli esseri umani creati dal-lo stesso Dio; e poi, sia cattolici che prote-stanti hanno partecipato al movimento po-polare contro la dittatura (1961-1987) men-tre confucianesimo e buddhismo promuo-vevano l’obbedienza all’autorità.Inoltre, il cristianesimo è la religione di unDio persona, fatto uomo per salvarci, men-

tre sciamanesimo, buddhismo e confucia-nesimo non sono religioni, ma sistemi disaggezza umana e di vita.A suor Pak Mi Suk Regina, suor Ryu Jae OkRosa e suor Yoo Kynghee Anna, fma corea-ne, che frequentano a Roma il Corso sullaSpiritualità dell’Istituto, abbiamo chiestoqual è il segreto di questa evangelizzazio-ne che continua a produrre conversioni.

Suor Anna: I numeri, le statistiche sono in-coraggianti, tuttavia ci sono anche limiti;molti chiedono il battesimo, diventano cri-stiani, ma poi a poco a poco la pratica su-bisce una flessione.Ciò che attira è la testimonianza, ad esem-pio, dopo la morte del cardinale StefanoKim Suhwan, molto stimato da tutti i corea-ni per la sua testimonianza di amore alla pa-

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na c’è un gruppo che si occupa in partico-lare del rito funebre.Formato principalmente da uomini, il grup-po ha il compito di essere particolarmen-te attento alle persone più povere e con me-no possibilità di ricevere una sepolturasecondo la tradizione.Testimonianza, carità concreta, inculturazio-ne, spiritualità: in queste parole possiamoracchiudere la proposta di evangelizza-zione che sorprendentemente continuaad attirare i coreani che, non si deve dimen-ticare, sono un popolo naturalmente aper-to alla religiosità.

Testimonianze che evangelizzano

Radicalità evangelica, gioia, semplicità di vi-ta, comunione visibile nella comunità, ge-nerosa donazione agli altri: sono questi gliingredienti di una comunicazione del Van-gelo efficace. Le testimonianze che abbia-mo raccolto sono in questa linea e arriva-no al cuore. Presentano parole, fatti e ge-

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ce e soprattutto ai poveri, ci sono state mol-te conversioni.Suor Rosa: Difesa dei poveri, della giustizia,vicinanza alla gente con una carità pratica,capacità di rendere evidente la proposta diuna spiritualità concreta, attiva, questi so-no i motivi che convincono i coreani a guar-dare con sempre maggiore fiducia allachiesa cattolica. L’evangelizzazione è mol-to legata al passaparola.

Suor Regina: È importante sottolineare an-che la capacità della Chiesa cattolica di pro-porre un’evangelizzazione inculturata, adesempio, in Corea il rito funebre ha moltaimportanza.Nella tradizione seguita dalla maggioranzadei coreani ci sono tre giorni di preghiera;in questi momenti le famiglie gradiscono lavicinanza dei cattolici, testimoni di unasincera solidarietà.Dalla vicinanza nel dolore, si passa al dia-logo e alla possibilità di presentare Gesù eil cattolicesimo. In ogni parrocchia corea-

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sti che richiamano il Vangelo in modo elo-quente e di conseguenza evangelizzano.

La gioia dell’evangelizzazioneFin dai primi anni dell’arrivo delle fma nelNord Est dell’India esistono le Touring Si-sters, ossia suore evangelizzatrici itineran-ti. Il loro compito si svolge in accordo conla parrocchia, il programma delle visiteviene, infatti, preparato insieme al parroco.Si tratta di visitare e stare in diversi villag-gi per due o più settimane ospitate da fami-glie. Il compito principale da assolvere èproclamare il Vangelo di Cristo. Suor Pro-vina Lyngkhoi lavora come Touring Sister dal1985, è passata da una parrocchia all’altra nelNord Est dell’India e conosce molto beneil territorio e la sua popolazione.Nelle sue esperienze di evangelizzatrice iti-nerante ha percorso molta strada, portan-do il messaggio di Gesù attraverso forestee fiumi alle popolazioni delle zone rurali,vere isole di abbandono e di privazioni diogni tipo. Ha però incontrato gente con ilcuore aperto al Vangelo.Parla con disinvoltura di alcuni incontri nondesiderati con gli elefanti nella foresta,dei fiumi che si gonfiano durante la stagio-ne della pioggia rendendo difficile e peri-colosa l’attraversata, delle sanguisughe,delle 5, 8, 9 ore di cammino a piedi per rag-giungere i villaggi perché non ci sono stra-de per le macchine, parla dello stomacovuoto che lancia fitte che reclamano cibo.Racconta allo stesso tempo delle relazioniumane, di come un gesto di affetto, di at-tenzione, di cura della salute con medicinesemplici può aprire la strada al Vangelo.Conclude dicendo che la gioia, anzi, il pri-vilegio di annunciare Gesù è assoluta-mente imparagonabile e ben più grande ri-spetto alle sofferenze causate dalle diffi-coltà che si incontrano sulla strada per spo-starsi da un posto all’altro.

Il prezzo è altoLinda Dominique, novizia fma, è del SudSudan, ma è cresciuta a Khartoum.Racconta la sua esperienza di rimanere fe-dele discepola di Gesù anche in un am-biente dove la vista della croce portata alcollo può attirare delle critiche e può di-ventare una barriera che non permette distringere amicizie.«Mentre ero a scuola, io e le mie altre com-pagne cattoliche e cristiane dovevamo in-dossare l’hijab, imparare il Quran e anda-re nelle moschee a pregare. Io andavo, manello spirito ero convinta della mia fede cri-stiana. Non c’era altra scelta da fare. Erava-mo discriminate per due ragioni: per esse-re cristiane e per essere nere.La fede cristiana che ho ricevuto nella miafamiglia mi ha reso forte fino al punto di vo-ler offrire la mia vita per Gesù. Seguire Ge-sù è bello anche quando il prezzo è alto!».

Annuncio esperienziale«Ho sperimentato in prima persona l’effi-cacia di un annuncio esperienziale.Ero incaricata di un gruppo di giovani ap-passionati di calcio e indifferenti alla Chie-sa. Tutti avevano frequentato il Catechismo,fatto la prima Comunione e la Cresima epoi... la vita di fede si era atrofizzata.Nel 2004, a confronto con la Strenna del Ret-tor Maggiore - Riproponiamo a tutti i gio-vani con convinzione la gioia e l'impegnodella santità come 'misura alta di vita cristia-na ordinaria’ - mi sono sentita fortementeinterpellata, l’eco della chiamata alla santitàsi è rivolto verso di me.Ho deciso di fare un cammino più intenso,di vivere con maggiore attenzione la vita sa-cramentale, di curare la relazione con i gio-vani nella semplicità, pronta a essere la pri-ma a chiedere scusa, perdonare...D’accordo con la comunità, ho deciso diestendere il tempo dell’oratorio fino alle

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18.00, per poter proporre un camminoconcreto di fede. A poco a poco ho visto igiovani imparare ad amare ciò che io amo,perché ho amato anch’io ciò che loro ama-no: il calcio. Il gruppo ha iniziato nell’ami-cizia a vivere la preghiera, i sacramenti, l’a-dorazione eucaristica e a guardare a Mariadi Nazareth, come madre che accompagnanel cammino della vita quotidiana. Il fervo-re generato è stato tale che erano loro stes-si a fare i programmi circa la proposta di fe-de e il gruppo è così diventato un vivaio divocazioni religiose e sacerdotali.Ancora oggi gli ex-allievi ricordano questaesperienza di fede. Riflettendo ho capitoche ho potuto introdurre i giovani in que-sto cammino di crescita della fede non tan-to con le mie parole, ma con la mia vita, conuna relazione d’amore con Gesù e con lo-ro caratterizzata da affetto, comprensione,perdono» (Suor Placida Nthia).

Rimanere aperte al Vangelo

Nell’animazione delle comunità educantirischiamo, senza rendercene conto, di di-menticare che siamo noi le prime destina-tarie dell’annuncio del Vangelo.Essendo molto preoccupate di come tra-smettere la fede in Gesù, rischiamo di fo-calizzare l’attenzione solo su chi è chiama-to ad accoglierla.Ci comportiamo come se, essendoci noi ap-propriate adeguatamente del Vangelo, nonci restasse che trasmetterlo agli altri.È un po’ come se non avessimo più nienteda ascoltare e da ricevere dal Vangelo e, di-venute «maestre» nell’arte di interpretarloe viverlo, ci rimanesse semplicemente da es-serne le trasmettitrici per gli altri.Da qui l’importanza di collocarci adeguata-mente nel processo ecclesiale della nuovaevangelizzazione di rimanere instancabil-

mente destinatarie del Vangelo.In altri termini, la prima questione non è sa-pere «come annunciare il Vangelo?», ma pri-ma di tutto «che cosa il Vangelo dice a meoggi?», «in che cosa il Vangelo è una buo-na notizia per me?».

Lasciarsi evangelizzare

«Ogni mattina alla conclusione della medi-tazione, faccio propositi per vivere le impli-canze della Parola del giorno e alla fine del-la giornata scopro di aver combinato poco.Questa esperienza mi rende consapevoledi essere in cammino, e mi consegna unchiaro senso del limite e della fragilità.Nelle vie dello spirito non esiste il“tutto su-bito”. A volte mi sento come una personache raccoglie acqua inuncontenitore chehadei buchi. Alla fine della giornata forse nonè rimasta acqua dentro il contenitore, ma in-tanto ha lavato e pulito la giara del mio cuo-re e in più sul cammino dove la mia giara hagocciolato spunta e germoglia la vita. E allo-radicoaGesù:“Anche senonvivopienamen-te la tua Parola, essa rimane nel profondodelmio cuoredadove attingo vita e coraggioperandare avanti” (Suor Placida Nthia).La testimonianza della fede è il segno di per-sone evangelizzate che evangelizzano.Esse hanno la fonte del loro impegno nel-l’incontro vitale con Gesù, evento quotidia-no che si rinnova nell’ascolto della Parola,nella partecipazione al mistero pasquale at-traverso la liturgia, i sacramenti, nella comu-nione e nel servizio ai giovani.

La comunità che ama

L’efficacia dell’evangelizzazione non è lega-ta solo ai progetti o ai processi di educazio-ne alla fede, ma al soggetto capace di susci-tare una ricerca personalizzata, un incon-tro profondo e un dialogo fecondo.

Questo soggetto non è altro che la comu-nità educante. Tutta l’azione pastorale èchiamata a fondarsi prima di tutto nella vi-ta della comunità, nel suo carattere sacra-mentale e nel progetto di cui è portatrice.La sua responsabilità si concretizza nell’es-sere segno, nel testimoniare con la vita laproposta del Regno. Si tratta di promuove-re comunità dove si dà molta importanza al-la comunicazione e al desiderio di relazio-ni personali autentiche, dove si risanano leferite e si impara a perdonare.

Adeline Benimana, novizia fma, provienedal Rwanda. Sono 10 tra fratelli e sorelle, dicui due sono morti. Aveva solo 8 anni nel1994 quando ha vissuto l’incubo del geno-cidio. La Parola guida che la sostiene è dalVangelo di Matteo l’insegnamento di Gesùsul perdono: “Non dico fino a sette, ma fi-no a settanta volte sette” (Mt 18,22).Racconta con serenità e libertà interiore l’o-dissea della sua famiglia. Nel 1994 hannodovuto fuggire dalla loro casa e dopo

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due giorni di cammino attraverso le fore-ste sono giunti ai confini della Repubbli-ca Democratica del Congo.Qui, i soldati hanno preso tutto ciò che ave-vano lasciando loro solo i vestiti che indos-savano. Hanno vissuto per un certo perio-do nel campo dei rifugiati dove non c’eracibo sufficiente.La mamma aveva dato un Rosario a ciascunmembro della famiglia raccomandando dipregare e invocare la protezione di Maria.Nel 1996, in maggio, il campo è stato bom-bardato. Sono morti un fratello e una sorel-la e il resto della famiglia si è disperso.Adeline fuggendo si è trovata assoluta-mente sola nella foresta vicino a un fiume.Vedendo arrivare i soldati si è nascosta perun’ora nell’acqua.Passato il pericolo ha poi continuato acamminare e alcune ore dopo ha incontra-to un uomo e una donna.Si è unita a loro per andare verso il Rwan-da. Durante il terzo giorno di cammino ha

La situazione contemporanea ciobbliga a verificare se veramentesiamo capaci di sostenere nellafede che la persona umana perma-ne "capace di Dio".Noi non creiamo la "capacità diDio": questa è presente oggi comelo era in passato nel profondo de-gli esseri umani e sul crocevia deiloro incontri.Questa fede nei giovani "capaci diDio", tanto viva ed efficace nei no-stri Fondatori, ci anima davvero aproporre un annuncio evangelico,chiaro, senza timore, né timidezza?

