20
WASHINGTON E ra una sera di maggio, che a Washington è il mese più dol- ce. Nel suo ufficio al Pentagono aperto sulla distesa dei ci- liegi sulla riva opposta del fiume Potomac, l’ammiraglio Jeremy Boorda, il numero due della Marina americana, rilesse per la centesima volta il testo della propria condanna a morte. «Boorda è un impostore — scriveva una lettera anonima stampata sul Navy Times, l’organo ufficiale dell’Arma — perché ostenta sulla di- visa i nastrini di reduce dal Vietnam dove non ha mai combattuto». A 57 anni, dopo 40 vissuti in uniforme, Boorda conosceva troppo bene il suo pollaio per credere che l’organo della Marina potesse pubblica- re per errore una lettera anonima contro di lui, il Capo delle Opera- zioni Navali, il numero due della gerarchia in divisa blu. Gettò il giornale nel cestino. Chiuse le tende verticali bianche davanti alla finestra sul fiume. Si fece portare a casa dall’autista. Si sedette alla sua scrivania. Estrasse dal cassetto la pistola privata, non quella d’ordinanza, e serrò le labbra attorno alla canna. Dal- l’inchiesta spuntò la cartella del suo psichiatra personale che gli aveva diagnosticato una depressione clinica acuta. «Il paziente ri- fiuta terapie antidepressive — aveva annotato a mano il medico sulla cartella — perché dice di non voler diventare schiavo delle pillole». L’Ammiraglio Boorda morì suicida nel 1996 perché non aveva voluto diventare quello che ormai stiamo diventando tutti: zoppi che arrancano sul sentiero della vita aggrappati alle stam- pelle chimiche. Dopo l’Homo erectus, l’Homo sapiens, l’Homo faber, l’evoluzio- ne della nostra specie ha prodotto l’Homo chimicus, la creatura far- macodipendente che, dall’utero della madre che lo nutre di vitami- ne già durante la gravidanza fino all’ultima compressa che non po- trà salvarlo, vive e sopravvive dentro un vortice di molecole sinteti- che, come la perenne nuvoletta di polvere che avvolge il Pig Pen dei Peanuts. Le promesse della pietra alchemica che ci accompagnano da almeno duemila e cinquecento anni, dai primi seguaci del dio Hermes Trismegistus fino agli impianti della Merck, della Pfizer, del- la Roche, della Glaxo, della Pharmacia, della Astra-Zeneca, della Bayer e ai laboratori che ci promettono il traguardo della morte a cent’anni, sono state, o sembrano essere state, mantenute. Ma la nu- voletta di polvere che circonda il cartoon di Charles Schultz diventa, attorno alla nostra testa di pazienti continui, un uragano da almeno 500 miliardi di dollari, la cifra che il mondo, almeno quello che se lo può permettere, spende in pillolami vari. (segue nelle pagine successive) con un servizio di RICCARDO STAGLIANÒ VITTORIO ZUCCONI cultura Carmelo Bene, conversazione sul teatro CARMELO BENE e RODOLFO DI GIAMMARCO il reportage Pechino, lo shopping center da primato FEDERICO RAMPINI il racconto La bellezza necessaria delle Ferrari F1 MICHELE SMARGIASSI e STEFANO ZAINO spettacoli Maria Callas, la vita dietro le quinte NATALIA ASPESI e AMBRA SOMASCHINI la lettura I giochi di carta di Guido Ceronetti PINO CORRIAS e SANDRO VIOLA i luoghi Salonicco, antica capitale meticcia STEFANO MALATESTA FOTO CORBIS DOMENICA 12 MARZO 2006 D omenica La di Repubblica L’uomo perfetto Pillole per ricordare o per dimenticare, per cambiare umore e andare al massimo Il futuro è su misura, ma a quali prezzi?

Pillole per ricordare L’uomo perfetto - La Repubblica.itdownload.repubblica.it/pdf/domenica/2006/12032006.pdf · Hermes Trismegistus fino agli impianti della Merck, della Pfizer,

  • Upload
    buihanh

  • View
    219

  • Download
    0

Embed Size (px)

Citation preview

Page 1: Pillole per ricordare L’uomo perfetto - La Repubblica.itdownload.repubblica.it/pdf/domenica/2006/12032006.pdf · Hermes Trismegistus fino agli impianti della Merck, della Pfizer,

WASHINGTON

Era una sera di maggio, che a Washington è il mese più dol-ce. Nel suo ufficio al Pentagono aperto sulla distesa dei ci-liegi sulla riva opposta del fiume Potomac, l’ammiraglioJeremy Boorda, il numero due della Marina americana,

rilesse per la centesima volta il testo della propria condanna a morte. «Boorda è un impostore — scriveva una lettera anonima stampata

sul Navy Times, l’organo ufficiale dell’Arma — perché ostenta sulla di-visa i nastrini di reduce dal Vietnam dove non ha mai combattuto». A57 anni, dopo 40 vissuti in uniforme, Boorda conosceva troppo beneil suo pollaio per credere che l’organo della Marina potesse pubblica-re per errore una lettera anonima contro di lui, il Capo delle Opera-zioni Navali, il numero due della gerarchia in divisa blu.

Gettò il giornale nel cestino. Chiuse le tende verticali bianchedavanti alla finestra sul fiume. Si fece portare a casa dall’autista. Sisedette alla sua scrivania. Estrasse dal cassetto la pistola privata,non quella d’ordinanza, e serrò le labbra attorno alla canna. Dal-l’inchiesta spuntò la cartella del suo psichiatra personale che gliaveva diagnosticato una depressione clinica acuta. «Il paziente ri-fiuta terapie antidepressive — aveva annotato a mano il medico

sulla cartella — perché dice di non voler diventare schiavo dellepillole». L’Ammiraglio Boorda morì suicida nel 1996 perché nonaveva voluto diventare quello che ormai stiamo diventando tutti:zoppi che arrancano sul sentiero della vita aggrappati alle stam-pelle chimiche.

Dopo l’Homo erectus, l’Homo sapiens, l’Homo faber, l’evoluzio-ne della nostra specie ha prodotto l’Homo chimicus, la creatura far-macodipendente che, dall’utero della madre che lo nutre di vitami-ne già durante la gravidanza fino all’ultima compressa che non po-trà salvarlo, vive e sopravvive dentro un vortice di molecole sinteti-che, come la perenne nuvoletta di polvere che avvolge il Pig Pen deiPeanuts. Le promesse della pietra alchemica che ci accompagnanoda almeno duemila e cinquecento anni, dai primi seguaci del dioHermes Trismegistus fino agli impianti della Merck, della Pfizer, del-la Roche, della Glaxo, della Pharmacia, della Astra-Zeneca, dellaBayer e ai laboratori che ci promettono il traguardo della morte acent’anni, sono state, o sembrano essere state, mantenute. Ma la nu-voletta di polvere che circonda il cartoon di Charles Schultz diventa,attorno alla nostra testa di pazienti continui, un uragano da almeno500 miliardi di dollari, la cifra che il mondo, almeno quello che se lopuò permettere, spende in pillolami vari.

(segue nelle pagine successive)con un servizio di RICCARDO STAGLIANÒ

VITTORIO ZUCCONI

cultura

Carmelo Bene, conversazione sul teatroCARMELO BENE e RODOLFO DI GIAMMARCO

il reportage

Pechino, lo shopping center da primatoFEDERICO RAMPINI

il racconto

La bellezza necessaria delle Ferrari F1MICHELE SMARGIASSI e STEFANO ZAINO

spettacoli

Maria Callas, la vita dietro le quinteNATALIA ASPESI e AMBRA SOMASCHINI

la lettura

I giochi di carta di Guido CeronettiPINO CORRIAS e SANDRO VIOLA

i luoghi

Salonicco, antica capitale meticciaSTEFANO MALATESTA

FO

TO

CO

RB

IS

DOMENICA 12 MARZO 2006

DomenicaLa

di Repubblica

L’uomoperfetto

Pillole per ricordareo per dimenticare,per cambiare umoree andare al massimoIl futuro è su misura,ma a quali prezzi?

Page 2: Pillole per ricordare L’uomo perfetto - La Repubblica.itdownload.repubblica.it/pdf/domenica/2006/12032006.pdf · Hermes Trismegistus fino agli impianti della Merck, della Pfizer,

L’homo sapientissimussarà impasticcato. Ilprossimo salto evolutivo,

che al confronto farà sembrare quella attuale un’umanità di ritardati, è a por-tata di ricetta. La maggior parte dei farmaci che regaleranno al cervello piùmodesto prestazioni einsteiniane esistono già, solo che sono usati per altriscopi. Ma appena le sperimentazioni saranno concluse si potrà buttar giùuna pillola per concentrarsi meglio, un’altra per ricordare di più (o all’oppo-sto dimenticare solo un fatto traumatico), una per neutralizzare la timidez-za ovvero per disinnescare il rimorso.

La maggior parte delle debolezze che scolpiscono il nocciolo duro del-l’essere umano saranno emendabili per via orale, con una nuova farmaco-pea. Attesissima dalle “Big Pharma” che ormai puntano quasi tutto sui«medicinali da stile di vita», al punto che nel 2001 la GlaxoSmith-Klein haspeso 91 milioni di dollari per promuovere il suo Paxil, antidepressivoblockbuster, più di Nike per le sue scarpe di punta. Temutissima dai comi-tati etici di tutto il mondo, che si interrogano su quali inquietanti conse-guenze potrebbe avere questo prossimo doping di massa: «Se anche solouna minoranza comincerà a mandar giù compresse lecite per rendere dipiù, tutti gli altri soffriranno una concorrenza sleale. E alla fine dovrannoscegliere se soccombere o ingoiare a loro volta», preconizza Anjan Chat-terjee, uno dei maggiori esperti americani.

«Immaginatevi un uomo in carriera che lavora 80-100 ore alla settimana edecide di andare dal neurologo perché si sente giù», riassume al telefonoChatterjee, neurologo dell’Università della Pennsylvania. «Ha appena di-vorziato e non riesce a concentrarsi granché. Il medico gli prescrive del Pro-zac o del Paxil. Poche settimane più tardi il nostro soggetto riacquista il suobuonumore, anzi è più brillante di prima. Anche per la figlia il divorzio deisuoi è stato un brutto colpo e l’ansia le rovina la pagella ma un po’ di Adde-rall (un’anfetamina, ndr) la rimette in carreggiata». Una lista di situazionisrotolabile a piacere. Il padre sta negoziando un grosso contratto con clien-ti sauditi. Parlare anche solo un po’ di arabo lo avvantaggerebbe. Il solito neu-

rologo viene inaiuto: 10 milligrammi didextranfetamine mezz’ora pri-ma della lezione di lingua moltiplical’attenzione e la memoria.

Arriva il giorno fatidico. Per dormire un po’ nel lun-go viaggio aereo l’Ambien (un ipnotico) funziona molto meglio checontare le pecore. E, una volta a destinazione, una dose di modafinil (usatoper la narcolessi, riduce l’impulsività e aiuta a concentrarsi) è come una doc-cia cerebrale rigenerante per evitare di impappinarsi. «Questa è la direzionein cui sta andando il mercato farmacologico», conclude Chatterjee, «e ci ar-riveremo in men che non si dica».

Sfruttando effetti collaterali di medicine pensate per altro, tutti gli esempicitati sono già realtà. E in meno di cinque anni questi farmaci potrebbero es-sere espressamente prescritti per potenziare specifiche funzioni cerebrali.«In un mondo che è sempre più non stop e competitivo», si legge nel rapportostilato a luglio dal think tank Foresight, principale consulente scientifico delgoverno britannico, «l’uso individuale di nuovi farmaci per il cervello chenon provochino assuefazione può passare dall’eccezione alla regola».

Negli Stati Uniti, in certi ambienti, è già così. «Nessuno ha numeri precisi»,ammette Chatterjee, «ma di certo l’uso del Ritalin (originariamente per bim-bi iperagitati con deficit di attenzione, ndr) da parte di studenti normali pri-ma degli esami è diffusissimo, già al liceo». Funziona, non è suggestione. «Ar-riva a migliorare di oltre 100 punti il punteggio del Sat (l’esame psicoattitu-dinale per entrare nelle università, ndr)», garantisce Michael Gazzaniga, di-rettore del Centro per le neuroscienze cognitive al Darthmouth College, nelsuo recentissimo libro The ethical brain. C’è in palio il biglietto d’ingresso per

(segue dalla copertina)

La nostra vita è scandita dal ciclo dellecompresse. Per ogni stagione della esi-stenza di una persona generalmentesana, c’è un medicinale per curare nonle malattie, ma la normalità. Una donnapasserà dalla pillola anticoncezionale,

per “curare” la sua naturale abilità di concepire, al-la pillola per “curare” i normali effetti della perditadella stessa capacità che aveva “curato”. Un ma-schio perfettamente sano verrà convinto dal com-plesso del “Big Pharma”, dalla ventina di colossimondiali della farmaceutica, che il vigore della suaerezione è patetico e necessita di alzacristalli chimi-ci, anche quando le patologie e l’età non li giustifi-cherebbero. Grappoli di molecole sostanzialmenteclonate le une dalle altre, ma abbastanza diverse pergiustificare un brevetto e quindi l’esclusiva pervent’anni, garantiscono erezioni col contaminutida forno, due ore, quattro ore, sei ore e poi avverta ilsuo medico, se già non ha provveduto a farlo la si-gnora terrorizzata.

Persino il tempo della giornata è battuto dall’oro-logio della stampella chimica. I duemila dollari an-

nui che un cittadino oltre i cinquant’anni spende inun anno per i medicinali da ricetta (quelli da banconon si contano) vanno battuti secondo fasce orarieinflessibili, la pillola rosa al risveglio, quella azzurraprima del pranzo, quella viola per la digestione,quella blu per l’ipertensione, quella verdina per lacolesterolemia, quella fucsia per il riflusso gastricoacido dopo cena, quella celeste per il sonno chestenta ad arrivare, se non ci sono patologie acute cherichiedono altre dosi temporanee.

«Le industrie farmaceutiche vantano la loro co-stante dedizione alla ricerca — scrisse la New YorkTimes Book Review in una famosa inchiesta del 2003— ma esse spendono soltanto l’11 per cento dei bi-lanci in ricerca e il 36 per cento in marketing. Sono— concluse la rivista — colossali organizzazioni dimarketing e di persuasione, che ruotano attorno allimitato numero di medicinali davvero nuovi ed ef-ficaci che esse copiano l’una dall’altra secondo ilprincipio dell’“anch’io anch’io”».

E noi inghiottiamo. Con gli occhi, prima che conla bocca. Vediamo cadere polli e cigni e comincia ilsacco delle farmacie, spogliate di antivirali comple-tamente inutili e potenzialmente micidiali, nel casoil popolarissimo H5N1 imparasse a comunicare congli umani. Mentre un bambino americano vede inmedia alla tv 90mila spot all’anno per porcherie ali-

mentari gonfie di additivi chimici (il Puer chimicuscrescerà in Homo chimicus), sua madre e suo padresi sciropperanno 160mila “commercials” per medi-cinali da banco o da ricetta, che li angosceranno pri-ma con l’elencazione delle loro attuali o potenzialipatologie o con sussiegose e ansiogene trasmissio-ni di argomento medico, sussidiate poi da terrifi-canti ricerche sul computer a banda larga. Non me-raviglia se poi stenteranno a prendere sonno alla se-ra e i loro medici dovranno firmare 43 milioni di ri-cette per sonniferi vari, all’anno.

Marketing e passaparolaDove l’armata del marketing non arriva, intervieneil passaparola, il tam tam della signora dal parruc-chiere, dell’amico allo stadio, della medicina alter-nativa o immaginaria, che un giorno diffonde co-me un incendio il culto della melatonina, miraco-loso ormone estratto dalle surrenali dei porci cheregola il termostato del metabolismo diurno e not-turno umano, dei medicinali ayurvedici venutidall’India favolosa, dell’armamentario dell’erbo-risteria che sta minacciando di estinzione rarepiante selvatiche mietute ferocemente per asse-condare la stessa dipendenza chimica di chi va infarmacia, perché per essere efficace un fiore devecontenere principi attivi, dunque potenziali effet-

ti secondari, oltre l’effetto psicologico del “place-bo”, la pillola di zucchero.

Nei drugstore della nazione dove vive l’Homo chi-micus americanus, drogato quanto il suo cugino eu-ropeo, si vendono portapillole a forma di margheri-ta, come i caricatori rotondi dei vecchi mitra dagangster di Chicago, o a bandoliera, come le cartuc-ciere di Emiliano Zapata, marcati con le iniziali deisette giorni e separati in compartimentini per aiuta-re il consumatore a suddividere le pallottole che sisparerà ed evitare — forse — di divenire uno dei149mila pazienti — cinquanta volte il numero di co-loro che furono uccisi dal terrorismo l’11 settembredel 2001 — che muoiono ogni anno per avere ingur-gitato la pillola sbagliata nel giorno sbagliato. O, maquesta cifra è gelosamente custodita dai neo alchi-misti, la pillola giusta che ha avuto l’effetto sbaglia-to, interagendo con le altre cento pasticchette se-condo intrecci imprevedibili.

Periodiche “cause celebri” ci agitano, col Thali-domide, con i dubbi sulle terapie ormonali, con ilmicidiale Phen-Phen per il dimagramento facile,fino agli analgesici e antinfiammatorinon steroidei, come Vioxx eCelebrex, fret-tolosa-

Prozac, Paxilo altri

antidepressiviper superare

il calo d’umorelegato a uno

stress recente

8,00

Dextranfetaminemezz’ora

primadella lezionemoltiplicanol’attenzione

e la ritenzione

9,30

Viagra primadel jogging,

per aumentarela capacitàdei polmonidi assorbireossigeno

7,00

la copertinaFrontiere della scienza

Dopo l’Homo sapiens e l’Homo faber sta arrivandoil protagonista del Terzo millennio: più forte, intelligentee longevo grazie ai farmaci. Ma anche ossessionatodalle pasticche e vittima dei loro effetti collateraliUna rivoluzione che è anche un’alternativa del diavolo:un’esistenza migliore in cambio di nuovi, incalcolabili rischi

La svolta dell’Homo chimicusVITTORIO ZUCCONI

Così le pillolecambierannola nostra vitaRICCARDO STAGLIANÒ

32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 12 MARZO 2006R

epub

blic

a N

azio

nale

32

12/0

3/20

06

Page 3: Pillole per ricordare L’uomo perfetto - La Repubblica.itdownload.repubblica.it/pdf/domenica/2006/12032006.pdf · Hermes Trismegistus fino agli impianti della Merck, della Pfizer,

Harvard o Princeton anziché l’ultimo ateneo del Wyoming o delKentucky. Un bivio che può cambiare la vita e che una pillo-

lina, legale ed economica per di più, può aiutare a im-boccare dalla parte giusta.

Il modafinil già citato va forte per teneresvegli (sino a 88 ore di seguito) e vigili i

soldati statunitensi in guerra. Mentrein tempo di pace i suoi candidati na-turali sono coloro che fanno turninotturni o particolarmente pesanti.«Migliora la memoria operativa»,conferma Trevor Robbins, psicolo-go sperimentale all’Università di

Cambridge e uno degli autori del rap-porto inglese, «la capacità di pianifica-

re per risolvere problemi complessi, co-me negli scacchi. Rende più acuti».

Un’altra categoria di farmaci il cui “secondo lavoro” ri-schia di sorpassare in popolarità il primo è quella dei beta-

bloccanti. I chirurghi, per uso proprio, se ne servono da tempo. Perché oltreall’indicazione terapeutica primaria, ovvero curare ipertensione, angina eritmi cardiaci anormali, incidentalmente calmano i nervi e riducono il tre-more degli arti e delle mani. I concertisti ne sono ghiotti, come pure i golfistie i giocatori di biliardo professionisti. Palla cinque in buca accompagnatadall’angelo custode del propranololo. Le persone normali, per adesso, nonne buttano giù una prima di fare un discorso in pubblico importante o persuperare altre prove dove l’emozione potrebbe giocare brutti scherzi. Matutto fa pensare che ciò cambierà presto.

