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ORGANIZZAZIONE TIPO DISTURBI ALIMENTARI PSICOGENI - DAP Nel lavoro clinico con pazienti affetti da disturbi del comportamento alimentare o DCA i principali modelli teorici, clinici e terapeutici a cui mi riferisco sono quello di Vittorio Guidano e Giovanni Liotti da cui è nato in Italia l’approccio cognitivo post-razionalista; la teoria dell’attaccamento di Jhon Bowlby da cui si è sviluppato l’approccio di Mary Ainsworth e Mary Main e soprattutto quello sistemico processuale di Patricia Crittenden. Per un maggiore approfondimento si rimanda ai testi di riferimento. In ambito clinico sono stati descritti quattro modelli tipici di Organizzazioni utilizzando come criterio di differenziazione due diverse dimensioni psicologiche (relative a quelle che Bruner considera le principali funzioni del sé): messa a fuoco dall’interno o dall’esterno (funzione di “individuazione”relativa alla messa a fuoco della propria identità); dipendenza o indipendenza dal contesto (funzione “intersoggettiva” relativa all’equilibrio tra il riconoscersi negli altri e il demarcarsi da essi). Alla base dei DCA (anoressia, bulimia, obesità) è stata identificata una specifica Organizzazione di Significato Personale che rispetto alle dimensioni citate sarebbe caratterizzata da: campo dipendenza intesa come attitudine a regolare la relazione interpersonale sulla base dell’atteggiamento contingente dell’altro più che affidandosi a proprie valutazioni personali; messa a fuoco dall’esterno, cioè tendenza a valutare se stessi, e interpretare i propri stati interni e regolarli sulla base dell’esterno, cioè sul modo con cui ci si vedrebbe se ci si osservasse da fuori (sono ciò che gli altri mi fanno capire che io sia). Scrive Guidano, mettendo a fuoco il nucleo dell’Organizzazione DAP (1987): Dott.ssa Caterina Fucili Psicologo Psicoterapeuta Fano e Pesaro DIPENDENZA dal CAMPO INDIPENDENZA dal CAMPO MESSA A FUOCO DALLINTERNO ORGANIZZAZIONE FOBICA ORGANIZZAZIONE DEPRESSIVA MESSA A FUOCO DALL’ESTERNO ORGANIZZAZIONE DISTURBI ALIMENTARI PSICOGENI ORGANIZZAZIONE OSSESSIVA

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ORGANIZZAZIONE TIPO DISTURBI ALIMENTARI PSICOGENI - DAP

Nel lavoro clinico con pazienti affetti da disturbi del comportamento alimentare o DCA i principali modelli teorici, clinici e terapeutici a cui mi riferisco sono quello di Vittorio Guidano e Giovanni Liotti da cui è nato in Italia l’approccio cognitivo post-razionalista; la teoria dell’attaccamento di Jhon Bowlby da cui si è sviluppato l’approccio di Mary Ainsworth e Mary Main e soprattutto quello sistemico processuale di Patricia Crittenden. Per un maggiore approfondimento si rimanda ai testi di riferimento. In ambito clinico sono stati descritti quattro modelli tipici di Organizzazioni utilizzando come criterio di differenziazione due diverse dimensioni psicologiche (relative a quelle che Bruner considera le principali funzioni del sé): messa a fuoco dall’interno o dall’esterno (funzione di “individuazione”relativa alla messa a fuoco della propria identità); dipendenza o indipendenza dal contesto (funzione “intersoggettiva” relativa all’equilibrio tra il riconoscersi negli altri e il demarcarsi da essi).

