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DOMENICA 22 OTTOBRE 2006 D omenica La di Repubblica D omenica La di Repubblica TUNISI S ul litorale a nord di Tunisi quella strana pudici- zia modaiola si manifestò intorno all’anno 2000, quando alcune ragazze presero a indossare bra- ghette da ciclista sopra il bikini. L’anno seguen- te le braghette nere erano ancora popolari; allora si diffu- se l’abitudine di fare il bagno con quelle e con una T-shirt abbastanza corta da lasciar vedere l’ombelico. Poi com- parve il foulard, bianco e stretto come una cuffietta da nuo- tatore. L’estate scorsa, nei giorni della guerra del Libano, a braghette, t-shirt e cuffietta s’è aggiunto un velo nero, il ne- ro adesso di gran moda, il “nero Hezbollah”. L’ombelico è ancora conteso tra l’eros e la morale, ma in una spiaggia dove dieci anni fa tutte le ragazze portavano il due-pezzi, in agosto Leila e le sue amiche erano le uniche a resistere, attruppate come un plotone sul punto di soccombere. Al- trove l’avversario è numericamente esiguo: nel centro di Tunisi raramente vedi una donna con il capo coperto, e da una settimana la polizia è tornata a sorvegliare che il velo non entri in uffici pubblici, ospedali, scuole e università. (segue nelle pagine successive) con un articolo di NADIA FUSINI T empo fa, in Marocco, l’uso del velo non comportava al- cun problema. Le donne si vestivano in djellaba e por- tavano un velo che non copriva tutto il viso ma solo la parte inferiore. Si vedevano parte della fronte, gli occhi e il naso, mentre il velo copriva le labbra. Più che una presa di posizione politica o religiosa era una tradizio- ne. Mia madre si velava così, mentre la nonna, per via dell’età, non si velava più. Le donne di città nascondevano la capigliatura ma non le forme. Quando le contadine venivano in città, si avviluppavano in un grande telo bianco chiamato haik e ne tenevano i lembi tra le dita all’altezza del naso. Nel frattempo, erano sempre più numero- se le giovani donne che uscivano vestite all’europea. Era l’epoca di re Mohamed V che, tornato dall’esilio nel 1956, non esitò a mostra- re le sue figlie senza velo. Nello stesso periodo, il presidente tunisi- no Bourghiba chiedeva alle donne di smettere di indossare la djel- laba che chiamava «nascondi miserie». Tra la fine dei Cinquanta e l’inizio degli Ottanta, la maggior parte del- ledonnemarocchineavevasmessodiportareilvelo.Indossavanoladjel- laba e uscivano a capo scoperto. È con la rivoluzione iraniana e i discorsi demagogici di Khomeyni che il velo ha rifatto la sua comparsa. Mia ma- dre, mia sorella, le mie cugine continuavano a non coprirsi il capo se non con un bel foulard che tratteneva i capelli. Il volto, mai più velato. (segue nelle pagine successive) Un segno di oppressione o un simbolo di identità culturale? Le donne che nascondono il volto mettono in difficoltà le capitali d’Europa Dietro Velo il cultura Il corallo che ispirò l’evoluzione a Darwin STEFANO MALATESTA e TELMO PIEVANI i luoghi La montagna come marchio di fabbrica MICHELE SMARGIASSI la lettura I bestiari di Borges, sognatore di draghi JORGE LUIS BORGES e PINO CORRIAS la memoria Budapest, i ragazzi del ’56 raccontano PAOLO RUMIZ e GIAMPAOLO VISETTI l’immagine Scianna, la vita al di là dello specchio STEFANO BARTEZZAGHI e IRENE MARIA SCALISE spettacoli Post-punk, così finì la rivoluzione GINO CASTALDO FOTO AFP GUIDO RAMPOLDI TAHAR BEN JELLOUN Repubblica Nazionale

omenica PAOLO RUMIZ eGIAMPAOLO VISETTI Repubblica …download.repubblica.it/pdf/domenica/2006/22102006.pdf · tono il velo per contestare i genitori, che invece lo rifiutano. Per

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DOMENICA 22OTTOBRE 2006

DomenicaLa

di RepubblicaDomenicaLa

di Repubblica

TUNISI

Sul litorale a nord di Tunisi quella strana pudici-zia modaiola si manifestò intorno all’anno 2000,quando alcune ragazze presero a indossare bra-ghette da ciclista sopra il bikini. L’anno seguen-

te le braghette nere erano ancora popolari; allora si diffu-se l’abitudine di fare il bagno con quelle e con una T-shirtabbastanza corta da lasciar vedere l’ombelico. Poi com-parve il foulard, bianco e stretto come una cuffietta da nuo-tatore. L’estate scorsa, nei giorni della guerra del Libano, abraghette, t-shirt e cuffietta s’è aggiunto un velo nero, il ne-ro adesso di gran moda, il “nero Hezbollah”. L’ombelico èancora conteso tra l’eros e la morale, ma in una spiaggiadove dieci anni fa tutte le ragazze portavano il due-pezzi,in agosto Leila e le sue amiche erano le uniche a resistere,attruppate come un plotone sul punto di soccombere. Al-trove l’avversario è numericamente esiguo: nel centro diTunisi raramente vedi una donna con il capo coperto, e dauna settimana la polizia è tornata a sorvegliare che il velonon entri in uffici pubblici, ospedali, scuole e università.

(segue nelle pagine successive)con un articolo di NADIA FUSINI

Tempo fa, in Marocco, l’uso del velo non comportava al-cun problema. Le donne si vestivano in djellaba e por-tavano un velo che non copriva tutto il viso ma solo laparte inferiore. Si vedevano parte della fronte, gli occhie il naso, mentre il velo copriva le labbra. Più che unapresa di posizione politica o religiosa era una tradizio-

ne. Mia madre si velava così, mentre la nonna, per via dell’età, nonsi velava più. Le donne di città nascondevano la capigliatura ma nonle forme. Quando le contadine venivano in città, si avviluppavanoin un grande telo bianco chiamato haik e ne tenevano i lembi tra ledita all’altezza del naso. Nel frattempo, erano sempre più numero-se le giovani donne che uscivano vestite all’europea. Era l’epoca dire Mohamed V che, tornato dall’esilio nel 1956, non esitò a mostra-re le sue figlie senza velo. Nello stesso periodo, il presidente tunisi-no Bourghiba chiedeva alle donne di smettere di indossare la djel-laba che chiamava «nascondi miserie».

Tra la fine dei Cinquanta e l’inizio degli Ottanta, la maggior parte del-le donne marocchine aveva smesso di portare il velo. Indossavano la djel-laba e uscivano a capo scoperto. È con la rivoluzione iraniana e i discorsidemagogici di Khomeyni che il velo ha rifatto la sua comparsa. Mia ma-dre, mia sorella, le mie cugine continuavano a non coprirsi il capo se noncon un bel foulard che tratteneva i capelli. Il volto, mai più velato.

(segue nelle pagine successive)

Un segnodi oppressioneo un simbolodi identità culturale?Le donneche nascondonoil voltomettono in difficoltàle capitali d’Europa

DietroVeloil

cultura

Il corallo che ispirò l’evoluzione a DarwinSTEFANO MALATESTA e TELMO PIEVANI

i luoghi

La montagna come marchio di fabbricaMICHELE SMARGIASSI

la lettura

I bestiari di Borges, sognatore di draghiJORGE LUIS BORGES e PINO CORRIAS

la memoria

Budapest, i ragazzi del ’56 raccontanoPAOLO RUMIZ e GIAMPAOLO VISETTI

l’immagine

Scianna, la vita al di là dello specchioSTEFANO BARTEZZAGHI e IRENE MARIA SCALISE

spettacoli

Post-punk, così finì la rivoluzioneGINO CASTALDO

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GUIDO RAMPOLDI TAHAR BEN JELLOUN

Repubblica Nazionale

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(segue dalla copertina)

Ma non saranno misu-re repressive a bloc-care un cambio d’at-mosfera per il qualeanche la Tunisia sista allineando alla

tendenza islamizzante. I più misura-no il dilagare di questi costumi giova-nili al tempo stesso spensierati e pe-nitenziali, civettuoli e bigotti, con lefoto ingiallite del presidente Bourghi-ba mentre aiuta una tunisina a to-gliersi il velo: per sempre, si pensavaallora. La nazione era nata, nel 1956,secolare e socialista. Oggi si discute sefuori dalla capitale le ragazze velatesiano ormai maggioranza.

