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Pixar, Inc

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La Disney del duemila Pixar, Inc. è un saggio sulla più rivoluzionaria casa di produzione dei nostri anni. Sui geni dell’animazione che ci hanno regalato quei capolavori a 3D: Toy Story, Alla ricerca di Nemo, Bug’s Life – Megaminimondo, Monsters & Co., Gli incredibili.

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Gianluca Aicardi

Pixar, Inc.La Disney del Duemila

Prefazione di Ferruccio Giromini

Le virgole. Argomenti 8

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I edizione: luglio 2006Copyright © Tunué Srl

Via degli Ernici 3004100 Latina – [email protected]

Diritti di traduzione, riproduzionee adattamento riservati per tutti iPaesi.

Per le immagini, ove non diver-samente specificato, copyright ©degli aventi diritto.

ISBN 88-89613-15-7ISBN-13 EAN 978-88-89613-15-3

Progetto grafico:Daniele InchingoliGrafica di copertina:Carlo Piscicelli

Stampa e legatura: Tipografia Monti SrlVia Appia Km 56,14904012 Cisterna di Latina (LT)Italy

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Prefazione di Ferruccio Giromini 7

Introduzione 15

I. A PIXAR’S LIFE 21Sotto le ceneri 21Suoni, luci e magie 23Dall’analogico al digitale 26Su immagini nuove facciamo trucchi antichi 28L’Uomo della Mela 32Verso l’infinito… 34… E oltre 38In pieno Rinascimento 41Giocattoli tecnologici 43Non solo Lasseter 48Il pesce dei record 51La Disney del Duemila 55

II. I CORTOMETRAGGI 67Luxo Jr. 68Red’s Dream 69Tin Toy 70Knick Knack 72Geri’s Game 74

Indice

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For the Birds 75Boundin’ 76One Man Band 77

III. I LUNGOMETRAGGI 79Toy Story 81A Bug’s Life 84Toy Story 2 87Monsters, Inc. 89Finding Nemo 92The Incredibles 95Cars 98Ratatouille 101

Appendice I. Schede biografiche 103Appendice II. Filmografia 108Appendice III. Palmarès essenziale 110

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Welcome to Pixarland

Ci vuole sempre qualche anno per sistemare nella giustaprospettiva quanto è accaduto, quanto si è vissuto. Mentre gliavvenimenti si vivono, si finisce per attraversarli e lasciarse-ne attraversare con una certa naturalezza, come di fronteall’inevitabile quotidiano, e solo a distanza ci si accorge diavere magari occupato un posto in prima fila dinanzi amomenti riconosciuti come storici, a spettacoli destinati adivenire di culto, a snodi culturali importanti o persino fonda-mentali. È questo il caso, per esempio, delle prime provedella Pixar di John Lasseter nel settore dell’immagine tridi-mensionale animata.

Parliamo dunque degli anni Ottanta, che oggi sembrano giàlontanissimi; anzi, ancora più indietro. Ricorrendo a qualchetestimonianza personale, anche emotiva, devo premettere chesono sempre stato un appassionato di cinema d’animazione,fin da bambino naturalmente; e poi a partire dalla metà deglianni Settanta, quando ventenne ho cominciato ad esercitare il

Prefazionedi Ferruccio Giromini*

* Ferruccio Giromini è studioso di immagine e arti visive. Si occupa difumetto, animazione, illustrazione, arte contemporanea, con articoli, cure dimostre, rassegne a livello nazionale e internazionale. Suo, con Maria GraziaMattei, è uno dei primi, rivelatori libri italiani sul cinema d’animazione in com-putergrafica: Computer Animation Stories, Roma, Mare Nero, 1998.

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giornalismo, pure in veste professionale. Pertanto una dellemie maggiori gioie è sempre stata partecipare ai festival spe-cializzati, a partire dal glorioso Salone di Lucca degli annid’oro, per poi procurarmi provvidenziali accrediti relazionan-do per qualunque testata compiacente sui vari incontri perio-dici di Treviso, Annecy, Genova, Milano, Roma, e poi via viaPositano, Genzano, fino a – massima libidine – organizzarnealtri io stesso, da Perugia ad Atene. Negli anni Ottanta, alloracon la scusa di scriverne per Comic Art o per Zoom, ogni annoa febbraio frequentavo con diletto l’esclusivo forum dedicatoalle neonate immagini elettroniche Imagina di Montecarlo,nel Principato di Monaco, che per me genovese era pure diaccesso relativamente facile. Nelle primissime edizioni, miritrovai unico giornalista italiano presente. Poi cominciaronoad arrivare Maria Grazia Mattei, allora critica soprattutto divideoarte, e Antonio Caronia, in veste specialmente di esper-to di fantascienza e di filosofo della scienza. E poi, pian piano,anche qualche inviato di quotidiano più curioso degli altri.

Non sembrino notazioni oziose. Il senso di questo amar-cord è che allora, per l’intero decennio Ottanta e perfinoancora un po’ oltre, la computer animation veniva considera-ta, in genere, come una originalità scientifica, una sorta diestensione tecnica di quello che si chiamava ancora CAD(computer aided design), insomma un giochino ancora riser-vato soprattutto agli ingegneri informatici. E bisogna ricono-scere che le immagini animate in 3D, in quegli anni, di fattoerano molto «ingegneristiche» e davvero molto poco «artisti-che». Le brevi animazioni prodotte rappresentavano una sortadi saggetto di fine corso, in cui venivano concentrate ed esi-bite le applicazioni di innovativi software appena completatie che spesso si intendeva commercializzare. Erano brevi ebrevissime dimostrazioni di algoritmi, di regola non narrati-ve. Per quanto vieppiù stupefacenti dal punto di vista tecnico,e idealmente spettacolari, apparivano come sequenze senzacapo né coda.