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trovato una delle sue sorelle. Loro due so-no state le prime a tornare nel luogo do-ve era la loro casa.La comunità cattolica al loro ritorno si è su-bito organizzata per mettere a posto la ca-sa, quello che era rimasto.Successivamente sono state raggiunte pri-ma da due fratelli e una sorella e infine, do-po due mesi, dai genitori.Adeline racconta: «Le mie amiche, i compa-gni di scuola e altri amici sono tutti morti.La preghiera che ho imparato in famiglia miha dato forza.Da questa esperienza, ho sperimentatoche il perdono è possibile solo in Dio e conil sostegno di una comunità capace di aiu-tarti nel momento del bisogno. Solo chi hafede in Dio misericordioso può perdonaresenza riserve.Il perdono guarisce le ferite, rimargina le ci-catrici e rinnova il cuore riempiendolo di pa-ce, facendo rinascere gioia e speranza».

Avere una comunità di riferimento consen-te di comprendere e giudicare la propriaesistenza, di ricevere sostegno nei momen-ti di difficoltà e di contrastare l’illusione cheil nostro stile di vita dipenda solo da noi,senza bisogno di confronto e responsabi-lità sociale.Solo all’interno di un cammino che assicu-ra accoglienza e accompagnamento, pos-siamo offrire ai giovani la verità che con-duce alla carità, la ragione che conduce al-l’amore, un amore ricevuto, per essere poicondiviso.Chi evangelizza non ha il potere di comu-nicare la fede, ma può quanto meno veglia-re affinché si verifichino le condizioniche la rendono possibile; egli può agevo-larne l'accesso.Il suo ruolo è quello di raggiungere le per-sone dove sono, nelle loro stesse resisten-

ze, al fine di scoprire con loro la grazia del-l'amore di Dio che è donato gratuita-mente a tutti.La nuova evangelizzazione a cui ci invitala Chiesa implica il rilancio spirituale del-la vita di fede delle comunità, l’avvio di per-corsi di discernimento dei mutamentiche stanno interessando la vita cristiananei vari contesti, la rilettura della memo-ria di fede, l’assunzione di nuove respon-sabilità e di nuove energie in vista di unaproclamazione gioiosa e contagiosa delVangelo di Gesù.

L’annuncio che scuote

«Non è qui. Vi precede in Galilea, là lo ve-drete». Questo annuncio ci chiede di dislo-carci o se volete di ricollocarci costantemen-te come comunità evangelizzatrici.Ci invita ad un radicale rovesciamento diprospettiva. Non abbiamo il Cristo con noicome un oggetto, trattenuto, posseduto,controllato che dovremmo trasmettere adaltri che non lo hanno.Cristo non è un oggetto posseduto che sipuò tenere «qui» per comunicarlo altrove.Per raggiungerlo dobbiamo uscire, andarenel luogo dell’altro – la Galilea delle genti– dove Egli ci precede.Ogni comunità educante dovrebbe chieder-si: qual è il luogo dell’altro dove Gesù ci at-tende come comunità che ama i giovani?Chi vive ciò che dice, e si dona in una ma-niera autentica e continua, mostra che haqualcosa da dire. Queste sono le personeche attraverso la loro trasparenza e auten-ticità entrano subito in sintonia con ciò chei giovani cercano oggi: adulti significativiche presentano valori vivi, in maniera sem-plice, vera, diretta.

[email protected]@gmail.com

intensifica lo studio delle lingue straniere:spagnolo e francese; si offre la pena del di-stacco dal direttore don Costamagna, chia-mato anche lui nelle missioni di America, ele incomprensioni e critiche del paese riguar-do all’insegnamento di un salesiano e di unaFMA nella scuola comunale. Tutto è vissutonel silenzio e sostanziato di preghiera conla certezza che la Madre sa comunicare aogni sorella: «La Madonna e don Boscosanno tutto; noi ci fidiamo di loro e restia-mo in pace» (Giselda CAPETTI, CronistoriaII, Roma, Istituto FMA 1976, 277).

Arrivi e partenze

Si susseguono in poco tempo vari eventi: afine mese vengono comunicati i nomi del-le neomissionarie, alla fine di ottobre arri-va il nuovo direttore don Giovanni BattistaLemoyne e parte don Costamagna. All’iniziodi novembre, dal momento che solo due del-le partenti potranno recarsi a Roma dalSanto Padre, perché così impongono lecondizioni economiche, il direttore organiz-za una funzione di addio come si fa a Tori-no per i salesiani. La sera del 6 novembre laMadre con Suor Angela Vallese e Suor Gio-vanna Borgna partono per Sampierdarenaper poi proseguire verso Roma con i salesia-ni accompagnati da don Giovanni Cagliero.Il 9 novembre, segna l’incontro con il San-to Padre che si meraviglia nel vedere ungruppo così numeroso di missionari: «Do-ve prende don Bosco tutta questa gente?»

Valdocco e Mornese:un unico ardore missionarioCarla Castellino

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Valdocco e Mornese due mondi diversi incontinua interazione, quasi un’osmosi di va-lori, desideri e ideali, ma anche con una pro-pria specificità: sfumature diverse di unostesso carisma.A Mornese la presenza di don Bosco è re-sa viva dai sui figli. Dopo la morte di don Pe-starino, la cura generale dell’Istituto delleFMA viene affidata a don Giovanni Caglie-ro e come cappellani vengono inviati i mi-gliori salesiani perché al Fondatore stamolto a cuore che le FMA vengano forma-te secondo il suo spirito aperto a grandiorizzonti con un unico ideale: servire Dioe il suo Regno. Ma cosa c’è di particolare aMornese che viene definito da don Costa-magna “paradisetto”; “casa dell’amore diDio”;“casa santa”? E che ha lasciato nel suocuore una traccia di profonda nostalgia?

Chiamate a salpare l’oceano

L’8 settembre 1877 don Bosco comunica al-le nostre sorelle di Mornese la decisione diinviarle nella lontana America, in Uruguay.Gioia e pena sono i sentimenti che accom-pagnano questa attesa notizia. Tutte vorreb-bero essere missionarie, ma la parola delFondatore è chiara: «Quelle che desidera-no consacrarsi alle missioni straniere, percooperare con i Salesiani alla salvezza del-le anime, facciano la loro domanda periscritto: poi si sceglierà».La speranza e il damihi animas sostengonoe danno senso ad ogni fatica e sofferenza. Si

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segna a Suor Teresina Mazzarello con laraccomandazione di non cederlo a nessu-no, di custodirlo fino all’arrivo in terra ame-ricana, perché egli intende tenerlo comericordo di Mornese.Poco dopo anche don Cagliero si presen-ta con un quadro dell’Ausiliatrice: l’ho ru-bato nella sacrestia di Valdocco - dicescherzosamente - l’ho rubato per voi. Fu di-pinto da un signore che soffriva mal di oc-chi e stava per diventare cieco.Guarì con la benedizione di don Bosco e haregalato questa Madonna così bella che tie-ne in braccio il simpatico Bambino sorriden-te. Una nuova benedizione del Fondatoree la consegna: «Portatevelo, e che la Madon-na vi benedica e vi accompagni nel lungoviaggio» (Ivi 288).Sulla nave, prima della partenza, si vivonomomenti di famiglia: la Madre visita cabinaper cabina, si intrattiene con ciascuna, le in-dirizza a don Bosco ed egli parla, sorride,conforta, si commuove.Quando il battello prende il largo si senteil coro delle missionarie: Io voglio amarMa-ria, il canto composto da don Costamagnaa Mornese con il ritornello ripetuto tantevolte e aveva provocato la reazione argutadella Madre: «Andate un po’a dire al signordirettore che non soltanto lui vuol amar laMadonna, ma che la vogliamo amare anchenoi. E che stia buono! …» (Ivi 291).Ogni incontro con don Bosco è un nuovocolpo d’ala, è un invito a pensare alle cosevere, quelle che non passano e per cui va-le la pena spendere nella gioia tutta la vita,è un attingere nuove certezze per guarda-re il futuro con serenità, fede e speranza.

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e poi le parole rivolte direttamente alle no-stre sorelle, vero programma di vita. “Esse-re come le grandi conche delle fontane, chericevono l’acqua e la riversano a pro di tut-ti: conche cioè di virtù e di sapere, a vantag-gio dei loro simili” (Ivi 284).Il soggiorno a Roma, oltre all’incontro conil Papa, è caratterizzato dalla carità creativae disinvolta della Madre che, la sera dell’ar-rivo, sfida il buio e le novità della città eter-na e va a comprare frutta, pane e formaggioper i salesiani e le suore.Alle catacombe di S. Callisto cede il suo scial-le al chierico salesiano Carlo Pane affetto dafebbre malarica. “A sé non bada, annota laCronistoria, tutte le premure e le attenzio-ni sono per gli altri”. Le visite alle Basilichee ai monumenti della Roma cristiana lafanno esclamare: «Come sarà bello il Para-diso!» (Ivi 286).Al ritorno da Roma ancora una sosta a Sam-pierdarena dove arrivano le altre missiona-rie da Mornese e l’incontro con don Boscoche si mette a disposizione dei partenti: ce-lebrazione eucaristica, confessioni e racco-mandazioni paterne.

Sulla nave con l’Ausiliatrice di Mornesee di Valdocco

Don Costamagna, che si era portato con séda Mornese il quadro di Maria Ausiliatri-ce della cappella del collegio, ora lo con-

segna a Suor Teresina Mazzarello con laraccomandazione di non cederlo a nessu-no, di custodirlo fino all’arrivo in terra ame-ricana, perché egli intende tenerlo comericordo di Mornese. Poco dopo anche don Cagliero si presen-ta con un quadro dell’Ausiliatrice: l’ho ru-bato nella sacrestia di Valdocco - dicescherzosamente - l’ho rubato per voi. Fu di-pinto da un signore che soffriva mal di oc-chi e stava per diventare cieco. Guarì con la benedizione di don Bosco e ha

e poi le parole rivolte direttamente alle no-

cipano a campi di lavoro nazionali ed in-ternazionali, sostenendo chi si trova in si-tuazioni di povertà, esclusione e margi-nalità. Tutti ricevono una formazioneprevia prima di vivere la loro esperienzadi volontariato.

- Sensibilizzazione e educazioneper lo sviluppoDentro l’area di sensibilizzazione ed edu-cazione per lo sviluppo la Fondazione cer-ca di portare a termine attività che pro-muovano un cambio negli atteggiamentie consuetudini della società, sostenendoi valori della giustizia e della solidarietà.

- Appoggio all’infanziaMadreselva ONGD, dal 1986 gestisce pro-grammi di appoggio all’infanzia in più di20 paesi del Sud. Attualmente 2.123 bam-bini ricevono un’educazione insieme adun’alimentazione adeguata e all’opportu-nità dell’assistenza medica.Madreselva si posiziona come un ponte trale opere sociali ed educative delle Figliedi Maria Ausiliatrice e i giovani, le famigliee le Istituzioni che desiderano contribui-re, con il loro tempo e il loro denaro, adaiutare donne, bambini e giovani a rischionei Paesi in via di sviluppo.Organizza progetti e attività che contribui-scono ad un mondo più giusto miglioran-do l’accesso all’educazione e diffonden-do la solidarietà e il volontariato.