Gli studi che confermano inaspettate efficacie di certi principi attivi esi-stono da tempo. Come quello del luglio 2002 fatto alla Stanford Universitydall’équipe di Jerome Yesavage sul donepezil, sin lì usato per rallentarel’Alzheimer. Una quarantina di piloti in addestramento aveva accettato di fa-

re da cavia: metà aveva assunto la pillola, gli altri un placebo. I primi aveva-no imparato di più e, a distanza di tempo, eseguivano meglio le manovre. Equi si innesta il test che Chatterjee invita a fare prima di accusare queste smartdrugs di reato di lesa umanità: «Quanto paghereste in più per voli i cui pilotistessero prendendo una medicina che li faccia reagire più prontamente nel-le emergenze?». Oppure: «Vorreste che gli infermieri, dopo il turno di notte,prendessero farmaci che riducessero il loro rischio di commettere errori do-vuti a mancanza di sonno?». Pochi, anche tra i più ideologicamente ostili al-la prospettiva di “organismi farmacologicamente modificati”, riescono anon vacillare di fronte a queste alternative del diavolo. Una volta capito qualè l’interruttore che sovrintende al ricordo, poi, si può intervenire per disabi-litarlo quando la sua zavorra rischierebbe di far affondare la vita di una per-sona. L’ossessione quotidiana del sangue versato in guerra per i veterani. Ilgiorno della violenza per una ragazza stuprata. Le risate argentine di un amo-re perduto, per chiunque.

«Tra una ventina d’anni», prevede Robbins, «sarà possibile richiamareun ricordo e produrre un’amnesia selettiva che lo cancelli». C’è chi scom-mette su un lasso di tempo molto più breve. «Già adesso», spiega AlbertoOliverio, neurobiologo dell’ateneo romano La Sapienza, «i betabloccantisono somministrati di routine nei pronto soccorsi americani dopo un trau-ma grave per attenuarne la memoria emozionale». In Italia però il dopingresta per il momento limitato alla performance fisica, all’agonismo sporti-vo. «E non bisogna neppure esagerare l’efficacia di queste smart drugs», av-verte Oliverio: «L’aumentata vigilanza, ad esempio, si apprezza in sogget-ti particolarmente stanchi mentre chi è già in forma non prova gli stessi be-nefici. E un 15 per cento è da ascrivere all’effetto placebo». Insomma, nes-sun miracolo per ora. L’immemore non diventerà Pico della Mirandola, ilbradipo non si trasformerà in Speedy Gonzales. «Ma poi volete mettere lasoddisfazione di ottenere i risultati facendo affidamento sulle proprie for-ze!», commenta il professore. Una verità bella ma pallida rispetto alla dit-tatura della performance. La strada che porta al paradiso del superuomosarà lastricata di aiutini farmacologici.

mente ritirati dal mercato dopo la scoperta di serieffetti secondari. I produttori di Tylenol, l’acetami-nophen sostitutivo dell’aspirina, spendono mezzomiliardo di dollari per spiegarci non che la loro pil-lola faccia bene, ma che «non fa male» come le al-tre. Il cerchio dei miracoli della farmacopea torna,per un istante ironico, al punto di partenza, al co-mandamento del «primo, non nuocere».

Siamo, ha scritto la studiosa Marcia Angell nelproprio saggio sulle “Big Pharma”, una nuova ge-nerazione: dopo gli hippies, gli yuppies, la genera-zione X, i metrosexual, siamo la “Generation RX”,come quella sigla “RX” che negli Stati Uniti indicauna ricetta medica. Due miliardi di medicinali so-no ordinati ogni anno in ospedali e studi medici ela crescita del consumo è del 27 per cento annuo,

un boom riflesso in una cifra sba-lorditiva: i profitti delle dieci

massime “Phar-ma” america-

ne erano, nel2004, pari aiprofitti ditutte le al-tre 490g r a n d i

aziende elencati nelle “Fortune 500”, l’albo dellepiù grandi aziende.

Nessuno è immune dal ricatto della paura e deldolore. Uno dei massimi tromboni della destraamericana più rumorosa, il corpulento RushLimbaugh che ogni giorno tuonava contro la cor-ruzione dei costumi, le droghe, l’omosessualità,il femminismo devastatore, fu pizzicato in un gi-ro di analgesici oppiacei (l’Oxycodone) che luiconsumava illegalmente al ritmo di 30 compres-se al giorno, dosi da tossico fatto. Idoli dello sportdevono confessare di avere gonfiato i muscoli e irecord con pillole e iniezioni di steroidi. Per poitrascorrere il resto della vita a inghiottire cortiso-ne per poter muovere dal letto le loro giunturescardinate. Il dolore, l’inadeguatezza fisica, lamalattia e la vecchiaia non sono tollerabili, nellacorsa dei topi verso il successo e l’alchimista èpronto a offrire la stampella spendendo in media200 milioni di dollari per lanciare un presuntonuovo farmaco sempre pubblicizzato con imma-gini di fanciulle felici che corrono in campi di gra-no o di nonni atletici che saltano come capriolicon i nipotini.

Seguiti, per legge, dalla lettura a velocità ultraso-nica dei potenziali effetti collaterali: diarrea-dolo-rigastrici-nausea-vertigini-emorragiecerebrali-

emboli-tumori-impotenza-perditevaginali-stiti-chezza-asma; niente paura, signora, corra tra ilgrano, presto ci sarà un’altra pillola per curare glieffetti della pillola.

Il traguardo dei cent’anniLa paura del male è quello che la paura del terrori-smo è per il complesso militare politico industriale,la pietra filosofale che trasforma la nostra ansia inoro. Se il paziente osa dubitare, rischia di sentirsi ri-spondere quello che un medico americano di famainternazionale mi disse stilandomi l’ennesima ri-cetta: «Se alla sua età non prende almeno quattro ocinque medicine al giorno, significa che non siprende cura di se stesso». La logica si rovescia, nonpiù «prendo le medicine per vivere» ma «vivo perprendere medicine», si fa implacabile nella man-canza di controprove e trova la sua trionfale confer-ma nel progresso dell’attesa di vita, che ormai pro-mette età vicine agli ottanta a ogni neonato “Puerchimicus”. Vivere cent’anni — hanno annunciatobiologi della Stanford University e altri di Cambrid-ge al congresso della Società per l’Avanzamentodella Scienza in questo febbraio — diverrà, entro iprossimi due decenni, un traguardo non soltantopossibile, ma statisticamente probabile. L’esisten-za della “Generation RX” sarà una immensa pianu-

ra verde, spianata dallo schiacciasassi chimico.Ma il panorama nasconde un crepaccio: il prezzo.

O, se preferite, il rapporto inverso tra costi e benefi-ci. Una società, la Genentech, ha in commercio unpreparato antitumorale di nuova generazione “an-giostatico”, si dice. Si chiama “Avastatin” e promet-te di allungare un poco la vita a pazienti allo stremo.Ma un ciclo di “Avastatin” costa, qui negli Stati Uni-ti, 100mila dollari, 84mila euro. Perché? Perché que-sto vuole chi lo produce e ne detiene l’esclusiva, sen-za scuse ne alibi. La Rolls-Royce e la Ferrari non de-vono dare spiegazioni a nessuno. «Se devi chiederequanto costa una cosa — diceva uno dei Rothschild— vuol dire che non te la puoi permettere».

È il ritorno al tempo della attesa di vita legata allacondizione sociale, al portafoglio. Il sogno dell’Ho-mo chimicus si metamorfizza nel sofisma della cor-sa di Achille dietro la tartaruga, sempre vicinissima esempre irraggiungibile. Se chi è ricco potrà vivere dipiù, perché la madre di tutte le pillole è troppo cara,la promessa dei neo alchimisti sarà soltanto la rabbiaparadossale della nonnina che morirà a cent’annimaledicendo l’amica ricca che potrà arrivare a cen-todieci. E quella stampella alla quale ci aggrappiamodisperatamente per non cadere rischierà di somi-gliare al revolver dell’ammiraglio Boorda, lo stru-mento diabolico della nostra eterna infelicità.

13,00 18,0011,00

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33DOMENICA 12 MARZO 2006

DonepezilDopo oredi attivitàaumenta

l’attenzionee tonificail cervello

Modafinil,uno stimolanteche estendela capacitàdi restare

svegli e vigili(fino a 88 ore)

Betabloccanteprima

di scenderesul campo

da golf: riduceil tremore

delle braccia

Un ipnoticoper poterdormire

alcune oredurante

un tragittoaereo

Un’anfetaminasubito dopo

l’arrivoper poter

recuperarerapidamentela reattività

Ritalinprima

di affrontareun esameo prima

di una riunioneimportante

20,00 23,0019,00

I FARMACI

PROZAC, PAXIL

Prescrizione:antidepressiviUso secondario:aumentanol’ossigenazionedel sangue, sono usaticontro l’eiaculazioneprecoce

MODAFINIL

Prescrizione:è uno stimolanteusato controla narcolessiUso secondario:estende la capacitàdi restare sveglie vigili

RITALIN

Prescrizione:per trattare bimbiiperagitati con deficitdi attenzioneUso secondario:per concentrarsiprima degli esamio di prove impegnative

BETABLOCCANTI

Prescrizione: angina,ipertensione, ritmicardiaci anomaliUso secondario:calmano i nervie riducono il tremoredegli arti; attenuanoil ricordo di un trauma

VIAGRA

Prescrizione:disfunzionierettiliUso secondario:aumenta la capacitàdel sanguedi assorbireossigeno

DEXTRANFETAMINE

Prescrizione: riducel’appetito e trattavari disordinidell’attenzioneUso secondario:estende ritenzionee performancecerebrale

DONEPEZIL

Prescrizione:questo inibitoredella colinesterasiviene usato perrallentare l’AlzheimerUso secondario:aumenta l’attenzionein soggetti normali

Rep

ubbl

ica

Naz

iona

le 3

3 12

/03/

2006

Page 4: Pillole per ricordare L’uomo perfetto - La Repubblica.itdownload.repubblica.it/pdf/domenica/2006/12032006.pdf · Hermes Trismegistus fino agli impianti della Merck, della Pfizer,

il reportageTigri asiatiche

finire questo colosso gli architetti hanno dovuto co-niare il nuovo termine di shopping city. In effetti lascala di grandezza è proprio quella di una città: nel-le giornate di maggiore affluenza vi fanno la spesa400mila consumatori, più degli abitanti di Bolognao Firenze.

Con 650mila metri quadrati di superficie coper-ta, il centro Jin Yuan ha polverizzato i record storiciche appartenevano al West Edmonton Mall di Al-berta (Canada) e al Mall of America del Minnesota.L’edificio-mostro di Pechino occupa lo spazio disessanta campi di calcio, copre oltre cinque volte ilPentagono di Washington, finora la più larga co-struzione del mondo. L’altezza media varia dai die-ci ai cinque piani, e sono piani molto alti per via deigrandi magazzini e delle sale cinematografiche.Contiene mille fra ipermercati, supermercati, ne-gozi e boutique, duecento ristoranti, cinema multi-plex da 1.300 posti, club privati con night club, di-scoteche, karaoke-bar, sale per fitness e massaggi,molti esercizi aperti sette giorni su sette fino alledieci di sera o anche giorno e notte, 365 giorni al-l’anno vacanze incluse. Il parking sotterraneo dadiecimila posti auto è annesso a un’altra città invi-sibile e interrata: lo stadio del ghiaccio dove i geni-tori possono lasciare i figli a pattinare mentre van-no a fare la spesa.

In questo tempio faraonico del nuovo consumi-smo cinese lavorano ventimila dipendenti a tempo

pieno più un esercito di avventizi delle ditte di puli-zie, manutenzione, vigilanza, trasporti e consegne.Tutto intorno il costruttore continua ad allargare ilcomplesso: ha comprato 1.800.000 metri quadratidove innalza 110 grattacieli di appartamenti resi-denziali, uffici e scuole. Il terreno va a ruba perchéquesta non si può più definire periferia. È la zona hi-tech di Pechino, dove hanno sede i campus univer-sitari, fra il terzo e il quarto anello dei “raccordi anu-lari interni”. In tutto i 17 milioni di abitanti della ca-pitale si estendono entro il perimetro di sei tangen-ziali urbane, grande quanto l’intero Belgio. Il solo“quartiere” che gravita nelle vicinanze dello shop-ping mall Jin Yuan ha un milione di abitanti.

Visitare interamente The Great Mall of China èun’impresa impossibile. Camminando a passo digara, dalla mattina fino a notte fonda, si riesce a ve-derne solo una piccola parte. Le distanze sono taliche si possono affittare macchinine elettriche a dueposti per spostarsi con anziani e bambini piccoli.Gli adolescenti per recarsi da un punto all’altrosfrecciano nei corridoi coperti su pattini a rotelle oskateboard. La zona dei grandi magazzini elegantiè una divertente mescolanza di vero lusso per ricchi— reparti Fendi, Gucci, Geox, Dupont, Dunhill,Pierre Cardin, Guy Laroche — e di “quasi vero” cheè l’alternativa legale alla pirateria, cioè la moltitudi-ne di marche cinesi che adottano nomi italianeg-gianti dal suono evocativo come Galace e Versino.

Nei boulevard coperti che ospitano le centinaiadi boutique sono strapiene di pubblico le gioielle-rie — i cinesi fanno incetta di oro e diademi —, leagenzie di viaggi che cavalcano il boom del turismoall’estero, i rivenditori telecom dove anche le bi-snonne vanno a comprarsi il cellulare. La zona casaè un’altra città nella città, centinaia di negozi di cu-cine design ed elettrodomestici, compresa la Ari-ston, per arredare gli appartamenti in stile occi-dentale della middle class urbana. Una vasca daidromassaggio made in Germany arriva a 169.000yuan, 17.000 euro, lo stipendio di un anno di un im-piegato di medio livello.

Dove i prezzi sono così cari non c’è gran folla. Lacalca raggiunge il suo massimo nell’altra shopping-city semi-interrata che è il regno degli ipermercatialimentari. Lì la folla invade i corridoi dei prodottidi largo consumo. Assalto gioioso ai reparti gastro-nomici dei cibi freschi, montagne di anatre pechi-nesi alla faccia della febbre aviaria, ogni sorta di lec-

PECHINO

L’autostrada urbana a dieci corsie ètappezzata di cartelloni pubblici-tari che sfacciatamente fanno ilverso all’iconografia della Cina co-

munista. I personaggi scimmiottano le pose eroi-che in voga sotto Mao Zedong. Vent’anni fa il paese

era ancora pieno di manifesti emonumenti con statue titanichedi gruppi di operai e contadiniuniti nella lotta. Qualcuno impu-gnava la bandiera rossa, altri falcee martello, piccone e badile, losguardo proteso verso il sol del-l’avvenire e la costruzione del so-cialismo. Nei manifesti di questacampagna invece i soggetti sonotop model e giovani attori, signo-rine in minigonna con scollature eombelico al vento, teenager injeans e bandana. Falce e martellosono sostituiti da borse e accesso-ri di lusso. Verso il sol dell’avveni-re una ragazza sospinge il carrellodel supermercato stracolmo di ro-ba, un’altra brandisce una flûte dichampagne. La terza top modelagita davvero una bandiera rossa,ma sopra c’è il logo del costruttoreedile che in questo quartiere ven-de appartamenti a schiera attornoalla nuova attrazione di Pechino: ilpiù grande shopping mall delmondo.

Se credete di aver già visto i KingKong urbanistici del consumismomoderno negli Stati Uniti, patriadei giganteschi centri commer-ciali, vi sbagliate. Gli shoppingmall americani scompaiono in

confronto a questa Cosa che è sorta dal nulla nellazona nord-ovest di Pechino: è Jin Yuan, il Mall del-le Risorse d’oro, la madre di tutti gli shopping cen-ter del pianeta. Soprannominato anche The GreatMall of China perché le sue dimensioni inauditeevocano The Great Wall, la grande muraglia. Per de-

Cina, la nuova MuragliaFEDERICO RAMPINI

34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 12 MARZO 2006

Nella zona nord-ovest di Pechino è sorto dal nullaJin Yuan, ovvero il Mall delle Risorse d’oro:la madre di tutti i centri commerciali del pianetaCon 650mila metri quadrati di superficie copertae mille fra ipermercati, supermercati, negozie boutique, non ha eguali in nessun altro paese

Le distanze sono taliche si possono affittaremacchinine elettrichea due posti per spostarsicon anziani o bambini

Gli adolescenti sfreccianonei corridoi coperti

su pattini o skateboard

POSTER IRONICIUn interno di Jin Yuan,

il Mall delle Risorse d’oroSopra, i poster

che lo pubblicizzano,ispirati allo stile maoista

tra ristoranti, cine multisala,discoteche, sale fitness ecc.

200

i grattacieli di appartamentie uffici costruiti tutto intorno

110

i visitatori nelle giornatedi punta (festività, saldi ecc.)

400mila

i dipendenti a tempo pieno,senza contare gli avventizi

20mila

Rep

ubbl

ica

Naz

iona

le 3

4 12

/03/

2006

Page 5: Pillole per ricordare L’uomo perfetto - La Repubblica.itdownload.repubblica.it/pdf/domenica/2006/12032006.pdf · Hermes Trismegistus fino agli impianti della Merck, della Pfizer,

cornia come i ravioloni dim-sum ripieni, fritti o bol-liti, le focacce le frittelle gli spaghetti, i tè pregiati, ifunghi preziosi in vasi di porcellana, le uova neremacerate e stagionate: un pezzo della vecchia Cinadei mercati rionali si è impadronito delle visceredello shopping-moloch.

Il cibo domina anche un altro settore della città-satellite. All’ultimo piano del centro commercialeci sono vialoni coperti destinati ai ristoranti. Ognilocale esibisce insegne al neon dai colori accecanti,cameriere in abito lungo attirano i clienti alla porta.Sono strapieni e offrono il patrimonio umano dellacucina, asiatica e non: da Canton al Sichuan, dallamarmitta tartara alla grigliata coreana, dal sushi al-l’Australia alla Russia. In mezzo alle file infinite di ri-storanti i corridoi del mall ospitano bancarelle di li-bri e dvd, una caotica accozzaglia di corsi di ingle-se, di management e yoga, fianco a fianco film por-no e documentari su Mao e Deng Xiaoping. I club disauna fitness e massaggi chiedono una tassa d’i-scrizione minima di mille euro, diecimila euro peril trattamento vip (chiedendo spiegazioni sulla dif-ferenza ottengo sorrisi radiosi dalle impiegate). Neicinema multisala straripa Hollywood ma curiosa-mente si proietta anche una storia dell’Opera di Pe-chino. Se mi spingessi più avanti, sempre più lonta-no, forse raggiungerei in futuro quell’altra ala dellacittà coperta, sperduta laggiù all’orizzonte, dovecominciano i concessionari di automobili. Ma lagiornata sta per finire.

Geng Kai e Yu Jie tirano il fiato dopo cinque ore dishopping, sono seduti a mangiare spaghetti di risocomprati da un fast food. Fidanzati, lui ha 28 anni elavora per una tv via cavo, lei 26 ed è impiegata inun’assicurazione: «Da quando hanno inauguratoJin Yuan ci veniamo molto spesso, almeno tutti iweekend, e qui incontriamo anche la maggior par-te dei nostri amici. Compriamo da mangiare, i ve-stiti, le Nike e le Adidas, andiamo al cinema. Comeminimo spendiamo 200 yuan (20 euro) ogni voltache veniamo, senza contare i vestiti. È il posto idea-le, c’è tutto quello che ci serve: cibo, moda, diverti-menti, elettronica. Questa zona di Pechino ha cam-biato volto, ora Jin Yuan è il centro della vita delquartiere».

Moltiplicata per la scala demografica cinese,questa è la ricetta americana: lo shopping mall co-me calamita della vita quotidiana, luogo d’incontronella città moderna, centro di gravità del tempo li-

bero e delle relazioni sociali. In questo posto sonoben visibili le tracce dell’evoluzione dei costuminella Cina contemporanea. I consumi status sym-bol dei nuovi ricchi sono qui: negozi di articoli dagolf, supermercati di elettronica con i televisori ul-trapiatti al plasma, tapis roulant per la fitness,un’orgia di prodotti cosmetici L’Oréal e Shisheido.Giovani coppie entrano a far compere in negozi dibiancheria intima sexy stile Victoria’s Secret, ed èun paese dove vent’anni fa un bacio in pubblico erascostumato. Ma il più grande shopping mall delmondo non è soltanto il paradiso della middle classbenestante. Ci sono signore di mezza età che si ac-contentano di stare sedute sulle panchine a guar-dare la gente che passa, nonni che portano i nipoti-ni come fosse lo zoo. L’ambiente moderno, i grandispazi, la pulizia, le luci potenti, le vetrine sfavillan-ti: tutto trasuda modernità e comfort. Passeggiare aJin Yuan è già uno status symbol. Un modo di affer-mare la propria appartenenza sociale. Farsi vederein un luogo di lusso. Assomigliare un po’ a quella Ci-na pop e postmoderna dei cartelloni pubblicitari,delle top model miliardarie che spandono ironiasui padri maoisti.

