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Benedetto XVI RoBeRt SaRah DAL PROFONDO DEL NOSTRO CUORE

ratzinger - dal profondo del nostro cuore€¦ · Benedetto XVI Robert Sarah DAL PROFONDO DEL NOSTRO CUORE A cura di nIcolaS dIat Traduzione di daVIde RISeRBato

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  • Benedetto XVI RoBeRt SaRah

    DAL PROFONDO DEL NOSTRO CUORE

  • Benedetto XVI Robert Sarah

    DAL PROFONDO DEL NOSTRO CUORE

    A cura dinIcolaS dIat

    Traduzione didaVIde RISeRBato

  • Titolo originale: Des profondeurs de nos cœursby Benoît XVI and Cardinal Robert Sarah© Librairie Arthème Fayard, 2020

    © 2020 Edizioni Cantagalli S.r.l. – Siena

    Grafica di copertina: Rinaldo Maria Chiesa

    Stampato da Edizioni Cantagalli nel gennaio 2020

    ISBN: 978-88-6879-871-0

  • A tutti i sacerdoti

  • «Avere una fede chiara, secondo il Credo della Chiesa, viene spesso etichettato come fondamentalismo. Mentre il relativismo, cioè il lasciarsi portare “qua e là da qualsiasi vento di dottrina”, appare come l’unico atteggiamento all’altezza dei tempi odierni. Si va costituendo una ditta-tura del relativismo che non ricono-sce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie»

    J. RatzIngeR, Omelia pronunciata nella Missa pro eligendo Romano Pon-tefice, 18 aprile 2005

    «Ogni attività deve essere precedu-ta da un’intensa vita di preghiera, di contemplazione, di ricerca e di ascol-to della volontà di Dio»

    R. SaRah, La forza del silenzio. Contro la dittatura del rumore, Cantagalli, Sie-na 2017, p. 35

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    Nota del curatore

    «Dobbiamo meditare su queste riflessioni di un uomo che si avvicina al termine della propria vita. In questa ora cruciale, non si decide di intervenire con leggerezza»

    caRdInale RoBeRt SaRah

    Dal profondo del nostro cuore è il titolo molto sempli-ce e commovente che il Papa emerito Benedetto XVI e il Cardinale Robert Sarah hanno scelto per il libro che pubblicano insieme.

    Le parole di Benedetto XVI sono rare. Nel marzo 2013, il Papa emerito ha deciso di ritirarsi in un mo-nastero nei Giardini Vaticani. Ha voluto dedicare gli ultimi anni della propria vita alla preghiera, alla medi-tazione e allo studio. Il silenzio diventava così lo scri-gno prezioso di un’esistenza lontana dal frastuono e dalla violenza del mondo. Assai di rado, finora, Bene-detto XVI ha accettato di intervenire per esprimere il proprio pensiero su argomenti importanti per la vita della Chiesa.

    Il testo qui offerto è, dunque, qualcosa di eccezio-nale. Non si tratta di un articolo o di appunti raccolti

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    nel corso del tempo, ma di una riflessione magistra-le, insieme lectio e disputatio. La volontà di Benedetto XVI è chiaramente espressa nella sua Introduzione: «Di fronte alla persistente crisi che il sacerdozio attraversa da molti anni, ho ritenuto necessario risalire alle radici profonde della questione».

    I lettori più avvertiti non esiteranno a riconoscere lo stile, la logica e la straordinaria pedagogia dell’Au-tore della trilogia dedicata a Gesù di Nazareth. Il det-tato è ben strutturato, i riferimenti abbondanti e il procedere argomentativo finemente cesellato.

    Per quale ragione il Papa emerito ha desiderato col-laborare con il Cardinale Sarah? I due sono molto ami-ci e intrattengono una regolare corrispondenza per condividere punti di vista, speranze e preoccupazioni.

    Nell’ottobre 2019, il Sinodo per l’Amazzonia, un’as-semblea di vescovi, religiosi e missionari, dedicato al futuro di questa immensa regione, ha rappresentato in seno alla Chiesa un’occasione di riflessione, nella quale è stato variamente messo a tema l’avvenire del sacerdozio cattolico. Da parte loro, Benedetto XVI e il Cardinale Sarah avevano iniziato a scambiarsi scritti, pensieri e proposte già sul finire dell’estate, per incon-trarsi poi allo scopo di conferire la maggior chiarezza possibile alle pagine che ora seguiranno.

    Personalmente, sono stato il testimone privilegia-to, incantato, di questo loro dialogo. Li ringrazio in-

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    finitamente per l’onore di essere il curatore di questo volume.

    Il testo di Benedetto XVI s’intitola molto sobria-mente: Il sacerdozio cattolico. Il Papa emerito precisa da subito la sua impostazione: «Alle radici della grave situazione in cui versa oggi il sacerdozio, si trova un difetto metodologico nell’accoglienza della Scrittura come Parola di Dio». L’affermazione è severa, inquie-tante, quasi incredibile.

    Benedetto XVI non ha voluto affrontare da solo una questione così delicata. La collaborazione del Cardinale Sarah gli è parsa naturale e importante. Il Papa emerito conosce la profonda spiritualità del Car-dinale, il suo spirito orante, la sua saggezza. Si fida di lui. Nella Prefazione a La forza del silenzio, durante la Settimana Santa 2017, Benedetto XVI scriveva: «Il Cardinale Sarah è un maestro dello spirito che parla a partire dal profondo rimanere in silenzio insieme al Signore, a partire dalla profonda unità con lui, e così ha veramente qualcosa da dire a ognuno di noi. Dob-biamo essere grati a Papa Francesco di avere posto un tale maestro dello spirito alla testa della Congregazio-ne che è responsabile della celebrazione della Liturgia nella Chiesa»1.

    1 Benedetto XVI, Prefazione a R. SaRah, La forza del silenzio. Contro la dittatura del rumore, Cantagalli, Siena 2017, p. 11.

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    Da parte sua, il Cardinale Sarah ammira la produ-zione teologica di Benedetto XVI, la potenza della sua riflessione, la sua umiltà e la sua carità.

    L’intento degli Autori è perfettamente restituito in questa affermazione tratta dalla comune Introduzio-ne al volume: «La vicinanza delle nostre preoccupa-zioni e la convergenza delle nostre conclusioni han-no fatto sì che prendessimo la decisione di mettere a disposizione di tutti i fedeli il frutto del nostro lavo-ro e della nostra amicizia spirituale, sull’esempio di sant’Agostino».

    Il quadro è semplice. Due vescovi hanno voluto riflettere. Due vescovi hanno voluto rendere pubbli-co il frutto della loro eminente ricerca. Il testo di Be-nedetto XVI è di grande finezza teologica. Quello del Cardinale Sarah possiede un’indubitabile forza cate-chetica. Gli argomenti si incrociano, le affermazioni si completano, le intelligenze sono reciprocamente stimolate.

    Al suo scritto il Cardinale Sarah ha assegnato come titolo: Amare fino alla fine. Sguardo ecclesiologico e pasto-rale sul celibato sacerdotale. Ritroviamo in esso il corag-gio, la radicalità e la mistica che rendono incandescen-ti tutti i suoi libri.

    Benedetto XVI e il Cardinale Sarah hanno voluto aprire e chiudere questo libro con due testi composti a quattro mani. Nella loro Conclusione scrivono: «È ur-gente, necessario, che tutti, vescovi, sacerdoti e laici, non si facciano più impressionare dai cattivi consiglie-

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    ri, dalle teatrali messe in scena, dalle diaboliche men-zogne, dagli errori alla moda che mirano a svalutare il celibato sacerdotale».

    Evidentemente, il Papa emerito e il Cardinale Sa-rah non hanno affatto voluto nascondere la propria inquietudine. Conoscono, però, fin troppo bene sant’Agostino, al quale fanno spesso riferimento, per non sapere che l’amore ha sempre l’ultima parola.

    Il motto episcopale del Cardinale Joseph Ratzinger era: Ut cooperatores simus veritatis, «Noi dobbiamo per-ciò accogliere in questo modo, per essere collaborato-ri della verità» (3Gv 8). In questo saggio, all’età di no-vantadue anni, ha voluto disporsi ancora una volta al servizio della verità. Il motto episcopale del Cardinale Robert Sarah, scelto quando era giovane arcivescovo di Conakry, capitale della Guinea, recita invece: Suffi-cit tibi gratia mea, «Ti basta la mia grazia»; ed è tratto dalla Seconda Lettera ai Corinzi, nella quale l’Apostolo Paolo descrive i suoi dubbi, teme di non essere in gra-do di trasmettere efficacemente l’insegnamento del Vangelo. Dio, però, gli risponde così: «Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza» (2Cor 12,9).

    Vorrei concludere questo pensiero con due cita-zioni che sento oggi risuonare con forza. La prima è tratta dall’omelia di Benedetto XVI per la Messa di Pentecoste del 31 maggio 2009: «Come esiste un in-quinamento atmosferico, che avvelena l’ambiente e

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    gli esseri viventi, così esiste un inquinamento del cuo-re e dello spirito, che mortifica ed avvelena l’esistenza spirituale». La seconda è tratta da Il portico del mistero della seconda virtù di Charles Péguy: «Quello che mi stupisce, dice Dio, è la speranza. Non me ne capaci-to. Questa piccola speranza che ha l’aria di non essere nulla. Questa bambina speranza»2.

    Ricercando nel profondo del loro cuore, Benedet-to XVI e il Cardinale Robert Sarah hanno voluto al-lontanare questo inquinamento e aprire le porte alla speranza.

    Nicolas Diat

    Roma, 6 dicembre 2019

    2 ch. Péguy, Il portico del mistero della seconda virtù, in Id., I misteri, Jaca Book, Milano 20075, p. 165.

  • PERCHÉ AVETE PAURA?Introduzione degli Autori

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    In una celebre lettera indirizzata al vescovo dona-tista Massimino, sant’Agostino annuncia il proposito di pubblicare la loro corrispondenza. «Che potrò fare, fratello – chiede –, se non leggere al popolo cattolico le nostre lettere […], perché possa essere più istrui-to?»3. Così, abbiamo deciso di seguire l’esempio del vescovo di Ippona.

    Ci siamo incontrati in questi ultimi mesi, mentre il mondo rimbombava del frastuono provocato da uno strano sinodo dei media che aveva preso il sopravven-to sul Sinodo reale. Ci siamo confidati le nostre idee e le nostre preoccupazioni. Abbiamo pregato e me-ditato in silenzio. Ogni nostro incontro ci ha recipro-camente confortati e pacificati. Sviluppate attraverso sentieri differenti, le nostre riflessioni ci hanno quindi portato a scambiarci alcune lettere. La prossimità del-le nostre preoccupazioni e la convergenza delle nostre conclusioni hanno fatto sì che, sull’esempio di sant’A-gostino, prendessimo la decisione di mettere a dispo-sizione di tutti i fedeli il frutto del nostro lavoro e della nostra amicizia spirituale.

    3 Sant’agoStIno, Epistola 23,6.

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    Anche noi, come lui, possiamo dire: «Silere non possum! Non posso tacere! […]. So quanto mi sareb-be pernicioso il silenzio! Non penso, infatti, di passa-re il tempo nelle cariche ecclesiastiche soddisfacendo la mia vanità, penso invece che, delle pecore che mi sono state affidate, renderò conto al principe di tutti i Pastori»4.