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Per chi volesse qualche riferimento cronologico immedia-to, ricorderò a chi c’era – e chiedo invece a chi non c’era unpiccolo sforzo di documentazione o d’immaginazione – che iprimi videogiochi a grande diffusione (Pac-Man, DonkeyKong, Mario) sono del 1981; la prima workstation SiliconGraphics, imponente e costosissima, è del 1982; il primo soft-ware Wavefront per effetti tridimensionali è del 1984; ilprimo PC Commodore Amiga, particolarmente versato per lagrafica dei videogiochi, ancora in gran parte 2D, è del 1985.Siamo in epoca pionieristica, dunque, in eroica atmosfera daconquista irruente della Silicon Valley. Le prime immaginitridimensionali sono rigorosamente puri solidi geometrici e almassimo composizioni un po’ più complesse di figure sempli-ci. Basterà ricordare che il grezzo (ma nel 1981 quanto mera-viglioso!) Pixnocchio di Giuseppe Laganà e Guido Vanzettiappariva quale mero (si fa per dire…) assemblaggio di pixelcubici in colori primari.

In quel panorama 3D primordiale, dove timidamente simuovono solo una figura umana semplificatissima, del tuttostilizzata, che si limita a scendere una scala, e degli indefini-ti animaletti in essenziale struttura «a fil di ferro» che corro-no su una grata di triangoli non allineati (Human Skeleton eSkeleton Motion, di David Seltzer, per il Media Lab del MIT,rispettivamente 1981 e 1984), o due specie di felini, uno checammina lento verso una piramide metallica (Bio Sensor diKoichi Omura, 1984) e l’altro che percorre a balzi un impro-babile paesaggio geometrico (Gold Power di Bob Abel,1985); ancora, su di un palcoscenico dove agiscono solo gof-famente un Mick Jagger scheletro di neon colorati (HardWoman di Bill Kroyer, 1985), un pianista dalle movenzequanto mai rigide (Tony De Peltrie di Philippe Bergeron,1985) e una ben impacciata automa progenitrice di Lara Croft(Sexy Robot di Bob Abel, 1985); be’, ci si può immaginare lalieta quanto sconvolgente sorpresa all’irrompere sullo scher-mo delle perfette creaturine partorite da John Lasseter.

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PREFAZIONE

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Per la verità, il pupazzetto protagonista di The Adventuresof André and Wally B. (1984) appariva ancora un poco legatonella sua struttura fisica e nei suoi movimenti, anche se l’apecoprotagonista mostrava già una maestria nel muovere frene-ticamente le ali che nessuno aveva mai neppure immaginatodi poter riprodurre con tanta fedeltà. Ma due anni dopo, quan-do la compassata platea del Forum International desNouvelles Images organizzato dall’Institut National del’Audiovisuel si trovò davanti le due lampade babbo e figliodi Luxo Jr., un fremito generale e irrefrenabile la percorsesensibilmente. Quello non era certo l’esercizietto di stile, perquanto sorprendente, a cui gli informatici si erano abituati finlì. Diamine, quello era un film. Una (piccola) storia. Degliattori – per quanto in origine inanimati – che recitavano, ebene. Un’emozione vera. Una meraviglia tecnica che si pre-sentava per la prima volta in modo rotondo anche come mera-viglia espressiva. Qualcosa di mai visto prima.

Ed ecco lì aleggiare l’indefinibile sensazione di essere statitestimoni della Storia, o forse del Mito. Chi più chi meno, tec-nici e creativi scoprivano il matrimonio perfetto dei loro duemondi, fin lì non ancora comunicanti. L’attimo fuggente di unEden primigenio da cui sarebbero derivati fiumi di discenden-za. Via via i successivi minifilm Red’s Dream nel 1987, TinToy nel 1988, Knick Knack nel 1989 ne rappresentarono ifiglioli, a loro volta biblici patriarchi di tanto altro a venire:dai celebrati lungometraggi degli anni Novanta e Duemila (idue Toy Story, A Bug’s Life, Monsters & Co., Alla ricerca diNemo, Gli Incredibili e l’ultimo Cars) ai cortometraggi poste-riori, a tutto quanto ancora ci riserverà la Pixar, con il geniet-to Lasseter in prima fila o dietro le quinte. E tutto ciò si trovaordinato nelle pagine seguenti, allineate con grande diligenzada Gianluca Aicardi alternando molte notizie nude e crude agiudizi critici controllatamente equilibrati, mai laccati dientusiasmi eccessivi (come spesso invece accade in casi con-simili).

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In questo piccolo libro la fantastica storia della Pixar, finqui, c’è tutta. Accuratamente sviscerata. Io ho voluto soloaggiungervi l’emozionato ricordo personale della scoperta dimeraviglie del tutto nuove. Perché se ogni epoca ha le suesorprese e ogni generazione ha i suoi eroi, non v’è dubbio chel’allegro messer John Lasseter e i suoi colleghi cavalieri dellaPixar sono anch’essi piccoli grandi eroi di una delle nostremitologie contemporanee, a cavallo tra un millennio e l’altro.Sia loro tributata la gloria che meritano.