Alla base dei DCA (anoressia, bulimia, obesità) è stata identificata una specifica Organizzazione di Significato Personale che rispetto alle dimensioni citate sarebbe caratterizzata da: campo dipendenza intesa come attitudine a regolare la relazione interpersonale sulla base dell’atteggiamento contingente dell’altro più che affidandosi a proprie valutazioni personali; messa a fuoco dall’esterno, cioè tendenza a valutare se stessi, e interpretare i propri stati interni e regolarli sulla base dell’esterno, cioè sul modo con cui ci si vedrebbe se ci si osservasse da fuori (sono ciò che gli altri mi fanno capire che io sia). Scrive Guidano, mettendo a fuoco il nucleo dell’Organizzazione DAP (1987):

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DIPENDENZA dal CAMPO

INDIPENDENZA dal CAMPO

MESSA A FUOCO

DALLINTERNO

ORGANIZZAZIONE FOBICA

ORGANIZZAZIONE DEPRESSIVA

MESSA A FUOCO DALL’ESTERNO

ORGANIZZAZIONE DISTURBI ALIMENTARI PSICOGENI

ORGANIZZAZIONE OSSESSIVA

“L’unitarietà dei processi di significato personale (…) si origina a partire da una percezione vaga e indefinita di sé e si organizza intorno ai confini antagonisti e oscillanti tra un bisogno assoluto di approvazione da parte delle persone significative e la paura altrettanto assoluta di essere intrusi e disconfermati”. Queste modalità di rappresentare e vivere se stessi, se-con-gli-altri, sé nel mondo, vengono costruite nei rapporti di attaccamento vissuti nell’infanzia che ne rappresentano l’impalcatura di base.

ALCUNI ASPETTI DELLA RELAZIONE CON LE FIGURE D’ATTACCAMENTO

E PRINCIPALI MODALITÀ DI ADATTAMENTO E DELLO STILE CONOSCITIVO

Quando la relazione d’attaccamento è di tipo sicuro gli scambi emotivi tra genitore e bambino sono caratterizzati dalla capacità del genitore di reagire in modo pronto e adeguato ai segnali trasmessi dal bambino. Questi riceve affetto e sicurezza da una figura di riferimento accudente che lo lascia esplorare l’ambiente, vegliando affinché non si metta in pericolo. Gli stati emozionali positivi vengono amplificati, mentre viene aiutato nella regolazione e nel controllo di quelli negativi riducendo l’effetto disorganizzante di paura, ansia e tristezza e fornendo una base sicura che calma il bambino quando è turbato. Viene favorita la capacità di percepire, discriminare gli stati emozionali e di esprimere le emozioni in modo coerente e integrato. Viene dato spazio ai processi di integrazione tra aspetti emotivi e cognitivi-razionali. Nelle relazioni di attaccamento insicure ( relazione d’attaccamento evitante o ambivalente) questa capacità integrativa viene meno. E’ come se ci fosse nel genitore una difficoltà ad “ascoltare” i segnali emessi dal bambino, a sintonizzarsi con lui. Si parla a questo proposito di atteggiamento genitoriale desincronizzato. L’alimentazione è senza dubbi un’esperienza interpersonale satura di implicazioni e complicazioni affettivo-emotive. Nell’infanzia non è semplice per il bambino distinguere i sentimenti legati al bisogno di accudimento da quelli connessi a bisogni corporei. Attraverso la pronta soddisfazione dei segnali di fame apprende a riconoscere e differenziare i propri stimoli fisiologici, da lui stesso ancora confusamente

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avvertiti come disagio ansioso, giungendo a discernerne il significato e ad apprendere i comportamenti adatti a soddisfarli. Negli itinerari di sviluppo in cui si struttura un’organizzazione DAP il bambino è portato a usare strategie simili per affrontare sia l’esperienza emotiva interpersonale che le sensazioni legate ai bisogni corporei; attraverso un tipo di reciprocità con la principale figura d’attaccamento, sviluppa cioè uno stile conoscitivo in cui fanno difetto gli strumenti che permettono una lettura stabile e coerente di sé, sé-con-l’altro, sé nel mondo indipendentemente dalle esigenze e dai problemi del corpo. Dunque, una modalità psicosomatica di definizione degli stati soggettivi. La carenza nella capacità di discriminare gli stati interni si accompagna, o meglio, è preceduta, da una scarsa differenziazione dei confini corporei, che costituisce anche una delle radici delle problematiche relative al corpo tipiche di questa Organizzazione e il cuore dei DCA.