Jin Yuan è solo la punta dell’iceberg. In tutta la Ci-na dilaga la febbre degli shopping mall. Ne sono sta-ti costruiti quattrocento in pochi anni, la dimensio-ne media è sei-sette volte superiore rispetto a quel-li che si costruiscono oggi negli Stati Uniti. Entro il

2010 la Cina avrà sette dei dieci shopping mall piùgrandi del pianeta. A Dongguan, nella Cina meri-dionale, ne hanno inaugurato uno che include unasorta di Disneyland con repliche di Parigi, Hol-lywood e Amsterdam. Nel business si sono lanciatianche colossi stranieri come la banca americanaMorgan Stanley, alleata con gli ipermercati Wal-Mart e i cinema Warner, e il gruppo alberghiero Raf-fles di Singapore. C’è chi teme che sia una bolla spe-culativa destinata a scoppiare malamente, perchécentri di queste dimensioni han-no bisogno come minimo diun’affluenza quotidiana di 70milavisitatori, al di sotto rischiano ilfallimento. Ma i cinesi hanno unaformula per “spalmare” il rischio:tutti gli spazi vengono affittati amiriadi di commercianti, se gli af-fari vanno male sono in molti aperderci, non è il crac di un singo-lo colosso.

Per il momento la dinamica delconsumo rimane forte. In quattroanni le spese dei cinesi sono cre-sciute del cinquanta per cento. Ilcapodanno lunare 2006 (fine gen-naio) ha registrato il quindici percento di aumento dei consumi ri-spetto all’anno scorso. «Entro cin-que anni», prevede l’economistaJonathan Garner del Crédit SuisseFirst Boston, «questo paese avràsuperato gli Stati Uniti per gli ac-quisti di personal computer». Per ibeni di lusso secondo la GoldmanSachs la Cina è già il terzo mercatomondiale. Radha Chadha, studio-so di psicologia dei consumi, hadiviso i ceti medioalti cinesi in trecategorie. I veri ricchi che possonopermettersi tutto. I colletti bian-chi in ascesa sociale che sono di-sposti a fare sacrifici per esibirestatus symbol costosi. Infine la terza categoria èquella che si combina meglio con la cultura made inUsa dello shopping mall: sono gli scatenati giovanisotto i venticinque anni che non badano a speseperché hanno già scoperto l’altra grande invenzio-ne su cui si fonda l’America: i debiti.

è una “shopping-city”

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 12 MARZO 2006

Molti vengono quinon necessariamente

per fare acquisti,ma per trascorrere

il weekend con amicio per farsi vedere

in un luogo di lusso, vetrinadel nuovo capitalismo

SCALA GIGANTEUna veduta dell’esternoe le gigantesche scalemobili dentroalla shopping-citypiù grande del mondo

gli abitanti di Pechino.Saranno 20 milioni nel 2008

17 milioni

anno in cui saranno cinesii 7 mall più vasti della Terra

2010

Rep

ubbl

ica

Naz

iona

le 3

5 12

/03/

2006

Page 6: Pillole per ricordare L’uomo perfetto - La Repubblica.itdownload.repubblica.it/pdf/domenica/2006/12032006.pdf · Hermes Trismegistus fino agli impianti della Merck, della Pfizer,

il raccontoSculture da corsa

Nel giorno in cui riparte la Formula 1, abbiamo fatto incontrarele “rosse”, gli splendidi mostri della velocità esposti nel museodi Maranello, e Rory Byrne, che in otto anni da capo-progettistadel Cavallino rampante ha vinto sei mondiali. E che ora spiega:“Niente creatività, una monoposto è cento per cento matematica”

MICHELE SMARGIASSI

MARANELLO

Quando i tifosi fanno oh, chemeraviglia, lo fanno piano,sottovoce. Nei saloni bian-chi e grigio-alluminio dove il

rosso fiamma delle carrozzerie feriscegli occhi, i visitatori camminano a pas-settini, parlottano educati, s’inchinanoa leggere le targhette: come in un veromuseo. La Galleria Ferrari di Maranelloè un museo a pieno titolo, in effetti, madovrebbe evocare un mondo di rumori,di odori pungenti, un mondo gommosoe oleoso, invece tutto qui è immerso nelsilenzio lindo di queste carrozzerie levi-gate. E impietrite. I mostri della velocitàsono immobili come draghi congelati daun incantesimo, privi della loro ragionedi esistenza: la velocità. Però, lo stesso, itifosi fanno oh, che meraviglia, affasci-nati. Perfino il futurista Filippo Tomma-so Marinetti, inventore del sublime au-tomobilistico, ne sarebbe sorpreso: perlui «un automobile ruggente, che sem-bra correre sulla mitraglia, è più bellodella Vittoria di Samotracia», ma gli ado-ratori del mito si prostrano ai piedi delle«rosse» come davanti a una statua clas-sica anche senza bisogno di mitraglie dipistoni o ruggiti di scappamenti.

Lo riconosca, dunque, mr. Byrne. Leicrede di disegnare meccanismi perfetti,ma dalla matita le escono grandi scultu-re. «Ab-so-lu-te-ly not»: sorride cortese eanglosassone, ma non cede d’un milli-metro. «Io non sono uno stilista. Sono unprogettista. La bellezza non è il mio me-stiere. Anzi, nelle auto da corsa la bellez-za può essere dannosa. Ti innamori diuna linea curva e per colpa sua perdi undecimo di secondo sul giro. E nessuno,mi creda, nessuno troverà mai bella unamacchina perdente, neanche se l’aves-se disegnata Leonardo». Lo diceva an-che il Drake, Enzo Ferrari: «La macchinabella è quella che vince». Però ricono-sceva qualche diritto all’occhio: «Le no-stre macchine devono brillare, perché lagente vede quello che c’è sopra, nonquello che c’è sotto».

Ma bisogna fidarsi di mr. Byrne. Unoche in otto anni da capo progettista delCavallino rampante vince sei campio-nati del mondo costruttori merita ri-spetto. «L’estetica, in Formula 1, nonesiste. L’estetica è un fatto di gusto. Esi-ste l’aerodinamica, che è una scienzaesatta». Sì, però, una volta accontenta-ti i coefficienti di penetrazione, unavolta assicurata la deportanza, siste-mato il moto laminare dell’aria, riveritil’effetto Venturi e il teorema di Ber-noulli, resterà pure un briciolo di li-bertà per le scelte creative. Macché:«Nessuna. Una monoposto è cento percento matematica». Conclude peren-toriamente aristotelico: «La forma del-le mie macchine è necessaria. La bel-lezza, se c’è, è accidentale».

Eppure gliel’hanno issata su un piedi-stallo come un monumento, nel cortiledella gloriosa fabbrica di mattoni, inca-strata in diagonale dallo scultore france-

Le Ferrari F1 e il teorema

La storia delle autoda competizione

è tutta qui:un processodarwiniano

di perfezionamenti,adattamentiall’ambiente,sopravvivenza

del più adeguato

se Lechevallier dentro un reticolo di tu-bi, la sua F399, la macchina che nel ‘99inaugurò il ciclo d’oro. Eppure lui stesso,Rory Byrne, nel suo studio di Maranello,ha voluto un grande tavolo da disegno, eogni tanto traffica ancora con regoli e ri-ghelli, quando ormai da una decinad’anni ogni minimo dettaglio delle For-mula 1 è progettato al computer. «Per-ché io ho cominciato così, a quindici an-ni disegnavo a mano libera i miei aero-planini di balsa, e mi è rimasto il piaceredella matita». Asciutto sessantaduenne,negli occhi chiari gli brilla ancora l’entu-siasmo del ragazzo di Pretoria innamo-rato di qualsiasi aggeggio capace dimuoversi, correre, volare. Laurea in chi-mica: ma le provette non erano il suo fu-turo. A ventiquattr’anni taroccò unavecchia Ford Anglia, «quella col lunottoposteriore inclinato all’indietro, ricor-da?», ride, «il contrario dell’aerodinami-ca, un vero disastro...», però ci vinse ilcampionato sudafricano; a trenta emi-grò a disegnare monoposto in Inghilter-ra, a cinquanta progettò per la scuderiaBenetton l’auto che fece vincere a Schu-macher il suo primo mondiale, poi seguìil pilota tedesco in casa Ferrari. Un annofa, con un medagliere da brividi, s’è rita-gliato un posto da gran consulente, la-sciando il ruolo di progettista capo ad Al-do Costa. Ma è ancora implacabile con

chi - come Donato Coco, responsabilestile del Cavallino - ha ancora l’occhio“impuro” ed estetizzante. Quando,guardando l’ultima monoposto di Byr-ne, gli è scappato un complimento per laforma del retrovisore, il sudafricano loha fulminato con uno sguardo.

«Nessun compiacimento estetico»,ripete anche una didascalia del museo.È una vera ossessione questa del no fril-ls, quasi ideologica, come se il diavolodei testacoda si nascondesse nellosplendore delle carrozzerie, come se ilpiacere dell’occhio fosse un handicap.Pininfarina, che firmava le auto da so-gno, le Ferrari da strada, non mettevabecco nell’officina corse, dove da sem-pre dominano gli ingegneri, dall’eternoMauro Forghieri (25 anni di progetti) aisuoi successori stranieri, John Barnard,Ross Brawn, Harvey Postlethwaite (ri-battezzato dai meccanici, per comodità,“Postalmarket”). «Ma anche a me piac-ciono le belle macchine», si schermisceByrne, «io guido una F430, la più bellaFerrari mai fabbricata. Ma in pista ogginon c’è nulla che non sia numero, calco-lo, scienza. Speed first, questo è il co-mandamento: la velocità prima di tutto.Se poi numero e calcolo e scienza sonoanche belli, tanto meglio», ma fa unasmorfia scettica. E lei, le trova belle le

36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 12 MARZO 2006

Formula 1? «No», la risposta è secca. «Seproprio insiste, quella che mi convincedi più è la 312T, del 1975», quella con l’e-norme presa d’aria sopra la testa del pi-lota, che poi era Niki Lauda, «era com-patta, abbastanza elegante, ma niente diesaltante. Le altre, poi, ma le guardi... So-no piene di cose che spuntano, di alette,antenne, spigoli, tutti assolutamentegiusti e necessari, ma come può esserebella una macchina così? Pensi all’epo-ca degli alettoni: prima piccoli, poi piùgrandi, ancora più grandi, enormi...Guardi la 126-C3 del 1983, esteticamen-te è ridicola, sgraziata...».

È vero. Se le gran turismo di Maranel-lo, le Ferrari che si possono sognare emagari comprare, sono levigate comeciottoli di fiume, le F1, le Ferrari senzaprezzo, uniche, sono dinoccolate e irsu-te come insetti. È vero però che esistonoanche gli amanti degli insetti. Al nostroMarinetti, in fondo, le auto piacevanoproprio per quelle loro protrusioni ani-mali, per quel «cofano adorno di grossitubi simili a serpenti dall’alito esplosi-vo», e ancora oggi i fumetti di Moebiussono pieni di tecnologia dall’aspetto or-ganico, biologico, di astronavi costolutecome dinosauri o articolate come cro-stacei. In Galleria c’è una bacheca sem-pre affollata: contiene in ordinate file da

375F1. Il 14 luglio 1951, a Silverstone, Froilan Gonzales battele Alfa Romeo. Enzo Ferrari dice: “Oggi ho ucciso mia madre”

156F1. Ècco l’auto che nel 1961 si afferma sia nel mondiale piloti,grazie a Phil Hill, sia in quello dei costruttori

500 F2. È la “rossa” che ha vinto di più (14 successi su 15 gare),portando Alberto Ascari al mondiale nel 1952 e 1953

158F1. Il 1964 vede un altro doppio successo: titolocostruttori e mondiale piloti, vinto grazie a John Surtees

126C2. Su quest’auto, l’8 maggio 1982, muore Gilles Villeneuve,uno dei piloti più amati dai ferraristi

F190. È la monoposto guidata da Alain Prost nel 1990,quando la Formula 1 è dominata dalla McLaren di Ayrton Senna

Rep

ubbl

ica

Naz

iona

le 3

6 12

/03/

2006

Page 7: Pillole per ricordare L’uomo perfetto - La Repubblica.itdownload.repubblica.it/pdf/domenica/2006/12032006.pdf · Hermes Trismegistus fino agli impianti della Merck, della Pfizer,

novità nasce nel vuoto. Noi lottiamocontro mille costrizioni: la tecnica cam-bia di continuo, i materiali pure, i rego-lamenti di gara anche». E la cultura deiprogettisti non cambia? «Eccome: neglianni Cinquanta ci si occupava più chealtro della potenza del motore e dellaleggerezza del telaio», spiega Byrne, di-dattico, «l’aerodinamica era affidata al-l’intuito più che allo studio». Non si sfor-zarono molto: la goccia di pioggia sem-brò agli ingegneri-pionieri dell’era diFangio e Ascari la forma naturalmentepiù adatta e non perfettibile per vincerela resistenza dell’aria. Ma nessuna goc-cia ha ruote, specchietti, tubi di scappa-mento, nessuna deve prevedere un mo-tore e un posto per il pilota, e poi le goc-ce cadono nel vuoto, libere, mentre lemacchine corrono al suolo e preferibil-mente devono starci appiccicate. E così,nella ricerca un po’ a tentoni della formapiù penetrante la goccia diventò sigaro,pantofola, conocchia, squalo, freccia,cucchiaio, “bottiglia di coca-cola”, unocchio alle soluzioni della nautica, un al-tro a quelle dell’aeronautica e perfinodell’astronautica: barchette, idrovolan-ti, shuttle, con una disponibilità entusia-sta al cambiamento in cui s’inserivanoper forza anche le suggestioni del designcontemporaneo. Se si può distinguere acolpo d’occhio una F1 Ferrari anni Cin-quanta da una anni Settanta, vorrà purdire che lo stile esiste, anche se mr. Byr-ne non lo ama. «Ma certo», ammettecontrovoglia, «per molto tempo è statonecessario intuire, direi indovinare laforma giusta, e i gusti del progettista ave-vano un certo spazio. Ma quell’epoca èfinita». Sa anche indicare con precisionequando è finita: «La 312 F1 del 1968 è sta-ta la prima monoposto disegnata senzapiù alcun margine soggettivo». Erascoppiata la rivoluzione aerodinamica.La battaglia contro l’aria poteva per laprima volta essere simulata in anticiponelle gallerie del vento. La Ferrari usòquelle dell’Aermacchi prima di costruir-si in casa, 1998 il più straordinario wind-tunnel del mondo, disegnato da RenzoPiano, gomitolo argenteo adagiato suuna collinetta verde, monumento mi-sterioso e quasi religioso, essendo solopochi alti sacerdoti, per motivi di spio-naggio industriale, ammessi ai suoi piùremoti penetrali. Da quel momento, in-siste Byrne, «ogni decisione creativa èstata bandita». Ma se fosse così, le mac-chine di tutti i team si somiglierebbero.«Usiamo gli stessi strumenti, ma in mo-do diverso: però sono sempre gli stru-menti a definire la forma, non i gusti».Tutti a caccia della forma definitiva, ulti-ma, non perfezionabile? Esiste da qual-che parte il modello platonico dell’autoda corsa perfetta, la «monopostità» as-soluta? Ci pensa un momento: «Forse ungiorno lo troveremo, ma allora sarebbefinito tutto il bello. Per fortuna c’è anco-ra tanto tempo». Ingegner Byrne, perl’ultima volta: la forma è solo la funzio-ne? «Yes», punto e basta. Il vecchio dog-ma modernista è in affanno ovunque,ma a quanto pare non è ancora sconfit-to. Ha fatto solo una sosta ai box.

della “bellezza necessaria”

Schumacher.Un’opera d’arte, viene voglia di parlarle

Il pilota racconta l’amore per il suo bolide: “Dà le stesse emozioni di un quadro”

STEFANO ZAINO

SAKHIR

«La Ferrari è emozionante come un quadro». MichaelSchumacher, che da dieci anni la guida, ne è convinto.

Quando scelse la “rossa”, dieci anni fa, si rendevaconto di entrare a far parte di un mito?

«Onestamente non avevo idea di cosa significasse laFerrari per la gente, per il mondo. Per me nel ‘95 era unasquadra come tutte le altre: non avevo grande esperien-za in Formula 1, anche se avevo già vinto due mondiali».

Però nessuna scuderia aveva un nome così carico difascino.

«Ma io vengo da una famiglia piuttosto povera, dove siconsiderava l’oggetto-macchina solo un mezzo di tra-sporto. Certamente nessuno di noi poteva permettersiuna Ferrari. Ora capisco che le macchine rappresentanoanche stile e bellezza e sono capaci di rendere felici lepersone anche solo per il loro lato estetico. L’ho impara-to lavorando per tanti anni a Maranello».

Pensa di essere al volante di un’opera d’arte?

«Credo che la Ferrari abbia raggiunto una dimensionequasi artistica. Sicuramente le nostre vetture che parteci-pano al mondiale di Formula 1 sono come oggetti d’arte:è necessaria così tanta passione per costruirle, come perdipingere un quadro; e al pari di un’opera d’arte offronoal pubblico un’emozione enorme. Lo scorso novembre inGermania, al Museo d’arte moderna di Monaco, ho visi-tato una mostra su immagini Ferrari del fotografo MichelComte: per tutta la durata dell’esposizione al centro delmuseo c’era la F2004, la macchina con cui due anni fa hovinto il mondiale, e tutti i visitatori la guardavano come sefosse un quadro famoso. Penso che questo dica tutto».

Per Schumacher ora la macchina è uno strumento oun sentimento?

«Io sono un pilota e per me la cosa più importante è cheuna macchina sia veloce. Ma non posso negarlo, la Ferrari èqualcosa di più. Nel guidarla c’è molta emotività, ti permet-te di stabilire una gradazione di sentimenti, c’è il piacere difar sfrecciare qualcosa che si trova bellissimo anche dal pun-to di vista estetico. Provate a parlarle. A me capita spesso».

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 12 MARZO 2006

quattro i modellini di tutte le 79 mono-posto del mito Ferrari, sembrano caval-lette rosse spillate nella teca di un ento-mologo. Ed è questo che sono: nongioielli tecnologici, ma splendidi scara-faggi purpurei, pronti per una lezione distoria naturale sull’evoluzione biologi-ca dei coleotteri, dagli esemplari primi-tivi alle specie più evolute.

A pensarci bene è tutta qui la storiadell’automobile da corsa: un processodarwiniano di perfezionamenti, adat-tamenti all’ambiente, sopravvivenzedel più adeguato. Un grande scultorecome Alberto Giacometti, curiosa-mente in sintonia con l’anti-esteta Byr-ne, riteneva che proprio l’incessanteevoluzionismo tecnologico impedisseil paragone tra auto e sculture: «Quan-do arriva un’automobile più perfezio-nata, la precedente si prende e si buttavia, mentre nessuna scultura ne spode-sta mai un’altra»; non considerava chel’automobile è un’opera d’arte mutan-te, apprezzabile soltanto nel tempolungo del suo continuo processo di mo-difica, creazione collettiva alla qualeogni disegnatore porta solo un piccolocontributo originale.

Byrne, per esempio, è stato l’invento-re del muso alto, una proboscide arcua-ta, un naso da formichiere. «Nessuna

D50. Cinque gran premi vinti su nove disputati per quest’auto,con la quale Fangio si è aggiudicato il mondiale 1956

312T. È la prima Ferrari portata al titolo mondialeda Niki Lauda nel 1975. L’austriaco trionferà anche nel 1977

246F1. È la monoposto che ha permesso a Mike Hawthorndi laurearsi campione mondiale di Formula 1 nel 1958

312T4. Cambiano i piloti, ma nel 1979 la Ferraridomina ancora la Formula 1: il mondiale è di Jody Scheckter

F399. Dopo vent’anni di digiuno, nel 1999, un pilota Ferrarivince il mondiale: inizia l’era di Michael Schumacher

F2003GA. Dedicata a Gianni Agnelli, appena scomparso,è l’auto che porta Schumacher e la Ferrari nella leggenda

I MODELLII disegni in queste pagine,di Sante Lusuardi, raffiguranole Ferrari che sono risultatepiù vincenti nei campionatidi Formula 1. Le immaginisono state gentilmenteconcesse dall’Archivio Ferrari

Rep

ubbl

ica

Naz

iona

le 3

7 12

/03/

2006

Page 8: Pillole per ricordare L’uomo perfetto - La Repubblica.itdownload.repubblica.it/pdf/domenica/2006/12032006.pdf · Hermes Trismegistus fino agli impianti della Merck, della Pfizer,

i luoghiTra Europa e Oriente

STEFANO MALATESTA

38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 12 MARZO 2006

(pagg. 475, 8,99 euro). Uno di quei rarilibri dove impari qualcosa ad ogni pa-gina, dove tutto sa d’informazioni diprima mano ottenute con una fatica,anche fisica, che avrebbe annientatouna persona meno forte di Mazower.