Genova, luglio 2006

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PREFAZIONE

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A Joe Ranft,che adesso non potrà più smarrire

il suo fischietto

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Il cinema è un’arte in corso d’evoluzione: è giovane, ha dapoco superato il suo primo secolo di vita e sta ancora forgian-do e ampliando i suoi strumenti. Non è una questione mera-mente anagrafica, bensì ontologica: nessuna forma espressivaumana è così strettamente legata all’elemento tecnologicoquanto la settima arte, che tira in ballo la questione tecnicanella sua stessa definizione operativa. Se oggi si può ancoradipingere con gli strumenti di Raffaello, scolpire alla manieradel Canova, comporre musica usando il pianoforte di Mozarte rappresentare un’opera di Shakespeare come si faceva allacorte elisabettiana, con risultati ancora attuali, altrettanto nonsi potrebbe dire di un cineasta che decidesse di filmare limi-tandosi ai mezzi tecnici dei fratelli Lumière, o anche soloquelli di Chaplin, Kurosawa o Hitchcock.

È straordinaria, in questo senso, l’opposizione che si creafra il modo, pressoché univoco, in cui il cinema viene esposto(pur nelle sue differenziazioni tecniche, intervenute soprattut-to negli ultimi vent’anni, si tratta sempre e sostanzialmente difissare uno schermo luminoso di dimensioni variabili, unagamma molto limitata rispetto alle molteplici e divergentiforme assunte, per esempio, dalle arti plastiche) e il modo incui esso viene invece composto, mediante sistemi che comin-ciano ad avere poco a che vedere con quelli che lo hanno vistonascere, tanto da aprire un dibattito sull’opportunità di conti-

Introduzione

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nuare a usare terminologie come film/pellicola in un imminen-te futuro in cui i supporti di ripresa e proiezione diverrannosempre meno tangibili.

Questo discorso ne introduce un altro, che ci avvicina allamateria di questo libro: fra tutti i sistemi possibili per crearecinema, cioè per generare e riprodurre immagini percepite inmovimento dall’occhio umano che le osserva, ve n’è uno chestoricamente più di ogni altro ha offerto terreno alle avanguar-die sperimentali, alla ricerca tecnologica e all’indagine esteti-ca; si tratta di quel cinema che crea il suo movimento ex nihi-lo, anziché riprendere movimenti realmente compiuti daoggetti e persone reali: il cinema d’animazione. Come già fie-ramente sentenziava uno dei suoi più grandi artisti, pionieri eteorici, l’animatore russo Alexandre Alexeïeff (nella brillanteintroduzione a Giannalberto Bendazzi, Topolino e poi, Milano,Il Formichiere, 1978), in realtà l’animazione, più che parentedel cinematografo, ne è progenitrice, essendo nata almeno treanni prima dell’invenzione dei Lumière, che viene a costituir-ne soltanto «un caso particolare […], una sorta di sostitutoindustriale a buon mercato».

Ciò che qui interessa, comunque, è notare come nel campodelle immagini in movimento è proprio dall’animazione (o daforme a essa apparentabili) che sono nati molti dei principaliesperimenti tecnici che hanno segnato la stessa storia del cine-ma, ed è nell’ambito dell’animazione che si è formata la granparte dei geni pionieristici. Oggi, a cent’anni di distanza daitrucchi ottici di Méliès, l’animazione si pone più che mai allatesta di quel rinnovamento che ha condotto il cinema a varca-re il suo secondo secolo di vita, trasformandolo in qualcosa diconcettualmente nuovo e aprendogli potenzialità inimmagina-te e amplissime. Si tratta di un’animazione di per sé stessa ine-dita e rivoluzionaria, legata all’invenzione più radicale e carat-terizzante dell’ultimo mezzo secolo di storia umana: il calco-latore elettronico. L’uso del computer ha infatti portato a unamodifica estrema del modo stesso di creare e percepire l’ani-

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mazione, con profonde ricadute sul cinema tutto, che ha usu-fruito delle possibilità quasi infinite fornitegli dagli strumentidigitali, vedendo mutare il proprio scenario creativo con risul-tati clamorosi che non hanno risparmiato nessun settore, inve-stendo tanto l’industria più standardizzata quanto le nicchieautoriali, il cinema d’impegno, il documentario, il film d’arti-sta, arrivando a sovvertire completamente i concetti di post-produzione ed effetti speciali.

Questo libro, tuttavia, si annuncia incentrato su di unasocietà cinematografica in particolare, su coloro che l’hannofondata e portata al successo commerciale, e sui film che daessa sono stati realizzati. Perché allora introdurre le vicendedello studio californiano noto come Pixar citando la nascitadell’animazione digitale tout court, quasi che le due cose fos-sero sinonimiche?

È presto detto: perché in qualche modo è davvero così; laPixar non è infatti una società di cinema digitale fra le tante, enemmeno semplicemente la società che ha saputo fare del 3Dal computer un business multimilionario, riuscendo sempre asfornare i prodotti più riusciti e remunerativi. La Pixar è, intutto e per tutto, la società che ha letteralmente dato vita all’at-tuale tendenza dell’animazione digitale, e con essa alla conse-guente riforma del cinema dal vero. Gli uomini che ne sonostati artefici erano negli anni Ottanta i pionieri di un nuovo,inusitato metodo per creare immagini in movimento; i nuoviCohl, McCay, Starewitch; i nuovi Fleischer, i nuovi WaltDisney e Ub Iwerks.