L’atteggiamento genitoriale è di solito caratterizzato da intrusività, con una costante anticipazione e ridefinizione di percezioni, sentimenti, emozioni e comportamenti. Le figure di riferimento sono sempre pronte a dare al figlio una lettura per lui, definire e interpretare continuamente ciò che sta provando o deve provare. Così si gettano le basi perché l’individuo non abbia la possibilità di riconoscere ed esprimere autonomamente le proprie emozioni, con una sensazione di inaffidabilità circa la propria capacità di decodificarle, e un senso di inadeguatezza perché spesso c’è incongruenza tra le dichiarazioni dell’altro e le sensazioni interne. Il senso di sé, che progressivamente si struttura, verrà rappresentato come concretamente impegnato in azioni tangibili (mangiare, studiare, danzare) o come immagine corporea che lo specchio riflette e gli altri percepiscono e non anche come insieme di sensazioni, emozioni, sentimenti, progetti, interessi, memorie, pensieri, valori. Questi aspetti non tangibili e corporei rimangono nell’individuo scarsamente abbozzati. Il rapporto di attaccamento, che genera la prima confusione tra bisogni di attenzione interpersonale e bisogni corporei, si manifesta con l’impossibilità di cogliere la dimensione interpersonale delle difficoltà: Si pensi per esempio alla difficoltà a distinguere tra senso di vuoto da fame (risolvibile con il cibo) e senso di vuoto da tristezza e solitudine (risolvibile con la vicinanza

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di una figura affettivamente significativa). L’atteggiamento verso il sé oscilla tra il valore positivo assoluto, dove la perfezione (o meglio, il desiderio di perfezione) diventa l’unica soluzione per ricevere giudizi favorevoli, e la critica più spietata, dovuta a una valutazione molto confusa della propria efficienza reale. E’ costruita un’identità personale caratterizzata dalla indeterminatezza, dove da una parte le variazioni degli stati corporei restano l’insieme di impulsi più affidabili per decodificare e ordinare l’esperienza di sé, e dove l’enfasi familiare sugli aspetti formali contribuisce a rendere l’estetica e le prestazioni il criterio essenziale nella valutazione di sé. A proposito del sistema familiare, la madre di solito è la figura dominante: mostra un “amore preoccupato”, molto centrata sul figlio ma il controllo prevale su tenerezza e calore emotivo. Suscita per questo sentimenti di ambivalenza e insicurezza come del resto il padre, figura generalmente periferica ed evanescente. Anche grazie a questa lontananza il padre viene spesso idealizzato e contrapposto alla madre, tanto presente quanto intrusiva. D’altro canto però non riesce a diventare un punto di riferimento significativo. L’enfasi posta sull’estetica e sul benessere corporeo o sulla massimalità nelle prestazioni, costituiscono importanti priorità su cui il figlio tende a sintonizzarsi. Spesso vige un’adesione a strette norme o ruoli che regolano il comportamento, un formalismo forzato che consente anche di mantenere una immagine idealizzata della famiglia; le comunicazioni sono ambigue, contraddittorie, con pochi scontri emotivi e molte critiche e giudizi impliciti. E’ difficile trovare una manifestazione spontanea di affetto, e domina la tendenza a nascondere a se stessi e agli altri membri i problemi e le difficoltà. C’è una concezione dell'amore e del volersi bene coincidente con l'essere uguali e pensarla allo stesso modo. Questi atteggiamenti "invischianti" impediscono l’individuazione e la differenziazione, a cominciare dalle singole emozioni per arrivare ad atteggiamenti e progetti. La relazione con l’altro sarà percepita in ogni momento e in ogni circostanza come centrale per la definizione del proprio sé. Tutto va a discapito dello sviluppo di una propria individualità e autonomia e determina una forma di consapevolezza che è etero-autoconsapevolezza, da cui derivano le strategie di ricerca all’esterno di limiti e di stimoli per leggersi, delineare i propri contorni, definirsi.