    In quanto vescovi, portiamo in noi la sollecitudine verso tutte le Chiese. Con un grande desiderio di pace e unità, offriamo dunque a tutti i nostri fratelli vesco-vi, sacerdoti e fedeli laici di tutto il mondo il frutto dei nostri colloqui.

    Lo facciamo con uno spirito d’amore per l’unità della Chiesa. Se l’ideologia divide, la verità unisce i cuori. Interrogare la dottrina della salvezza non può che unire la Chiesa attorno al proprio divino Maestro.

    Lo facciamo con uno spirito di carità. Ci è parso utile e necessario pubblicare questo lavoro in un mo-mento in cui gli animi sembrano essersi placati. Cia-scuno potrà completarlo o criticarlo. La ricerca della verità non può compiersi se non a cuore aperto.

    Presentiamo, quindi, fraternamente queste rifles-sioni al popolo di Dio e, naturalmente, in atteggia-mento di filiale obbedienza, a Papa Francesco.

    Abbiamo pensato in particolare ai sacerdoti. Il nostro cuore sacerdotale ha voluto confortarli, inco-raggiarli. Insieme a tutti i sacerdoti, noi preghiamo:

    4 Ibidem, 23,7.

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    Signore, salvaci! Periamo! Il Signore dorme mentre infuria la tempesta. Sembra abbandonarci ai flutti del dubbio e dell’errore. Siamo tentati di arrenderci alla disperazione. I flutti del relativismo sommergono da ogni lato la barca della Chiesa. Gli Apostoli hanno avuto paura. La loro fede si è raffreddata. Anche la Chiesa talvolta sembra vacillare. Nel cuore della tem-pesta, la fiducia degli Apostoli nella potenza di Gesù sembra venire meno. Viviamo anche noi questo mi-stero. Sentiamo, tuttavia, di trovarci in una pace pro-fonda, perché sappiamo che colui che governa la bar-ca è Gesù. Siamo consapevoli che essa non potrà mai affondare, che essa soltanto potrà condurci al porto della salvezza eterna.

    Sappiamo che Gesù è qui, con noi, nella barca. A lui vogliamo rinnovare la nostra fiducia e la nostra fe-deltà assoluta, piena, indivisa. A lui vogliamo ripetere questo grande “sì” che abbiamo pronunciato il gior-no della nostra ordinazione. È questo “sì” totale che il nostro celibato sacerdotale ci fa vivere ogni giorno. Il nostro celibato, infatti, è una proclamazione di fede. È una testimonianza, perché ci fa entrare in una vita che non ha senso se non a partire da Dio. Il nostro celibato è testimonianza, ossia martirio. Il vocabolo greco esprime entrambe le accezioni. Nella tempesta, noi sacerdoti, dobbiamo riaffermare di essere pronti a perdere la vita per Cristo. Questa testimonianza la offriamo giorno dopo giorno in virtù del celibato per il quale spendiamo la nostra vita.

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    Gesù nella barca dorme. E se vince l’esitazione, se abbiamo paura di riporre in lui la nostra fiducia, se il celibato ci fa arretrare, cerchiamo di ascoltare il suo ammonimento: «Perché avete paura, uomini di poca fede?» (Mt 8,26).

    Benedetto XVIRobert Cardinale Sarah

    Città del Vaticano, settembre 2019

  • I

    Il sacerdozio cattolico

    Benedetto XVI

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    Di fronte alla persistente crisi che il sacerdozio at-traversa da molti anni, ho ritenuto necessario risalire alle radici profonde della questione. Avevo intrapreso un lavoro di riflessione teologica, ma l’età e una certa stanchezza mi avevano costretto ad abbandonarlo. I colloqui con il Cardinale Robert Sarah mi hanno dato la forza di riprenderlo e di portarlo a termine.

    Alle radici della grave situazione in cui versa oggi il sacerdozio, si trova un difetto metodologico nell’ac-coglienza della Scrittura come Parola di Dio.

    L’abbandono dell’interpretazione cristologica dell’Antico Testamento ha portato molti esegeti con-temporanei a una teologia senza il culto. Non hanno compreso che Gesù, al posto di abolire il culto e l’a-dorazione dovuti a Dio, li ha assunti e portati a com-pimento nell’atto d’amore del suo sacrificio. Alcuni sono giunti persino a rifiutare la necessità di un sacer-dozio autenticamente cultuale nella Nuova Alleanza.

    Nella prima parte del mio saggio, ho voluto mette-re in luce la struttura esegetica fondamentale che con-sente una corretta teologia del sacerdozio.

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    Nella seconda parte, applicando questa ermeneuti-ca allo studio di tre testi, ho esplicitato le esigenze del culto in spirito e verità. L’atto cultuale passa ormai attraverso un’offerta della totalità della propria vita nell’amore. Il sacerdozio di Gesù Cristo ci fa entrare in una vita che consiste nel diventare uno con lui e nel rinunciare a tutto ciò che appartiene solo a noi. Per i sacerdoti questo è il fondamento della necessità del celibato, come anche della preghiera liturgica, del-la meditazione della Parola di Dio e della rinuncia ai beni materiali.

    Ringrazio il caro Cardinale Sarah per avermi dato l’opportunità di assaporare nuovamente i testi della Parola di Dio che hanno guidato i miei passi tutti i giorni della mia vita.

    1. Il formarsi del sacerdozio neotestamentario nell’esegesi cristologico-pneumatologica

    Il movimento che si era formato intorno a Gesù di Nazaret – perlomeno nel periodo pre-pasquale – era un movimento di laici. In questo somigliava al movi-mento dei farisei, motivo per cui i primi contrasti de-scritti nei Vangeli fanno riferimento essenzialmente al movimento farisaico. Solo nell’ultima Pèsach [Pasqua] di Gesù a Gerusalemme l’aristocrazia sacerdotale del Tempio – i sadducei – si accorge di Gesù e del suo movimento, fatto questo che conduce al processo, alla condanna e all’esecuzione di Gesù. Il sacerdozio

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    era ereditario: chi non proveniva da una famiglia di sacerdoti non poteva neppure diventare sacerdote. Di conseguenza, neppure i ministeri nella comunità che andava costituendosi intorno a Gesù potevano appar-tenere all’ambito del sacerdozio veterotestamentario.

    Gettiamo un rapido sguardo sulle strutture mini-steriali essenziali della prima comunità di Gesù.

    Apostolo

    Nel mondo greco la parola «apostolo» rappresenta un terminus technicus del linguaggio politico-istituzio-nale5. Nel giudaismo precristiano la parola è utilizzata nel suo collegare funzione profana d’inviato, respon-sabilità di fronte a Dio e significato religioso. Essa in-dica in questo contesto anche l’inviato incaricato e autorizzato da Dio.

    Episkopos

    Nel greco profano indica funzioni alle quali sono associati compiti di tipo tecnico e finanziario, ma co-munque ha anche un contenuto religioso, in quanto sono perlopiù degli dèi a essere chiamati episkopos, vale a dire «patrono». «La Septuaginta utilizza il ter-

    5 Cfr. g. KIttel, F. geRhaRd (edd.), Theologisches Wörter-buch zum Neuen Testament, W. Kohlhammer, Stuttgart 1957-1979 (ristampa anastatica dell’edizione del 1933), I, p. 406.

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    mine episkopos nel medesimo duplice modo in cui è usato nella grecità pagana, come appellativo di Dio e nel più generico significato profano di “sorvegliante” in ambiti di vario tipo»6.

    Presbyteros

    Mentre tra i cristiani di origine pagana, per indicare i ministri, prevale il termine episkopos, la parola pre-sbyteros è caratteristica dell’ambito giudeo-cristiano. La tradizione ebraica del «più anziano» inteso come una sorta di organo costituzionale, a Gerusalemme con tutta evidenza andò presto sviluppandosi in una prima forma ministeriale cristiana. A partire da qui, nella Chiesa composta da giudei e pagani, andò svi-luppandosi quella triplice forma ministeriale di epi-scopi, presbiteri e diaconi, che alla fine del I secolo si rinviene – già chiaramente sviluppata – in Ignazio di Antiochia. Essa sino a oggi esprime validamente, dal punto di vista linguistico e ontologico, la struttura mi-nisteriale della Chiesa di Gesù Cristo.

    Da quanto sinora detto dobbiamo trarre una prima conclusione. Il carattere laicale del primo movimento di Gesù e il carattere dei primi ministeri inteso non in senso cultuale-sacerdotale non si basa affatto neces-sariamente su una scelta anti-cultuale e anti-giudaica, ma è invece conseguenza della particolare situazio-

    6 Ibidem, II, p. 610.

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    ne del sacerdozio veterotestamentario, per la quale il sacerdozio è legato alla tribù di Aronne-Levi. Ne-gli altri due «movimenti laicali» del tempo di Gesù, il rapporto con il sacerdozio è concepito diversamente: i farisei sembrano avere fondamentalmente vissuto in sintonia con la gerarchia del Tempio – a prescindere dalla disputa sulla risurrezione del corpo. Presso gli esseni, il movimento di Qumràn, la situazione è più complessa. In ogni caso, in una parte del movimen-to di Qumràn era marcato il contrasto con il Tempio erodiano e il sacerdozio a esso corrispondente, ma non per negare il sacerdozio, quanto invece proprio per ricostituirlo nella sua forma pura e corretta. An-che nel movimento di Gesù non si tratta affatto di «desacralizzazione», «de-legalizzazione» e rifiuto di sacerdozio e gerarchia. Di certo, però, viene ripresa la critica dei profeti al culto ed è messa in sorprendente unità con la tradizione del sacerdozio e del culto che dobbiamo tentare di comprendere. Nel mio libro In-troduzione allo spirito della liturgia7 ho esposto la linea critica dei profeti riguardo al culto ripresa da Stefano e che san Paolo collega con la nuova tradizione cultuale dell’Ultima cena di Gesù. Gesù stesso aveva ripreso e approvato la critica dei profeti al culto, soprattutto in rapporto alla disputa sulla giusta interpretazione dello Shabbat (cfr. Mt 12,7).

    7 J. RatzIngeR, Introduzione allo spirito della liturgia, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2001.

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    Consideriamo innanzitutto il rapporto di Gesù col Tempio quale espressione della speciale presenza di Dio in mezzo al suo popolo eletto e quale luogo di culto regolato da Mosè. L’episodio di Gesù dodicenne nel Tempio mostra che la sua famiglia era osservante e che egli ovviamente ha partecipato alla devozione della sua famiglia. Le parole dette alla madre «Devo occuparmi delle cose del Padre mio» (Lc 2,49) sono espressione della convinzione che il Tempio rappre-senti in modo speciale il luogo nel quale Dio abita e dunque il giusto luogo di permanenza per il Figlio. Anche nel breve periodo della sua vita pubblica, Gesù partecipa ai pellegrinaggi di Israele al Tempio, e dopo la sua risurrezione notoriamente la sua comunità si raduna di regola nel Tempio per l’insegnamento e la preghiera.

