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DINO PIAZZA Ricordi della guerra 1915-1918 Estratto pubblicato su Annali della Fondazione Ugo La Malfa - Vol. XVIII, 2003

Ricordi della guerra 1915-1918 - dinopiazza.com · ... verso le linee di battaglia. I-scritto il giorno prima della partenza in ... dal sordo rotolio ... il cigolio delle ruote, il

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DINO PIAZZA

Ricordi della guerra 1915-1918

Estratto pubblicato su Annali della Fondazione Ugo La Malfa - Vol. XVIII, 2003

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Ricordi della guerra 1915-1918

A distanza di tempo di cinque anni scrivo queste note sul mio periodo trascorso in guerra. Forse, un giorno, queste potranno interessarmi.

Partenza

Fu durante la ritirata italiana del 1917 che volli partire per il fronte. Io avevo allora 18 anni. La nazione tentava in quei giorni ogni sforzo per frenare l’offensiva austro-tedesca. Masse di truppe italiane e straniere venivano spedite in fretta verso le linee di battaglia. I-scritto il giorno prima della partenza in una batteria sneider da 105 da campagna feci in po-che ore i miei preparativi. Fui costretto a pescare nelle scuderie della 97a la mia cavalcatura fra le ultime rimaste e nell’oscurità scelsi un grosso cavallo quadrato e lento come un ma-tematico di professione; gli diedi dello zucchero e lo chiamai "Bellerofonte" ma queste due cortesie non gli fecero cambiare l’andatura. La mia uscita in cortile sul burocratico puro-sangue fu causa di una certa allegria. Non ebbi tempo di salutare Casale la bionda. Alla fine d'una giornata d'autunno la mia batteria partì dalla cittadina di Casal Monferrato sede di un importante deposito di reclute. I soldati da qualche giorno si erano accorti che qualcosa di nuovo doveva loro accadere. Ad ogni modo l'evento riuscì inaspettato. Mezz'ora prima di scendere alle cucine furono chiamati in magazzino. Le voci concitate dei sergenti costrinse-ro a gruppi gli uomini ad ordinarsi presso cataste di uniformi e di arnesi che furono in fretta distribuiti. Ciascuno s'ebbe una montagna di roba da portare addosso e da caricare sul suo cavallo. Cappotti da trincea biancheria, maglie, passamontagna, pale e piccozze, e infine fu-rono distribuiti gli elmi d'acciaio.

Dopo il rancio l'ordine di sellare e l'adunata nel cortile. Il comandante Lazzarini fece per l'occasione un breve discorso. Lazzarini era "un bell'ufficiale di guerra" secondo la di-zione comune di quel tempo. Sepolto dalle macerie del castello di Gorizia e non ancora guarito dalle ferite riportate aveva voluto ripartire per la linea. Il discorso non lo ricordo con esattezza, ma ad ogni modo l'argomento principale era questo: non si doveva schia-mazzare, non gridare per nessuna ragione, né darsi a manifestazioni di giubilo o di dispiace-re perché il Paese stava subendo dei rovesci ed era in lutto. Prometteva inoltre delle basto-nate a chi avesse avuto l'ardire di scendere nelle stazioni e di trasgredire ai suoi ordini. Que-sto il succo dell'allocuzione di Lazzarini. Io non la trovai cortese almeno nei miei riguardi. Esaudita quella sera la mia terza richiesta di partire da quell'inferno urlante e poco odoroso delle reclute non avrei proprio trasgredito a nessun ordine, specie poi a quelli di Lazzarini, così bello e fiero, dritto sul suo cavallo di razza che egli guidava così facilmente. Io credo che nessuno di noi fosse infine addolorato per quel che stava succedendo. Eravamo tutti molto giovani, io in particolare avevo un anno di meno di tutti gli altri. Il deposito non era un paradiso di delizie. Stipati in dieci o dodicimila in una caserma immensa ma tutt'al più capace di contenere un reggimento, tenuti in piedi e qualche volta tenuti a sedere da un rancio perfido che provocava molti casi di dissenteria, obbligati a fare la scuola a piedi e il brusca e striglia per molte ore del giorno sotto un sole di fiamma ed a passare la notte in novecento entro una stalla combattendo contro miriadi di pulci, vedevamo infine all'oriz-zonte una novità… la vita del fronte. Quando si hanno diciotto anni le novità attirano con violenza.

Al deposito infine eravamo alla merce’ della tirannia del caporale o del sergente. In bat-teria mobilitata si poteva essere più a contatto con l'ufficiale, un superiore sempre, ma di aspetto migliore, meglio vestito, non male odorante.

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Forse anche per questo dal nostro fiero quadrato di cavalli e di cannoni guardai con commiserazione le reclute che restavano, i miei compagni cacciatori di pulci, amici della li-bera uscita. Fra questi un napoletanello, un vero scugnizzo, si agitava come un ossesso gri-dando il mio nome. Il povero ragazzo aveva fatto miracoli nell'aiutarmi ad insellare in fretta ed a stringermi indosso tutte le mie robe. Ora gridava non so che al mio indirizzo e gli oc-chi nerissimi scintillavano tra le giubbe di tela grigia dei compagni.

Ad uno squillo di tromba la batteria si mise in moto. Traversammo Casal Monferrato nelle prime ore della sera, in un silenzio pesante rotto solo dal sordo rotolio del reparto in moto al gran trotto. Giunti alla stazione caricammo pezzi e cavalli, e a notte tarda lasciamo Casale la bionda, con i suoi giardini giallo oro, le sue donne e il suo vino più biondo, ripo-sare sulle rive del Po silenziosa, correndo nell’oscurità verso il nostro nuovo destino.

* * * Dormii e sognai fra le zampe di otto cavalli bianchi, irrequieti, per l’intera notte. All’alba

correvamo attraverso le pianure della Lombardia dalle quali saliva nebbia densa. L’aria era fredda e pungente; i primi raggi del sole colpivano le rugiade, pepite d’oro sparse nelle ri-saie. La campagna piana, silenziosa, infinita, vestita di vapori ondanti dalla terra umida, sa-tura. Fui costretto a cantare.

“O fresc’aure mormoranti sui prati…” Era di prammatica. Del resto l’aver messo in atto rapidamente la mia decisione m’aveva

dato un senso d’ebbrezza completa e grata che gli zoccoli dei cavalli e l’odor cattivo dello stabbio non avevano attenuato.

Quasi avevo dimenticato Cuomo lo scugnizzo napoletano nero come la pece e agile come l’acquaiolo di Gemito che m’aveva urlato poche ore prima dall’alto del suo cavallo: “Ne dimme nu poco, ti va pa’ gloria. I’ te vedo muorto e sient’a gente ch’a dice: "Ah! chillu povero fesso!!!”

* * * Giungemmo a Vicenza dopo due notti e una giornata di viaggio senza aver mai potuto

scendere dai carri. Ebbi la fortuna di vedermi rubare "Bellerofonte". Lo insellò un altro. Mi presi in cambio una bella baia alta, magra. Entrammo nella città al passo in colonna con truppe di diverse armi dagli arnesi nuovi dirette alla linea. La città del Palladio si svegliava nel nebbione gelato; i negozi protetti da sacchi a terra dalle bombe degli aerei cominciavano ad aprirsi allora. Pochi cittadini si fermavano a guardarci. In viso avevano quella stessa tri-stezza maledetta che avevo notato a Casale, a Milano, a Peschiera dovunque, dovunque. Il marchio della sconfitta impresso sul viso della nazione. Che significava altrimenti quello sguardo angoscioso, quello stupimento muto? Passavano i pezzi, i cavalieri, passavano i fanti tutti commisti in una enorme colonna grigia, sparsa di ferri senza vampe, a passo len-to, con un rumore di temporale lontano. Rotolavamo noi forse nella fornace della linea senza un’ala di speranza?

Lontano dall’ampia cerchia delle Alpi ci giungevano dei tuoni lugubri lunghi. Il canno-ne. Ai lati della strada alpini francesi scavavano trincee con dei moti ritmici da becchini consumati. Vicenza doveva esser presa si diceva entro poche ore. Si diceva che l’altopiano non avrebbe retto all’urto. Vorrei far comprendere tutta la cupa disperazione del nostro primo ingresso in quella città che viveva sotto il fantasma della sconfitta. Non un grido, non un addio, non un comando squillante. Il rotolio dei cannoni, il cigolio delle ruote, il rumore degli zoccoli ferrati sul selciato, lo scalpitare dei fanti. L’enorme colonna si snodava nella città ad una andatura da funerale. Qualche finestra si apriva, appariva una faccia triste che si ritirava dopo un solo sguardo. Eravamo noi dannati prima d’incominciare? Stanchi

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come possono essere degli uomini che per due giorni e due notti avevano viaggiato sul car-ro bestiame con i loro cavalli che a tratti si imbizzarrivano, calciavano contro le pareti e bat-tevano la testa contro il tetto del vagone, seguivamo il capitano nella marcia lenta attraverso Vicenza che come si diceva avrebbe dovuto di lì a poco presa dal nemico. Pure, la nostra formazione di batteria, con quel suo rumore minaccioso di ferraglie chiusa e ordinata, la nostra gente così cupa e risoluta, l'aspetto del reparto, come al dice in stile militare "salda-mente inquadrato", mi dava la certezza che non saremmo stati travolti tanto facilmente.

Si fece pied’a terra nella caserma del 2° da montagna. L’aria forte e serena di quei con-fratelli alpini c’infuse un senso di sicurezza maggiore. Nella spianata di Porta S. Bortolo ve-demmo dei reggimenti marciare verso la linea con musica e bandiera in testa. Dall’Altopiano di Asiago la musica ferma dei cannoni indicava che lassù si reggeva ancora.

L’armamento

Dormimmo nelle scuderie (noi soldati) del 2° da montagna e s'ebbe il nostro lavoro nel combattere contro i topi che si erano dati appuntamento nelle stalle di quel deposito. A dif-ferenza delle pulci che attaccano l'uomo nemico in vari punti, il topo ama le scorrerie ardite ed improvvise nei punti più impensati. Ricordo di essere stato svegliato a metà notte da un non so che sul viso e d'aver afferrato un topo grosso come un gatto scagliandolo contro il muro. All'infuori di questi, altri combattimenti non ve ne furono. Corremmo però un serio pericolo. Si distribuirono le maschere polivalenti contro i gas e tutta la batteria fu fatta cor-rere sui prati coperti di neve con le maschere sul viso. Non so come parecchi di noi non ebbero a scoppiare durante questo grazioso esercizio. Probabilmente l'esercizio non piac-que a tutti perché alla fine vidi qualche soldato legato alle ruote dei cannoni, il che costitui-va la punizione più comune in quei tempi. Certamente qualcuno aveva preferito togliersi la maschera pur di non scoppiare e per quello era stato punito. Del resto queste prove erano utili per abituarsi a fare servizio anche con una cattiva respirazione.

La maschera consisteva in un soffice ammasso di garza racchiusa in una tela più forte e imbevuta di sostanze che reagivano con i gas di cloro e gli altri asfissianti più comuni. Co-priva tutto il viso, due buchi racchiudenti due lastrine di mica davano modo di vedere at-traverso quella benda nerastra che dava agli uomini un aspetto poco allegro. Mi convinsi pochi giorni dopo che quell’arnese, benché assai imperfetto, era assolutamente necessario. Lo si teneva in una custodia metallica che si doveva tenere appesa al collo giorno e notte. Fo una parentesi. Quando ero a cavallo costituivo tutto un bazar equestre. Incominciamo dall’alto. In testa l’elmetto. M’era un po’ largo e ballonzolava sulla zucca rapata; ad armacol-lo il moschetto, la borraccia, il tascapane, la maschera per i gas, il gasometro, indosso il cappotto da trincea, sotto di esso quello normale d’artiglieria, sull’arcione posteriore della sella la valigia di cavalleria, quel famoso cilindro di tela grezza che ci voleva un Dio ad in-saccare e a legare all’arcione in modo che non battesse sulle reni dell’animale, sopra la vali-gia le coperte da campo, il telo da tenda, i picchetti di legno per la tenda, la gavetta con rela-tivo tintinnante cucchiaio, di fianco la tasca per la biada, la frusta e la striglia, in mano le quattro redini. Quando si trottava le cinghie legavano la pelle, tutto si snodava, ballava, ru-moreggiava. Per ergersi fieramente occorreva sollevare una montagna di roba. Ad un ordi-ne di partenza insellare, fare la valigia, montarla, caricarsi e salire in sella in pochi minuti era un’operazione di forza e di calcolo infinitesimali. L’elmetto provocava in breve la caduta dei capelli: tutte le cinghie nuove di zecca era difficile affibbiarle a dovere. Me la cavavo fi-losoficamente e rapidamente. Dove la filosofia fu per abbandonarmi fu una mattina sulla riva del Bacchiglione. Portavo ad abbeverare tre grossi cavalli bianchi e li tenevo con tre ca-

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tene, il cui contatto con le mani, dato il freddo intensissimo, era tutt’altro che piacevole. Ad un tratto questi tre bestioni si spaventano e fanno per fuggire. Non li lasciai, ma le mani!!!

Quello che ci perseguitava era la strigliatura ai cavalli, il cosiddetto "governo". Non cre-do che esista mansione più noiosa. Inoltre al volontario (ero io) si affidavano più bestie da strigliare che agli altri. Era una specie di vendetta contro quel terribile guerriero assetato di sangue che io era. Subivo, senza parlare. Ben altre manifestazioni collettive ed individuali ebbi a subire. L’aver chiesto di partire per il fronte era agli occhi dei sergenti e di moltissimi soldati un delitto di cui mi facevano colpa. Anche un ufficiale, un tenente del cremonese dai capelli grigi, mi perseguitò come poté facendomi fare in linea i servizi più umili. Subii senza parlare. Si fece anche a Vicenza una esercitazione di campagna. Tutta la batteria fu lanciata al galoppo attraverso la pianura. Scavalcammo fossati, passammo al guado un ru-scello e penetrammo attraverso i vigneti come un ariete. In pochi minuti rovinammo il la-voro di annate intere di agricoltori. Pochi spettacoli io credo possono dare l’idea di quel che sia la guerra al pari di quello di una batteria lanciata al galoppo sulle piantagioni. Ricordo il fare desolato di un gruppo di villici fermi sulla porta d’un casolare. Ma il cannone austriaco rombava vicino. Traversavano il vicino ponte sul Bacchiglione truppe e truppe, cavalli e cannoni in gran silenzio, tutti diretti verso la linea delle montagne sulle quali rombi e vampe lontane annunciavano la battaglia.

Marano Vicentino

Da Vicenza con lunga marcia a cavallo pervenimmo su di una strada chiusa all'orizzonte dalla vetta del Pria Forà e del Crinon d'Aniero, grigie in parte, e in parte bianche di neve, colossi argentati nitidamente tagliati nel cielo. Mentre mi piegavo sulla sella furioso per non essere riuscito a fermare in modo conveniente il mio cucchiaio di stagno che tintinnava ri-suonando ad ogni moto del mio cavallo, un colpo d'artiglieria giunse sul prato a sinistra del-la strada. S'alzò una colonna di fumo nero. Dal Pria Forà ci avevano visto e ci davano i1 primo saluto. Il capitano ordinò il galoppo e, mentre dietro di lui godevo per il vento della corsa, un'automobile velocissima nella quale riconobbi perfettamente il Re passò sul fianco della batteria. Subito dopo una giovane donna, pedalando tranquillamente sulla bicicletta, passò alla nostra dritta.

Quale impressione si prova quando per la prima volta si è sotto un fuoco d'artiglieria? Ciò dipende dal fuoco d'artiglieria a cui si è sottoposti. La mia impressione fu, ad essere sincero, che se tutte le granate nemiche fossero state dirette con la stessa precisione di quel-la avrei potuto vivere lunghi anni ancora e magari impiantare sul posto un bar o un'altra qualsiasi speculazione senza eccessiva apprensione per me e per le mie cose.

Può darsi invece che se il colpo mi fosse scoppiato sulla testa avrei cambiato d'opinione in merito. Certo è che i tiri sulle retrovie a grande distanza, sia pure da posizioni dominanti, raggiungono ben scarsi risultati, inferiori di gran lunga a quelli che si ripromettono gli arti-glieri che li sparano con profonda dottrina balistica e con molte belle speranze di interrom-pere il traffico di una strada.

Tornando a noi, la batteria voltò in una strada laterale e si accampò presso un piccolo paese che lasciammo due giorni dopo per andare in linea.

La valletta del Kaberlaba

Nel grigiore dell’alba freddissima giungemmo al Pian dell’Acqua in vicinanza del bivio Boscon ai piedi della nostra posizione, il Kaberlaba.

Eravamo in una radura, una valletta chiusa da alte muraglie di abeti. I miei compagni si muovevano come automi intorno ai loro cavalli, solo un prodigio di volontà li sorreggeva

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ancora. E dovevamo ancora fare lo sforzo maggiore: quello di trascinare i pezzi sulla posi-zione del Kaberlaba. Lazzarini ordinò per noi il caffè. Le prime luci dell’alba incominciava-no a rendere intorno a noi il paesaggio chiaro. Uno shnapnel ferì il cuciniere e uccise il suo cane. Eravamo arrivati in piena azione. Confesso che malgrado l’enorme curiosità non ebbi la forza di fare i venti passi che mi separavano dalla prima scena di guerra. Passeggiavo con il trombettiere battendo ì denti dal freddo e cercando di riscaldarmi fregando il viso alla co-perta della sella; in quel momento passò di corsa quasi una lunga fila di feriti; erano feriti colpiti dalle esalazioni dei gas, con la faccia terrea, la bocca semi aperta, gli occhi sbarrati. Compresi che dovevano molto soffrire alla gola. Li portavano a braccia, senza barelle. Por-tati ciascuno da due soldati a sedere in posizione verticale, forse per diminuire i loro spasi-mi.

Dopo aver sorbito il nostro caffè a giorno chiaro distaccammo i cavalli e a braccia aiuta-ti da una miriade di fanti incominciammo a trascinare i pezzi nella mulattiera del monte. Osservai bene ciò che in Italia si chiamavano “i soldati del fronte”. Ricordo che fu questa la sola, la vera penosa impressione provata nella guerra. Quegli uomini davano un profondo senso di miseria. Barbe lunghe, elmetti male accomodati sul capo, privi di vernice, visi nera-stri, sporchi, occhi resi cisposi dai gas lacrimogeni, divise che del grigio-verde non avevano che la rimembranza lontana: erano dei cenci giallognoli e nerastri strappati. In tutto fango, fango e sporcizia in quantità.

Diventeremo noi come questi? Camminano rapidi sulla neve quasi avessero tutti fretta senza voltarsi, senza mai guar-

dare, come allucinati. Febbrilmente si piegavano a terra ad ogni rombo e ad ogni fischio, e ne compresi pre-

sto la ragione: noi giunti ora in linea in una foresta fortissima irta di bocche da fuoco tonan-ti e bersagliata dai colpi in arrivo non sapevamo ancora distinguere lo scoppio nemico dal nostro, quello in arrivo da quello in partenza, tantopiù che le folte masse arboree assai rico-privano la vista delle vampate. I gas lacrimogeni che ci hanno dato fastidio tutta la notte qui sono più densi. I nostri occhi bruciano.

Un ufficiale d'artiglieria si avvicina al nostro comandante e sento Lazzarini che dice in modo da essere sentito: "Sono qui con un gruppo di nuova formazione, ragazzi molto gio-vani che si faranno certamente onore". Questo accenno cortese alle nostre possibilità fa su-bito vedere che Lazzarini ha la stoffa del buon ufficiale di guerra. Egli non sa veramente se fra noi ci sono dei conigli; ad ogni modo nulla è più opportuno di quella sua fiducia tran-quilla.

Qualche shrapnel viene a caderci vicino. Le nostre fatiche non sono finite. Occorre a braccia, aiutati dai fanti, un gruppo di un centinaio di fanti cenciosi, portare i pezzi in po-stazione. Lasciamo i cavalli, i nostri compagni di fatica. Non li rivedremo più. Incomincia il traino sulla mulattiera sassosa del Kaberlaba incavata nell'abetaia, che risuona di scoppi. Un cuciniere viene ferito, l'attendente del capitano prende una piccola scheggia sulla testa, un caporale ha un piede rotto dalla ruota di un cannone. Si dirà poi che abbia messo il piede sotto la ruota per farsi trasportare indietro.

Ero alle corde di un pezzo e tiravo quanto potevo. La nostra situazione diventava un po’ salata. Eravamo fatti segno ad un fuoco intensissimo e sulle montagne intorno rumo-reggiava la reazione che come seppi poi dette al nemico un parziale vantaggio.

“Presto o ci si resta tutti secchi”. Così gridò al nostro tenente un ufficiale dei fanti arri-vando di corsa sul luogo. E incominciamo su per la mulattiera sassosa il traino dei 105. Ot-to cavalli attaccati e noi e i fanti alle ruote. Urli e strepiti d’inferno. Vampe e boati d’arrivo e di partenza. I pezzi furono si può dire sollevati da terra in uno sforzo disperato. Ero attac-

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cato ad una fune e tiravo con quel po’ di forza che mi restava. Il sole era alto nell’abetaia e faceva scintillare le cime degli alberi intonacati di bianco. Probabilmente ci avevano visto perché il bombardamento vicino a noi si intensificava. In quel momento avvenne un inci-dente che ci distrasse un po’ dal terribile sforzo.