Due scienziati con la passione per la grafica computerizza-ta: Edwin Catmull e Alvy Ray Smith; un giovane ma potenteindustriale dei computer in cerca di nuove sfide: Steve Jobs;un animatore dal talento formidabile e dall’estetica definita:John Lasseter. Insieme, questi creativi a stelle e strisce passatiper la fondamentale esperienza lavorativa presso un altrovisionario con lo sguardo puntato verso il futuro come GeorgeLucas, hanno ideato e concretizzato un marchio destinato a

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INTRODUZIONE

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diventare nell’arco di un ventennio l’emblema della computeranimation, così come la Disney lo era stata fino a quelmomento per il disegno animato tradizionale.

Per capirne la portata, si provi a cercare il nome Pixar con unqualunque programma di condivisione peer to peer: si trove-ranno attribuiti al brand di Lasseter e soci praticamente tutti ifilmati in 3D prodotti negli ultimi anni. Come a dire cheaggiungere «Pixar» al nome del file è un modo rapido e sem-plice per spiegare di cosa si tratta: animazione tridimensionaleal computer. Per estensione, tutta l’animazione 3D di successo,con buona pace di avversari del calibro di DreamWorks/PDI,20th Century Fox/Blue Sky e Sony Animation.

Ma al di là delle innovazioni tecniche di cui si dirà (senzascendere in eccessivi tecnicismi: siamo all’interno di quellasfera che trasporta l’arte e lo spettacolo sui territori del piùpuro hi-tech, figlio di una tecnologia informatica ed elettroni-ca in costante sviluppo), cosa caratterizza i film della Pixar? Inmolti, addetti ai lavori e commentatori in primis, hanno cerca-to di enucleare una presunta «ricetta Pixar». Vari conferenzie-ri, in tutti gli eventi di settore, si sono sgolati nel sottolinearecome la Pixar, a differenza di quasi tutti i suoi contendenti,ponga maggior enfasi sulle storie narrate dalle sue pellicole, ecerchi di «comunicare», non semplicemente di inanellare gage costruire personaggi carini e solo commercializzabili (puressendolo indubbiamente anch’essi). In linea di massima sipuò dire che i film targati Pixar, benché squisitamente ameri-cani e ispirati al classico modello Disney, si rivelano in gradod’incollare allo schermo e richiamare al cinema spettatori diogni età, vuoi per l’indubbio primato tecnico, vuoi per un’ac-corta attenzione nei confronti di tutti gli elementi che compon-gono un film, non ultime la sceneggiatura, la costruzione deipersonaggi, la coerenza narrativa, e perfino una forma di rico-noscibile poetica, talvolta sconfinante nella parabola formati-va di stampo disneyano, anche se molto meno zuccherosa equasi sempre abile nell’evitare derive didascaliche. L’ascesa

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INTRODUZIONE

della Pixar si situa nel momento in cui l’ex monopolistaDisney arrancava cercando disperatamente e invano di ritrova-re la chiave per raggiungere un pubblico sempre più distante,divenuto nel giro di pochi anni incapace di riconoscersi in alle-gre bestiole parlanti, canzoncine stucchevoli e classici dellaletteratura semplificati per fini ora educativi ora spettacolari.Un panorama scoraggiante finanziato dalle attività collaterali(parchi, gadget, televisione) e dallo sfruttamento indiscrimina-to del patrimonio storico con infiniti e spregiudicati sequel abasso costo per il circuito home video (mercato formato per lopiù da famiglie con prole in prima età scolare e poca attitudi-ne al grande schermo); in questo scenario in disfacimento, checulminerà con l’apparente rinuncia al disegno animato cine-matografico, anche le rare gemme in controtendenza (Le folliedell’imperatore, Lilo & Stitch) vengono ingoiate nel generaledisamoramento di spettatori ed esegeti, forse un po’ ingiusta-mente attirati dal «giocattolo nuovo» della computergrafica.

Così la Pixar ha vissuto un decennio dorato, accumulandoOscar tecnici e non, monopolizzando il plauso della criticaanche intellettuale, meravigliando il pubblico con traguarditecnici sempre più sorprendenti, cuciti attorno a storie grade-voli e mai pretestuose, frutto di un imponente spiegamento dirisorse regolarmente ripagate da guadagni record. Soprattutto,e sta forse qui il suo merito maggiore, non stancandosi mai ditrainare una ricerca tecnologica senza pari, contribuendo a unodei più massicci laboratori aperti di ricerca nella storia dellatecnologia applicata al cinema.

Per festeggiare i vent’anni dalla sua fondazione, dal 1° apri-le al 10 giugno 2006 è stata allestita al Museo delle Scienze diLondra una mostra dedicata alle creazioni e all’immaginariodella Pixar, con decine di bozzetti, schizzi preparatori e proved’animazione di giocattoli viventi, insetti da circo, mostripelosi, creature marine, supereroi e auto parlanti. E adesso cheè stata attuata la sospirata fusione fra il giovane colosso Pixare il vecchio gigante Disney, c’è chi vocifera che la squadra di

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Lasseter, formata da animatori abili e raffinati che spessohanno dimostrato di conoscere e amare l’animazione del pas-sato, potrebbe addirittura mettere da parte il 3D e cimentarsiper una volta nel disegno bidimensionale old fashion. Lasseterstesso, grande amico e sostenitore di un maestro dell’anima-zione tradizionale come Hayao Miyazaki (dei cui film ha pro-dotto e supervisionato il doppiaggio americano), viene spessoparagonato a Walt Disney, malgrado quest’ultimo fosse anchee soprattutto un tycoon, oltre che un artista e un inventore.