    E tuttavia, con la purificazione del Tempio, Gesù ha posto un accento fondamentalmente nuovo sul Tempio (Mc 11,15ss; Gv 2,13-22). L’interpretazione, secondo cui con quel gesto Gesù avrebbe solo com-battuto gli abusi, dunque confermando il Tempio, è insufficiente. In Giovanni troviamo delle parole che interpretano quell’azione di Gesù come prefigurazio-ne della distruzione della costruzione di pietra al cui posto comparirà il suo corpo quale nuovo Tempio. Questa interpretazione di Gesù, nei Sinottici, compa-re sulla bocca di testimoni mendaci nel racconto del processo (Mc 14,58). La versione dei testimoni è di-storta e dunque non utilizzabile ai fini dell’esito del

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    processo. Ma resta il fatto che Gesù ha pronunciato parole di questo tipo, l’espressione letterale delle quali peraltro non poté essere determinata in modo suffi-cientemente sicuro per il processo. La Chiesa nascen-te ha perciò a ragione assunto come autenticamente gesuana la versione giovannea. Questo significa che Gesù considera la distruzione del Tempio come con-seguenza dell’atteggiamento sbagliato della gerarchia sacerdotale dominante. Dio però qui – come in ogni punto di svolta della storia della salvezza – utilizza l’at-teggiamento sbagliato degli uomini come un modus del suo amore più grande. A questo livello evidente-mente Gesù considera in ultima analisi la distruzione del Tempio esistente come un passo del risanamento divino e la interpreta come definitiva nuova formazio-ne e impostazione del culto. In questo senso la purifi-cazione del Tempio è annuncio di una nuova forma di adorazione di Dio e perciò riguarda la natura del culto e del sacerdozio.

    Per comprendere quello che con il culto Gesù ha voluto e quello che non ha voluto è naturalmente de-cisiva l’Ultima cena, con l’offerta del corpo e del san-gue di Gesù Cristo. Non è questa la sede per entrare nella disputa poi sviluppatasi sulla giusta interpreta-zione di questo avvenimento e delle parole di Gesù. Importante è che Gesù, da un lato, riprende la tradi-zione del Sinai e si presenta così come il nuovo Mosè; dall’altro, però, egli riprende la speranza della Nuova Alleanza formulata in modo particolare da Geremia,

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    preannunciando così un superamento della tradizione del Sinai al centro del quale sta egli stesso quale sacri-ficante e sacrificato a un tempo. È importante consi-derare che quel Gesù che sta in mezzo ai discepoli è il medesimo che dona loro se stesso nella sua carne e nel suo sangue e così anticipa la Croce e la risurrezio-ne. Senza la risurrezione il tutto non avrebbe senso. La crocifissione di Gesù in sé non è un atto di culto e i soldati romani che la eseguono non sono dei sacer-doti. Essi compiono un’esecuzione, ma non pensano neanche lontanamente di porre un atto di culto. Il fat-to che Gesù doni per sempre se stesso come cibo nella sala dell’Ultima cena significa l’anticipazione della sua morte e della sua risurrezione e la trasformazione di un atto di crudeltà umana in un atto di donazione e di amore. Così Gesù stesso compie il fondamentale rinnovamento del culto che rimarrà per sempre vali-do e vincolante: egli trasforma il peccato degli uomini in un atto di perdono e di amore nel quale i futuri discepoli possono entrare con la loro partecipazione a ciò che Gesù ha istituito. In questo modo si compren-de anche quel che Agostino ha chiamato il passaggio, nella Chiesa, dalla Cena al sacrificio mattutino. La Cena è dono di Dio a noi nell’amore che perdona di Gesù Cristo e permette all’umanità di accogliere a sua volta il gesto dell’amore di Dio e di restituirlo a Dio.

    In tutto questo nulla è detto direttamente sul sacer-dozio. E tuttavia, comunque, è evidente che l’antico ordine di Aronne è superato e Gesù stesso si presenta

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    come il Sommo Sacerdote. È importante, inoltre, che in questo modo si fondono la critica del culto da parte dei profeti e la tradizione cultuale che parte da Mosè: l’amore è il sacrificio. Nel mio libro su Gesù8 ho espo-sto come questa nuova fondazione del culto e, con esso, del sacerdozio, in Paolo è già interamente com-piuta. È un’unità basilare, fondata sulla mediazione costituita dalla morte e risurrezione di Gesù, che era chiaramente condivisa anche dagli avversari dell’an-nuncio paolino.

    La distruzione delle mura del Tempio causata dall’uomo è assunta positivamente da Dio: non esi-stono più muri, Cristo risorto è invece divenuto per l’uomo lo spazio dell’adorazione di Dio. Così il crollo del Tempio erodiano significa anche questo: che nul-la di divisivo si frappone più tra lo spazio linguistico ed esistenziale della legislazione mosaica, da un lato, e quello del movimento raccoltosi intorno a Gesù, dall’altro. I ministeri cristiani (episkopos, presbyteros, diakonos) e quelli regolati dalla legge mosaica (som-mi sacerdoti, sacerdoti, leviti) ora stanno apertamente gli uni accanto agli altri e ora possono dunque, con una chiarezza nuova, essere anche identificati gli uni con gli altri. In effetti l’equiparazione terminologica si compie relativamente presto (episkopos = sommo

    8 Cfr. J. RatzIngeR, Gesù di Nazaret. Seconda Parte. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2011, pp. 49-52.

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    sacerdote, presbyteros = sacerdote, diakonos = levita). La rinveniamo in modo del tutto ovvio nelle catechesi sul battesimo di sant’Ambrogio, le quali però sicura-mente si rifanno a modelli e documenti più antichi, di cui san Clemente Romano è uno dei primi testimoni, verso il 96, nella sua Prima Lettera ai Corinzi: «Dobbia-mo fare con ordine tutto ciò che il Sovrano ci ha co-mandato di adempiere nei tempi stabiliti. Egli ci ha comandato che le offerte e le liturgie siano effettuate non a caso e disordinatamente, ma nei tempi e nel-le ore stabilite […]. Poiché al sommo sacerdote sono assegnate funzioni liturgiche proprie, e ai sacerdoti è attribuito un posto proprio; ai leviti spettano servizi propri e il laico è tenuto ai precetti che lo riguardano»9.

    Assistiamo qui all’interpretazione cristologica dell’Antico Testamento, che può essere chiamata an-che interpretazione pneumatologica e che rappresen-ta il modo in cui l’Antico Testamento poté divenire e rimanere la Bibbia dei cristiani. Se, da un lato, questa interpretazione cristologico-pneumatologica poté an-che essere detta «allegorica» da una prospettiva stori-co-letteraria, dall’altro, risulta comunque evidente la profonda novità e la chiara motivazione della nuova interpretazione cristiana dell’Antico Testamento: qui l’allegoria non rappresenta un espediente letterario per rendere il testo utilizzabile per nuovi scopi, ma

    9 clemente dI Roma, Lettera ai Corinzi, 40,1-5, a cura di B. Artioli, ESD, Bologna 2010, p. 177.

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    è espressione di un passaggio storico che corrisponde alla logica interna del testo.

    La Croce di Gesù Cristo è l’atto di amore radica-le nel quale si compie realmente la riconciliazione fra Dio e il mondo segnato dal peccato. Questa è la ra-gione per cui questo avvenimento, che di per sé non è in alcun modo di tipo cultuale, rappresenta invece la suprema adorazione di Dio. Nella Croce la linea «catabasica» della discesa di Dio e la linea «anabasica» dell’offerta dell’umanità a Dio divengono un unico atto che ha reso possibile il nuovo Tempio del suo corpo nella risurrezione. Nella celebrazione dell’Eu-caristia la Chiesa, anzi l’umanità, è sempre di nuovo attirata e coinvolta in questo processo. Nella Croce di Cristo la critica del culto da parte dei profeti giunge definitivamente al suo scopo. Allo stesso tempo però è istituito il nuovo culto. L’amore di Cristo sempre presente nell’Eucaristia è il nuovo atto di adorazione. Di conseguenza i ministeri sacerdotali di Israele sono «annullati» nel servizio dell’amore, che al contempo significa sempre adorazione di Dio. Questa nuova unità di amore e culto, di critica del culto e di glorifi-cazione di Dio nel servizio dell’amore, è certamente un compito inaudito affidato alla Chiesa che ogni ge-nerazione deve nuovamente adempiere.

    Il superamento pneumatico della «lettera» veterote-stamentaria nel servizio alla Nuova Alleanza richiede così sempre di nuovo un superamento della «lettera»

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    nello Spirito. Nel XVI secolo Lutero, sulla base di una lettura dell’Antico Testamento di tipo completamente diverso, non poté più compiere questo passaggio. Per questo egli interpretò il culto veterotestamentario e il sacerdozio a esso ordinato ormai solo come espres-sione della «Legge», che per lui non era parte della via di grazia di Dio, ma a essa si contrapponeva. Così egli non poté che vedere un contrasto radicale fra gli uf-fici ministeriali neotestamentari e il sacerdozio come tale. Con il Vaticano II tale questione è divenuta as-solutamente ineludibile anche per la Chiesa cattolica. L’«allegoria» come passaggio pneumatico dall’Antico al Nuovo Testamento era divenuta incomprensibile. E mentre il Decreto sul sacerdozio quasi non tratta la questione, essa dopo il Concilio ci ha investito con un’urgenza inaudita e si è trasformata nella perduran-te crisi del sacerdozio nella Chiesa.

    Due annotazioni personali potranno contribuire a illustrare quanto detto. Mi è rimasto impresso nel-la memoria come, nella sua conversione da luterano convinto a convinto cattolico, affrontò questa que-stione con la sua consueta passione un mio amico, il grande indologo Paul Hacker. Considerava i «sacerdo-ti» una realtà superata una volta per tutte nel Nuovo Testamento, e con appassionata indignazione si op-poneva innanzitutto al fatto che nella parola tedesca «Priester», che proviene dal termine greco presbyter, di fatto comunque continuasse a risuonare il significato

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    di sacerdos. Non so più come alla fine sia riuscito a ri-solvere la questione.

    Io stesso, in una conferenza sul sacerdozio della Chiesa tenuta subito dopo Concilio, ho creduto di do-ver presentare il presbitero neotestamentario come colui che medita la Parola e non come «artigiano del culto». Ora, la meditazione della Parola di Dio, in ef-fetti, è un compito grande e fondamentale del sacer-dote di Dio nella Nuova Alleanza. Ma questa Parola è divenuta carne e meditarla significa sempre anche far-si nutrire dalla carne che come pane del Cielo ci è do-nata nella Santissima Eucaristia. La meditazione della Parola nella Chiesa della Nuova Alleanza è anche un sempre nuovo abbandonarsi alla carne di Gesù Cristo e questo abbandonarsi è al contempo un esporsi alla trasformazione di noi stessi per mezzo della Croce.

    Su questo tornerò ancora in seguito. Fissiamo per il momento alcuni passaggi nel concreto sviluppo della storia della Chiesa. Un primo passo si vede nell’isti-tuzione di un nuovo ministero. Gli Atti degli Apostoli ci riferiscono del sovraccarico di lavoro degli Apostoli che, accanto al compito dell’annuncio e della preghie-ra della Chiesa, dovevano assumere al contempo la piena responsabilità della cura dei poveri. La conse-guenza fu che la parte ellenista della Chiesa nascente si sentì trascurata. Così gli Apostoli decisero di con-centrarsi completamente sulla preghiera e sul servi-zio alla Parola. Per i compiti caritativi essi crearono

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    il ministero dei Sette che più tardi si identificò con il diaconato. L’esempio di santo Stefano mostra come anche questo ministero, peraltro, non richiedeva sem-plicemente un puro lavoro pragmatico-caritativo ma anche Spirito e fede, e dunque capacità di servizio alla Parola.