FondazioneMadreselvaLa Redazione

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La Fondazione Madreselva è una ONGD(Organizzazione non Governativa per loSviluppo) senza scopo di lucro, creata nel1984 nel Centro di Insegnamento superio-re don Bosco, delle Figlie di Maria Ausilia-trice a Madrid.Ha ambito nazionale e internazionale econta 1.835 collaboratori (tra volontari, en-ti pubblici e donatori privati).«Crediamo che un mondo più giusto èpossibile» è il suo motto che diventa con-vinzione. La sua finalità è la cooperazio-ne internazionale per lo sviluppo sosteni-bile, sociale ed economico per contribui-re in tutti i Paesi al progresso e alla promo-zione umana, e si rivolge soprattutto aibambini, ai giovani e alle donne.Il lavoro di Madreselva si concentra fonda-mentalmente in quattro ambiti di attuazione:

- Progetti di cooperazione per lo sviluppoDa quando ha iniziato ad operare, Madre-selva ONGD ha appoggiato 252 progetti dicooperazione per lo sviluppo che si sonoeseguiti in diversi Paesi dell’America La-tina, Africa e Europa dell’Est, superando i115.000 beneficiari.I progetti sono rivolti alle fasce di popo-lazione più povere e in difficoltà.

- Promozione e formazione del volontariatoI volontari di Madreselva ONGD parte-

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Questo è il mio quarto mese in Honduras.Prima di arrivare qui, sapevo solo che sareiandato come volontario in un posto perbambini a rischio di esclusione sociale inuno dei Paesi considerati ad alto rischio diviolenza. Ma una cosa è sentirne parlare eun’altra vivere in questa realtà e scontrarsicon il fatto che ogni giorno si sentono no-tizie di morti in scontri armati.Dentro questo scenario però all’Hogar donBosco incontro circa 53 bambini e bambi-ne dagli 8 ai 14 anni.Questi bambini vengono da situazioni dif-ficili, sono molto pochi quelli che hannola mamma e il papà. Molti di loro vivonosolo con la propria mamma e fratelli o conla nonna perché i propri genitori sono sta-ti uccisi o sono in carcere.Le situazioni familiari difficili, fanno cre-scere la rabbia e l’aggressività in questi pic-coli, che spesso sono diffidenti e prontiallo scontro fra di loro. Ma, come tutti ibambini del mondo, sono sempre pron-ti anche al sorriso e a darti un abbraccio.

Sono stato accolto bene. Qui aiuto in diver-si laboratori che si tengono per loro, faccioun po’di sostengo, arbitro le partite e dò unamano in casa dove c’è bisogno.Ma la cosa che mi riempie più di gioia è illaboratorio di graffiti. I bambini all’inizio era-no incuriositi da questo tipo di lavoro e sisono iscritti in molti per provare.In questi tre mesi abbiamo dipinto vari mu-ri della casa e ogni volta che iniziamo a di-pingerne uno nuovo, a loro piace sempre dipiù e lo fanno con molto entusiasmo.Un giorno una delle bambine del mio labo-ratorio mi si è avvicinata e mi ha detto chele piacevamolto il fatto che io fossi lì con lo-ro e avessi dato a lei la possibilità di impa-rare a dipingeremurales. In realtà èmolto dif-ficile esprimere ciò che sto vivendo qui.Forse riuscirei a farlomeglio con le immagi-ni di unmurales. Ciò che loro stessi stannoimparando a fare: esprimono loro stessinei disegni che facciamo insieme sui muri.

Miguel Lozano

Quattro mesi in Honduras, da volontario...

veicolato nella comunicazione ordinaria at-traverso le relazioni quotidiane dove la pos-sibilità di conflitto è inevitabile.In questo processo, gli studi di Marshall Ro-senberg, psicologo statunitense, esperto sultema, possono essere molto utili. Secondoquest’autore, il linguaggio ordinario puòavere due connotazioni: una paragonata al-lo sciacallo (animale che si nutre di cadave-ri) e l’altra equiparata alla giraffa (animale ter-restre con il cuore più grande). La prima èun linguaggio che valuta, interpreta, giudi-ca e spesso è offensivo e violento; la secon-da cerca di comprendere, non giudica, nonesige ma chiede. Se il linguaggio sciacallo èprepotente, toglie ogni creatività (Devi!Fermati! Basta!), il linguaggio giraffa è acco-gliente e rispettoso, libera e suggerisce(mi piacerebbe che mi facessi, se puoi…).Rosenberg propone quattro condizioniper coltivare la comunicazione nonviolen-ta nella linea del linguaggio giraffa.

Osservare senza giudicare:non si dice“tu mi hai fatto arrabbiare”, mapiuttosto “tu hai alzato la voce tre volte”.

Esprimere i propri sentimenti:la frase“sento che tu non mi ami”non espri-me i tuoi sentimenti ma quelli dell’altro; in-vece “sono triste che tu parta” esprime inmodo chiaro i tuoi sentimenti.

Prendere coscienza e verbalizzarei propri bisogni:invece di dire“tu mi hai deluso perché non

Su strade di nonviolenzaMartha Séïde

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“La vera scelta non è tra nonviolenzae violenza, ma tra nonviolenzae non esistenza… Se non riusciamoa vivere come fratelli,moriremo tutti come stolti”.Martin Luther King

La via dell’educazione

Quest’affermazione di M. L. King, mette inluce la consapevolezza che la nonviolenzanon è un fatto automatico, è una scelta a fa-vore di una diversa visione del mondo. Sitratta di incarnare un nuovo stile di vita piùautentico per recuperare il senso piùprofondo della nostra esistenza nella di-mensione universale della filialità e della fra-tellanza. Questo processo esige necessa-riamente un intervento educativo capace difornire gli strumenti adeguati per affronta-re la realtà naturale della violenza con lastrategia della nonviolenza vissuta nel quo-tidiano. Sappiamo che il tema è moltocomplesso ed è difficile intervenire contem-poraneamente su tutti i fattori (economici,politici, ambientali …) implicati nel proces-so. Ad ogni modo, l’educazione alla nonvio-lenza non può essere astratta, richiede unambiente, una relazione, un linguaggio, del-le condizioni per farne esperienza vitale at-traverso degli esercizi concreti.

Coltivare la comunicazione nonviolenta

Se vogliamo educare alla nonviolenza, unadelle vie obbligate è appunto il linguaggio

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sei venuto”, è meglio esprimere in questomodo:“Sono rimasta delusa che tu non siavenuto quella sera perché avrei volutoparlarti di cose che mi preoccupano”.

Formulare in modo chiaro la domanda:invece di dire, “voglio che tu mi compren-da”; si dirà“mi piacerebbe che mi dicessi unacosa che ho fatto e che tu apprezzi”. Tutti gliesseri umani sono condizionati da queste di-namiche linguistiche che riflettono l’atteggia-mento di fondo nella relazione. Per questo,l’attenzione a questi quattro momenti può fa-vorire l’ascolto empatico e orientare la comu-nicazione verso la nonviolenza.

Creare comunità della nonviolenza

Quando si coltiva la comunicazione nonvio-lenta nel quotidiano, le relazioni si nutro-no, si risanano e si rinsaldano verso la co-struzione della comunità. Infatti, il cuoredella nonviolenza è il processo di creazio-ne di comunità edificate sulla sollecitudine,sul rispetto reciproco e sull’amore.In definitiva, si tratta di creare comunità al-ternative dove si fa esperienza della nonvio-lenza che diventa “un ministero”.In questo senso, le comunità educanti di-

BUTIGAN Ken, FromViolence toWholeness.A Ten Part Process in the Spirituality andPractice of Active Noviolence, Pace e BeneNoviolence Service, Las Vegas USA 2002.

BUTIGAN Ken,Dalla violenza alla pienezza.Percorso indieci tappedi spiritualità e pras-si della nonviolenza attiva, traduzione diGloria Romagnoli, Bologna, EMI 2005.Le numerose pubblicazioni di Marshall

Rosenberg sulla nonviolenza tradotte nel-le lingue più comuni.Trasformazione nonviolenta dei conflitti.Manuale di formazione dei formatoripubblicato da un consorzio di organizza-zioni a livello europeo con l’originale inslovacco e la traduzione in più lingue.Edificazione della pace.Manuale di forma-zione Caritas pubblicato da Caritas Inter-nationalis 2002. Traduzione in più lingue.

Sussidi per attivare dei percorsi di educazionealla nonviolenza

ventano luoghi di cultura nonviolenta percontrastare la prepotenza, l’aggressività el’ingiustizia nella nostra vita e nella società.

Per un cambiamento sociale nonviolento

Secondo l’attivista Bill Moyer, i movimentidi trasformazione sociale hanno svolto unruolo centrale durante tutta la storia nelconseguire cambiamenti sociali positivi.Costituiscono un mezzo potente di azioneradicata su valori profondi.Da questa prospettiva possiamo affermareche le comunità educanti che coltivano lacomunicazione nonviolenta e assumono lanonviolenza come un ministero, possonodiventare agenti di cambiamento sociale.Ciò implica una strategia attentamente ela-borata a partire da valori forti, per realizza-re il cambiamento in forma capillare: nellavita delle singole persone, nei centri edu-cativi, nelle famiglie, nel territorio a livellocivile e politico, nella Chiesa.La strategia principale consiste nella pro-mozione della partecipazione dove tut-ti si sentano coinvolti a dare il meglio disé per il bene comune.

biamento, dal limite, dalla finitudine, mentrel’aspirazione profonda dell’individuo è quel-la di una vita stabile, sicura, senza fine.La paura è un male che può portare all’au-todistruzione,“perché la paura di morire èindistinguibile dalla paura di vivere”.La paura si può esprimere direttamente, par-landone. Così, di fronte ad una malattia dal-le conseguenze incerte, il parlarne può, nonsolo liberare dall’angoscia, ma anche stimo-lare dinamiche positive in grado di supera-re la crisi o di migliorarne gli esiti.Non è raro, però, che, per il suo peso an-gosciante, venga rimossa e che si manife-sti indirettamente, con atteggiamenti didifesa. Sono atteggiamenti di difesa controil pericolo sempre incombente della mor-te, la tendenza morbosa all’avere e al pote-re. Avere case, campi,“granai pieni”, può da-re l’impressione di sicurezza sulla vita.Così, pure, avere il potere sugli altri, tenertutto sotto controllo, può rassicurare cir-ca possibili agguati e imprevisti increscio-si. Anche la paura della verità è in fondopaura della morte. La conoscenza di alcu-ni fatti riguardanti la propria vita può es-sere sentita troppo dolorosa, schiaccian-te e quindi rimossa, rifiutata.Nel piccolo della quotidianità, possonoessere atteggiamenti o “riti” messi in attoper sedare, indirettamente, la paura ango-sciante e difficilmente controllabile dellamorte, la tendenza eccessiva a controllaredove le persone sono e vanno; la propen-

Le paureMaria Rossi

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La paura è una delle emozioni umane piùarcaica e primordiale.Accompagna l’essere umano fin dalla nasci-ta. È una normale reazione di difesa difronte a una situazione di pericolo reale, oanticipato dalla previsione, o evocato dal ri-cordo, o anche solo prodotto dalla fantasia.È spesso accompagnata da atteggiamenti difuga o di aggressione o di immobilità (pa-ralisi fobica). L’immagine che di solito vie-ne usata per rappresentarla é quella di unapersona immobile con gli occhi sbarrati.Nessuno é totalmente libero dalle paure.Anche se non sempre si riesce a dare loroun nome, esse fanno parte della vita.Prima di stendere queste riflessioni, ho chie-sto a persone di varia età, se e di che cosaavevano paura.Le risposte più frequenti, corrispondenti aquelle che avevo incontrato nella mia lun-ga esperienza di psicologa, sono state:paura della morte, della sofferenza, dellamalattia, dell’incognito (persona o situazio-ne), dell’incertezza, del giudizio degli altri,del buio. Qualche adolescente, con il clas-sico atteggiamento dell’autosufficiente, harisposto anche: “Non ho paura di niente”.

