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Rapsodia Anno 1 Numero 3 0

Rapsodia n°3

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Rapsodia è una rivista letteraria indipendente che raccoglie opere di autori emergenti edite e non per farle confluire in un progetto di promozione artistica dei contenuti di ciascun elaborato. Rapsodia rifiuta uno schema fisso, mette insieme spunti sempre diversi tra loro per armonia e ritmo donando al tutto un sapore di laboratorio artistico e improvvisazione compositiva. Rapsodia si occupa di letteratura contemporanea. Oltre ai lavori degli autori emergenti saranno inseriti anche approfondimenti dedicati a noti autori contemporanei. Altri autori non contemporanei saranno trattati nella misura in cui il significato delle loro opere e della loro vita sia contestualizzabile nella contemporaneità. Rapsodia non ha un orientamento politico e una categorizzazione sociale, non appartiene a cricche o comitati d’affari. Rapsodia appartiene al pensiero libero ed è gratuita: non esistono rapsodi senza spettatori e Rapsodia non avrebbe significato senza i suoi lettori. La redazione

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BRUCIA CON NOI

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COS’È RAPSODIA

Rapsodia è una rivista letteraria

indipendente che raccoglie opere di autori

emergenti edite e non per farle confluire in

un progetto di promozione artistica dei

contenuti di ciascun elaborato. Rapsodia

rifiuta uno schema fisso, mette insieme

spunti sempre diversi tra loro per armonia e

ritmo donando al tutto un sapore di

laboratorio artistico e improvvisazione

compositiva.

Rapsodia si occupa di letteratura

contemporanea. Oltre ai lavori degli autori

emergenti saranno inseriti anche

approfondimenti dedicati a noti autori

contemporanei. Altri autori non

contemporanei saranno trattati nella misura

in cui il significato delle loro opere e della

loro vita sia contestualizzabile nella

contemporaneità.

Rapsodia non ha un orientamento politico e

una categorizzazione sociale, non appartiene

a cricche o comitati d’affari. Rapsodia

appartiene al pensiero libero ed è gratuita:

non esistono rapsodi senza spettatori e

Rapsodia non avrebbe significato senza i suoi

lettori.

La redazione

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INDICE:

- ANDREA CORONA…………………………………………………p.4

- CLAUDIO LANDI…………………………………….…..…….p.14

- QASIR AL-QASIR (QUISILIO MIRAGLIA)………..p.16

- SALVATORE VALENTE…………………………………..….p.18

- DAVIDE PROIETTI……………………………………………p.23

- MIRKO ZITO……………………………………….…………….p.25

- FRANCESCO VERRENGIA…………..……………………..p.26

- MICHELA ZANARELLA..…………………………………….p.28

- SONIA SECCHI……..……………………………………………p.29

- ANTONIO PERRONE…….……………………………….…...p.35

- LUIGI MOGGIO……………………………………………….…p.38

- FRANCESCA SANTE……………………………………….….p.40

- VINCENZO BARONE LUMAGA………………………….…p.42

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LE TRE DONNE DI MASOCH

La performance art di Abramović, Galindo, Pane

Introduzione: la performance.

Scrive il filosofo francese Gilles Deleuze in “Sade, Masoch e il

loro linguaggio” (si tratta del primo capitolo de “Il freddo e il

crudele”) che il sadico opera secondo ordini e imposizioni, e ad

essere imposta è innanzitutto la sua indiscutibile volontà. È un

carnefice che non conosce la sua stessa tortura, né il linguaggio

delle sue vittime (non sa infatti cosa provano), e questo

sostanzialmente perché non vuole complici. Col masochista, invece,

non siamo di fronte a un carnefice che si impadronisce di una

vittima da cui trae godimento in misura inversamente

proporzionale al suo consenso e alla sua persuasione; ma siamo di

fronte a una vittima che cerca un carnefice, che ha bisogno di

formarlo, di persuaderlo, di stabilire con lui un patto per la

realizzazione della più strana delle imprese.

Ed è precisamente questo che i protagonisti di Masoch fanno:

modellare i complici in carnefici; ma è sempre “la vittima” a

parlare attraverso il suo carnefice. Il personaggio masochista è

infatti chi induce il suo partner, anche e soprattutto nel caso

di un personaggio solitamente non crudele, a colpirlo, ferirlo,

offenderlo, sino a plasmarlo, trasformandolo, nel suo “ideale

compagno di giochi”. Ma è chi subisce a condurre il gioco, a

fornire le armi al suo rivale, a farlo apparire sadico. Quella

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del masochista è così una richiesta, quasi una preghiera, di essere

torturato.

Analogamente, nella “performance art” di Marina Abramović e

della sua più accreditata erede, la guatemalteca Regina José

Galindo, non è raro assistere a scene di assoluta passività nelle

quali dei terzi “attori”, spesso intervenuti dal pubblico,

infieriscono sul corpo delle artiste con armi e arnesi di varia

natura, venendo in generale invitati da esse stesse a disporre

dei propri corpi come più desiderano, e senza che alle artiste sia

dato difendersi, opporre resistenza o semplicemente reagire. Si

pensi ad esempio a spettacoli come “Rhythm 0” della Abramović,

dove l’artista serba si abbandonò alla mercé del pubblico per una

durata di sei ore, dopo essersi sdraiata su un tavolo sul quale

erano posati degli strumenti “di piacere e di dolore”.

A questo punto ha ragione Deleuze quando afferma che il

masochismo non si lascia definire semplicemente come un sadismo

rivolto contro l’Io: il monito del masochista non si esaurisce

nella formula “io mi punisco”, ma va ben oltre, implica uno stadio

successivo, lo stadio passivo del “mi puniscono, mi picchiano”.