Un aeroplano nemico nuotando sopra le nostre teste osserva e forse segnala, ma ecco su di lui velocissimo giungere un piccolo apparecchio dei nostri. Il minuscolo cacciatore ha un balzo fulmineo inseguendo l'osservatore nemico e sgrana una prima raffica di mitraglia-trice, poi a due o tre secondi di distanza un'altra raffica. Un urlo inumano sale dalle facce contratte dei soldati. L'apparecchio nemico ha preso fuoco come un fiammifero. La torcia macabra si avvita e piomba nell'abetaia poco distante da noi. Il cacciatore s'allontana. Fran-cesco Baracca1 è passato. La frotta dei fanti cenciosi pianta in asso il traino per recarsi a ve-dere curiosa i due ufficiali austriaci carbonizzati. Corrono come ragazzetti e tornano di lì a poco. A metà della giornata il traino è finito. Siamo in linea in una valletta su un'antica po-stazione di pezzi da marina. Tettoie unite da un camminamento di trincea coperto in parte a guisa di ricovero. Posizione sbagliata. La valletta bianca di neve nella abetaia è in piena vi-sta del nemico, tanto è vero che i fanti girano al largo e le hanno posto il nome di Valle del-la Morte. Ogni quattro metri c'è un cratere di granata.

A notte, serrati nei ricoveri, facciamo la prima esperienza d'una posizione male scelta. È tutto un frullare continuo di schegge e un rombare di scoppi che alla bocca del ricovero lo investono di luce livida. A pochi metri da noi sentiamo il ferro strappato dalla forza delle esplosioni battere con rabbia sul terreno e tagliare i tronchi delle tettoie. Per fortuna il rico-vero non è preso in pieno e, avendo ordine di riparare, non dobbiamo star fuori vicino ai pezzi. Ad ogni modo qualunque minaccia mortale non riuscirebbe a scuoterci perché i mu-scoli e le ossa doloranti si rifiutano di funzionare. Abbiamo raggiunto il limite della stan-chezza fisica. Dormendo fra una raffica e l'altra, accatastati e stretti uno sopra l'altro per vincere il freddo passiamo la prima notte di guerra.

Primi giorni di guerra

Era la nostra posizione una piccola radura aperta biancheggiante di neve nel folto dell’abetaia. Dinanzi a noi il terreno sale e sulla cresta c'è la linea di resistenza della fanteria, dietro di noi il terreno con pendenza assai più forte sempre ricoperto d'abeti forma la vetta principale del Kaberlaba montagna di 1200 circa di quota. In altri tempi il terreno doveva essere stato piano, allora appariva un nero crivello di colpi nemici. Fosse di 20 metri di di-ametro aperte dai grossi calibri s’alternavano a piccole buche. Il suolo era letteralmente se-minato di scaglie di ferro contorte dalla forza delle esplosioni. Un forte odore agliaceo indi-cava la presenza di nubi di gas asfissianti e il bruciore agli occhi quella dei gas lacrimogeni. I fanti chiamavano quella la "Valle della morte" e si guardavano bene dal passarci al passo. Difatti dall’alto degli osservatori nemici quella radura doveva apparire come una macchia candida sul nero dell’abetaia. Bersaglio facile. Chiunque vi transitasse poteva esser visto comodamente. Un errore del comando ci aveva fatto prendere quella posizione giustificato forse dal fatto che vi si ergevano 4 palizzate di tronchi d’albero e un camminamento coper-to che in altri tempi avevano servito ad una batteria di marina che dirigeva il fuoco sul ne-mico quand’esso distava oltre 15 Km. La prima impressione della linea non mi aveva affat-to turbato, forse perché il sentimento dominante era in me una curiosità vivissima che mi spingeva a passeggiare in lungo e in largo per quel brutto luogo che doveva essere da quel giorno la mia dimora. Andai a vedere il velivolo caduto, un cannone scoppiato, la tomba di

1 Il maggiore Francesco Baracca di Lugo di Romagna, caduto poi nel giugno del 1918 da eroe sul Montello.

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un colonnello, magnifica tomba selvaggia e severa nella sua semplicità fieramente ricoperta dalle lunghe braccia dei giganti abeti, e formata d’un cumulo di terra e d’una croce di legno.

Il pomeriggio i nostri ripresero un fuoco d’inferno. La boscaglia cantava da ogni lato per le bocche d’acciaio in essa nascoste. A sera, ridotti all’estremo limite delle forze umane, ci ammassammo l’uno sull’altro quasi nel camminamento coperto, ma fu quasi impossibile dormire. Quasi per rappresaglia per l’intera notte la rabbia nemica si sfogò sulla radura ed una granata prese il camminamento coperto in pieno, scoppiando vicino all’ingresso a quat-tro metri da noi. Vidi la sua vampa curva illuminare l’ammasso dei miei compagni coricati. Al mattino compresi che restare più a lungo in quel luogo significava farci spezzare i can-noni prima d’aver tirato il primo colpo. I buoni sneider avevano dormito allo scoperto sen-za troppo soffrire, però presentavano numerose tracce di schegge di granata. Dietro di noi sparano molte batterie, innanzi a noi qualche batteria da campagna ed i fanti con le loro mi-tragliatrici, che per tutta la notte ad intervalli rullano al più piccolo allarme. Non.ho ancora visto le trincee nemiche che sono al di là della cresta, località questa che chiamano Malga Fassa. La nostra posizione è intenibile o per lo meno l'artiglieria nemica ha aggiustato così bene il suo tiro su di essa che se ci ponessimo a sparare avremmo certamente delle perdite di uomini e di pezzi. Mi sembra che Lazzarini abbia deciso di aggiustare i suoi tiri per essere a posto in caso di un nuovo attacco nemico, ma di sgombrare quanto prima è possibile un centinaio di metri più indietro o più in alto, inoltre i nostri 105 hanno un tiro radente ina-datto a pezzi che debbano tirare dal fondo della valletta. Da qui non possiamo colpire che bersagli lontani e corriamo anche il pericolo di mandare le nostre granate sulla vicina linea di resistenza. Nei primi giorni faccio sempre da guardiafili. Sarà fino alla fine della guerra, da soldato e da ufficiale, un vero destino che io debba per lo più fare servizio da guardiafili. Fare il guardiafili è un mestiere che si impara presto. Il telefono da campo consiste in due semplici carrettine unite da un filo doppio; quando questo filo si rompe il guardiafili deve aggiustarlo. La mia arma è un temperino. Le mie provviste di materiale consistono in un pezzettino di nastro isolante, e quando il filo è assai lungo egli deve portare con sé una car-rettina telefono per provare la linea.

È infine un mestierino abbastanza leggero, però occorre che il buon guardiafili prenda su di sé l'impegno morale di mantenere la linea in funzione. Non è tanto semplice in certe occasioni. In qualunque ora del giorno e della notte, con il sole o con la tormenta e sotto qualunque fuoco, al lungo urlo dei telefonisti "Guardiafili..!" occorre saltar fuori e riparare. Per lo più egli è solo e se durante il suo lavoro gli accade qualche inconveniente deve cavar-sela da solo. Non può nascondersi dietro un sasso e lasciare la linea interrotta, questo è a lui proibito, inoltre sa bene cosa vuol dire poter comunicare col telefono e non si sente d'af-frontare il rimorso di aver lasciato un reparto di compagni diviso dall'altro. Per quel filo può passare la voce per chiedere il pane, per chiedere le granate, o la benda che impedisce l'emorragia di un compagno ferito, infine per il filo passano gli ordini degli ufficiali. E non è poco in combattimento.

F. ed io, due guardiafili, abbiamo posto la tenda vicino al baracchino del comandante e la nostra presenza gli garantisce di giorno e di notte il collegamento con l'ufficiale di guardia ai pezzi e col comando d'artiglieria.

Si fa a turno - una volta esce l'uno una volta l'altro - si finisce per non dormire mai nes-suno dei due perché quando uno ritorna dall'aver aggiustato un guasto è coperto di neve e gelato da cima a fondo e tenta di avvicinarsi il più possibile al compagno per rubargli un po' del suo calore vitale e lo sveglia.

Dopo qualche giorno devo avere una faccia tutt'altro che florida perché il comandante incontrandomi mi ordina di andare a dormire sulla sua branda. Il piacevole riposo non dura

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più di tre minuti che il tenente più anziano mi chiama. Questo tenente è un vero carnefice perché quando può mi gratifica di tutti i lavori più umilianti e dolorosi. Il perché lo sa solo lui. Deve essere pazzo. Ad ogni modo non mi sono mai rifiutato di obbedirgli. Si può os-servare che il rifiuto di obbedienza è punito anche con la fucilazione. Niente affatto; quan-do non si vuole obbedire ci sono per lo meno cinquanta modi per svignarsela, senza con-flitto col superiore. Basta non essere una testa di rapa. Non so perché non ho voluto mai dare a quel tale la soddisfazione di sfuggirgli. Una mattina, mentre rompevo a colpi di pic-cone la roccia a seguito di un suo grazioso ordine a stomaco vuoto e dopo parecchie notti insonni, sono caduto sulla neve svenuto. Sono convinto che solo nei luoghi di dolore, l'o-spedale, la galera e la trincea, l'anima umana si riveli nei suoi aspetti più neri; appare allora fra questi aspetti anche la più miserabile cattiveria.

Il comandante Lazzarini ordinò pochi giorni dopo il nostro arrivo di spostare la batteria sulla scarpata, ma noi di già stazionavamo fuori della maledetta valle per ordine di lui. Ave-vamo rizzato le tende. Siamo tutti allo scoperto senza fuoco e con il corredo di due coperte da campo ciascuno. Il freddo varia, dai 10 ai 20 gradi sotto zero; è questo il mio vero nemi-co. Non credo che si riuscisse a dormire più di due ore per notte, a parte il frastuono che non riesce mai a svegliare un uomo veramente spossato, il freddo c’impediva il riposo. Dormivamo completamente vestiti e bardati col capo entro l’elmetto di ferro. A notte la neve a contatto con i nostri corpi si liquefaceva e il riposo sull’umido ci dava un fastidio as-sai grave, e spesso poi cinque o sei volte per notte dovevamo saltare su per eseguire degli ordini. Al mattino piccone alla mano si doveva scavare il riparo per i cannoni. I rifornimen-ti funzionavano male, il pane che avrebbe dovuto sfamarci per l’intera giornata veniva divo-rato alle sette del mattino al più tardi, a che ci ridonasse il calorico perduto durante il freddo della notte insonne. Abituato al clima di Roma e alle comodità della mia casa svenni due volte col piccone in mano. I sottufficiali andavano del resto a nozze nell’ordinarmi i lavori più umili e faticosi. Si sa, ero un volontario e ciò, ripeto costituiva un titolo di demerito las-sù. Il solo però che esercitasse su me una persecuzione spietata era un ex contadino. Io non potevo a nessuno serbare rancore. Comprendevo come dovessero soffrire quegli uomini condannati ad una vita peggiore di quella dei forzati senza la scintilla di una luce interiore. Forse quel mio servire sereno li esasperava. Ricordo un giorno che quel tenente mi ordinò di portare per ore e ore pesanti secchi d’acqua alle cucine costringendomi a portarli di cor-sa. Per tutta la notte avevo brancolato nella neve e nel buio alla ricerca dei fili spezzati dalle granate. Solo un estremo sforzo di volontà mi reggeva ancora: ebbene nemmeno quel gior-no io potei provare un senso di rabbia. Di rivolta esteriore non era il caso di parlare perché s’andava a passare la notte legati alle ruote dei cannoni se non andava di peggio.

È avvenuto un episodio comico. Ero a poca distanza da quel tenente anziano di Cre-mona che si diverte a perseguitarmi, ad un tratto sentiamo un fischio acutissimo. Lui inco-mincia a dimenarsi come un ossesso ed io lo guardo per qualche secondo dimenarsi col più profondo terrore dipinto sul suo viso largo di contadino. Un fardello di granata antiaerea si conficca per terra ad esatta metà della distanza fra me e lui. Ad un metro da me e ad un me-tro da lui. Se lo avesse preso gli avrebbe fatto un buco dalla testa ai piedi di 75 millimetri esatti di diametro. Quella lì è la fine più stupida che possa fare un uomo al fronte. Sembra un avvertimento del cielo e lo guardo sacramentare con legittima soddisfazione. Non ho per lui un odio profondo ma mi riempie di gioia l'averlo visto dimenarsi in modo così buffo sotto l'assalto della paura.

* * * Mi sento solo. Non c'è persona con cui possa scambiare una parola. Credo che i miei

compagni non mi vedano assai di buon occhio. Io sono per loro il volontario. In realtà io

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non sono affatto un volontario, se non per il fatto che dietro mia domanda sono stato invi-ato dal deposito al fronte. Volevo veramente venirvi con i bombardieri o con i lanciafiam-me per essere più facilmente spedito qui e avevo fatto tre domande in tal senso.

Non che avessi delle idee tremende. Restando al deposito non avrei potuto essere invia-to ad un corso ufficiali, dal fronte invece sì. Ad ogni modo qua sono il volontario, l'unico diciottenne, e un sergente dalla faccia bestiale deturpata da una chiazza vinosa, un sergente restato con i cavalli, per fortuna, me lo ha rimproverato più volte. Questi miei compagni, contadini per lo più da borghesi, sono esseri semplici che lavorano rudemente e che non si comportano affatto male come soldati, ma non amano i volontari e inoltre nel voler soddi-sfare in questa esistenza miserabile i più elementari bisogni mostrano un egoismo senza pa-ri.

C'è uno studente, è il mio compagno F. P. di P., ma con F. non si può parlare perché si è "automatizzato". Il povero ragazzo, che in casa sua doveva essere dolce e quieto come una monachella, fra questi scoppi di granate, in queste nottate di gelo, si è reso simile nei movimenti all'uomo meccanico di non so più quale romanzo straniero, mi pare "Il giocato-re di scacchi". Sembra cinematografato col rallentatore. Parla a monosillabi. Se gli si ordi-nasse di andare a prendere per il collo il generale austriaco andrebbe senza dubbio, parten-do con la sua andatura da automa. È un fenomeno di astenia, passeggero senza dubbio, ma deplorevole per uno che voglia scambiare con lui delle impressioni o semplicemente una decina dì parola tutte di seguito.

Sono felice quando vengo a sapere che la prossima notte sarò di guardia con P., un gio-vane aspirante alto biondo e occhialuto, di spirito vivo ed arguto, studente d'ingegneria con il quale, dato l'abisso della differenza di grado che ci separa, non ho mai potuto scambiare più di una parola.

A Malga Fassa osservatorio di trincea

Ai primi di dicembre fui inviato sulla trincea di Malga Fassa, col compito di segnalare al comandante i movimenti del nemico o i risultati del nostro tiro. Ci fabbricammo alla me-glio dietro un roccione un baracchino di tavole e ci fu data anche una piccola stufa a legna indispensabile.

Le mie comodità erano dunque aumentate: dalla tenda al baracchino, dal riposare sulla terra bagnata di neve all’assito di legno; inoltre avevo la stufa. Dinanzi a me scintillante sot-to un vivido sole è l'altopiano di Asiago. A destra il dirupo nero di Costalunga, di fronte le Melette e a sinistra altre montagne ricoperte d'abeti e scintillanti di vampe di spari.

Siamo in due e con me c'è un caporale e abbiamo degli incarichi assai semplici e diver-tenti. Dobbiamo riferire alla batteria tutto ciò che accade nelle linee nostre ed austriache, per di più segnalare la direzione delle vampe dei cannoni austriaci. Dietro la trincea c'è un viottolo ed una roccia e dietro la roccia abbiamo un ricovero in legno, dove ci concediamo il lusso dì fare delle amache con i fili telefonici.

Ci tirano pochissimi colpi. La trincea è tenuta da una valorosa brigata di fanteria che è in linea da sette mesi. I fanti non escono dai loro ricoveri per il freddo intensissimo, ma tengono in trincea sentinelle e mitragliatrici e specie di notte sparano sulla pianura e man-dano pattuglie fino alla trincea nemica che è a Cave Gaica appena un chilometro fuori dell'abitato di Asiago.

Non sento più i disagi perché troppe cose ho da vedere che mi sembrano assai interes-santi; si può dire che non corro pericolo se non quando vado a prendere il rancio per me e per il mio compagno il quale ha voluto fare con me un contratto circa queste passeggiate. Due volte su tre va lui a prendere il rancio, io in compenso debbo andare quando gli au-

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striaci sparano. La sua maggiore fatica è compensata dal mio maggiore rischio. Il contratto è pienamente approvato dalle due parti.

Mi sembra di essere un re. I miei compagni non vedono niente e io vedo tutto. Per di più se necessita posso ordinare io il fuoco al mio comandante! Per di più se è necessario posso aiutare i fanti a difendere la trincea. Questa correva lì ad una decina di passi ed era tenuta dal 28° fanteria (Brigata Piave), fanti dalle mostrine verdi filettate di rosso. Quella brigata si era comportata assai onorevolmente sul Carso, entrando per la prima a Gorizia. Questi fanti riposavano in caverne scavate sui fianchi del Kaberlaba e del Malga Fassa e alla notte facevano le loro pattuglie nel vallone di Asiago. Erano assai male in arnese, non credo che avrebbero retto lungamente ad un assalto. Non c’era di che far loro delle colpe smisu-rate. Erano in linea da ben sette mesi senza riposo, avevano da poco subito il collasso mo-rale della ritirata soffrivano al pari di noi il freddo intensissimo perché come noi erano sprovvisti di indumenti invernali. Fu da questi fanti che seppi che il giorno del nostro arrivo avevano combattuto un’aspra battaglia nella quale s’erano dovuti ritirare lasciando al nemi-co Vedette di Gallio e l’ingresso della Valle di Campomulo. I fanti! Volete sapere quello che erano al fronte i fanti? Erano i santi! C’era appunto un ritornello di trincea che suonava co-sì:

“Di’ male dei santi, ma lascia stare i fanti” Fate che un uomo lasci la sua casa e tutti i suoi affetti bardato d’armi e di pesi come un

mulo. Raffiguratelo nelle condizioni del fante in trincea. Rendetevi conto del fatto che egli non si ribella, non si suicida, non scappa. Ecco il santo. E quali erano quelle condizioni? Inutile raccontare a lungo su ciò, sarebbe l’enumerazione di tutte le sofferenze del corpo umano. E il pericolo? Bastano le cifre. Ci sono stati 650.000 morti in tutto l’esercito e il 75% delle perdite le ha subite la fanteria.

Ero felicissimo del mio nuovo posto. Potevo alla mattina libero e solo vagare per la trincea curiosando sui movimenti degli austriaci, inebriandomi di quel poema di forme e di colori che è il vallone di Asiago, seguire con attenzione vivissima tutte le attività della batta-glia, la precisione delle batterie nemiche, i movimenti di pattuglia e loro tracce sulla neve. M’ero formato una grande pratica sui tiri. Tanto che se fossi stato mutilato da un colpo a-vrei saputo di quello il calibro, la direzione, la provenienza, ogni cosa.

Ai fanti che incontravo chiedevo un mucchio di cose. M’informavo su tutto e su tutti. In breve su dei pezzi di carta racimolati non so come combinai degli schizzi panoramici che furono utili al capitano durante la battaglia di Val Bella. Cominciavo ad inquadrare nella mia mente il campo di battaglia. Le mie giornate passavano rapidamente. Al mattino correvo in batteria a prendere da mangiare per me e per il mio compagno. Spesso durante queste pas-seggiate tronchi interi di albero mi cadevano ai piedi troncati dalle granate. Ciò non valeva a distogliermi dalle mie abitudini poi prendevo i miei strumenti e le mie carte e me ne andavo in trincea ad osservare, in tal modo e tagliando legna da ardere passavo il pomeriggio. La notte combattevo accanitamente contro due nemici di cui il primo era una tortura senza nome, il freddo, il secondo erano le bestioline parassite. Non c’era da annoiarsi, specie alla notte. I concentramenti nemici erano frequentissimi: si può dìre che giorno e notte le linee nostre venivano martellate. Si rispondeva a raffiche rabbiose, seppur troppo poco frequen-ti. Mi piaceva dalla trincea vedere i nostri scoppi su Canoe, su Camporovere, su Villa Rossi, su Asiago. A poco a poco avevamo cambiato i connotati allo Zebio. Coperto dapprima da una folta boscaglia appariva ora rapato come la testa di un tignoso. Ma la più bersagliata da noi era Villa Rossi. Gli ordini di fuoco su Villa Rossi erano quotidiani. Il cannone imperava sulla vallata incorniciata di abetaie or candide di neve, ora nerastre di boschi. Frugava, bat-teva, incendiava, portava elevando cumuli di terra spargendo il fondo valle di crateri.

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Avvenimenti.

Gli episodi di maggiore importanza sono quelli che interessano lo stomaco. In guerra di trincea almeno è così. Avanzare o retrocedere non cambia granché la vita di ogni giorno. Lo stomaco a diciotto anni, in montagna in inverno, è quello di un animale da preda. L'arri-vo di farina di granoturco al mio compagno torinese è un avvenimento. Facciamo della po-lenta e la stendiamo su un disco di legno che ci hanno dato per prendere le direzioni ango-lari di certe postazioni nemiche. Questo disco lo chiamano in termine tecnico "alidada". Ci telefonano dalla batteria per sapere se l'alidada è a posto. Rispondiamo che è a posto e in-tanto tagliamo a fette la polenta in piena felicità. Qualche giorno dopo mi avvertono che ad un baracchino di fanteria c'è un vivandiere che vende del cioccolato. Via di corsa giù per l'abetaia a comperare. Un'ora di corsa. Ressa intorno al baracchino. Uno shrapnel infila cinque artiglieri. Spendo tutto quello che ho in cioccolato e marmellata ed al ritorno di not-te smarrisco la strada a causa della neve che copre tutti i sentieri. Rischio di farmi portar via la testa dai colpi dei cannoni dei nostri mascherati nella foresta e al ritorno prendo un'indi-gestione. Siamo poi riusciti a trovare presso un osservatorio della fortezza una piccola stufa dove possiamo abbrustolire il nostro pane che gelato com'è si taglia a malapena a colpi di baionetta. Questo pane scaldato è paradisiaco. Non si mangia abbastanza perché la piccola pagnotta alle sette del mattino è divorata fino all'ultima briciola. Per giungere al mattino dopo c'è solo un po' di brodo e di carne e una zuppa perfida. Ci vuol altro con venti gradi sotto zero! Alla vigilia di Natale ho trovato in terra un pezzo di pane un po' calpestato dai muli e bagnato e mi è sembrato di sollevare da terra qualcosa caduto dal cielo!