La paura della morte

La paura fondamentale, dalla quale derivanole altre, è la paura della morte, ritenuta co-me distruzione della vita. È una paura ampia-mente giustificata. L’essere umano, come lanatura che lo circonda, sono segnati dal cam-

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sione al sospetto e all’aggressione, il biso-gno di controllare che le porte siano benchiuse, che gli alimenti non siano scaduti eche le mani siano ben lavate.La stessa paura può celarsi sotto il bisognodi avere “il cassetto” ben fornito e nel ri-correre al medico per ogni piccolo distur-bo, come pure nella tendenza ossessiva aconservare le cose, a non tollerare cambia-menti anche minimi, a voler perpetuareusanze prive di senso, ad evadere di fron-te alla verità dei fatti.La paura, se rimane entro limiti normali,non è dannosa, anzi. Può rendere pruden-ti, far evitare guai irreparabili, stimolare afar bene il proprio dovere e ad accettare ilproprio limite. Quando, invece, diven-tando eccessiva, invasiva e patologica, in-gigantisce a dismisura i pericoli, inibisce,blocca, diventa una gabbia.Ognuna/o reagisce alle paure, più o menoconsce, come può, con le modalità che glisono più congeniali. L’ideale sarebbe quel-lo di rendersi consapevoli delle proprie pau-re, chiamarle per nome, scoprire sotto qua-li atteggiamenti o difese si celano, parlarnee cercare di affrontarle con prudenza, corag-gio e pazienza, ma direttamente. La paura diconoscere alcune verità che toccano la pro-pria vita, per essere superata, richiede mol-to coraggio e una compagnia buona: si trat-ta, infatti, di immergersi in una sofferenzaprofonda, attraversarla senza pericoli e an-dare oltre, liberandosene.Le paure, se trattenute e coltivate aumenta-no, pesano sull’animo, inibiscono la vita. Al-cune, una volta espresse, svaniscono.È molto importante superare le paure, manon si può pretenderlo né da se stessi, né da-gli altri, anche se si è riusciti più o meno acomprenderne la causa. Un aiuto a supera-re la paura e l’angoscia della morte potreb-be essere una riflessione esplicita sulla pro-

pria condizione creaturale, sulla finitudinepropria della natura umana, sui mutamentidelle stagioni della vita e di tutto ciò che vi-ve. La riflessione e il parlarne, oltre a ridimen-sionare le ombre e i fantasmi angoscianti chela paura crea, aiutano ad accettare, almenorazionalmente, di avere un compimento, an-che se, a livello profondo, l’aspirazione al“per sempre” non si placa facilmente.Per chi ha appreso ad affrontare le paurein modo indiretto, attraverso“riti”di con-trollo, di accumulo, di mantenimento del-lo“status quo”o le traveste e nasconde sot-to oggetti simbolici – il buio, l’acqua, il to-po, il ragno, l’ignoto, la folla e altro - il su-peramento diventa più complesso e pro-blematico. Scoprirne la vera fonte è diffi-cile, ma non impossibile: potrebbe essereutile per questo andare alle proprie origi-ni, ripercorrere la propria storia in compa-gnia di persone coetanee e amiche, o fa-cendosi aiutare da esperti.Un aiuto efficace e sicuro per superare l’an-goscia della morte è la fede. Essa, infatti, nonsolo rassicurando, ma anche dando la cer-tezza che la vita, in modo diverso e nuovo,continua, non ha fine, risponde all’aspira-zione più profonda dell’essere umano.È bene tener presente che chi ha paura, hapaura. E quando uno è in preda alla paura,non gli si può chiedere di ragionare, né tan-tomeno scherzare.Come si fa spesso spontaneamente, si aiu-ta chi soffre offrendogli semplicemente unacompagnia e un silenzio empatico. Soloquando la fase acuta si è placata, si può sti-molare la persona ad esprimere, se e comepuò, i contenuti della paura. Farla parlare.Liberarsi e liberare dalla paura è un gran be-ne, ma, quando risulta impossibile, comespesso succede perché non basta volerlo, èaltrettanto bene accettarsi con le proprie di-fese e vivere il più serenamente possibile.

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te, anche in questo caso, la fede è un poten-te farmaco. Essa, infatti, portando a consi-derare gli altri come fratelli e sorelle, figliee figli dello stesso Padre, apre agli orizzon-ti di una fraternità universale e sostiene nel-la fatica di accogliere il diverso, di perdona-re e anche di perdonarsi.Quando è la paura a prevalere, la situazio-ne cambia. Nei confronti del diverso, la pau-ra si manifesta spesso con atteggiamenti diarroganza, con la tendenza ad emergere, aprevalere, con un eccessivo controllo del-le situazioni e delle persone e anche con ildominio. Alla paura dell’altro si può asso-ciare il sospetto. Il sospetto stimola la fan-tasia a immaginare e a descrivere la perso-na o l’oggetto della paura come un mostro,una strega, un alieno, un infedele, un esse-re troppo pericoloso e quindi da elimina-re. In passato si sono giustificati in questomodo i roghi alle streghe e ancora oggi sigiustifica la pena capitale e varie modalitàbarbare di eliminazione.

La paura chiude la persona su di sé e la ren-de gretta, meschina, immiserita nella pro-pria facoltà di giudizio, incapace di larghevedute. Accogliere l’altro, il diverso, non vie-ne spontaneo e non è indolore.Richiede disponibilità, rinunce, sacrifici,capacità di superare il proprio egocentri-smo, di aprirsi, di non aver paura di rischia-re e anche di perdersi. “Ma - come osser-va l’Autore al quale ho fatto riferimento - èimportante comprendere tra il sacrificio chemortifica e quello che genera nuova vita,evitando di confondere le doglie del partocon le angosce dell’agonia.”1

[email protected]

1 BRENA Gianluigi, Identità e relazione.Per una antropologia dialogica,Messaggero, Padova2009, pag. 159.

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La paura dell’altro

La paura dell’altro, del diverso, è collegataalla paura della morte. L’altro, gli altri sonogeneralmente desiderati per l’aiuto chepossono dare e la compagnia, l’amicizia, l’a-more. Ma, per la loro diversità e le loro esi-genze, possono essere avvertiti come unaminaccia alla propria vita, come concorren-ti infidi e far paura.Se poi questo altro è di etnia, di colore, direligione e di cultura diverse, le perplessitàe le paure aumentano.Quando una/o arriva, invade un campo, siriserva spazi prima liberi, chiede attenzio-ni, fiducia, rispetto alla sua dignità e alla suairrinunciabile libertà. L’accoglienza compor-ta rinunce alla propria autoaffermazione, ac-cettazione dei limiti che l’altro pone, tolle-ranza riguardante valori, usi, costumi emodi di pensare diversi. Si tratta di sacrifi-ci non indifferenti e anche di rischi.

Accogliere l’altro, comunque sia, è unagrande vittoria sulla paura, anche se non èindolore. La fatica a ridimensionare la ten-denza all’espansione senza limiti, la rinun-cia al bisogno (non autentico) di possederee a una esagerata autoreferenzialità, lo sfor-zo per comprendere l’altro nella sua diver-sità, portano con sé una reale crescita inumanità e una vita più piena e libera. L’acco-glienza, la relazione positiva, l’incontro conil diverso nel suo mistero, anche con qual-che inevitabile scontro, aiutano a costruiree a rafforzare la propria identità personalee a forgiare una personalità poliedrica.La paura dell’altro è più facilmente supera-bile se, sfatando i pregiudizi culturali, si cer-ca di conoscere la persona per quello cherealmente è.Spesso si sentono espressioni come:“Cre-devo, pensavo, mi sembrava che … , inve-ce è tutt’altro”. Come per la paura della mor-

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I GIOVANI E I COLORI

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Testi presida “Svolta di respiro”di Antonio Spadaro

IL VERDE È IL COLOREDELLA MANIFESTAZIONECONCRETA DELLA VITA

Intervista a Sr. Sania Josephine (India)

Credo nella presenzaeducativa perché…a cura di Mara Borsi

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La situazione attuale della gioventù ci spin-ge a mettere il Sistema preventivo in azio-ne, in particolare attraverso la presenza edu-cativa salesiana. Le difficoltà che i giovanisperimentano nell’acquisizione di un’i-dentità solida, nell’elaborazione del proget-to di vita, nella ricerca del lavoro ci interpel-lano a muoverci verso di loro.Conosco giovani intelligenti e curiosi, en-tusiasti per le cose buone e positive, deci-si nel realizzare il bene, ma anche fragili efacilmente manipolabili.

Credo nella presenza educativa perché…

Oggi i punti di riferimento dei giovani,quelli che orientano veramente e nontradiscono sono pochi. Chi cresce ha biso-gno di vedere, sapere, sperimentare la pre-senza di adulti profondamente interessa-ti a loro, educatori, educatrici che sannoamare in modo disinteressato.A volte capita che adolescenti e giovani siribellano ai desideri dei loro genitori e li sfi-dano perché vogliono essere come i loroamici. Se i genitori non hanno la possibilitàdi dare convinzioni, i giovani non hannonessun altro confronto che noi educatrici.Il rischio è di essere chiuse nel nostro mon-do, poco attente al dialogo, a stare accan-to a loro, a intercettare la loro vita quotidia-na. Capita che anche noi FMA dimentichia-mo la nostra unica responsabilità: stare ac-canto a chi cresce con amore.I ragazzi e le ragazze che frequentano le no-

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stre scuole esprimono talvolta comporta-menti indesiderati e sgraditi. Ho verificatoche l’accoglienza della loro fragilità costrui-sce rapporti profondi e duraturi.Abbiamo bisogno di essere vere madri. Èimportante dire la verità delicatamente enella carità, ma è necessario far sentire cheli amiamo e non li condanniamo.

Credo nella presenza educativa perché…

I giovani cercano la felicità e noi come edu-catrici siamo chiamate a indicare il Vange-lo come via per la felicità. Per questo, abbia-mo bisogno di essere gioiose, di dare testi-monianza di essere felici della nostra vitacon Dio. È necessario essere animatrici at-tive e creative, rendere la nostra presenzaamichevole, creare quell’ambiente familia-re in cui i giovani possano godere la veracalma interiore, esprimersi liberamentesenza paura di essere rifiutati o giudicati.Molti giovani non sono soddisfatti del loroaspetto e cercano in molti modi di sentir-si meglio con se stessi, arrivano a volte a fa-re di tutto pur di essere accettati dal grup-po. Indubbiamente abbiamo la responsabi-lità di far capire che la vera bellezza vieneda dentro, non da ciò che si indossa o dal-le cose che si possiedono.I giovani hanno la necessità di sperimentar-ci come persone felici e hanno bisogno delnostro invito a credere in Gesù.Mi sono resa conto di quanto sia importan-te condividere la propria storia vocaziona-

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le e l’esperienza di Dio. Quando viviamo econdividiamo con loro, la nostra testimo-nianza li incoraggia a scegliere Cristo comeSignore della loro vita.Questa è una sfida per ciascuna di noi.

Credo nella presenza educativa perché…

Sì, l’assistenza salesiana è indispensabileper formare i giovani. La presenza educa-tiva può prevenire esperienze negativeche possono seriamente danneggiare ebloccare una crescita sana.Il metodo educativo salesiano chiedeagli educatori, alle educatrici di dedicaretempo al di fuori della classe/lezione,dell’ufficio, della casa, per condividere eabitare il tempo libero dei giovani con unapresenza amichevole. La ricreazione èspesse volte il momento più opportunoper avvicinarsi, per conoscerli, per vince-re i loro cuori, in alcuni casi, diffidenti.La presenza educativa per me è dedicazio-ne, aiuto, accompagnamento, condivi-sione della vita, che stimola e porta allamaturazione. Secondo Leon Barbey, “L’e-ducazione è un incontro”.Senza incontro non può esserci educazione.

È attraverso l’amicizia, la conversazioneinformale, il dialogo e la condivisione chesi stabilisce la relazione. Senza cordialità èimpossibile dimostrare l’affetto, e senza l’af-fetto non ci sarà la fiducia.A mio parere le sfide che abbiamo di fron-te sono due: essere veramente tra i giova-ni e assumere l’assistenza non solo per unperiodo o fase della vita, ma per tutta la vi-ta. Inoltre per rendere la presenza educa-tiva efficace sarebbe a mio parere necessa-rio ripensare in alcuni casi la struttura del-la vita comunitaria, ri-organizzare l’orariodella giornata e della preghiera in modo dafacilitare il contatto diretto con i giovani, ri-scoprire il valore dell’assistenza salesiana inmodo che non solo siamo per i giovani, masiamo con i giovani, ricordando la nostra re-sponsabilità di sviluppare il carisma.Madre Teresa di Calcutta ha detto: “Sia-mo chiamati ad essere fedeli e non adavere successo”. Se restiamo fedeli adamare i giovani e a fare tutto ciò che pos-siamo, Dio farà la sua parte. E presto cirenderemo conto che Dio agisce attraver-so di noi e con noi, in un modo misterio-so che non sempre riusciamo a capire.

fondamentali per fare dell’Oratorio un ve-ro «laboratorio educativo».Navigare a vista è rischioso in ambito edu-cativo, soprattutto quando la comunitàeducante è ampia e le attività articolate; perquesto diventa indispensabile disporre diun progetto capace di generare veri e pro-pri“percorsi educativi”che consentano di:

• “pianificare scelte responsabili e qualifican-ti per crescere come persone capaci di co-munione e come cristiani adulti nella fede;

• effettuare una verifica costante del cam-mino fatto e da farsi;

• diventare garanzia di continuità anche nelcambio delle persone coinvolte nell’impe-gno educativo;

• abilitare tutti gli operatori, sia professio-nali che volontari, a individuare il proprioruolo educativo” (V. Baresi-F. Fornasini).