Nelle parole del filosofo: «Esiste dunque una proiezione

propriamente masochista in base alla quale una persona esterna

deve assumere il ruolo di soggetto».

Prima di approfondire il ruolo di questo soggetto, sarà utile

riprendere un brano dell’antropologo sociale Victor Turner, che

nel suo volume “Dal rito al teatro” chiarisce che il termine

performance «deriva dal medio inglese parfournen, poi

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parfourmen, che a sua volta viene dall’antico francese

parfournir, composto da par (completamente) e da fournir

(fornire): quindi la parola performance non rimanda

necessariamente alla connotazione strutturalista del

manifestare una forma, quanto piuttosto al senso processuale di

“portare a compimento” o “completare”». Dunque, non di forma

strutturale, ma di forma processuale si tratta. L’aspetto

interessante dell’analisi di Turner è dato dal profondo legame

che a suo giudizio intercorre tra la performance e il dramma, sia

scenico che sociale.

Se nel dramma sociale ci sono degli “attori” la cui carica

emozionale-emotiva sfocia in una crisi, ovvero in una rottura

dei codici del normale funzionamento della società stessa; anche

nel dramma scenico, come nella vita, è possibile assistere ad atti

di violenza, pestaggi, e persino attentati alla vita dei

protagonisti.

Il subjectum e la teatralità: masochismo “formale”, “drammatico”

e “patetico”.

In “Dal contratto al rito” (ottavo capitolo de “Il freddo e il

crudele”), Deleuze sottolinea la funzione “storica” del masochismo,

nel senso di un masochismo che va al di là sia di quello meramente

fisico o materiale, che si presenta come un dato dei sensi, sia di

quello meramente morale, che si presenta come un dato del

sentimento. E quando il masochismo è capace di andare al di là

dei sensi e del sentimento, ecco che il masochista diventa un

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narratore, una figura che ci racconta una storia, come l’elemento

sovra-personale che lo anima.

E per scrivere una storia, il masochista si serve del proprio

corpo e della propria anima. In questo senso abbiamo un

masochismo formale, ancor prima di un qualsiasi masochismo fisico

o materiale; e un masochismo drammatico, ancor prima di un

qualsiasi masochismo morale o sentimentale. Da qui l’impressione

di passionalità e di “passione”, in senso cristiano (cristico,

cristologico), nel momento stesso in cui i sentimenti sono più

profondamente vissuti e le sensazioni più violentemente sentite.

In ciò, non si può non recuperare la poetica di un’altra artista,

Gina Pane, esponente francese della body art, la quale, in

riferimento alle sue “Passioni” e catarsi, ha più volte dichiarato

che il suo scopo è quello di mostrare la ferita in quanto memoria

del corpo, e mostrare il corpo in quanto simbolo della fragilità

del tessuto sociale e memoria dell’elemento immateriale che lo

anima.

Il masochismo diviene allora “narrazione” e “scrittura” di una

storia, e più precisamente di un dramma (e qui la posizione di

Deleuze confluisce con quella di Turner), che quando viene scritto

col proprio corpo è sempre più formale che materiale, e quando

viene narrato dalla propria anima è sempre più drammatico che

sentimentale.

Nel caso specifico di queste artiste, a causa dell’utilizzo e anzi

dell’abuso del proprio corpo e del proprio sangue, i sentimenti

sono realmente – non solo scenicamente – vissuti in modo più

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profondo, e le passioni e le sensazioni sono realmente sentite in

modo più violento.

E, come visto, talvolta ciò è possibile solo se prima della

performance si è riusciti a persuadere il pubblico, dopo avergli

descritto accuratamente quale dovrà essere il suo compito e dopo

aver stipulato con lui un patto o, come direbbe Masoch, un

contratto. Il paradosso è che oltre al narratore, all’artista-

protagonista, c’è un altro protagonista, un altro soggetto che,

nell’accezione di un subiectus, ovvero di un “paziente” (perché si

badi: ancor prima di essere un eroe baldo e trionfante, il

“soggetto” è innanzitutto un subiectus che “sta sotto e patisce”),

è altrettanto “vero”, e che è identificabile appunto con il

pubblico, la cui sofferenza, la cui passione, il cui pathos, la cui

catarsi, è forte quanto quello degli attori del dramma.

Perché, se è vero che il performance artist si configura come un

narratore che racconta una storia, è altrettanto vero che senza

degli spettatori non ci sarebbe nessuno a cui narrarla. Pertanto,

una parte cospicua dell’elemento sovra-personale che anima la

figura del narratore è identificabile nello stesso pubblico degli

spettacoli, capace di “animare la storia” in più di un modo.

Da un lato, ci sono quegli spettatori che, in quanto dilaniati

dallo strazio, sono forse ancor più protagonisti e masochisti di

chi subisce i colpi: il realismo, la passione, e nella fattispecie

la drammaticità delle azioni e l’ambiguità su cui esse giocano,

costituiscono spesso una vera sofferenza per chi assiste a questi

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spettacoli dal vivo. E pathos più strazio portano a un nuovo tipo

di masochismo che si potrebbe definire come il più patetico.

D’altro canto, oltre a quello più impressionabile, che interviene

per salvare l’artista da situazioni estreme – come asfissia,

ipotermia, ustioni, pestaggi – vi è un’altra frangia di pubblico

che, al contrario, esprime il suo gradimento in misura

direttamente proporzionale alla vista della violenza e del

sangue.

Ma in realtà la differenza non è poi così marcata: anche chi si

impressiona, infatti, sa a che tipo di spettacolo va ad assistere;

dunque se ne deduce che ama, masochisticamente, provocare se

stesso in questo modo (nel senso, stavolta, del primo stadio di

masochismo: il sadismo rivolto contro l’Io).