Questi distretti non erano ghetti enon c’era un obbligo di residenza(quando arrivarono a Salonicco al soloscopo di arrestare tutti gli ebrei e di spe-dirli nel tempo più rapido possibile al-le camere a gas della Germania e dellaPolonia, i nazisti si meravigliaronomolto di non trovare il ghetto). A gestir-li non erano le autorità ottomane, ma ileader dei gruppi, in questo caso rabbi-ni e vescovi, perché gli effendisussiego-si arrivati da Istanbul si rifiutavano dientrare in beghe di nessun interesse:loro rappresentavano un governo fi-scale, non confessionale.

Il credo islamico seguito dagli Otto-mani era quello dei popoli delle steppe,gente migratoria aperta alla coabita-zione con altri credi e disposta allacomprensione del cristianesimo. Fa-cevano riferimento alla scuola Hanafi,di rito sunnita, molto elastica e tolle-rante verso i non credenti. I loro capiavevano sposato donne serbe, croate egreche e molti sultani ottomani, cosìorientali con i loro immensi turbanti ela studiata, meticolosa etichetta, ave-vano la madre greca e cristiana. E lamaggior parte dei generali che coman-davano le truppe del Sultano, quandol’impero era la prima potenza mondia-le, erano nati in Europa da madri cri-stiane. Come dice Mazower, qualsiasicosa siamo stati indotti a credere a pro-posito delle ragioni secolari di uno sta-to come quello turco, le autorità otto-mane non erano molto interessate allefedi dei loro sudditi.

Il grado elevato di autonomia di cuigodevano le tre comunità, la cui mag-giore preoccupazione era di non vedercontaminati i fondamentali della pro-pria religione, pensando ognuna ri-spettivamente al vicino più in terminidifensivi che aggressivi, derivava daquesto stato di cose. Sarebbe ridicolo,naturalmente, definire i loro rapportiin termini idilliaci e ogni tanto quell’e-quilibrio precario, nato per caso o co-struito lentamente per necessità, pre-cipitava in qualche orrore, descrittodalle cronache in termini agghiaccian-ti. La tolleranza che le autorità turchedimostravano in ogni occasione non siestendeva fino a mettere sullo stessopiano i fedeli con gli infedeli. Ma quel-lo era un luogo dove la diversità e la di-suguaglianza venivano compensatedalla perfetta conoscenza dei mecca-nismi burocratici e da una fittissima re-te di conoscenze che aiutavano a supe-rare le differenze.

La stretta vicinanza avrebbe portatocon il tempo a curiose imitazioni degliuni dagli altri. Molti ebrei si facevano

città e riconoscibili solo dal differentecolore dei turbanti: bianchi per i segua-ci dell’islam, gialli per gli ebrei e blu peri cristiani. Questa coabitazione era du-rata non quaranta o cinquant’anni, macinquecento, un fenomeno straordi-nario ed eccitante alla luce dell’intolle-ranza attuale. Ma finora non c’era statonessuno che s’era accollato l’immanecompito di rovistare negli archivi anco-ra oggi più fantastici e più difficili delmondo, quelli ottomani. Partito ventianni fa con un sacco da montagna perla Grecia, quando era ancora giovanot-to, Mark Mazower, che ha insegnato inuna quantità esagerata di università eistituti, dalla Columbia University aPrinceton, era forse l’unico capace diquesto fenomenale tour de force che sichiama Salonica, City of Ghosts — Ch-ristians, Muslims, and Jews 1430-1950

Delle due città del Medi-terraneo chiamate le ca-pitali del Levante, Ales-sandria e Salonicco, la fa-ma e il fascino della pri-ma hanno sempre oscu-

rato le vicende della seconda.Nata sotto un segno imperiale di as-

soluto potere, innalzata al rango di cittàpiù letterata e colta dell’epoca — il luo-go dove il sapere greco sistemava filo-logicamente tutto il suo immenso ba-gaglio di scienze e di arti — , trasforma-ta in qualcosa di assolutamente fataleper i duci romani, diventata più tardi ilpunto di partenza dell’eremitaggio cri-stiano e del monachesimo in parados-sale contrasto con il cristianesimotrionfante, Alessandria ha avuto unastoria senza eguali. Riscoperta dagli in-glesi a partire dalla fine dell’Ottocento,al tempo di lord Cromer, lo straordina-riamente intelligente proconsole diSua Maestà britannica, è stata raccon-tata successivamente in guide e ro-manzi, da autori del calibro di Forster edi Lawrence Durrell. Mentre il grandeCavafis, a chi gli chiedeva perché non sifosse mai mosso da quella città, rispon-deva sarcastico: «Al primo piano dellacasa dove abito c’è il bordello per i pia-ceri della carne, di fronte c’è la chiesaper i doveri dello spirito, accanto il ci-mitero per quando sarò morto. Perchéandare via?».

Apparentemente Salonicco avevapoco da opporre a queste vicende displendori. L’aspetto fortemente orien-tale che aveva conservato per secoli —una skyline di bagni, moschee, madra-se, minareti con coperture a mattonel-le invetriate, simili a quelle adoperatedai turchi selgiuchidi per rivestire i tet-ti degli edifici dell’Asia Centrale — erascomparso tra le fiamme del grande in-cendio che aveva devastato la città all’i-nizio del ventesimo secolo. Nel tentati-vo di ellenizzarla i greci, che erano arri-vati solo nel 1912 sull’onda di un nazio-nalismo fanatico che li porterà al disa-stro, avevano finito per rendere ancorapiù anonimi quei resti, fingendo chequalche nuovo Pericle stesse per riapri-re un’altra epoca d’oro. Ma anche pri-ma, quando era bizantina, con qualcheeccezione per i lavori in mosaico, a vol-te dello stesso livello di quelli di Raven-na o di Istanbul, non c’era nulla che fa-cesse gridare alla meraviglia. La sua im-portanza andava scoperta osservandole carte geografiche ed era di tipo stra-tegico, con una posizione da cui si do-minava una delle principali strade chedall’Africa settentrionale e dal MedioOriente portava verso i Balcani e, viaDanubio, all’Europa centrale.

Centro strategicoSempre molto attenti a distribuire ra-zionalmente le loro truppe in modo danon lasciare scoperta nessuna partedell’immenso territorio da loro con-trollato, i romani ne avevano fatto ilcentro di una vasta regione che si servi-va della via Egnatia per il passaggio mil-lenario dall’Asia vero l’Europa. La stes-sa strada di cui si servì San Paolo nel suoviaggio verso Roma.

Gli storici sapevano che l’unicità diSalonicco stava altrove. Per cinque se-coli, sotto l’occhio della Sublime Porta,apparentemente svagata su moltiaspetti dei territori che formavamol’impero ma implacabile nell’esigere itributi, cristiani, musulmani ed ebreiavevano vissuto da separati in casa (inrealtà mai maritati), divisi in distretticome villaggi all’interno di una stessa

In questa splendida città macedone, a lungoconsiderata un simbolo del Levante, per quasi cinquesecoli cristiani, ebrei e musulmani hanno vissutogli uni accanto agli altri. Divisi in distretti, ma semprein pace. Ecco come il miracolo si è realizzato. E comeall’improvviso, anche qui, ha prevalso l’intolleranza

Le tradizioni si sono contaminate: a uncerto punto gli ebrei si facevano crescerela barba e portavano il turbante mentrei dervisci usavano pane e vino nei loro riti

ARCHI ROMANI E MINARETIUn panorama di Saloniccointorno al 1900, con i suoi altiminareti, i cipressi, le cupolee le eleganti residenzeottomane. Nella foto grandea centro pagina,i resti dell’Arco trionfaledel tetrarca Galerio(fine del III-inizio del IV secolo),in una foto dell’epoca

TEMPI PERDUTIL’archimandritadi Salonicco,massima autoritàreligiosa cittadinadella Chiesagreco-ortodossa,ospitato a bordodi una naveda guerrabritannica durantela guerra mondialenel 1915. Sopra,il vecchio portocon il lungomareCostantino

FO

TO

CO

RB

ISF

OT

O H

ULT

ON

AR

CH

IVE

/GE

TT

Y IM

AG

ES

FO

TO

RU

E D

ES

AR

CH

IVE

S P

AR

IS F

RA

NC

E

Rep

ubbl

ica

Naz

iona

le 3

8 12

/03/

2006

Page 9: Pillole per ricordare L’uomo perfetto - La Repubblica.itdownload.repubblica.it/pdf/domenica/2006/12032006.pdf · Hermes Trismegistus fino agli impianti della Merck, della Pfizer,

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 12 MARZO 2006

crescere la barba e ostentavano queivestiti che avevano visto indosso solo aimusulmani, compresi i turbanti, men-tre una setta di dervisci (non quelli ro-tanti) aveva appreso dai cristiani l’usonello stesso tempo simbolico e mate-riale del pane e del vino e se ne servivaper i suoi misteri. Questi stessi derviscifurono imparziali nel salvare i cristianigreci e nasconderli nelle loro case du-rante i primi mesi della guerra d’indi-pendenza, come qualche anno più tar-di i giannizzeri, i mercenari di origineeuropea da sempre al servizio dell’im-pero, ora caduti in disgrazia. E c’è statoun periodo in cui i cristiani, taglieggia-ti da vescovi esosi, si erano addiritturarivolti ai turchi per avere giustizia.

Dalle impareggiabili cronacheemerge in tutta la sua naturale enfasil’inverosimile capacità degli ebrei se-farditi di risollevarsi dalle catastrofi e diadattarsi, trasformandolo, a quanto ildestino mandava loro incontro. La loroespulsione dalla Spagna, questo subi-taneo rovesciarsi di masse di emigran-ti che a noi appaiono oggi come im-provvise ondate di marea che andava-no ad abbattersi sulle coste italiane epoi su quelle greche, cambiò totalmen-te la fisionomia e la composizione del-la città, non solo da un punto di vistaquantitativo. Alla fine si capì che a co-mandare, dietro gli obbligati masche-ramenti, erano loro: figli e nipoti diquelli che erano stati accolti anni primacome disperati. I testimoni obiettivi,come i mercanti francesi, dovevano ri-conoscere che questi ebrei, e in parti-colare i marrani, gli ebrei rinnegati, ec-cellevano in ogni sorta di manifattura eavevano insegnato ai turchi una quan-tità di invenzioni, dai cannoni ai meto-di di stampa. Ed erano interessati allemanifatture come ai calcoli, dalleuniformi per i giannizzeri alle lane piùpregiate per l’esportazione, dalla me-tallurgia alla finanza.

Il commercio più ricco passava allo-ra attraverso il triangolo d’oro Egitto-

Venezia-Salonicco e nessuno, neppurei più astuti veneziani che trafficavanolungo le rotte del Levante da sempre,era in grado di competere con il fittissi-mo intreccio di relazioni familiari econfessionali che aveva reso così po-tenti i marrani di Salonicco. Lo spagno-lo, nel Levante, diventò una lingua dif-fusa e necessaria e la ricchezza di alcu-ne famiglie ebraiche era tale che spes-so dovevano intervenire i rabbini permitigare le esibizioni delle signoremercantesse che andavano in giro contutta la chincaglieria in mostra, intesacome rosetas e almendras di diamanti.

Per secoli l’astio e il rancore dei gre-

ne del corpo dei giannizzeri, diventatidei pretoriani sempre più esosi e ricat-tatori. Per la prima volta l’amministra-zione imperiale stentava a mettersi alpasso, le dispute tra i riformatori contendenza laica e i seguaci di un’anacro-nistica ortodossia religiosa si erano fat-te più grandi e proprio a Salonicco iprofessionisti del “Cercle de Saloni-que” avevano cominciato a chiedereuna modernizzazione che portava pa-radossalmente non a un accomoda-mento tra le diverse etnie dell’impero,ma ad un periodo di crisi molto più acu-to che nel passato. Chiamato generica-mente Macedonia, l’hinterland di Sa-lonicco era in realtà un’immensa regio-ne abitata da greci e da slavi, divisi a lo-ro volta in rissosi gruppi di macedoni,serbi e bulgari i quali assaporavano ifrutti ingannevoli ed esaltanti di un na-zionalismo che non aveva confini, de-stinato ognuno a scontrarsi con quellovicino. Nel 1912 i governi di Bulgaria,Serbia, Grecia e Montenegro attacca-rono il «malato d’Europa», com’era de-finito l’Impero ottomano — con qual-che fraintendimento che costerà caro— e in poche settimane riuscirono a ri-durre l’intero territorio turco in Europaa una piccola area intorno a Istanbul ea poche città assediate nei Balcani.

Salonicco venne presa dai greci al-l’alba dell’8 novembre del 1912, sof-fiandola per poche ore ai bulgari, chestavano marciando a ridosso, dopoavere inzeppato le loro truppe di uffi-ciali ebrei per ricevere una migliore ac-coglienza. Questo successo, il fascinoincredibile di un notevole uomo politi-co, Venizelos — che era riuscito conqualche colloquio segreto a portare in-glesi e francesi ad appoggiare la sua fol-le megale idea, cioè di una Grecia chespaziasse sulle coste dell’Anatolia, benoltre le enclave greche di Smirne ed Efe-so —, l’ignavia degli uomini di stato eu-ropei riuniti a Versailles, che avevanocreduto alla loro stessa propaganda nelritenere il malato d’Europa oramai

co-ortodossi, che si sentivano deruba-ti in casa propria, andò crescendo e tra-sformandosi in odio impotente, che la-sciò il segno molto tempo più tardi, ababbo morto (quando l’impero otto-mano si era dissolto), con l’eliminazio-ne di tutti gli ebrei della città organizza-ta dai nazisti tedeschi, ma con l’appro-vazione e persino l’appoggio della co-munità greca.

La fine dei giannizzeriI primi segni della graduale trasforma-zione che si stava operando all’internodell’Impero ottomano arrivarono all’i-nizio dell’Ottocento, con la liquidazio-

agonizzante, portarono la Grecia al piùgrande disastro della sua storia moder-na. Come se la lezione inflitta dai fan-taccini turchi comandati da MustafàKemal ai ragazzi australiani e neoze-landesi sulle spiagge della penisola diGallipoli non fosse mai avvenuta, i gre-ci si buttarono in avanti solo per esserecacciati da una costa che abitavano da2500 anni.

L’esodo da Smirne di due o trecento-mila greci assunse i toni di una tragediadi Euripide senza che gli spettatori co-me Ernest Hemingway provassero al-cuna catarsi. La cosa più sensata da fa-re rimase quella di scambiarsi la casa,per chi era in grado di farlo, tra gli ex abi-tanti di Smirne che avevano abbando-nato le loro per rifugiarsi a bordo dellenavi inglesi e i musulmani di Salonicco,che prevedevano un futuro in Grecianon esattamente roseo.

Così iniziò l’esodo dei musulmani daSalonicco e il fatto che venissero rim-piazzati solo da cristiani alterò comple-tamente la natura della città. A ricorda-re il passato rimaneva la comunitàebraica che aveva conosciuto tempimigliori. Nel gennaio del 1943 Adolf Ei-chmann mandò i suoi delegati per con-durre un’inchiesta e subito dopo in unarapida e brutale operazione l’intera co-munità ebraica, 45mila persone, vennespedita ad Auschwitz. Nel dopoguerraai ragazzi greci si insegnava che final-mente Salonicco era ridiventata total-mente greca come lo era stata nei seco-li precedenti. Senza mai accennare chetutti gli ebrei deportati erano stati ucci-si nelle camere a gas poche ore dopol’arrivo nel campo di concentramentoe che quel quartiere nuovo che si stavacostruendo al centro della città sorgevadove una volta c’era stato il cimitero deisefarditi, ma loro non ne avevano piùbisogno.

Salonicco:i fantasmi

della capitalemeticcia

FO

TO

RO

GE

R V

IOLLE

T

Rep

ubbl

ica

Naz

iona

le 3

9 12

/03/

2006

Page 10: Pillole per ricordare L’uomo perfetto - La Repubblica.itdownload.repubblica.it/pdf/domenica/2006/12032006.pdf · Hermes Trismegistus fino agli impianti della Merck, della Pfizer,

«Vedere con l’udito». «La voce è ascolto».«Solo l’indicibile si può dire». «Esserecantati dal canto». Soltanto lui, soltantoun poeta della scena come Carmelo Be-ne poteva avere l’audacia, la coscienzaintellettuale e l’eccessività antica e in-

transigente per esprimersi così. E ancora: «La concentra-zione è un vuoto di pensiero». «La felicità non è felice». «Es-sere stranieri nella propria lingua». «L’Eros come desideriodi disfarsi dell’Eros». «L’atto è l’oblio». «L’orale è tutto, è ac-cordo tra natura e senso».

Parole e citazioni sempre sue, di Carmelo, frammenti diun altrove, di un istinto imperioso e nichilista, di una vitagenialmente all’insegna d’un teatro incomprensibile chefolgorasse, che non fosse ripetizione, che non ammettesseratifica, conforto. Parole, tra le molte, dette e riportate aUmberto Artioli, studioso di testi scenici, macchina pen-sante di radicale rigore, il cui libro Il ritmo e la voce del 1984aveva colpito così profondamente Bene da indurlo a in-staurare un dialogo che sarebbe poi sfociato in una colla-borazione per la Biennale Teatro, esperienza che valse aCarmelo polemiche e clamori.

Il fiume di battute intercorse tra l’attore che plasmò l’i-naudito nella scena italiana degli scorsi decenni e lo stori-co-teorico-militante incline a esaminare l’esoterismo e ilmisticismo eterodosso di vari fenomeni teatrali dell’Otto-Novecento è diventato ora un documento leggibile, unospartito imprevisto, la testimonianza di un’autorevole di-sputa (in forma di meticoloso dialogo), e lo si deve all’e-mergere di vecchie cassette audio rinvenute tra le carte diArtioli, scomparso improvvisamente nel luglio 2004. Que-sti nastri contengono un arco complessivo di quattro ore dicolloqui che risalgono a registrazioni fatte tra il 1988 e il1989, al riparo di un albergo fiorentino e poi di un cameri-no milanese mentre Bene era impegnato nella tournée del-la Cena delle beffe di Sem Benelli. Constatato il valore per-fettamente attuale degli scambi e degli stimoli che prelu-devano ad appunti più ragionati e a un qualche sviluppopoi interrotto, famigliari e amici di Artioli hanno convenu-to che i materiali potessero diventare di pubblico dominio.E ora è in uscita per i tipi di Medusa il volume Un dio assen-te, sottotitolo Monologo a due voci sul teatro, co-autori en-trambi i protagonisti degli incontri, che il destino ha volu-to morissero alla stessa età, 65 anni, finendo i suoi giorni Be-ne nel 2002, due anni prima di Artioli. Il volume a cura di An-tonio Attisani e Marco Dotti è anche dotato di comple-mentari, accorte e profonde testimonianze dello stesso At-tisani, di Carlo Sini, di Edoardo Fadini e di GiuseppeZuccarino.

Riferirci, oggi, per questo ritrovamento e per la conse-guente pubblicazione, all’Ultimo nastro di Krapp diBeckett (non foss’altro perché entrambi gli artefici delle di-scussioni ebbero cura di conservare sui rispettivi registra-tori i contenuti dei dialoghi) è un atto istintivo. A 17-18 an-ni di distanza riesploriamo i modi, le acutezze, i lessici, i ter-mini di riferimento, le domande cruciali, le risposte in-quiete, le frasi divertite, le voglie di affermazione ma anchei processi speculari di una personalità unica e travolgente(estrema, senza dubbi) come quella diBene, a confronto con un pensatore del-la cultura teatrale come Umberto Artio-li. Apparentemente propenso al vuoto ealla pura negazione il primo, incline aldionisiaco in senso tradizionale il se-condo. In realtà convergenti (con qual-che sorniona cautela) verso un terrenocritico comune che privilegia l’inco-scienza, l’eredità artaudiana, la nostal-gia per il mai accaduto, per il corpo delleparole, per la musica dei gesti.