* * * I giorni passano e noi seguitiamo a buscare delle granate e a saltare da un masso all'altro

per evitarne gli spiacevoli effetti. Lazzarini è venuto ieri ad aggiustare dei tiri e in pochi mi-nuti ha inquadrato il tiro di sbarramento sul cimitero di Camporovere dove gli austriaci so-no annodati. Mi sono divertito. C'era con lui un capitano, un uomo grosso comandante di una batteria di obici il quale con grande allegria mandava le sue grosse granate da 149 a col-pire alla perfezione. Questo capitano ha voluto tirarmi il naso e mi ha chiesto se quando sono a casa mi diverto ad arrampicarmi sui massi della Fontana di Trevi che è vicina alla mia casa. Gli ho fatto capire che quando sono a casa faccio lo studente di liceo e che pur ammirando le acrobazie degli altri ragazzi non posso sempre imitarli. Ho visto sul suo fac-cione dipingersi lo stupore. Difatti nel guardarmi sembra che faccia uno sforzo d'immagi-nazione al pensiero che sotto il mio aspetto di straccione si nasconda una persona di condi-zione civile.

Mi pare che Lazzarini sia contento di me e mi ha ordinato di fare un disegno del pano-rama e delle trincee che potrà servirgli.

Attacco e vittoria nemica delle Melette, del Sirenol e di Valbella.

Una notte di dicembre mentre riposiamo nel nostro baracchino si scatena un diluvio di artiglieria. L'abetaia si schianta sotto quell'uragano e una granata urta la roccia che ci pro-tegge. Grossi massi cadono sul baracchino e ci obbligano a sgomberare e a rifugiarci insie-me a tre altri soldati nell'osservatorio di trincea. Ritorno per un istante nel mio baracchino per prendere qualcosa che ho dimenticato e lo trovo colpito da una granata nel punto stes-so dove un minuto prima riposavo. I colpi che arrivano hanno un sibilo strano, seguitano a fischiare dopo il loro scoppio contro la roccia con il rumore di camere d'aria che vengono bucate. Sono granate a gas. Scoppia sulle nostre teste un colpo e ci riversa addosso una grandine di sassi. Un moto istintivo mi fa portare le mani alla testa. Intravedo nel fumo i

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compagni che con gesti febbrili mettono mano alle maschere e faccio per imitarli quando la gola mi si serra sotto un morso di fuoco. Ho l'impressione che un ferro rovente mi passi per la trachea nel petto fino ai polmoni e vado a terra. Non mi sembra di aver messo la ma-schera da solo, ma che qualcuno mi abbia aiutato e mi trovo sotto il naso la fiamma di una gavetta di benzina accesa. I miei compagni più pratici di me hanno acceso della benzina af-finché l'ondata d'aria calda sollevi il gas asfissiante. Il mio trasporto al posto di medicazione è per il. momento impossibile. L'abetaia è trasformata in un inferno. Resterò in un angolo inutilizzato per tutta l'azione

* * * All'alba tre ufficiali vengono a raggiungerci, l'osservatorio che ha una copertura leggera

è preso di mira e del resto l'osservazione è impossibile perché la piana dì Asiago è coperta di nebbia fitta. Si deve abbandonare l'osservatorio per un ricovero in caverna, ma qui i gas si accumulano ed è necessario cacciarli con fiammate di rami secchi Tutto il giorno il bom-bardamento seguita e tutta la notte seguente ed al mattino del giorno dopo non accenna a smettere. Talvolta un ufficiale esce a vedere quel che accade e ritorna livido incalzato dai fischi dei proiettili in arrivo. Sento che o riuscirò ad andare in batteria a prendere delle be-vande calde o creperò in quel cunicolo affumicato. Esco e corro a più non posso sotto i1 bombardamento saltando da un cratere all'altro e da una roccia all'altra. Passo dinanzi a tre batterie da campagna incavernate che sparano furiosamente, attraverso la valletta della mor-te del Kaberlaba e giungo a casa (così scherzosamente si chiama in linea la postazione del proprio reparto). Il caffè mi rianima. Mi domandano notizie ma non posso darne. Posso solo raccontare che con la nebbia non si vede al di là del naso e che noi e loro spariamo fu-riosamente.

Se mi facessi mandare all'ospedale? Uhm! È un'idea che mi sorride poco. Anzitutto ho sentito dire che all'ospedale danno da bere dei brodini scialbi e poi cosa mi faranno i medi-ci?

Meglio è ritornare in trincea. Dell'avventura della notte passata ho riportato una tosse formidabile ed un continuo senso di deliquio ma niente più. Infine voglio vedere come va a finire tutta questa storia. Se seguitiamo a star lì senza poter vedere niente in quattro gatti e quasi disarmati credo che finirà nel modo seguente: verranno gli austriaci e ci prenderanno come salami. Almeno i miei compagni della batteria hanno la soddisfazione di spedire 80 granate da 105 al minuto primo.

Noi siamo osservatori e dobbiamo osservare e da due giorni osserviamo che non ci si vede più in là dei nostri nasi.

La battaglia ha di queste strane contraddizione: quanta gente durante un'azione è co-stretta a stare in buca ad aspettare sulla linea di resistenza proprio dove il fuoco si concen-tra con la maggiore intensità senza nulla poter vedere né fare!

* * * Dopo tre giorni l'assalto austriaco è terminato, ma il bombardamento sulle nostre linee

seppure meno intenso seguita sempre giorno e notte. Si dice che i nostri abbiano perduto delle importanti posizioni sulla nostra destra, il Sireniol, Valbella, etc. La vigilia di Natale il fuoco riprende furioso. Allarmi di campane avvertono che si tira su di noi a gas e la neve è in ogni punto macchiata di chiazze gialle: gas di cloro. Il mio compagno ed io abbiamo l'or-dine di restare in permanenza nella trincea senza poter tornare al nostro baracchino sven-trato.

Ieri è avvenuto un fatto comico. Sorpreso da un deliquio resto a terra privo di sensi sul fondo della trincea. Il mio compagno senza curarsi di fare le constatazioni di rito corre in

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batteria ad annunciare la mia morte. Prima del suo ritorno credo opportuno resuscitare e mi metto a sedere tranquillamente. Mi vedo arrivare due portaferiti con tanto di barella nonché un caporale dei portaferiti un lungo contadino del reggiano sempre armato di una bottiglia di sciroppo nerastro al quale attribuisce delle straordinarie virtù. Due cucchiai di sciroppo ed egli, il caporale, se ne va soddisfatto col suo piccolo corteo.

* * * Il mio compagno graduato con il quale da più di un mese divido i rischi e i disagi della

trincea vorrebbe che in questa divisione la maggior parte dei disagi toccassero a me e la mi-nore a lui. Nel suo egoismo questo è naturale, ma certo è che non mi piace affatto e anche questo è naturale. Egli non pensa che alla sua città ed alle comodità della sua casa impre-cando notte e giorno contro la vita di guerra. All'ora del rancio quando gli austriaci sparano sul sentiero e io devo secondo il nostro contratto andare a prendere da mangiare, allora di-venta con me straordinariamente cortese. Io vado e me ne infischio. Io sono certo di non essere colpito. Da che cosa mi provenga questa certezza non lo so.

Le mie passeggiate per l'abetaia sono tranquille anche nei momenti di fuoco. Questi a-beti coperti di neve sono di tale bellezza che non è possibile che il fuoco la guasti per inte-ro. Certo in alcuni punti i 305 hanno aperto dei varchi colossali, ma la foresta è immensa ed ha ancora alcuni angoli intatti. Quando ero a casa mi piacevano i quadri in bianco e nero. Ora io non vedo che questi due colori ai quali nelle rare giornate di buon tempo il sole me-scola del roseo e dell'oro e nelle notti la luna getta lampi d'argento. Sotto il tiro la foresta acquista qualcosa di vivo e di formidabile. Sono diventato infine amico di questa terra e questo mi dà la certezza che la roccia e l'albero o il mucchio di neve che trovo sui miei passi siano messi lì per ripararmi da queste schegge di ferro che urlano intorno al mio capo inu-tilmente.

Anche nel pericolo questo lembo di terra veneta mi appare di tale bellezza che ogni al-tra sensazione era vinta dal suo nobile aspetto.

* * * Sono di vedetta. La notte è chiara, la luce della luna si spande sulla neve soffice e gli a-

beti sono immobili ché non spira un solo soffio di vento. Ho le gambe negli stivali di gomma da scolta e sto bene. I piedi sono quasi caldi. Un si-

lenzio pieno veste tutte le cose. Molta neve è caduta. È una di quelle notti in cui si dice che il lupo della montagna sosti dal cacciare la preda e urli verso la luna per amore, fermo sulle gambe nervose, il muso proteso tuffato nell'argento lunare.

E io penso che pochi giorni or sono la notte di Natale, una notte come questa, ci siamo scambiati, noi e quelli che ci stanno contro, tante granate che l'altopiano era tutto un infer-no, attacchi, contrattacchi, strepito di mitragliere, vampe di riflettori, e pezzi di ferro urlanti in tutte le direzioni, lo stesso abbiamo fatto per tutta la settimana e così abbiamo solenniz-zato l'ingresso del nuovo anno. Perché gli uomini fanno questo? Questa notte è pace qui e le trincee sembrano cancellate dalla neve alta, bella, bianca. Passano dieci minuti e… ta-pum, il loro fucile, e giù una scarica di mitragliatrice nostra. Niente di allarmante. I soliti sa-luti delle pattuglie, ma intanto penso che mentre tutto potrebbe tacere sotto la carezza ripo-sante di questa notte, a cento metri da me un gruppo d'uomini avvinghiati al treppiede della mitragliatrice tinge la neve col sangue di un pattugliatore che senza avvedersene è entrato strisciando per terra nella zona argentata dai raggi lunari. Perché gli uomini fanno la guerra?

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Valbella Sirenal

Il comandante è salito in osservatorio e tutte le nostre artiglierie sparano a tiro celere. Quantunque il concerto dei nostri sia abbastanza modesto se confrontato, pure è imponen-te. Le tradotte passano sulle nostre teste con il loro rumore caratteristico di treni lanciati su un ponte metallico. "Tradotta" è il termine inventato dai soldati per i colpi di grosso calibro e non potrebbe essere meglio appropriato.

L'altopiano è tutto cosparso di fiocchi di fumo bianco e nero. Trasmetto al telefonista gli ordini del comandante dai quali appare ben chiaro che spariamo anche noi abbastanza rapidamente a salve di sezione. L. è sdraiato su dei sacchi a terra ed ha un colorito cadaveri-co. Le sue ferite e i disagi lo hanno ridotto in questi giorni a mal partito. Mi dà i suoi ordini con voce fioca e non so cosa dire per farlo star meglio, quassù non abbiamo niente da po-ter offrire, neppure un sorso di vino.

Nella mattinata l'azione riscalda e le mitragliatrici entrano in azione alla nostra destra in zona Valbella Sirenal e Costalunga. Il loro rumore regolare e martellante copre tutti gli altri nel senso che più degli altri impressiona. C'è dell'autorità e della sicurezza in quest'arma e circa la sua efficacia non ci sono dubbi. Usata a corta distanza novanta volte su cento deci-de la sorte del combattimento fra le fanterie. La mitragliatrice è il fucile dei fanti austriaci. La usano nella difesa e nell'assalto con abilità e freddezza senza pari. I nostri non hanno gran numero di mitragliatrici in paragone agli austriaci, inoltre sono meno sicuri nell'uso e nell'impiego.

L'azione prosegue tutta la giornata e verso sera il nemico concentra il tiro a gas sul no-stro osservatorio e sui fanti che sono di rincalzo nelle vicinanze.

A tarda notte il tiro diventa violentissimo tanto che rompe il filo di comunicazione fra il nostro osservatorio e la batteria. Siamo costretti ad uscire per aggiustarlo capitombolando sulla neve ghiacciata nei crateri dei proiettili e urtando ogni momento contro tronchi d'albe-ro abbattuti dalle granate. Le montagne in faccia a noi sono costellate di vampe e dalle vampe si vede che il tiro è celerissimo.

Tutte le artiglierie austriache e tedesche sparano contemporaneamente e rapidamente. Alla nostra sinistra una batteria di 95 francesi subisce qualche perdita. La foresta s'illumina di bagliori improvvisi e non distinguiamo più il colpo dei nostri cannoni dallo scoppio dei colpi in arrivo. Si vede chiaramente che nella mattinata i nostri hanno avuto dei successi e che i loro contrattaccano per riprendere le posizioni. I nemici non perdono tempo quando abbandonano una posizione sotto l'attacco avversario. Concentrano su tutta la zona il mas-simo del fuoco e contrattaccano affinché la fanteria non si rafforzi e non abbia tempo di lavorare per sottrarsi agli effetti del loro fuoco. Se i nostri riescono a tener duro questa è la prima battaglia qui nell'altopiano nella quale c'imponiamo al nemico.

* * * L'azione è finita. Ho un totale di tre notti e di quattro giorni senza sonno da mettere a

posto. Non sento più il sonno perché l'eccitamento prodotto dalla stanchezza me lo impe-disce. Appena potrò dormirò una settimana intera.

* * * Ho saputo che il comandante non avrebbe nessuna difficoltà che P. ed io fossimo invia-

ti al corso ufficiali, solo teme che noi si vada a finire in fanteria. Perché questo timore da parte di L. che è un valoroso? Io sono d'opinione che facendo la guerra non si debba sce-gliere troppo la strada del proprio destino. Un'arma vale l'altra, quando qualunque evenien-za si è preventivamente accettata.

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E del resto è forse possibile star qui senza aver fatto un taglio col resto del mondo, con l'avvenire e con il passato? Io leggo con grande piacere le lettere che mi giungono da casa ma non voglio che il pensiero si fermi troppo sulla mia famiglia e sulla mia casa. Fermare a lungo il pensiero sulla propria famiglia e sulla propria casa, pensare al domani, paura di evi-tare il pericolo cercando di cambiar zona o reparto, sono tutte operazioni mentali che pon-gono nell'anima il tumulto, il disordine e domani forse la disperazione.

* * * La guerra tende allo sforzo l'uomo fino al punto di fletterne il corpo e di spezzarne la

compagine psichica, ma non tutti gli uomini reagiscono al fenomeno nello stesso modo. Si può dire anzi che ognuno dei milioni d'uomini che vi partecipano reagisca in maniera diffe-rente. Sembra che considerino il fenomeno come un malaugurato incidente della loro vita: questi sono gli uomini talpe, quelli che misurano il quarto d'ora di tempo in più o in meno della loro permanenza in trincea, che rubano la mezza giornata nel periodo della licenza, che fanno lavorare il cervello giorno e notte per trovare una forma d'imboscamento, eppu-re non sono dei vili, spesso sono dei coraggiosi, ma freddi e tenaci nella loro volontà di vi-ta. Altri vivono invece il loro periodo di guerra come vampate di una grande fiamma, non conoscono confini alla bellezza di un gesto, non conoscono limiti al sacrificio, vorrebbero poter morire dieci volte nella lotta e dieci volte risorgere per bruciare nell'inferno della bat-taglia e questi non amano la vita. Tra questi e quelli ci sono gradazioni infinite. Quali sono realmente i forti? Si dice erroneamente che lo spirito di conservazione sia la forza che ani-ma il combattente. Se tutti i soldati del fronte fossero animati dalla volontà di conservare in vita se stessi, il fronte non esisterebbe più da tempo ché con simultaneo dietrofront tutti lo avrebbero abbandonato.

Come si può riuscire a comprendere l'anima dell'uomo? Essa è come la natura fisica dell'universo una cosa varia e formidabile che ha orizzonti di sogno e tenebre orrende che inflessibilmente alle volte è logica e stupidamente mutevole. Dobbiamo ammirare quelli che si bruciano nella lotta come falena sulla fiamma o coloro che vogliono vincere l'agguato della morte come possono e che al disopra delle lotte dell'uomo vogliono col loro freddo egoismo far valere il diritto della vita? Non si può giudicare. Forse occorrerebbe conoscere se e quanto ognuno di essi è felice nella sua casa e nella sua vita di ogni giorno.

* * * Come doveva essere graziosa questa cittadina di Asiago nei tempi della pace e come più

belle dovevano essere senza dubbio le abetaie che la circondano. Ora non è più che una ro-vina e le abetaie, divelte, bruciate, muoiono a poco a poco. Non credo che in Asiago ci sia qualche borghese e neppure qualche comando austriaco. I suoi tetti rossi non ci sono più: i solai sono crollati e i pochi muri che sono ancora in piedi mostrano le aperture delle fine-stre senza serramenti, annerite e rovinate dalle esplosioni.

Le strade sono riempite di macerie. A sinistra del paese c'è la villa Rossi che essendo sul limitare del bosco poteva servire da osservatorio alle batterie austriache annidate nel bosco stesso e perciò i nostri la bersagliavano notte e giorno con valanghe di fuoco. Ora è in completa rovina. I paesi che circondano Asiago sono anch'essi demoliti. Cance e Campo-rovere sono quelli più in vista dalle nostre linee. Si dice che nel cimitero di Camporovere siano piazzate delle artiglierie e perciò anche il cimitero è notte e giorno bersagliato. Questa conca d'Asiago, meta sognata di turisti, è ora un campo fumigante di esplosioni e cosparso di residui di case. In certi punti quando la neve è alta pochi muri sorpassano il livello della neve e quei residui di vita civile aggiungono tristezza al paesaggio.

* * *

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È incredibile come con questo freddo i fanti riescano a tenere la linea, e la tengono con assidua vigilanza poiché di notte ogni pochi minuti si sentono le loro scariche di mitraglia-trici sgranate su qualcosa che la vedetta ha visto muovere o crede di aver visto muovere. Il freddo però esiste anche per gli austriaci per fortuna e qualche focherello salvatore di legna di pino può essere acceso qua e là senza suscitare rappresaglie eccessive. Ciò malgrado i casi di congelamento degli arti sono piuttosto numerosi. Ho perduto in parte la sensibilità del pollice del piede destro a cagione di un buco nella scarpa. Perché queste scarpe nuove sono già bucate? Bisogna ringraziare i fornitori dell'interno.

Occorre dire la verità, al fronte non si sta bene e lasciare il fronte per una ragione ono-revole fa piacere. Negli occhi dei feriti leggeri si legge la contentezza: nella maggior parte dei casi quegli stessi feriti non lascerebbero la linea nel pieno di un combattimento forse neppure se in luogo d'esser leggere le loro ferite fossero più pericolose e dolorose. Questi due fatti sembrano una contraddizione. Eppure è così. La morte non è temuta tanto quanto la sporcizia, il freddo, il disagio, il susseguirsi dei giorni sempre uguali e sempre conditi delle stesse cose: nebbie, neve, freddo, il disagio, il susseguirsi di granate, fango, pidocchi, mise-ria, miseria più grande delle montagne che ci circondano, dipinta sui visi nelle barbe incolte, nei vestiti stracciati e sbrindellati.

Una immensa maleodorante miseria che è il fardello più grave che il soldato sopporta nelle guerre di trincea. Ai tempi delle battaglie napoleoniche, quando il soldato faceva la guerra di movimento i disagi non mancavano certamente ma la sua vita di zingaro combat-tente veniva allietata nelle più varie maniere. Marciando da un paese all'altro depredava le campagne e le città di quanto c'era di buono malgrado ogni severa proibizione. Veniva a contatto con borghesi e con donne assai più spesso. Giorni di digiuno completo erano se-guiti da giorni di scorpacciate. Il fatto solo d'essere in movimento e che al suo sguardo il paesaggio mutasse d'aspetto potevano largamente distrarlo e fargli dimenticare il suo peri-colo, ed il suo destino. Oggi no: a quindici chilometri dalla prima linea si entra in una zona dove la vita dei borghesi e le sue buone cose non hanno più modo di esistere, in prima linea c'è l'inferno completo, lì rovinano gli alberi schiantati, lì la bianca neve è chiazzata e sforata dalle esplosioni e dalle ondate dei gas, lì niente può distrarre il cuore del soldato. Tappato in tane scavate nella terra deve fare il suo mestiere e attendere il suo destino. Niente di più mi-serevole di questi moderni combattimenti dove l'impero del fuoco è tale che annichilisce l'uno e l'altro degli avversari, li costringe con la faccia nel fango per settimane e per mesi e per anni interi a spiarsi reciprocamente fra una zolla di terra e l'altra senza poter muovere un dito quando il compagno vicino ha un arto stroncato dalle granate e lancia nella zona mortale delle trincee l'urlo della carne martoriata.

Ripresa di Valbella

Ora appoggiamo una vasta azione per riprendere i tre monti Valbella, Col dell'Osso, Cima Ecar. L'azione è alla nostra destra ma noi dobbiamo tirare lo stesso. Siamo andati a tentare di osservare sulla cima di un abete altissimo, e vediamo l'azione svolgersi accanita. Tutto il basso mammellone bianco di neve di Monte Valbella è costellato di piccole fiamme rapidissime nell'azione serrata. Valbella è presa. È la prima vittoria offensiva dopo Caporet-to. Alcuni giorni dopo io e Fotide Patrizi riceviamo l'ordine di partire per il corso ufficiali. La gioia è grande. Vado a prelevare quel campione di ragazzo al suo comando di gruppo. Non riesce a eccitarsi per eccessivo entusiasmo. Tutti quei colpi che gli rintronano le orec-chie da mesi, quel gran gelo cui non è abituato lo hanno completamente idiotizzato. Quan-do si muove sembra un gatto preso da una macchina cinematografica al rallentatore.