Ecco allora che se l’attore scrive una storia col proprio corpo e

la narra con la propria anima, il pubblico, che agisce, reagisce e

patisce, non si limita a un ascolto passivo e ad uno sguardo

voyeurista, ma diventa esso stesso un personaggio, quando non un

soggetto – competente? performante? – del dramma.

Competence/Performance/Trance

È noto che, laddove subentri una perdita di conoscenza, l’attore

non ha più il controllo di sé e del proprio strumento, del proprio

corpo, e quindi delle proprie azioni. Regina Galindo e Marina

Abramović hanno in più occasioni manifestato un profondo

rammarico in merito a queste circostanze. Si tratta di fattori

che rientrano nel computo di quelle “varianti”, non calcolate e

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non calcolabili, ma preventivabili secondo una logica delle

supposizioni, di cui parla ancora Turner nel suo testo, e nella

fattispecie durante la sua interpretazione del testo di Barbara

Lex “Neurobiology of Ritual Trance”: «Il comportamento assumeva

quel carattere che i neurobiologi chiamano “ergotropico”. Secondo

la loro definizione, esso è caratterizzato da eccitazione,

intensificazione dell’attività e delle reazioni emotive. Non c’è

dubbio che se avessi posseduto gli strumenti tecnici di

misurazione avrei potuto scoprire negli “attori” scariche

simpatetiche accresciute quali aumento del ritmo cardiaco, della

pressione del sangue, della sudorazione, della dilatazione delle

pupille».

Il comportamento ergotropico, che in una certa misura riguarda

anche lo studio antropo-sociale dei tarantolati, è riscontrabile

anche in chi abbia un’esperienza di estasi mistica. In ciò,

performance come “Freeying The Body” di Marina Abramović – dove

l’artista, con la testa avvolta in una sciarpa, balla per otto ore

consecutive seguendo il ritmo frenetico di un tamburo africano

– o come le stesse performance di santificazione e di

“resurrezione della carne” di Gina Pane, implicano una

“competenza”, preliminare rispetto al fare della “performanza”,

che sfocia appunto nella ritual trance.

Per concludere: la legge di Masoch tra mito e rito

Tra il contratto e il mito, sostiene Deleuze, c’è un termine medio:

“la legge”, la quale, scaturita dal contratto, ci immerge nel rito.

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Il contratto del masochista ne rappresenta e ne esprime la sua

personale volontà; ma solo attraverso tale contratto la legge che

ne consegue subisce dei mutamenti che portano il masochista al

raggiungimento di un elemento impersonale, quello di un destino

espresso attraverso mito e rito.

Se pure il contratto ideato dal masochista ne rispecchia la sua

personale volontà, questa deve però fare i conti con il medio

della legge che si frappone tra la volontà e la rappresentazione

mitologico-ritualistica della Sofferenza e del Dolore

introducendo quei terzi elementi, quelle varianti, non calcolate

e non calcolabili, immaginabili – secondo una logica delle

supposizioni – ma tuttavia imprevedibili, che originano delle

performance personali e insieme impersonali che rievocano,

riattualizzandoli, i miti e i riti di ogni tempo. Il significato

del contratto di Masoch è infatti lo stesso di quello dei riti più

antichi. Deleuze può così arrivare a sostenere, e a ragione, che

il masochista instaura nel rito proprio ciò che è da sempre

contenuto ritualisticamente nel simbolismo del masochismo stesso.

In conclusione, performance come “Clausura” di Regina Galindo, o

come “Rhythm 5” di Marina Abramović, dove le artiste vengono

rispettivamente sepolte vive e asfissiate, danno luogo a dei riti

postmoderni che, narrando una duplice storia, personale e insieme

impersonale, moderna e insieme arcaica, si sviluppano in una

pratica che è al tempo stesso la più nuova e attuale e la più

vecchia e ancestrale. Analogamente, quando Gina Pane, come una

“Pietà” primitiva, lascia vedere il volto e il corpo

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esageratamente offeso da un’afflizione intollerabile, l’artista,

in tal modo, è come crocifissa alla luce del giorno, agli occhi di

tutti. Ed è in immagini come questa che è possibile scoprire le

radici profonde di spettacoli in cui si compiono gli stessi gesti

delle più antiche purificazioni. Se Regina Galindo denuncia

infine le ingiustizie sociali e culturali del suo Paese

incidendosi insulti su braccia e gambe, come in “Perra”, dove gli

insulti simboleggiano la discriminazione razziale e sessuale, o

facendo docce di sangue umano, come ne “El peso de la sangre”, è

per quegli stessi motivi di cui parlava in apertura Turner,

ovvero per «interrompere il normale flusso della vita sociale e

costringere un gruppo di persone a prendere coscienza del proprio

comportamento in relazione ai propri valori, e talvolta a mettere

persino in questione il valore di questi valori».

Andrea Corona

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HANNO MESSO LA BOMBA IN SALDO

Hanno messo la bomba in saldo

dicono sia vantaggioso procurarsela

si prevedono code al reparto giocattoli

lo dicono tutti i notiziari

lei è sullo scaffale in fondo

bella come non mai nella confezione speciale

edizione limitata

per l’occasione i grandi magazzini

offrono kit di sopravvivenza al fortunato acquirente

si dice non contenga il libretto d’istruzioni

a mio avviso l’errore è nell’apostrofo

sinceramente non saprei cosa farmene della bomba

figuriamoci del libretto

figuriamoci delle distruzioni

“la bomba è stata venduta a quel signore là”

la cassiera indica col dito

il signore col cappello che si allontana

con le sue bombe al guinzaglio

averne due è sempre meglio

poi ho saputo di una certa prelazione

per chi ne possedesse già una

sono convinto che un giorno

le restituirà al mittente

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la cassiera mi ha assicurato

che qualora accadesse

saremo tutti avvisati

ho lasciato i miei recapiti

ma ho avuto la sensazione

che non c’era alcun bisogno.