Dando per scontato (ed è ciò che av-viene di fatto) che Artioli è prevalente-mente il soggetto istruttorio, è quasisempre colui che pone le domande o checomunque introduce i temi scenici e fi-losofici, e che Bene impersona l’animalacerata e scandalosa che articola ampierepliche; dando altrettanto per fataleche il primo ragionerà e interverrà menodel secondo, resta da dire che uno dei va-lori curiosi e preziosi di questo conver-sare è nell’apparente incompatibilità trale figure in causa. Artioli è di gran lunga(per natura e vocazione) un cultore e ricercatore di testi e difenomeni più che di spettacoli, e Bene è invece uno strenuosostenitore e praticante dell’oralità attoriale. Malgradoquesto vertiginoso scarto, i due creano un fitto dibattito abase di schermaglie solidali e sapienziali, un confronto al-l’insegna, diremmo, di un’intesa ora provocatoria ora su-bliminale ora sull’onda di una felpata stima (con qualchelieve dissidio senza mai trascendere).

Questo «monologo a due voci» è una summa di tutta unacultura che smarca le convenzioni, e che cita i fondamen-tali: Schopenhauer, Stirner, Nietzsche, Blümner, Hölder-lin, Masoch, Heidegger, Freud, Kafka, Lautréamont, Ar-taud, Grotowski, Klossowski, Deleuze, Lacan, Derrida,Manganaro, fino a Maurizio Grande. Non senza cammeid’apprezzamento fulmineo per Baudelaire o Flaubert, perRossini o Cardarelli, per D’Annunzio o Fitzgerald, per DeChirico o Calasso. L’ultimo nome menzionato da Carme-lo in questi “nastri di Krapp” è quello di Artaud. L’ultimoconcetto suona come un «uscire dal corpo». L’ultima im-pressione che ci dà è quella di un vortice pronunciato dachi non è mai nato e non è mai morto. L’ultima tacita esor-tazione è forse ancora quella che mise fine a un suo labo-ratorio: «Stanotte ognuno faccia i conti con se stesso, conil proprio forfait».

40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 12 MARZO 2006

RODOLFO DI GIAMMARCO

La stupidità totaleIo penso che il teatro non si sta occupandodi niente, questo è il discorso.Di cosa si occupano, o di cosasi preoccupano? Si invocauna drammaturgia a monte, autoriche scrivano copioni. Ma son pazzi?O sono scemi o ci fanno, siamonella stupidità totale. Perché?Perché vogliono lo spettacolo,questa garanzia che il testo a montegli dà di essere poi riferitoeccetera eccetera eccetera.

‘‘

L’arte purtroppoL’arte purtroppo è spettacoloe l’arte purtroppo è storia!Ahimè sì! È storia dell’arte,come la maggior parte della musicaè pensata. E poi se guardiquella contemporanea è pensosissima.È strapiena di pensieri, di cavilli,di spaccar le misure, il capelloin quattro, in cinque, in sei... e basta!Schopenhauer ammette solo Rossini,infatti, perché è solfeggio assoluto,perché davvero è volontà non oggettivata,non c’è oggettività.

‘‘

Io cerco il vuotoIo cerco il vuoto. Nessuno, per esempio,s’è mai occupato della tecnica,della strumentazione fonica,dell’amplificazione. [...]Di queste cose, dello spossessamento,non è che c’è bisogno se unonon lo contiene e se unonon se ne espropria proprio, ecco. È inutilepoi amplificare. Bisogna che la dinamicasia quella e che ci sia questo. Ora, che cosadire? Perché? Si dice solamente l’ascolto. [...]“Solo l’indicibile si può dire”. È vero!Perché solo l’impossibile si può fare, allora.

‘‘Kafka pornomaneKafka ha uno smisurato sensodell’ipercomico, che pochi gli riconoscono,ma quello che nessuno ha visto in Kafka —perché se tu mi riconfini Kafka nell’Erosè finita — è che Kafka è il più grandepornomane di cui il pianetaabbia mai disposto, è lì la sua importanza:c’è sempre lo sperma, le lenzuola sporche...

‘‘

I DIALOGHI RITROVATIIl libro “Un dio assente -

Monologo a due vocisul teatro”

(176 pagine, 18,50 euro)di Carmelo Bene

e Umberto Artioli,edito da Edizioni Medusa,

è curato da Antonio Attisanie Marco Dotti e sarà in libreria

il 18 marzo. I testiche pubblichiamo sono inediti

Nella pagina accanto,foto in basso, Umberto Artioli

Quattro ore di colloqui tra l’attoree lo storico teatrale Umberto Artioli,ritrovati dopo la morte di entrambi

e pubblicati dalla Medusa in un libro intitolato“Un dio assente”. Un documento inedito di grandeintensità, di cui anticipiamo alcuni brani salienti

Rep

ubbl

ica

Naz

iona

le 4

0 12

/03/

2006

Page 11: Pillole per ricordare L’uomo perfetto - La Repubblica.itdownload.repubblica.it/pdf/domenica/2006/12032006.pdf · Hermes Trismegistus fino agli impianti della Merck, della Pfizer,

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 12 MARZO 2006

“Vedere con l’udito”,“essere stranierinella propria lingua”,“l’atto è l’oblio...”Parole e frasi scagliatecon istinto imperiosoe nichilistada un poeta della scena

Il maschio e la femmina[...] Rimane sempre tra i due sessi, la faccenda.Non può restare tra due sessi, il maschio e la fem-mina. Ma Dio mio, è così limitata la storia?La femminilità, che abbandono, non appartienené al maschio, né alla femmina. Sono due maschi,tutti e due. Soprattutto nei ruoli sociali,non ne parliamo. Quindi non è la mancanzadel fallo, il complesso di Edipo o di castrazione,c’è nel maschio e c’è nella femmina.C’è in Don Giovanni, soprattutto. Forse l’unicacreatura femminile è Don Giovanni.

‘‘

La tragedia greca è tradimentoNella tragedia, e qui solamente in senso relativoda Nietzsche, nella tragedia il dionisiaco non c’è più.Quei sessanta-settant’anni, che poi si chiamanoEllade, Grecia, i greci, i greci, i greci, poi non furonoche pochi anni. Ma che cos’è? È già décadence,perché lì siamo già nella rappresentazione di Stato,attenzione! Con Eschilo, Sofocle, Euripidee Aristofane, siamo già a quello. Nietzsche quandoparla di dionisiaco rimpiange qualcosa di barbarico,di assolutamente a monte da tutto quanto ciò...La tragedia greca è tradimento, è alto tradimento,è la festa addomesticata di Bataille, questo vogliodire, è la ricorrenza, quando le feste diventanoricorrenti, è Natale, suvvia.Un po’Natale in casa Cupiello.

‘‘

Carmelo

Fuga dal corpola voglia estremadi un genioscandaloso

Concentrarsi sconcentrandosiÈ proprio per esser nell’oblio, che bisogna leggere!Perché se questo occupa anche un dieci per centodella memoria, della memoria d’attore, il giocoè finito. Perché allora o devi completamenteabbandonare ogni non dico “senso”,ma chiamiamolo “senso”, che poi sia mancato,è un altro fatto, e quindi nella decantazione,nella sovrumanità attoriale cercare di smarcarlo,di dribblarlo, di smarginarlo, ma trovandotidavanti... Solo leggendo lo puoi fare!Ma non perché tu stia leggendo quello scritto:proprio perché tu non vuoi leggere quello scritto.E devi meditare, devi sconcentrarti nel modopiù assoluto. Questa è la vera concentrazione:sconcentrandosi nel modo più assoluto.Ecco che — io dico — rinunci alla volontà, volontàdi ricordare, volontà che ti porta a riferirefatalmente, quindi a “porgere”, a fare questecose stronze del teatro di tutto il mondo, o del cantolirico (non ne parliamo) o del belcantismo.

‘‘

Lasciarsi parlareSvendita del virtuosismo acquisito e cessazionedella volontà. Lasciarsi parlare. Qui entrain gioco la dinamica, che non è il volumeo la forza: dinamica enorme, ventaglio vocalee timbrico (quello che Gassman mi riconosce).L'importanza quindi dell'amplificazione,che non serve a ingrandire nel sovrumano,ma a estrarre l’extra-umano.

‘‘

BeneF

OT

O H

AR

AR

I/C

ON

TR

AS

TO

FO

TO

GR

AZ

IA N

ER

I

Rep

ubbl

ica

Naz

iona

le 4

1 12

/03/

2006

Page 12: Pillole per ricordare L’uomo perfetto - La Repubblica.itdownload.repubblica.it/pdf/domenica/2006/12032006.pdf · Hermes Trismegistus fino agli impianti della Merck, della Pfizer,

42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 12 MARZO 2006

la letturaGioco d’artista

In fondo a un parco sulla sponda del lago di Lugano, in alcune scatolenella Biblioteca Cantonale c’è il Fondo Guido Ceronetti: i libri, le poesie,le lettere; e poi i collages, i cartoncini colorati e un migliaio di vecchiecartoline, “rettangoli di tempo” che lui scova sulle bancarelle e a cui dànuova vita perché - dice - sono “il soffio ghiacciato del mai più”

LUGANO

Profugo dai molti mondi este-riori e dalla poca Italia che re-sta, Guido Ceronetti s’è rifu-giato dentro a una decina di

scaffali che vanno rintracciati, dopo unaereo e un’autostrada, in una sequenzada cannocchiale. Stanno al centro delcentro di Lugano, lungo la sponda delLago, in fondo al Parco di Villa Ciani, die-tro ai cristalli della Biblioteca Cantonale,sotto la prima rampa di scale, accanto al-lo sguardo letterario della conservatriceresponsabile dell’Archivio Diana Rue-sch, capelli neri, maglione rosa, che indi-ca le molte scatole bianche blu e ti dice:«Ecco Guido Ceronetti».

Guido Ceronetti c’è davvero. Inat-tuale, sotto la luce al neon. Nemico del-la folla. Disegnato in forma autografacon il suo basco e la sua lonta-nanza di marionetta. Con isuoi inferni portatili che de-sume dall’Ecclesiaste e dallacronaca nera. Con la sua per-severanza vegetariana. Lasua sterminata produzioneletteraria. La sua mancanza diradici. Sigillato, sembrerebbeal primo sguardo, come alla fi-ne di un viaggio. Ma poi esatta-mente capovolto: dentro a ogniscatola un punto di partenza so-lo andata. Come una palma diAlgeri. Un boulevard di ParigiBelle Èpoque. Lo sguardo diun’odalisca. Un castello in Bavie-ra. Un ponte sul Po a Torino. Unbacio. Avventure in formato tasca-bile che un viaggiatore chiamereb-be souvenir, un letterato memoriee Ceronetti solamente cartoline.

A partire dal 1994 ne ha regalatequasi mille agli scaffali della Bibliote-ca Cantonale di Lugano. Fanno partedel Fondo Ceronetti che comprendeparecchie decine di quaderni, fogli, ap-punti. Una infinità di lettere. Le tradu-zioni. I libri. Le poesie. I collages. I car-toncini colorati. Le brevità sapienzialidel Filosofo ignoto. E una sola racco-mandazione: «Mai nulla entrerà di foto-copiato e di inautentico».

Ceronetti ama le cartoline. Le racco-glie nei viaggi. Le acquista all’EspaceMarigny di Parigi. Sulle bancarelle dipolvere e di vecchi argenti. Le estrae dalsonno di una cassapanca. O lungo i rac-cordi di altre vite. Tutto a partire dallaloro invenzione, Austria 1869, posteimperiali, e diffusione nell’Europa fer-roviaria, fino all’approdo nell’Italiaunita, anno 1874.

Le cartoline che piacciono a Ceronet-ti devono essere economiche, «perché ilprezzo ne annulla il valore». Usate, natu-ralmente. Meglio se perdute. Mai e poimai destinate a trasformarsi in specchida collezionare. Guai a usare quel verboche lui considera sommamente intran-sitivo. «Non ho il morbo del collezioni-sta», dice con molto disprezzo. Sempli-cemente le sceglie: «Perle autentiche trale lerce vedute di Spotorno e i saluti conla torre Eiffel». E scegliendole le fa vivere.Non commette il crimine dell’entomo-logo che inchioda le farfalle. Ma asse-conda la leggerezza di tenerle in volo neicieli del passato. «La cartolina — dice —è il soffio ghiacciato del mai più». Perchéil soffio è l’istante. Perché il ghiaccio è latrasparenza dello sguardo. Perché il maipiù è l’addio e la sua ridondanza.

La cartolina è un rettangolo di tempoche viaggia nel Tempo. Attraversandolone parla. Ceronetti lo archivia e lo tra-manda con nulla da aggiungere o qual-che volta poche righe, come «suggestio-ni immaginarie», mai per didascalia opeggio ancora «spiegazione». Dice:«Scelgo le cartoline per estro. Quelle che

mettono in moto i ricordi e un sogno.Perché raccontano una storia interes-sante. Perché hanno portato un messag-gio, un’emozione». Dice che una volta netrovò una indirizzata a Antonio Ranieri,senatore, quello che in gioventù avevavissuto con Giacomo Leopardi. In un’al-tra c’erano i saluti firmati da Mario Siro-ni. In una terza, dietro all’obelisco dipiazza Savoia, Torino, addirittura la pro-pria casa («Dio che roba! La casa natale diGuido Ceronetti!»). Ma di solito si trattadi immagini usate dal tempo anonimo:«Nulla è troppo recente. Niente è ricava-to da Internet. Tutto è umilissimo. Mor-sicato dalla vita».

La raccolta è notevole. Il loro decen-tramento, un esilio programmatico. Lecarte sono approdate qui sulla scia di al-tri viaggi solitari, quello di GiuseppePrezzolini, che visse gli ultimi anni aLugano, passeggiando il lungolago.Quello di Ennio Flaiano, che raccontòl’Italia e gli italiani dalla sua Roma mar-

ziana. Entrambi stanno dentro a scato-le nere e grigie, con i loro romanzi, le lo-ro sceneggiature, i fogli rilegati, accan-to a quelli di Vincenzo Cardarelli, ilpoeta, Mario Picchi, il giornalista, Enri-co Emanuelli, il narratore.

Tutte vite di inchiostro, cariche dichilometraggio e disincanti. Che ades-so il cielo di Lugano perfeziona in unaeredità d’altro secolo e di patria collet-tiva, proprio come piace a Ceronetti.Lui il secolo lo ha scavalcato, «con anniche non voglio più festeggiare, mi sec-cano molto». Anche se ha la piccola va-nità di aggiungere che i suoi, per calen-dario, «sono gemellati con quelli di Fi-del Castro e del papa Ratzinger».

Sono per l’esattezza 79 («non dicaquasi-ottanta, non c’è fretta») partendoda quell’agosto del 1927, le rive verdi delPo e tutto il resto in bianco e nero che so-no la sua primissima memoria. Ha scrit-to di sé: «Torinese per foglietto anagrafi-co, l’accento incorreggibile, i ricordi».

Dai quali estrarre «i parenti ossessivi, ilfascismo martellato e chiesa chiesa chie-sa». Poi ci sono stati i lampi dell’Antigo-ne di Sofocle, le cattive traduzioni dellaBibbia, il senso di colpa e il lampioncinodavanti alle case di tolleranza. Della suagioventù «la cosa più spensierata era iltram. Il cinema era col contagocce, permolti anni puro e semplice miraggio».

Vengono da quel miraggio e da queitram gli sguardi d’archivio che adesso,sugli scaffali di Lugano, lui va trasfor-mando in un «Libro di Figure». In un«Contromuseo» da pochi spiccioli, dovele immagini «parlano con musica pove-ra di organo meccanico o violino di cie-co, fisarmonica col piattino vuoto, ditanta vita che il mondo nasconde, al di làdelle vendemmie dell’arte, delle crona-che frenetiche, della brutalità della sto-ria, al di là di tutto quanto è classificato diserio, di importante, di avente valoremercantile nel gran girare a vuoto delmondo esteriore».

Sono una pioggia leggera quei ret-tangoli, un lampo di luce e un istante.Sono la Senna che dondola. Il treno avapore. Il tramonto a Riccione. La Pira-mide d’Egitto. La baita nell’irredentoTrentino. La Fiat 509. La cattedrale diGaudì a Barcellona. La donna in suemoltissime versioni: madre, attrice,amante, ballerina, prostituta, tra le len-zuola e i fiori, con lo scialle, le ciglia, ilfondale di stelle, lo charme eternel chesi piega in un inchino, nella fragranza diun profumo antico e proibito.

Con le cartoline Ceronetti ci gioca. So-no, in un certo senso, la forma inanima-ta e sottile delle sue marionette di stradache vivono dentro al Teatro dei Sensibi-li. A molte delle sue cartoline assegnauna parte. Le ritaglia, le ricompone, leaffianca, le incolla in un «percorso dimeditazione». Ne fa dei pannelli chechiama Collages. Spiega: «Per mez-zo dei collage si ha il piacere di farea pezzi esseri umani, individui e

PINO CORRIAS

Ceronetti, il teatro di carta

Page 13: Pillole per ricordare L’uomo perfetto - La Repubblica.itdownload.repubblica.it/pdf/domenica/2006/12032006.pdf · Hermes Trismegistus fino agli impianti della Merck, della Pfizer,

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 12 MARZO 2006

Sono ormai sedici anni che Guido Ceronetti edio, ogni anno meno diritti e spediti, andiamo in-sieme a passeggio. E quanto ridere, nelle nostre

passeggiate all’imbrunire, le volte che Guido dà fon-do alle sue inesauribili riserve d’ironia. Davvero,quante risate. I titoli crepitanti, anzi tuonanti, deigiornali, i nomi stranieri storpiati dai giornalisti ra-diofonici, e nella cosiddetta «carta stampata» lesbandate sintattiche degli articolisti. Ma non ridia-mo del solo giornalismo. C’è anche la grandine bat-tente dei premi letterari, delle lauree ad honorem,dei festeggiamenti pubblici (ormai non si negano anessuno, specie in Campidoglio a Roma) per gli ot-tant’anni di questo o quello. E poi, ma molto più dirado, si ride dell’ininterrotto starnazzare che pro-viene dal pollaio della politica italiana. Le interviste-fiume, e quotidiane, dei leaders, gli insulti, le “gaf-fes”, gli ultimatum: insomma la sbobba che ci vieneammannita ogni giorno dell’anno. Ma questo, piùche vero ridere, è piuttosto un ridacchiare. Un’alle-gria di naufraghi.

Quanto a fonti d’informazione, Ceronetti ed io sia-mo all’incirca pari. Io sento un po’ di più la radio per-ché il mio apparecchio (un Sony a dodici bande d’on-de corte che mi serviva un tempo, nei viaggi da repor-ter, per ascoltare la Bbc) prende tutti e tre i program-mi Rai, salvo qualche giornata di vento forte quandosul Terzo programma si sovrappone Radio Tirana.Mentre col suo, Guido riesce a sintonizzarsi soltantosu Rai 1 e su Radio Maria: Radio Maria soprattutto lasera, quando gli piacerebbe sentire le notizie o un po’di musica, e invece incappa immancabilmente nellarecita del rosario. In compenso lui scorre di più i gior-nali, ne taglia e conserva molte pagine, imbottisce ilsuo archivio con la stessa scrupolosa costanza diquand’era giovanissimo.

Perché i giornali sono stati una delle sue prime pas-sioni, e in fondo ancor oggi — nonostante qualchevolta invochi un totale «silenzio stampa», i reticolatie le sentinelle a fermare «le notizie» — non potrebbefarne a meno.

Anche come memoria, siamo pari. E la memoria,inutile dirlo, è l’ossigeno delle nostre passeggiate.Del resto che altro potrebbero fare due ultrasettan-tenni a passeggio, se non ricordare? Se non svolge-re, attenti a non spezzarlo o arruffarlo, quello cheMontale chiama «il fil di ragno della memoria»?Avendo vissuto in modo radicalmente diverso (luiun vegetariano quasi astemio che ha in odio il fumodelle sigarette, io un fumatore accanito con ten-denza all’alcolismo), Ceronetti ed io non abbiamoricordi di vita in comune, anni di liceo, primi amo-ri, esordi professionali. Ma l’essere quasi coetaneisignifica avere da qualche parte nella testa molteidentiche memorie.