Il futuro della Disney-Pixar, e con esso inevitabilmente ildestino dell’intera animazione cinematografica americana, ècomunque ancora tutto da confermare, e c’è da chiedersi cosapotrebbe spingere ad abbandonare, foss’anche solo per unasingola occasione, una produzione tanto fruttuosa in terminieconomici e artistici come quella del 3D digitale. Forse lo stes-so motivo per cui un campione di motociclismo potrebbe volerprovare a correre sulle quattro ruote: un tale desiderio di cer-care nuovi stimoli da spostarsi persino in direzione contraria alproprio consolidato know-how; ma resta appunto da vedere see quando alla Pixar sembrerà di aver raggiunto un punto di sta-gnazione nelle sfide tecniche ed estetiche che ancora restanoda affrontare col digitale. E per adesso, sembra lecito suppor-re che un tale evento non sia a portata di vista.

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Sotto le ceneri

Il cinema hollywoodiano è da sempre la più importanteindustria cinematografica al mondo, se non come numero dipellicole prodotte annualmente (campo in cui viene è stataspesso battuta dai giganteschi mercati asiatici quali India eHong Kong), di sicuro come impatto mediatico planetario.

Negli anni Settanta, tuttavia, il cinema statunitense stavavivendo un periodo di appannamento economico e produttivo:la cosiddetta Golden Age (il periodo di massimo splendore diHollywood, dall’avvento del sonoro alla fine degli anni Trentafno all’esplodere della TV) era cessata già negli anni Cinquanta,il sistema dei generi era collassato sotto il peso della sua reite-razione, le grandi star erano invecchiate, la televisione avevainteramente monopolizzato l’affetto e l’attenzione della gente,e le conseguenze di questo nuovo scenario si rendevano evi-denti anche a livello economico. Le grandi produzioni spetta-colari e gli investimenti faraonici alla Howard Hughes eranoun ricordo del passato, mentre il clima delle contestazioni gio-vanili e delle lotte sociali, nate sulla scorta di una rinnovata spi-ritualità o, d’altro canto, di un approccio sempre più politicoalla cultura e all’intrattenimento, stava ponendo l’accento suproblemi ormai difficili da ignorare come l’integrazione razzia-le, la criminalità, la violenza urbana o le conseguenze della

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guerra in Vietnam; una crisi universale del sogno americanoche ha trasformato la faccia dell’America e, di conseguenza, ilsuo entertainment, favorendo una generazione di pellicolemaggiormente improntate alle problematiche del reale e menoalla poetica dell’escapismo o della rilettura trasognata: gli sti-lizzati noir degli anni Quaranta cedono il posto a polizieschicrudi e politicizzati, alle commedie sofisticate si sostituisconole parodie satiriche e il surrealismo demenziale, ai film incostume le cupe ambientazioni metropolitane, alla fantascienzail film catastrofico. E, più in generale, al grosso spiegamento dimezzi produttivi subentra la necessità quasi morale di un cine-ma più raccolto e d’impegno,1 la cui figura cardine non è più ilproduttore-tycoon, ma il regista-autore.2

Ciò nonostante, qualche nicchia di cinema ad alto budgetresiste ancora, e con essa la piena e mai sopita volontà spetta-colare del cinema di Hollywood una tendenza che meritereb-be peraltro di essere analizzata in modo più accurato, e non,come spesso accade, giudicata superficialmente quale meraespressione di una volontà di pacificazione collettiva, di unafuga oppiacea dai malesseri del quotidiano, quasi un tappetomediatico sotto cui nascondere la sporcizia della realtà). È pro-prio a partire da questo milieu che ciò che si potrebbe sbriga-tivamente definire «il cinema del sogno», in contrapposizionealle nuove tematiche «realiste», torna a splendere nel corsodegli anni Ottanta, fino a estendere di nuovo la sua influenzaa gran parte del cinema hollywoodiano contemporaneo, chenell’ultimo decennio ha assistito al prepotente ritorno deigrandi budget e degli incassi da record, persino in un’epoca incui il cinema non rappresenta più il re dell’intrattenimentopopolare e deve fare i conti con moltissime altre forme, anchedirettamente similari, di media visivi.

E se dobbiamo cercare un perno centrale a tutto questo pro-cesso, una personalità di spicco che abbia guidato la rinascitadel cinema spettacolare americano degli anni Settanta, il nomegiusto è sicuramente quello del regista e produttore californiano

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A PIXAR’S LIFE

George Lucas. Nel 1969, ancora venticinquenne, Lucas avevacreato a San Francisco insieme a Francis Ford Coppola la socie-tà di produzione American Zoetrope, nata con lo scopo diaffrancare i creativi dal controllo opprimente dello studio systemdi Los Angeles, contribuendo a mettere la macchina produttivadel cinema nelle mani dei suoi stessi artefici: i registi. Con laZoetrope, Lucas produsse i suoi primi due film, THX 1138(1971) e American Graffiti (1973), i cui successi lo lanciaronosulla scena mondiale e gli avrebbero spianato la strada per ipassi successivi della sua personale rivoluzione. A condurcidirettamente al cuore del nostro tema è infatti l’aspetto partico-lare e dominante della ricerca di Lucas: il suo inesauribile inte-resse per l’evoluzione tecnologica del mezzo cinematografico.