Quando si domanda cosa sia acca-duto in questo mezzo secolo al suoPaese, tuttora la più laica tra le nazio-ni arabe, ma sempre meno diversa daquelle, Leila cerca risposte negli even-ti successivi all’11 settembre: la guer-ra in Iraq, Gaza, la crisi dell’Olp cheaffonda il laicismo arabo, l’ascesa diHamas e di Hezbollah, adesso il Liba-no… ma più spesso Leila trova spie-gazioni sull’altra sponda del Mediter-raneo, nel continente che fornisce al-la Tunisia nuove braghette e nuovefrustrazioni, foulard e rabbia, veli eislam in varia foggia: la nostra Europa.

Siamo nel centro di Tunisi, a duepassi da piazza dell’Indipendenza,dove la cattedrale cattolica e la statuadel filosofo musulmano Ibn Khal-doum convivono serenamente sottoun cielo oggi molto tunisino, d’un az-zurro così acceso da sembrare verni-ciato di fresco. In strada un altopar-lante inarrestabile fiotta versetti delCorano sul viavai di teste davanti allastazione centrale. «Un anno fa nonc’era, adesso non tace neppure di not-te», dice Leila chiudendo la finestra.Poi torna a raccontare di quell’islamnuovo che arriva in Tunisia ogni esta-te. Arriva durante le vacanze, con gliemigranti che tornano dalle periferiefrancesi e tedesche, da un’Europa incui non riescono a trovare un avveni-re. Sono giovani e incolti. La fede do-lorosa che portano come un cilicio, lareligione appresa dai missionari isla-mici nelle aspre terre dell’emigrazio-ne, insegna che «tutto è peccato»,dunque la vita è amara, il piacere in-debito, il male ovunque e l’infernosempre in agguato. Quell’islam cupo

attecchisce rapidamente nelle cittàtunisine, colonizza luoghi di culto,snatura la tradizione, stravolge la dot-trina. Così il padre di Leila, che pure èmolto pio, non va più in moschea.«Non riesce più a riconoscere la suafede in quella religione della paura,della durezza e della proibizione».

Tutte controllate dalla polizia, le mo-schee non osano incitare le donne amettere il velo. A questo provvedonoreti di beghine. Avvicinano le ragazzee le invitano a coprirsi perché così vo-gliono, ammoniscono, la religione e ildecoro. «Nei villaggi e nei quartieridove in maggioranza le donne sono

velate chi decide di resistere alla pres-sione sociale deve mettere nel contod’essere molestata dai maschi, segna-ta a dito. Non è facile».

Più spesso sono decisivi fratelli e fi-danzati. Leila insegna in una facoltàdella Manoubà, la più cosmopolitauniversità tunisina, e un terzo delle

sue studentesse portano il velo isla-mico, in genere drappeggiato secon-do la moda del momento. QuandoLeila le prende da parte e chiede per-ché, perché da un anno all’altro sianopassate dalla minigonna all’uniformeislamica, di solito quelle premettono:nessuno m’ha costretta. «Quasi sem-pre è la prova del contrario». Più raroche a obbligarle siano i padri. «Con legiovanissime accade l’opposto: met-tono il velo per contestare i genitori,che invece lo rifiutano. Per l’ultimagenerazione il velo sta diventando ov-vio come i blue-jeans». Poi influisce latelevisione. Le grandi tv satellitari. Lesoap-opera egiziane con le attrici ve-late. E i telepredicatori, innanzituttol’egiziano Amr Khaled, un teologo in-cravattato come un piazzista cheipnotizza i ceti medi col suo pietismoperbenista. Ma soprattutto pesa, diceLeila, «la stupidità, mi scusi, di voi eu-ropei». «Al di là di ogni limite», s’incu-pisce una sua collega, anche lei do-cente universitaria a Tunisi. Cosa ab-biamo combinato? «Quel vostro mo-do grossolano di discutere del velo: al-lucinante. A me il velo ripugna, ci ve-do qualcosa di fascista. Ma se inEuropa lo proibite nel modo più roz-zo e punitivo, ne fate inevitabilmenteun simbolo dell’identità araba: a quelpunto metterlo diventa un punto d’o-nore, non metterlo una viltà. Per vie-tarlo finirete per imporlo ad un’interagenerazione d’immigrate».

Avremo pure qualche attenuante.Da quasi venti secoli il velo è una fac-cenda molto complicata. Coinvolgel’assoluto. I conflitti tra culture, comesi dice adesso. E molto più la politica,i conflitti tra classi e tra generazioni.Perché durante l’impero le prime cri-stiane cominciarono a coprirsi la te-sta, proprio su questi litorali? Per ma-nifestare contro un’oligarchia corrot-ta e unirsi per scalzarla, lo stesso mo-tivo per cui molti secoli dopo s’è vela-ta la piccola borghesia egiziana ostilea Mubarak? Per distinguersi dallescarmigliate contadine, così come inseguito le borghesi tunisine si miseroil velo bianco poi abolito da Bourghi-ba? Per devozione? Per rivendicareun’identità etnica, latina, contro iberberi nativi? Perché convinte dasanti predicatori? Per paura dellaChiesa e dei suoi ulema tonanti?

Comunque sia andata, nel settimosecolo, quando apparve Maometto,le donne delle terre oggi arabe eranogià intabarrate: dunque l’islam noninventò il velo, lo ereditò. E con quel-

34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 22OTTOBRE 2006

la copertinaDonne e islam

Il governo tunisino rispolvera un vecchio decreto contro i volti copertima la moda del “nero Hezbollah”dilaga sulle spiagge e nelle stradeE la colpa - dicono le intellettuali maghrebine - è tutta dell’Occidente

“Il mondo alla rovescia” nella testimonianza di un grande scrittore

Madri in jeans, figlie col foulard(segue dalla copertina)

Nel giro di una ventina d’anni le cose sono cam-biate parecchio. Quando ero all’università di Ra-bat, nel 1965, nessuna studentessa si metteva il

velo o si vestiva con la djellaba. La promiscuità nel-l’ambiente studentesco era naturale e ragazzi e ragaz-ze si frequentavano senza esibirsi in modo oltraggioso:stando ai film del neorealismo, direi che era un po’ co-me nell’Italia degli anni Cinquanta. Oggi il panorama ècambiato. Metà delle mie cugine va all’università injeans e l’altra metà ci va con tuniconi larghi e un velo in-torno alla testa. Non è più una questione di tradizione,ma un atteggiamento, un modo di sottolineare la pro-pria identità culturale. Un atteggiamento di rifiuto.

L’altr’anno mi trovavo in Tuni-sia per un giro di conferenze nei li-cei e nelle università. Nessuna ra-gazza era velata. Alla fine del miointervento, due ragazze vennero aparlarmi abbassando la voce pertimore d’essere sentite da orecchiindiscreti: «Non è una questionedi libertà e di scelta individuale,vestirsi secondo le proprie con-vinzioni? Qui, noi vorremmo por-tare il velo ma ce lo vietano: non c’èun testo di riferimento o una legge,ma ci sospettano di essere all’op-posizione». Una professoressa sulla cinquantina, ve-stita all’europea, mi cita a testimone: «Una volta lotta-vamo con le nostre madri per uscire in abiti attillati epantaloni, oggi lotto contro mia figlia perché vuole por-tare il velo e coprirsi dalla testa ai piedi. È il mondo allarovescia».