Per esempio i film italiani e francesi degli ultimiTrenta e primi Quaranta — Alida Valli e Arletty, Naz-zari e Jouvet, Michel e Simone Simon —, i sabato fa-scisti, le canzoni di D’Anzi e Kosma, le edizioni Mon-dadori e Bompiani dei Cinquanta, le copertine dellarivista Dramma, le compagnie teatrali Ricci-Magni,Cimara-Gioi-Tieri e Torrieri-Carraro, Macario e Nu-to Navarrini, le fotografie di Cartier-Bresson, Lavora-re stanca, l’«oratoria sfasciata» di Céline, alla radio iradiodrammi, la Stampa con gli articoli di ArrigoCajumi e il Corriere con gli articoli di Guido Piovene.

Ceronetti lo ha scritto: «Finché mi resterà la me-moria. sarò un uomo che pensa; dopo, più nulla». E dimemoria glie ne resta, questo è certo. Interi brani del-l’Eneide in latino, Eschilo in greco, Machado in spa-gnolo, Mallarmé in francese. La data di nascita diChamfort, la “r” di Nunzio Filogamo-Aramis neiQuattro moschettieridi Nizza e Morbelli, Leni Riefen-stahl e la morte di Hess a Spandau, le citazioni dai Sal-mi, i grandi fatti di sangue dal dopoguerra ad oggi. Cen’è, da discorrere. Peccato solo che il meglio dei mieiricordi (il bar del St Regis a New York, Carrol Gibbonsche suonava al bar del Savoy nel ‘51, l’esplodere deltwist da Règine, a Parigi, nel ‘58, le cene sulla terrazzadel Saint Georges nella sera beiruttina) lascerebbeGuido di pietra, l’occhio quasi vitreo, sperso, che glisi vede quando un argomento non lo interessa.

Ma torniamo al gran ridere. Quale errore, immagi-nare che uno scrittore come Ceronetti, con i suoi to-ni apocalittici, la sua sconsolata osservazione del-l’uomo, la sua dimestichezza con la tristizia antico-ebraica, trascorra giornate cupe. Il «moralista ber-ciante», il «terrorista culturale» — come a volte s’au-todefinisce — non può privarsi del sostegno a vivereche viene dall’ironia. La sua disperazione è filosofica:e tale (tant’è vero che non scivola mai nel sarcasmo onel dileggio) è anche la foga satirica che impiega, losguardo infallibile, contro le brutture della «moder-nité-merdonité».

Si leggano a riprova i suoi Deliri disarmati, due librisenza fortuna, che hanno pagato la loro intelligenzacol silenzio quasi totale della critica. Alla fine di quel-lo che mi sembra il suo più bel libro, La pazienza del-l’arrostito, Ceronetti scrive di sé: «...di lui si potrà one-stamente dire “cercava di pensare”». Potrei deporredinanzi a un tribunale, parlando delle nostre passeg-giate. È proprio vero: Guido pensa, e fa pensare.

folle, senza spargere unagoccia di sangue. È il mi-

glior surrogato del crimine.Lo spirito della Distruzione

si sfoga, si soddisfa e quel cherimane è piacevole agli oc-

chi». Quel che è piacevole agliocchi, lo svelena. Ha scritto:

«Sarà per paura o fame di bellez-za / che si estinguerà sulla Terra

la specie umana?». E ha aggiuntoa mano, tra parentesi: «(Sarebbe

bellissimo)».Per lui le cartoline «non sono og-

getti inerti, respirano». Fanno parte(proprio) della bellezza che si perde nel

vuoto e nel troppo pieno di oggi. Nel ne-ro accecante del temporale di immagini.Nei silenziosi boati del presente che luifrequenta e registra con poesia di per-manente catastrofe, dissimulando il suovolontario esilio — prima ad Alassio, poiad Albano Laziale, ora a Cetona, tra i col-li senesi — nei viaggi continui che riem-

piono la sua agenda. «Bisognava vederlo— ha scritto una volta il suo amico Od-done Camerana — con il suo basco, leborse a tracolla, arrancare per le stazioniferroviarie, salire e scendere dai sotto-passaggi, protestando per la fatica».

C’è (quasi) tutto Ceronetti dentro aqueste scatole bianche blu di Lugano.Allineate come un catalogo di molte vi-te in orizzontale. Numerose quanto lesue idiosincrasie: niente auto, nienteaerei, niente computer, niente telefo-nini. Ma molto scrivere con la luce del-le candele all’alba. Magari lettere agliEstrosi come dice l’etichetta del secon-do scaffale. O agli Scrittori celebri. O al-la sua amica Giosetta Fioroni, la pittri-ce, che gli manda disegni bellissimi emondi colorati. Come quelli che le suecartoline raccontano, non ancora can-cellati «dal genio losco delle moltitudi-ni». E poi volati via, come nebbia, comei Saluti dal Lago di Lugano, Svizzera,arrivederci, ciao.

SANDRO VIOLA

Passeggiandosul fil di ragnodella memoria

FILOSOFO IGNOTONelle illustrazioni della pagina,una scelta delle cartolineraccolte da Guido Ceronetti,dei collages e dei cartoncinicolorati, delle brevità sapienzialidisegnati e scrittidal “Filosofo ignoto”Tutto il materiale appartieneo è destinato al Fondo Ceronetti,custodito in Svizzera dallaBiblioteca Cantonale di Lugano

“Le scelgo per estro:quelle che mettonoin moto i ricordi,che raccontanouna storia, che hannoportato un’emozione”Rep

ubbl

ica

Naz

iona

le 4

3 12

/03/

2006

Page 14: Pillole per ricordare L’uomo perfetto - La Repubblica.itdownload.repubblica.it/pdf/domenica/2006/12032006.pdf · Hermes Trismegistus fino agli impianti della Merck, della Pfizer,

44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 12 MARZO 2006

Icronisti ne avevano una granpaura: non tanto per le sue ful-minee sfuriate quando le si ac-calcavano intorno, spesso villa-namente, per rinchiuderla con leloro domande sfacciate nell’im-

magine antipatica che le si voleva dare;quanto per quello sguardo nero e lu-cente, che emanava massimo fastidio edisprezzo, esaltato dal pesante trucco amatita attorno ai begli occhi grandi,che terminava, come si usava allora,con una freccina rivolta all’insù. Quel-lo sguardo oltraggiato, da maleficio,perforava anche gli occhialoni neri chespesso portava, superava la grande aladel cappello che le ombreggiava il viso,e pareva avere una sua traiettoria cru-dele, inesorabile e vendicativa.

Erano i primi anni Sessanta e un per-sonaggio così internazionale, cosìchiacchierato, così mitico, così melo-drammatico, non si era mai visto nellaMilano benpensante, conservatrice,una città altezzosa che rinchiudeva lesue ricchezze e la sua ipocrisia nei pa-lazzi pesantemente arredati, e di cuiuna vivace giornalista, Camilla Ceder-na, aveva cominciato a raccontare conla massima ironia e precisione, i futilipeccati carnali e i ben più volgari pec-cati finanziari e politici.

Di quella società senza grandezzaMaria Callas era diventata la star indi-scussa. Dapprima era stata la goffastraniera col marito italiano anziano,provinciale, ricco e senza classe, daprendere un po’ in giro per i suoi brut-ti vestiti e per le caviglie gonfie, anchese protetta da Wally Toscanini. Poi no-ve anni di trionfi alla Sca-la, tanti di più in giro neimassimi teatri del mon-do, la sua voce carnale e ilsuo imperio sulla scenatravolgenti, la magrezza,la bellezza, l’eleganza, imodi regali, conquistatimisteriosamente in po-chi mesi, avevano divisola città dei melomani indue: c’era una sua corte diadoratori, di appassiona-te vestali, di persone chela vivevano come un mi-to; e all’opposto c’era chila disprezzava, chi la criti-cava, chi la temeva, chialimentava di lei una leggenda miserae nevrotica.

Anche chi non aveva mai messo pie-de alla Scala, sapeva della rivalità ap-passionata (e ingigantita dalla stampa)tra la Callas e un’altra geniale soprano,Renata Tebaldi, bella e statuaria, sem-plice e brava, che non poteva però con-trastare la tempestosità sfrenata e coc-ciuta della signora greco-americana:da quando, dopo una specie di amici-zia, aveva iniziato la sua guerra musi-cale contro l’innocente coetanea pesa-rese, imponendo alla Scala, dopo unaTraviata tebaldina di scarso successo,una sua Traviata, nel 1955, con regia diLuchino Visconti, memorabile persempre. Alla fine di quel decennio però,la Milano chiusa nella sua modestamondanità non poteva bastarle più, eneppure la gloria musicale, non la Sca-la, non il Metropolitan, non la Norma ola Toscae neppure quella meravigliosa,scandalosa Traviataviscontiana, in cuiVioletta aveva gettato per aria le scarpi-ne di seta, con un gesto di naturalezzaliberatoria che era apparso blasfemo aiparrucconi dell’opera.

Soprattutto non le bastava più ilcommendatore veronese Giovan Bat-tista Meneghini, proprietario di dodicistabilimenti di laterizi, che aveva venti-

NATALIA ASPESI

Il trentesimo anniversario della sua morte cade nel settembredell’anno prossimo Ma il personaggio è così grande che la corsaalle celebrazionista già per cominciare: libri nuovi e ripubblicati,

cd con il meglio delle sue strepitose interpretazioni, mostre in tutto il mondo per gettare lucesulla vita privata della più celebre tra le cantanti liriche. Che da goffa provinciale scalòil gran mondo per essere poi sopraffatta da ipocrisie, cattiverie e tradimenti

nove anni più di lei e che l’aveva sposa-ta nell’aprile del 1949, quando lei avevaventisei anni e pesava ancora ottantachili, venti in meno comunque diquando aveva tentato invano, a NewYork, la carriera di cantante. Era preci-pitata, per caso, nell’incontro fatale, ir-rimediabile, nella cornice irresistibiledel “monde” internazionale, quel granmondo che accoglie gli estranei solo sedecorativi, preziosi, utili. Pare, come leaveva scritto la spaventosa, potentepettegola di Hollywood, Elsa Maxwell,che sul panfilo “Christina” si fosse stu-fi della presenza di Greta Garbo, ormaivecchia e noiosa, e che Maria Callasavrebbe potuto essere, con la sua cele-brità cui si inchinavano anche capi diStato, una gradevole sostituzione; perallietare il proprietario, l’armatore gre-co Aristotile Onassis, e i suoi sideraliospiti, tra cui Winston Churchill e gliAgnelli.

Era l’estate del 1959, la cantante, atrentasei anni, era arrivata al verticedella sua carriera, del suo potere e delsuo fascino: da quel momento, abban-donandosi alla passione, rinunciò a unmarito che aveva molto amato e alla ra-gione stessa della sua vita, al canto. Dal-le tournée, agli inizi del loro matrimo-nio, Maria inondava il marito di lettereappassionate: «...Amore, se Dio vuole,tra un mese ci rivedremo e staremosempre insieme, per prenderci cura l’u-no dell’altro. Per amarci vicendevol-mente. Perché questa è la cosa grandedel nostro amore: ognuno offre all’al-tro. E più uno offre e più offre l’altro.Questo è l’amore che ho sempre sogna-to e pensato». Dieci anni dopo, gli dirà:«Sembri il mio carceriere, non mi lascimai sola. In tutti questi anni mi hai sem-pre tenuto alla catena. Sono stufa. Nonsei sportivo. Non sai le lingue. I tuoi ca-pelli non stanno a posto. Non riesci a ve-stirti elegantemente». E pochi giornidopo: «È tutto finito tra noi, ho deciso distare con Onassis. Lui non riesce più astare lontano da me e io da lui...».

Callas-Meneghini-Onassis divenne-ro il massimo pettegolezzo di quel de-cennio: la grande diva del canto, il vec-chio marito abbandonato, il ricchissi-mo armatore mondano, vite tremendema apparentemente meravigliose,panfili, feste in maschera, notti nei ni-ght club e un grande amore cui tutto èstato sacrificato; e che in pochi annifarà flop. Già la detestavano nei teatri li-rici, la Callas, forse per l’eccesso di ce-lebrità e per il carattere arrogante, masoprattutto, si può pensare oggi, per-ché era una donna che non si lasciavasottomettere da direttori d’orchestra,registi e sovraintendenti, non si limita-va a essere una grande cantante, ma sirivelava una implacabile musicista,una che non solo attraversava bellissi-ma il palcoscenico con uno slancio difuoco impossibile a colleghi e colleghequasi sempre di larga stazza, ma capivameravigliosamente la musica e non ac-cettava che il meglio, anche da sé.

Con l’avvilente divorzio (Meneghiniaveva anche proposto all’avvocato difare arrestare la moglie adultera, comela legge italiana permetteva allora), conla separazione di Onassis dalla moglieTina, giornalmente sbandierati suigiornali, il suo pubblico moralista pre-se ad allontanarsi da lei, ad aspettare,crudele, la sua punizione. Che arrivòpresto: Onassis era quello che era, unomaccio troppo ricco e volgare, e co-minciò presto a trattarla male, a trascu-rarla, a farle fare brutte figure, lei la di-vina, la grande, l’irraggiungibile, pub-blicamente ridicolizzata. Franco Zeffi-relli che le era rimasto amico, dopol’ennesima scenata del villano amantesul “Christina” le disse di piantarlo,

Il suo sguardooltraggiato,da maleficio,perforava anchegli occhialoni neri,superavala grande aladel cappelloche le ombreggiavail viso...

MariaMisteriosa, passionale, fragiledietro le quinte con la Divina

LA VITA QUOTIDIANAQui sopra, Maria Callas

in una inconsueta posa casalingaNella foto sotto, la Divina

davanti al pianoforte

CALLAS

FO

TO

DA

VID

SE

YM

OU

R/M

AG

NU

M

Rep

ubbl

ica

Naz

iona

le 4

4 12

/03/

2006

Page 15: Pillole per ricordare L’uomo perfetto - La Repubblica.itdownload.repubblica.it/pdf/domenica/2006/12032006.pdf · Hermes Trismegistus fino agli impianti della Merck, della Pfizer,

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45DOMENICA 12 MARZO 2006

quell’uomo orribile, e di tornare a can-tare. E lei gli rispose: «Ormai sono allamercé di quest’uomo. Era tutto per me.Il sogno con cui pensavo di coronare lamia vita. Ma è finita male».

Era già finita con umiliazioni terrifi-canti quando nell’ottobre del ‘68 Onas-sis sposò Jacqueline Kennedy, vedovadel presidente assassinato: era più gio-vane, più elegante, gli apriva le porte diun mondo politico, finanziario e mon-dano ormai più interessante di quelloeuropeo. Maria Callas non aveva anco-ra quarantacinque anni e a un amicoaveva scritto: «Sono così fragile, dietroil mio cosiddetto controllo... Ho anco-ra una lunga vita da vivere e devo esse-re degna di tutti i doni che mi sono sta-ti accordati». E a un altro: «Ma che vitasolitaria mi attende! Non potrò più la-vorare al livello di un tempo, né miaspetto un uomo adeguato alle miesperanze... È forse troppo chiedere auna persona di essere onesta, leale, fe-dele, passionale? Mi sento molto sco-raggiata...».

Ricominciare, ma come? Con una vo-ce stanca, disabituata, il mondo della li-rica cambiato, il mondo stesso diverso,con l’irrompere della politica, dei gio-vani, delle donne, della rivoluzione ses-suale e sociale. E in più il suo vizio d’in-namorarsi ancora, come una ragazzi-na, dopo una delusione così grande, emagari di sognare il matrimonio. PierPaolo Pasolini le dà l’opportunità di tor-

nare a lavorare, non sul palcoscenicoma sul set, facendo di lei una magneti-ca, oscura Medea, e lei, ingenuamente,se ne infiamma; quando lui le regala unanello si sente fidanzata, poi capisce lasituazione e ne accetta la semplice ami-cizia. Le resta ancora la musica, le offro-no di insegnare ai giovani cantanti aNew York, poi Giuseppe Di Stefano, concui aveva felicemente cantato nei lorotempi gloriosi, la cerca, l’aiuta a ritrova-re se non la voce meravigliosa, almenoun suo ricordo: in tre anni girano ilmondo con cinquanta concerti, il pub-blico accoglie soprattutto lei con l’anti-ca passione, i critici l’attaccano con unacrudeltà vendicativa.

È l’ultima passione, quella tra Maria eGiuseppe, ma è forse di vivere che Ma-ria non ha più voglia: si ritira nella suacasa di Parigi, praticamente non vedepiù nessuno, neppure Giuseppe riescepiù a farsi ricevere. Sono due anni di so-litudine e mistero, come in una grandetragedia, o in un’opera che prevede lamorte dell’eroina: e infatti Maria Callasmuore il 16 settembre 1977, prima dicompiere cinquantaquattro anni, di-sfatta dal dolore e dai sonniferi. A nes-suno fu permesso di vedere la salma,che venne frettolosamente cremata. Leceneri furono sottratte dal loculo in cuierano state deposte al Père Lachaise,chiuse in una banca; poi con una ceri-monia che a lei non sarebbe piaciuta, isuoi resti furono dispersi nel mare Egeo.

Quelle ricette ricopiatesu brandelli di carta oleata

AMBRA SOMASCHINI

Quaderni, taccuini, brandelli di fogli, pezzi di carta oleata. Una pas-sione piccola coltivata negli anni. Maria Callas faceva vibrare le pla-tee del mondo e collezionava ricette. Al Savoy di Londra, da Chez

Maxim a Parigi. Le trascriveva, le lasciava alle cameriere con una riga inrosso: «Don’t forget!». Comincia da qui, dalle cento ricette raccolte nel vo-lume La divina in cucina del biografo veneziano Bruno Tosi (in uscita afine anno per Gremese), dai blocchetti ingialliti dal tempo, dalle “pom-mes allumettes”, dagli “oeufs à la neige” cerchiati a matita, il grande bu-siness dell’anniversario della cantante: l’anno prossimo ci sarà il tren-tennale della morte (avvenuta nel settembre 1977), ma il battage edito-riale, espositivo, discografico è già cominciato.

E così il Callas International Club la celebra a Londra, seguìto dai gran-di teatri internazionali: Covent Garden, Opera, Metropolitan, TokyoOpera City. La Emi scende in campo con gli otto cd di Maria Callas Live ei tre della Platinum Collection. Gli editori ripropongono i must: MariaCallas Sacred Monster (Fourth Estate) dell’amico greco Stelios Galatopo-lus, Callas di Giandonato Crico (Gremese), The Callas Legacy di John Ar-doin (Dukworth). Il cinema tira a lucido il dvd Callas Forever di Zeffirelli.

La pulizia della voce, l’eleganza, lo charme, la storia e la leggenda van-no in mostra dal 24 aprile a Porcari, in provincia di Lucca, da settembread Amburgo, da giugno a San Paolo, Brasile, da novembre a Tokyo, dagennaio a New York. E così il “Palazzo di Vetro” della Fondazione Lazze-reschi si trasforma, per iniziativa dell’Associazione Maria Callas, in unaspecie di Victoria & Albert Museum londinese con 30 costumi di scena,taccuini, collier di zaffiri e rubini dietro vetrate scintillanti. C’è l’abito del-la Traviata indossato al Metropolitan nel ‘55, velluto verde e nero, mer-letti; c’è il dono di Luchino Visconti della Vestale plissettato e danneggia-to; c’è il più recente, cucito per l’ultima esibizione con Di Stefano a Tokyo;c’è il sontuoso velluto decorato di perle fotografato da Cecil Beaton. Untrionfo di moda, di intimità: ci sono camicie da notte Dior, abiti-sottove-ste Saint Laurent alternati a quella passione calligrafica che Tosi riper-corre presentando il soprano in grembiule con arricciatura rossa, men-tre sorveglia il bollitore di metallo lucido sul gas. E poi ci sono costumi,borsette, abiti, accessori, gioielli Cartier e scritti sentimentali. Dall’atto dinascita nel ‘23 alle ceneri disperse nell’Egeo nel ‘77 («adagiatemi là nelmio mare dove sono nata»). E infine le lettere indirizzate a Zeffirelli, Vi-sconti, alla maestra Elvira de Hidalgo. Una a Pasolini («che voleva sposa-re durante le riprese di Medea», ricorda Tosi) dopo la fuga di Ninetto Da-voli: «Vieni a piangere sulla mia spalla, sii forte come sono stata io con te».