Suoni, luci e magie

Già nel 1971 a Marin County, nella baia di San Francisco,Lucas aveva dato vita a una sua propria casa di produzione, laLucasfilm, con la quale avrebbe prodotto tutte le sue operesuccessive3 a partire da Star Wars (1977), il titolo che rilanciòa livello internazionale il cinema di fantascienza e di effettispeciali, e creò un esempio destinato a cambiare le produzionidel trentennio successivo, introducendo per primo elementicome la progettazione preliminare «a episodi», il marketingstrutturato e il ruolo centrale del reparto tecnico di post-produ-zione (ma anche, come osservano i detrattori, creando la ten-denza iper-commerciale di pellicole «pop-corn» basate suglieffetti mirabolanti a uso e consumo di un pubblico di teenager,i cosiddetti high concept movie).4

E proprio in accordo con la ricerca tecnologica che caratte-rizza fin dagli esordi il suo approccio alla settima arte, Lucasfonda diversi studi sussidiari alla Lucasfilm, tra cui il premia-tissimo laboratorio di post-produzione audio SkywalkerSound (situato, come per molto tempo la stessa Lucasfilm, nel

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favoloso Skywalker Ranch, la faraonica villa-fattoria diGeorge Lucas che prende il nome dal celebre protagonista diStar Wars) e la storica società di effetti speciali IndustrialLight & Magic (oggi situata, insieme alla casamadre, nelLetterman Digital Arts Center del Presidio di San Francisco, inCalifornia). La ILM, nata nel maggio 1975, sarebbe divenuta lostudio di riferimento mondiale per la creazione di specialeffects in ambito cinematografico, e avrebbe raccolto nel corsodella sua carriera qualcosa come 14 premi Oscar per i miglio-ri effetti visivi e ben 22 Oscar tecnici, i cosiddetti «Scientific

Il logo originario della ILM di George Lucas.

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and Engineering Award» e «Technical Achievement Award»,assegnati, parallelamente a quelli artistici della «Notte degliOscar», per le innovazioni tecnologiche e i conseguimentiottenuti nel proprio settore di ricerca.

La genesi dello studio risale all’avvio della produzione diStar Wars: per il suo film più ambizioso Lucas desiderava rea-lizzare effetti speciali di un livello e una complessità mai rag-giunti in precedenza, qualcosa che fosse interamente nuovo epotesse rappresentare un’esperienza unica per lo spettatore. La20th Century Fox, che aveva accettato di finanziare la pellico-la, aveva appena smantellato il suo reparto di effetti speciali; aLucas serviva dunque una struttura nuova, in grado di riunireesperti all’avanguardia, giovani tecnici capaci di portare al suofilm soluzioni e idee anticonvenzionali, così da forgiare unafantascienza cinematografica molto diversa da quella dellaGolden Age, basata quasi interamente sullo stop motion.

Il creatore di effetti speciali più in vista a quel tempo eraDouglas Trumbull, che aveva fornito a Stanley Kubrick e ArthurClarke l’abilità tecnica necessaria a portare sullo schermo 2001:Odissea nello spazio. Trumbull declinò l’offerta di Lucas di gui-dare il nascituro dipartimento di effetti speciali della Lucasfilm,ma gli consigliò di rivolgersi al suo assistente John Dykstra, cheavrebbe messo insieme una squadra di tecnici e artisti entrata didiritto nella storia: il creatore di effetti Dennis Muren, il fotogra-fo Richard Edlund, l’art director Joe Johnston e l’animatorePhil Tippett5 fecero tutti parte del dream team che curò l’effetti-stica visiva di Star Wars, meritando i premi conseguiti e segnan-do un memorabile punto di svolta per l’industria degli effetti equella del cinema in generale. Dykstra si renderà fra l’altroresponsabile della creazione di dispositivi tecnologici avveniri-stici, fra cui il Dykstraflex, la prima macchina da presa inmotion control della storia, che gli frutterà due Oscar, uno tec-nico e uno artistico, permettendo i funambolici duelli fra navispaziali (ovvero fra modellini tridimensionali reali) che si pos-sono ammirare già nell’edizione originale di Star Wars.

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Dall’analogico al digitale

Sulla scia di queste iniziative, tese a portare la scienza del-l’era dei computer al servizio del cinema, Lucas fonda unadivisione interna alla ILM e dedicata esclusivamente allo svi-luppo delle tecnologie informatiche al servizio del cinema:alla fine degli anni Settanta, poco più di dieci anni dopo i primiesperimenti con le immagini di sintesi sugli schermi monocro-matici del MIT,6 gli effetti visivi digitali sembrano essere inqualche modo l’inevitabile futuro dietro l’angolo.