La Tunisia ha fatto una guerra spietata agli estremistiislamici. Il Marocco ha voluto giocare la carta della tra-dizione e della modernità allo stesso tempo. Il paesag-gio è variegato e non si può affermare che «il Marocco èsempre più islamizzato», come ha fatto recentementeun giornalista americano vedendo che molte donnemarocchine portano il velo. Ma il fanatismo non ha piùbisogno di nascondersi dietro alla barba o al velo. Conl’aiuto della segretaria di un amico medico, anch’essavelata, ho steso un elenco delle diverse ragioni che at-tualmente spingono le donne marocchine a portare ilvelo: per convinzione religiosa (la religione sta riem-piendo il vuoto culturale del Paese); per moda (ci sonoveli elegantissimi e una sorta di erotismo discreto); per

precauzione e per mostrare di essere persone seriequando si fa un colloquio di lavoro o ci si presenta a unesame; per essere lasciate in pace dagli uomini che im-portunano le donne per strada, partendo dal presup-posto che siano tutte puttane; per obbedire ai genitori;per affermare un’identità diversa da quella europea; pertimore dei pettegolezzi dei vicini, etc. Per velo s’intendequi un foulard che copre i capelli ma non il viso. Le don-ne velate dalla testa ai piedi con un burqa nero, quellechiamate “Fantomas”, sono davvero rarissime.

La società marocchina non è mai stata permissiva.Ha sempre tenuto a salvare le apparenze. Detto questo,in Marocco non c’è mai stato il delitto d’onore come inGiordania, in Libia o in certe zone della Turchia. Ci si ar-rabbia con le donne, magari si impone loro il velo, ma

non si uccidono.Quello che sta succedendo in

Marocco è una sorta di confermadell’identità. Il fallimento delleideologie politiche di sinistra, ilvuoto creato dalla miseria cultura-le, l’indebolimento dell’autoritàparentale e di alcuni valori spingo-no le ragazze a preferire il velo, cheoffre loro tranquillità e forse ancheuna certa felicità. Sulla scena pub-blica marocchina è attualmenteimpossibile invocare la laicità. Icredenti percepiscono la separa-

zione tra islam e stato come un’aggressione nei con-fronti delle loro convinzioni, come un tradimento del-le origini. Nel frattempo, le televisioni satellitari delGolfo riversano tonnellate di documentari religiosi fat-ti da uomini barbuti o donne velate e, a forza di sentirleripetere che «la nostra identità è nell’islam», più nessu-no osa affermare qualcosa di diverso.

Infine, per una famiglia marocchina, l’ideale è anda-re a passare questo mese di Ramadan alla Mecca e a Me-dina. Questo viaggio si chiama la Omra (il piccolo pel-legrinaggio). Quest’anno decine di migliaia di coppiesono partite per andare a digiunare laggiù: è un modoper essere in pace con se stessi e mettere al bando tuttele angosce del mondo, ben più efficace di qualsiasi an-tidepressivo. Anche questa è una questione di libertà.Aspettiamo che questa libertà smetta di essere a sensounico e che sia tollerato chi fa altre scelte di vita. La com-parsa sempre più frequente del velo significa che per ilmomento a dominare sono i credenti.

(traduzione di Elda Volterrani)

GUIDO RAMPOLDI

TAHAR BEN JELLOUN

Il velo che arriva dall’Europa

Repubblica Nazionale

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lo ereditò una tricomachia, o guerradelle chiome, in cui s’erano distinti al-cuni grandi teologi cristiani. Innanzi-tutto Tertulliano, che studiò e forseinsegnò proprio qui a Tunisi quandoquesto era il secondo porto dell’im-pero (si chiamava Cartagine, la Carta-gine ricostruita da Augusto sulle rovi-ne di quella rasa al suolo da Scipione).A cavallo tra il secondo e il terzo seco-lo, Tertulliano scrisse parole roventisulle scostumate che mostrano il visoagli sconosciuti. Invitò soprattutto lesposate a rigar dritto. «Noi vi ammo-niamo… a non deviare dalla discipli-na del velo, neppure un attimo, per-ché non potete rifiutarlo… a giudicar-vi saranno le donne dell’Arabia (la pe-nisola arabica, all’epoca pagana, cri-stiana o giudaica) che coprono nonsolo la testa, ma anche la faccia, cosìinteramente che preferiscono guar-dare con un occhio solo che prostitui-re l’intera faccia. Una donna dovreb-be guardare piuttosto che essereguardata». E sul fatto che le vergininon dovessero mostrarsi in giro:«L’essere esposte allo sguardo al-trui… è come uno stupro… e anzi laviolenza carnale è meno malvagiaperché è naturale».

Tertulliano era così arcigno perchénon solo la morale del tempo, ma so-prattutto le Scritture, da Timoteo alleLettere ai Corinzi, negavano alle don-ne gli stessi diritti dell’uomo; e i suoiprecetti («ad una donna non è per-messo parlare in una chiesa, né inse-gnare, né battezzare, né officiare») so-no tuttora nella dottrina cattolica.Dunque non ha tutti i torti Islamonli-ne, il sito-web che perfidamente ri-propone i brani di Tertulliano (in in-glese) con lo scopo di dimostrare cheil velo è nel solco d’una tradizione néaraba né musulmana. Più complicatorisulta all’islamismo cibernetico con-vincere le internaute a coprirsi il capo.Su Islamonlinemotivazioni a iosa, matutte acrobatiche. Il velo protegge-rebbe diritti cui le occidentali rinun-cerebbero rendendosi schiave dellemode, del trucco, del parrucchiere,del loro corpo. Segnalerebbe il rifiutodi «valori inaccettabili all’islam, cheinvece eleva le donne alla posizione dionore e rispetto». E soprattutto sareb-be lo stendardo della propria «civiltà».Ma qual è la «civiltà» della Tunisia?

L’università dove Leila insegna, LaManoubà, è nota, tra l’altro, per il suo“Laboratorio di storia plurale”, dovedocenti e alunni possono smontarel’identità nazionale negli elementi

appelli a evadere dalla prigione del-l’arabo-islamité sono minoritari. Co-munque non hanno più fortuna diquanta ne ebbe Bourghiba quandotentò di proporsi come il nuovo Giu-gurta, il re numida che condusse unaguerriglia tenace contro l’impero ro-mano. La metafora non-islamica la-sciò freddi i tunisini e Bourghiba l’ab-bandonò.

Secondo Leila la Tunisia plurale co-minciò a perdere la partita con l’ara-bo-islamité negli anni Ottanta, quan-do, per effetto d’una arabizzazionedell’insegnamento necessaria macondotta in modo imprevidente, gliinsegnanti di filosofia, in genere fran-cofoni, furono sostituiti da teologiche conoscevano bene l’arabo: inevi-tabilmente islamizzarono il pensierotunisino. Però decisivi furono glieventi successivi. Con uno stato di po-lizia tra i più occhiuti il presidente BenAli, che nel 1987 depose Bourghiba,ha represso l’islamismo ed evitato alPaese una catastrofe algerina: ma allostesso tempo ha impedito un’evolu-zione verso uno stato di diritto traspa-rente. Ufficialmente vince ogni ele-zione con percentuali tra il 94 e il 99per cento ma nella realtà non è riusci-to a fermare il lavorio dell’islamismo.Ora s’affida alla circolare 108 contro ilvelo che aveva promulgato nel 1990,l’anno della caccia ai fondamentali-sti, e in seguito dimenticato nei cas-setti, al punto che tre anni fa una suafiglia era apparsa velata in tv. Ripristi-na quella proibizione adesso per im-pedire che il “nero Hezbollah” dila-ghi, o per segnalare ai governi europeiche la sua Tunisia è dalla loro parte.