    Un problema rimasto fino a oggi cruciale scaturì dal fatto che i nuovi ministeri non poggiavano sulla discendenza familiare, ma su elezione e vocazione. Mentre nel caso della gerarchia sacerdotale di Israele la continuità veniva assicurata da Dio stesso, perché in ultima analisi era lui a donare i figli ai genitori, i nuo-vi ministeri non poggiavano al contrario sull’apparte-nenza familiare ma su una vocazione donata da Dio e da riconoscere da parte dell’uomo. Per questo nella comunità neotestamentaria sin dall’inizio si pone il problema della vocazione: «Pregate dunque il padro-ne della messe che mandi operai nella sua messe!» (Mt 9,37). C’è sempre, in ogni generazione, la speranza e la preoccupazione della Chiesa di trovare dei chiama-ti. Sappiamo sin troppo bene quanto questo proprio oggi rappresenti la preoccupazione e il compito della Chiesa.

    C’è un’ulteriore questione direttamente legata a questo problema. Ben presto – non sappiamo esatta-mente quando, ma in ogni caso molto presto – andò sviluppandosi come essenziale per la Chiesa la cele-brazione regolare o addirittura quotidiana dell’Eu-

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    carestia. Il pane «supersostanziale» è al contempo il pane «quotidiano» della Chiesa. Questo, però, ebbe una conseguenza importante che proprio oggi assilla la Chiesa10.

    Nella coscienza comune di Israele era evidente che i sacerdoti avrebbero dovuto attenersi all’astinenza ses-suale nei periodi in cui esercitavano il culto e dunque stavano in contatto con il mistero divino. Il rapporto fra astinenza sessuale e culto divino era assolutamen-te chiaro nella coscienza comune di Israele. Come esempio, vorrei solo ricordare l’episodio nel quale David, in fuga da Saul, prega il sacerdote Achimele-ch di dargli del pane: «Il sacerdote rispose a Davide: “Non ho sottomano pani comuni, ho solo pani sacri: se i tuoi giovani si sono almeno astenuti dalle donne, potete mangiarne”. Rispose Davide al sacerdote: “Ma certo! Dalle donne ci siamo astenuti da tre giorni”» (1Sam 21,5s). Visto che i sacerdoti veterotestamentari dovevano dedicarsi al culto solo in determinati perio-

    10 Sul significato del termine epioúsios (supersubstantialis) cfr. e. noRdhoFen, Was für ein Brot? [Che tipo di pane?], «Inter-nationale Katholische Zeitschrift Communio» 46 (2017) 1, pp. 3-22; g. neuhauS, Möglichkeit und Grenzen einer Gottespräsenz im menschlichen «Fleisch». Anmerkungen zu Eckhard Nordhofens Relek-türe der vierten Vaterunser-Bitte [Possibilità e limiti di una presen-za divina nella «carne» dell’uomo. Considerazioni sulla rilettura di Eckard Nordhofen sulla quarta richiesta del Padre Nostro], ibidem, pp. 23-32.

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    di, matrimonio e sacerdozio risultavano senz’altro tra loro conciliabili.

    A causa della celebrazione eucaristica regolare, o in molti casi giornaliera, per i sacerdoti della Chiesa di Gesù Cristo la situazione era radicalmente cambiata. Tutta la loro vita è in contatto con il mistero divino ed esige così un’esclusività per Dio la quale esclude un altro legame accanto a sé, come il matrimonio, che abbraccia l’intera vita. Sulla base della celebrazione giornaliera dell’Eucaristia, e sulla base del servizio per Dio che essa includeva, scaturì da sé l’impossibilità di un legame matrimoniale. Si potrebbe dire che l’asti-nenza funzionale si era trasformata da sé in un’asti-nenza ontologica. In questo modo la sua motivazione e il suo senso erano mutati dall’interno e in profon-dità. Oggi invece si muove subito l’obiezione che si tratterebbe di un giudizio negativo della corporeità e della sessualità. L’accusa che alla base del celibato sacerdotale ci sarebbe un’immagine del mondo ma-nichea veniva mossa già nel IV secolo, ma fu subito respinta con decisione dai Padri e allora per qualche tempo cessò. Una diagnosi di questo tipo è errata già solo per il fatto che, sin da principio, nella Chiesa il matrimonio era considerato un dono dato nel para-diso da Dio. Ma esso assorbiva l’uomo nella sua inte-rezza e il servizio per il Signore richiedeva parimenti l’uomo interamente, cosicché ambedue le vocazioni non sembrarono realizzabili insieme. Così la capacità di rinunciare al matrimonio per essere totalmente a

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    disposizione del Signore è divenuto un criterio per il ministero sacerdotale.

    Riguardo alla forma concreta di celibato nella Chiesa antica, va ancora rilevato che i sacerdoti spo-sati potevano ricevere il sacramento dell’Ordine se si fossero impegnati all’astinenza sessuale, dunque a contrarre il cosiddetto «matrimonio di san Giuseppe». Questo nei primi secoli sembra essere stato assoluta-mente normale. Evidentemente sussisteva un nume-ro sufficiente di persone che trovavano ragionevole e vivibile un simile modo di vivere nel comune donarsi al Signore11.

    Tre testi per chiarire la nozione cristiana di sacerdozio

    A conclusione di queste riflessioni vorrei interpre-tare tre passi scritturistici nei quali emerge con chia-rezza il passaggio dalle pietre al corpo, e dunque la profonda unità fra i due Testamenti, che tuttavia non rappresenta semplicemente un’unità meccanica ma un progredire nel quale l’intenzione profonda delle

    11 Ampie informazioni sulla storia del celibato nei primi secoli si trovano in: S. heId, Zölibat in der frühen Kirche. Die Anfänge einer Enthaltsamkeitspflicht für Kleriker in Ost und West [Il celibato nella Chiesa primitiva. L’inizio dell’obbligo dell’astinenza per i membri del clero in Oriente e in Occidente], Ferdinand Schöningh, Paderborn 1997.

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    parole iniziali si compie proprio attraverso il passag-gio dalla “lettera” allo Spirito.

    Salmo 16,5-6: le parole per l’accettazione nello stato clericale prima del Concilio

    Vorrei in primo luogo interpretare le parole del Salmo 16,5-6 che prima del Concilio Vaticano II erano utilizzate per l’accettazione nel clero. Erano recitate dal vescovo e poi ripetute dal candidato, che così ve-niva accolto nel clero della Chiesa: «Dominus pars he-reditatis meae et calicis mei tu es qui restitues hereditatem meam mihi». «Il Signore è mia parte di eredità e mio calice: nelle tue mani è la mia vita. Per me la sorte è caduta su luoghi deliziosi: la mia eredità è stupenda» (Sal 16,5-6). In effetti il Salmo esprime esattamente, per l’Antico Testamento, quello che ora vuol dire nel-la Chiesa: accettazione nella comunità sacerdotale. Il passo si riferisce al fatto che tutte le tribù d’Israe-le, ogni singola famiglia, rappresentava l’eredità del-la promessa di Dio ad Abramo. Questo si esprimeva concretamente nel fatto che ogni famiglia otteneva in eredità una porzione della Terra promessa come sua proprietà. Il possesso di una porzione di Terra san-ta dava a ogni singolo la certezza di essere partecipe della promessa e in pratica significava il suo concreto sostentamento. Ognuno doveva ottenere tanta terra quanta gliene occorreva per vivere. Quanto impor-tante fosse per il singolo questa concreta eredità si evince chiaramente dalla storia di Nabot (1Re 21,1-29)

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    che non è assolutamente disposto a cedere al re Acab la sua vigna, nonostante che quest’ultimo sia pronto a risarcirlo pienamente. La vigna, per Nabot, è più di un prezioso appezzamento di terra: è la sua parteci-pazione alla promessa di Dio a Israele. Se, da un lato, ogni israelita disponeva in questo modo del terreno che gli assicurava il necessario per vivere, dall’altro, la particolarità della tribù di Levi risiede nel fatto che era l’unica tribù che non ereditava terreni. Il levita restava privo di terra e dunque privo di un’immediata base di sostentamento in termini di terra. Egli vive soltanto di Dio e per Dio. Concretamente questo significa che egli può vivere, in un modo regolato con precisione, delle offerte sacrificali che Israele riserva a Dio.

    Questa figura veterotestamentaria si realizza nei sacerdoti della Chiesa in modo nuovo e più profon-do: essi devono vivere soltanto di Dio e per lui. Che cosa questo concretamente significhi è chiaramente detto soprattutto in Paolo. Egli vive di quello che gli daranno gli uomini, perché egli dona loro la Parola di Dio che è il nostro autentico pane, la nostra vera vita. Di fatto, in questa trasformazione neotestamentaria dell’essere privi di terra dei leviti, traspare la rinuncia al matrimonio e alla famiglia che consegue dal radica-le essere per Dio. La Chiesa ha interpretato la parola «clero» (comunione ereditaria) in questo senso. Entra-re a far parte del clero significa rinunciare a un proprio centro di vita e accettare soltanto Dio come sostegno e garante della propria vita.

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    Il vero fondamento della vita del sacerdote, il suolo della sua esistenza, la terra della sua vita, è Dio stes-so. Il celibato, in vigore per i vescovi in tutta la Chiesa d’Oriente e d’Occidente e, secondo una tradizione che risale a un’epoca vicina a quella apostolica, per tutti i sa-cerdoti nella Chiesa latina, in definitiva non può essere compreso e vissuto se non su questo fondamento.

    Avevo a lungo riflettuto su questa idea in occasione degli Esercizi che avevo predicato a Giovanni Paolo II e alla Curia romana all’inizio della Quaresima 1983: «Per questo non occorre più fare grandi trasposizio-ni nella nostra propria spiritualità. Parti fondamentali del sacerdozio sono così qualcosa come l’essere espo-sto del levita, la mancanza di una terra, l’essere proiet-tato-in-Dio. Il racconto della vocazione di Luca 5,1-11 […] si conclude non senza ragione con le parole: “Essi lasciarono tutto e lo seguirono” (v. 11). Senza un tale abbandono delle proprie cose non c’è Sacerdozio. La chiamata alla sequela non è possibile senza questo se-gno di libertà e di rinuncia di qualsiasi compromesso. Credo che da questo punto di vista il celibato acquisti il suo grande significato come abbandono di un futuro paese terreno e di un proprio ambito di vita familiare, e che anzi diventi proprio indispensabile affinché pos-sa rimanere fondamentale il venir consegnato a Dio e acquistare la sua concretezza. Questo significa ben s’intende che il celibato impone le sue esigenze riguar-do a tutte le forme d’impostazione della vita. Non può raggiungere il suo pieno significato, se noi per il resto seguiamo le regole della proprietà e del gioco della

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    vita oggi comunemente accettata. Non può soprattut-to avere stabilità, se noi non facciamo del nostro am-bientarci presso Dio il centro della nostra vita.