Naturalmente, dire progettualità non vuoldire parlare di una certa sensibilità che pos-siede una sola persona o della passione diqualche volontario particolarmente coinvol-to. Dietro le quinte deve necessariamentestrutturarsi un cammino di formazioneche consenta a tutti gli operatori coinvoltidi conoscere chiaramente gli obiettivi e lescelte comuni, in modo da compiere i pas-si nella stessa direzione.Una condizione di base per lavorare in que-sta linea è ovviamente il lavoro di équipe e,

Oratorio in progettoPalma Lionetti

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Pensare all’Oratorio in progettoè come pensare ad un porto,con il suo partire e arrivare,il suo essere crocevia di personee di iniziative.Un movimento continuo che permettescambio e crescita.

In genere, diciamo che un ambiente è un“porto di mare” quando con questaespressione vogliamo evidenziarne i carat-teri del caos e della mancata organizzazio-ne, invece immaginare un Centro Giova-nile come un porto vuol dire renderequesto ambiente capace di ospitare pro-poste faro, promuovere progetti, stimola-re i giovani ad assumersi responsabilità, alanciarsi sui navigli di nuove idee.Certo, un luogo di animazione come l’Ora-torio non potrà essere simile ad un depo-sito di imbarcazioni sempre ferme all’or-meggio. Se così fosse, perché i giovani do-vrebbero frequentarli?Ma allora, cosa fa di un Oratorio un luogocosì dinamico? La progettualità!Nella lingua italiana il termine femmini-le “progettualità” porta nel suo grembosemantico la volontà, la capacità di idea-re qualcosa, di creare, ma“se non c’è de-siderio, non c’è progetto”e questo riman-do al significato del termine ci offre lapossibilità di richiamare subito l’insie-me di convinzioni e di criteri pastorali

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di conseguenza, una gestione democraticache sappia generare massimo coinvolgi-mento e partecipazione. Intanto c’è dasgombrare il campo su questi due ultimi ter-mini, nei confronti dei quali in questi annisi è creato un vero e proprio mito.Se partecipare è influenzare la costruzionedel progetto, è vero anche che non sempreriusciamo a promuovere quei processi chepermettono di definire/decidere collettiva-mente le istanze fondamentali quali i biso-gni, problemi, aspettative e obiettivi. La pro-gettazione partecipata, come quella chepuò avvenire attraverso il consiglio oratoria-no, è al tempo stesso obiettivo e strumento.Oramai ne siamo tutti convinti, almeno dalpuntodi vista teorico.Certo, attraverso lapar-tecipazione si migliora e si potenzia la capa-cità di azione intenzionale e consapevolede-gli attori della comunità educante, che impa-ranopianpiano ad agire allo scopodimiglio-rare la qualità della vita, e a non lasciarsi bloc-care da problemi e difficoltà. Importante ènon ridurre la partecipazione adunaquestio-ne di tecniche che si utilizzano per promuo-verla e per sostenerla: andare oltre le tecni-che è necessario per trovare o ritrovare unacornice di senso condiviso che mantenga al-ta questa tensioneper evitaredi scivolare, su-bito dopo la fiducia prestata in questa con-vinzione, nella disillusione.Enunciare la partecipazione, la gestione de-mocratica e praticarle, ovviamente, non so-

no la stessa cosa. Diventano un’esperienzadi crescita personale e di sviluppo di comu-nità, nella misura in cui sono anche un’op-portunità di apprendimento e di scambio,utile per ampliare e approfondire le relazio-ni, per superare stereotipi e pregiudizi traanimatori e nei confronti dei giovani, per so-stenere la comunicazione, la mediazione,l’assunzione collettiva di responsabilità ri-spetto agli interessi comuni.Si rendono necessarie alcune conversioni.Passare da una pastorale improvvisata ad unaragionata, pianificata, intenzionale; da unapastorale autoritaria, non sempre attenta al-le condizioni di ogni persona ad una pasto-rale in cui ogni persona è accolta nella suastupenda e irripetibile unicità.All’Oratorio la formazione avviene nell’azio-ne e mediante l’azione: ogni azione evan-gelizza i giovani che la vivono grazie all’e-laborazione, alla preparazione, alla decisio-ne motivata di viverla, alla realizzazione ealla verifica che esige. Sono formativi tuttii valori di impegno personale e comunita-rio richiesto dalle attività.Così si passa dalla sicurezza del «fare da sé»o del «dettare» come si fa, al rischio dellaricerca e della responsabilità condivisa;dall’efficientismo, alla pazienza che la ve-ra educazione esige; dall’improvvisazionealla fatica e all’ascesi della pianificazione; dal«pochi che fanno tutto» al «tutti che fannoqualcosa»; dal «siccome non c’è tanta gen-te preparata» e quindi «i preparati» fannotutto, al preparare i futuri animatori e ope-ratori pastorali. Queste sono solo alcunedelle proposte per fare dell’Oratorio quel“porto” il cui movimento interno ed ester-no vivacizza e permette, come dicevamo inapertura, scambio e crescita grazie ad unaprogettualità condivisa.

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be inizio nel giorno della Pentecoste” (n.23). La considerazione ci mette innanzi alquadro degli apostoli radunati in preghie-ra al piano superiore e gli Atti si prendo-no cura di dirci che, nel cenacolo, c’eranoanche alcune donne e Maria, la Madre diGesù (At 1, 14).Il sottile dettaglio sulla presenza femmini-le è come se evocasse un atto generativo,un parto della missione evangelizzatricedella Chiesa, sotto l’azione dello Spirito San-to, all’insegna della stessa dinamica avvenu-ta nella nascita di Gesù.L’evangelizzazione non è altro che la gene-razione della persona alla vita di fede e inquesto atto la presenza e la partecipazioneattiva della donna è connaturale e fluisce co-me una rigenerazione spirituale, dandocontinuità a quel processo originario in cuila donna diventa uno spazio che accogliela vita, la custodisce nel proprio corpo, lanutre, la cresce e la porta alla luce.

Nella storia della Missione Ad gentes...

Uno sguardo veloce sulle attività evange-lizzatrici e missionarie della Chiesa, duran-te la grande era missionaria dei secoli se-dicesimo e diciassettesimo, dimostra cheil coinvolgimento delle donne era assen-te. Nel Seicento poche ed isolate presen-ze di suore iniziano ad apparire all’orizzon-te, nelle terre di missione.Segue però una trasformazione completanel diciannovesimo secolo, quando si ve-

Donnaed evangelizzazionePaola Pignatelli, Bernadette Sangma

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È vedova, una donna minuta, fragile e ma-gra. Gestisce da sola una casa di acco-glienza con 37 bambini e bambine, comple-tamente orfani e abbandonati. Si chiama An-na. Eravamo due FMA e un sacerdote a vi-sitarla, in una delle periferie di Nairobi. Ar-rivando a casa sua verso sera, alcuni ragaz-zini più grandi ci vennero incontro, altri pic-coli li trovammo a giocare con due gattinie altri ancora guardavano la televisione. Cisedemmo nel salone, intrattenuti dalle ra-gazze più grandi che si davano da fare perprepararci il tè e un dolce di banana.Quando tutto fu pronto e il tavolino imban-dito, arrivò lo stupore più grande: in mododel tutto spontaneo, un ragazzino, che cisembrava incollato alla televisione, interrup-pe il programma che stava seguendo, si alzòe venne a guidare la preghiera di benedi-zione sulla piccola merenda.Rimanemmo profondamente colpiti nelpercepire il clima di serenità che si respira-va in quell’ ambiente impregnato di Dio.Pensare a donne come Anna, al ruolo chegiocano nel creare quel canale fondamen-tale alla linfa vitale di Dio nella vita delle per-sone, soprattutto dei bambini e delle bam-bine, continua a suscitarci domande riguar-do al ruolo femminile nell’evangelizzazione.

Evangelizzatrici perché...

Nei Lineamenta del Sinodo sulla NuovaEvangelizzazione si afferma che“cronolo-gicamente, la prima evangelizzazione eb-

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rifica una vera e propria proliferazione direligiose sul fronte dell’evangelizzazio-ne. Da questo periodo in poi, la presenzadelle donne nelle missioni era non solo esi-gita, ma la loro assenza era considerata unavera e propria mancanza, nociva alla mis-sione stessa. La presenza indispensabiledelle donne religiose nella missione avvie-ne con il cambiamento dell’approcciomissionario, che inizia ad abbracciare leopere educative, sociali e di carità: ossia leopere che richiedono un tocco generato-re, come parte integrante dell’attività evan-gelizzatrice della Chiesa.Tale approccio apre una vasta gamma dipossibilità alle suore, coinvolgendole nel-le attività di iniziazione cristiana, nell’edu-cazione, nella cura della salute e in varie al-tre mansioni di cura della vita.La donna, capace di toccare e illuminare ibisogni fondamentali della vita, capace diportare nel suo corpo, nei suoi pensieri, pas-si e gesti una vita evangelica, anche se igno-rata e invisibile, solo per il fatto d’essere don-na e madre, dunque capace d’amore, che è

l’essenza universale del Vangelo, potrà esse-re segno di una Chiesa Madre, quindi“don-na”e dunque generatrice di vita!Non è questione di ragionare sul ruolodella donna nell’evangelizzazione, quan-to più – forse – di riflettere sull’identitàstessa della Chiesa, chiamata a rappresen-tare le nozze, la maternità, la misericor-dia…In questo DNA come non colloca-re, in modo essenziale e permanente lafigura femminile, come ipotizzare unamissionarietà priva di queste sfumaturerelazionali, capaci di empatia e riconcilia-zione, perché intrinsecamente portate adarmonizzare viscere e mente?Se il Vangelo è Amore, le donne, educatri-ci d’umanità, possono esprimerlo attra-verso la propria sensibilità verso il prossi-mo, soprattutto il più piccolo e il più debo-le e andando per il mondo, con santa auda-cia, possono renderlo più piacevole, gene-rando passo passo un’umanità migliore!

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famiglia siano mutate nel tempo e sianodiverse nei differenti contesti culturali, èimportante vivere la famiglia come unarealtà caratterizzata da relazioni di amo-re che diventano storia e che legano traloro un uomo e una donna.La cultura individualista, utilitarista, con-sumista, ha impoverito le relazioni uma-ne e ha compromesso la fiducia tra le per-sone. La riscoperta dell’uomo come sog-getto essenzialmente relazionale e lacura per la buona qualità delle relazionipossono portare al superamento della cri-si del lavoro e della famiglia. La crisi faemergere il malessere latente da tempoe apre prospettive nuove.Ennio Antonelli, presidente del PontificioConsiglio per la famiglia, ha ribaditoche: «L’attuale crisi, che preoccupa i po-poli e i governanti, non è da considera-re solo una crisi economica, ma anche epiù profondamente una crisi antropolo-gica e culturale... Serve una rivoluzioneculturale e antropologica, prima cheeconomica che chiama a far prevalere lalogica del dono non solo nella famiglia enella festa, ma anche nel lavoro e nell’e-conomia. Il contributo più specifico del-le famiglie al sistema economico consi-ste nella formazioni di capitale umano».