Ma non è più uno stato laico che di-fende la propria identità. Piuttosto,comincia a somigliare all’ennesimoregime “moderato” in ritirata che persopravvivere cerca di strappare labandiera dell’“islam autentico” dallemani degli islamisti. Così mentre BenAli soffiava via la polvere dal decreto108 confermando «il nostro attacca-mento alla sublime religione islami-ca», la sua censura vietava Corpi inostaggio, una pièce teatrale che rac-conta il percorso classico d’una tuni-sina dalla sinistra rivoluzionaria all’u-niforme islamista, in quanto «attentaalla morale e alla religione». È assaidubbio che Tunisia ed Europa riesca-no a fermare il “nero Hezbollah” conqueste misure. Soprattutto se nel frat-tempo continueranno a velare la ve-rità con gli antichi drappi delle reli-gioni e delle “civiltà”.

che l’hanno composta: la Tunisia èstata punica, romana, ebrea, berbera,araba, turca, francese (e mai piena-mente tunisina, aggiunse uno stori-co). A questo deve la sua preziosa di-versità. Ma il Laboratorio oggi rischiadi diventare un perditempo, una biz-zarria. Come infatti l’Europa tende a

chiudersi in un’identità “cristiana” o“giudaico-cristiana”, impoverendouna storia ben più ricca, così la Tuni-sia si sta calando dentro un’identità“arabo-islamica” che oscura voluta-mente il resto.

È una tendenza cui alcuni resisto-no, come si ricava dai forum ospitati

da internet, cui i laici affidano le pro-prie apprensioni. L’arabo-islamité è«il cimitero della nostra cultura», scri-ve uno. E un altro: «Quando le truppearabe sono arrivate in Tunisia, hannotrovato o no una popolazione autoc-tona, berbera? E dunque, perché do-vremmo sentirci arabi?». Ma questi

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 22OTTOBRE 2006

Dopo il “caso Straw”, una riflessione sul “narcisismo delle piccole differenze”

Le libere musulmane di LondraLONDRA

Ci hanno colpito tutti le parole di Jack Straw, l’ex-ministro britannico, il quale giorni fa ha dichiarato sin-ceramente che sì, è vero, lo mettono a disagio quelledonne che gli si presentano “velate”. E intendeva ledonne che indossano il niqab, il pieno velo, da cuiemergono solo gli occhi. Non si riferiva al hijab, che sa-rebbe quel foulard che copre i capelli, ma appunto alvelo quasi totale con cui gli si presentano certe donneislamiche che vivono a Blackburn. Con sincerità, sen-za disprezzo, ha confessato che a lui quel velo dà unacerta angoscia.

È quello che capita a me di provare camminando incerte strade di Londra. Dunque, ho capito che cosa in-tendeva dire Straw, non il politico,ma l’uomo che vive e lavora in unpaese dove i volti sono per lo piùscoperti. Per noi che viviamo inquesta parte di mondo e ne usiamoi differenti linguaggi, tutti sprigio-nanti da una stessa radice, o ceppolinguistico, per noi che parliamoitaliano, inglese, spagnolo e cosìvia, l’incontro faccia a faccia ha unsignificato speciale. In molte frasiidiomatiche il viso, il volto, la facciatrasfigurano in metafore del corag-gio, della sincerità. A volto scoper-to il valoroso affronta la morte, faccia a faccia il corag-gioso dice la verità. La sincerità trionfa nel viso che nonsi nasconde. Al contrario, il volto coperto, incappuccia-to, suggerisce paura: il bandito si nasconde, l’assassinocamuffa con una calza i propri lineamenti.

Il volto non è il nome proprio, ma un che di più essen-ziale forse del nome stesso; è il segno umano per eccel-lenza. Del corpo umano è forse la parte più animata, piùmobile. Aperto, scoperto, ridente, il volto affronta ilmondo. Coperto, suggerisce ombre, trame, raggiri, se-greti, esclusioni...

Forse per questo le donne velate nei loro niqab o hijabo burqa o chador angosciano me, come Straw. Ne ho in-contrate in Iran, in Afghanistan, in Pakistan. Qui a Lon-dra. Nei loro paesi di origine mi hanno fatto una grandepena. Perché vedevo nel velo il segno drammatico dellaloro oppressione. La stragrande maggioranza delle don-ne che in quei paesi indossano il velo nelle sue varie for-me di certo non lo scelgono. Ma qui a Londra, mi sonochiesta, perché? Sono forse ancora vittime dell’oppres-sione familiare, paterna?

Poi l’altra sera in televisione ho visto coi miei occhi esentito con le mie orecchie giovani donne islamicheche in questo paese sono nate e ne parlano perfetta-mente la lingua, le quali donne avvolte nei loro niqab echador argomentavano in perfetto stile retorico occi-dentale la loro scelta. Erano donne istruite, ripeto; par-lavano un ottimo inglese, e rivendicavano il principiofondamentale del free-will. Nessuno le obbligava, lorovolevano, fortemente volevano, portare quel velo. Ilfree-will non è la pietra angolare della grande culturaanglosassone? E dunque?

Non si può non dare loro ragione. Sarà anche, comequalcuno ha detto, un narcisismo banale, il “narcisismodelle piccole differenze”, ma chi può proibire a qualcu-no di mettersi in testa quella cosa lì, piuttosto che un’al-

tra? Sarà pure, la loro, l’ostentazio-ne quasi sacrilega di un simbolo,ma si può, in nome della propria in-sofferenza, del proprio disagio emalessere, proibire a un altro un ge-sto, solo perché appunto a noi pro-voca quel sentimento?

A me, che insegno all’università,danno un lieve senso di vertigine lemolte ragazze che si presentano afare l’esame con l’orecchino infil-zato nella lingua, un altro nel so-pracciglio e un tatuaggio sull’orec-chio. Anche in quel caso trovo che

il volto sia manipolato in modo sconveniente. Ma nonmi sono mai rifiutata di ascoltarle. E se sono preparate,alla fine non importa.

È più o meno quel che sostenevano le donne muslimin televisione: dovete accettare le nostre scelte, perchésono scelte. E a questo vocabolario — della scelta, dellalibertà personale — non potete opporre la sensibilitàdell’apparato emotivo. Straw o chi per lui dovrà farsipassare il tremito e lo sconcerto e accettarci come noi civogliamo, dicevano quelle donne. A parlare così eranodonne velate, ma occidentali, ripeto. E io occidentalequanto loro non posso certo rinunciare a un principioche tutela la mia libertà per attaccare in loro un costu-me che non approvo.

Però a quelle donne una domanda io l’avrei fatta:quando vi mettete il burqa o il niqab o il chador comefosse un’acconciatura che vi aggrada più di altre, o chevi serve per distinguervi dalle altre, che saremmo noi, ledonne occidentali che fanno a meno di una protezionecosì invasiva del pudore, alle donne muslim come voi,che vivono in Pakistan, in Iran, non ci pensate?

NADIA FUSINI

‘‘

‘‘Orhan PamukCerto che il fatto di trasformare il problema del velo

in un simbolo, in un gioco politico, ha reso più infelici le nostreragazze... Se non diamo un’istruzione alle donne che indossano

il velo e le emarginiamo, mentre portiamo in palmo di manoquelle che si spogliano, non umiliamo così la loro dignità?

Da NEVE Einaudi Editore

Repubblica Nazionale

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la memoria

fetto-domino negli Stati satellite dell’Est:era preoccupato di non fare la fine diTrotzkij».