    Il Salmo 16, quanto il Salmo 119, è un vigoroso ac-cenno alla necessità della continua dimestichezza meditativa con la parola di Dio, che solamente così può divenire per noi domicilio. L’aspetto comunita-rio, ad esso necessariamente congiunto, della pietà liturgica emerge là dove il Salmo 16 parla del Signore come “mio calice” (v. 5). Secondo il linguaggio abitua-le dell’Antico Testamento questo accenno si riferisce al calice festivo che veniva fatto passare di mano in mano nella cena cultuale, o al calice fatale, al calice dell’ira o della salvezza. L’orante sacerdotale del Nuo-vo Testamento vi può trovare indicato in modo par-ticolare quel calice, mediante il quale il Signore nel senso più profondo è diventato la nostra terra, il Cali-ce Eucaristico, nel quale egli partecipa se stesso come nostra vita. La vita sacerdotale alla presenza di Dio è così concretizzata nella vita in virtù del mistero euca-ristico. Nel senso più profondo l’Eucaristia è la terra, che è diventata nostra porzione e della quale possia-mo dire: “Per me la sorte è caduta su luoghi deliziosi; sì, la mia eredità è magnifica!”»12.

    È sempre vivo nella mia memoria il ricordo di quan-do, meditando questo versetto del Salmo 16 alla vigilia

    12 J. RatzIngeR, Il cammino pasquale, Àncora, Milano 20064, pp. 157-158.

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    della mia tonsura, compresi cosa il Signore volesse da me in quel momento: voleva egli stesso disporre inte-ramente della mia vita e in questo modo al contempo affidarsi interamente a me. Così potei considerare le parole del Salmo interamente come il mio destino: «Il Signore è mia parte di eredità e mio calice: nelle tue mani è la mia vita. Per me la sorte è caduta su luoghi deliziosi: la mia eredità è stupenda» (Sal 16, 5).

    Deuteronomio 10,8 e 18,5-8. Le parole assunte nella II Preghiera eucaristica: il compito della tribù di Levi riletto cristologicamente e pneumatologicamente per i sacerdoti della Chiesa

    In secondo luogo, vorrei analizzare un passo trat-to dalla II Preghiera eucaristica della Liturgia romana successiva alla riforma del Vaticano II. Il testo del-la II Preghiera eucaristica è generalmente attribuito a sant’Ippolito († 235 circa); in ogni caso è molto antico. In essa troviamo le seguenti parole: «Domine, panem vitae et calicem salutis offerimus, gratias agentes quia nos dignos habuisti astare coram te et tibi ministrare». Questa frase non significa, come alcuni liturgisti vollero far-ci credere, lo stabilire che anche durante la Preghiera eucaristica i sacerdoti e i fedeli dovevano stare in pie-di e non inginocchiarsi13. La giusta comprensione di

    13 Mentre la traduzione tedesca ufficiale della II Preghiera eucaristica dice correttamente «vor dir zu stehen und dir zu die-nen» («a stare davanti a te e a te servire»), la traduzione italiana

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    questa frase si evince dal considerare che essa è tratta letteralmente da Dt 10,8 (di nuovo in Dt 18,5-8), dove descrive il compito cultuale essenziale della tribù di Levi: «In quel tempo il Signore prescelse la tribù di Levi per portare l’arca dell’alleanza del Signore, per stare davanti al Signore al suo servizio e per benedi-re nel nome di lui» (Dt 10,8). «Perché il Signore tuo Dio l’ha scelto fra tutte le tue tribù, affinché attenda al servizio del nome del Signore, lui e i suoi figli per sempre» (Dt 18,5).

    Queste parole, che nel Deuteronomio hanno il com-pito di definire l’essenza del servizio sacerdotale, sono poi state assunte nella Preghiera eucaristica della Chiesa di Gesù Cristo, della Nuova Alleanza, espri-mendo in tal modo la continuità e la novità del sacer-dozio. Quel che allora veniva detto della tribù di Levi e che spettava esclusivamente a essa, ora è applicato ai presbiteri e ai vescovi della Chiesa. Non si tratta – come forse si sarebbe portati ad affermare sulla base di una concezione ispirata alla Riforma – di una rica-duta dalla novità della comunità di Gesù Cristo, in un sacerdozio cultuale superato e da respingere; si tratta invece del nuovo passo della Nuova Alleanza, la quale assume e nel contempo trasforma l’Antico elevando-lo all’altezza di Gesù Cristo. Il sacerdozio non è più una faccenda di appartenenza familiare, ma è aperto

    semplifica il testo, omettendo l’immagine dello stare davanti a Dio, e dice: «Ti rendiamo grazie per averci ammessi alla tua pre-senza a compiere il servizio sacerdotale».

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    alla vastità dell’umanità. Non è più amministrazione del sacrificio nel Tempio, ma inclusione dell’umanità nell’amore di Gesù Cristo che abbraccia tutto il mon-do: culto e critica del culto, sacrificio liturgico e ser-vizio dell’amore al prossimo sono divenuti una cosa sola. Perciò questa frase («astare coram te et tibi mini-strare») non parla di un atteggiamento esteriore; essa, invece, quale punto più profondo di unità fra Antico e Nuovo Testamento, descrive la natura stessa del sa-cerdozio, che a sua volta non si riferisce a una deter-minata classe di persone, ma in ultima analisi rimanda al nostro stare tutti davanti a Dio.

    Ho cercato di interpretare questo testo in un’o-melia in San Pietro per il Giovedì Santo del 2008 che qui riprendo e riporto: «Allo stesso tempo, il Giove-dì Santo è per noi un’occasione per chiederci sempre di nuovo: A che cosa abbiamo detto “sì”? Che cosa è questo “essere sacerdote di Gesù Cristo”? Il Canone II del nostro Messale, che probabilmente fu redatto già alla fine del II secolo a Roma, descrive l’essenza del ministero sacerdotale con le parole con cui, nel Libro del Deuteronomio (18,5-7), veniva descritta l’essenza del sacerdozio veterotestamentario: “astare coram te et tibi ministrare”. Sono quindi due i compiti che definiscono l’essenza del ministero sacerdotale: in primo luogo lo “stare davanti al Signore”. Nel Libro del Deuteronomio ciò va letto nel contesto della disposizione preceden-te, secondo cui i sacerdoti non ricevevano alcuna por-zione di terreno nella Terra Santa – essi vivevano di

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    Dio e per Dio. Non attendevano ai soliti lavori neces-sari per il sostentamento della vita quotidiana. La loro professione era “stare davanti al Signore” – guardare a Lui, esserci per Lui. Così, in definitiva, la parola indi-cava una vita alla presenza di Dio e con ciò anche un ministero in rappresentanza degli altri. Come gli altri coltivavano la terra, della quale viveva anche il sacer-dote, così egli manteneva il mondo aperto verso Dio, doveva vivere con lo sguardo rivolto a Lui. Se questa parola ora si trova nel Canone della Messa immediata-mente dopo la consacrazione dei doni, dopo l’entrata del Signore nell’assemblea in preghiera, allora ciò in-dica per noi lo stare davanti al Signore presente, indi-ca cioè l’Eucaristia come centro della vita sacerdotale. Ma anche qui la portata va oltre. Nell’inno della Li-turgia delle Ore che durante la Quaresima introduce l’Ufficio delle Letture – l’Ufficio che una volta presso i monaci era recitato durante l’ora della veglia nottur-na davanti a Dio e per gli uomini – uno dei compiti della Quaresima è descritto con l’imperativo: “arctius perstemus in custodia” – stiamo di guardia in modo più intenso. Nella tradizione del monachesimo siriaco, i monaci erano qualificati come “coloro che stanno in piedi”; lo stare in piedi era l’espressione della vigilan-za. Ciò che qui era considerato compito dei monaci, possiamo con ragione vederlo anche come espressio-ne della missione sacerdotale e come giusta interpreta-zione della parola del Deuteronomio: il sacerdote deve essere uno che vigila. Deve stare in guardia di fronte alle potenze incalzanti del male. Deve tener sveglio il

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    mondo per Dio. Deve essere uno che sta in piedi: drit-to di fronte alle correnti del tempo. Dritto nella verità. Dritto nell’impegno per il bene. Lo stare davanti al Si-gnore deve essere sempre, nel più profondo, anche un farsi carico degli uomini presso il Signore che, a sua volta, si fa carico di tutti noi presso il Padre. E deve essere un farsi carico di Lui, di Cristo, della sua parola, della sua verità, del suo amore. Retto deve essere il sa-cerdote, impavido e disposto a incassare per il Signore anche oltraggi, come riferiscono gli Atti degli Apostoli: essi erano “lieti di essere stati oltraggiati per amore del nome di Gesù” (5,41).

    Passiamo ora alla seconda parola, che il Canone II riprende dal testo dell’Antico Testamento – “stare da-vanti a te e a te servire”. Il sacerdote deve essere una persona retta, vigilante, una persona che sta dritta. A tutto ciò si aggiunge poi il servire. Nel testo veterote-stamentario questa parola ha un significato essenzial-mente rituale: ai sacerdoti spettavano tutte le azioni di culto previste dalla Legge. Ma questo agire secondo il rito veniva poi classificato come servizio, come un in-carico di servizio, e così si spiega in quale spirito quel-le attività dovevano essere svolte. Con l’assunzione della parola “servire” nel Canone, questo significato liturgico del termine viene in un certo modo adottato – conformemente alla novità del culto cristiano. Ciò che il sacerdote fa in quel momento, nella celebrazio-ne dell’Eucaristia, è servire, compiere un servizio a Dio e un servizio agli uomini. Il culto che Cristo ha reso al Padre è stato il donarsi sino alla fine per gli

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    uomini. In questo culto, in questo servizio il sacerdote deve inserirsi. Così la parola “servire” comporta mol-te dimensioni. Certamente ne fa parte innanzitutto la retta celebrazione della Liturgia e dei Sacramenti in genere, compiuta con partecipazione interiore. Dob-biamo imparare a comprendere sempre di più la sacra Liturgia in tutta la sua essenza, sviluppare una viva familiarità con essa, cosicché diventi l’anima della no-stra vita quotidiana. È allora che celebriamo in modo giusto, allora emerge da sé l’ars celebrandi, l’arte del celebrare. In quest’arte non deve esserci niente di ar-tefatto. Deve diventare una cosa sola con l’arte del vivere rettamente. Se la Liturgia è un compito centra-le del sacerdote, ciò significa anche che la preghiera deve essere una realtà prioritaria da imparare sempre di nuovo e sempre più profondamente alla scuola di Cristo e dei santi di tutti i tempi. Poiché la Liturgia cri-stiana, per sua natura, è sempre anche annuncio, dob-biamo essere persone che con la Parola di Dio hanno familiarità, la amano e la vivono: solo allora potremo spiegarla in modo adeguato. “Servire il Signore” – il servizio sacerdotale significa proprio anche imparare a conoscere il Signore nella sua Parola e a farLo cono-scere a tutti coloro che Egli ci affida.