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Seconda Parte

Ritorno al fronte

Mi arriva l'ordine di ripartire per il fronte. Metto le mie cose nella cassetta e fo' tutto da solo perché il mio attendente preso a metà con il tenente Barattieri è introvabile. La cassetta è tutto il mio bagaglio. La stazione di Torino è un caos, il treno è strapieno di grigioverde, una folla infinita energica maleodorante ma silenziosa, nella quale è impossibile trovare un uomo vestito da borghese. Masse di militari si stipano nei vagoni, fanno ressa al Comando di tappa ed ai ristoranti di stazione, ingombrano dormendo sdraiati sulla nuda terra i mar-ciapiedi incuranti di coloro che passando li urtano con le suole delle scarpe. Ai finestrini dei convogli facce brune o giallastre scavate dalla fatica, divise logore, stracciate, annerite dal fumo. Tradotte che tornano. Visi più freschi, più puliti, più malinconici. Tradotte che van-no. Non c'è da sbagliare.

Grandi frecce in bianco su nero indicano le due grandi direzioni del destino. Ad ogni modo ci sono anche quelli che non vanno e non tornano. Quelli che restano.

Ufficiali dei carabinieri, dame della croce rossa, poliziotti, addetti al Comando stazione, mi-litari del Commissariato, operai delle fabbriche d'armi e tutta l'infinita gamma dei militari che noi chiamiamo generalmente "imboscati". La più parte di costoro ha un cipiglio fieris-simo, un'aria di superiorità indiscussa. Sembra che pensino di stare infinitamente più su di coloro che si riducono con le divise stracciate e le barbe incolte a partecipare a quel triste giuoco che è la guerra.

Li guardano quasi con disprezzo, pretendono il saluto con rigidità da caserma. Sembra che il Destino li abbia creati per dirigere l'umanità che si getta nel caos riserbando come una necessità inderogabile il loro posto al sicuro da ogni ferita e da ogni fatica che possa di-sturbare il loro superiore lavoro mentale.

Imboscati. Ce ne sono tanti, forse troppi. Ho trovato un cantuccio nel treno dove posso sedere. Ho trovato anche due compagni

di corso, il primo è un professore di filosofia, Mellerio, che sa di essere diretto al fronte del Garda, il secondo uno studente piemontese che è del mio reggimento e verrà con me. Do-ve non sappiamo e non c'interessa di saperlo. Mellerio con la sua barba rossa ed i suoi oc-chiali è taciturno e grave. Non c'è da prendere sul serio la cosa.

"Ti ricordi di quando ballavi in camicia con un gambale diritto sulla testa a guisa di el-mo nella camerata di S. Francesco Canavese?"

Non se ne ricorda. Forse non ricorda neppure il vino di S. Francesco Canavese che quella notte lo tradì. Ma io ricordo il bravo professore saltare come un folletto da una branda all'altra dime-

nando la grande barba rossa al lampo degli occhiali in una danza indiavolata. Oggi Mellerio è pensieroso. Con i suoi 40 anni suonati dove dare addio alla sua scuola

di Bra.

* * * Le prime ombre della notte sfumano i contorni delle finestre e gli angoli di pietra delle

case del Grappa quando si accorgono, quelli del Comando, della nostra esistenza e manda-no giù a precipizio un soldato a chiamarci di sopra. C'introducono in una cameretta dove sopra una madia sta un enorme libro manoscritto. Restiamo lì qualche minuto ed ecco en-trare solo soletto piccolino, mite, faccia rotonda, baffi bianchi ben curati, Sua Eccellenza il Generale Comandante della Divisione.

Scartabella il grosso volume e segna i nostri nomi.

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"Lei andrà al 61° gruppo da montagna e precisamente alla 137 e lei alla 136". Una legge-ra stretta di mano, due solide battute di tacchi ed il piccolo generale scompare senza far rumore.

* * * Siamo destinati a quel tratto del fronte del Grappa che partendo da Cima Brental copre

la pianura e la difende con le quote del Pallone, del Tomba e del Monfenera terminando al Piave con le rocce a picco di S. Sebastiano. Saremo perciò all'ala destra dell'armata del Grappa ed alla cerniera fra i monti e la linea del Piave.

Ogni commento su questa dislocazione è inutile perché non viene raccolto dato il son-no che ci ha assalito senza pietà.

Truppe di montagna

Più li osservo questi "semplicioni" dei miei soldati e più li trovo interessanti. Più di ogni cosa mi piace quel loro modo di ridurre tutto quello che accade qui ad una "faccenda casa-linga" ad un affare "di ordinaria amministrazione". Della guerra non parlano, dei loro morti neppure, del pericolo che qui incombe ad ogni passo o non s'accorgono o fingono d'igno-rarlo. Giganteschi e rapidi, faccia serena sotto la tesa del cappello alpino, lavorano. Si di-straggono lavorando. Forse quel loro lavorare calmo e duro li distrae anche da quel pensie-ro che infine deve pur pungere ogni tanto il petto. Quello che li porta alla "baita" o alla "ca-sera", alla madre, alla moglie ai bambini o alla morosa. Maneggiano i martelli foratori come fossero dei bastoncini da passeggio. Vogliono fare una galleria che sarà sicura come la loro casa. Certo moltissimi di loro hanno prima di ora lavorato di mina. Non una cartuccia di dinamite va sprecata. Non un infortunio, uno solo di quegl'incidenti così frequenti quando si lavora di mina. E nessuno resta indietro "a lavorare", nessuno "batte la fiacca", ogni squadra che appartiene ad un pezzo scava il suo tratto di galleria per salvare la "ghirba" ai serventi di quel pezzo. Si riposano insieme, mangiano insieme i viveri che si sono fatti dare crudi e che cucinano ogni pezzo alla sua maniera secondo un piano di cucina concertato alla mattina dopo una riunione di famiglia nella quale il sottufficiale fa la parte del padre.

Questi soldati delle batterie alpine sono scelti fra i più forti degli alpini. Parecchi sono capaci di portare in spalla la testata del pezzo che pesa 130 kg mentre la bocca da fuoco pe-sa solo 100 kg.

Non sono molti qui in linea perché il lavoro principale delle batterie è quello del rifor-nimento e quindi solo una trentina sono con noi ai pezzi e gli altri formano due turni di corvée e salgono la notte con i muli per portare tutto quel che ci occorre, e cioè centinaia di granate e viveri. La corvée con i muli è molto numerosa perché deve portar su a basto, e spesso per sentieri di montagna difficili, tonnellate e tonnellate di munizioni. Quelli che so-no di corvée partono al tramonto da Castelcucco, un paesino nella piana dietro il Tomba e salgono la montagna nel cuore della notte, scaricano e ripartono in modo da essere al "par-co" prima che sia giorno chiaro. Li comanda G. un ufficiale anziano che è addetto al co-mando del parco. Di giorno le corvée non possono marciare, perché verrebbero distrutte dall'artiglieria. Di notte qualche raffica li può sorprendere in certi punti obbligati e così pos-sono avere delle perdite. In alta montagna hanno spesso a che fare con le valanghe o con le frane di sassi. A questo servizio sono addetti i "veci" e cioè i più anziani mentre i più giova-ni e i più svelti sono tenuti in linea.

Uno di loro, un ragazzone abruzzese con grandi occhi pieno di energia indiavolata, mi ha fatto una confessione: dice che qui sta benissimo perché prende anche il caffè. "E a casa tua non lo prendi?" "Nemmeno con il binocolo signor tenente."

Io sono o meglio ero un "signorino" e certe cose, certe miserie, non le sapevo.

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I loro mestieri da borghesi m'interessano. Sanno fare tanti mestieri, ognuno ne sa far due, alcuni di più. È perché sono gente della montagna e d'inverno quando la neve sale in-torno alle loro casette, quando han fatto provvista di foraggi per le loro bestie e di legna per il loro camino e di viveri e d'altre cose, lasciano le donne e i bambini intorno ai focolari ed emigrano col fagottello dei loro cenci infilato ad un bastone o portando le loro robe in una rozza valigia. Per lo più passano la frontiera e vanno all'estero e lì da contadini o pastori di-ventano operai, minatori, manovali, muratori, carpentieri e per quattro sudatissimi soldi la-sciano moglie e bambini per mesi.

La montagna è avara. Certuni di loro la passano più spesso e di notte, e con il rischio delle fucilate delle guardie di finanza. Contrabbandieri. È un po' difficile convincerli che fanno male a far così.

Questi ultimi che non temono gelo e pericoli sono soldati nati.

Partenza per Caposaldo 6 di Cima Grappa

"Lei partirà domattina presto con un soldato, andrà a riconoscere la nuova posizione e la sera troverà al passo di Val Melni la sua batteria che accompagnerà in linea".

Dunque si parte - per Cima Grappa, quel tuonante ammasso di rocce e di cannoni che fiammeggia notte e giorno. Pochi commenti. Del resto si sa che quando si è sistemati biso-gna andarsene.

All'alba partii con un soldato. Ero allenato ormai a camminare in montagna e a sfiorare la roccia con passo elastico e leggero come fanno gli alpini.

La mulattiera del Pallone tocca punta Muscè ed infine l'Archeson. Abbiamo a sinistra un picco di quasi mille metri a piombo sulla pianura e a destra i comandi e le baracchine dei rifornimenti scavati nello sbarramento della strada. Miriadi di piccole baracche addossate alla roccia, un andirivieni incessante di soldati e di muli e tutti hanno il passo frettoloso del-la "prima linea", quell'andatura nervosa e veloce che è dettata dal semplice ragionamento che più presto si fa a passare nella zona battuta e più probabilità ci sono di salvare la "ghir-ba". Non un grido. Ognuno sa quel che fa e dove deve andare. Miriadi di grigio verdi si se-parano e s'uniscono con un tintinnare di gavette di armi. Poco al di sopra della strada che costeggia l'orlo del precipizio sono le batterie e le trincee di resistenza. Qualche centinaio di metri più avanti gli avamposti. Tutto il corpo d'armata è serrato in un corridoio avente da-vanti posizioni nemiche dominanti e dietro un burrone a picco di mille metri. Posizione da pazzi. Dalla prima linea al burrone non ci sono in molti punti mille metri.

Posizione da disperati. Non per niente Conrad, che è il capo degli eserciti austro ungari-ci del settore di montagna, l'ha definita quella di un uomo che stia attaccato al davanzale di una finestra con le sole mani e tutto il corpo nel vuoto. Il colpo di bastone sulle mani po-trebbe essere un attacco improvviso nella nebbia. Un momento di panico e tutto il Corpo d'Armata viene gettato nell'abisso di S. Liberale, laggiù dove il Tegozzo spumeggia fra le rocce nere del fondo. L'Archeson è avvolto nella nebbia. Moltissime teleferiche fanno stri-dere i carrelli sopra il nostro capo.

Ma il piccolo fante contadino ha ritrovato qui i muscoli e l'anima che i suoi fratelli er-ranti per il mondo in cerca di poco pane straniero hanno messo in tensione per colonizzare le pampas argentine, le jungle brasiliane, le rocce del Sudan egiziano.

Questa strada militare che partendo dalla Cadorna tocca Val di Melin e attraverso l'Ar-cheson raggiunge il Tomba ed il Monfenera è un capolavoro di tecnica, di tenacia e di di-sprezzo del pericolo. Qui i compressori e le perforatrici lavorano sotto le granate e le cen-turie dei vecchioni territoriali pagano con il loro sangue il contributo allo sforzo comune.

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In molti punti passa in galleria sotto la montagna, in altri si snoda allo scoperto a tiro di mi-tragliatrice.

I vecchi dettami della scienza militare secondo i quali una strada controllata dal fuoco non è utile sono stati capovolti. Quando tirano l'autista si nasconde in un buco della scarpa-ta e aspetta l'intervallo fra una raffica e l'altra per passare. Cima Grappa funziona da senti-nella vendicatrice contro i disturbatori del traffico. Le sue feritoie sono come i cento occhi di Argo. Due o tre minuti dopo la raffica austriaca le vampe livide dei suoi pezzi lanciano la vendetta. Di notte sembra una nave da battaglia circondata che spari da ogni bordo. Il fante parla della Galleria Vittorio Emanuele come di un magazzino di forze sconfinate. Si sente sorretto dal fuoco della nave di roccia che vede e sente tutto. Si dice che se noi dovessimo "mollare", Cima Grappa ucciderà sugli avamposti amici e nemici e resterà rogo ardente e isolato a fare la vendetta suprema di questo ultimo lembo di montagne venete ancora in nostre mani.

Vista dalla pianura appare come la sagoma di un leone accovacciato, ultima barriera che si oppone ad una marcia in pianura che potrebbe anzi sarebbe la fine d'ogni resistenza seria.

Caposaldo 6 di Cima Grappa

Agosto 1918. Siamo i difensori del baluardo nazionale e siamo aggrappati al saliente più esposto di esso. Splendido il sole dardeggia sulle pietre bianche e grigie. Abbiamo di fronte il Roccolo "la terra di nessuno", zona misteriosa e silenziosa, alla destra il costone che dal caposaldo nostro per Croce dei Lebi va a Col dell'Orso e prosegue per i Solaroli occupati dal nemico fino al Valderoa tondeggiante e biancastro. Dietro il Valderoa, più scuro per una pineta distrutta e rapata, il Fontana Secca, al di là la conca di Feltre con il Tomatico e il D'Avien. La linea è complicatissima tutta a salienti e rientranti. Gli avamposti passano a qualche centinaio di metri da noi ma non si capisce bene dove siano i nostri e dove i loro. Il Roccolo sotto di noi ma quasi al nostro livello è deserto. Zone come questa si acquistano presso i combattenti un alone di leggenda crudele. Presa d'assalto e riperduta infinite volte è rimasta sotto il dominio del fuoco delle due parti in modo tale da non permettere il transito a nessuno. Il bosco che aveva dato il nome alla posizione, un tempo felice ritrovo di caccia, non esiste più. Non un albero o un arbusto che raggiunga l'altezza di un metro. Il destino delle piante ha seguito quello degli uomini.

Strane forme coperte di stracci come di spaventapasseri abbattuti dal vento giacciono sull'erba bruciata e mandano zaffate di putritudine fino a noi. Le ondate dei gas corrosivi hanno reso l'erba di un colore grigiastro chiaro. L'erba è morta. Per decine di anni non po-trà rinascere forse per sempre. Se si prende con la mano un cespuglio si sente che non ha più le radici attaccate alla terra. Esso si polverizza e ricade.

In piena vista e fulminato notte e giorno da diecine di batterie. La sua storia militare è monotona. Quando e preso dai nostri le artiglierie del Pertica, del Forcelletto, del Prassalan e dei Solaroli obbligano la fanteria e cioè i pochi superstiti di essa a sgomberare. Quando è preso dai loro Cima Grappa lo rade. Ora le fanterie stanno aggrappate sulle pendici oppo-ste in tane scavate nella terra. Alla notte le pattuglie vengono fugate dai concentramenti violenti e dal fetore dei cadaveri. Non una trincea sulla Cima, non una caverna: il terreno arato e rimosso a profondità di vari metri, poltiglia di fango, d'erbe putride e di membra umane. Il Roccolo, la terra di nessuno, l'angolo della maledizione.

Fanti

Una sera di luna eravamo a parlare fuori del povero baracchino. Credo che R. mi par-lasse di una umanità migliore e di un grande domani ma ero disattento, ché lo spettacolo

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della montagna illuminata dalla luna era troppo grande e tutto mi assorbiva. La nuova bri-gata entrava in linea a dare il cambio. In fila indiana una colonna di fanti silenziosa saliva il camminamento che portava alla Cima del Caronet. Gli elmetti mandavano brevi vampe gri-gie. Sfilavano i fanti martiri, taciturni e rassegnati. La colonna si perdeva là sulla cima dove un candore di raggi illuminati formava come un’aureola. Il serpente umano entrava nell'amplesso della montagna, si snodava nel camminamento, lungo da non finire mai. Scendevano gli altri laceri, barbuti incrostati di fango fino nel cavo degli occhi, processione di miseria e di invincibile tenacia contro il morso del freddo e della fame, gli assalti del son-no, le punture degli insetti, la pioggia, il fango, il vento, il sole, il puzzo dei cadaveri, l'orrore dei compagni urlanti per le ferite e le mutilazioni, l'ansia spaventosa delle pattuglie notturne quando basta urtare il fodero della baionetta contro un sasso per restare con le scarpe al so-le crivellato da una raffica.

Sfilavano i fanti, quelli che escono nell'inferno delle artiglierie che cambiano l'aspetto delle montagne con le loro enormi masse metalliche urlanti, piccoli punti di carne ed ossa perdute, e mi sembrava che più che essere l'immagine di un esercito o di una razza fossero il simbolo della vittoria dell'anima umana contro tutti i dolori dell'Universo. Mi venne fatto di mormorare "Santa fanteria" e il mio compagno tacque anche lui e fissò la schiera degli oscuri che salivano la montagna.

Di nuovo in pattuglia

Ordine di raggiungere il comando di un reggimento di fanti della brigata Emilia. Salgo su questa volta con dei soldati che tornano dalla licenza sulla ripidissima mulattiera di San Liberale. Sono di nuovo al Boccaor. Colloco le due pattuglie e vado ad ispezionarle di not-te. Ci deve essere qualcosa di nuovo in giro perché si vedono delle facce poco note di uffi-ciali superiori con tanto di carte e di binocolo che sono troppo poco sporchi per essere dei nostri. Vengono certo dai grossi comandi delle retrovie e uno di loro, un maggiore degli al-pini carico di medaglie, mi si è avvicinato in una trincea di fronte al Roccolo e dopo aver guardato a lungo gli austriaci con il cannocchiale mi ha rivolto parecchie domande sulla li-nea con molta cortesia. Gli ho risposto con precisione. Ha guardato a lungo la "terra di nessuno" del Roccolo, e il fondo della valle dei Pez dove ad intervalli lunghi scoppiavano delle bombarde. Forse ci sarà un'azione. Gli austriaci sono nervosi. Ieri hanno aperto un fuoco infernale sulla posizione tenuta dal battaglione a Croce dei Lebi dov'era una de11e mie pattuglie. Sono andato a fare ispezione ed ho trovato il maggiore fuori di sé perché dice che il mio sergente muore di fifa, ad ogni scoppio di granata si rende irreperibile. Mi ha preso una rabbia sorda e l'avrei fatto legare fuori del reticolato se il maggiore non si fosse interposto.

Zampilli neri di terra saltavano su tutta la fronte di Croce dei Lebi. Abbiamo avuto delle perdite.

Alla sera ho fatto chiamare il sergente e poiché ho bisogno qui di gente a posto che me assente possa agire di sua iniziativa per proteggere col fuoco il battaglione l'ho fatto cam-biare. Non ho mancato di fargli una scena terribile.

L'ho chiamato in baracca ed ho chiuso la porta. "Ho visto che Lei ha una fifa d'inferno. Lei appartiene al parco. Nel farlo salire quassù

lo abbiamo alzato fino a noi e questo è un posto d'onore. Bella figura tremare davanti ai fanti. Scenda dai suoi muli, se ne vada. Un posto d'onore non è posto per Lei. March!"

Se n'è andato e non lo rimpiango.

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Cognac

Non ci si possono concedere dei lussi qui in fatto di ghiottonerie e di liquori epperciò appena saputo il grande evento dell'arrivo di un vivandiere di fanteria che vende cognac, vino e cioccolato ho spedito di gran carriera l'attendente con molti soldi e con l'ordine di comprare "tutto".

Lo "svizzero" è tornato correndo a rotta di collo con un litro di cognac, due bottiglie di Frascati, molto cioccolato ed ho pensato di stare tutto il pomeriggio a gambe in aria nel let-tino da campo a mangiare cioccolato, a bere cognac e a conversare con il mio vicino, unico mio compagno nel baracchino, un ufficiale della fanteria.

Niente "geometria analitica" oggi e perciò ho messo da parte il Bompiani" e mi sento felice come un re. Quattro chiacchiere, una sigaretta, un pezzo di cioccolato, un sorso di cognac, poi ricomincia il programma.

La porta del baracchino è aperta. Siamo giunti al tramonto e attraverso la porta ben de-ciso nell'aria tersa il costone del Caronet sforacchiato ed arso si staglia davanti a me. La bottiglia da un litro è quasi finita e sto per attaccare il Frascati.

Non ho provato ad alzarmi in piedi ma debbo essere saldissimo dato l'ottimo umore. Ad un tratto avviene una cosa strana: il mio compagno s'alza a precipizio dalla sua

branda e se la dà a gambe. Strani fischi rimbombano nell'aria. Quel che più mi colpisce è lo strano silenzio ed il vuoto che si è fatto nei dintorni del baracchino.

Sto per capire. Sono granate e tutti sono scappati in qualche galleria. Fontane nere di terra saltano verso il cielo.

Mi alzo dalla branda e mi appoggio a due passi dalla porta del baracchino. Un sibilo e un tonfo sordo.

Ora dalla porta esce una pesante nuvola di fumo. Il medio calibro è entrato senza do-mandare il permesso dalla porta aperta ed è scoppiato nell'interno. Certo è che l'assassino mi ha rotto le due bottiglie di Frascati. Vado a vedere. Il mio lettino è stroncato al posto dove due minuti prima tenevo le gambe. Un cratere nero e fumante si apre al di sotto. A quattro gambe, nel fumo, riesco a trovare una bottiglia ancora piena e sana. Voglio regalarla al Colonnello che ne sarà certamente contento. Intanto faccio rapidamente la mia diagnosi.

"Colpo di medio - provenienza Prassolan - cannone cal. 150, non obice né mortaio per-ché il fischio è stato secco e breve il che indica traiettoria tesa, tiro diretto".

Se la mia buona mamma lontana non avesse pensato a me sarei un fagotto di ossa spez-zate. Questione di un minuto.

Intorno il terreno è arato. Trovo il comando intero in una galleria e mostro la bottiglia trionfante.