In Occidente se ne sa tuttora pochissimo.Fino al crollo del comunismo, parlarne eraproibito anche in Urss. Ma la verità è cheKrusciov decise infine di invadere l’Unghe-ria per salvarsi. E che per farlo decise di sa-crificare quello che sarebbe diventato il ter-zultimo leader sovietico: Yurij Andropov, al-lora capo del Kgb in Ungheria. «Tra l’1 e il 3novembre», spiega Kiraly, «il Cremlino co-strinse Andropov a visitare più volte Nagy.Era chiaro che prendeva tempo, per con-sentire ai carri armati di accerchiare la capi-tale. La missione ufficiale di Andropov, percontro di Krusciov, era rassicurare Nagy sulfatto che l’Urss era il suo miglior alleato e cheMosca si preparava a reagire solo davanti adaltre provocazioni. Ciò che Andropov nonsapeva, e che mi è stato confidato recente-mente da un ex ufficiale del Kgb, è che ilCremlino sperava che la provocazione fos-se proprio l’arresto di Andropov, o meglio ilsuo omicidio da parte degli insorti». Il piano,per la mite prudenza di Nagy, fallì. A com-plicare le cose, il primo novembre, giunseanche la proclamazione di neutralità del-l’Ungheria. «Dissi a Nagy», ricorda il genera-le, «che se fossimo rimasti nel Patto di Var-savia, un attacco da parte della potenza-gui-da dell’alleanza sarebbe stato consideratodall’Occidente una lite in famiglia. Solo lanostra neutralità avrebbe conferito all’inva-sione sovietica il profilo dell’aggressione.Purtroppo all’alba del 4 novembre arrivò lafamosa dichiarazione di Nagy alla radio».

Quella trasmissione rimane un mistero.L’ultimo assalto russo era già partito. Ilpremier ungherese, prossimo ad esseresostituito dal traditore Kadar, disse: «Le di-visioni sovietiche attaccano la capitale conl’obbiettivo di destituire il governo demo-cratico. Ma il governo è al suo posto e il no-stro esercito combatte». Si nasconde inqueste storiche parole la ragione per cui laresistenza ungherese fu meno determina-ta che in ottobre. «Nagy mi aveva avvisatoche stava trattando con Krusciov un se-condo armistizio. L’ordine era quello dievitare nuovi bagni di sangue. Accettò l’a-silo politico nell’ambasciata jugoslavanella convinzione di andare ad una media-zione più forte, dall’interno di uno Statoemancipato del blocco socialista. Noi at-tendevamo invano un ordine d’attacco,ormai inutile. Nagy comprese tardi di es-sere caduto nella trappola di Tito».

Bela Kiraly, come soldato, ha molti rim-pianti. L’appoggio americano nei primigiorni della rivoluzione, un intervento me-no ipocrita dell’Europa e delle Nazioni Uni-te, avrebbero costretto Mosca alla trattativa.Ai rimpianti del militare non corrispondonoperò le recriminazioni del dissidente: «Hopassato una vita da perseguitato», aggiungeal momento del congedo, «o in fuga. Però,per due settimane, ho lottato per i miei idea-li di libertà. Oggi sappiamo che senza Buda-pest non ci sarebbero state Praga, Danzica eBerlino. Il 4 novembre 1956 Mosca capì cheil bolscevismo era finito. Che il comunismo,senza la paura, avrebbe avuto un’agoniabreve. Significa che quel giorno avevo vintoio. Ed Imre Nagy: nessuno ricorda che, con-dannato a morte, rifiutò la grazia di Kadar. InUngheria era già stato scatenato il terrore.Rifiutò per condividere il destino del popo-lo. E per dirci che la nuova battaglia sarebbestata contro la paura».

Storia vissutaSono pochi i protagonisti e i testimoni ancora in vitadei “fatti d’Ungheria” di cinquant’anni fa,la rivolta popolare contro il regime comunistae la successiva invasione sovietica. Abbiamorintracciato e intervistato due di loro: un capomilitare e un adolescente mandato allo sbaraglio

Il soldato.Solo i tankci rubarono la vittoria

BUDAPEST

«È un errore storico affer-mare che in Ungheria,mezzo secolo fa, la primarivoluzione contro l’im-

pero sovietico fu sconfitta. La verità è che aBudapest la rivoluzione, tra il 23 e il 30 otto-bre, ottenne la vittoria. I rivoluzionari, fra il31 ottobre e il 4 novembre, persero invece laguerra contro l’Urss. È tempo di aggiornarei termini. Gli insorti ungheresi, abbandona-ti dalla comunità internazionale, furonoschiacciati da sedici divisioni e duemila car-ri armati dell’Armata Rossa. Solo nel 1944,con lo sbarco in Normandia, si era mosso unesercito simile. Nel 1956 l’Ungheria perse lasua guerra d’indipendenza: ma per il bol-scevismo fu l’inizio della fine».

Il colonnello Bela Kiraly è un tragico eroesoldato. È nato la notte in cui affondò il Ti-tanic. Ha diretto l’accademia militare na-zionale. I comunisti lo hanno condannatoa morte due volte. Durante l’insurrezionedi Budapest, fuggito da un ospedale, hafondato e comandato la Guardia naziona-le del primo ministro Imre Nagy. Per duesettimane ha difeso la capitale dall’eserci-to sovietico. Fuggito in Austria, riparato inAmerica, ha potuto rimettere piede in pa-tria solo trentatrè anni dopo. «Sono torna-to nel 1989», ricorda, «per il funerale diNagy, a trentuno anni dalla sua fucilazio-ne. Solo quel giorno, da vecchio, ho visto ilPaese che sognavo da ragazzo». Bela Kiralyoggi ha 95 anni. Conserva il fisico possen-te degli ufficiali austroungarici e non na-sconde la simpatia per la famiglia Savoia.

La sua casa spartana, in un giardino dimeli alla periferia di Buda, è una sorta di ar-chivio della storia ungherese. Per tornarecon la memoria agli ideologizzati “fattid’Ungheria”, pretende di vedere il fondo didue birre da un litro. «Il fatto è», sorride, «chequella rivolta è diventata il simbolo politicodi un’epoca, la culla della Guerra Fredda.Fino ad oggi è stata analizzata da angolatu-re di partito. I fatti, intendo le azioni con-crete di chi in quei giorni ha combattuto suidue fronti, si sono persi di vista».

Mentre parla disegna nell’aria, con lamani grandi come pale, il profilo di un fun-go atomico. Vuole dire che dopo la “vitto-riosa rivoluzione nazionale”, la guerracontro Mosca fu perduta per la “sindromedi Hiroshima”. «Il primo novembre», rac-conta, «una giornalista americana mi dis-se: “Generale, mi dia la richiesta di un in-tervento armato dell’Occidente e io lopubblicherò sulla prima pagina del NewYork Times”. Le dissi che era una preroga-tiva del primo ministro, di Imre Nagy, chese fosse scoppiata una guerra atomica i pri-mi a bruciare saremmo stati noi. Mi rispo-se che non era tempo di fare filosofia. Ilgiorno dopo l’appello uscì in un trafilettodella terza pagina. Nel gennaio del 1957, adHarvard, i professori americani mi confer-marono che la Casa Bianca era stata fer-mata dall’incubo nucleare».

Da vecchio ufficiale, la sua visione dellarivolta resta fedele a considerazioni di for-za. Ricorda che nel corso dei drammaticicolloqui con Nagy, di cui era il consiglieremilitare, i «fattori decisivi» del Novecentofurono valutati con attenzione. La Primaguerra mondiale, pensava il leader chesfidò il Cremlino, era stata risolta dalle ar-

GIAMPAOLO VISETTI

38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 22OTTOBRE 2006

A 95 anni il colonnelloBela Kiraly,

comandante dellaGuardia nazionale,resta un eroe tragico

mi chimiche. La Seconda, dal terrore ato-mico. Nel 1956 Nagy sapeva che l’Urssconservava un vantaggio bellico sostan-ziale sugli Usa, in fatto di armi convenzio-nali. In ventiquattr’ore l’Armata Rossaavrebbe potuto entrare a Parigi. «Per que-sto», rivela oggi Kiraly, «Nagy infine si con-vinse che, per salvare l’Ungheria, l’Occi-dente sarebbe stato costretto a riutilizzarela bomba atomica. La sua attesa, interpre-tata come confusa ed ingenua indecisione,fu in realtà innescata dalla scelta di salvareil mondo dalla catastrofe».