    Fanno parte del servire, infine, ancora due altri aspetti. Nessuno è così vicino al suo signore come il servo che ha accesso alla dimensione più privata della sua vita. In questo senso “servire” significa vicinan-za, richiede familiarità. Questa familiarità comporta anche un pericolo: quello che il sacro da noi conti-

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    nuamente incontrato divenga per noi abitudine. Si spegne così il timore riverenziale. Condizionati da tutte le abitudini, non percepiamo più il fatto gran-de, nuovo, sorprendente, che Egli stesso sia presente, ci parli, si doni a noi. Contro questa assuefazione alla realtà straordinaria, contro l’indifferenza del cuore dobbiamo lottare senza tregua, riconoscendo sempre di nuovo la nostra insufficienza e la grazia che vi è nel fatto che Egli si consegni così nelle nostre mani. Servire significa vicinanza, ma significa soprattutto anche obbedienza. Il servo sta sotto la parola: “Non sia fatta la mia, ma la tua volontà!” (Lc 22,42). Con questa parola, Gesù nell’Orto degli ulivi ha risolto la battaglia decisiva contro il peccato, contro la ribellio-ne del cuore caduto. Il peccato di Adamo consisteva, appunto, nel fatto che egli voleva realizzare la sua vo-lontà e non quella di Dio. La tentazione dell’umanità è sempre quella di voler essere totalmente autonoma, di seguire soltanto la propria volontà e di ritenere che solo così noi saremmo liberi; che solo grazie a una simile libertà senza limiti l’uomo sarebbe completa-mente uomo, diventerebbe divino. Ma proprio così ci poniamo contro la verità. Poiché la verità è che noi dobbiamo condividere la nostra libertà con gli altri e possiamo essere liberi soltanto in comunione con loro. Questa libertà condivisa può essere libertà vera solo se con essa entriamo in ciò che costituisce la mi-sura stessa della libertà, se entriamo nella volontà di Dio. Questa obbedienza fondamentale che fa parte dell’essere uomini, diventa ancora più concreta nel

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    sacerdote: noi non annunciamo noi stessi, ma Lui e la sua Parola, che non potevamo ideare da soli. Non inventiamo la Chiesa così come vorremmo che fos-se, ma annunciamo la Parola di Cristo in modo giusto solo nella comunione del suo Corpo. La nostra obbe-dienza è un credere con la Chiesa, un pensare e parla-re con la Chiesa, un servire con essa. Rientra in que-sto sempre anche ciò che Gesù ha predetto a Pietro: “Sarai portato dove non volevi”. Questo farsi guidare dove non vogliamo è una dimensione essenziale del nostro servire, ed è proprio ciò che ci rende liberi. In un tale essere guidati, che può essere contrario alle nostre idee e progetti, sperimentiamo la cosa nuova – la ricchezza dell’amore di Dio.

    “Stare davanti a Lui e servirLo”: Gesù Cristo come il vero Sommo Sacerdote del mondo ha conferito a queste parole una profondità prima inimmaginabile. Egli, che come Figlio era ed è il Signore, ha voluto diventare quel servo di Dio che la visione del Libro del profeta Isaia aveva previsto. Ha voluto essere il servo di tutti. Ha raffigurato l’insieme del suo som-mo sacerdozio nel gesto della lavanda dei piedi. Con il gesto dell’amore sino alla fine Egli lava i nostri piedi sporchi, con l’umiltà del suo servire ci purifica dalla malattia della nostra superbia. Così ci rende capaci di diventare commensali di Dio. Egli è disceso, e la vera ascesa dell’uomo si realizza ora nel nostro scendere con Lui e verso di Lui. La sua elevazione è la Croce. È la discesa più profonda e, come amore spinto sino alla fine, è al contempo il culmine dell’ascesa, la vera

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    “elevazione” dell’uomo. “Stare davanti a Lui e servir-Lo” – ciò significa ora entrare nella sua chiamata di servo di Dio. L’Eucaristia come presenza della discesa e dell’ascesa di Cristo rimanda così sempre, al di là di se stessa, ai molteplici modi del servizio dell’amore del prossimo. Chiediamo al Signore, in questo giorno, il dono di poter dire in tal senso nuovamente il nostro “sì” alla sua chiamata: “Eccomi. Manda me, Signore” (Is 6,8). Amen»14.

    Giovanni 17,17: la preghiera sacerdotale di Gesù, interpretazione dell’ordinazione sacerdotale

    Infine vorrei riflettere ancora un istante su alcune parole tratte dalla preghiera sacerdotale di Gesù (Gv 17), che alla vigilia della mia ordinazione sacerdotale si impressero particolarmente nel mio cuore. Mentre i Sinottici essenzialmente riportano la predicazione di Gesù in Galilea, Giovanni – che sembra aver avuto rapporti di parentela con l’aristocrazia del Tempio – riferisce soprattutto dell’annuncio di Gesù a Geru-salemme e delle questioni riguardanti il Tempio e il culto. In questo contesto la preghiera sacerdotale di Gesù (Gv 17) acquista un rilievo particolare.

    14 Benedetto XVI, Il sacerdote: uomo in piedi, dritto, vigilante, Omelia durante la messa crismale nella Basilica Vaticana di San Pietro, mattina del Giovedì Santo, 20 marzo 2008. Cfr. anche Insegnamenti di Benedetto XVI, IV, 1 (gennaio-giugno 2008), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2009, pp. 442-446.

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    Non intendo qui ripetere i singoli elementi che ho analizzato nel secondo tomo del mio libro su Gesù15. Vorrei solo limitarmi ai versetti 17 e 18 che mi col-pirono particolarmente alla vigilia della mia ordina-zione sacerdotale. Recitano così: «Consacrali [santifi-cali] nella verità. La tua parola è verità. Come tu hai mandato me nel mondo, anche io ho mandato loro nel mondo». Il termine «santo» esprime la particola-re natura di Dio. Lui solo è il Santo. L’uomo diventa santo nella misura in cui inizia a stare con Dio. Stare con Dio significa scardinamento del puro io e il suo di-venire una sola cosa con il tutto della volontà di Dio. Questa liberazione dall’io può tuttavia risultare molto dolorosa e non è mai compiuta una volta per tutte. Con il termine «santifica» può tuttavia essere intesa molto concretamente anche l’ordinazione sacerdo-tale che significa appunto la rivendicazione radicale dell’uomo da parte del Dio vivo per il suo servizio. Quando il testo dice «Consacrali [santificali] nella veri-tà», il Signore prega il Padre di includere i Dodici nella sua missione, di ordinarli sacerdoti.

    «Consacrali [santificali] nella verità». Sembra qui sommessamente indicato anche il rito dell’ordinazio-ne sacerdotale veterotestamentaria. L’ordinando ve-niva fisicamente purificato con un lavacro completo per fargli successivamente indossare le vesti sacre. Ambedue le cose prese insieme significano che, in questo modo, l’inviato deve diventare un uomo nuo-

    15 Cfr. J. RatzIngeR, Gesù di Nazaret, op. cit., pp. 91-118.

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    vo. Ma quel che nel rituale veterotestamentario è fi-gura simbolica, nella preghiera di Gesù diventa realtà. Il solo lavacro che può realmente purificare gli uomi-ni è la verità, è Cristo stesso. Ed egli è anche la veste nuova accennata nell’esteriore vestizione cultuale. «Consacrali [santificali] nella verità». Significa: immer-gili completamente in Gesù Cristo affinché valga per loro quel che Paolo ha indicato come l’esperienza fon-damentale del suo apostolato: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20).

    Così, alla sera di quella vigilia, si è impresso profon-damente nella mia anima che cosa significa davvero l’ordinazione sacerdotale al di là di ogni aspetto ce-rimoniale: significa essere sempre di nuovo purificati e pervasi da Cristo così che è Lui a parlare e agire in noi, e sempre meno noi stessi. E mi è divenuto chiaro che questo processo del divenire una cosa sola con lui e il superamento di ciò che è solo nostro dura tutta la vita e racchiude anche sempre dolorose liberazioni e rinnovamenti.

    In questo senso le parole di Gv 17,17 sono state un’indicazione di cammino in tutta la mia vita.

    Benedetto XVI

    Città del Vaticano, Monastero “Mater Ecclesiae”,17 settembre 2019

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    AMARE FINO ALLA FINE. SGUARDO ECCLESIOLOGICO E PASTORALE SUL CELIBATO

    SACERDOTALE

    Cardinale Robert Sarah

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    «Sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine» (Gv 13,1). Le parole dell’evangelista Giovanni introducono con so-lennità il grande «discorso sacerdotale» di Gesù dopo la Cena del Giovedì Santo. Esse esprimono molto bene la disposizione d’animo necessaria per ogni ri-flessione sul mistero del sacerdozio.

    Come accostare questo argomento senza tremare? È importante che dedichiamo del tempo ad aprire l’a-nima al soffio dello Spirito Santo. Il sacerdozio, per riprendere le parole del Santo Curato d’Ars, è l’amore del cuore di Gesù. Non dobbiamo trasformarlo in oc-casione di polemica, di lotta ideologica o di strategia politica. Non possiamo nemmeno ridurlo a una que-stione di pura disciplina o di organizzazione pastorale.

    Questi ultimi mesi, in occasione del Sinodo sull’A-mazzonia, abbiamo assistito a molta frettolosa eccita-zione. Il mio cuore di vescovo s’inquieta. Ho ricevuto molti sacerdoti disorientati, turbati e feriti nell’intimo della loro vita spirituale a causa delle violente conte-stazioni della dottrina della Chiesa. Oggi, voglio riba-dire loro: Non abbiate paura!

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    «Il sacerdote – ricordava Benedetto XVI – è un dono del Cuore di Cristo: un dono per la Chiesa e per il mondo. Dal Cuore del Figlio di Dio, traboccante di carità, scaturiscono tutti i beni della Chiesa, e in modo particolare trae origine la vocazione di quegli uomini che, conquistati dal Signore Gesù, lasciano tutto per dedicarsi interamente al servizio del popolo cristiano, sull’esempio del Buon Pastore»16.

    Cari fratelli sacerdoti, voglio parlarvi con il cuore in mano. Sembrate perduti, scoraggiati, sopraffatti dalla sofferenza. Una terribile sensazione di abbandono e solitudine stritola il vostro cuore. In un mondo insi-diato dall’incredulità e dall’indifferenza è inevitabile che l’apostolo soffra: il sacerdote che brucia di fede e di amore apostolico si accorge subito che il mondo in cui vive è come rovesciato. Tuttavia, il mistero che abita in voi è ancora in grado di trasmettervi la for-za per vivere in mezzo al mondo. E ogni volta che il servo dell’«unico necessario» si sforza di porre Dio al centro della propria vita, porta un po’ di luce nelle tenebre.

    Nel sacerdozio è in gioco la continuazione sacra-mentale dell’amore del Buon Pastore. Prendo, dun-que, la parola perché, da ogni parte nella Chiesa, con spirito di autentica sinodalità, si apra e si rinnovi una riflessione serena e orante sulla realtà spirituale del sa-cramento dell’Ordine. E supplico tutti e ciascuno: non

    16 Benedetto XVI, Angelus, 13 giugno 2010.

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    corriamo troppo! Non si possono cambiare le cose in pochi mesi. Se le nostre decisioni non si radicano in una continua e prolungata adorazione, non potranno avere altro futuro se non quello degli slogan e dei di-scorsi politici che, uno dopo l’altro, cadono nell’oblio.

    Il Papa emerito, Benedetto XVI, ci ha fatto dono di una straordinaria lectio divina, attraverso la quale egli risale alle sorgenti bibliche del mistero del sacerdozio. Per quanto mi riguarda, su questo sacramento vorrei molto umilmente gettare uno sguardo da pastore.

    La nostra riflessione pastorale non deve asservirsi alla sola attualità, né ridursi a un’analisi sociologica. È urgente nutrirla mediante la contemplazione e strut-turarla attraverso la teologia. Essa deve però risultare anche concreta. Ho notato, infatti, quanto spesso ci si accontenti di richiamare i princìpi teorici senza trarre da essi le conseguenze pratiche. Così, quando si acco-sta la teologia del sacerdozio, non è sufficiente richia-mare il valore del celibato. Occorre rilevarne altresì le conseguenze ecclesiologiche e pastorali concrete.