GLI APPUNTINelle immagini in queste

pagine, i fogli di cartasui quali Maria Callas amava

copiare le ricetteche più l’avevano colpita

I documenti appartengonoall’archivio dell’Associazione

Maria Callas. Nella fotoa sinistra, la grande cantante

“PREPARATE COSÌ LA CREMA LEGGERA”

Qui accanto, l’appunto preso Maria Callas su un

foglietto dell’Hotel Savoy di Londra con la

ricetta della crema leggera. Bruno Tosi, nel

volume “La divina in cucina” la riporta così:

“Nel bicchiere del frullatore mettere il

carnatasch o la farina, lo zucchero e il sale. Sulla

velocità media aggiungere due uova e frullare

per ½ minuto. Aggiungere poco a poco le due

tazze di latte caldissimo e frullare a velocità 4 .

Mettere il tutto sul fuoco e lasciare cuocere

finché copre un velo il cucchiaio. Aggiungere un

cucchiaino di vaniglia. Togliere dal fuoco e

lasciare raffreddare”

LA CURIOSITÀ

FO

TO

INT

ER

FO

TO

Page 16: Pillole per ricordare L’uomo perfetto - La Repubblica.itdownload.repubblica.it/pdf/domenica/2006/12032006.pdf · Hermes Trismegistus fino agli impianti della Merck, della Pfizer,

i sapori46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 12 MARZO 2006

La riscoperta del quinto quarto

TrippaLo stomaco dei ruminanti —

composto da rumine (pancia, trippa

liscia o busecca), omaso

(centopelli, foiolo) e reticolo

(nido d’ape, bonetto, beretta) —

va conservato nell’acqua. Contiene

molte proteine e pochi grassi

FegatoUno degli alimenti più pregiati

ed evocativi, cucinato dai Romani

abbinato ai fichi, ficatum

(da cui il nome attuale). Dev’essere

consumato fresco, da animale

giovane e sano. È una vera miniera

di vitamine (A e B) e di ferro

GuanciaMorbido ed elastico, il ganascino

lombardo si presta a moltissime

preparazioni, a partire dalle lunghe

cotture (bollito, brasato, arrostito,

glassato). È tra gli ingredienti

del cotechino. In Toscana, si usa

nel “tegamaccio” di maiale

CuoreSi utilizza quello di animali diversi

(bovino, ovino, equino, suino). Va

conservato avvolto in carta da forno

tra due piatti e consumato molto

fresco. È la base di molti piatti

poveri e di una ricetta storica

della cucina boliviana: l’“anticucho”

AnimelleLa ghiandola del Timo dei bovini

(il mitico “ris de veau”, ingrediente

base di tante ricette-culto francesi)

ha consistenza delicata ed elevato

valore nutritivo. Si ricava da animali

giovani (con gli anni si atrofizza).

Ottima impanata e nelle farciture

RognoneIl rene, di bovino o suino, è base

per piatti raffinati e golosi. Essendo

un organo-filtro, deve provenire

da animale giovane e sano,

ma anche subire pulitura e lavaggio

accurati. Come il fegato, è ricco

di ferro, proteine e vitamine

CervelloRispetto ad altre parti del vitello,

ha contenuto di proteine inferiore

e maggior apporto di grassi. Prima

di eseguire la ricetta, richiede

una breve cottura in acqua acidulata

con limone. È uno dei bocconi più

prelibati del fritto alla piemontese

LinguaUna delle parti di bovino più ricche

in grassi e proteine. Molte

le preparazioni: lessata (d’obbligo

nel bollito misto), salmistrata dopo

una lunga marinatura con gli odori

dell’orto, ma anche in salsa verde,

in umido, in gelatina

Frattaglie

Gusti d’altri tempiErano tra gli ingredienti fondamentali della cucina tradizionale italianaPoi l’emergenza mucca pazza, scoppiata esattamente vent’anni fa,ha allontanato dalle nostre tavole cervello e fegato, trippa e animelle, cuoree rognone. Passata la paura, quei tagli vivono oggi una seconda giovinezzaE non più come alimenti popolari ma come specialità dell’alta gastronomia

Alzi la mano chi non ha mai mangiato un boccone dicervella impanata. Mai? Non sapete che vi siete persi.Intere generazioni di bambini più o meno fragili, inap-petenti, capricciosi, sono cresciuti imboccati con unodei bocconi più golosi della dietetica infantile. E poco,pochissimo importava se le analisi nutrizionali non

erano altrettanto entusiasmanti. Tutto il “femminile” di accoglien-za neonatale — mamme, nonne, governanti, zie — al momento del-la prima pappa era pronto con padellina e polpettina morbida.

Poi venne la Bse. Esattamente vent’anni fa — il 20 marzo 1986 —il ministero della Sanità inglese sentenziò il passaggio di una va-riante dell’encefalopatia spongiforme, dai bovini all’uomo. Finedella cervella. Prima ancora che le autorità sanitarie europee e deisingoli paesi vietassero i consumi di tutte le parti a rischio, fu la pau-ra a contaminare le cucine e a condannare le frattaglie anche là do-ve rischio non c’era, ovvero nei non-bovini.

Insieme alle cervella, finirono al rogo alimentare tutti i protago-nisti del cosiddetto quinto quarto, la parte dell’animale esclusa daiquarti anteriore e posteriore, dalle animelle (timo) alle budelline (lastorica pajata romana), passando per lingua, guancia, cuore, trip-pa, fegato, coda.

La riabilitazione è arrivata vent’anni e due morti (in Italia) dopo.Prima con qualche dubbio, poi con leggerezza crescente, gli appas-sionati hanno ripreso confidenza con il quinto quarto e riscattato laparola frattaglie dall’elenco degli alimenti velenosi. È stata riabili-tata la trippa, che pure non aveva colpe, ed è stato spostato il gustodei rigatoni con la pajata sulle interiora d’agnello.

I primi a goderne sono stati i superchef, capaci di reinventare le

parti povere di un tempo in sapori preziosi. Un esempio su tutti, ilrisotto alla milanese “rivisitato” da Carlo Cracco, con il midollo ser-vito in medaglioni fragranti spadellati e appoggiati con grazia sulfondo zafferano.

Un piacere per occhi e palato, ma anche un rischio. Sergio Capal-do, veterinario appassionato e consulente di Slow Food (l’associa-zione piemontese “La Granda”, dove si alleva secondo le migliorimetodiche della tradizione contadina è una sua creatura) si lamen-ta: «Stiamo consegnando il quinto quarto alla nicchia dell’alta ga-stronomia, dimenticando la nostra stessa storia alimentare. Siamoancora troppo legati alla fettina, al mangiar facile, senza cultura esenza gusto. Gli odontostomatologi denunciano che i bambini nonsanno più masticare. Altro che quinto quarto».

Messaggio facile e gustoso: aiutiamo l’infanzia a ritrovare saporie consistenze. Più fegato e meno hamburger. Abbasso le carni sen-za grassetto e viva il ganascino. Le ricette gustose si sprecano, per-ché si tratta di parti così naturalmente saporite da richiedere di es-sere semplicemente governate sul piano della cottura, senza gran-di alchimie per esaltarne il piacere al palato.

Se poi volete rivivere le memorie gustative dell’infanzia, chiede-te assistenza al vostro macellaio di fiducia. Ordinate — senza fret-ta, un artigiano serio non deve essere pressato per darvi il meglio —e aspettate il momento giusto. Vi procurerà una cervella coi fiocchi.Sbollentatela in acqua e limone, togliete la pellicina, dividetela inpiccoli bocconi e impanatela, usando il pancarrè grattugiato (chedà una resa più croccante, Gualtiero Marchesi docet). Friggete inextravergine e soprattutto non datele il tempo di raffreddarsi. Assa-porate e ricordate. Con un vantaggio straordinario sui pasti dell’in-fanzia: un bicchiere di vino buono, perfetto per brindare alla resur-rezione del quinto quarto.

LICIA GRANELLO

Rep

ubbl

ica

Naz

iona

le 4

6 12

/03/

2006

Page 17: Pillole per ricordare L’uomo perfetto - La Repubblica.itdownload.repubblica.it/pdf/domenica/2006/12032006.pdf · Hermes Trismegistus fino agli impianti della Merck, della Pfizer,

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47DOMENICA 12 MARZO 2006

Lo chef WalterFerretto, patroncol fratello Robertode “Il Cascinalenuovo” a Isola

d’Asti, prepara piattidella tradizione piemontese,a partire dall’introvabileFinanziera, e creazionigolose come la millefogliedi lingua e foie gras al Porto

itinerari

Milano“Buseca” (trippa), “testina” e “gnervitt”(i nervetti, ovvero le cartilagini di manzolessate, pressate, tagliatein striscioline, condite con limone,cipolle, olio e prezzemolo),quasi scomparsi dalle cucine dei localicittadini, resistono in pochi ristorantidella provincia

DOVE DORMIREBUON SOGGIORNO B&BVia Carlo Forlanini 1Tel. 02/717951Camera doppia da 100 euro,colazione inclusa

DOVE MANGIAREOSTERIA DEL POMIROEUVia Garibaldi 37Seregno Tel. 0362/237973

DOVE COMPRARE MACELLERIA ANNUNCIATAVia dell’Annunciata 10Tel. 02/6572299

FirenzeLa grande cucina delle frattaglieè simbolizzata dal “Cibreo”,piatto-culto a base di fegatini di polloe dal “lampredotto”, la trippa fiorentina,ben presente insieme alla “puppa”(la mammella del bovino) sui banchinidei trippai nei mercati rionali

DOVE DORMIREAGRITURISMO LE MACINE Viuzzo del Pozzetto 1Tel. 055/6531089Camera doppia da 60 euro,colazione inclusa

DOVE MANGIARETRATTORIA CIBREINOVia dei Macci 122 Tel. 055/2341100Chiuso domenica e lunedì, menù da 25 euro

DOVE COMPRAREMACELLERIA VIGNOLI Via S. Pier Maggiore 1/RTel. 055/2480436

PalermoLa cucina povera, ancoraben rappresentata sulle bancarelledel centro storico, è simbolizzatadal “pani ca' meusa”, preparatocon polmone e milza di vitello.Due varianti: “nature” con qualchegoccia di limone, e “maritata”con il caciocavallo

DOVE DORMIREB&B AI CARTARIPiazzetta San FrancescoTel. 091/6116372Camera doppia da 90 euro,colazione inclusa

DOVE MANGIAREANTICA FOCACCERIASAN FRANCESCO Via Paternostro 58Tel. 091/320264

DOVE COMPRAREMACELLERIA CILLARI Via Del Bersagliere 67Tel. 091/362124

Viva la trippa! Potrebbe essere stato il grido di Firenze nei secoli. Lafine della fame equivalente a «Buon appetito!» o «Accidenti se l’èbona!». Ogni animale “squartato”, cioè fatto in quattro parti, ha il

suo più, “il quinto quarto”, che è sì, una frazione impropria ma ancherealtà di ciccia gustosa, la parte molle che sta nella cavità ad-dominale dell’animale: frattaglia di manzo, coratella d’a-gnello, rigaglie di pollo.

Sulle mense ricche di ogni tempo la carne ha avuto unaposizione primaria, l’eccellenza, lo status-symbol, il segnodi una condizione sociale privilegiata. La povera gente, lagente normale, quella che davvero ha avuto un valore socia-le — che è sempre stata la stragrande maggioranza — si è nu-trita giocoforza in maniera parca, ma nella preparazione delcibo ha usato ingegno fantasia e amore. È riuscita a fare buo-na cucina con quel che c’era, fossero frutti dell’orto, del bo-sco o le parti meno pregiate delle carni, frattaglie appunto.

Averne avute. Il pane è buono, ma pan solo è una con-danna, tanto che i rei erano puniti a pane e acqua. Allora, per non man-giare solo panlavato, bisogna rendere gustosi al massimo il rognone,il polmone, gli schienali, le animelle, il fegato, la milza, la coratella, latrippa, il lampredotto.

Ogni regione ha espresso la propria civiltà in cucina, le tradizioni civengono dalla gente semplice, tramandate dai padri, anzi dalle madri,erano loro che detenevano il mestolo, gente solida senza fronzoli. A Fi-renze, un discorso a parte meritano trippa e lampredotto. «Quelle trip-

pe che a nominarle io vengo meno», scriveva Francesco Becucci dettoil Coppetta nel suo libro In lode dell’Hosteria.

Vecchie osterie fiorentine dai nomi pittoreschi come “Beppe Sudi-cio”, “Gigi Porco”, che esponevano menu ante-litteram, cartelli alla

semplice scritti con zampe di gallina su carta gialla: «Ve-nerdì-baccalà e Sabato-trippa». Un piatto di trippa e zam-pa te lo serviranno sempre, così gustoso che a suo temposcriveva Pietro Aretino: «Io credo che l’autore di tal cose siaun fiorentino [...] loro han capito tutti i punti con che la co-cina invoglia lo svogliato».

Un piatto consueto nelle famiglie era «lo stufato del sorPelliccia — di molte patate e poca ciccia», cioè lesso avan-zato o meglio, polmone. Particolari i carretti verdi dei trip-pai agli angoli delle piazze dei popolari rioni fiorentini,affollati di gente che si saziava con un “semelle” ripieno difumante lampredotto o anche di solo pane inzuppato inquel saporoso brodo.

Il mio motto è «Viva la ciccia!», ma come dicevo all’inizio, voglio gri-dare forte «Viva la trippa!». Un vecchio adagio dei trippai fiorentini suo-na così: A Firenze facevo il trippaio/mi successe un grossissimo guaio/ lami’ moglie una donna piacente/ dava a tutti la trippa per niente!

Sono contento di vedere finalmente rivalutati quei piatti che eranostati considerati poveri, ma che, parafrasando Pellegrino Artusi, sonola scienza in cucina e l’arte di mangiar bene. Sono la testimonianza delcome eravamo.

Fantasia e amore per fare bella la carne dei poveriL’amarcord toscano di un macellaio-poeta

DARIO CECCHINI

La percentuale di proteineche si trovano nel rognone

18%

Il contenuto proteicodella trippa (i grassi sono il 5%)

16%

Il contenuto proteicodel cervello

10%

Le proteine nella linguadi bue (i grassi sono il 18%)

17% ‘‘Carlo GoldoniGuardate queste animelle:che roba! che piatto!che esquisitezza! Ne aveteda mangiar una anche voiDa GLI INNAMORATI

FO

TO

ALIN

AR

I/LA

BO

TT

EG

A D

EL M

AC

ELLA

IO, JO

AC

HIM

BE

UC

KE

LA

ER

Dario Cecchini

Rep

ubbl

ica

Naz

iona

le 4

7 12

/03/

2006

Page 18: Pillole per ricordare L’uomo perfetto - La Repubblica.itdownload.repubblica.it/pdf/domenica/2006/12032006.pdf · Hermes Trismegistus fino agli impianti della Merck, della Pfizer,

MILANO

Sulla passerella di cemento i ragazzicamminano assenti, incerti, comechi si sente gli occhi addosso. Lamusica industriale non riesce a

cancellare il rumore dei tacchi di scarpe neredalla suola pesante, troppo larghe per i piedimagri e ossuti di quei glabri e nordici adole-scenti. Biondi, per lo più, dall’attaccatura deicapelli a quella delle ciglia, cloni di Tilda Swin-ton intercambiabili nel ruolo maschile-fem-minile. Colli esili, gambe magrissime, spallestrette, la pelle, con efelidi rade, così traspa-rente da far indovinare l’intricata ramificazio-ne dei percorsi venosi. Gli impermeabili scuria trapezio, i pantaloni neri tagliati severamen-te a stringere verso il basso, i gilet grigi, le ca-micie bianche sono la divisa di questa coloniadi enigmatici alieni che procedono in fila in-diana, ognuno racchiuso nel suo microcosmo,paladini di un’incomunicabilità ostentata confierezza. Questo è il senso d’isolamento che daanni lo stilista belga Raf Simons trasmette conle sue creazioni, e che ora ha esaltato nelle dueprime collezioni autunno-inverno 2006/07per Jil Sander, la maison di cui il gruppo Pradal’ha messo a capo dopo sei mesi di trattative

(acquisita il 23 febbraio scorso dalla ChangeCapital Partners, a capo della quale, guarda

caso, c’è il belga Luc Vandevelde). Alla fine del fashion show, Simons si

affaccia per un attimo, il tempo di unsaluto, poi sparisce tra le sue creatu-re, che già stanno rientrando negliabiti di tutti i giorni. Schivo propriocome Jil Sander, la tedesca “invisi-bile” che, dopo una serie di dissapo-ri con l’esigente Patrizio Bertelli di

Prada, ha preferito lasciare il mar-chio in mano a un nuovo stilista. Come

lei, per anni Simons non si è mostrato inpubblico, identificandosi con il viso del mo-dello (Robbie Snelders, 28 anni) che è in co-pertina al libro Redux, pubblicato per cele-brare i suoi dieci anni di carriera: da disegna-tore industriale a magister elegantiarum delminimal chic “for men” (il magazine del NewYork Times gli dedica sei pagine).

L’ondata belga, dopo la supremazia dellascuola giapponese guidata dal triunviratoYohji Yamamoto-Issey Miyake-Comme desGarçons, sta implacabilmente scippandomolti primati a Parigi, Londra, Milano e NewYork. Moda sì, ma con una filosofia, è la paro-la d’ordine di una legione di stilisti, molti deiquali usciti magna cum laude dalla Royal Aca-demy of Fine Arts (Fashion Department) diAnversa, un istituto che ha secoli di tradizio-ne e che da vent’anni ha riscoperto il piaceredi fare tendenza. Sono soldati invisibili dellamoda del nuovo millennio, decisi a far piazza

pulita del massimalismo ridondante deglianni Ottanta per bandire i fronzoli e ristabili-re il primato assoluto dell’eleganza sobria,della forma pura, del fascino inossidabile delbianco più nero.

Il costruttivismo pessimista della scuola diAnversa ha avuto sulla moda lo stesso impatto

che la Bauhaus ebbe sull’architettura (leclassi della Royal Academy sono state pro-gettate con identico razionalismo). I nomiemersi negli ultimi dieci anni (la secondaondata belga) sono must nei templi dello

shop trendy — Harvey Nichols a Londra, Bar-neys a New York, Colette a Parigi — quelli po-polati da chi inventa oggi la moda che le firmeistituzionali porteranno in passerella domani.

Era assolutamente transgender la collezioneuomo presentata a Parigi lo scorso gennaio da

Anne Demeulemeester: durante il défilé, asorpresa, è arrivata Patti Smith, una musaper la stilista, che vive ad Anversa in una ca-sa disegnata da Le Corbusier. La rockeuseamericana era più perfetta di una top mo-del per quel prêt à porter che se ne infischia

di essere up to date e al nuovo abbina senzatimore anche una sciarpa del marché aux pu-

ces. Che è poi l’idea di base degli abbinamentidi Veronique Branquinho, altro fiore all’oc-chiello della Royal Academy (dal 1995 al 2000compagna di Raf Simons), che crea una sorta diflirt tra la collezione maschile e quella femmi-nile: «Non mi piace la moda unisex», dice, «mauso molti elementi in comune»; ad esempio unmaglione bianco fatto ai ferri che nella versio-ne-lei è soltanto di mezzo metro più lungo estretto in vita da una cintura.