Claudio Landi

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METROPOLITHANATOS II

ridesto all’alba dei fiori di ruggine

ho letto bene le istruzioni:

- [come] rubare l’anima di un anno! (?)

ma la strega tabaccocaffè

se la ride

sul davanzale dello IERI

una questione di ordine -

diceva

ma ho ordinato che tacesse

nel silenzio grigioscuro

ché del resto

è già l’ora di sguazzare

nei fiumi d’asfalto

in fondo alla notte

le feste elettriche

sassofoneggiano fino all’ossessione;

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meccaniche la lingua e le labbra e i denti

zampettano su e giù nella monotonia

di un istante

dita pallide/ossute servono

liquorume lubrificante sinapsi e…

DADA-dadà:

la dolce brodaglia dell’eternità!

Qasir al-

Qasir

(Quisilio

Miraglia)

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STUDENTESSA DEL CAZZO

“Professore, questo esame mi serve e mi serve subito.” avrò ripetuto

almeno quattro volte a quello stronzo di assistente. “Guardi, lo posso

immaginare, ma non posso proprio darglielo. Mi dispiace.”. Mi allunga

la mano per salutarmi, ma la rifiuto incazzata. Gli ho sbattuto le

tette sotto al naso per mezz’ora e si è anche permesso di bocciarmi. Che

stronzo, non mi ha guardata in faccia per un secondo. Mi giro e mi

abbasso per prendere la borsa, mostrandogli il culo. Mentre sto per

andarmene mi richiama “signorina Do Chiso. Signorina Do Chiso, venga

un attimo qui, per favore.”. Eccolo qua, il culo fa sempre effetto, un

altro esame sul libretto. “Che c’è, professore?” “Non posso darle l’esame,

ma abbiamo un appello per i fuoricorso tra dieci giorni. Posso vedere

di inserirla in qualche modo nell’elenco. Intanto, però, venga in

dipartimento oggi stesso, così vediamo di focalizzarci sulle cose

importanti da fare per farle avere questo esame.”. Figlio di puttana,

neanche vuole darmi l’esame. Però è stato gentile. Sarà frocio? “Va

bene, professore, ci vediamo oggi.” “Ci conto.”.

Nel pomeriggio, il dipartimento di chimica organica, in particolare

l’ufficio del professor Molina, è pieno di facce viste quella mattina

stessa all’esame. Tutti bocciati da lui, tutti con una seconda

possibilità tra dieci giorni. Certo, chiamare “ufficio” una stanzetta

con una piccola scrivania di alluminio e piena di armadietti dei prof

ordinari, mi sembra troppo. “Sapete tutti per quale motivo vi ho fatti

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venire.”. Certo che lo sappiamo, stronzo. “Io ho piacere di aiutarvi,

però mi aspetto che almeno le cose essenziali dell’esame le sappiate.”.

Ma quante perdite di tempo. “Insomma, siamo in una facoltà di chimica

e l’esame di chimica organica è molto importante.”. Ogni professore di

ogni materia di ogni facoltà dice queste cose. Bah, forse questo ha

ragione. Mentre parla, cercando di darsi un tono – per quanto uno di

cinquantacinque anni che fa l’assistente universitario possa averne –

entrano ed escono, senza salutare o chiedere permesso, i proprietari

degli armadietti che occupano il suo ufficio. I presenti cercano di

trattenersi, d’altra parte il professor Molina gli sta dando

un’opportunità extra. Ma nessuno riesce a non ridere quando si

affaccia alla porta il titolare della cattedra di chimica organica in

persona, che gli dice “Molina, passa da me quando ti liberi, porta un

po’ di caffè.”. Deve essere triste, a cinquantacinque anni, essere ancora

lo schiavetto del professore ordinario, nonostante una laurea, un

dottorato e un posto all’università. Una piccola vendetta per tutti i

bocciati di quel giorno. Rosso in viso, Molina tenta di continuare

“allora, ragazzi, cerchiamo di essere rapidi. Segnatevi questi

argomenti e, da qui a dieci giorni, ci vedremo due o tre volte per

ripeterli insieme.”. Molto disponibile, il prof. Mi fa quasi pena per

la sua condizione. Tutti salutano e vanno via, uno alla volta. Mi

avvicino per salutarlo e ringraziarlo e mi fa “signorina Do Chiso,

cercavo giusto lei. Mi fa piacere che sia venuta. Aspetti qui, le devo

dire una cosa.” “Va bene, professore.”. Cosa vorrà dirmi, adesso? Non ci

voleva, rischio di fare tardi e Bracco mi aspetta a casa sua. Oggi

finalmente non ci sono i genitori e possiamo recuperare le due

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settimane senza fare sesso appena passate. Maledetto esame. “Vado a

vedere cosa vuole il professore e torno. Si sieda pure.”.

Che fregatura. Sola, in questo ufficio di merda, mentre Bracco è a casa

che mi aspetta col suo cazzo duro pronto a... Oddio! mi sa che è veramente

troppo tempo che non facciamo niente. Che tristezza questo ufficio, fa

caldo, non c’è neanche un ventilatore. Mi sembra quasi di soffocare, e

ci sto solo da mezz’ora. Chissà come si sente Molina a starci da una

vita. Dio Santo! non ha neanche una vera libreria, è solo un armadietto

senza le ante. Che pena.