Famiglia.Risorsa per la crisiAnna Rita Cristaino

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«La famiglia va riscoperta quale patrimo-nio principale dell’umanità, coefficientee segno di una vera e stabile cultura in fa-vore dell’uomo» (Benedetto XVI).Profezia di speranza è stato definito il VIIIncontro mondiale delle famiglie svolto-si a Milano dal 30 maggio al 3 giugno scor-si. Un grande evento per rilanciare l’atten-zione di tutti verso la famiglia, nucleo im-portante della società che se ben curatarende felici i suoi membri e diventa unvantaggio per la società.PapaBenedettoXVI, presenteall’evento, ri-chiamando all’amore familiare ha detto:«…è fecondo per la società, perché il vis-suto familiare è la prima e insostituibilescuola delle virtù sociali, come il rispettodelle persone, la gratuità, la fiducia, la re-sponsabilità, la solidarietà, lacooperazione».La famiglia con la sua capacità di relazio-ne, servizio, accoglienza è una“risorsa difiducia”e un“dono”che contrasta le de-rive di oggi verso il disimpegno e laframmentazione. Di fronte all’enorme pe-so che la crisi economica globale sta ri-versando su molte Nazioni del mondo sisente il bisogno di energia, fantasia perripensare l’organizzazione del lavoro e fa-miliare in un’ottica di conciliazione.Nonostante la struttura e la forma della

mana. Hestamos felices de vivir gracias a in-ternet la peregrinación festiva que ustedconvoca. Feliz acogida en cada corazón desus hijas en todo el mundo para que Diosllegue a sus vidas con alegría y plenitud pa-ra todas. Ximena Palma, VDB».«Carissima Madre, siamo felici dell’incon-tro a Mornese e dell’entusiasmo che ci hatrasmesso. […]Continuiamo a seguirla per le strade dellaFrancia e della Lituania con la preghiera econ l’affetto. Il suo sorriso si è impresso nelcuore dei nostri ragazzi ed ha accresciutoil desiderio di vivere la vita con impegno».«GRAZIE, Madre. Le sue parole, come tut-ta la festa ci hanno riempite di entusiasmoe anche di commozione. Siamo tornate acasa con gli occhi e il cuore pieni di bel-lezza e di desiderio di continuare la festanel quotidiano. Anche chi non ha potutoessere presente, l'ha seguita attraverso latelevisione con lo stesso entusiasmo percui a sera, ma anche oggi, abbiamo conti-nuato a condividere i vari momenti, comu-nicandoci gioia. Le suore di Pella».«Queridísima Madre, Con el alma quere-mos decirte, que aunque lejos, estamosmuy cerca con la oración y el corazón.Agradecemos y saludamos a todas las Her-manas de Europa y Medio Oriente, que tehan ofrecido una hermosa fiesta que hemosdisfrutado, gracias a internet. Tus Hijas dela Casa Santa Cecilia de la Chinca».Sono solo alcuni delle centinaia di mes-

Una rete grande quanto il mondo

Profondità delle relazioniPatrizia Bertagnini, Maria Antonia Chinello

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La Rete è diventata il tessuto che in que-sti anni sostiene la “partecipazione” allavita dell’Istituto. Ormai quasi invisibile,grazie a “Internet”, molti eventi sono“vissuti in diretta”dalle comunità. E comu-nità è uguale a FMA, giovani in formazio-ne, allieve ed exallieve, laici e laiche, col-laboratori e collaboratrici, benefattori,membri della Famiglia salesiana.Un percorso di andata e ritorno: dalla Re-te all’animazione, dal web alla preghiera.Cerchi concentrici per tessere relazioni einterazioni, rimandi e ricordi, emozioni ericonoscenza.L’interrogativo circa le profondità delle re-lazioni che si vivono (e moltiplicano) inRete non è scontato né tantomeno di po-ca entità: è importante la qualità e porcicontinuamente la meta di rinsaldare la re-lazione e la comunicazione, perché quel-la Rete che ci avvolge diventi sempre piùlegame di unità e di coinvolgimento, dipartecipazione e di dialogo, di “sentire-con” e di “lavorare-per” insieme.

Una festa senza fine

«Querida Madre a Festa del Grazie aindacontinua aqui na nossa comunidade. Obri-gada, Madre! Ir. Dinair, Ir. Irene, Ir. Cilene,Ir. Maria Izabel e as Formandas».«È stata la festa più bella ... L’ho seguita congrande gioia, perché ero presente anch'iononostante la lontananza. Sr Virginia».«El corazón de esta Villa es junto a cada her-

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saggi arrivati al sito dell’Istituto durate igiorni della celebrazione della Festa del-la Madre.Certo, un evento amato, aspettato, per cuifacile comunicare, farsi presenti, no?Non pensiamo sia solo questo: eravamoproprio tutte là, a Mornese, a Saint-Cyr,a Kaysiadoris.Eravamo al fianco della Madre, ascoltava-mo le sue parole, le ripetevamo a quelleche per vari motivi non avevamo potutoascoltarle, leggerle, scorrevamo il pro-gramma, attendevamo l’aggiornamentodelle pagine sul sito, una nuova ondata difoto.

Profondità di silenzio e di parola

Questo è solo l’ultimo evento. Ma pensia-mo all’attesa che si sta creando attorno alfilm “Maìn. La casa della felicità”.Possiamo proiettarci in avanti: cosa saràla beatificazione di sr. Maria Troncatti?La Rete “rende possibile” tutto questo.Da più di 10 anni il nostro Istituto ha scel-to di “esserci” nel web con una comuni-cazione di qualità.Una comunicazione che non può accon-tentarsi di tessere una rete di fili soffici owireless. C’è bisogno di noi, del nostro“cisono, ci sto!”per costruire una conversa-zione grande quanto il mondo che vivedentro le nostre comunità, e che si allar-ga al mondo intero, alle gioie e ai dolori.Una profondità di relazione che si nutredi silenzio e di parola.Perché è il silenzio che predispone all’in-contro con ciò che è autentico. Perché è laparola che rivela il bisogno di un“tu” a cuirivelarsi, svelarsi e di cui accogliere l’espres-sione e costruire insieme la comunione.

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DELLA PROFONDITÀ

C’è un più forte bisogno di anima in un’e-poca come la nostra in cui via via più sfu-mati si fanno i ruoli assunti dalle personeall’interno delle dinamiche comunicati-ve. Lo sviluppo della rete – con l’offerta glo-balizzata di una partecipazione ampia-mente diffusa in cui ognuno di noi può es-sere, al tempo stesso, mittente e riceven-te – ci offre, certo, la possibilità di abban-donare la logica dell’unidirezionalità nel-la consapevolezza che uno solo è il vostroMaestro e voi siete tutti fratelli (Mt 23,8), maci obbliga ad assumere la responsabilitàpersonale del dialogo. Quello che il mon-do valuta, a ragione, come un di più di li-bertà, impone – da un punto di vista etico– oneri personali maggiori in ordine alla co-struzione di relazioni capaci di abbando-nare la superficie delle sensazioni perspingersi verso quelle profondità in cui irapporti sono più pieni.La scelta di un profilo alto, costruito sullavalorizzazione di ciò che non immediata-mente viene esibito, è anche – nella rifles-sione di Benedetto XVI nel Messaggio per

la 46a Giornata Mondiale delle Comunica-zioni Sociali – la chiave di lettura di unapastorale in grado di farsi interpellare dal-le profondità dei fratelli: «Chi sono? Checosa posso sapere? Che cosa devo fare?Che cosa posso sperare? È importante ac-cogliere le persone che formulano questiinterrogativi, aprendo la possibilità di undialogo profondo, fatto di parola, di con-fronto, ma anche di invito alla riflessionee al silenzio, che, a volte, può essere piùeloquente di una risposta affrettata e per-mette a chi si interroga di scendere nel piùprofondo di se stesso e aprirsi a quelcammino di risposta che Dio ha iscritto nelcuore dell’uomo».

LUCECONTRO

Allora mi ha proposto di frequentare un cor-so per diventare infermiera».Nel cuore di Juliet ci sono due grandi de-sideri, uno è quello di continuare gli studi,l’altro di diventare religiosa. Ne parla conil padre che la lascia libera di scegliere pro-mettendole comunque il suo appoggio.«Sono andata dal vescovo e gli ho detto ilmio desiderio di diventare suora. Lui mi hachiesto in quale congregazione volessi en-trare e io gli ho risposto che conoscevo so-lo le Suore della Carità. Lui che conoscevale suore salesiane, mi ha proposto invecedi fare un’esperienza con loro».Il vescovo chiama le Figlie di Maria Ausilia-trice che si trovano in città, e dopo una set-timana Juliet può già recarsi da loro perun’esperienza. Il vescovo le dà un mese, perconoscere e decidere. «Dopo un mese miha chiamata, ma io avevo deciso di rimane-re con le FMA».Juliet a questo punto decide di iniziare ilcammino di formazione come aspirante. Lesue sorelle sono un po’ scettiche.Il suo papà la sostiene. «Mio padre non l’a-veva mai raccontato.Quando stavo per entrare mi ha detto cheanche lui da giovane aveva fatto un’espe-rienza con i salesiani.Era stato in noviziato, ma poi era andato viaprima della professione. Non mi aveva maidetto niente prima, ma in casa avevamo ungrande quadro di don Bosco».Juliet, che ha conosciuto la povertà attraver-

Intervista a suor Juliet Kwye Kwye

I giovanimi hanno indicato la stradaAnna Rita Cristaino

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Juliet Kwye Kwye è una fma del Myanmarcon 10 anni di professione. Da piccola co-nosce le Suore della Carità nel cui Istitutofrequenta la scuola.Juliet è attratta dalla vita di queste religio-se e sente nel suo cuore il desiderio di co-noscerle sempre di più.Frequentandole anche dopo la scuola, ac-compagnandole anche nel loro apostolatotra gli ammalati inizia a comprendere la vi-ta di preghiera, l’apostolato, la missione ecc.«Quando finivo il tempo della scuola, iostavo sempre con loro, ritornavo a casasolo per mangiare e dormire. Ero semprecon loro. Le vedevo pregare e lavorare emi piaceva».Diventando più grande, il sabato le accom-pagna nelle loro visite agli ospedali. «Ho co-nosciuto la vita religiosa attraverso le Suo-re della Carità, l’unico istituto religiosonel mio villaggio».Juliet appartiene ad una famiglia cattolica.È la terza di tre figli.Ha perso la sua mamma quando era anco-ra una bambina. Ma il suo papà ha saputoprendersi cura di lei.«Alla fine dei miei studi, ho lavorato comeinsegnante in un villaggio molto povero.Era il villaggio del vescovo con il quale c’e-ra molta familiarità.Spesso parlavo con lui per essere aiutata adiscernere su cosa fare. All’inizio voleva cheio andassi a studiare nelle Filippine. Ma a mesembrava troppo lontano.

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so la visita agli ammalati, fa l’esperienza di unaltro tipo di povertà e di richiesta di aiuto.«Nei primi mesi di esperienza con le fma,ho conosciuto tante giovani povere chenon avevano la possibilità di studiare.Erano giovani grandi, nei cui occhi ho let-to tanta sofferenza. Le fma aiutavano chiaveva avuto poche possibilità dando lorouna seconda opportunità per costruire unbuon futuro.Io ho iniziato a insegnare loro le prime co-se basilari per poter leggere e scrivere.Molte delle ragazze parlavano solo il lo-ro dialetto, quindi a volte era difficile co-municare.Molte di loro avevano paura».Juliet ama ricordare quel primo mese diesperienza in cui ha sperimentato l’amo-re per le giovani più povere e il suo po-ter essere al servizio della loro crescita.«Ho capito in quel mese che potevo aiu-tarle ad avere un futuro buono».Juliet vive a stretto contatto con loro e in-tanto osserva la vita delle suore, che co-municano gioia nel dedicarsi ai giovani e

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alle loro necessità, in una vita di comunitàsemplice e fraterna.Due mesi di esperienza, un anno di aspiran-tato, e poi postulato e noviziato nelle Filip-pine. Torna in Myanmar dopo la professio-ne e le viene chiesto di stare con i bambi-ni della scuola materna.Un ricordo l’accompagna. Durante il primomese di esperienza con le suore ha incon-trato una ragazza. «Aveva molta paura. Co-nosceva sono il suo dialetto ed era diffici-le comunicare con lei. Ma si capiva che eramolto intelligente e che aveva buone capa-cità. Quando sono tornata dopo alcunianni, con sorpresa ho visto che aveva fini-to bene gli studi. Era cambiata.Aveva più stima e consapevolezza di sé. Miè sembrato chiara allora la nostra missione.Dare fiducia. Questa ragazza quando hasentito la fiducia, ha vinto la paura.Ha iniziato anche ad insegnare.All’inizio con un po’ di timore, ma poi po-co a poco è diventata più disinvolta nel ri-volgersi agli altri. Lei mi ha fatto compren-dere che Dio vuole da me che io aiuti le ra-gazze a scorgere il bello che hanno dentro».Juliet è felice. Ha incontrato anche altre ra-gazze che si sono aperte con lei, hanno con-diviso i loro timori, le loro gioie e le loro sof-ferenze. E per lei vedere come la fiducia, l’af-fetto ricevuto fanno “rinascere” questegiovani è segno che il Signore continua achiamarla a questo compito. Ma non man-cano le difficoltà.«Quando sento che sto facendo la volontàdi Dio, quando ho la consapevolezza checiò che vivo è nei piani del Signore, allorariesco a superare le difficoltà con più agi-lità. Credo molto nella mediazione delle miesorelle che mi aiutano a comprendere an-cora di più la volontà di Dio».