È chiaro che Kiraly, autore di un ricchissi-mo volume «sulla rivoluzione ungherese esulla guerra contro l’Urss», ha letto quasitutto ciò che si è scritto sul 1956. Socchiu-dendo gli occhi, quasi a valutare in anticipol’effetto di inedite rivelazioni, si ostina peròa ritornare tra le strade sconvolte di Buda-pest con l’incosciente idealismo degli stu-denti insorti. Come se ciò che avvenne pri-ma e dopo, o in quei giorni lontano dal Da-nubio, fosse in realtà ininfluente, buono infondo per fumosi dibattiti politici, o diplo-matici. «C’era solo un insopprimibile odioverso l’Unione Sovietica», ricorda. «Dal1948 montava la voglia di democrazia, dielezioni libere e di indipendenza. Nagy, co-me il polacco Gomulka, pensava di poterriformare il bolscevismo. Ma il 24 ottobre fuil sangue dei ragazzi uccisi nell’assalto allatelevisione, a scatenare la folla. La rivoluzio-ne montò di ora in ora, in modo sconnesso einconsapevole. Nessuno aveva un piano, fi-no al giorno prima nessuno ci aveva pensa-to. È accaduto per la rabbia folle dei giovani,i soli a rischiare la vita per cambiare. Nagy,inizialmente, è stato trascinato in battagliaper scongiurare una guerra civile».

Anche lo scoppio della guerra, ossia l’in-tervento armato sovietico, secondo Kiralynon fu dettato da meditate considerazionistrategiche. A Mosca la leadership di NikitaKrusciov, tre anni dopo la morte di Stalin epochi mesi dopo lo storico XX Congresso delPcus, era debole. Sedata l’insurrezione po-lacca, il Cremlino era deciso a «cuocere len-tamente» Nagy. «Un insuccesso a Budape-st», racconta Kiraly, «avrebbe sancito la finedi Krusciov. Il generale Malashenko, co-mandante delle truppe che invasero l’Un-gheria, nel 2002 mi ha confidato che ancorauna volta la molla scattò casualmente. Il 25ottobre, il giorno più sanguinoso, con lastrage davanti al Parlamento, i servizi segre-ti russi videro i loro soldati che fraternizza-vano con gli insorti. L’indomani giunsero aMosca le immagini dei funzionari comuni-sti impiccati per i piedi e presi a calci in piaz-za. Krusciov ebbe paura e convocò Mala-shenko in segreto. Gli chiese se il virus dellalibertà e della violenza poteva contagiare laRussia. Temeva una congiura di palazzo daparte di Molotov e Kaganovic. Così gli or-dinò di “creare le condizioni per decisionipersonali”. Krusciov non pensava ad un ef-

Repubblica Nazionale

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Jozsef Barna, all’epoca diciassettenne, volevacombattere: “Mio padre mi diede una sberlae mi disse: non servono altri morti, vai a servirela patria in ospedale”. Così fece la rivoluzionein corsia, dove “era peggio che in strada:una bolgia di mutilati, urla, puzza di disinfettante”

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 22OTTOBRE 2006

NELLE VIE DI BUDAPESTNelle foto, immagini storiche

della rivoluzione ungherese

dell’ottobre-novembre 1956

A destra, Jozsef Barna

nel Natale del 1956,

poco prima della fuga

In basso, il suo biglietto

ferroviario da Budapest

al villaggio presso

il confine austriaco

mento, corri più che puoi. Rivedo tutto: ilghiaccio che si rompe, ci fa sprofondare, ilcartello “Achtung, a 500 metri confine di Sta-to, traversare solo con documenti”, e noi cheurliamo siiii, i documenti li abbiamooo, e viacome lepri, ormai non ci fermava nessuno,è incredibile quanta energia può esserci inun uomo in fuga».

Barna si accende una sigaretta, apre unpacchetto, mostra un paio di scarpe nere colsalvapunte in ferro. «Ecco, ero con queste,da allora le lucido ogni Natale. Mi hanno da-to la libertà. Conservo tutto, anche il bigliet-to del treno, eccolo qua, ha il timbro con ladata». Il film continua. «Sotto la neve c’era-no fili di ferro, messi di traverso per farci ca-dere, inciampai, caddi a pancia in giù, colnaso su una grossa ghianda. Mi venne qua-si da ridere, la misi in tasca, sentivo che sa-rebbe stata il mio portafortuna. Eccola qui»,dice mostrandola, «da allora non l’ho lascia-ta mai. Che vuoi, amico, la vita è un teatro.C’è l’entrata in scena e c’è l’uscita di scena.C’è chi è buon attore e chi no. E a volte il de-stino è questione di minuti».

La corsa continua fino a un bosco, i quattrosentono colpi d’accetta di un taglialegna, ve-dono un omone alto, gli chiedono dove co-

mincia l’Austria. Lui risponde inungherese, i ragazzi si sentonoperduti, e invece no, sono salvi, luisa la lingua perché il Burgenland èstato Ungheria fino a quarant’anniprima, ai tempi di Cecco Beppe. «Icontadini ci aiutarono, ci diederoda mangiare, ci misero a dormire neifienili. Sbucavano fuggiaschi dap-pertutto. In due mesi se n’erano an-dati in duecentomila, era una classedirigente che spariva dal Paese».

«Quelli che rimasero non ebberogioventù. Li rividi, alcuni di loro, annidopo. Erano diventati un nuovo tipoumano: grigio, spaventato, obbe-diente, acritico, eterodiretto, incapa-ce di azione autonoma, insuperabilesolo nel mascherare le emozioni e nelparlare in modo obliquo. Oggi molti diessi brontolano che si stava meglio pri-ma… Tanti ungheresi lo fanno, da bra-vi mitteleuropei. Sa, in tutti noi c’è unpo’ di Kafka, siamo specialisti nel guar-dare con speranza al… passato».

«Ci iscrivemmo al liceo, imparammo il te-desco, le nostre classi fecero fortuna, alcunirimasero in Austria, altri andarono in Au-stralia, Canada, Belgio. Uno fece in tempo aentrare nell’armata americana e morire inVietnam. Mi sposai con Getraude, un’au-striaca di Vienna, e solo attraverso di lei po-tei tenere i contatti con i miei; lei aveva pas-saporto occidentale, poteva passare. Io no,ero rimasto sulla lista nera».

«Quando finalmente tornai, nel ‘67, avevopiù paura che nel ‘57. Ero cittadino austriaco,ma la polizia segreta aveva la memoria lunga,poteva farmi sparire come niente. Aveva fat-to sparire migliaia di ungheresi… So di unadonna che scappò in Australia con una dellebandiere della rivolta e la lista, importantissi-ma, dei combattenti in piazza Korvin, la piùtremenda. Ebbene, la seguirono fino agli an-tipodi, le misero dietro spie. Persino l’uomoche la sposò e le diede dei figli si rivelò unaspia… Fu mostruoso… La perseguitarono fi-no agli anni Ottanta, le spararono, rimase in-valida, ma non svelò nulla. Aspettò la fine delregime, poi donò tutto al Museo della rivolu-zione. Difficile capire cosa fu davvero il co-munismo, se non ci sei stato dentro».

VIENNA

«All’ospedale c’era un ra-gazzo che suonava l’ar-monica. Una bomba gliaveva amputato le gam-

be e un braccio, ma lui suonava lo stesso nelsuo lettino, con la mano rimasta. Fuori spara-vano, e lui teneva su il morale. Budapest ‘56 eraquesto: coraggio e disperazione. Avevo 17 an-ni, mi ero offerto come barelliere, ma in corsiaera peggio che per strada contro i panzer. Lì fi-niva l’eroismo e cominciava il dolore. Entraviin una bolgia di mutilati, urla, puzza di disin-fettante, vomito e sangue. Era l’inferno, il luo-go dove la rivoluzione presentava il conto».