“Eccomi, signorina Do Chiso. Scusi l’attesa, ma il professore doveva

farmi sapere una cosa importante.”. Come no, aspettava con ansia il suo

caffè pomeridiano. “Si figuri, professore. Cosa doveva dirmi? Sa, avrei

un po’ di fretta.”. “La questione è semplice, ma non piacevole, signorina

Do Chiso. Ho dato appuntamento per due o tre volte ai suoi colleghi,

ma lei dovrà venire tutti i giorni, a causa della sua scarsa

preparazione.”. Figlio di puttana, vuole proprio farmi incazzare.

“Professore, si potrebbe anche, ma se poi devo venire e rischiare di

non passare l’esame, di non andare a colpo sicuro, eviterei. Mi presento

direttamente al prossimo appello.” “Questo dipende da lei, signorina.

Non ha detto che le serviva questo esame?” “Sì, per la borsa di studio.”

“E allora veniamoci incontro.” e mentre lo dice, alle mie spalle,

allunga una mano all’interno della scollatura e mi tocca una tetta.

Non riesco a reagire, dico solo “professore, ma cosa fa?” “Signorina Do

Chiso, per l’esame lei dovrà venire tutti i giorni, in modo da procedere

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ad un ripasso approfondito.”. Continua ad accarezzarmi il seno, i

capezzoli diventano duri. Maledetti quindici giorni di astinenza pre-

esame. “Professore, non so se me la sento.” “Pensi alla borsa di studio

e a quanto farebbe comodo un ottimo voto all’esame di chimica organica

in una facoltà di chimica.”.

Fanculo Bracco, fanculo l’etica e la morale, fanculo lo studio. Ma

allora è davvero così facile come dicevano? Il porco mi tira fuori la

tetta dalla scollatura, fa il giro della sedia e si mette davanti a me,

piazzandomi il pacco in faccia. “Cominciamo a vedere se sa già qualcosa,

signorina Do Chiso. Il suo voto dipenderà dal suo impegno in questi

dieci giorni.”. Tira fuori l’uccello, già molto duro – potere delle mie

tette – e lo mette a due centimetri dal mio naso. Tiro fuori la lingua

e con la punta comincio a stuzzicargli la cappella. Il porco mi afferra

la testa e mi spinge in avanti, costringendomi a prenderlo in bocca

fino ai tre quarti. In ogni caso, al di là della situazione, è un bel

cazzo. Almeno spero che ci sia un po’ di divertimento anche per me, in

questi dieci giorni. Mentre glielo succhio, si sfila la fede e la mette

nel taschino della giacca. Io penso a Bracco e comincio ad aiutarmi con

la mano destra, mentre con la sinistra gli accarezzo le palle gonfie.

“Saranno dieci giorni piacevolmente intensi, signorina Do Chiso. – mi

dice ansimando – Da domani voglio studiarla per bene, da ogni

angolazione.”. Mi afferra i capelli e mi allontana di qualche

centimetro dalla punta del cazzo. Quando mi accorgo che sta per

schizzarmi il suo seme sulla faccia, capisco che lui continuerà ad avere

queste piccole soddisfazioni sessuali con ragazze più giovani di lui di

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almeno trent’anni. Ma tutte noi, andando avanti con coerenza, avremo

soddisfazioni ben più grandi, senza nessun tipo di sforzo. Eviteremo

tutti i suoi sacrifici economici, intellettivi e sociali per arrivare

al suo posto. E tra qualche anno lo manderemo a prenderci il caffè,

dopo essere arrivate alla scrivania in mogano dell’ufficio di docente

ordinario su un tappeto rosso che lui e quelli come lui ci avranno

srotolato davanti. Ingrasseremo a pompini, ma dimagriremo in costose

palestre che loro non potranno mai permettersi. E tra soli dieci

giorni, su un libretto della facoltà di chimica, ci sarà un ottimo voto

all’esame di chimica organica.

Salvatore Valente

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ALFABETO ANULARE

A come affettuosa anarchia

B bravi sedicenti ragazzi violenti hanno paura di

pacifici outsider presunti

C che bello quando taciti divieti di lavoro volano su

Destini di niente desensibilizzato dal tutto che

Emana stupide vibrazioni di chimica nullezza

Ficcati in testa può non esserci niente, nessuno

Garantisci per te e solo per te stesso intanto che

Hotel stupidi si dedicano al pensiero, ci saranno

Infiniti che si credono finiti e finiti che esplodono

di

Lumache

Minime

Nitriti

Opalescenti

Paura vietata

Quando cuori di puttana

Rideranno e

Saranno pronti a sorriderti se

T’inchini, ti sbucci le ginocchia ti batti, butti

Untuose

Vipere

Zero dai più sarai considerato se te stesso proverai

Ad essere

Davide Proietti

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NON C’È RAGIONE

Ci sono giorni in cui tutto ha un senso, in cui si nasce, si

muore, si vive e addio.

Ci sono giorni in cui sai dove sei, chi sei, perché, riesci a

seguire tutte le indicazioni, è impensabile perdersi, riconosci

la strada, i volti, la differenza tra un sorriso e una

bestemmia.

Poi ci sono quegli altri giorni. Quelli dove la luce ti acceca,

dove il buio ti stordisce, dove il gioco è guerra e la guerra

è gioco, dove i fiumi sono fatti di fuoco e l’alcol ha il sapore

dell’inchiostro.

Ci sono quei giorni in cui il cuore si confonde con un orologio

che segna l’ora sbagliata.

Ci sono giorni in cui sei suonatore o suonato.

Ci sono giorni che non puoi scegliere.

Poi ci sono giorni in cui non te ne frega un cazzo, e va bene

lo stesso.

Mirko Zito

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IL LAGO

Quel lago, già lo amo e già lo odio.