Facce pallide. Ora sorridono. La scarica deve essere stata salata. Ora è finita. Quando hanno visto la nuvola di fumo uscire dal baracchino mi han dato per spedito

ed invece io ero occupatissimo a cercare nel fumo la bottiglia di Frascati. Sul viso del Co-lonnello ho letto in un fugace e mesto sorriso la frase "Ragazzo ti prenderei a scapaccioni, ma sono contento di rivederti”.

A tavola hanno bevuto il mio Frascati scampato guardandomi con risolini furbeschi.

* * * Il maggiore mi tratta con gentilezza estrema e mi ha affidato il compito dì riconoscere

bene la zona, di tenere il contatto con le fanterie e di fare delle esplorazioni ai nostri avam-posti, cosa che faccio bene volentieri.

Azione sui Solaroli Il nemico si mostra un po' nervoso. I suoi calibri grossi battono qua e là ad ore fisse per

lo più nelle ore dei nostri movimenti, cambi o ranci, e rispondono i nostri con scariche nu-

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trite dei 75 che sono dietro di noi, un intero reggimento da campagna. Da noi è venuta in rinforzo ed ha preso posto proprio nelle nostre piazzole la 136, una batteria alpina del mio vecchio gruppo. Conosco assai bene tutti i suoi ufficiali e facciamo vita in comune abba-stanza allegramente.

Ormai in questo povero mondo di guerra il numero del reparto è diventato un grado di parentela e diventa anche un grado di affettività.

In questo reparto c'è un ufficiale studente d'ingegneria come me che io apprezzo molto e subito mi sento a lui legato. Boris è allegro e vivace come pochi piemontesi sanno essere. Ha già provato diversamente quel che sia la guerra e sulla Bainsizza ha avuto delle schegge di granata al ventre che lo hanno messo in pericolo per diversi mesi in ospedale. Ora per-fettamente ricucito è qui a scherzare e a far filare a meraviglia una sezione di soldati che an-drebbe con lui anche all'inferno. Duro e rapido nel servizio, sorridente sempre con i colle-ghi è il tipo esatto dell'ufficiale di complemento nato per la guerra. Si parla di un'azione as-sai prossima e questo galvanizza un po' tutti. Un reparto d'assalto e vari reparti di fanti ten-teranno di riprendere le quote dei Solaroli che gli austriaci ci hanno tolto il 15 di giugno. Se il comando domandasse a noi che siamo pratici dei posti più che di casa nostra noi propor-remmo al Comando di fare a meno dell'azione e di starsene tranquillo. Infatti non c'è niente da fare.

Le quote dei Solaroli sono quattro e cioè Col dell'Orso, 1061, 1676, e 1672 tutte schie-rate in fila sullo stesso costone che forma il saliente nord del nostro schieramento ed ele-vantisi di qualche metro sulla mulattiera che le unisce e che forma la cresta del Costone. Il Costone digrada ripido, spianato e scoperto dalla nostra parte, è a picco dalla parte austriaca dove sul burrone quei signori hanno posto i baracchini perfettamente defilati a pochi metri dalla cima. A nord altre quote possono infilare come vogliono la mulattiera dei baracchini dimodoché non rimane ai nostri che l'attacco allo scoperto sulla mulattiera o peggio ancora sul pendio raso, scoperto e faticoso.

Le quote non possono che esser prese l'una dopo l'altra. Venendo dal Col dell'Orso s'incontra prima la 1061 dove il nemico tiene dei piccoli nidi di mitragliatrice che battono la mulattiera che viene dal Col dell'Orso sulla quale gli austriaci faranno anche lo sbarramento d'artiglieria. La 1061 può essere presa di slancio perché le nostre batterie hanno distrutto ogni traccia di reticolato rendendo difficile la vita ai mitraglieri che s'annidano fra le rocce e dietro pochi sacchi a terra. La 1676 si può ancora prendere benché difesa da molte mitra-gliatrici e da rinforzi che possono salire perfettamente al coperto dalle caverne dietro la quota. Poi la faccenda diventa difficile perché il tiro nemico sulla 1676 può essere aggiusta-to al centimetro e questa quota è completamente scoperta rispetto alle mitragliatrici della 1672, incrociandosi con quelle delle quote posteriori che obbligheranno i nostri a stare sul pendio sud perfettamente in vista. Non c'è niente da fare. La trincea è scomparsa sotto il nostro tiro e non esiste più, ma ciò per loro è lo stesso perché se ne stanno tranquilli in ca-verna dietro la quota tenendo solo lì qualche vedetta e quando i nostri saranno costretti ad allungare il tiro dell'artiglieria salteranno fuori con le loro maledette mitragliatrici - Swar-tzloose - che non falliscono un colpo, non s'inceppano mai, rullano regolari come motori, semplici robuste e relativamente piccole. Oltre quanto precede occorre notare che gli assali-tori avranno fuoco d'artiglieria sul fronte e sui due fianchi.

Azione sulla 1676 dei Solaroli

Mi sono accorto che non abbiano molte munizioni ed occorre richiederle ed andarle a prendere. L'azione è imminente. Andrò io a rilevare una colonna di muli che salirà come mi dicono al Comando di Divisione alla teleferica dell'Archeson. Mi metto in viaggio al tra-

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monto con qualche uomo sui sentieri della montagna. Il tramonto è chiaro, limpido. Tutte le montagne si stagliano nitidamente sul cielo che incomincia ad imbrunire. Mentre arri-viamo sulla strada grande dell'Archeson che dalla Cadorna deve raggiungere il Tomba e che è ancora in costruzione, costruzione eseguita sotto il fuoco da centurie di territoriali anzia-ni, sentiamo un colpo sordo dietro il Fontana Secca e poi il rumore di un treno lanciato su di un fronte in ferro. È il 305. L'enorme proiettile, che dicono che si vede in aria ma che in realtà io non ho mai visto quantunque ne abbia visto arrivare delle centinaia, scoppia preci-so sulla strada Cadorna proprio sulla teleferica ultrapotente dell'Archeson la più grossa delle nostre 70 teleferiche che ci uniscono al piano. Un'enorme nuvola bianca copre le baracche dei comandi dell'Ardoretta. Subito dopo un altro colpo, ma questo è un po' lungo e va a scoppiare in piano, dopo aver traversato urlando il burrone. A distanza di pochi secondi l'uno dall'altro le colossali valigie che ormai non contiamo più e che arrivano a diecine van-no a scoppiare con meravigliosa precisione sulla teleferica dcll'Ardoretta. Il paesaggio orri-do del Grappa è dominato dai rombi cupi delle masse che stritolano la montagna. Un mio soldato conta circa 80 colpi in pieno sulla teleferica, con precisione estrema. Deve essere un tiro preparato con il calcolo senza aggiustamenti preventivi oppure aggiustato con pezzi di calibro minore ed a tale riguardo ricordo di aver visto qualche giorno fa delle nuvolette bianche diritte sopra l'Ardoretta. Forse così hanno aggiustato in direzione e forse anche con questo sistema hanno aggiustato la distanza. Questi 305 austriaci obici Shoda sono i migliori grossi calibri della guerra mondiale e i tedeschi li hanno chiamati a far meraviglie anche sul fronte francese dell'ovest. Nessuno di noi si preoccupa certamente di quel che accade all'Ardoretta. Non c'è dubbio che ci sia là della gente arsa e fatta a pezzi, ma infine è il nostro destino di ogni giorno quello di essere bombardati e per ora tocca ad altri. Piutto-sto io penso che i miei soldati mancano di molte cose necessarie e che appena ritirate all'Archeson le munizioni andremo a fare man bassa sull'Ardoretta sicuri che con quest'ira di Dio laggiù saranno scappati tutti quanti. Qualche coperta, qualche tavola, un po' di filo, tutto qui prezioso. Intanto arriviamo all'Archeson. La solita accozzaglia di muli e di mulat-tieri di fanti e di artiglieri. È ormai sera tarda. Mi caccio in un baracchino posto in cresta e stipato d'uomini. A pochi passi come mostri emergenti nelle tenebre i motori e le ruote del-la teleferica frusciano e stridono. Sono seduto e stanco e ho il capo tra le mani. Ad un tratto un senso di freddo mi invade. Due fischi acutissimi sfiorano il baracchino: granate lunghe. In questo momento io che da mesi sto di molto più vicino al nemico e più esposto al fuoco di questi teleferisti sono assalito da un senso di disperazione. "Oggi domani o posdomani sarai tagliato in due" È paura questa oppure è il freddo e la fame che con queste due grana-te picchiano sull'organismo scosso? Mi serro la testa fra le mani per impedire che il cervello mi vacilli. Pochi minuti e tutto è passato. Chi non ha avuto uno solo di questi momenti non è un uomo o non è mai stato alla guerra.

Ora i miei uomini hanno fatto il carico e li avvio alle batterie e io con un gruppo di sol-dati mi avvio all'Ardoretta per rubare quel che c'è restato. Voglio fare presto perché non voglio mancare all'azione di domattina sui Solaroli. Mi basta arrivare al Meate all'alba che prima i nostri non attaccano.

Arriviamo all'Ardoretta. Tutte le baracche sono squarciate. La teleferica presa in pieno fra i macchinari in pezzi.

Tutto il suolo è coperto di pezzi di ferro di schegge enormi e di legname bruciato. Qua e là si aprono grossi crateri di diecine di metri di diametro e cinque o sei di profondità. La stra-da è interrotta, sconvolta, squarciata. Regna un silenzio di morte rotto solo dall'ululato di qualche colpo in arrivo. Qualche granata ritardataria in cerca di addentare ancora qualcosa, come un lupo solitario che arriva in piena notte sul teatro di una strage. Non si vede anima

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viva. Una baracca sventrata reca ancora l'insegna dei Reali Carabinieri, la compagnia addetta alla Divisione. Entriamo. Un caos. Vicino alla porta un tegame ripieno di carne al sugo e coperto a metà di terra dimostra che gli abitatori stavano per mangiare quando è arrivato il temporale.

Ci sono varie coperte fra le assi spaccate e su queste i miei si precipitano. "Carabinieri, le loro coperte servono più a noi che a loro" - ma un'ombra si profila in

un angolo. "Chi sei?" "Un carabiniere, signor tenente". "Allora bisogna lasciar stare le coperte". - Il milite ride. Ce ne andiamo un po' contraria-

ti. Il colpo è andato male qui. "Ci prenderanno per fessi signor tenente". Eppure qualche cosa dobbiamo rimediare. Fatto un po' di bottino riprendiamo la strada

del Meate. Ormai e notte inoltrata, le mie povere scarpe borghesi sono a pezzi, già inco-mincia ad albeggiare quando siamo in posizione.

Attacco

Saranno le cinque e mezzo o le sei. I primi raggi rosei coprono le pietre dei Solaroli; a-priamo il fuoco rapido con tutti i pezzi. Squadre di arditi partono dal Col dell'Orso e traver-sano di corsa il tratto a schiena tagliente che va alla 1676. Da Col dell'Orso alla 1061 alla 1676; si apre lo sbarramento austriaco, estremamente preciso a shrapnels. Nuvolette bian-che e nere coprono il tratto assaltato, ma ormai i nostri sono già sul reticolato e si vedono tirare bombe. Due restano impigliati nel reticolato e restano lì per sempre. Con pochi colpi la 1676 è presa. Ora la 1672 apre il fuoco con le mitragliatrici e poi tutta l'artiglieria austria-ca ci è addosso. I nostri pezzi sono in camminamento coperto. Sono al coperto dalle schegge ma una granata anche di piccolo calibro basterebbe per farci saltare. Si batte il Val-deroa e il Piano dell'Agnella per impedire la mossa dei rincalzi. Il comandante del gruppo stima che la nostra piccola artiglieria non faccia gran che in quel caos e che meglio sarebbe farla tacere per evitare perdite perché ci hanno visto e ci controbattono con i medi ed i grossi; ma Trevisan il comandante è friulano, ha la sua casa invasa, deve vendicare qualcu-no. Non obbedisce all'ordine e non la smette. Mi strizza l'occhio con fare furbesco e ri-sponde al maggiore: "Ma lasci fare, tiriamo così bene!" Ad un tratto come investiti da un uragano andiamo tutti a gambe levate e vediamo un soldato volare in aria e ricadere vicino al camminamento. È il 305. È caduto ad una diecina di metri. Siamo tutti incolumi. Ci por-tano la grossa ogiva in parte intatta che manderemo al colonnello. Il soldato che per lo spo-stamento d'aria ha volato ha le ossa dure e non si è fatto niente. L'azione langue. Gli arditi hanno ripreso la 1676. Le artiglierie a poco a poco rallentano e smettono. L'azione è finita.

* * * L'ogiva del 305 costituisce un trionfo per il nostro L. In realtà non succede a tutti di po-

ter raccontare di essersi visti cadere un 305 a venti metri senza perdite. I nostri piccoli pezzi non hanno cessato di tirare un solo minuto anche quando la batteria era completamente avvolta di fumo di schegge e di sassi.

L'azione è stata però senza frutto: una delle migliaia di azioni locali che negli sterminati fronti della guerra mondiale ingrassano di morti la terra. L. ha voluto domandare a Z. se poteva distribuire le decorazioni e il comandante ha risposto che le decorazioni in una bat-teria da montagna s'incominciano a distribuire quando metà degli uomini è caduta dietro i pezzi e posto che l'azione vada bene. Questi duri reparti non fanno la collezione dei nastri-ni.

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Il Cimitero di Val Calcino

Oggi al tramonto rosato la verde valletta appare nitida fra le fiancate giallastre e marto-riate dei Solaroli e del Valdesca. C'è nell'aria una strana malinconia e si pensano tante cose che con la guerra non hanno niente a che fare.

Il mio compagno è pensoso e forse è preso anche lui dalla carezza di quel tramonto. In fondo Val Calcino c'è un cimitero di alpini che ora si trova appena dietro la prima li-

nea ed è completamente sconvolto. Ci salta in testa di rialzare un po' di croci e con quattro salti siamo in fondo alla valle, e incominciamo il nostro lavoro. Si coglie qualche povera margherita e si mette vicino alle croci e poi si finisce per rubare una mazza di ferro e una carriola e si torna in batteria col bottino. Cominciamo a perdere ogni sentimento buono e non si pensa che alle cose pratiche.

* * * Sono ferito ad un ginocchio leggermente ma non ho voluto farmi toccare dal nostro

medico perché non mi dà affatto fiducia. Quasi contemporaneamente sono rimasto privo del mio attendente Brunella che ha preso in trincea una distorsione dolorosissima. L'ho do-vuto far caricare su una teleferica e mandarlo a basso. Credo che molti soldati preferiscano restare qui feriti o malati piuttosto che farsi caricare nella teleferica. In effetti quello starse-ne sdraiati su un piccolo carrello che ha una sponda di qualche diecina di centimetri e vede-re sotto di sé veri precipizi mentre le granate fischiano nell'aria è tutt'altro che piacevole.

E del resto è l'unico modo per arrivare a S. Liberale in venti minuti, altrimenti dovrem-mo legare i feriti sulle groppe dei muli e mandarli giù in un'ora e mezza per una mulattiera pericolosa oppure far fare loro un lungo giro e metterli poi sui camion e questo non è sem-pre possibile.

La guerra è bella… si dice ma è scomoda. Che sia proprio bella è da dimostrarsi. Come spettacolo a forti tinte ed a forti rumori non c'è male. Ieri sera per poco non mi liquidano Borio.

Si era appena finito di tirare e l'avevo visto sparire nella sua piazzola con un bel sacco dietro la schiena effetto di un colpo arrivato da vicino, quando è arrivato un soldato latore di uno strano ordine.

Durante l'azione di Malga Val dei Pez la fanteria ha preso un obice Shoda da 75 e im-mediatamente il Comando ha chiesto dei nostri artiglieri per dirigerlo contro il nemico. C'è proprio andata una squadra della mia batteria, la 137 comandata dal tenente Cesare Redaelli "il pupo", quello studente milanese dalle guance floride e rosate.

Non hanno fatto niente perché appena arrivati, gli austriaci venuti al contrattacco a baionettate hanno inchiodato sul posto fanti e artiglieri. Due dei nostri sono rimasti là ed il pupo che è un ragazzo robusto ne ha portato indietro un terzo gravemente ferito salvando-lo sulle robuste spalle per un pendio ripidissimo di montagna e sotto il fuoco.

"Il pupo" si è condotto bene e avrà una decorazione, ma qui incominciano i guai. Fra la nostra linea e la loro si è formato un tratto di "no-man-land", come dicono gli in-

glesi, terra di nessuno, ed allora "i beccaccioni" e cioè i pezzi grossi del Comando si sono messi in testa di mandare a prendere il cannone che è rimasto lì in Malga dei Pez fra un mucchio di cadaveri e affondato nel fango fino ai mozzi delle ruote. Vogliono insomma mettere sul bollettino dell'armata che si è catturato un cannone. Pattuglie di arditi e di fan-teria non sono riusciti, di notte naturalmente, a prenderlo perché i cecchini sono lì vicino con le loro mitragliatrici e appena sentono un po' di rumore… tirano. Allora il Comando ha pensato agli artiglieri alpini e ha mandato un fonogramma con l'ordine di pescare un uffi-ciale volontario e una squadra di uomini, pure volontari.

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Borio sparisce tutto allegro nel buco della sua sezione e quando torna su dichiara che tutti gli uomini della sua sezione vengono volontari se va lui, altrimenti no. Io non ho sol-dati perché sono addetto al Comando e non mi resta che raccomandarmi a Borio che mi porti con lui come "turista".

"Ma vattene, con quella gamba!", dice Borio accennando al mio ginocchio ferito, e do-po aver armato i suoi uomini se ne va alla svelta. Cala la notte.

Il giorno dopo Borio mi ha raccontato alla sua maniera naturalmente: "Siamo andati giù fino all'avamposto dove la trincea non era più alta di mezzo metro e occorreva stare sdraiati nel fango. Come facciano quei fanti a stare sdraiati notte e giorno nel fango tirandosi le bombe non lo so. Sono santi più che fanti. Quando portano a loro la gavetta del rancio c'è più fango che brodo. Roba da matti. A farla breve ti dirò che ho capito subito che non c'era altro da fare che fare ammazzare i miei ragazzi per far piacere ai signori del Comando e così li ho lasciati in trincea e sono andato solo con Terzi il sergente. Siamo arrivati stri-sciando nella notte come serpi fino al cannone e lì si vede che ci hanno sentito perché si sono messi a tirare, ma eravamo riparati dal pezzo e dai cadaveri dei nostri. Una puzza or-renda, da mettere la maschera o da soffocare; le nostre mani ogni tanto toccavano della ro-ba che si disfaceva. Per muovere il pezzo sarebbe stato necessario essere in tanti, in piedi con una buona corda per tirarlo su dal fango e sarebbe stato anche necessario che gli au-striaci fossero stati in Austria e non lì a pochi metri. Abbiamo fatto il possibile e cioè ab-biamo portato indietro l'otturatore, gli scudi e le cariche ma poi il puzzo ci asfissiava e ab-biamo finito per andarcene. Ho passato una bella notte e avevo fame. Passando davanti al Comando ho chiesto al piantone che mi desse un qualcosa da mangiare ma quel tanghero mi ha guardato da su in giù perché ero troppo infangato e scalcinato e mi ha detto: "Non è possibile perché ora non c'è mensa e non faccia rumore perché i Signori del Comando dormono." Gli ho detto che se non voleva fare di corsa il Grappa a calci nel sedere mi des-se da mangiare e così mi ha portato un po' di pane e di salame. Al mattino tutto lustro e pu-lito sono andato al rapporto del Sig. Generale il quale si è occupato molto di più delle mi-nacce che avevo fatto al suo attendente nella nottata che della faccenda della pattuglia. Le cose vanno così, alle volte, quassù”.

* * * Forse dovremmo prendere il Valderoa. Ho inteso parlare di questo alcuni alti ufficiali

della brigata Aosta (5° e 6° fanti) una bella brigata composta esclusivamente di siciliani. Es-si dicevano che sarebbero passati in fondo valle sotto l'arco dei nostri tiri anticipando l'at-tacco in modo da percorrere il chilometro che li separa dal Calcino al Valderoa durante la fase più intensa del bombardamento. Essi sperano così attaccando per la linea di massima pendenza di sorprendere il nemico e di prendere il monte.

Il piano è veramente assai audace ed il tratto da percorrere allo scoperto è così lungo che se il nemico si accorge della loro marcia di avvicinamento ben pochi gli arriveranno ad-dosso.

La brigata Lombardia 73 e 74 e gli Alpini attaccheranno questa spaventevole posizione dei Solaroli. Si è molto scettici qui circa il risultato. Un capitano dei mitraglieri mi dice che è un massacro inutile in quanto quella è una posizione che non può cadere se non per aggi-ramento. Altri attacchi con altre brigate si faranno sul fondo della Valle dei Pez e sul Cuc-co, e sul Pertica. La Udine 95 e 96 attaccherà lo Spinoncia.

A noi con i nostri piccoli pezzi da montagna spetta il compito di colpire le mitragliatrici austriache tirando dalla più breve distanza possibile a tiro diretto. Si dice che ci siano qui cinque raggruppamenti da montagna. Ogni raggruppamento ha la forza di un reggimento. Occorre quindi sostenere le fanterie con un collegamento perfetto, seguirle metro per me-

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tro, inviare i nostri ufficiali all'assalto con esse in modo che segnalino ai pezzi con ogni mezzo - telefono, razzi, bandiere e magari portaordini - la posizione esatta del fante che a-vanza. Solo i nostri piccoli pezzi possono evitare alle fanterie le raffiche decisive delle mi-tragliatrici, perché il bombardamento delle altre artiglierie troverà le mitragliatrici in caver-na. Sarà solo a tiro allungato sul rovescio delle loro posizioni che essi, i cecchini, usciranno dalle caverne con le loro mitragliatrici puntandole sulla truppa che avanza. Sono così persu-aso della utilità della nostra opera e dell'importanza del perfetto collegamento con i fanti che mi presento alla baracca del maggiore e domando il comando del nostro posto di os-servazione avanzato sul Medata che sta agli avamposti dai quali partirà l'assalto. L. mi dice che mi aveva assegnato alla 887 per aiutare Sortino e Pasquali a sparare ma che, dato che io volevo di mia spontanea volontà andare al Medata, si congratulava con me ed accettava la mia domanda.