    Durante il Sinodo sull’Amazzonia, ho avuto occa-sione di ascoltare esperti e discutere con missionari ve-terani. Questi colloqui mi hanno confermato nell’idea che la possibilità di ordinare uomini sposati rappre-senterebbe una catastrofe pastorale, una confusione ecclesiologica e un arretramento nella comprensione del sacerdozio. Attorno a questi tre punti si articola la riflessione che vado ora a presentarvi.

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    Una catastrofe pastorale

    Il sacerdozio: un innesto ontologico nel «sì» di Cristo-Sacerdote

    Si potrebbe riassumere la meditazione del Papa emerito in questi termini: nella sua persona Gesù ci rivela la pienezza del sacerdozio. Egli conferisce pie-no senso a quanto era stato annunciato e prefigurato nell’Antico Testamento. Il nucleo di questa rivelazio-ne è semplice: il sacerdote non è soltanto colui che compie una funzione sacrificale. È invece colui che per amore offre se stesso in sacrificio sull’esempio di Cristo. Benedetto XVI ci ha così chiaramente e defi-nitivamente mostrato che il sacerdozio è uno «stato di vita»: «Il sacerdote viene sottratto alle connessioni del mondo e donato a Dio, e proprio così, a partire da Dio, deve essere disponibile per gli altri, per tutti»17. Il celibato sacerdotale è l’espressione della volontà di mettersi a disposizione del Signore e degli uomini.

    Papa Benedetto XVI dimostra che il celibato sacer-dotale non è un auspicabile «supplemento spirituale» nella vita del prete. Una vita sacerdotale coerente ri-chiede ontologicamente il celibato.

    Nel testo che precede queste righe, Benedetto XVI mostra che il passaggio dal sacerdozio dell’Antico Te-stamento a quello del Nuovo Testamento si traduce con il passaggio da un’«astinenza sessuale funzionale»

    17 Id., Omelia nella Santa Messa del Crisma, Giovedì Santo, 9 aprile 2009.

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    a un’«astinenza ontologica». Credo che mai un Papa abbia espresso con una tale forza la necessità del ce-libato sacerdotale. Dobbiamo meditare su queste ri-flessioni di un uomo che si avvicina al termine della propria vita. In questa ora cruciale, non si decide di intervenire con leggerezza. Benedetto XVI ci insegna ancora che il sacerdozio, dal momento che implica l’offerta del sacrificio della Messa, rende impossibile un vincolo matrimoniale. Vorrei sottolineare quest’ul-timo punto. Per il sacerdote la celebrazione dell’Euca-ristia non consiste soltanto nel compiere dei riti. La celebrazione della Messa suppone di entrare con tutto il proprio essere nella grande offerta di Cristo al Padre, nel grande «sì» di Gesù al Padre suo: «Nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc 23,46). Ora, il celibato «è un “sì” definitivo, è un lasciarsi prendere in mano da Dio, darsi nelle mani del Signore, nel suo “io” […]; è proprio il “sì” definitivo»18.

    Se riduciamo il celibato sacerdotale a una questio-ne di disciplina, di adattamento ai costumi e alle cultu-re, isoliamo il sacerdozio dal proprio fondamento. In questo senso, il celibato sacerdotale è necessario per la corretta comprensione del sacerdozio. «E di que-sto poi fa parte anche quel mettersi a disposizione del Signore veramente nella completezza del proprio es-sere e trovarsi quindi totalmente a disposizione degli uomini. Penso che il celibato sia un’espressione fon-

    18 Id., Colloquio con i sacerdoti, Veglia in occasione dell’incon-tro internazionale dei sacerdoti, 10 giugno 2010.

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    damentale di questa totalità»19, diceva Benedetto XVI al clero della Diocesi di Bolzano-Bressanone.

    Urgenza pastorale e missionaria del celibato sacerdotale

    In quanto vescovo, temo che il progetto di ordi-nare sacerdoti uomini sposati generi una catastrofe pastorale. Sarebbe una catastrofe per i fedeli presso i quali verrebbero inviati. Sarebbe una catastrofe per gli stessi sacerdoti.

    Come può una comunità cristiana comprendere il sacerdote se non è chiaro che egli è qualche cosa «tolta dalla sfera del comune, data a Lui»20? Come possono i cristiani comprendere che il sacerdote si dona loro se non si consegna interamente al Padre? Se non entra nella kenosi, nell’annientamento, nell’abbassamento di Gesù, «il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo» (Fil 2,6-7). Egli si è spogliato di ciò che era con un atto di libertà e di amore. L’abbassamento di Cristo fino alla Croce non è un semplice atteggiamen-to di obbedienza e di umiltà. È un atto di perdita di sé per amore, nel quale il Figlio si abbandona totalmente al Padre e all’umanità: questo è il fondamento del sa-

    19 Id., Incontro con il clero della Diocesi di Bressanone, mercole-dì 6 agosto 2008.

    20 Ibidem.

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    cerdozio di Cristo. Come può, dunque, un sacerdote custodire, conservare e rivendicare un diritto al vin-colo matrimoniale? Come può rifiutare di farsi servo insieme a Gesù-Sacerdote? Questa totale consegna di sé in Cristo è la condizione di un dono totale di sé a tutti gli uomini. Chi non si consegna totalmente a Dio non si dona perfettamente ai propri fratelli.

    Che visione potranno avere del sacerdote popola-zioni isolate e poco evangelizzate? Si vuole forse im-pedire loro di scoprire la pienezza del sacerdozio cri-stiano? All’inizio del 1976, da giovane sacerdote, sono stato in alcuni remoti villaggi della Guinea. Molti di essi non ricevevano la visita di un prete da circa dieci anni, perché i missionari europei erano stati espulsi nel 1967 da Sékou Touré. I cristiani, tuttavia, continuava-no a insegnare il catechismo ai bambini e a recitare le preghiere del mattino e il rosario. Manifestavano una grande devozione alla Vergine Maria, e si riunivano la domenica per ascoltare la Parola di Dio.

    Ho avuto la grazia di incontrare questi uomini e queste donne che custodivano la fede senza alcun so-stegno sacramentale per via dell’assenza di sacerdo-ti. Si nutrivano della Parola di Dio e alimentavano la vitalità della fede con la preghiera quotidiana. Non potrò mai dimenticare la loro gioia indicibile quan-do celebravo la Messa che per così tanto tempo non avevano potuto conoscere. Mi sia permesso affermare con certezza e vigore: credo che se in ogni villaggio fossero stati ordinati uomini sposati, si sarebbe spen-ta la fame eucaristica dei fedeli. Si sarebbe privato il

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    popolo di questa gioia di ricevere, nel sacerdote, un altro Cristo. Infatti, grazie al senso della fede, i poveri sanno che un prete che ha rinunciato al matrimonio fa loro dono di tutto il suo amore sponsale.

    Quante volte, camminando diverse ore per i villag-gi, con una valigetta per celebrazioni sulla testa, sot-to il sole a picco, ho personalmente sperimentato la gioia di donarsi per la Chiesa-Sposa. Attraversando le paludi su una canoa di fortuna, in mezzo alle lagune o superando pericolosi torrenti dai quali temevamo di essere travolti, ho percepito anche nel mio corpo la gioia di essere interamente donato a Dio, disponibile, consegnato al suo popolo.

    Come vorrei che tutti i miei confratelli spersi per il mondo possano un giorno fare l’esperienza dell’acco-glienza di un prete in un villaggio africano che ricono-sca in lui il Cristo-Sposo: che esplosione di gioia! Che festa! I canti, le danze, le effusioni, il cibo esprimono la gratitudine del popolo per questo dono di sé in Cristo.

    L’ordinazione di uomini sposati priverebbe le gio-vani Chiese, in corso di evangelizzazione, di questa esperienza della presenza e della visita di Cristo, con-segnato e donato nella persona del sacerdote celibata-rio. Il dramma pastorale sarebbe immenso. Esso com-porterebbe un impoverimento dell’evangelizzazione.

    Sono convinto che se molti preti e vescovi occi-dentali sono pronti a relativizzare la grandezza e l’im-portanza del celibato, è perché non hanno mai fatto l’esperienza concreta della riconoscenza di una comu-nità cristiana. Non parlo semplicemente in termini

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    umani. Credo che in questa riconoscenza risieda un’e-sperienza di fede. I poveri e i semplici sanno discerne-re con gli occhi della fede la presenza di Cristo-Sposo della Chiesa nel sacerdote celibatario. Tale esperienza spirituale è fondamentale nella vita di un prete. Essa guarisce per sempre da ogni forma di clericalismo. Lo so, perché l’ho sperimentato persino nella mia carne, che i cristiani vedono in me Cristo consegnato per loro, e non la mia limitata persona con le sue qualità e i suoi numerosi difetti.

    Senza questa esperienza, il celibato diventa un far-dello troppo gravoso da sopportare. Ho l’impressio-ne che per alcuni vescovi occidentali, o anche del Sud America, il celibato sia diventato pesante. Vi restano fedeli, ma non hanno il coraggio di imporlo ai futuri preti e alle comunità cristiane, perché ne sono insof-ferenti in prima persona. Li capisco. Chi potrebbe im-porre un peso agli altri senza amarne il senso profon-do? Non sarebbe forse questa una forma di farisaismo?

    Sono certo, tuttavia, che ci sia qui un errore di pro-spettiva. Se ben capito, il celibato sacerdotale, benché talvolta possa essere una prova, rappresenta una libe-razione. Consente al sacerdote di innestarsi coerente-mente nella propria identità di sposo della Chiesa.

    Il progetto che consiste nel privare le comunità e i sacerdoti di una tale gioia non è un’opera di miseri-cordia. Come figlio dell’Africa, non posso in coscienza sopportare l’idea che i popoli in corso di evangelizza-zione siano privati di questo incontro con un sacer-dozio pienamente vissuto. I popoli dell’Amazzonia

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    hanno il diritto a una piena esperienza di Cristo-Spo-so. Non è possibile proporre loro dei preti di «seconda classe».

    Al contrario, più una Chiesa è giovane, più essa ha bisogno dell’incontro con la radicalità del Vangelo. Quando san Paolo esorta le giovani comunità cristia-ne di Efeso, di Filippi e di Colossi, non li pone di fronte a un ideale inaccessibile, ma insegna loro tutte le esi-genze del Vangelo: «Camminate dunque nel Signore Gesù Cristo, come l’avete ricevuto, ben radicati e fon-dati in lui, saldi nella fede come vi è stato insegnato, abbondando nell’azione di grazie. Badate che nessuno vi inganni con la sua filosofia e con vuoti raggiri ispi-rati alla tradizione umana, secondo gli elementi del mondo e non secondo Cristo» (Col 2,6-8). In questo insegnamento non si trova né rigidità né intolleranza. La Parola di Dio esige una conversione radicale. Non sopporta i compromessi e le ambiguità. Essa è «effi-cace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio» (Eb 4,12). Sull’esempio dell’Apostolo dobbiamo predicare con chiarezza e dolcezza, senza rigidità polemica, né molle timidezza.