Quando lo vidi per la prima volta capii che il bagliore che

emanava offuscava il cupo senso di malinconia che portava con

se, intrinseco, nella profondità più remota dei suoi abissi, dove

non si trova nemmeno una minima forma di essere vivente.

Mi affascinò, il sole si rispecchiava al suo interno come una

donna vanitosa ammira la sua bellezza prima del grande ballo, ed

io, come un maniaco, stavo ad osservarlo nel suo riflesso, intento

a scorgere la più intima nudità, a perlustrare ogni centimetro

del suo corpo per potermi gustare anche solo un piccolo frammento

del suo fascino;

Appena potei guardare nel profondo dell’anima di cotanta

bellezza, appena incrociai il suo sguardo vidi le tenebre, vidi

l’abisso, notai che quel corpo così perfetto era una maschera per

coprire l’assurdo, un velo che nascondeva l’orrore. Era Lucifero

travestito da Cherubino, era l’oscurità travestita di luce.

Ma io già lo amo, amo la bellezza di questo lago, amo il suo

travestimento, amo la bellezza esterna, la maschera, il velo, il

Cherubino, la luce. Lo amo e lo voglio amare, e allora mi ci

avvicino, si, voglio costeggiarlo, voglio assaporarlo; vado sul

lungo lago e passeggio, trovo una panchina e mi siedo di fianco a

lui ad osservare, lo ascolto, lo guardo, gli parlo, ma poi…mi

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blocco, il fiato mi manca, lo guardo nuovamente negli occhi, e il

lato oscuro risale in superficie. Sono immobile, con una sigaretta

stretta tra i denti, il volto tra le mani e la mente lucida.

Affronto il buio della luce, lo combatto, lo respingo, fino a poi

abbandonarmi ad esso e convivere con la consapevolezza che io

quel lago, lo amo e lo odio perché è luce di nuova speranza, ma

antitesi di quello che convenzionalmente io chiamo “casa”.

Francesco Verrengia

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COME ALBE A PRECIPIZIO

Il silenzio

sorveglia sensi smarriti

ancorati ad una mente

che diffida dei colori del tempo.

Tentennano formule di luce

come albe a precipizio

e in un gioco d'assenze

ruotano follie

confuse a meditazioni stanche.

Rauco lo sguardo

fugge dove il nero

annuncia bufera

dove il buio s'annida

a forme imperfette

di solitudine.

Michela Zanarella

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VICTOR COSANERA

Potrei ucciderti se colo volessi. Piccola cosa. Nera.

Potrei ucciderti se solo volessi. E poi cosa guarderei? Devi vivere

per me. Non devi morire. Non ora. Muoviti per me. Ancora. E

ancora.

Piccola cosa nera. Fragile. Sei così fragile. Così fragile che mi

fai paura.

E poi? E poi. Poi il silenzio. Solo il silenzio.

Sei un ragno. Solo un ragno. Ed io ti temo. Non potresti essere tu,

invece, a temermi? Io così grande e potente. Io ho il tuo respiro

chiuso nel pugno. Io. Padrone del tuo sangue. Temimi.

Eppure qualcosa di te mi fa tremare le gambe.

Hai i suoi occhi forse.

Ricordo. Grandi e dolci. Dolcissimi. Victor. Chiamava il mio nome

dalla finestra. La palla sporca di fango. Io la guardavo. Ero in

cortile. Giocavo.

Eppure i tuoi occhi. Mi fanno tremare. Eppure.

Tu. Piccola cosa nera. Ricordi quell'amore che non è più.

Tu. Ricordi. E vivi. Di lei.

*

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Victor! Victor! Papà deve dirti una cosa! Corri, lo sai che il vento

si porta via le parole.

La signora Fresia si asciugava le mani nel grembuile come faceva

sempre. Forse aveva appena finito di cucinare una torta. Un

pastccio di carne. Tramezzini al cetriolo. Forse. I suoi abbracci

sapevano di cucina e stoviglie pulite. Le mani secche come il

mattino.

Victor! Vieni!

Victor in cortile. Gli occhi sulla palla immersa nel fango. Una

pozzanghera. Profondissima.

Lui non ha gli amici. Lui ha i pali della luce. Contenitori di

pensieri. Ma alla mamma dice che si è divertito un mondo. Torna a

casa sudato. Corre inseguendo le nuvole. Torna a casa sporco.

Cerca tesori. Braccia che emergono dalla terra urlando.

Victor in cortile. Gli occhi sulla palla. Il risveglio. La voce

della madre. Calda.

*

Una sala d'attesa.

Victor. Sette anni. E giochi sparsi sul tappeto colorato. Disegni

di altri bambini.

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Pupazzi con la vagina e il pene. Che se li fai incontrare si

attaccano come calamite uno dentro l'altro. Gli assistenti sociali

li usano per ricostruire gli abusi. Raccontano attraverso il gioco

dicono.

Una donna con la pelle scura gli chiede raccontami.

Victor.

Occhi neri su cubi con le lettere.

Cosa vuol dire A-F-H-N?

A. Effe. Acca. Enne.

Lo sente tra i denti. Ora.

Aaaaaa. Eeeeffffffffeeeeee. Acccccaaa. Ennnneeee.

Raccontami Victor.

Aaaaa.

Sì.

Effffe.

Victor?

Dov'è la mia mamma?

La tua mamma non sta molto bene.

Dov'è la mia mamma?

La tua mamma.

*

Arrivo mamma!

Le scarpe fanno quel rumore delle scarpe nuove. Victor dice che le

scarpe piangono perché i piedi sono pesanti e non sono abituate. E

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sentono dolore. Ma poi si abituano. Perché tutti i corpi si

abituano al dolore.

Il tuo papà vuole vederti. Vai in soggiorno. Ha una sorpresa per

te.