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L’individuo, preceduto dalla sua immagine, per conservare l'adattamento ha come scelta preferenziale quella di conformarsi alle aspettative degli altri (spesso con atteggiamento di massimalità e tendenza al perfezionismo), sia nei comportamenti che nelle opinioni e negli atteggiamenti, ad esempio non mostrando ciò che prova e mostrando ciò che non prova per ricevere consenso e cura; conformarsi alle aspettative contestuali di ruolo e risultato così che il confronto e le prove diventano momenti decisivi della definizione di sé, e strumenti attendibili per ottenere un livello accettabile di autostima e quindi una conferma esterna al valore personale ( dice Maria parlando della sua ansia da prestazione “ … sono soddisfatta solo se prendo voti sopra il 28, ma se non è un 30 penso sempre che potevo fare di più…se so di non aver fatto il mio dovere non ci vado neanche a dare l’esame, non voglio prendere in giro la persona che mi sta davanti e poi il professore me lo legge in faccia che non sono preparata …”). Il giudizio dell’altro è temuto (“che tipo di giudizio riceverò dato che tutto è imprevedibile”) ma indispensabile (“con quale altro criterio posso capire se valgo e cosa provo”). E’ la situazione che produce la maggiore turbolenza emotiva: le sospirate approvazioni o le temute critiche, fanno oscillare tra aspettativa e speranza ansiosa e delusione. La critica delle persone significative può arrivare a produrre un senso di disorientamento e di annullamento (basti pensare al fatto che spesso le diete delle pazienti con DCA sono precedute da critiche o commenti scherzosi sull’aspetto fisico) perché nell’Organizzazione DAP prevale l’esterno sull’interno e il giudizio è una disconferma che innesca automaticamente un’autovalutazione negativa generalizzata. Alla focalizzazione sull’esterno si riaggancia l’emozione, così presente, della delusione.

Delusione intesa come paura di aver deluso le aspettative dell’altro, e quindi di aver perso

non solo la sua vicinanza, ma anche il proprio senso di identità. Il senso di delusione è però

anche la delusione delle proprie aspettative, di solito idealizzate, sull’altro (scrive Chiara

parlando di se stessa “ è una persona che sa amare e se amalo fa davvero…a volte però

quando mancano le mezze misure si è più soggetti a delusione…deludere, essere delusi,

sempre una delusione è…”).

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La delusione è una esperienza che accompagnerà sempre il soggetto, che condizionerà i suoi rapporti e anche nella relazione terapeutica sarà uno dei temi obbligati di analisi. La dipendenza dall’altro, che è una dipendenza da definizione, determina una scarsa autonomia che può portare all’isolamento comunicativo e al rifugio nel sogno ad occhi aperti, nelle fantasie gratificanti come rimedio alle difficoltà e alle delusioni incontrate nei rapporti interpersonali. In questa Organizzazione prevale una tendenza ad uno stile immaginoso e sognante, con una intensa attività onirica. Personaggi idealizzati nei sogni ad occhi aperti costituiscono immagini gratificanti di perfetti rapporti affettivi futuri, forniscono la rassicurazione e il conforto che non si è imparato a chiedere alle concrete figure d’attaccamento e costituiscono un terreno di confronto per ogni rapporto reale che inevitabilmente deluderà. Una ulteriore conseguenza dell’isolamento è il non superamento dell’egocentrismo cognitivo: il pensiero per quanto riguarda l’immagine di sé e dei rapporti interpersonali resterà ancorato a una modalità assoluta e non relativizzata, con una incapacità di assumere il punto di vista degli altri.