Gli stilisti belgi piacciono a chi vuol esserechic e trendy senza dare nell’occhio. MartinMargiela, il numero uno della scuola di An-versa (passato da Jean Paul Galtier e Hermèsprima di mettersi in proprio), orgogliosa-mente sponsorizzato da Renzo Rosso (Die-sel), ha fatto dell’invisibilità un’arte. Nessunolo ha mai fotografato, la sue griffe è rigorosa-mente no-logo (nell’etichetta solo una se-quenza di numeri da uno a ventitré, tante so-no le linee). Il suo nuovo negozio di Parigi,

le tendenzeModa futura

In passerella, scuriimpermeabili a trapeziocoprono pantaloni neritagliati severamentea stringere in basso,gilet grigie camicie bianche

L’ultimo “fenomeno” è Raf Simons,recentemente ingaggiatodal gruppo Prada per disegnarele collezioni della maison Jil Sander

48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 12 MARZO 2006

Si chiamano Martin Margiela, Anne Demeulemeester,Veronique Branquinho, Dries Van Noten. Escono dalle auledella Royal Academy of Fine Arts di Anversa e sonol’“ondata belga”, le avanguardie decise a spazzare viagli eccessi del look anni Ottanta in nome della formapura, dell’eleganza sobria, del primato del bianco & nero

IL SAGGIONon solominimal:sulla passerelladel FashionDepartmentdella RoyalAcademy sfilauna modellacon unodei capipiù eccentricipremiatinell’ultimosaggio

DRIES VAN NOTENIn passerella la collezione

autunno inverno 2006-2007dello stilista che emersevent’anni fa nel gruppo

“Antwerp Six”,sei “neodiplomati”

alla Royal Academy of Fine Arts

Anversastyle

GIUSEPPE VIDETTI

La filosofia del minimal chic

Rep

ubbl

ica

Naz

iona

le 4

8 12

/03/

2006

Page 19: Pillole per ricordare L’uomo perfetto - La Repubblica.itdownload.repubblica.it/pdf/domenica/2006/12032006.pdf · Hermes Trismegistus fino agli impianti della Merck, della Pfizer,

“Io, costruttore di seduzioninato in fondo alla campagna”

Uno degli stilisti di punta della scuola si racconta

RAF SIMONS

Anni fa, quando pensavo che avrei potuto lavorare per unaltro stilista, mi venivano in mente solo due nomi, Jil San-der e Helmut Lang. Ora che sono a capo della maison San-

der, per la quale disegno sia la collezione maschile che quellafemminile, mi rendo conto di quanto la mia filosofia della modafosse già dall’inizio in sintonia con quella di Jil, riguardo l’attitu-dine verso il lavoro e la purezza delle forme.

Ho iniziato la mia carriera come disegnatore industriale, moltoconcentrato sul prodotto e assolutamente isolato nella progetta-zione. Questa solitudine creativa mi faceva sentire a disagio, erogiovane allora, avrei preferito un lavoro che mi inserisse in un tes-suto sociale, avere un team di persone con il quale confrontarmi.Quello era il momento in cui in Belgio cominciavano a proliferarenuovi stilisti, una scena che tutti i giovani trovavano irresistibile.Ero ancora all’università, quando ebbi l’occasione di assistere auna sfilata di Jean Paul Gaultier, a Parigi.

L’impatto emotivo fu così forte che decisi all’istante di lascia-re da parte il disegno industriale. Tornai ad Anversa con l’idea dicreare la mia prima collezione uomo (che arrivò esattamentedieci anni fa), basata su un rapporto di grande equilibrio tra gliabiti, il mondo a cui appartenevo e l’ambiente in cui ero cre-sciuto. Sono nato a Neerpelt, un paesino dove se non hai la pas-sione per il calcio hai poche possibilità di avere una vita sociale.Il mio mondo terminava alla fine della strada, dove pascolava-no pecore e buoi, e la mia ossessione, allora, era quella di co-struire, costruire, costruire. Ero diverso da un ragazzo cresciutoa Parigi, colto e informato su tutto, che all’improvviso decide:voglio fare lo stilista. Per me fu l’Istituto tecnico industriale il pri-mo mezzo per mettere in pratica l’immensa voglia di “costrui-re”. Quando ruppi l’isolamento e uscii dai confini del paese, inun mese ingoiai più cinema, arte e musica di quanti ne avevo as-sorbiti in diciotto anni. Per questo lo spirito di gruppi comeKraftwerk, Joy Division e New Order è così strettamente con-nesso a alcune mie collezioni.

Non mi sento figlio del ventunesimo secolo: la velocità, l’infor-mazione, internet, il mondo che corre così veloce in ogni settorenon sono stati per me fonte d’ispirazione. Per “costruire” abitisono partito da un altro punto di vista: guardati dentro, trovatiun’identità, qualcosa che sia attraente per gli altri, qualcosa cheabbia un senso nella moda, che sia socialmente credibile. Se noncredi in quello che fai, dacci subito un taglio. Se quello che fai de-ve affascinare, devi farlo in modo affascinante, e sei tu il primoche deve lasciarsi sedurre. I clienti, la distribuzione, non sono af-far mio. Quando gli abiti sono pronti, io smetto di esistere.

Maison Martin Margiela, si trova in un sotto-portico nei pressi del Palais Royal, per entra-re bisogna suonare il campanello e fare unarampa di scale, proprio come si faceva unavolta quando si saliva da Mademoiselle Coco,nel mitico atelier Chanel di Rue Cambon.Margiela è il maestro del riciclaggio dichiara-to, le sue “repliche” vanno all’asta anche sueBay: se un pantalone è ispirato a un model-lo indossato da Steve McQueen (un attorecult per la maison), troverete tutti i riferi-menti in un cartoncino allegato, idem suicardigan irlandesi da 430 euro in lana freddada tenere in guardaroba per almeno dieci an-ni senza il rischio che diventino démodé. So-no solo idee, punti di riferimento: Margiela,ovviamente, interviene pesantemente su ta-gli e volumi. È lui, risolutamente convintoche arte e moda camminano su binari sepa-rati, il più intransigente, coerente e creativoin questa schiera di stilisti-filosofi.

Ambasciatore, insieme a Dries Van Noten(classe 1958, il primo a destrutturare legiacche e sdrammatizzare i completi conricercatissimi accessori, un pioniere del-la prima ondata belga: sono passativent’anni da quando fu presentata aLondra la sua prima collezione all’internodel gruppo “Antwerp Six”, di cui facevanoparte anche Ann Demeulemeester, DirkBikkembergs, Marina Yee, Dirk Van Saene eWalter Van Beirendonck), della scuola dei mi-nimalisti di Anversa, di cui l’ultimo prodigio èKris Van Assche, già assistente di Hedi Slima-ne da Saint Laurent e Dior Homme. Assche, 29anni, è rigoroso e disciplinato; non beve, nonfuma, va a letto presto e fa ginnastica tre voltealla settimana. Di lui hanno già scritto: «Ilnuovo Helmut Lang», «La nuova speranzadella moda maschile». Ma la sua piccola im-presa è già una realtà, Brad Pitt va pazzo per isuoi catenoni d’argento massiccio da indos-sare su sobri completi grigio ferro.

La colonia di alieni che ha sfilato per Jil San-der saluta frettolosamente Simons. Lo stilistaè l’esatto contrario dei suoi modelli: alto,massiccio, il viso irregolare che ricorda quel-lo dello scrittore Piervittorio Tondelli. Un at-timo dopo sciamano in strada zaino in spalla.Con i loro jeans a vita bassa, délavé e sfilac-ciati, una t-shirt che lascia scoperta la partebassa della schiena, nonostante l’aria gelidadella tarda mattinata d’inverno. Se fossero sa-liti in passerella così, sarebbero comunquestati perfetti. Ora è chiaro perché Simons li hascelti: questione di chic naturale, saper por-tare un soprabitino sfoderato da duemila eu-ro come se fosse un parka con una serigrafiadei New Order (Simons ne ha fatti davvero).Senza questo atteggiamento, crollano tutti ipresupposti del minimal chic. È proprio que-sta falsa modestia, questo snobistico ridi-mensionamento dell’ego che fa fare all’ele-ganza un definitivo balzo in avanti.

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 49DOMENICA 12 MARZO 2006

IL PERSONAGGIOSulla sinistra, l’unico ritratto diRaf Simons. Accanto, RobbieSnelders, il modello che haprestato il volto allo stilistasulla copertina di “Raf SimonsRedux” (Ed. Fondazione PittiDiscovery/ Charta, 224 pagg,1282 illustrazioni, 59 euro),il catalogo sui dieci annidi attività di Simons

SIMONS PER JIL SANDERLa prima collezione uomo

autunno inverno 2006-2007di Jil Sander disegnatadal belga Raf Simons,

scritturato dal gruppo Pradaa dirigere la maison

dopo una trattativa di sei mesi

MAISON MARTIN MARGIELAUn momento della sfilata

dello stilista invisibileFiglio di immigrati calabresi,

passato per Jean PaulGaultier e Hermès, Martin

Margiela è il principedella “second wave” belga

A LEZIONE DI MODAA destra, un laboratorio

della Royal Academy of FineArts (Fashion Department),

la scuola di modadi Anversa. A sinistra,simboli sartoriali usati

dalla Maison Martin Margiela

FO

TO

TIM

ST

OO

PS

FO

TO

CO

RB

IS

Page 20: Pillole per ricordare L’uomo perfetto - La Repubblica.itdownload.repubblica.it/pdf/domenica/2006/12032006.pdf · Hermes Trismegistus fino agli impianti della Merck, della Pfizer,

50 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 12 MARZO 2006

l’incontroMostri sacri

LONDRA

Ha da poco compiuto ot-tant’anni e non ha alcunaintenzione di smettere:«Quello che so fare è suo-

nare, quello che amo fare è suonare,quello che voglio fare, ancora oggi, èsuonare». Sono cinquant’anni che B. B.King suona, senza fermarsi mai, restan-do sempre sulla strada con la sua fede-lissima chitarra, Lucille, con un enormebagaglio di musica e soprattutto diblues. «Sono davvero felice di essereancora qui», dice ridendo, «avrei scom-messo di non superare i cinquant’anni,ma sono stato molto fortunato e possoavere il piacere di dire che avevo torto».

Calmo, sempre pronto alla risata, in-stancabile, disponibilissimo alle colla-borazioni, agli incontri, mai fermo sul-le sue posizioni ma interessato a muo-versi costantemente in avanti, B. B.King è uno dei grandi padri del bluesmoderno. Accanto a Muddy Waters e aJohn Lee Hooker è di sicuro il bluesmanche ha più influenzato le generazionidel rock. Ed è anche il bluesman più co-nosciuto del mondo, il più famoso, ilpiù popolare e il più amato. Il che gliconsente di essere, a ottant’anni, anco-ra una star.

«Beh, la popolarità è importante, so-prattutto per uno come me che vive diblues. La musica blues non ha spaziosulla radio come altre musiche. Così seio non la suono dal vivo, se non la portoio alla gente, loro non sanno che io ci so-no ancora. Vado in giro per il mondo, hosuonato in più di novanta paesi nellamia vita e ho notato, molto tempo fa,che quando vado in una città a suona-re, comincio a ricevere posta e le vendi-te dei dischi crescono. E da quel mo-mento ho continuato a girare, a fareconcerti e a portare la lingua del bluesin tutto il mondo».

Nato a Itta Bena nel Mississippi, inuna piantagione di cotone, il 16 settem-bre 1925 da un padre chitarrista e da unamadre predicatrice della Chiesa meto-

Fervido ammiratore di bluesman comeLonnie Johnson e Blind Lemon Jeffer-son, o di jazzisti come Charlie Christiane Django Reinhardt, King ha struttura-to il suo stile seguendo la loro lezione,ma anche quella di sassofonisti comeLester Young, mescolando l’uso di sca-le jazz con l’elettricità di T-Bone Walkere la tradizione del blues del Delta.

Nella sua lunga carriera ha vinto cen-tinaia di premi, ha venduto milioni dicopie dei suoi dischi, ha predicato lalingua del blues ai quattro angoli delpianeta e si è tolto lo sfizio di suonarecon tutti i musicisti da leggenda delmondo rock, da Eric Clapton agli U2. B.B. King è per il blues quello che LouisArmstrong è stato per il jazz, un perso-naggio la cui importanza musicale è gi-gantesca, per le capacità stilistiche e diimprovvisazione, per il successo dipubblico e di critica, per le doti comu-nicative e creative che hanno fatto di luiuno dei musicisti più apprezzati e ri-spettati del mondo. Come Armstrongha permesso a intere generazioni di en-trare in contatto ed apprezzare il jazz,così B. B. King continua a insegnare lalezione del blues alle giovani genera-zioni.

King è il blues, una musica con la qua-le ha stretto un patto da tempo imme-morabile, «perché è sempre stata la mia

dista, Riley B. King mise per la prima vol-ta le mani su una chitarra quando avevaquattordici anni, iniziando a cantareblues e gospel. Alla metà degli anni Qua-ranta comincia a suonare come profes-sionista, adottando lo pseudonimo diBlues Boy, ridotto poi al più semplice B.B. «Ho cominciato come tutti comincia-no, facendo piccoli concerti vicino a ca-sa. Mi garantivano 100, 150 dollari a da-ta e questo mi fece capire che potevo so-pravvivere suonando, lasciando il lavo-ro nella piantagione. Il mio primo con-tratto fu con la Modern Records e loscout per loro era Ike Turner. Ike e io ciconoscevamo, così lui mi presentò e ioottenni il contratto. Avevo già inciso pri-ma, quattro brani per la Bullett Records,ma senza alcun contratto. All’epoca nonpensavo di poter diventare ricco in nes-sun modo, nessun musicista era ricco,ma sapevo di poter fare molti più soldi diquelli che avrei fatto in tutta la vita in unapiantagione. Potevo avere un penny perogni disco venduto. Ma probabilmenteavrei suonato anche se non mi avesseropagato, l’avrei fatto comunque, anchesenza soldi, perché volevo fare dischi,volevo che la gente ascoltasse la miamusica, pensavo di avere qualcosa dadire e di meritare di essere ascoltato».

Molti sono i suoi album leggendari,ma King ha conquistato il suo postod’onore nella storia della musica so-prattutto per il suono della sua chitarraelettrica, per quell’inconfondibile toc-co, leggero e forte al tempo stesso, cheha segnato profondamente lo sviluppodel blues e del rock. Lucille, la sua chi-tarra, la “incontra” negli anni Cinquan-ta: durante un concerto in una sala daballo due uomini iniziano a litigare peruna donna, chiamata Lucille. Si scate-na una rissa, il locale prende fuoco, tut-ti escono di corsa, ma King decide ditornare indietro, di affrontare le fiam-me per recuperare il proprio strumen-to che da allora porta il nome di Lucille.«Ne ho avute diverse, ovviamente», di-ce il chitarrista, «sono molte, ormai le“Lucille” che mi hanno fatto compa-gnia. Ma quella prima chitarra l’hoamata davvero».

Per molti versi sarebbe difficilissimoattribuire lo scettro di “re del blues” aduno solo dei grandi musicisti che han-no fatto la storia e la gloria della musicaafroamericana. Però non c’è alcundubbio che oggi, a cinquantasette annidal suo esordio discografico nel 1949,l’unico, il solo, il grande “re del blues”sia lui, B. B. King. E non tanto perché adifferenza di molti dei suoi leggendaricolleghi lui è ancora qui tra noi, fisica-mente in grado di tener testa a moltissi-mi suoi giovani rampolli; quanto per-ché generazioni intere di chitarristi ecantanti, bianchi e neri, hanno cono-sciuto ed imparato il blues ascoltandola sua voce e soprattutto il suono dellasua chitarra, l’inconfondibile “Lucille”.Infatti, se come cantante è certamentebravo ma non unico, come chitarrista èstato invece addirittura rivoluzionario.

musica. Decisi di essere un bluesmanperché era la musica più semplice daimparare. Non avevo un insegnante adisposizione, dovevo cavarmela da so-lo, quindi non avevo molte alternative.Nell’area dove vivevo io c’era il blues,tutti suonavano il blues e io non avreipotuto imparare altre musiche. Scelsidi suonare la chitarra perché costavameno di altri strumenti, la chitarra el’armonica erano gli unici due stru-menti accessibili con pochi soldi, ma ionon volevo l’armonica perché già mol-ti altri la suonavano. Allora scelsi la chi-tarra e imparai a suonare il blues daimiei vicini di casa».

E il blues ha ancora una vitalitàstraordinaria. «Penso che il blues siacome la Bibbia, racconta delle buonestorie e insegna delle cose. Cantiamo dicose che ci piacciono e di quelle chenon ci piacciono, di quello che vorrem-mo essere e quello che non vorremmo,e la Bibbia fa lo stesso. E la gente tornasempre a leggere la Bibbia e ad ascolta-re il blues».

Nel suo blues ci sono echi del passa-to ma nessuna, davvero nessuna, no-stalgia: «La musica cambia sempre eproprio per questo è bellissima. Non hasenso dire che la musica di ieri era me-glio di quella di oggi. I ragazzi di ogginon suonano quello che suonavano ivecchi ed è la stessa cosa che facevo ioquando ero giovane. Oggi è il loro tem-po, devono avere i loro pensieri e suo-nare quello che sentono, devono vivereed esplorare il proprio mondo. Certoche il mondo è cambiato, quando sononato io non c’era la televisione, oggi i ra-gazzi crescono con i computer. Ma noncredo che oggi sia peggio di ieri, l’indu-stria musicale è più forte ma non credosia peggio. È musica diversa: sento cosaascoltano i miei nipoti, alcune volte sia-mo d’accordo e altre volte no. Io, adesempio, non sono d’accordo con mol-ti testi del rap, troppo violenti o offensi-vi nei confronti delle donne. Ma i giova-ni musicisti hanno dei sentimenti e vo-gliono farli conoscere, vogliono farliascoltare ad altri».

Semplice, allegro, privo dei i vizi clas-sici delle rockstar, B. B. King ha l’aria diun vecchio patriarca che domina dal-l’alto una incredibile famiglia di musi-cisti, venerato e rispettato dai più gio-vani, molti dei quali vengono da lui perchiedere consiglio, per suonare, per sa-pere qual è il segreto della musica. «Sì,ho conosciuto molti musicisti e tantis-simi vengono a salutarmi, a parlare conme alla fine dei concerti. Ognuno è di-verso dall’altro, ho moltissimi amicicon cui ho suonato e mi piace lavorarecon loro. Il primo è Eric Clapton, ci so-no anche gli U2, c’è anche un italiano,Zucchero. Sono molti, ma nessuno è ilmigliore, mi piace divertirmi e impara-re da loro. L’unico con il quale mi di-spiace di non aver lavorato è Miles Da-vis. Con Miles pensammo di fare un di-sco insieme e forse, se non fosse morto,l’avremmo fatto. Se devo dire la verità,

comunque, non credo ci sia qualchemusicista con il quale non avrei suona-to e inciso volentieri».

E non ha conosciuto solo musicisti.«Sì, ho incontrato ben quattro presi-denti: il presidente Ford, il presidenteBush padre, il presidente Clinton e ilpresidente Bush figlio. E alcuni re e re-gine, come la regina d’Inghilterra o ilre e la regina di Svezia. Non è male, infondo, per un ragazzo di campagnacome me».

Il vecchio placido re del blues è una fi-gura di culto non solo per i chitarristi diogni parte del mondo che ne amano lostile e il suono. Chiunque ami la musicatrova la sua storia bella e affascinante, lastoria di un uomo che, senza chiederenulla a nessuno, ha ottenuto quello chevoleva. E come si fa a diventare B. B.King? Quali sono i segreti della sua car-riera? «Nessun segreto. Ma ho fatto te-soro di quello che mi disse il mio mae-stro: “Non usare droghe di nessun ge-nere, non fumare che fa male alle tuecorde vocali, rispetta il pubblico che tiviene a sentire e cerca di fare del tuo me-glio per farli felici. Sii una persona e, sevuoi essere amato, ama gli altri. Suonala tua musica, ma non dimenticare di fi-nire i tuoi studi, perché se la tua musicanon dovesse bastare puoi sempre ave-re un lavoro”. Ho cercato di seguirequesti consigli e credo che mi siano ser-viti moltissimo».

Giovane e glorioso negli anni Cin-quanta, amatissimo dalle stelle del rocknegli anni Sessanta, divo delle plateenegli anni Settanta, capace di conqui-starsi un posto persino nell’era della vi-deomusica e ancora oggi, nel nuovomillennio, in grado di produrre dischi,King non ha alcuna intenzione di smet-tere: «È vero, sono già molto fortunatoad essere qui, in piena attività ad ot-tant’anni. Ma non credo di essere anco-ra pronto per la pensione, non penso diappendere la chitarra al muro con unchiodo. No, non potrei vivere se smet-tessi di suonare, il mio cuore batte al rit-mo della batteria, le mie mani si muo-vono sulle corde della chitarra. E il bluesmi scorre nelle vene».

La musica cambiasempree proprioper questo è bellissimaI ragazzi di oggi nonsuonano quello chesuonavano i vecchi:lo stesso facevo ioquando ero giovane

“Quello che so fare è suonare, quelloche amo fare è suonare, quello chevoglio fare, ancora oggi, è suonare”,proclama l’ormai ottantenne patriarcadel blues. Tra i suoi pari è il più famoso,

ma anche quello che haesercitato più influenzasulle generazionidel rock. Grandecantante, ma soprattuttograndissimo chitarrista,scelse questo strumento“perché costava meno

degli altri”. Unico rimpianto: “Non holavorato con Miles Davis, anchese pensavamo di fare un disco insieme”

ERNESTO ASSANTE

B. B. King

‘‘

‘‘

FO

TO

AF

P