* * * E del resto in questa festa che si prepara e che si annuncia calda occorre essere con i

fanti e dividerne il destino.

* * * Non si capisce bene se il nostro sarà un attacco locale o un attacco di tutta la 4° Arma-

ta. Oppure un'offensiva di tutto l'esercito? Inutile pensarci. Certo è che qui noi balleremo, di sicuro, e questo è l'importante.

* * * Gli ufficiali della fanteria si preparano al momento in cui l'ora dell'assalto scatterà sull'o-

rologio a polso per il famoso "fuori" che getterà oltre la trincea la loro truppa. Momento in realtà tremendo assai peggiore delle atroci certezze di quelli che seguiranno.

E a noi ragazzi tutto questo sembra l'alzarsi di un sipario immenso su di una avventura che da secoli non è stata e forse non si ripeterà. Una cosa molto interessante anche se può dare un seguito spiacevole. In realtà non si ha paura. In qualche momento nero si pensa alla cecità, alla mutilazione come al solo evento triste che possa accadere.

* * * Dobbiamo restare nella trincea di partenza fino a che la fanteria non abbia preso la po-

sizione nemica e poi trasferirci. Durante questa fase dobbiamo comunicare alle batterie la posizione precisa dei fanti a mezzo del telefono da campo e se la linea viene rotta per mez-zo dei razzi.

Questo è il compito. I razzi sono pochi e occorre cercarne degli altri. Vado fuori nella notte e trovo tutto il

Medata ingombro di fanti all'addiaccio. Questa è veramente una pazzia. Se ci scoprono ba-sta un colpo solo per fare una strage. Si vede che non dubitano tanta minchioneria. Ma ho bisogno di trovare i razzi. Cado mi insanguino calpesto della gente abbraccio incespicando un generale che ha una pelliccia da orso bruno e che mi fa un sorriso paterno vado su e giù e poi trovo un po' di razzi che porto al mio gruppo.

* * * Durante queste passeggiate per il Medata all'oscuro ho trovato un compagno. È un te-

nente di fanteria triestino certo Greco e greco è il suo profilo netto e preciso e tutto l'in-sieme emette energia da ogni mossa e da ogni parola. È della Brigata Udine 95 e 96 che an-drà all'assalto dello Spinoncia un monte che s'incunea quasi nelle nostre linee con delle sco-gliere dolomitiche maledettamente frastagliato e dirupato. Essi lo tengono da molti mesi e tirano alle spalle delle nostre truppe che sono in linea di fronte al Solaroli. Restando questo

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attacco alla mia destra esce dalla zona di tiro delle mie batterie. Sono dispiacente e glielo di-co di non poterlo seguire. Le sue truppe sono annidate nel mio ricovero e di lì partiranno per l'assalto.

Il Momento si avvicina. Più grosse e più folte le fontane di terra nella luce sanguigna sorgono sul Solarolo e sul Valderoa. Fra pochi minuti incominceranno i piccoli calibri alle ore 3.30. Alle 7 l'assalto. Ma la Udine e l'Aosta usciranno forse prima sotto l'arco dei nostri tiri. Provo il telefono da campo, quella linea che secondo i miei compagni non resterà sana un solo minuto durante l'azione e nessun telefonista avrà il coraggio di uscire ad aggiustarla perché situata nella trincea di partenza la più bersagliata dalle artiglierie e dalle mitragliatrici di tutto il settore. Vedremo. La linea per ora va bene. Funziona. Esco fuori perché voglio aiutare Greco a far uscire i suoi soldati dalla trincea per l'assalto.

* * * Il tenente Greco ricerca il suo Maggiore per le ultime istruzioni dell'assalto. Il Maggiore

non si trova. Accompagnato da me corre per tutta la montagna e sospetta che si trovi cir-condato da un folto gruppo di fanti. Ma questi negano la sua presenza. Raggiungiamo un altro gruppo di soldati. Qualcuno di questi assicura che il Maggiore è lì dove noi sospetta-vamo e dove ci avevano detto che non c'era. Il furore di Greco esplode.

"Vigliacchi, vigliacchi" Ed invece si tratta di ben altro. Il Maggiore al momento di scattare è caduto a terra per-

cosso dal terrore e gli umili fanti gli sono intorno per togliere dagli occhi dei colleghi questo triste e pur umano spettacolo di debolezza umana. Penso a questi uomini che per un senso di delicatezza senza nome vogliono togliere un neo al lucido bronzo della battaglia. E fra pochi istanti dovranno saltar fuori.

Intanto sui Solaroli infuria il bombardamento e gli austriaci non rispondono un colpo solo. Greco dà uno sguardo al vinto che è a terra e se ne va.

Ora è venuto il momento. Siamo noi due in piedi fuori della bocca del ricovero e ordiniamo ai soldati di uscire. Si

tratta di gente anziana che certo ha a casa moglie e bambini. Un gregge triste, rassegnato, le facce color terra scavate non dal terrore ma dai disagi e da una malinconia senza confini.

Fuori. Fuori. Sono fuori tutti e si tuffano nelle tenebre. Noi restiamo qui ma non ci fac-ciamo illusioni. A minuti qui sarà il posto più battuto di tutta la zona.

Sorge un'alba livida. Il lenzuolo sporco del cielo piovigginoso è traforato dalle vampe dei pezzi; tutta la trincea austriaca che corona i Solaroli è una vampa sola. Detriti di pietre bianche sono sgranati dai colpi. È tutta la montagna che ribolle e soffre sotto quel tormen-to vulcanico. Al rumore le mie tempie stanno per scoppiare e me le reggo forte con le ma-ni.

Ad un tratto tutta la linea di cresta incomincia a martellare e si corona di scoppi piccoli vivi, rapidissimi. Le fanterie hanno attaccato e le mitragliere tedesche hanno aperto il fuoco.

Telefono: "Le fanterie hanno attaccato le quote 1061, 5676, 1672 dei Solaroli e il Valderoa". Il nemico resiste e non le lascia entrare. Ora viene la zuppa anche per noi. Siamo in vista a tiro di fucile e completamente domi-

nati. Tutta l'artiglieria austriaca ci si scarica addosso per precludere la via ai rincalzi. Siamo sulla porta del ricovero in due e vediamo la nostra trincea sparire inabissata da vortici di granate. Non in un solo punto si può ancora passare in trincea. Tutto è spianato e coperto. Sassi volano da ogni parte.

Un grido di dolore e poi una serie di schiocchi sulla nostra apertura. Ci hanno puntato una mitragliatrice sul ricovero e sparano come dannati. Il mio soldato barcolla e poi con la

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gamba irrigidita tenta di raggiungere il centro del ricovero ma non ci riesce e cade. Gli ta-gliamo i vestiti indosso e vediamo che la mitragliatrice l'ha bucato sul davanti della coscia destra e che il foro d'uscita è in vicinanza dell'ano. Il sangue esce a flotti.

Rapporto telefonico "Il soldato X è ferito… vicino al gran simpatico" ma scherzi a parte il poveretto perde

sangue forse dall'arteria femorale e non si sa come fermare. Occorrerebbe uno pratico di queste faccende ma come si fa ad uscire? È questione di minuti.

Ed allora sta a quello che ha scherzato sulla ferita di uscire a cercare soccorsi. La mitra-gliatrice ha bucato tutti i sacchetti a terra dell'ingresso come setacci. Ogni dieci centimetri quadri ci saranno quattro colpi.

Occorre uscire. Uno due tre via di volo. Fischi sotto le gambe e tra le gambe. Niente ed ecco il portaferiti della fanteria scovato. Lui non si sente di muoversi dal suo buco.

"Vieni o ti prendo a calci". C'è una sosta nel fuoco, entra e cura e il ferito si riesce a portare via. Sulla linea dei Solaroli seguita il martellare e le piccole corone di vampe delle mitraglia-

trici. Resistono. Sul Col dell'Orso gli Alpini sono fermati in ricoveri di roccia da valanghe di granate e non riescono a partire per l'assalto. La Lombardia che ha attaccato le creste ha perdite fortissime. Dalla parte del Valderoa l'Aosta ha preso il Monte ma è sottoposta ai tiri della nostra stessa artiglieria ed ai contrattacchi. Un cretino telefona

"È presa o no questa 1676?" "No." "Ma che fa questa fanteria?" Risposta "La fanteria muore." Ora le nostre divise sono proprio tutte del color del fango e sporche di sangue. La testa

gira, le orecchie dolgono. Si respira l'odore della polvere acre e della terra bagnata dalla pioggia. Quante ore passano così? Non si sa.

Cerco di regolare i tiri e la linea per un miracolo funziona ancora. Siamo veramente for-tunati: con poche perdite riusciamo a far funzionare il servizio.

Cala la sera nel frastuono formidabile. Noi teniamo le linee nostre e loro le loro. Sul Valderoa abbiamo avanzato. Il Valderoa è stato preso. Tutta la notte le mitragliatrici urlano come impazzite e fasci di raggi illuminanti si alzano verso il cielo tornato sereno. A notte tarda torna Greco con la sua compagnia di fanti. Il ragazzone biondo è stato respinto dallo Spinoncia, posizione assai aspra.- Occorre ricoverare i fanti in galleria e subito se non si vuole che ce li macellino tutti ed è quel che facciamo.

Lo stretto ricovero è un groviglio di corpi affranti dalla fatica. Ci camminiamo sopra con le scarpe ferrate calpestando braccia e visi ma non si muovono. Tutt'al più qualche ge-mito fioco. La prima notte di battaglia passa fra raffiche rabbiose d'artiglieria che batte il ri-covero.

È giorno e giorno chiaro limpido pieno di fulgore. Le scaglie bianche del Grappa rese più bianche dalla grande luce ardono senza riflessi, calcinate dal gran sole. Mi porto con Greco proprio sulla Cima del Medata allo scoperto per vedere che succede sui Solaroli. Greco mi osserva che basterebbe una raffica di mitragliatrice per spedirci ma d'altra parte ho assoluto bisogno di vedere, di ordinare le idee e di fissare i limiti raggiunti dalla nostra azione. E poi in una giornata folgorante come questa mentre l'aria fresca delle montagne riempie il petto d'una frenesia di vita non si può pensare a cose funebri.

* * * La mattina verso le dieci il bombardamento diventa infernale. Siamo tutti intanati nel

nostro buco, illesi e feriti. Le tempie scoppiano. Non si può resistere a questo rumore e a questo scatenarsi di bolidi sulla volta del ricovero. Resisterà? La trincea in cui siamo non

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esiste più, dovunque frane di sassi, reticolati divelti e accartocciati, pezzi di legno bruciati piovuti chi sa da dove, cartucce, schegge di ferro, scarpe. È il caos. Entrano correndo due telefonisti del Genio incaricati di gettare delle linee. Uno di loro, un giovane mingherlino pallido con gli occhiali, piange e si rotola per terra in una crisi isterica di disperazione. Get-terei fuori con un calcio questa approssimazione di un uomo se non pensassi che in fondo non siamo tutti uguali e che la cosa è veramente calda.

Il telefonista urla e si dibatte come un ossesso, i feriti si lamentano con mugoli cupi. Gli schianti delle granate arrivano uno dopo l'altro mordono sbranano la roccia si diffondono in mille fischi lamentosi e rabbiosi. Ancora un po' e impazziscono tutti. Proviamo la linea. Rotta. Non risponde. Bisogna uscire. Io e un soldato. Fuori. Per fortuna la granata ha strappato il filo a pochi metri da noi. Ripariamo e rientriamo. La linea funziona.

"Non si capisce più niente." La 1676 dei Solaroli è forse nostra, della 1672 non si sa niente.

Interrogo arditi e feriti, ma non sanno niente. Chi è costretto a traversare di corsa que-sto Medata maledetto ha gli occhi vitrei e scintillanti e il fiato corto, sembra un allucinato. Inutile interrogare.

Decido di andare sulla 1672 dei Solaroli. Chi prenderò con me? Il sergente ha la faccia scura. Forse ha la moglie e dei bambini. Resterà qui. Il soldato che mi ha accompagnato ad aggiustare la linea non è giusto che rischi la seconda volta. Un altro ha avuto la coscia fra-cassata ed è stato sgomberato. Non resta che un giovane caporale che mi dice essere stu-dente universitario di medicina, un tipo un po' esile. Perozzo. Lui verrà con me. Non c'è fretta. Faremo tappa nel fondo della gola presso il mio amico tenente dei bombardieri. Pas-seremo in fondo dal Calcino dove sembra che le mitragliatrici sparino alte. Prenderemo la trincea che porta alla 1672 del Solarolo e dove la trincea finisce ci arrangeremo alla meglio. Tutto andrà bene.

Si parte. Non è stato facile scegliere nella mia coscienza quello che forse non tornerà. Saluto Greco. Mi sorride. Lui sa che io non posso restare sepolto in un buco.

Giù allo scoperto sul Medata di gran carriera. Vediamo in fondo valle sfilare in fila in-diana gli alpini che vanno all'assalto. È stata sempre la mia ambizione più alta accompa-gnarmi con questa truppa. Ecco il baracchino del bombardiere. Il luogo è terribile e lette-ralmente sbocconcellato, fatto a pezzi da un fuoco a tamburo. Miracolosamente se pure bucato e bruciato in cento parti il baracchino è in piedi.

Ma che c'è sulla soglia? Una barella spezzata un cadavere tagliato in due. Che sia lui? Non mi sembra. Occorre entrare nel baracchino; apro la porta.

È lì, sdraiato sulla sua branda, nero spettrale certamente morto. Le occhiaie nere incava-te, gli occhi chiusi. Lo tocco. Si rizza a sedere sul letto. Gli domando se è pazzo "Ti avevo detto che sono un po' scettico. Adesso ti dò un po' di vermouth.

Del resto, vedi, è destino. Quel povero cristo lì era già ferito e se ne andava indietro ma una granata lo ha fatto in due. Era il suo destino".

Questo strano tipo è sempre solo. I suoi soldati sono nelle tane. Restiamo un po' a di-scorrere ma rabbiosamente tre quattro schrapnels ci radono la testa.

"Vuoi riposarti? Sarà prudente che tu venga con me in una tana di bombardieri. Qui piove."

Lo seguo. Sono due giorni e due notti che non mi metto a sedere. Appena seduto sotto terra mi addormento malgrado il frastuono infernale, pesantemente.

Questa volta è Perozzi che mi sveglia e mi ricaccia nella danza. Siamo in fondo valle; vediamo un posto avanzato di pronto soccorso una specie di cor-

ridoio strettissimo scavato nella roccia. C'è un prete medico, un gigante sorridente che mi

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racconta: "Ieri qui le grondavano sangue, sul suolo si camminava nel sangue, gente fatta a pezzi urlava, gente sana cercava di cacciarsi qui dentro aumentando la confusione. Era una bolgia. Abbiamo fatto quel che abbiamo potuto. Anche le amputazioni se occorrono". Farò pure io quel che potrò. Addio prete.

Attacchiamo il camminamento che porta alla 1672 del Solarolo. Si sono uniti a noi altri due individui, un tenente del genio e un altro. Ogni pochi metri una vedetta dell'Aosta. Gli altri sono intanati chi sa dove. Poi c'è dei bersaglieri mitraglieri. Questa è di certo la compa-gnia di collegamento fra la Lombardia gli alpini e l'Aosta.

I bersaglieri hanno a disposizione un ricovero di terra lungo e strettissimo. Tutti sono pigiati dentro all'infuori di due o tre che stanno accanto ad una mitragliatrice comandata da un giovane sergente bellissimo, calmo, taciturno, sorridente.

Muoversi nella tana dei bersaglieri non è facile. Sono tutti pigiati perché dieci centimetri significano la vita ma io debbo chiedere qualcosa al loro capitano che è in fondo ed ho po-chi riguardi. A spallate e a spintoni mi faccio largo. Più giù c'è il capitano.

Un asse di legno con una candela. Una faccia piena di sonno. "Dove vai?" "Vado alla 1672 o sotto se ci sono loro. Vorrei poi far visita agli Alpini di passo dell'A-

gnella". Mi spiega che prima d'arrivare alla 1672 saltando fuori dalla trincea c'è un viottolo che porta a Passo dell'Agnella ma è allo scoperto e a poche diecine di metri da loro.

"Si può passare?" "Tutti quelli che ci hanno provato sono restati lì." "Io passerò." Mi strinse la mano. Andiamo. Passiamo davanti ai bersaglieri intanati nel rifugio. Ve-

diamo occhi che hanno quell'infinita stanchezza delle bestie da macello quando compren-dono che sta per arrivare la loro ultima ora. Solo il sergente alla mitragliatrice con i denti candidi regolari fa brillare nel sole il suo sorriso. Siamo disarmati - e senza elmetto - ma c'è il cappello da alpino. Per quanto riguarda le armi ho potuto raccoglierne in terra due e met-terle in tasca.

È quasi inutile portare delle armi ad un vero assalto. È un peso superfluo. Si trova per terra tutto ciò che si vuole. Il terreno è seminato di armi.

Avanti. Il camminamento è ora più basso della nostra testa, occorre procedere curvi. Dopo pochi metri siamo ridotti a marciare a quattro zampe. Siamo ormai soli in quella che gli inglesi chiamano "no man land", la terra di nessuno.

Alcune frasi venute dal fronte dell'Ovest hanno fatto fortuna. C'è un silenzio pesante intorno a noi. Ecco dalla 1672 dei Solaroli vicinissima chiara arrogante crepitare la mitra-gliatrice austriaca. Forse è per noi intorno. Fischi intorno. Ora ci tirano anche alle spalle dallo Spironcia. Che onore. Mezzo settore che fa fuoco su due gatti.

Avanti Avanziamo carponi le mani e le ginocchia impastate di fango. Sento l'umido un po' acre

della terra entrarmi nelle narici. Dietro l'ansimare del caporale. Sulla testa fischi. "Che orrore, signor tenente!" È Perozzi che parla. La sua voce è pianto. Sento sotto le dita qualcosa di molliccio che

non è fango. Ritiro le mani insanguinate. Ci siano passati sopra con le mani e con le ginoc-chia. Ho girato la testa in giù appena quanto bastava per vedere un brandello di stoffa gri-gioverde.

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Sono fisso a questa cima aspra e maledetta alle sue mitragliatrici ordinate chiare, danna-te. Passiamo sopra all'uomo ridotto in poltiglia. Avanti.

Ora il camminamento muore. Siamo al passo. Dico al caporale di fermarsi: è inutile fare certe cose in due. Sento del resto che ha un singhiozzo nervoso che impazzisce. Avanti. Sa-rò solo. Ho sentito casi simili. Sarebbe buffo trovarsi in questa condizione con un matto.

Il caporale mi dava fastidio. Il silenzio che mi circonda mi dà un senso di estasi, quasi di riposo. La testa è chiara.

Ormai non mi sento più d'essere altro che un automa, un sonnambulo che passerà dapper-tutto perché è silenzioso perché è inumano, perché non è uno che va ad uccidere ma solo a vedere come un bambino che si affaccia ad un pollaio per spiare se si può rubare ma ancora non ha fatto niente di male. E risorge il senso del rischio dell'infanzia, la volontà di passare vicino vicino a cosa che taglia e spezza senza farsi del male, per poterlo raccontare ai com-pagni, forse solo per il gusto maligno di far gridare la mamma.

Sono le cinque del pomeriggio. Il camminamento è finito. Sono solo ed in piedi con la testa come in un sogno. Perché mi sono alzato? Forse semplicemente perché ero rattrappi-to dallo strisciare e non ne posso più. Perché ci resto? Non lo so e non riesco neppure a piegare le ginocchia. Ho visto le punte dei loro elmettoni gialli dietro la mitragliatrice dan-nata. Un fischio e sono a terra di nuovo.

Pattuglie di pieno giorno. Passeggiata di uno che è stanco di cercare le tane come le tal-pe da giorni e notti. Una rivolta.

All'incrocio c'è un gruppo di fagotti strani che poi si precisa meglio. Ecco sono al riparo di essi. Pose da burattini - inverosimili, mani e visi legnosi - alcuni già neri. Meglio non guardare, anche se si è costretti a toccarli per ripararsi. Guarderò quel cespuglio e sarò at-tento a non toccare che i vestiti, ma c'è qualcuno da cui non riesco a staccare lo sguardo, è uno sdraiato supino. Ha dei baffetti neri, un viso regolare, un grumo di sangue nerastro sul-la bocca, le mostrine bianche e azzurre a righe verticali dei mitraglieri leggeri, la giacca sbot-tonata sul collo e due splendidi occhi azzurri… calmi, che guardano il cielo. Sono annegato là dentro quegli occhi di cielo.

Ora non mi riesce più a staccare lo sguardo da quell'azzurro. Forse perché da bambino piangevo rivedendo il mare? Forse perché c'è tanto silenzio e quel signore pare che dica "Guarda resta con me, io

solo sono calmo, io solo sto bene. Non te ne andare." Non bisogna guardare; guarderò quel cespuglio, ma so che ho come due corde che mi

tirano da quella parte. Ora la battaglia non esiste più per me. C'è solo questa zona di silenzio intorno a me e

quei due grandi occhi celesti fissi sulla gran volta del cielo. Non ci siamo che noi due nel mondo con la nostra calma infinita; io e lui, io con le ossa, la carne, i tendini, i nervi, come fissati cristallizzati, lui col suo sguardo immenso.