La ricerca di confini porta anche a sviluppare in modo privilegiato modalità di sfida nella relazione. A seconda dell’itinerario di sviluppo e del senso si autoefficacia si può avere una iper-attivazione o iper-inibizione del sistema motivazionale agonistico, in cui l’aspetto centrale è “vincere” o “evitare”. Le emozioni caratteristiche di questo sistema motivazionale (trionfo, sconfitta, giudizio, vergogna) tendono quindi a emergere in modo massiccio nelle situazioni interpersonali. Ugualmente la rabbia e l’aggressività o la rassegnazione e la resa. La percezione di una sfida, la riattivazione di una stimolazione esterna hanno spesso il potere di rivitalizzare e motivare all’azione consentendo di bypassare quel senso di noia, di vuoto così frequentemente nominato dai pazienti con DCA. L’organizzazione DAP si articola intorno a un continuum: bisogno di definizione-senso di essere intrusi. La ricerca di una definizione attraverso l’altro porta ad affinare selettivamente le strategie di lettura dei segnali non verbali di approvazione o rifiuto e alla massimalizzazione delle strategie che permettano tale definizione: l’abilità nell’usare i segnali di feed-back nei processi comunicativi e nelle relazioni è ottima garantendo adeguamento ai segnali degli interlocutori e flessibilità davanti ai suoi cambiamenti.

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Vengono ugualmente sviluppate anche strategie verbali e non per attivare l’attenzione dell’altro e tenerla orientata su di sé, spesso utilizzando anche modalità seduttive. Infatti bisogna piacere sempre a tutti: la seduzione è generalizzata, dato che il non essere accettati-amati da qualcuno pone un dubbio intollerabile sul valore personale. La tensione a mantenere primariamente la relazione porta allo sviluppo di strategie utili attivare l’ascoltatore, a farlo sentire bene, a mettere in secondo piano i propri bisogni. La ridotta assertività nasce dalla profonda paura di andare contro le aspettative dell’altro e dalla incapacità di porre limiti e confini che porta a essere abusati e invasi. La vicinanza relazionale è quindi anche un pericolo. L’altro, con le sue aspettative, viene spesso vissuto come intrusivo e a volte come una minaccia alla propria identità. I confini tra se e l’altro sono inesistenti e frequente è il vissuto di essere “letto dentro” (dice Monica “ a volte mi sento trasparente, ho paura perché è come se sentissi che gli altri possono vedermi dentro e allora provo imbarazzo, vergogna, abbasso lo sguardo in modo da non far vedere i miei pensieri…”), e l’accettazione di ogni attribuzione esterna come corrispondente al vero (“…a volte non so cosa provo, sento una gran confusione. Il mio ragazzo sa riconoscere come sto e se lo vede lui da fuori significa che è così…” “avevo comprato un vestito, ma non sapevo più se mi piaceva, solo mia madre poteva risolvermi questo dubbio…”). Poiché la polarità conferma-disconferma è fondamentale, le attivazioni emotive più evidenti sono quelle autocoscienti e autoriflessive: vergogna, inferiorità, inadeguatezza. Le emozioni sono un aspetto importante e privilegiato nella lettura del mondo e l’interpretazione degli eventi può essere spesso guidata dalla tonalità emotiva percepita più che dalla elaborazione cognitiva, generando ampie oscillazioni di umore sulla base degli eventi esterni. Poiché le modulazioni emotive che emergono alla coscienza sono connesse in modo vago e indefinito, immagini, sensazioni, pensieri e aspettative possono facilmente coesistere in concomitanza a stati emotivi differenti, a volte contrastanti, senza che questo venga percepito come una dissonanza. La fluidità e la non definizione dei propri confini nel processo di riordinamento delle proprie percezioni e del mondo esterno si ritrovano chiaramente anche sul piano mentale (idee, progetti…).