Jozsef Barna, classe 1939, specialista in tec-nologia bio-alimentare, è in Austria dal gen-naio ’57, profugo della libertà. Se non fossescappato, il Grande Freddo gli avrebbe ruba-to la gioventù. Appartiene alla fantastica ge-nerazione del ‘56, gente pronta a tutto, che hamostrato al mondo i piedi d’argilla del regi-me. Senza uomini come lui forse il comuni-smo sarebbe durato più a lungo. Oggi i ragaz-zi del ‘56 hanno gli stessi occhi affamati di vi-ta di allora: come quelli del ‘44 a Varsavia, in-domiti e soli contro Hitler e Stalin. Ti raccon-tano un film in bianco e nero, con la colonnasonora consumata dai fruscii. Ma quel vec-chio film ha solo cinquant’anni.

Come è cominciata, signor Barna? Sorride:«È cominciata con Cicikov». Cioè? «Cicikovera il nomignolo dei russi, come dire Fritz peri tedeschi. A scuola ci sfinivano col fatto che irussi erano i primi in tutto, fisica, matemati-ca, geografia, e così, quando un giorno il pro-fessore ci chiese chi aveva scoperto la legge digravità, noi si disse Cicikov, tutti insieme, avoce alta. Si era rotta una diga. Il professore fuarrestato, ma la doppia “ci” cominciò a circo-lare. “Ci ci ci” nei tram, nei corridoi, nelle stra-de. “Ci ci ci”, era il passaparola, il tam-tam. Lagente non aveva più paura, “ci ci ci”, sembra-va che il regime potesse crollare a risate. Il 23ottobre la rivoluzione arrivò così».

«La polizia sparò, vidi i morti per strada, ne-gli androni, nei portoni. La gente si radunava,il generale Maleter aveva schierato l’esercitocon noi. Capii che era un momento storico.Potevamo uscire dall’incubo, dalle delazio-ni, dagli spioni, dai processi sommari. Corsi acasa, gridai: “Papà, il tempo è venuto, devocombattere anch’io!”. Sapevo esattamentecosa fare, a scuola avevamo avuto tutti un’e-ducazione paramilitare. Lui mi guardò e midiede una sberla, l’unica della sua vita. Era unuomo distrutto, gli avevano tolto il lavoro,l’assistenza medica, tutto. Viveva solo graziea mia madre, medico radioterapista. Ma dis-se: “Non servono altri morti, vai a servire lapatria in ospedale”».

Non sapeva, il papà, che in corsia sareb-be stato ancora peggio. Jozsef obbedisce. Loprendono in chirurgia d’urgenza ad asciu-gare sangue, chiudere ferite, lavare i morti,stivarli in cantina. «Se qualcuno era senzasperanza mi dicevano: “Stagli vicino finchémuore”. Mi ricordo, uno s’era addormenta-to sulla canna del fucile e un colpo gli avevatrapassato il cranio. Vidi cose che credevoimpossibili, vivevo in un lazzaretto del Set-tecento al tempo della peste. Mio fratelloPeter era con me, ma crollò dopo un giornosolo. In astanteria arrivava di tutto, rivolto-si, civili, soldati russi, e i medici non faceva-no differenze, dicevano che lì dentro tuttierano uguali».

PAOLO RUMIZ La voglia di rivolta,il lavoro con i feriti,

poi la fugarocambolesca

verso Vienna e la libertà

«Studenti della facoltà di medicina diVienna vennero per darci una mano, porta-rono medicine, perché ormai operavamosenza anestetico, amputavamo ubriacandoi pazienti con alcol e zucchero. Vivevamoquel grandioso momento senza poter com-battere, degli eventi ci arrivava un’eco lon-tana dai racconti spezzati dei feriti, brandel-li di radiogiornale, tuoni di cannonate versoil Danubio. Seguimmo così la rivolta d’Un-gheria, al chiuso, e fu tremendo. I roghi, leesecuzioni, le statue abbattute, gli assalticon le molotov, l’onda di speranza, l’illusio-ne della vittoria, il tradimento di Kadar».

Il 3 novembre arriva lanotizia della vittoria, im-provvisamente smetto-no di affluire feriti, ma inospedale nessuno fa fe-sta, c’è solo una monta-gna di insonnia da smal-tire. Qualche vecchioavverte: “Attenti, non èfinita”. E difatti la festadura un giorno solo, lacittà si riempie di pan-zer, la speranza muo-re. I medici che hannotrattato tutti allo stes-so modo, russi e un-gheresi, comunisti eanticomunisti, sonoarrestati. «I funziona-ri di partito non vole-vano essere egualiagli altri. Volevanotrattamenti privile-giati, e denunciaro-no i dottori. Così irussi li portarono via. Un’infermierami urlò: “Vai via, o porteranno via anche te”.Ma io rimasi».

«Continuai a lavorare in ospedale fino aNatale, ma nulla aveva più senso. Solo allo-ra papà mi disse: “Adesso puoi andare”. Miaccordai con due ragazzi e una ragazza, leiaveva appena 14 anni. L’Austria era dietrol’angolo. Prendemmo il treno per una loca-lità vicina, Erdliget, per non insospettire lapolizia, ma andammo oltre. La stazione diCeldomolk era piena di soldati, più andaviverso Ovest e più ce n’erano. Ogni sospettoveniva controllato, ma noi recitavamo da at-tori consumati, portavamo le sporte deicontadini sul treno, e i contadini stavano algioco, ridevano con noi come vecchi amici.La polizia non si insospettì».

Le colline verso Koezseg, il villaggio di Ol-mod, neve bagnata, ghiaccio. Oltre c’è Klo-stermarienberg. I russi hanno i cani, ma i ca-ni non fiutano nulla, il vento soffia dall’Au-stria. «Puntammo su un ruscello incassato,stando bassi potevamo passare. Calcolam-mo il tempo del passaggio delle pattuglie, c’e-ra una finestra di due minuti dove infilarsi. Vi-vevamo in un film, non c’era quasi paura.Corri Barna, mi dissi quando venne il mo-

Lo studente.Noi,ragazzi di Budapest’56

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Repubblica Nazionale

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Sant’Ambrogio racconta che dopo aver prelevato un cucciolo di tigre i caccia-tori lanciarono una palla di vetro alla madre che li inseguiva. La tigre, veden-dosi riflessa nella sfera, prese la propria immagine rimpicciolita per quella delcucciolo oramai perduto e si fermò a giocare con essa. Fallimur imagine: sia-mo ingannati dall’immagine; un innamorato teneva l’immagine della tigre vi-cino a un ritratto della donna amata e lontana, con il motto Te pietas, me fallit

amor: a te ha ingannato la tenerezza di madre, a me l’amore.Si dice inoltre che Minosse avesse disposto nel labirinto di Cnosso alcuni specchi per

confondere ulteriormente il visitatore, e che tali specchi, riflettendo il cielo, inducevanoin errore gli uccelli, che vi si andavano a scontrare (secondo il fenomeno a cui si allude an-cora oggi quando si parla di «specchietto per le allodole»). Quando si parla di verità spec-chiate bisogna dunque stare attenti. Lo specchio è sincero solo quando lo usiamo consa-pevolmente, e nei giusti modi, e anche quando dice la verità non la dice tutta.

Videmus nunc per speculum in aenigmate, dice Paolo nella sua Prima lettera ai Corin-ti: lo specchio consente di vedere qualcosa e impedisce di vedere altro, per esempio ri-solve l’enigma stordente della propria immagine esteriore ma in qualche modo lo accre-sce. Tic metropolitano: signore e signorine — oggi anche signori — camminano sui mar-ciapiedi delle città e si specchiano in ogni vetrina, come se non fosse mai possibile esseredavvero certi delle proprie sembianze, e del loro ordine. La verità dello specchio è istan-tanea e fugace, basta un batter d’occhio e l’immagine sparisce, ritorna cambiata: la ne-vrosi della regina malvagia di Biancaneve è nella caducità del responso dello specchio. Al-lo specchio si chiede prima: «davvero?»; e poi: «ancora?».