Ogni tanto un fischio e qualche volta uno schiocco sordo che s'affloscia sui poveri cor-pi immoti, ma anche questi zufolii sono carezzevoli. Quasi mi diverte sentir frustare l'aria con tanta grazia.

Nervi e tendini non rispondono. Resterò per sempre sulla cima della montagna, nel si-lenzio con questi grandi occhi celesti trafitti nel cielo. Provo a muovere un braccio. Sembra che debba trascinare un gran peso, e che sia completamente rigido.

Non voglio più camminare correre combattere vivere agitarsi inutilmente. Quel morto domina tutto l'universo. Ha fermato con quel suo infinito guardare nel cielo la marcia di tutte le cose, mi ha messo una camicia di forza che non mi pesa. Non c'è forza umana or-mai che possa girarmi la testa e togliermi alla vista di quei suoi grandi occhi celesti. Resterò

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qui per sempre. Con lui perché è tanto calmo é più forte di tutta la montagna di tutto il ru-more di tutto l'universo.

Quanto sono stato così? Non lo so e non lo saprò mai. Al cader del sole il freddo mi ha scosso, e sono ripiombato nel camminamento e ho ri-

trovato Perozzi sdraiato in terra. Via via con questa trincea maledetta, basta coi morti, basta col rumore, via via via. Il bombardamento incalza. Nel camminamento non c'è più nessuno. Morti, fuggiti, a-

vanzati? Siamo soli, e voliamo giù dalla montagna verso la vita. Grosse granate ci piombano vicino ma credo che siamo… più veloci. Vedo appena le pietre sfiorate dalle scarpe alpine. Ho ancora negli occhi quell'azzurro quel silenzio poi mi riprendo e vorrei volare giù in un baleno e finirla con tutto questo luridume. Sono piombato giù a sera sul posto dei bombar-dieri senza fermarmi. Sono tornato nella tana come una bestia selvaggia senza una parola. Solo con un enorme sforzo di volontà ho potuto dire al telefono "Sono stato nella 1672. Confermo essere occupata completamente dal nemico".

Seconda notte di battaglia

È notte. Ora i signori del Solarolo non hanno più tempo di far frullare sul ricovero le loro raffiche. L'artiglieria li investe come un uragano. Ma anche noi siamo investiti dalla lo-ro tempesta. Il Medata è come un grande corpo che riceva colpi mortali. Si scheggia e tre-ma fino alle radici della sua anima di roccia.

Siamo soli: i fanti del '95 li hanno portati indietro dopo l'insuccesso dello Spinoncia. È la terza notte che non si dorme. Dobbiamo bucare le tenebre con gli occhi stanchi e arros-sati per cercare di capire e regolare il tiro. Ma è un inferno e non si capisce niente. Ormai nessuno dice più una parola. Si brancola come ubriachi da una parte e dall'altra e non si ha sonno in verità ma si vorrebbe averlo. Le mitragliatrici divisionali che abbiamo sopra di noi ci forano i timpani. Ora un nuovo tiro si è aggiunto agli altri. Sono enormi granate che ven-gono da una nuova direzione, dal Piave. Sono preoccupato per la sorte del ricovero. Ad ogni colpo sembra che s'incurvi, trema, e pezzi di roccia si staccano dalla volta. Resisterà? Certo questi non sono i calibri del primo giorno. Queste sono valigie.

Non c'è acqua. Non c'è nessuno a cui chiederla. Lanciamo i nostri razzi di segnalazione ma con fatica perché la metà almeno non s'ac-

cendono. Ho la febbre e sono lungo disteso dando ordini. Acqua… bere. Abbiano messo gli elmetti a ridosso della roccia e qualche goccia la si può captare, ma è gialla e riempie i denti di terra. Pure è qualche cosa.

Contrattaccano sul fondo della gola per prendere alle spalle i nostri. Sbarriamo col fuo-co quasi sulle nostre teste.

Ho sete, ho sete. Il ragazzo bruno che ieri l'altro è venuto con me ad aggiustare la linea mi chiede di an-

dare a cercare acqua per me. Non permetto. Lo farebbero a pezzi subito, con questo fuoco, pure la domanda di questo contadino è commovente.

Ora so che per l'acqua si farebbe qualunque pazzia. Sperando di inchiodare sulla linea dell'assalto i rincalzi il nemico scaraventa sul Medata

tutta la sua furia. Penso che accadrebbe se in questo momento si rompesse il filo. Andrei fuori?

Resisterà il ricovero? Alle volte si ha quasi la speranza che il ricovero non resista perché ormai i nervi stanno

per crollare e ci si augura qualunque cosa pur di finirla. Ma nessuno dice una parola. Siamo come automi.

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All'alba il fuoco si calma.

* * * Esco fuori di casa. Un gruppo di austriaci passa rapidamente sbocconcellando la pa-

gnotta italiana regalata dal fante. Sono muti sporchi come noi più di noi, i vestiti color terra le occhiaie incavate i lunghi palandrani cascanti sulle ossa come stracci su un attaccapanni. Solo uno è ancora robusto e bene in salute. Un capitano dicono. Lo abbordo subito. Ha il berrettino da trincea, le mostrine rosse dell'artiglieria e cammina a capo basso.

"Monsieur le capitain" Sorride e mi risponde in italiano perfetto: "Non sono capitano, sono tenente". "Sei triestino, parli bene" "Non sono triestino sono ungherese ma ero avvocato e da noi occorre sapere…" "Sono dispiacente di vederti prigioniero” e gli stringo la mano. Sempre a capo basso sorride con amarezza. "Forse è meglio così, sono quattro anni che… non ne posso più" Una granata interrompe il colloquio. La stretta di mano se la meritano questi mascalzoni. Sudici, affamati come i lupi d'in-

verno, con la rivolta alle spalle, senza ormai speranza di vittoria, da tre giorni ferocemente inchiodati alle loro mitragliatrici, hanno distrutto i nostri più bei battaglioni senza cedere un metro di terreno. Pare che questa notte abbiamo ripreso il Valderoa isolando i residui degli alpini sul passo dell'Agnella. Brigata Lombardia semidistrutta, Brigata Aosta ridotta alla me-tà, Battaglione Alpino Aosta annientato. La Udine respinta. Gli altri alpini respinti con per-dite sanguinose.

Questa gente è degna di noi. Noi ce l'abbiamo messa tutta ma anche la Quinta Armata Austriaca ha scritto sul Grappa una pagina militare che non morrà.

Ora è la volta di un piccolo sergente degli usseri annegato e ridicolo sotto un elmo più grande di lui. Dice di essere romeno di non mangiare da tre giorni e di credere che ormai per loro la sia finita.

Guarda la mia divisa e il mio cappello alpino: "Ah… piccola artiglieria" e si mette le mani sulla testa per ripararsi da sa che guaio.

I fanti siciliani che li accompagnano hanno gli occhi che mandano fiamme. Dicono che la 1061 ha rovinato tutto. Un loro tenente ferito alla testa e male fasciato mi parla mangian-do avidamente pane e formaggio. Le gocce di sangue che colano dalla ferita gl'inzuppano il cibo e lo arrossano ma non se ne accorge e non ha tempo o voglia di pulire. Ha per i miei compagni dei pezzi delle belle parole.

Ecco la mia batteria di Caposaldo 6 schierata allo scoperto e in pieno sole sul Costone di Col dell'Orso. Crepitano i quattro piccoli pezzi come mitragliere. Sembrano quattro pic-coli cani rabbiosi. È battuta dalle bombarde e alle volte sparisce nel fumo di un grosso scoppio. Attraverso il fumo si sente ancora l'abbaiare dei piccoli pezzi rabbiosi e ostinati.

"Guardi tenente" – mi dicono sorridendo i fanti. Penso al Tonio con quella sua calma meditativa, i suoi capelli precocemente bianchi e il

suo sorriso triste. Egli sarà là ritto in piedi a dare gli ordini a bassa voce come sempre con. l'aria del giocatore annoiato che chiede le carte. Penso ai miei compagni che non so se rive-drò. La mia famiglia militare si sta cucinando bene.

* * * Nel pomeriggio vado a trovare i nostri vicini mitraglieri. Non sono molto allegri. Due

tenenti, uno dei quali comanda la compagnia, hanno un muso piuttosto lungo. Le loro armi

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sparano continuamente radendo la trincea austriaca dei Solaroli. Ad intervallo di qualche minuto un sottufficiale sardo si pianta sull'attenti come se fosse in piazza d'armi e raggua-glia il comandante sul tiro delle armi. È sorridente e severo e preciso come un orologio.

L'arma n. 1 ha un buco nel manicotto. Si cambia il manicotto. È la nazione intera che da quattro anni dietro di noi non fa che

sostituire e alimentare. Ne ha delle cose e del sangue questo popolo dalle Alpi fino alle rive marine della Sicilia.

Le cose procedono abbastanza tranquillamente: "Però ci sono dei fegatacci fra questi au-striaci". Ne vediamo uno ritto in piedi sull'orlo della trincea gettare bombe a mano una do-po l'altra. Sta un minuto e scompare. Lo prendono di mira ma quello sembra un burattino che abbia pronta sotto i piedi una botola. Lancia le sue granate col manico di legno che ha intorno alla cintura e giù di colpo scompare. È un giochetto che esaspera. Ha una fortuna che ha del miracolo. Alla fine però non ricompare più. O ha messo giudizio oppure se n'è andato a mettere le scarpe al sole.

Grosse granate ci vengono addosso dal Piave dalla parte di Valdobbiadene, da Soligo, da Schievenin.

Questo nostro Medata calcinato e ridotto a detriti incassa tutto. Siamo in quattro a chiaccherare perché a noi s'è aggiunto un caporale. Sento un fischio

corto e potente. Questo è per noi. Ho afferrato alla gola il comandante, insieme abbiamo fatto cadere l'altro ufficiale e siamo a terra in un baleno in un rovinio di sassi. Cadendo ho messo un ginocchio nello stomaco di uno e faccio per scusarmi:

"Pardon". "Pardon un corno – mi fa quello – hai fatto bene". Il caporale era distratto e non ha saputo fare altrettanto. Forse la sua ora era segnata.

Uno schianto sordo, sassi fumanti sul groppone poi silenzio. Il povero ragazzo è lì steso con la scatola cranica segata in due.

"Portaferiti". Lo si porta via. "Peccato – dice freddamente il comandante – era il migliore graduato della compagnia".

* * * Ritorno nella mia tana. Cerco di parlare con i miei comagni, per distrarmi e per distrarli

ma la cosa non attacca. Sono lì come fantocci. Io ho girato un po', mi sono distratto ma lo-ro sono rimasti in questa fetida tana con l'assillo della mitragliatrice puntata sull'imbocco, con due arditi dell'Aosta feriti alla testa, e un vecchio fante contadino pure ferito una buona faccia di paesano anziano, che gira intorno alle pareti tastandole e non si capisce se lo faccia per cercare qualche goccia d'acqua o per assicurarsi che siano ancora in piedi oppure perché è diventato scemo, e ogni tanto geme fiocamente.

Di fuori è dì nuovo l'inferno. Scoppiano 305 a tempo. Un rumore magnifico fa il suono di migliaia di pallottole che sbarra tutta la gola del Calcino lasciando una nuvola bianca. Una novità prelibata senza dubbio. Mai visto. Gl'intenditori d'artiglieria apprenderanno con piacere questo "chic". La mitragliera ci è puntata di nuovo alla bocca del ricovero. Chi fu il cretino che lo andò a costruire con l'imboccatura rivolta, verso i1 nemico? Lo appicche-remmo volentieri. È vero che c'è un gomito formato di sacchetti a terra ma serve a poco dato che per uscire è proprio necessario rischiare una sventagliata nel ventre.

* * * Informiamo a mezzo telefono il gruppo di quel che accade. Sento che attaccano in for-

ze il fondo Val Calcino. Le nostre mitragliatrici rullano furiose e la mossa è pericolosa. Pos-

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sono tagliar fuori l'Aosta e gli Alpini, investire il Medata e poiché la Val Calcino seguita con Val delle Muse alle spalle della Galleria Vittorio Emanuele potrebbero con questa mossa fischiarci il "baluardo nazionale" come lo chiamano alla Camera dei Deputati. Informiamo. Le nostre batterie aprono il fuoco sul fondo valle alle spalle dei nostri battaglioni.

Il maggiore m'informa che la divisione ha rilevato che una delle mie batterie tira corto. Faccio per rispondere… Maledizione. Hanno rotto il filo! Questo proprio ci fa sudare freddo.

Occorre uscire ad aggiustarlo. Via uno con me. Prendo a turno quello che non è mai venuto e salto fuori.

Dobbiamo camminare lungo il filo fino al buco della granata che lo ha spezzato. Ora uno strano senso di allegria s'impadronisce di me.Canto: "un nuvolo di rete, di piz-

zi di Bruxelles, un nido di diamanti, una vision di ciel…" È per distrarre me stesso o il sol-dato? Qualche testa dalle feritoie dei mitraglieri si sporge per vedere i due pazzi che se ne vanno cantando con la cassettina del telefono sulle spalle, ma ormai il bombardamento non impressiona più perché non si distingue colpo da colpo, è tutto un martellare, un uragano.

Ecco il guasto. La buca fresca è ancora fumante di una granata. Ci gettiamo dentro. Fuori il temperino, il nastro isolante.

Si attacca il telefono, si prova, funziona, ma al momento di rialzare la testa una sventa-gliata di fischi ce la fa appiattire contro la roccia. Ora è troppo ora finisce male penso tra me. Ci radono l'orlo della buca con la mitragliatrice. Ci hanno visto bene.

"E noi staremo qui se occorre fino alla fine della guerra! E non ci prenderanno." dico al soldato.

Trovo infine che è il posto più sicuro dei mondo. Un'altra granata non cadrà qui certa-mente nel buco della prima e finché stiamo sdraiati la mitragliatrice non ci può beccare. Ora mi sento perfettamente tranquillo. Non posso vedere la faccia del soldato perché temo che nel voltarmi una parte del corpo sporga dall'orlo della buca.

Però non canto più. Quanto siamo restati così? È una cosa difficile a dirsi. Credo che nessun combattente

che si sia messo al riparo di un sasso o di un cadavere vi sappia dire con esattezza se c'è ri-masto qualche ora o qualche minuto.

Si perde completamente la nozione del tempo. Siamo usciti di nuovo e abbiamo provato la linea. Rotta di nuovo. È una brutta giornata questa. Troviamo ancora un guasto ma mentre ne cerchiamo un

terzo il fischio corto del proiettile ci getta a terra. Non ho fatto a tempo a mettermi giù questa volta. Sono rimasto in ginocchio serran-

domi le tempie con le mani. Ho visto la fiammata aprire in neri pezzi il proietto. Ho visto o almeno ho creduto di vedere. Il soldato è dietro di me quasi abbracciato. Sassi, senso di do-lore in varie parti del corpo, ci scrolliamo, proviamo a rialzarci. Illesi. Ma ormai vediamo le granate piombare sulla nostra povera linea di filo nero a diecine. È finita. La linea telefonica che secondo il mio comandante non avrebbe retto un quarto d'ora in caso d'azione, posta dalla trincea di lancio dell'assalto fino al comando di gruppo che noi abbiano tenuto a costo di ogni sacrificio per tre giorni e tre notti è finita. Ci gettiamo in un camminamento che porta alla strada dell'Archeson.

"Senti tenente" – mi fa il mio ragazzo – "io mi credeva che tu eri morto e che io era vi-vo e tu forse ti credeva che io era morto e che tu eri vivo.”

E questo squarcio di eloquenza abruzzese pone termine alle disperate marce per 1'aggiustamento del filo. Ora tenterò di parlare attraverso un giro di comandi, e vado fino sul rovescio delle Porte di Salton dove ne trovo uno e incarico i telefonisti di comunicare.

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* * * La montagna si copre di brume rotte dalle vampe dei colpi. La giornata volge al termine e la vittoria non appare. Sul Solarolo e sul Passo dell'Agnel-

la fin giù sul Dente della Mitragliatrice del Valderoa è nel tramonto uno scoppiettare di fiammelle fitte secche fucili e bombe a mano che punteggiano di piccoli colpi più sordi. Si dice che al passo dell'Agnella gli Alpini abbiano attaccato diciotto volte nella giornata e a-desso alla fine tentino lo sforzo estremo. Me ne torno alla mia tana solo e triste senza cer-care di ripararmi. Rabbia. Amarezza e niente altro. Avevo promesso ai miei soldati di ubria-carmi a Feltre la sera del primo giorno di battaglia. Ed invece siamo qui inchiodati come Cristi e coi due Corpi d'Armata che ormai a furia di attacchi debbono essere diventati dei setacci. Comincia a scendere la nebbia. Vedo un'ombra gigantesca venirmi incontro. L'om-bra è sormontata dal cappello di alpino. È Piola, è uno dei miei colleghi di collegamento con le fanterie. Gli parlo e mi risponde: "Ho sonno". Gli parlo ancora e mi risponde che ha "sonno". La sua faccia di ragazza campagnola dal mento robusto è tutta in queste parole "Ho sonno". Cammina barcollando ed appoggiandosi ad un enorme bastone. Penso che arrivai su questo fronte del Grappa con lui in un mattino radioso cantando. Ora è un mo-stro di sporcizia e di sonno. Scompare. L'altro nostro collega Catalani della 3a del Torino Susa ha preso una raffica in pieno petto ed è morto insieme al suo sottufficiale.

Ora vedo a qualche diecina di metri un gruppo li teste rigorosamente coperte da elmetti e munite di binocoli. Mi si grida:

"Chi sei, dove vai, vieni qua… venga qua" Caspita, sono incappato in un Comando nientemeno che di brigata. Il Signor Generale

vuol sapere. Faccio dire al Signor Generale quel che so. "Lei che cerca ora?" "Ora cerco di mangiare perché ho fame." Mi hanno dato qualche cosa sotto lo sguardo scandalizzato dei tirapiedi ancora abba-

stanza puliti e ben messi intorno alle loro cassette telefoniche e ai loro binocoli a lunga por-tata.

* * * Sono tornato nella tana fetida. Un'altra nottata ancora. Ora tutto quel che accade non

m'interessa più. Dormire o morire: ecco quel che m'interessa. Ho sentito dire che l'Aosta ha perduto il Valderoa, e che ci sono lassù solo dei gruppi di alpini e di fanti quasi tutti feriti e circondati. Era l'unico nostro vantaggio.

Sembra che dalle quote dei Solaroli quei ragazzi ci irridano perché vediamo una lumina-ria di razzi lungo tutte le loro trincee. Oppure si ritirano e bruciano i razzi. Oppure fanno luce perché temono un nuovo assalto? Chi sa. Penso a quel silenzio lassù sotto la quota e quei grandi occhi azzurri che mi volevano prendere e inchiodare per sempre lassù. Vedo il grande scoglio quadrato sotto la curva e l'incrocio del camminamento col viottolo e quel gruppo di morti, che mi hanno voluto salvare. Dormire.

* * * Alla fine ci danno il cambio. Non ricordo chi è venuto al nostro posto. A parte che ho

la barba lunga, i vestiti strappati e sono inzuppato di fango da capo a piedi e sporco di san-gue come un macellaio. Ormai sono cambiato mi sembra di aver vissuto cinquant'anni così come un primitivo delle caverne o come una bestia selvaggia. Ho mandato avanti i soldati e me ne torno solo per la mulattiera infrascata dell'Archeson chiuso nei miei pensieri.

Penso alle nostre brigate distrutte a tutta quella tenacia eroica resa vana da una struttura della montagna che ha favorito la difesa. Mi sembra di non aver fatto niente. Non sono

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contento di niente. Quelli… quelli che sono rimasti lassù stecchiti in quelle pose da mario-nette sono forse soli ad essere tranquilli in tutta questa faccenda. All'uscita della mulattiera dell'Archeson sulla strada militare che va a1 Tomba incontro due carabinieri. Ho l'impres-sione che sorridano a vedermi così ridotto. Mi viene voglia di rompere il bastone sulla fac-cia di quei due. Forse ho sbagliato. Non bado a chi cammina sulla strada e a chi mi urta. Sono un automa in preda ad una rabbia sorda. Quel mio carattere così timido e rispettoso di tutti è morto in questi giorni. Sono cambiato. Forse sono un uomo, forse solo una bestia selvaggia che ormai non dà più valore a nulla. Arrivo al baracchino del gruppo a sera. An-che qui la faccenda deve essere stata calda perché il terreno è arato di colpi.

Il maggiore e i compagni mi accolgono con calore e vogliono farmi sedere a mensa con loro. Rifiuto ponendo a scusa la mia stanchezza e la mia sporcizia. Mi fanno delle domande alle quali non rispondo. Non voglio vedere nessuno. Il maggiore mi chiede i nomi dei supe-riori presenti sul Medata al fine di propormi per una ricompensa. Gli rispondo "Superiori?" Non c'era nessuno e poi non diciamo fesserie.

Me ne vado a tentar di dormire cupo e chiuso come un lupo in gabbia e giuro a me stesso che se all'indomani qualcuno oserà parlarmi dell'azione gli risponderò con una villa-nata. Al buio mentre tento di dormire mi appare la faccia scarna del mitragliere col grumo di sangue nero sulla bocca, la giubba aperta sul collo con le mostrine bianche e blu verticali, e i grandi occhi celesti spalancati immensamente calmi che mi guardano e illuminano il buio della notte.