Victor dice alle scarpe di smettere di piangere perché al papà

quel rumore non piace. Non gli piace essere disturbato perché il

papà lavora. E il papà lavora per fare felici Victor e la mamma.

Victor va verso il soggiorno parlando con le scarpe.

Papà?

Silenzio.

Papà?

Silenzio.

Papà sono qui.

Victor, il papà non vuole dirti nulla. Vuole solo che tu lo

guardi.

La poltrona del soggiorno. Quella di papà.

Papà ci legge il giornale e ci beve il caffè. Ogni tanto Victor gli

sale sulle gambe e papà lo fa trottare.

Victor. In piedi davanti a un padre che è una candela sciolta. La

testa sul petto e i palmi al cielo.

Sangue sulla camicia. Sporco. Come la palla nel fango.

Guarda cos'ha fatto la mamma! Ora papà riposa felice. La mamma

l'ha fatto per noi. Papà non riusciva più a dormire.

Victor non parla. Guarda il papà. Immobile.

Victor non parla. Respira.

La mamma sorride.

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Sorride.

Sorride.

La mamma sorride. E non ha più lo stesso odore.

*

Potrei ucciderti se solo volessi. Piccola cosa. Nera.

La verità è che io ti temo.

La mamma mi chiama.

Ora devo andare.

Potresti uccidermi. Se solo volessi.

La mamma mi chiama. Ora devo andare.

*

Victor?

Silenzio.

Gli occhi appesi alla finestra.

Dov'è la mamma?

Victor?

Gli occhi appesi alla finestra.

Victor urla.

Sonia Secchi

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‘O SCRITTORE

(libera interpretazione da Bukowski, So you wantto be a writer)

Embè… e tu vulisse fa ‘o scrittore?

Si nun te scoppia ‘a rinto

a dispiett ‘e tutte cose e tutte quante

lieve mane.

Si nun te ven r’ ‘o core e ‘dda ‘e cerevelle e ‘dda vocca

e ‘dda ‘o stommaco

lieve mane.

Si te n’ea sta assittat’ tre quart r’ore

annanz’ ‘o computèr

o tutt stuort ngopp a nu foglio

pe ccercà ‘e pparole

lieve mane.

Si ‘o ffaje p’ ‘e sorde

o p’addivintà nu vip

lieve mane.

Si ‘o ffaje pe te chiavà ‘e femmene

lieve mane.

Si ea scrivere ciente vote semp’ ‘a stessa cosa

lieve mane.

Si te sfastirie sul’ a ce penzà

lieve mane.

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Si bbuò scrivere comme a Fabbio Volo

o comme a me, o comme a coccherun ate

lieve mane.

Si ea aspettà ca te iesce a fore

comme a nu ruggito ‘e nu lione

allor aspiett. Nun ghì ‘e pressa.

E si nun t’iesce

lieve mane.

Si primma l’ea fa leggere a mugliereta

o ‘a nnammurata toja

o ‘o guagliuncell

o a patet o a mammet o a coccherun ate

nun è ‘o mument.

Nun fa comm a tanta scrittore

nun fa comm a tanta sciem

ca ‘ngapa a lloro so scrittore

nun fa ‘o strunz.

‘O munn sta chin ‘e sciem comm a tte.

Lieve mane, stamm a sentì

ca si nun t’iesce ‘a rint all’anema comm a nu razz

e tu nun siente ca putisse ascì pazz

o perdere ‘a capa e penzà ‘e t’accirere

lieve mane.

C’adda sta ‘o ffuoco rint’ ‘o pietto tuoje

‘a sinò lieve mane.

Quanne arrivarrà ‘o mument

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e si è chelle ca fa pe tte

sta sicur ca te vene

e nun se ferme cchiù

fine a quanno nun ce muore

o fine a quanno nun t’accire.

Nun ce stanne ati mmanere

t’ ‘o ddico comme a nu frate.

Ce simme passate tutte quant.

Antonio Perrone

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CARTINA, TABACCO E FILTRO

Cartina tabacco filtro,

ci passo la lingua umida

per assemblare il tutto

come colla

come poesia

come una stanza illuminata da una fioca lampada fatta a mano.

L’accendo,

qualche boccata ed è finita

come un respiro

una poesia

milioni di vite.

Cartina tabacco e filtro

è tutto quel che mi serve

per aspirare ancora qualche attimo di vita

prima che accendano la miccia

e mi esploda tutto in faccia.

Intanto che ci passo la lingua

qualcuno continua a coltivare banconote nel proprio giardino

credendo che siano tutto.

Poveri sciocchi,

ancora non sanno che è solo carta,

basterebbe quest’accendino per svalutarla.

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Sono troppo pigro per occuparmene,

lascio che siano le loro stesse azioni a far riflettere

un giorno

forse

mai.

Cartina tabacco e filtro,

un modo come un altro per far passare il tempo

in attesa che smetta di piovere là fuori

e magari anche qui dentro.

Luigi Moggio

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PIGMALIONE NON ARRIVERÀ MAI AL PUNTO G

o l'incontro tra un ritratto e una scrutatrice.

Si agitavano immobili

Ognuno nascosto dentro i propri sguardi

Agivano da soli

Ritratto - Quale gesto è chiave delle tue labbra?

Rive molli morse da soffocato riguardo,

Il mio cuore è già in naufragio

Immobile il resto.

Scrutatrice – Osserva la gente

Senza aspettare nessuno.

Il suo sguardo mi tocca,

Non coglie, non mente; interroga.

Una cornice apparente

Impedisce alla verità di dissimularsi

Mobile il resto.

Ritratto – In che modo approdare nei tuoi silenzi?

Vivo in eterno maledetto dal ricatto del tempo.