Il varo della Computer Division, avvenuto nel 1979, fu ladiretta conseguenza del reclutamento di Edwin Catmull delNew York Institute of Technology, l’uomo che sarebbe dive-nuto artefice e presidente della Pixar. Catmull, allora trenta-quattrenne, era per sua stessa ammissione un animatore man-cato: cresciuto con i lungometraggi della Disney, il suo sognodi ragazzino era stato quello di arrivare un giorno a lavorarenel mondo del cartoon cinematografico. E così sarebbe stato,anche oltre le sue più rosee aspettative, ma non nel ruolo cheaveva inizialmente pensato. Messi da parte gli aneliti artistici,infatti, Catmull si era iscritto all’Università dello Utah,seguendo i corsi di fisica e informatica. Concentrando i suoistudi sull’allora emergente campo della computergrafica,ancora prima di laurearsi avrebbe realizzato alcuni fondamen-tali passi avanti come il concetto di z-buffering (relativo al cal-colo della profondità degli oggetti tridimensionali),7 il texturemapping (la tecnica per «tappezzare» gli oggetti 3D rendendo-li realistici), i bicubic patches (sistemi matematici usati perrappresentare superfici curve nella modellazione 3D), gli algo-ritmi per l’anti-aliasing (che riducono i problemi di «scaletta-tura» di un’immagine digitale) e il processo di rendering sub-division surfaces (usato per migliorare l’efficienza nel calcolodegli oggetti 3D). Conseguimenti che lo avrebbero portato,una volta laureato, a fondare il Computer Graphics Lab al NewYork Institute of Technology.

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In alto, a sinistra, il ricercatore del NYIT Edwin Catmull, futuro fondatore dellaPixar.In alto, a destra, locandina di Futureworld, secondo capitolo della saga dell’an-droide impazzito Yul Brynner, con gli effetti digitali pionieristici di Catmull.Sopra, l’«Effetto Genesis» dal film Star Trek II: L’ira di Khan, vero esordiocinematografico della Pixar.

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Nel 1974 Catmull aveva anche già messo piede una primavolta in una produzione cinematografica, realizzando il primoeffetto digitale 3D della storia del cinema per la InformationInternational: la mano del robot (in realtà una renderizzazionedella mano sinistra dello stesso Catmull) interpretato da YulBrynner in Futureworld.8

Chiamato da Lucas in virtù della fama che si era creato conla sua attività all’avanguardia, Catmull si avvalse dell’aiuto diun altro precursore della grafica digitale con cui collaboravafin dal 1975 al laboratorio di computergrafica del New YorkInstitute of Technology: Alvy Ray Smith III, di soli due annipiù vecchio di lui e formatosi all’Università del New Mexico.Insieme a Smith, che si unì allo sparuto gruppo nel 1980 conil ruolo di Computer Graphics Director, Catmull sviluppò ulte-riormente le proprie scoperte, giungendo a risultati decisivi nelcampo del rendering (per cui Smith scrisse un sofware appo-sito) e del compositing digitale, la chiave per riuscire a combi-nare sullo schermo in modo convincente molteplici immagini,sia 3D che in ripresa dal vero. Con loro c’era fin dall’inizio unaltro compagno del NYIT, David DiFrancesco, seguito a breveda Malcolm Blanchard. Il dipartimento informatico di Catmullconstava a sua volta di vari sottodipartimenti, fra cui uno,denominato inizialmente Computer Graphics Group, cheavrebbe finito per occuparsi di animazione digitale sotto ilnuovo nome di Pixar Computer Animation Group.

Su immagini nuove facciamo trucchi antichi

La sottodivisione computeristica che avrebbe dato luogo allaPixar aveva il compito di mettere alla prova le idee elaborate daCatmull e Smith, sviluppando hardware e software dedicati. Idue progetti Paramount su cui questa Pixar embrionale si trovòcoinvolta furono quindi e inevitabilmente altrettanti traguardinella storia della computergrafica applicata al cinema: nel

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A sinistra, il cavaliere di vetro di Piramide di paura, il primo personaggio digi-tale nella storia del cinema.A destra, John Lasseter nel suo tipico e insostituibile look con sgargiante cami-cia hawaiiana, che ama indossare anche in circostanze ufficiali.

1982, la spettacolare scena in cui viene creato il pianetaGenesis in Star Trek II: L’ira di Khan fu la prima sequenzacinematografica interamente generata al computer (battendo di35 giorni l’uscita del pionieristico Tron della Disney);9 tre annidopo, nel 1985, venne invece tenuto a battesimo il primo per-sonaggio completamente digitale della storia del cinema,10 ilcavaliere di vetro di Piramide di paura (Young SherlockHolmes). E fra i realizzatori di quell’inquietante guerriero bidi-mensionale uscito dalla vetrata di una chiesa troviamo il nomedi un certo John Lasseter, giovane animatore nato nel 1957 aWhittier, poche miglia a sud-est di Los Angeles, e diplomatosinel 1979 al California Institute of the Arts con due brevi film adisegni animati: Lady and the Lamp, che aveva per protagoni-sta una lampada umanizzata, e Nitemare, sui buffi mostri cheinvadono la stanza di un bambino.

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Dopo un apprendistato in Disney, dove era stato animatoreper il corto natalizio del 1983 Mickey’s Christmas Carol e super-visore per il pionieristico progetto in computergrafica Where theWild Things Are (cfr. Nota 9), Lasseter era passato alla ILM,cominciando subito a dimostrare dimestichezza con la neonataanimazione digitale tridimensionale; fu lui a realizzare design eanimazione per un filmato dimostrativo che la Pixar (sotto ilnome di «Lucasfilm Computer Graphics Project») avrebbeinviato al SIGGRAPH, la convention annuale dedicata alle nuovetecnologie informatiche applicate al cinema:11 The Adventures ofAndré & Wally B., cortometraggio in computergrafica comple-tato nel 1984, un anno prima del cavaliere di Young SherlockHolmes, tradisce però tutta la sua natura di demo.