“Se ne sono andati”

All'indomani una grande notizia: "Gli austriaci se ne sono andati." Avanti. Tutti sono in preda ad una specie di febbre. Giungono due ufficiali alpini del Comando di Armata che non ho mai visto né conosciuto e mentre sono in piedi a parlare con i venuti mi abbraccia-no. Hanno gli occhi che brillano. Si dice che il Cesen è caduto, il Piave passato o sta per es-sere passato, le posizioni aggirate, un inizio di ritirata del nemico almeno in questo settore d'Armata. Anche sul Pertica e sull'Asolone che abbiamo sentito nei giorni scorsi trasfor-marsi in vulcani la cosa va con lo stesso andamento. Si ritirano. Si ritirano. Non potevano reggere più. Si dice che l'offensiva è stata generale e che tutto l'esercito combatte per avan-zare. Le batterie che sono con noi si preparano a partire. I muli delle munizioni sono stati per giorni e notti intere nascosti in una gola con il basto sulla groppa. Ora sebbene rovinati dalla stanchezza avanzano anche quelli. Gli alpini e la fanteria sono in moto. Tutta la linea è assalita dalla febbre. I tiri si fanno più radi. Solo verso il Piave il bombardamento continua in pieno.

Il maggiore ordina che accompagnato da me e dal suo e dal mio attendente si vada im-mediatamente al Passo dell'Agnella a riconoscere la mulattiera per avanzare sul Fontana Secca e di lì per la gola del Seren su Feltre.

Passiamo dal Col dell'Orso. Questo massiccio pilastro alla stessa quota delle loro cime dei Solaroli è tutto calcinato

dalle esplosioni. Le gallerie sono crollate, le trincee non esistono più. Si dice che qui gli Al-pini e la Lombardia siano stati inchiodati sulle trincee di partenza da un siluro di esplosioni senza neppur poter andare all'attacco lungo la mulattiera che in piano va alla 1061 poi alla 1676 poi alla terribile 1672. Le nostre bombarde debbono inoltre aver tirato corto perché ne troviamo inesplose e conficcate per terra proprio qui. Il terreno è sparso di morti ma già si cerca di mettere a posto le cose. Strani fagotti formati da un telo da tenda legato ai quat-tro capi e delle dimensioni quadrate di circa mezzo metro con su dei bastoni infilati aspet-tano i portatori. Certamente porteranno il pane o delle cartucce – pensiamo – si tratta degli

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alpini del '900 fatti a pezzi e raccattati pezzo per pezzo e messi in quel modo, che non c'è altra maniera in verità per poterli trasportare.

Sollevo un lembo di un telo da tenda e vedo una testa mozza e una faccia pallidissima di bambino che dorme con la bocca semiaperta. Che viso infantile!… Viene naturale pensare: "Se ti vedesse la tua mamma!"

Seguitiamo. Ecco il primo posto di mitraglieri austriaci che sbarrava la mulattiera, ecco le mitragliatrici rotte su un mucchio di sassi accatastati, sacchetti a terra sventrati, pezzi di reticolato. Siamo sulla 1676. Ecco laggiù il mio posto del Medata, è vicinissimo e perfetta-mente scoperto. Potevano colpirci anche nel vano ad uno ad uno e perché non lo hanno fatto? Avevano certamente altro da fare. L'erta è seminata di alpini e di fanti.

La mulattiera dalla 1676 alla 1672 non c'è più come non c'è più trincea. Il nostro fuoco ha cambiato anche il profilo delle gobbe dei Solaroli e de1 Valderoa. La roccia bianca è i-noltre tutta scagliata e sminuzzata in piccoli frammenti. In alcuni punti è uno strano impa-sto di pietre, di reticolati rugginosi, di pezzi di legno, di scaglie di granate, di cartucce, di brandelli di stoffa e di scarpe annerite. Gruppi di quattro o cinque mitragliatrici sono an-nientati in pieno. Ne prendo dei pezzi con l'idea di portarli a casa, se tornerò a casa ma so già che il peso inutile di essi mi costringerà a gettarli poi via. Un pezzo austriaco isolato tira su di noi a tiro curvo lento. Si sente un miagolio nel l'aria come quello di un gatto annoiato.

Sul Valderoa masse di elmetti scintillano alle luci del tramonto. Sono le truppe ammas-sate per l'inseguimento. Lungo l'enorme cerchia montana che sfuma nell'azzurro e nei primi toni rosati e grigi della sera si svolge quello che sentiamo essere forse l'epilogo di un dram-ma che ha insanguinato l'umanità intera per anni ed anni! Fragori di esplosioni lontane giungono a noi facendo tremare la terra come scosse di terremoto. Probabilmente depositi di munizioni che saltano.

Il mio maggiore sbraita contro il mio attendente che si diverte a raccogliere dei proiettili inesplosi. Io non ci faccio caso. Siamo da tanto tempo nelle mani del destino che ci pos-siamo restare ancora un po' sia pure per giocare come i bambini.

* * * La 1672 è una bolgia dantesca. Qui c'è ancora la lotta viva con tutta la sua ferocia. Un

enorme alpino è steso con le mani a due metri dalla mitragliatrice austriaca quasi volesse ghermirla con un tuffo estremo. Un altro alpino e un austriaco armati di pugnale ed avvin-ghiati insieme sono caduti insieme colpiti chi sa da dove e chi sa come. Gruppi di giovani fanti della Lombardia con le loro mostrine bianco azzurre sono caduti sulle pose più inve-rosimili, carponi a gambe in aria, con le braccia alzate, irrigidite. La mulattiera che va al Pas-so dell'Agnella è tutta seminata di braccia, gambe, teste e dita stroncate. Alle volte si in-ciampa su qualcosa che fa orrore. Qui l'artiglieria ha picchiato anche dopo il corpo a corpo ed è per questo che c'è questa bottega di beccaio. Sopra un sasso è piantata una testa dai capelli irti e lanosi. La parte inferiore della mascella manca ma il resto morde la roccia con i suoi denti bianchi e gli occhi sbarrati sembrano voler fulminare la vallata. Più in là il petto curvo sul bordo della mulattiera un alpino enorme reso forse più grande dai gas della de-composizione completamente denudato dalle esplosioni serra tra le grandi braccia dei massi di pietra. Ha grandi spalle nude arrossate dai raggi del tramonto. Sembra che voglia scuote-re la montagna in un rabbioso abbraccio da titano. Tutto il resto è un impasto di stoffe gri-gio verdi e di carni ed ossa spezzate.

Qui proveniente dal Passo dell'Agnella l'urto della vecchia guardia delle Alpi si è scate-nato come un colpo d'ariete. Sulla mulattiera a plotoni serrati sono caduti in più strati a po-chi passi dai mitraglieri della difesa. Ecco un plotone intero falciato insieme al suo tenente.

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Avanti è caduto il capo, un bellissimo ragazzo; ai suoi lati i due sergenti e dietro serrati tutti gli alpini.

Il giovane ufficiale è steso supino con un lieve sorriso sulle labbra e l'elmetto in capo. È in ogni sua parte perfetto e composto. È ancora roseo e non mostra traccia di ferita alcuna. La divisa caso strano è netta. Solo sul petto è sbottonata all'altezza della tasca del portafogli e vi escono alcune carte, alcune lettere.

Dietro, la siepe dei suoi soldati è un groviglio. Anche nella morte sembra che il capo caduto alla testa abbia voluto con quella posa da gladiatore distinguersi dagli umili che lo hanno seguito. Questo splendido morto è ancora un dominatore sorridente.

* * * Badando a non calpestare i corpi, cosa quasi impossibile perché ingombrano tutta la

mulattiera, giungiamo alla sella del Valderoa. Qui alcuni alti ufficiali circondati da uno stato maggiore sorvegliano lo sfilamento delle

truppe alpine. Uno dietro all'altro. In fila indiana, lenti e solenni le coperte infilate sul fucile e sulla piccozza le maschie e brune facce fisse con un'espressione cupa sui compagni caduti, marciando lentamente per non calpestarli, sfilano gli alpini. Le scarpe ferrate si posano sulla roccia tentando di scansare pietosamente i corpi dei compagni. Non un sospiro, non una parola. Solo i colpi sordi delle scarpe ferrate sulla roccia, e non una sosta. Camminano ine-sorabili. Vedo la lunga fila indiana staccarsi sul fianco del Valderoa e affondare nelle prime ombre della sera.

* * * Sbuca non si sa da dove al mio fianco un piccolo fante, viso regolare, sorridente, baffet-

ti neri. È senza armi e senza maschera, mingherlino come la maggior parte dei nostri meri-dionali. Guarda l'immensa cerchia montana guarnita di bagliori e si volge verso di me di-cendomi:

"Signor tenente, un anno fa eravamo a Caporetto!" "Sì – dico – e adesso abbiamo saldato i conti". Gli occhi suoi nerissimi hanno bagliori di gioia. Chi è questo piccolo fante che ha così

umana espressione di bontà sul viso? E come somiglia all'altro che mi guarda ancora dal camminamento dei Solaroli. È forse

l'immagine della gente semplice del mio paese, così povera, così gaia e pacifica che è stata gettata nella fornace non si sa come e che ne è uscita con la vittoria in pugno? Il piccolo fante seguita a guardare all'orizzonte gli enormi bagliori dei depositi che saltano. Il maggio-re seguita a sbraitare contro l'attendente che non vuole smetterla di toccare le bombe e gra-nate inesplose, io penso con perfetta sincerità di cuore che non c'è ragione al mondo che possa giustificare davanti a Dio e davanti agli uomini l'orrenda pazzia di certe cose umane, e domani marceremo tutti su Feltre.

* * * Siamo arrivati a Seren un piccolo paese che si trova allo sbocco della gola dello Stizzone

marciando su veri e propri strati di proiettili inesplosi. Ad ogni urto di zoccolo di un mulo contro queste granate ci saremmo gettati fuori dalla

mulattiera se non avessimo dovuto marciare e fossimo stati meno stanchi. Piccoli gruppi di case, che visti di lontano sembravano nell'aria limpida quei paesetti che

al mio paese i bambini fanno in sughero in occasione della Befana, erano inerpicati sulle montagne ai lati della gola. Abbiamo attraversato l'intero massiccio del Grappa di notte fonda orizzontandoci Dio sa come. Un silenzio regnava sul Grappa pesante. Il grande leo-ne di pietra con le sue costole forate dai buchi delle gallerie e il suo carico di morti ormai

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tace. Visto dalla pianura ha proprio 1'aspetto di un leone accovacciato. Addio monte Grap-pa.

Saprà un giorno un poeta scrivere la tua leggenda, di questa difesa estrema del mio Pae-se? Certo chi è stato sopra di lei e ha visto di fronte la pura cornice bianca delle Alpi del Cadorel ed alle spalle la verde pianura e il nastro del Piave che sfuma nelle chiarità d'argen-to della laguna e ha avuto il viso sfiorato dalla brezza montana non ti dimenticherà. Non dimenticherà le enormi gobbe giallastre, folgorate dal sole, solcate in ogni senso da trincee e sonanti viluppi di reticolati. Non dimenticherà le fantastiche visioni delle teleferiche sfu-manti nella nebbia e i neri gruppi dei baracchini aggrappati alle tue roccia a picco. Non di-menticherà la galleria che notte e giorno col sole o con la neve in ogni ora in ogni minuto folgorava di vampe tutt'intorno come se nelle sue viscere fosse un genio della montagna armato di una disperata energia. Non dimenticherà i posti scoglio delle mitragliatrici che qualunque soldato vi faceva vedere con l'orgoglio dell'artigiano che ha fatto una cosa pro-prio sua e vi spiattellava sul viso allegramente: "Di qui non possono passare." Non dimen-ticherà infine che tutto un popolo di quaranta milioni di abitanti disse in un autunno di do-lore: "Tutta la mia Patria è sul Grappa".

* * * È d'uso che a turno ogni ufficiale sia destinato a fare ciò che si chiama il "direttore di

mensa", perciò il gruppo sapendo che siamo in piena avanzata e non abbiamo viveri destina me fidando in non so quali capacità geniali da parte mia. Giuro che me la pagheranno. In-tanto a provvedere me stesso ho pensato stanotte passando sul Grappa. Marciavo in testa ad un'ora di distanza dagli altri con pochi soldati ed abbiamo intravisto un lumicino. Era uno di un reparto di sussistenza. Ho quasi abbracciato il panciuto ufficiale che lo comanda-va e ci siamo rimpinzati di cognac e di scatole di carne. Prelevare niente perché non aveva-mo buoni. Gli altri si arrangeranno. A pochi minuti da Seren passa la prima donna, una pa-storella: "Che sottotenente zovene!" Non c'è tempo di fermarsi. Strano, ha le labbra dipinte e gli occhi bistrati. Un colpo alle tempie, come un capogiro. È la prima donna che vedo da sei mesi. Ma dunque c'è ancora la donna e la vita. Entriamo a Seren. Gli abitanti di questo Paese hanno combattuto con l'avanguardia contro il nemico ed alcuni di essi sono caduti. Uno strano fatto è accaduto all'ingresso del paese. Una bimbetta di pochi anni appena ci ha visto è fuggita come se avesse visto il diavolo. Che quei signori maltrattassero anche le bambine?

Ora sono alloggiato nelle camere dell' "Herr oberleutenent X" non ci sano lenzuola ma finalmente un letto, il primo che vedo da sei mesi. Due donne in cucina vorrebbero fare qualcosa per noi… ma non hanno viveri. Una di esse ha in braccio "un triestino": così esse chiamano i figli che ha dato loro il nemico. Racconta di essere stata presa con la violen-za. Tutte dicono così. Un vecchio invece dice che molte di loro cercavano gli ufficiali un-gheresi per… ballare.

C'è da essere feroci contro queste donne che volevano ballare e fare all'amore? È un fatto che queste non riusciranno mai a capire perché noi uomini non s'avesse altro deside-rio che quello di scannarci a vicenda. Anche quando avremo loro spiegato che cosa è la Pa-tria non tutte saranno delle Giovanne d'Arco e c'è il caso che fra quelle che non lo saranno certamente ci siano le più graziose. La donna è fatta per amare e per dare la vita. Non ha molti motivi per odiare e per uccidere. Intanto ci accolgono come s'accoglie la gente del proprio sangue, ma almeno qui all'infuori di loro stesse hanno poco da dare a noi: non c'è un pezzo di pane né un pezzo di carne. All'arrivo dei miei compagni è avvenuto uno strano episodio. In una cameretta dove ardeva un bel fuoco ci si sentiva gelare e non si capiva per-ché. Alla fine è stato scoperto l'arcano quando un robusto alpino ha preso delicatamente un

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pianoforte ch'era in un angolo sollevandolo e portandolo in mezzo alla stanza. Dietro il pianoforte era un enorme buco di granata e di lì entrava il vento freddo della sera.

Seren è un paesino che ha la maggior parte delle case circondate ad ogni piano da lun-ghe balconate in legno che ricorrono per tutto il perimetro di esse ad ogni piano. Graziose case di montagna un po' rovinate dalle bombe dei nostri Caproni.

La gente del paese racconta che a giugno ha visto passare per notti e per giorni truppe e cannoni. Non finivano mai di passare, e dicevano che ci avrebbero schiacciato in poche o-re. Si sono sbagliati.

Seren, Bazai, Mugnai, Feltre occupate dai nostri. Vado a vedere Feltre. Per le strade i fanti della brigata Aosta, le splendide fanterie siciliane del Valderoa.

L'entrata delle truppe nei paesi riconquistati non è stata del tutto tranquilla. In alcuni borghi si è dovuto battere le difese con i cannoni. In un paese qui vicino un aiutante di bat-taglia degli alpini ha freddato a pugnalate tre tedeschi colpevoli di violenze nella sua casa. Case saccheggiate e donne uccise si sono trovate qua e là. Ci giungono notizie del resto del fronte che tutto l'immenso esercito del nemico è in rotta ed inseguito.

Le teste delle nostre colonne si frammischiano alle loro retroguardie, plotoni di arditi catturano interi reggimenti raggiunti o aggirati.

Un ordine mi manda a Schievenin. Passo il Piave a Ponte di Fener. Per la strada incon-tro due miei compagni di scuola, l'uno Manlio Gestito comanda il traino di pezzi d'artiglie-ria, l'altro torna stanco e impolverato dall'inseguimento con il battaglione Alpini Monte Srullo. È Casella. Lo rivedo pallido e curvo sui libri al banco della scuola. Ora è lì più colo-rito e più duro ma immensamente stanco. Gli alpini marciano intorno a lui con il loro passo che pare s'aggrappi alla terra.

Passiamo il Piave a Ponte di Fener in una giornata di sole. Un grande camion bianco chiuso giace sul greto del fiume. Forse un'ambulanza rag-

giunta da un colpo. Tutto l'argine porta i segni della battaglia ma la rovina non è lontana-mente paragonabile a quella delle nostre trincee del Grappa. Sul Grappa poca era l'erba dei pascoli ma credo che ora non rinascerà più.

Nei prati di fianco allo stradone che conduce a Schievenin sono schierate delle batterie di medi calibri. Il luogo è stato bombardato. I cannoni hanno i fianchi spezzati e le volate saltate, alcuni. Mi fermo vicino ad uno di essi. Il mostro quantunque ormai silenzioso sem-bra minacciare ancora con la sua massa ferrigna protesa verso il Piave. Il posto del tiratore è completamente bagnato di sangue ancora fresco. Questa gente si è battuta fino all'ultimo.

Giungiamo a Schievenin di notte. Lì sono accesi nei campi i bivacchi della brigata Ao-sta. Strana cosa in questa guerra vedere accesi dei fuochi di bivacco. C'è una grande vita in-torno, un grande clamore. È la vittoria? Non si sa niente di preciso, solo è certo che tutto il fronte è in movimento e non si sa se ci sarà un arresto. Le strade per tutta la loro lunghezza sono ingombre di truppe, di camion, di cavalli, di muli e di carriaggi. Si cammina di giorno e di notte si dimentica di mangiare e di bere pur di prendere dello spazio.

A Quero il muro più alto del Paese sarà carico dei 305 inesplosi che se ne stanno tran-quilli fra quelle rovine con la loro pancia gonfia di tritolo adagiata sui calcinacci delle strade coperte di macerie.

Siamo a Crespano Veneto a riposo con tutti i battaglioni d'assalto dell'Armata, le bom-barde e molte artiglierie. È sera stiamo mangiando alla luce scialba di una candela quando sentiamo un tumulto nella strada. Si urla si corre, qualcuno, qualche ardito impazzito getta una bomba a mano contro la nostra porta d'ingresso su strada.

Usciamo fuori nell'oscurità. Si sente urlare e correre torme di soldati come pazzi. Che è successo? Delle parole incomposte Trento, Trieste, prese, l'armistizio: è la pace!

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La pace. Ecco una piramide spaventosa di morti e di dolore e in cima brilla una luce calma. La pace. Per centinaia di chilometri lungo l'immenso fronte di carne maciullata, di reticolati di ferro spezzati, di fango, di sporcizie, di dolore dalle nevi alle pianure del deserto africano, la pace. Usciamo alla periferia del paese. Ogni tanto s'incontra qualcuno che corre e dice con voce strozzata: La pace! Perché non ridiamo, perché non saltiamo dalla gioia? Perché chi ha lottato è stanco e sente la stanchezza solo quando ritiene che la rete dei nervi tesi non serva più e la lascia cadere. O forse la pace è venuta troppo tardi e noi siamo cam-biati. Gli esseri primitivi non possono tornare persone civili nel giro di un'ora. Si è pallidi e non si dice parola. Qualcuno guardando con occhi trasognati dice lentamente "La pace", come se si svegliasse da un lungo sonno, come svegliato da un lungo sogno. Il primo pen-siero è questo: adesso andiamo a vedere i paesi che abbiamo preso "en touriste", oppure andiamo subito a casa. Invece occorre star qui e a che fare esattamente non si sa. Tutti i razzi di segnalazione vengono ad ogni modo sparati. Il nostro medico Mattioli entra ad un tratto pallido con la mano sul cuore e crediamo che sia vittima di un colpo di revolver in uno di quegli incidenti così comuni qui. Lo si mette a sedere ed una volta tanto si cura un medico. Ha sul cuore una grande macchia violacea. Un livido semplicemente e fattogli da un razzo sparato a bruciapelo. Solo una promessa di licenza può far saltare dalla sedia il medico completamente guarito. La promessa del comandante fa apparire sulla grassa faccia bolognese dell' "assassino scientifico" un largo sorriso di gioia.

La pace, la pace. Torneremo a casa. Si torna a casa. Niente più granate niente più rumo-re. È finita la cuccagna della morte.

Torneremo. E che faremo? Come ricominceremo la vita? E la vita quella della gente comune vorrà riaccettare noi - i barbari? Mio padre mi scrive una nobilissima lettera di en-comio. Gli rispondo che tutti i lauri e i fiori vengano diretti ai morti.

Rivedo anche oggi 4 novembre due grandi occhi azzurri sbarrati che guardano l'arco del cielo con un senso di smisurato riposo.

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RICORDI DELLA GUERRA 1915-1918 ................................................ 2

Partenza ...................................................................................................................................................... 2 L’armamento ............................................................................................................................................... 4 Marano Vicentino........................................................................................................................................ 5 La valletta del Kaberlaba ............................................................................................................................. 5 Primi giorni di guerra ................................................................................................................................... 7 A Malga Fassa osservatorio di trincea ....................................................................................................... 10 Avvenimenti. .............................................................................................................................................. 12 Attacco e vittoria nemica delle Melette, del Sirenol e di Valbella. ............................................................... 12 Valbella Sirenal......................................................................................................................................... 15 Ripresa di Valbella .................................................................................................................................... 17

SECONDA PARTE .............................................................................. 18

Ritorno al fronte ......................................................................................................................................... 18 Truppe di montagna ................................................................................................................................... 19 Partenza per Caposaldo 6 di Cima Grappa ............................................................................................... 20 Caposaldo 6 di Cima Grappa .................................................................................................................... 21 Fanti .......................................................................................................................................................... 21 Di nuovo in pattuglia ................................................................................................................................. 22 Cognac ....................................................................................................................................................... 23 Azione sulla 1676 dei Solaroli .................................................................................................................. 24 Attacco....................................................................................................................................................... 26 Il Cimitero di Val Calcino......................................................................................................................... 27 Seconda notte di battaglia ........................................................................................................................... 35 “Se ne sono andati” .................................................................................................................................... 40