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ASPETTI SPECIFICI: CIBO, CORPO, SESSUALITÀ E AMORE

Nei DCA il cibo perde di vista ogni relazione tra fame e sazietà (Laura usa il cibo come contenitore di cose belle e cose brutte: ”se vado a mangiare la pizza con il mio ragazzo non vomito…perché dovrei vomitare una cosa bella? Ma se mi arrabbio con mia madre e poi mi ingozzo e devo vomitare… solo allora sto bene perché sento di avere buttato fuori tutta la rabbia che ho verso di lei”). In itinerari di sviluppo ambivalenti il cibo è uno strumento di aggancio e controllo della relazione (dice Anna durante un litigio con la madre, riferendosi al periodo in cui soffriva di anoressia e si sentiva più accudita da lei “ era meglio prima, mi ero illusa che fossi cambiata, te sei sempre te…”), uno strumento che consente di acquisire una (fallace) sicurezza circa la propria forza di volontà e la capacità di autosufficienza di fronte al difficile mondo dei rapporti interpersonali. In itinerari di sviluppo evitanti il cibo è un distrattore da stati emotivi perturbanti, può avere una funzione consolatoria, può essere un rifugio in momenti difficili. Non emerge alcun tipo di sfida o lotta nei confronti delle proprie figure di riferimento ma prevale un clima di resa e rassegnazione al proprio destino di solitudine, con un tentativo minimo di renderlo consistente e spiegarlo con attribuzioni esterne centrate esclusivamente sul piano corporeo (Valentina: “è il mio corpo che gli altri rifiutano, non me”). Una delle situazioni più tipiche è il mangiare la domenica pomeriggio, quando si è soli in casa e non si sa cosa fare e con chi stare (Chiara: “il cibo mi serve per consolare l’anima”). L’assunzione massiccia di cibo può anche essere l’unica risposta possibile e conosciuta per gestire una emozione (Sofia: “l’arrabbiarsi non era ben visto in famiglia e quando ero particolarmente nervosa mia madre mi diceva che ero nervosa perché avevo fame!”). Anche per una bulimica il cibo ha le stesse funzioni che ha per una persona obesa, ma prevale l’orrore per l’immagine di sé grassa, che può portarla a rigettare fuori tutto ciò che è stato ingerito. Ci sono poi individui per i quali il controllo della quantità e della qualità del cibo sono strumenti per garantirsi un’integrità fisica: un’alimentazione equilibrata e corretta assume allora connotazioni maniacali.

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Il corpo è lo strumento primario per costruire la propria identità, tutto passa attraverso il corpo. La sofferenza che si manifesta per mezzo del corpo è immediata e si accompagna a una totale incapacità di risalire alle cause psichiche. E’ il centro dei pensieri che condiziona l’esperienza. Nell’anoressica è lo strumento per raggiungere la perfezione, la bellezza, che corrisponde a una magrezza che serve ad attrarre e conquistare l’altro, pur avendo un corpo defraudato della sessualità. Nelle anoressiche infatti, il rapporto con il partner è del tutto desessualizzato, e al disinteresse si può aggiungere una sorta di anestesia sessuale. Il partner è selezionato con cura al fine di mantenere la sessualità in secondo piano: uomini con scarso interesse erotico e complici nel privilegiare l’estetica rispetto alla funzione del corpo. Per l’obeso il corpo grasso è la concretizzazione del proprio fallimento, qualcosa di cui vergognarsi, da usare per allontanare l’altro, la rinuncia alla lotta perchè non all’altezza. Il rifugio sul corpo permette di spostare l’attenzione da quelle difficoltà psicologiche che non si è attrezzati ad affrontare. La sessualità è evitata per non mostrare un corpo vissuto come goffo, desiderabile e attraente. La sessualità però per alcuni può essere un’importante strumento di aggancio rispetto a quelle figure significative da cui si dipende per la conferma del sé, anche se spesso per la difficoltà a leggere le proprie sensazioni ed emozioni, può essere presente la difficoltà a sentire se una stimolazione sessuale sta dando piacere, nausea o cos’altro. L’opinione dell’altro fa sempre testo, anche riguardo alle più intime sensazioni. Altrettanto importante è l’immagine corporea. Nei DCA lo schema corporeo è fortemente disturbato. Nei DCA e soprattutto nelle anoressie con bulimia, può essere presente uno stile di attaccamento disorganizzato che può portare a una alterazione della coscienza che si realizza con una profonda alterazione dello schema corporeo generando esperienze di stati alterati di coscienza e di frammentazione del sé, fino a raggiungere proporzioni deliranti. Oltre a quella somatica sono osservabili altre anomalie delle esperienze sensoriali e psichiche che contribuiscono alla costruzione dell’immagine corporea: per esempio le alterazioni relative al ciclo mestruale (le anoressiche che hanno il ciclo o le obese spesso non accusano crampi o altri sintomi premonitori), o le sensazioni di freddo o caldo in situazioni ambientali che rendono difficile condividere questa affermazione.