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Chi trova un delfinotrova un tesoro

È difficile immaginare la costru-zione di un copione cinemato-grafico più capace di crearecommozione, partecipazione,slancio solidale. Si regge speci-ficamente con piena consape-volezza sull’appeal naturaledell’irresistibile protagonistadelfino, e sulla potenzialitànarrativa della sua storia perso-nale che viene trasformata inun simbolo per tutti i portato-ri di handicap. "Solo al Delfinola natura ha donato ciò che ri-cerca il migliore dei filosofi: l'a-micizia disinteressata.Benché non abbia alcun biso-gno dell'uomo, egli è amico fe-dele e numerosi sono quelliche ha aiutato". Lo scrive Plu-tarco già dal primo secolo do-po Cristo, nel tentativo di espri-mere l'unione atavica, quasiancestrale, tra l'uomo e questo‘nobile’ cetaceo che, nel corsodei tempi, ha dato forma a leg-

gende, miti e storie tra le più af-fascinanti. Eccezionali e quoti-diane ad un tempo.Nel nostro caso, inoltre, si de-ve aggiungere che la vicendaaccaduta/raccontata è in séstessa dotata di drammatur-gia, per cui insieme all’opinio-ne pubblica ha saputo muove-re le alte sfere dei produttori.Ha acceso i motori dell’imma-ginario come delle macchineda presa del regista MartinSmith, e facendola passare dal-la cronaca televisiva locale al-la grandiosità del grande scher-mo ne ha moltiplicato il succes-so, l’influenza, il messaggio.In mano all’abile professiona-lità degli sceneggiatori, i fatti dicronaca che mettono alla pro-va l’infortunato Winter si in-trecciano con felice sensibi-lità ed intuizione alle diffi-coltà ed ai bisogni profondi dialcuni membri della comunitàin cui è accolto, soccorso e cu-rato. È così che sulla spiaggiadove un pescatore chiede aiu-

to di fronte al delfino ferito,compare Sawyer in fuga datutti, a cavallo della sua biciclet-ta. Insicuro ed introverso, do-po l’abbandono del padre è pe-rennemente immerso nella suasolitudine, ma in seguito all’in-contro con Winter trova un’op-portunità di riscatto e di cresci-ta. Gli viene data la possibilitàdi poterlo vedere/seguire quo-tidianamente, anche marinan-do la scuola estiva. E se all'ini-zio il biologo responsabile del-l’Acquarium - padre della lo-quace amichetta Hazel - non èd'accordo, notando il beneficionascente dalla loro amicizia,consiglia anche alla mammapreoccupata, di favorire quel-l’incontro/intesa ‘reciproci’. Pur-troppo, la coda sanguinantedi Winter va amputata e il del-fino si trova costretto a nuota-re senza, ma i danni che neconseguono alla spina dorsaleminacciano ugualmente di far-lo morire. È a questo punto cheentra in scena Kyle, il cugino di

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L'incredibile storia di Winter il delfinodI Charles Martin Smith – Stati Uniti 2012

«L’Avventura di un animaletto coraggioso cheha cambiato la vita a milioni di persone. Edifi-cante e in 3D», citano a pieno titolo le recen-sioni, mentre il giudizio della CVF lo proponecome ‘occasione esemplare’ per introdurre conleggerezza temi importanti quali l'ecologia,l'ambiente, la ricerca scientifica, il ruolo dei ge-nitori, l'handicap nei minori. Dal punto di vistapastorale - scrive - è da valutare come consiglia-bile, semplice, da segnalare per tutti.Il film si ispira a fatti realmente accaduti nel2005: un giovane delfino rimane impigliato in

una trappola pergranchi e riportagravi ferite alla co-da. Viene soccorsoal Clearwater Mari-ne Hospital Acqua-

rium dove riceve il nomeWinter, ma la sua lot-ta per sopravvivere è appena agli inizi. Saran-no necessarie l’incrollabile dedizione amica diun ragazzino, Sawyer, l’esperienza di un appas-sionato biologo marino, l’ingegno di un brillan-te medico esperto in protesi per portare a feli-ce compimento l’impresa che, non solo l’ha sal-vato, ma riesce ancora ad aiutare migliaia di di-sabili in tutto il mondo.

a cura di Mariolina Perentaler

una trappola pergranchi e riportagravi ferite alla co-da. Viene soccorsoal Clearwater Mari-ne Hospital Acqua-

rium dove riceve il nome Winter, ma la sua lot-

Sawyer, reduce di guerra inAfghanistan con una gambaamputata. Mentre gli fa visita inospedale, conosce il celebreprotesista dott. McCarthy, e loconvince a prendersi in curaanche il delfino. Nonostante icosti per la progettazione/spe-rimentazione dell’inedita pro-tesi rivoluzionaria e il violentouragano che metterà a rischio

la stessa sopravivenza dell’Ac-quarium, un intervento alla te-levisione progettato dall’affet-to tenace di Sawyer risolverà lasituazione ottenendo la solida-rietà di tutti: dalla comunitàlocale al mondo.Non solo si troveranno i fondiper aiutare il delfino ma - comea volte e per fortuna accade -una ricerca finalizzata ad un

esito specifico produce bene-ficio per tanti altri soggetti. Laguaina creata per attaccare laprotesi a Winter ha risolto iproblemi di molti reduci ampu-tati e non solo di loro: le ultimeimmagini del film ci mostranoriprese documentaristiche dibambini menomati con handi-cap. Opera edificante e irresi-stibile: da vedere, proporre.

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L’idea del film:non lasciarsi ‘scappare’ - nel difficile ma pre-zioso universo del ‘ family movie’ - una bellis-sima storia vera che ha per protagonista unadelfina e la sua amicizia con un adolescente.

“Una mattina stavo guardando la televisionequando sentii parlare di Winter – dichiara il pro-duttore Richard Ingber - sono stato affascina-to dalla storia e realizzai subito che aveva il po-tenziale per un grande film per tutta la famiglia”.“È proprio Winter ad interpretare se stessa nel-la pellicola - aggiunge Morgan Freeman nellaparte del chirurgo: è la vera star e non vedevol’ora di lavorare con lei”. Dello stesso avviso èanche il resto del cast a partire dal bravissimo‘co-protagonista’Nathan Gamble nelle vesti deldodicenne Sawyer, che instaura un rapportoprofondo con la delfina. Mentre racconta diver-tito dei ‘provini’ sostenuti per convincere del-la sua ’sintonia/affinità’ con quella particolarecreatura, il giovane attore confessa:“Winter miha insegnato che se dapprima è lei ad aver bi-sogno di un amico vero e fedele per superarel’handicap, poi è l’inverso.Sarà proprio lei a dimostrare a tutto il mondocome è possibile vincere le proprie paure/me-nomazioni e il potere di guarigione dato dalcontatto umano, dalla comunicazione di chiama. Ho imparato che la ‘delfino – terapia’ esi-ste veramente: in America è utilizzata per la cu-ra di pazienti psichiatrici sfortunati e depressi”.

Il sogno del film:fare della storia di Winter una fonte di ispirazio-ne permigliaia di persone che si trovano ad affron-tare un handicap, e tutt'oggi visitano - anche viainternet – il delfino al ClearwaterMarineAquarium.

«L'elemento della crescita, l'evoluzione ca-ratteriale e l'acquisizione di maggior consa-pevolezza, sono le fondamenta dell'architet-tura narrativa del film, progettata intera-mente intorno all'incontro/confronto tra lapurezza del mondo animale (Wynter) e l'ina-deguatezza inespressa di quello infantile(Sawyer)» - osserva giustamente TizianaMorganti. Ma se a questo viaggio d'iniziazio-ne alla vita si aggiunge la frase celebre del film:«Ti è mai venuto in mente che non è diffici-le solo per te?", il parallelismo si delinea trale ferite di Winter e quelle di tutti gli 'umani'.Oltre al ragazzino introverso, c’è il soldato fe-rito, ci sono i bambini con handicap e la sin-tesi/messaggio precisa: sopravvivere a un in-cidente, subire una amputazione e imparareadusareunaprotesi che all’inizio il corpo sem-bra proprio rigettare non è certo facile. Ma sehai un’enorme voglia di vivere e persone ami-che che ti aiutano, puoi farcela. Così la tua sto-ria si diffonde ed ecco che bambini e adultidisabili vengono a trovarti, ti prendono adesempio, trovano nella tua forza e in quelbrevetto che ha permesso a te di muoverti,una speranza per il loro futuro.

PER FAR PENSARE

delle battaglie per i diritti civili, la storia di Eu-genia, giovane giornalista sensibile e solidale,che ritorna a Jackson, dopo gli studi all'univer-sità di New York. Prende consapevolezza diquanto sia ancora forte il sentimento di razzismonei confronti delle donne di colore che da sem-pre si prendono cura delle famiglie della zona– oltre che della sua – e, indignata, con il lorostesso aiuto (‘The Help’del titolo) decide di scri-verne un libro. Superata l’iniziale diffidenza, ledomestiche interessate si offrono a confidare leloro piccole logoranti umiliazioni quotidiane,consumate sotto il segno del razzismo di Stato.Quale il segreto del film?Il fatto di costruire con intensa partecipazioneumana, un universo tutto al femminile, sceglien-do lo stile umoristico della commedia nonostan-te la drammaticità dell’argomento, e la dimen-sione «privata» come punto di partenza per unabattaglia lunghissima, collettiva, che passa pergelosie, ripicche, rigidità di classe.È l'inizio per la comunità afroamericana del cam-mino verso il conseguimento dei diritti civili.

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THE HELPTate TaylorUSA/India/Emirati Arabi - 2012

Vince il Golden Globe 2012 e l’Oscar per la mi-glior protagonista Viola Davis, quello per la nonprotagonista Octavia Spencer, nonché il ricono-scimento collettivo al cast.“Film da utilizzare an-che come occasione per avvicinare una paginamolto controversa della storia americana”, pre-cisa la Commissione CEI. Da cogliere/segnala-re l'indubbia cura della ricostruzione storica ele interpretazioni efficaci”. Nasce dall'omonimoromanzo d'esordio di Kathryn Stockett, un be-st-seller che ha venduto 10 milioni di copie in40 paesi, tanto da spingere Hollywood a farneun adattamento. È diretto da Tate Taylor – ami-co dall’infanzia della scrittrice, anche lui origi-nario di Jackson dove si ambienta la storia – eha replicato il successo del libro. Sul filo dell'au-tobiografia rievoca nella cornice di un Mississip-pi Anni Sessanta, prima di Martin Luther King e

RIVISTA DELLE FIGLIE DI MARIA AUSILIATRICEdma damihianimas

dichiara la Commissione CEI e scrive: «Ci rega-la una pellicola intensa forse più utile di molti,vuoti talk show televisivi. Dal punto di vista pa-storale è da valutare come consigliabile e pro-blematica; da utilizzare per avviare riflessioni suitemi decisamente attuali che propone». Il copio-ne parte dall’opera teatrale "Farragut North" (diBeau Willimon), ma il titolo del film fa riferimen-to diretto alla data di uccisione e al tradimentodell’imperatore Giulio Cesare, anch’egli al cen-tro di giochi di potere non indifferenti. «Defini-rei questa pellicola un thriller politico – preci-sa Clooney – mentre non lo penso un film po-liticizzato». Il suo sviluppo segue le vicende diun giovane consulente politico (Ryan Gosling),membro dello staff per la campagna presiden-ziale di un governatore democratico ‘in corsa’alle primarie per la Casa Bianca. Gli elementiprincipali di questo dramma sono pertanto icompromessi della politica tra lealtà e vendet-te, ambizione e tradimenti, verità e menzogne.