Guardarti è un antidoto,

Un’immagine

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Che mi riempie senza tregua.

Se mi sporgo vedo l’azzurro del Mediterraneo.

Scrutatrice – Tu, fuga assopita dalla morte,

In te dorme il tempo,

Lieve ed implacabile

Indugia eterna sulla tua bocca

La parola che ci separa.

Lo so, me lo dirai, domani,

Chissà, forse.

Francesca Sante

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HORUS

Ero nei guai. Tutti noi otto lo eravamo. Chiusi in quella stanza,

ciascuno dinanzi a un foglio bianco da riempire. Una storia, dovevo

trovare una storia… come se fosse facile! Eppure, era fondamentale

farlo. Se avessimo imparato a governare con strumenti razionali i

meccanismi che presiedevano alla nostra sfera immaginifica, se

fossimo riusciti a prendere consapevolezza di ciò che era frutto

della reale percezione della realtà, e cosa invece un elaborato

frutto esclusivo della nostra mente, le terribili allucinazioni di

cui soffrivamo avrebbero smesso di tormentarci. Era una terapia

sperimentale, ma per quasi tutti noi era davvero l’ultima speranza,

dove la scuola terapeutica ufficiale e gli psicofarmaci avevano

fallito. Proprio la settimana prima, mia moglie m’aveva trattenuto

a stento mentre stavo per tuffarmi dal balcone al quarto piano,

convinto di scavalcare una staccionata che si frapponeva fra me e

un verde pascolo. Mi tormentavo il cervello da dieci minuti ma

nulla ne usciva. Sbirciavo il mondo oltre la finestra, prestando

orecchio ai rumori della strada. La stanza non offriva tanti

appigli all’immaginazione. Bianche le pareti, noi seduti vicino ai

tavoli sparsi, a cercare di buttare giù due righe. Unica nota

caratteristica, alcuni papiri decorati, di quelli che si trovano su

qualsiasi bancarella degli africani. Horus, il dio dalla testa di

falco, con la sua regale tiara bianca, stava in piedi tra due

sconosciuti le cui sembianze ricordavano la maschera funeraria di

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Tutankhamon. Sì, avrebbe potuto immaginare una storia ambientata

in Egitto, qualcosa di esotico. Dalla strada giunse, inatteso tra i

rumori del traffico di città, un aspro verso d’uccello. Tornai a

fissare il papiro incorniciato. Uno degli uomini porgeva doni a

Horus, l’altro era rivolto verso una figura femminile. Iside,

probabilmente. Quanto avrei voluto conoscere quella scrittura

fatta di occhi, uccelli stilizzati e altre forme strane, per poter

capire la storia che il disegno illustrava.

Ma così non era, e per giunta la stanza si era fatta scura e a stento

riuscivo a distinguere i segni. Eppure, eravamo in pieno giorno.

Tuttavia, in quel momento mi accorsi di essere solo. Spariti tutti

gli altri, scomparsa la stanza con le pareti bianche. I geroglifici

tracciati prima sul papiro incorniciato erano ora dipinti sulla

parete di pietra. Scomparse anche le finestre, era in una larga

stanza che sembrava un sotterraneo, illuminata da poche fiaccole.

Nulla si udiva, tranne, a intermittenza, il verso d’uccello di prima,

senza che però potessi individuarne la provenienza. Non capivo cosa

mi ricordasse quel suono, poteva essere la voce di un falco?

Cominciavo a esserne spaventato, non prometteva nulla di buono.

Mentre lo cercavo con lo sguardo, in un angolo trovai un’apertura

nel muro. Poco più che una larga e profonda fessura nel muro, in

cui la paura mi spinse a infilarmi, graffiandomi il corpo contro

la pietra. Appena oltre, uno scuro cunicolo in cui mi inoltrai

spedito. Quasi subito distinsi un chiarore. Da lontano mi giunse

quel verso minaccioso e seppi ch'era già sulle mie tracce. Così corsi,

per quanto mi era possibile nell’oscurità, e man mano che il

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chiarore si avvicinava mi resi conto che il cunicolo sbucava nella

stanza in cui mi trovavo poco prima. Vedevo tutti gli altri ancora

intenti a scribacchiare su quel maledetto foglio come se nessuno

avesse notato la mia assenza. Il grido del falco si avvicinava, io

però ero sollevato, perché sapevo che rientrato nella stanza sarei

stato al sicuro. Scattai avanti con frenesia verso la fine del

cunicolo, ma invece di sbucare nella stanza bianca mi scontrai con

un muro invisibile, impattando con fracasso e dolore. Con la pelle

gelata per il contatto con la parete invisibile, osservai incredulo

gli altri. Ancora non sembravano scuotersi dal loro torpore,

nonostante il fracasso che avevo provocato. Il quel momento capii

che ciò contro cui premevo era il vetro che proteggeva il papiro

incorniciato, solo quel sottile strato di vetro che tuttavia io non

riuscivo a sfondare. Horus, il maledetto, mi aveva catturato, lo

sentivo avvicinarsi in volo nel buio lanciando il suo richiamo

famelico. Io aspettavo la morte premendo disperato contro il vetro

e urlando. Ma gli altri restavano pensosi sui loro fogli senza

accorgersi di nulla.

Vincenzo Barone Lumaga

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REDAZIONE

CLAUDIO LANDI

QASIR AL-QASIR (QUISILIO MIRAGLIA)

SALVATORE VALENTE

ANDREA CORONA

LUCIO ADRIANO PANTANI

MIRKO ZITO

DAVIDE PROIETTI

FRANCESCO VERRENGIA

CRISTIAN MEZZO

Tutte le illustrazioni a cura di Christopher Lee Donovan

PER PROPOSTE DI COLLABORAZIONE, COMMENTI E

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