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L’amore è di solito fonte di vita e di conferma personale e per questo diviene facilmente occasione di disappunto e delusione. C’è una forte ambivalenza verso l’amore, insieme cercato e fuggito, che si manifesta con diversi comportamenti. Snervanti “messe alla prova” per non farsi coinvolgere da persone che non diano la massima sicurezza, prolungamenti eccessivi di legami in cui sesso e amicizia vengono confusi, atteggiamenti che mirano ad attrarre l’altro senza però concedersi, doppiette affettive, innamoramenti nei confronti di persone irraggiungibili. Ma una volta che il legame con l’altro è istaurato c’è dedizione assoluta e adesione assoluta al modello di perfezione che si pensa che l’altro abbia. Così quando il rapporto finisce la persona si trova senza interessi, senza identità, e soprattutto priva della conferma al proprio sé.

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IL TRATTAMENTO: MODALITÀ DI EVOLUZIONE ARMONICA DEL SÉ

Nel lavoro con pazienti che presentano una Organizzazione DAP il focus del trattamento è orientato su alcune aree specifiche: progressivo incremento della capacità di riconoscere l'esperienza personale e regolare gli stati

emotivi; dalle sensazioni viscerali e propriocettive alle sensazioni più intime e complesse. maggiore riferimento a criteri di giudizio e norme comportamentali con riferimento interno

(assertività esprienziale e in genere); demarcazione dall’altro intesa come sviluppo della capacità di percepire il comportamento dell'altro

come informazione sull'altro e non su di sé (il suo modo di funzionare mi dice chi è lui e non chi sono io);

possibilità di riconoscere gli stati mentali (desideri, progetti…,cosa mi piace? Cosa è importante per me?) e vivere le opportunità di scelta e di definizione di sé come aspetto di unicità e realizzazione personale.

La metodologia terapeutica, prevede un uso strategico delle varie tecniche terapeutiche cognitiviste in

funzione dello stile d’attaccamento (osservabile in vivo). Il modello clinico pone al centro della sua attenzione l’analisi delle dinamiche affettive lungo tutto il ciclo di vita. Si può dare per scontato che ricostruendo con attenzione gli eventi connessi allo scompenso del paziente, si potrà individuare un importante sbilanciamento affettivo avvertito nelle relazioni significative. Il sintomo, ricollocato all’interno di questi legami, appare come una metafora incompiuta di aree emotive scarsamente riconosciute ed articolate. Il suo significato va ricercato nel percorso di vita per capirne la funzione nel mantenimento della stabilità del sé e nella relazione. Ogni paziente arriva con una attribuzione esterna del suo disagio. Il lavoro da fare è aiutare a ricollegare quel disagio al suo modo particolare di incontrarsi con la realtà, costruire un senso di responsabilità relativo ai propri costrutti mentali, là dove il cambiamento è dato dallo sviluppo di funzioni metacognitive, dalla migliore capacità di leggere la propria mente, spiegarsi ciò che avviene, elaborare nuove modalità di organizzare e integrare l’esperienza. Non si lavora tanto sui contenuti ma sulla consapevolezza dei contenuti. Nell’approccio cognitivo standard vengono criticati i pensieri automatici, le distorsioni e i presupposti secondo un criterio di adeguatezza alla realtà esterna e vengono suggerite nuove modalità di gestire ed elaborare le esperienze in questione. Nell’approccio post-razionalista l’attenzione è maggiormente rivolta all’individuazione e all’elaborazione dell’esperienza immediata e alla riformulazione interna. Con la procedura della “moviola” il paziente viene costantemente invitato a ricostruire scene prototipiche in cui ha vissuto l’esperienza problematica, ora