LE IDI DI MARZOGeorge Clooney - USA 2011

Film candidato a 4 Golden Globes ed incensa-to dalla stampa di mezzo mondo, era stato se-lezionato per l’apertura ufficiale della 68° Mo-stra Internazionale d'Arte Cinematografica a Ve-nezia. Ottiene subito un'accoglienza ‘caloroso/clamorosa’ insieme a George Clooney, qui in ve-ste di regista, interprete, sceneggiatore e pro-duttore dell’opera. Viene coralmente definita«un’ottima pellicola nel solco del miglior cine-ma classico anni ’40». Clooney si confermanon solo buon attore, ma anche un pregevoleautore in grado di legare lo spettatore alla pol-trona senza ricorrere a trucchetti emozionali oai cliché ‘di genere’. Uomo di cinema 'totale', lo

a cura di Mariolina Perentaler

VID

EOV

IDEO

R. Zuccolini G. PietrolucciSHAHBAZ BHATTIPaoline 2012

Un nome già noto in tutto il mondo, un al-tro martire, in questa nostra rinnovata epo-

ca di martiri. Aveva intrapreso la carriera po-litica come una missione, aveva assunto la ca-rica di ministro nella sua più vera e spesso di-menticata accezione: si era fatto servitore po-vero e disinteressato del Pakistan, il giovanetormentato paese che egli sognava potessediventare luogo di pacifica convivenza e diumana solidarietà.“Voglio che la mia vita, ilmio carattere, le mie azioni parlino per me,si legge nel suo testamento spirituale, e di-cano che sto seguendo Gesù Cristo. Finchéavrò vita, fino al mio ultimo respiro, conti-nuerò a servire Gesù e questa povera soffe-rente umanità”. Un vero martire, la cui origi-nalità , scrive nella bella prefazione l’amicoAndrea Riccardi, sta nell’audace coerenza,“inun tempo di troppi cristiani grigi”.

Enzo BianchiLE VIE DELLA FELICITÀRizzoli 2010

Quale novità può offrirci un altro discorso sultema, peraltro inesauribile, delle beatitudi-ni? Certo, esse hanno una portata universa-le, ma qui sono rilette a confronto conaspetti e problemi specifici della societàodierna, e il confronto è davvero illuminan-te. Qualche esempio: Beati i miti .… Non èda riconoscere che per secoli noi cristiani cisiamo nutriti d’intransigenza, di diffidenzaverso i cosiddetti lontani?… E oggi? Il proget-to di una chiesa che s’impone, che dominae chiede riconoscimenti, è forse conforme al-la mitezza di Gesù? No, il Vangelo deve es-sere invito, proposta, deve suscitare il dialo-go. E“il dialogo non è orgoglioso, non è pun-gente… è pacifico, paziente, generoso“ (Pao-

lo VI). E ancora: “Beati gli affamati di giusti-zia... Chi sono i destinatari di questa beatitu-dine? Certamente i cristiani, ma essa non puòforse riguardare anche uomini appartenentiad altre spiritualità, persino ad alcuni che sicredono atei, ma che spendono la vita “per-ché sia fatta giustizia all’orfano e all’oppres-so”? Dio solo conosce il loro cuore, le moti-vazioni più profonde del loro operare. Maquesto vale anche per i cristiani… E che diredel“Beati i misericordiosi?”. Quanti richiami,nella Chiesa dei nostri tempi a usare “la me-dicina della misericordia”, come volle papaGiovanni XXIII e come spesso ribadirono isuoi successori! Eppure ancora oggi la Chie-sa non è sempre pronta a manifestare il Diomisericordioso… Un invito, dunque, non so-lo alla coscienza individuale, ma alla Chiesatutta in quanto tale, a confrontare con la“magna carta”delle beatitudini i suoi atteggia-menti, le sue scelte, i suoi metri di giudizio.

Franca SartoriLA RESILIENZACentro Studi Evolution 2012

Il libro prende le mosse da un’intensa espe-rienza vissuta. Proseguendo nella lettura, cisi accorge che si tratta di un vero piccolo trat-tato scientifico, non arido e puramente teo-rico ma vivace e stimolante, anche perchéconvalidato da altre avvincenti esperienzeumane.La resilienza, parola usata finora per indica-re la materiale capacità di resistenza all’urto,è ora applicata al vasto campo delle scienzeumane. La scoperta che può divenire rivolu-zionaria specialmente in campo pedagogicoè il fatto che tale forza è qualcosa di ontolo-gicamente presente nella natura umana e cheun trauma anche grave non solo può esseresuperato, ma può persino liberare potenzia-lità latenti e portare a un più ricco livello diumanità e gioia di vivere.

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ANNO LIX • MENSILE / LUGLIO AGOSTO 2012

a cura di Adriana Nepi

LIBRI

no, Victoria prende in mano la sua vita anchese, inizialmente, la ragazza non troverà subi-to il fiore in grado di rimarginare la sua feri-ta, perché il suo cuore si porta dietro una col-pa segreta. L'unico in grado di estirparla saràun ragazzo misterioso che sembra sapere tut-to di lei. Solo lui potrà togliere “quel” pesodal cuore di Victoria, come spine strappatea uno stelo. Solo lui potrà prendersi cura del-le sue radici invisibili e, così, il cuore più acer-bo della rosa bianca, potrà diventare rosso dipassione. Ma prima di giungere a questo?...

Il suo rifugio, i fiori

La vita di Victoria è stata abbastanza dram-matica, ed ha sviluppato diversi complessidi personalità, facendola diventare estre-mamente delicata, non tanto riguardo alcorpo, quanto alla mente. Victoria infattinon vuole essere toccata da nessuno, hapaura di molte cose e i petali dei fiori sonogli unici ad avere questo permesso.Lo stesso accade per le sue emozioni.Non vuole, e non si permette, di amare nes-suno o di essere amata, sempre per lastessa paura. E per esprimersi, invece del-le parole, usa gli stessi fiori che dapprimacoltiva segretamente nel parco pubblico diPortero Hill, a San Francisco, e poi li vendecome fioraia. I fiori sono il suo rifugio, il suomodo di comunicare verso se stessa e ver-so l’esterno. La ragazza coltiva i fiori nel giar-dino di San Francisco per poterci andareogni volta che può e far vagare libera la

Il linguaggio segretodei fioriVanessa Diffenbaugh

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Le rose per la grazia e l’eleganza, la camo-milla per emergere dalle difficoltà, la ger-bera come l’allegria di un’inattesa speran-za e i bougainville per la passione. Ogni fio-re ha un significato più intenso di quello chepensiamo e ogni lettore potrà attribuirseneuno, scegliendolo per sé e per chi ama…“Il linguaggio segreto dei fiori”, di VanessaDiffenbaugh, racconta, attraverso uno deisuoi personaggi, una vicenda di forza, sof-ferenza, amore e incredibile sete di vita, mo-strando la forza immensa dell'amore più ve-ro, quello imperfetto, che dà senza preten-dere nulla in cambio.Victoria è una ragazza con un passato allespalle non facile: abbandonata nella culla daigenitori, ha passato l’infanzia tra famiglieadottive, genitori provvisori e spesso nonideali. Un giorno però incontra Elizabeth, unadonna straordinaria e speciale che le cambiae sconvolge la vita persino in modo dramma-tico. Elizabeth sarà l’unica, tra le tante perso-ne incontrate da Victoria, che donerà alla ra-gazza l’unica certezza in grado di trasforma-re il cuore e l’esistenza, sempre e comunque:“…Puoi continuare a mettermi alla prova. Masappi che la mia reazione sarà sempre la stes-sa: ti vorrò bene e ti terrò con me”.Elizabeth cerca in tutti i modi di dire a Victo-ria che cambiare è possibile. Lei è per Victo-ria la sua unica e vera madre, ed è per que-sto che la donna le trasmette un dono spe-ciale: la capacità di conoscere il linguaggiosegreto dei fiori. Grazie a questo magico do-

RIVISTA DELLE FIGLIE DI MARIA AUSILIATRICEdma damihianimas

a cura di Emilia di Massimo

mente: solo lì può restare in pace e farsi toc-care, senza bisogno di esprimersi oltre. Unodei passaggi che esprime meglio questoconcetto è: “Non mi fido come la lavanda,mi difendo come il rododendro, sono so-la come la rosa bianca e ho paura”.Diventata maggiorenne, Victoria decide dilavorare come fioraia e il richiamo magicodelle sue rose e delle sue margherite por-terà tutta la città nel suo negozio perché Vic-toria ha l’ abilità di scegliere per ogni clien-te, in base ai suoi desideri o alle sue trepi-dazioni, il fiore più adatto. Ma sempre do-po aver affrontato il problema principale diaccettare e farsi accettare dall’altro. Tutto ciòperché i fiori, nel romanzo di Vanessa Dif-fenbaugh, curano prima di tutto le ferite del-l’anima e lasciano perle di felicità.Lo stile di Vanessa Diffenbaugh è particola-re, la storia, anche se molto introspettiva edescrittiva, non permette al lettore di stac-carsi dalle pagine tanto facilmente. Anche sel’autrice ci fa continuamente volare tra il pas-sato e il presente di Victoria, non ci si per-

de. Ci fa conoscere i retroscena della prota-gonista, che l’hanno portata ad essere quel-la che è, perché nella ricostruzione psicolo-gica di un personaggio non si può prescin-dere dal suo passato, che è forse la parte piùimportante. L’effetto è creare un ritratto vi-vido, a cui ci affezioniamo man mano cheproseguiamo la lettura e, senza accorgerce-ne, ci lasciamo coinvolgere emotivamente.

Un’atmosfera senza tempo

Vanessa Diffenbaugh ha creato, anche in ba-se a questi rimbalzi temporali, un’atmosfe-ra senza tempo, in cui tutto è racchiuso al-l’interno della psicologia di Victoria.Nonostante la storia sia molto dura, il viag-gio che l’autrice ci fa fare lo addolcisce sem-pre di più, fino all’incontro con Grant, il mi-sterioso ragazzo sopra citato. Dalla solitudi-ne, il rimorso e l’odio espresso attraverso va-ri fiori, Vanessa Diffenbaugh ci conduce insentimenti molto più belli come l’amore ma-terno, che porterà luce all’interno dell’esi-stenza di Victoria, e alla passione del ragaz-zo, unico uomo ad aver letto nel profondodella protagonista. Se si volesse individua-re un filo rosso che conduce tutto il roman-zo, potremmo dire che questo è il mu-schio. Il muschio è il simbolo dell’amore ma-terno che cresce senza radici, separato datutto ciò che lo circonda. Victoria crede dinon essere in grado di amare perché non èstata amata. Crediamo spesso che sia l’amo-re sia l’odio passino da una generazione al-l’altra, come l’ acqua che nutre le radici diuna pianta. In realtà, l’amore e l’odio sonoautonomi, separati persino dalle persone cheamiamo. L’amore, guardato da una tale pro-spettiva, ci fa comprendere che tutti siamoin grado di amare di un amore profondo ecompleto, indipendentemente dal nostropassato o dalle circostanze.

mente: solo lì può restare in pace e farsi toc-

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ANNO LIX • MENSILE / LUGLIO AGOSTO 2012

Tendiamo l’orecchio

per ascoltare la domanda

di Maria Domenica:

che ora è?Percepiremo

anche la risposta:

è ora di amareil Signore.

Vi invito a prestare attenzionea questo orologio del cuore, al dinamismo

che riempie di significato le ore e i minuti,che fa vivere con amore il momento

dove incontrare in profondità il Signore.Egli stesso ci renderà capaci

di annunciare ai giovani:«Tu sei il palpito dell’amore di Dio.

Egli ti ama e ti benedice!».

È importante per la nostra vita consacratariconoscere il primato di Dio,

rappresentare un rimando a Lui,un’occasione per avvicinarsi al divino.

Questa è stata l’impresa più grande alla qualeMaria Domenica si è dedicata.

Povera di cultura letteraria o di doti straordinarie,ha vissuto l’essenzialità di vita senza smarrirsi,

anzi, offrendo in se stessa una segnaletica!

Dal messaggio della Madrein occasione dell’apertura dell’anno 140°di fondazione dell’Istituto

PAROLE

L’AMICIZIA CON L’ALTROÈ UN’EPIFANIA

DELL’AMICIZIA CON DIOTHOMAS MERTON