    Permettetemi di fare riferimento ancora una vol-ta alla mia esperienza personale. Ho trascorso la mia infanzia in un mondo che stava appena uscendo dal paganesimo. I miei genitori hanno conosciuto il cri-stianesimo soltanto da adulti. Mio padre è stato bat-tezzato due anni prima che nascessi. Mia nonna lo è stata in punto di morte. Ho dunque conosciuto molto bene l’animismo e la religione tradizionale. Conosco

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    la difficoltà dell’evangelizzazione, lo strappo doloro-so e le eroiche rotture che i neofiti devono affrontare in rapporto ai costumi, allo stile di vita e alle tradi-zioni pagane. Immagino ciò che sarebbe stata l’evan-gelizzazione del mio villaggio se fosse stato ordinato sacerdote un uomo sposato. Mi si spezza il cuore al solo pensiero. Che tristezza! Di certo oggi non sarei un sacerdote, perché ciò che mi ha affascinato è stata la radicalità della vita dei missionari.

    Come oseremmo privare i popoli della gioia di un tale incontro con Cristo? La considero una forma di disprezzo.

    L’opposizione tra «pastorale della visita» e «pasto-rale della presenza» è stata strumentalizzata ed esaspe-rata. La visita in una comunità da parte di un prete missionario proveniente da un paese lontano esprime la sollecitudine da parte della Chiesa universale. È l’immagine del Verbo che visita l’umanità. L’ordina-zione di un uomo sposato all’interno della comuni-tà esprimerebbe invece il movimento opposto: come se ciascuna comunità fosse tenuta a trovarsi da sola i mezzi di salvezza.

    Quando san Paolo, questo grande missionario, ci racconta delle sue visite presso le comunità dell’Asia Minore da lui stesso fondate, ci dà l’esempio di un apostolo che visita le comunità cristiane per donare loro conforto.

    La misericordia di Dio si incarna nella visita di Cri-sto. La riceviamo con gratitudine. Essa ci apre a tutta la famiglia ecclesiale. Temo che l’ordinazione di uo-

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    mini sposati responsabili di una comunità chiuda que-sta comunità su se stessa e la escluda dall’universalità della Chiesa. Come sarà possibile chiedere a un uomo sposato di cambiare comunità portando con sé moglie e figli? Come potrà vivere la libertà del servo pronto a donarsi a ogni uomo?

    Il sacerdozio è un dono che si accoglie, come è sta-ta accolta l’Incarnazione del Verbo. Non è un diritto, né un obbligo. Una comunità che si radichi nell’idea di un «diritto all’Eucaristia» non sarebbe più discepola di Cristo. Come il nome stesso indica, l’Eucaristia è un’azione di grazia, un dono gratuito e misericordio-so. La presenza eucaristica si riceve con gioia e stupo-re come un dono immeritato. Il fedele che la reclama come qualcosa di dovuto mostra di non essere in gra-do di comprenderla.

    Sono persuaso che le comunità cristiane dell’Amaz-zonia non entrino in prima persona in tale logica di rivendicazione eucaristica. Credo piuttosto che questi temi siano ossessioni la cui fonte è possibile rintrac-ciare negli ambienti teologici universitari. Abbiamo a che fare con ideologie sviluppate da alcuni teologi che vorrebbero utilizzare la difficoltà di popolazioni pove-re come un laboratorio sperimentale per i propri pro-getti da apprendisti stregoni. Non posso risolvermi a lasciarli operare liberamente. Voglio assumere le dife-se dei poveri, dei piccoli, di questi popoli «senza voce». Non priviamoli della pienezza del sacerdozio. Non priviamoli del vero senso dell’Eucaristia. Dobbiamo evitare «che si tratti la dottrina cattolica del sacerdozio

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    e del celibato alla luce dei bisogni percepiti o presunti di certe situazioni pastorali estreme. Penso soprattut-to che la Chiesa latina ignori la sua propria tradizione del celibato, che risale ai tempi apostolici e che è stata il segreto e il motore della sua forte espansione mis-sionaria»21, così rimarcava recentemente il Cardinale Marc Ouellet. Si tratta di un punto decisivo. Il celibato sacerdotale è un potente motore di evangelizzazione. Rende credibile il missionario. Più radicalmente, lo rende libero, pronto ad andare dovunque e a rischiare ogni cosa perché non lo trattiene più alcun legame.

    Alla luce della Tradizione della Chiesa

    Alcuni penseranno che questa mia riflessione sia er-rata. Altri mi diranno che il celibato sacerdotale è sol-tanto una disciplina tardivamente imposta dalla Chie-sa latina ai propri chierici. Ho letto simili affermazioni su molti giornali. La precisione storica mi obbliga a dichiarare che esse sono false. Gli storici seri sanno che, già dal IV secolo, la necessità della continenza per i preti è affermata dai concili22. Bisogna essere precisi.

    21 m. ouellet, Intervista con Jean-Marie Guénois, «Le Figaro», 28 ottobre 2019.

    22 Cfr. su questo tema lo studio storico di c. cochInI, Le ori-gini apostoliche del celibato sacerdotale, Nova Millenium Romae, Roma 2011; si veda inoltre a.m. StIcKleR, Il celibato ecclesiastico. La sua storia e i suoi fondamenti teologici, Libreria Editrice Vatica-na, Città del Vaticano 1994; S. heId, Zölibat in der frühen Kirche, op. cit.

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    Nel corso del primo millennio, sono stati sì ordina-ti sacerdoti molti uomini sposati. Ma a partire dalla loro ordinazione essi erano tenuti all’astinenza dai rapporti sessuali con le proprie mogli. Questo punto viene sistematicamente sottolineato dai concili che si fondano su una tradizione ricevuta dagli Apostoli. È pensabile che la Chiesa abbia potuto introdurre bru-talmente la disciplina della continenza del clero senza suscitare proteste da parte di coloro ai quali veniva imposta? Tale novità sarebbe risultata insopportabile. Ora, gli storici rilevano l’assenza di proteste quando il Concilio di Elvira, all’inizio del IV secolo, decise di escludere dallo stato clericale i vescovi, i preti e i diaconi sospettati di intrattenere rapporti sessuali con le proprie mogli. Il fatto che una decisione tanto esi-gente non abbia suscitato opposizioni testimonia che la legge della continenza per i chierici non fosse una novità. La Chiesa era da poco uscita dal periodo delle persecuzioni. Una delle sue prime preoccupazioni fu quella di richiamare una regola che aveva forse subìto alcune distorsioni nel subbuglio del periodo dei marti-ri, ma che era già ben consolidata.

    Alcuni danno prova di una terribile disonestà in-tellettuale. Affermano: ci sono stati sacerdoti sposati. È vero. Ma essi erano tenuti alla continenza perfet-ta. Vogliamo ritornare a questa situazione? Il rispetto che nutriamo verso il sacramento del matrimonio e la comprensione più approfondita che di esso abbiamo dal Concilio ce lo impediscono.

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    Il sacerdozio è una risposta a una vocazione perso-nale. È il frutto di un’intima chiamata di Dio il cui ar-chetipo è la chiamata che Dio rivolge a Samuele (cfr. 1Sam 3). Non si diventa sacerdoti perché è necessario colmare un bisogno della comunità e perché è dove-roso che qualcuno occupi il «posto». Il sacerdozio è uno stato di vita. È il frutto di un dialogo intimo tra Dio che chiama e l’anima che risponde: «Eccomi […] per fare […] la tua volontà» (Eb 10,7). Nessuno può intromettersi in questo cuore a cuore. Solo la Chiesa può autentificarne la risposta. Mi domando: che cosa ne sarà della moglie di un uomo ordinato sacerdote? Quale ruolo potrà avere? Esiste una vocazione a esse-re la moglie di un prete? Come abbiamo visto, il sa-cerdozio implica la consegna della propria vita, tutta intera, e il dono di se stessi alla sequela di Cristo. Im-plica un dono assoluto di sé a Dio e un dono totale di sé ai fratelli. Quale posto, dunque, assegnare al vin-colo coniugale? Il Concilio Vaticano II ha valorizzato la dignità del sacramento del matrimonio come via ordinaria di santità per la vita coniugale. Tale stato di vita suppone, tuttavia, che gli sposi collochino il le-game che li unisce al di sopra di ogni altro. Ordinare sacerdote un uomo sposato significherebbe sminuire la dignità del matrimonio e ridurre il sacerdozio a una mera funzione.

    Che dire della libertà a cui giustamente possono aspirare i figli della coppia? Devono anch’essi abbrac-ciare la vocazione del padre? Come si può imporre loro uno stile di vita che non hanno scelto? Hanno il

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    diritto di godere di tutte le risorse necessarie alla loro crescita. I preti sposati dovranno essere stipendiati di conseguenza in base a queste esigenze?

    Si potrebbe obiettare che l’Oriente cristiano cono-sce da sempre tale situazione e che ciò non solleva alcun problema. È falso! L’Oriente cristiano ha con-cesso tardivamente che gli uomini sposati divenuti sa-cerdoti possano avere rapporti sessuali con le proprie mogli. Tale disciplina è stata introdotta al Concilio in Trullo nel 691. La novità è apparsa come conseguenza di un errore nella trascrizione dei canoni del Conci-lio che si era svolto nel 390 a Cartagine. Del resto, la grande innovazione di questo Concilio del VII secolo non consiste nella scomparsa della continenza sacer-dotale, ma nella sua limitazione al periodo che prece-de la celebrazione dei santi Misteri. Il legame ontolo-gico tra ministero sacerdotale e continenza è ancora stabilito e avvertito. Vogliamo fare ritorno a questa pratica? Dobbiamo prestare ascolto alle testimonian-ze che provengono dalle Chiese cattoliche orientali. Molti membri di queste Chiese hanno chiaramente sottolineato come lo stato di vita sacerdotale entrasse in tensione con quello coniugale. Nel corso dei secoli passati, la situazione ha potuto perdurare grazie all’e-sistenza di «famiglie di sacerdoti», nelle quali i bambi-ni venivano educati a «partecipare» alla vocazione del padre di famiglia e le figlie sposavano un futuro pre-te. Una migliore consapevolezza della dignità e della libertà di ciascun individuo rende ormai impossibile

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    questo modo di agire23. Il clero orientale sposato è in crisi. Il divorzio dei sacerdoti è diventato un motivo di tensione ecumenica tra i patriarcati ortodossi.

    Nelle Chiese orientali separate, solo la presenza preponderante dei monaci rende sopportabile al po-polo di Dio la frequentazione di un clero sposato. Sono molti i fedeli che non si confesserebbero mai da un sacerdote sposato. Il sensus fidei fa discernere ai cre-denti una forma di incompiutezza nel clero che non vive un celibato consacrato.

    Perché la Chiesa cattolica ammette la presenza di un clero sposato in alcune Chiese orientali unite? Alla luce delle affermazioni del magistero recente sul le-game ontologico tra sacerdozio e celibato, penso che tale accettazione abbia lo scopo di favorire una pro-gressiva evoluzione verso la pratica del celibato, che avrebbe luogo non per via disciplinare ma per ragioni propriamente spirituali e pastorali24.

    23 Alcuni anni fa, il presidente di un’associazione sacerdotale ortodossa osservava che in Grecia il numero di chierici sposati era in costante declino (tremila su undicimila uomini in tutto). Ne individuava la causa: sempre meno donne emancipate accettano di abbracciare la vita impegnativa della moglie di un prete (cfr. http://www.zenith.org/english/archive/0002/ ZE000228).

    24 Cfr. F. FRoSt, Le célibat sacerdotal, signe d’espérance pour tout le christianisme, in Le Célibat sacerdotal, fondaments, joies, défis, Colloque à Ars, 24-25-26 janvier 2011, a cura della Société Jean-