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rivivendole dall’interno, come attore della scena, ora osservandole dall’esterno, come spettatore. Ciò al fine di definire nel dettaglio le componenti di tali esperienze e di riflettere sul modo con cui le descrive e spiega a se stesso, suo modo di funzionare. Si costruisce il “personaggio” nelle situazioni, cercando di individuare la logica dei diversi comportamenti e delle modalità di esperienza, tra cui gli stessi sintomi. L'esplorazione e l'elaborazione di episodi significativi connessi al problema viene poi estesa al piano affettivo e a quello della storia di sviluppo. Il rapporto terapeutico viene impostato in base a un principio di collaborazione: l’atteggiamento del terapeuta è direttivo, strutturato nel metodo ma non nei contenuti. Il paziente è come un ricercatore, ed è l’esperto rispetto all’oggetto della ricerca (il suo sistema di conoscenza, le sue sensazioni, i suoi pensieri, le sue emozioni) poiché è l’unico ad averne l’accesso diretto. Il terapeuta assume il ruolo di supervisore, esperto del metodo: suo compito è suggerire gli strumenti e le procedure terapeutiche, indirizzare l’attenzione verso determinati aspetti del suo modo di porsi e di costruire l’esperienza. In questo lavoro la logica è quella della ricerca scientifica: non esistono verità ma solo ipotesi, più o meno attendibili, che devono essere sottoposte a verifica. Ipotesi che saranno considerate valide (il che non significa vere) solo nella misura in cui il paziente le viva come coerenti con altre regole del suo sistema di conoscenza e congruenti con le sue sensazioni emotive. Le resistenze (concetto che serve a preservare l’autostima del terapeuta!) non saranno altro che forzature del terapeuta che porta il paziente verso una lettura del proprio sistema conoscitivo dove ancora egli non può andare. La modalità terapeutica si viene quindi a delineare come una strategia unitaria non principalmente rivolta a un effetto immediato su aspetti comportamentali e cognitivi ma come una azione sull’insieme delle modalità conoscitive individuali. L’aggancio è di solito uno dei momenti più delicati anche perché il terapeuta entra in relazione con il paziente in un modo che questi non ha mai sperimentato: non gli dice, non gli spiega cosa deve fare, come deve scegliere, cosa deve provare (non è intrusivo né definisce per lui). Non ci si concentra eccessivamente sul sintomo proprio perché la terapia è focalizzata ad articolare il vissuto interno. Inoltre lavorare sul problema in termini razionali è inutile anche perché ripropone un modo di affrontare la malattia tipico dei familiari. L’attenzione è guidata all’analisi del significato del sintomo come modalità comunicativa intrapersonale e interpersonale, con una costante ricerca di un modo di esprimere bisogni e desideri che sia alternativo rispetto a quello percorso da un corpo senza consapevolezza. L’essenziale è andare oltre al messaggio somatico: per questi pazienti, molto bravi a raccontarsi e meno a sentirsi, è fondamentale esprimere emotivamente e linguisticamente i propri vissuti affinché la via somatica non sia più l’unica percorribile.

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«Ogni persona è un esperimento unico della natura».

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