Negli ottantacinque secondi effettivi di svolgimento, giocatisulle note di alcune celebri arie rossiniane, vediamo il protago-nista André, colorato omino realizzato sfruttando forme geo-metriche elementari, risvegliarsi in una foresta, venire minac-ciato da Wally, un’ipertrofica e aggressiva ape (la «B.» del tito-lo si può infatti leggere come bee, appunto ‘ape’), e fuggiredopo averla distratta per venire poi raggiunto e punto in unfuori campo finale, seguito dal rientro in scena di Wally con ilpungiglione piegato, a suggerire una natura metallica della suavittima.12 Canovaccio elementare e regia approssimativa sonofrutto dell’informatico Alvy Ray Smith, mentre Lasseter dà ilsuo apporto in termini di utilizzo delle soluzioni visive dell’ani-mazione americana classica, dallo sguardo in macchina consuccessiva accelerazione alla Tex Avery (implementando per laprima volta nel 3D una forma di «motion blur»),13 a un primo efondamentale tentativo di applicare le leggi dell’animazionetradizionale disneyana alla computer animation.

Questo fatto sorprese gran parte degli addetti ai lavori di quelSIGGRAPH di ventidue anni fa, per la meraviglia di Lasseter, chedieci anni dopo tenne una conferenza sull’argomento proprio aun altro SIGGRAPH: «Quando presentai la mia prima animazio-ne realizzata al computer al SIGGRAPH del 1984, molta gente mi

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The Adventures of André & Wally B., la prima animazione al computer realizza-ta da John Lasseter.

chiese quale nuovo software d’animazione avessi utilizzato perottenere personaggi dalle movenze così realistiche. Spiegai chesi trattava semplicemente di un sistema per animazione in keyframe, in teoria non molto diverso da altri sistemi simili dispo-nibili a quel tempo. Quello che cambiava era che avevo usato iprincipi base dell’animazione che avevo imparato facendol’animatore dei disegni animati tradizionali. Non era il softwa-re che dava vita ai personaggi, erano i principi dell’animazio-ne, i trucchetti che gli animatori avevano sviluppato cinquan-t’anni prima. Rimasi stupito nel vedere quante poche personenell’ambiente della computer animation conoscessero queiprincipi».14 Questa combinazione delle tecniche digitali messea punto dagli scienziati della Pixar e delle conoscenze di ani-matore tradizionale di Lasseter sono alla base di tutta la succes-siva storia dello studio californiano. La quale storia stava percominciare con l’arrivo in scena dell’ultimo tassello del mosai-co: l’enfant prodige del computer Steve Jobs.

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L’Uomo della Mela

Lucas aveva intanto cominciato a riconsiderare il suo inve-stimento rivolto alla ricerca tecnologica sull’hardware, prefe-rendo concentrarsi sulla realizzazione di entertainment vero eproprio (con la ILM) anziché di strumenti informatici dedicati.Inoltre, le conseguenze finanziarie del divorzio dalla primamoglie Marcia Lou Griffin nel 1983 e un calo di rendita delmerchandising di Star Wars susseguente all’uscita del terzofilm della saga, Il ritorno dello Jedi, gli stavano creando lanecessità di monetizzare una parte delle sue proprietà.L’offerta d’acquisto per il dipartimento di computergraficadella ILM arrivò così da uno dei giovani tycoon più noti nel-l’emergente settore dei computer.

Nato a San Francisco nel 1955 da padre siriano e madreamericana, Steven Paul Jobs era stato dato in adozione ancorain fasce, e anche da adulto non avrebbe accettato i tardivi ten-tativi di riconcilazione della sua famiglia biologica. Di carat-tere spigoloso, umorale e irruente, tutto l’opposto del suo coe-taneo e futuro collega Bill Gates, Jobs condivide con questi laprecocità intellettuale e imprenditoriale: ancor prima di conse-guire il diploma di scuola superiore, entra a lavorare allaHewlett-Packard, nell’ambito di uno stage estivo retribuito incui conosce Steve Wozniak, di cinque anni più vecchio.Abbandonati dopo un solo semestre gli studi universitari alReed College di Portland e rientrato in California, trova lavo-ro alla Atari, compie un viaggio iniziatico in India, quindi nel1976, a 21 anni appena compiuti, insieme all’inseparabileWoz,15 fonda la Apple Computer, che sfruttando i progetti diWozniak sarebbe diventata una delle maggiori potenze mon-diali del ramo dei computer, arrivando a essere quotata inborsa in soli quattro anni.

Nel 1985, tuttavia, Jobs, già orfano dell’amico Wozniak,appena partito per altre imprese, viene messo in minoranza dalsuo stesso consiglio di amministrazione, guidato dal «tradito-

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re» John Sculley, e abbandona sdegnato la società vendendoogni singola azione in suo possesso. In cerca di nuove espe-rienze e senza perdersi d’animo, fonda la rivoluzionaria NeXTComputer, che pur mancando di riscontri economici importan-ti, catalizzerà lo sviluppo tecnico ed estetico delle tecnologieinformatiche negli anni successivi, dalla concezione del WorldWide Web alla nuova forma dei calcolatori della rinataApple.16 In cerca di una diversificazione di contenuti, inoltre,Jobs dimostra interesse nell’acquisto dell’intera branca infor-matica della ILM. Il 3 febbraio del 1986 viene dunque ufficial-mente fondata una società indipendente che prende il nome di

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Steve Jobs all’epoca dei primi successi con la Apple.© Tom Munnecke

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