Ancora da questa parte dello specchio Alice si chiede: chissà se anche nella stanza ri-specchiata il corridoio prosegue come nella mia casa, chissà se il fuoco nel camino scal-da, chissà se il latte sarà altrettanto buono. Le sue avventure incominciano con queste do-mande che si pone mentre guarda lo specchio in compagnia della gatta: gatta che proba-

bilmente non se le è poste affatto. In al-cuni video in mostra a Genova (Spec-chi. Scienza e Coscienza dello Specchio;Palazzo della Borsa, apertura il 26 ot-tobre) si può osservare il comporta-mento di alcuni animali posti davantia uno specchio dopo aver loro mac-chiata la fronte con un po’ di colore. Igatti non reagiscono minimamente,quello dello specchio è un altro gatto.Alcune scimmie, invece, si toccano lafronte per pulirsi la macchia: segnoche hanno un’immagine di sé (e un’i-dea del funzionamento degli specchi).

A cosa pensano le donne fotografa-te da Scianna? Quelle che si specchia-no, e non sono semplicemente ripre-se attraverso uno specchio, hannosempre l’aria di chiedersi chi ci sia dal-l’altra parte dello specchio, e cosa fac-cia. La differenza con Alice è che men-tre noi conosciamo in via diretta il no-stro camino, il corridoio e il gusto dellatte, non abbiamo altro modo chenon sia lo specchio (o, certo, la foto-grafia medesima) per conoscere il no-stro naso, la nostra carnagione, i den-ti, gli occhi, le rughe: la domanda di-venta molto più radicale. Del resto,per Jacques Lacan lo «stadio dello

specchio» è il momento assieme gioioso e traumatico in cui il bambino — che ha del pro-prio corpo un’idea non unitaria ma frammentata — si vede come riassunto, dispiegatoin un’immagine che è però esterna, e che da quel momento costituirà una sorta di idea-le appunto immaginario per il soggetto.

Lo specchio dunque può ingannare anche nel suo impiego più semplice e apparente-mente innocuo: quando lo si usa per guardarsi frontalmente. «Io è un altro», ha procla-mato Rimbaud; e non poteva conoscere l’immortale scena di La guerra lampodei fratel-li Marx in cui Harpo, dopo aver infranto lo specchio, resta dietro alla cornice, e per non far-si sorprendere dall’accorrente Groucho finge di esserne l’immagine riflessa (scena poiomaggiata di una citazione da Roberto Benigni, in Johnny Stecchino). Né Film di SamuelBeckett, in cui un tutt’altro che esilarante Buster Keaton fugge dalla propria immagine.

L’altro dello specchio può ora anche essere un sé stesso del passato. La condanna al-la simultaneità ha cominciato a incrinarsi: sempre alla mostra genovese saranno pre-sentati i prototipi dello “Specchio in ritardo”, in cui un software consente di vedere lapropria immagine di alcuni secondi prima (utile, per esempio, per considerare comecade un abito, dietro).

Tanto più lo specchio potrà dare risultati ambigui, ingannevoli, e anche artisticiquando non sarà più rivolto frontalmente, per osservare il proprio volto, ma obliqua-mente, per allargare l’orizzonte della visione in modo periscopico: caso più comune,lo specchietto retrovisore, che risolve con semplicità l’aspirazione umana agli “occhidietro la nuca” (potendo indurre in errore per la presenza di angoli ciechi e per la per-dita di profondità).

Macchina decisamente spaventosa lo specchio diventa quando si rivolge contro sémedesima, procurando una fuga vertiginosa (i francesi la chiamano en abyme, inabisso) di immagini virtuali in cui è meno possibile ritrovarsi che nel labirinto di Cnos-so. È diventato celebre l’aforisma borgesiano che dichiara congiuntamente abomi-nevoli specchi e copule, perché moltiplicano il numero degli uomini: un aforisma cherende una idea stranamente meccanica della procreazione, che paragonata alla spe-cularità diventa una sorta di clonazione. Fuori dall’alone borgesiano, la citazione ri-sulta utile — almeno per quel che riguarda gli specchi — perché introduce la diffi-denza nei confronti della moltiplicazione: l’uguale è illusorio, il simile è già altro, e laripetizione portata all’estremo dalla fuga degli specchi è un abisso.

Tutti usano cautela con gli specchi, per non romperli. Ma quanti anni di guai pro-cura uno specchio intatto?

l’immagineScatti d’autore

Volti di uomini, bambini e donne riflessi nelle magichelastre, volti che si rincorrono in una serie di fotografiein bianco e nero che Ferdinando Scianna ha collezionatoin trent’anni di lavoro. Il risultato è ora una mostrache moltiplica gli sguardi dei protagonisti e spingechi osserva a interrogarsi su ciò che siamo e ciò che eravamo

40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 22OTTOBRE 2006

La verità che si proiettaè istantanea, fugace,

basta girarsie tutto sparisce

Può ingannare anchenel suo impiego

più semplice e innocuo,chi guarda vede

solo una parte di sé...Lo dimostrano perfino

Alice e la reginadi Biancaneve

Le nostre viteal di là

dello specchioSTEFANO BARTEZZAGHI

Repubblica Nazionale

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DAVANTI ALL’OBIETTIVOIl ragazzo con lo specchioè stato fotografato in strada

da Scianna a Napoli nel 1992

Nell’altra pagina

(in alto da sinistra): ragazziin palestra a Benares(India, 1997), accanto, Siviglia(Spagna) 1995. Sotto:

la ragazzina allo specchio(Roma, 1999), e in basso,

Sul treno in Sicilia, 1991,

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 22OTTOBRE 2006

Un antidoto contro la nevrosi. C’èchi per combatterla va dallo psi-canalista. Qualcun altro, privile-

giato, ha la fortuna di curarsi con il lavo-ro. Ferdinando Scianna è così. Foto-grafo di Bagheria, noto in tutto il mon-do, da quando aveva diciotto anni ritraeossessivamente specchi. E consideran-do che ora di anni ne ha più di sessanta,di queste magiche lastre di vetro metal-lizzato deve averne immortalate parec-chie. «Ci si specchia dappertutto e inqualsiasi condizione», spiega Scianna,«e per chi fa il mio mestiere il legame èancora più forte. Non a caso una delleprime definizioni della fotografia èquella di specchio della memoria». Inpiù lo specchio è democratico: guarda-re la propria immagine è permesso atutti e non costa niente.

Per riordinare la sua opera realizzatain trent’anni, vagando tra diciotto na-zioni diverse, Scianna ha messo insie-me una serie di venti immagini ineditee legate al tema del riflesso di se stessi. Ilrisultato è una mostra: Specchio dellemie brame (alla Galleria Antonia Janno-ne di Milano dal 27 ottobre al 30 no-vembre). Nella raccolta le immagini so-no in bianco e nero, forma d’espressio-ne preferita dal fotografo siciliano. Per ilresto non c’è una regola. Bambini, don-ne nude e vestite, scene di strada e in-terni. «Gli specchi di Scianna moltipli-cano, disordinano, interrogano, spie-gano qualcosa che forse è già nei nostriocchi e nel nostro cuore», scrive ToniServillo che della mostra ha curato i te-sti, «non s’impongono al nostro mododi guardare e ci regalano l’entusiasmodella scoperta».

«Io sono un fotografo di strada: me-stiere che, esattamente come quello dicerte signore, è il più antico del mondo»,dice Scianna, «e il mio concetto di stra-da è lo stesso che ho della vita perché inentrambe s’incontra di tutto». Ma c’è dipiù. L’esercizio della fotografia può di-ventare un’ossessione, esattamentecome in alcuni eccessi il dormire e ilmangiare. E anche lo specchio, fattoredi risveglio di follie più o meno latenti, èun insidioso complice. «Bisogna farneun uso morigerato», chiarisce il foto-grafo, «altrimenti si finisce come quelmito antico, Narciso, che è annegatocercando di prendere l’immagine checredeva di un altro e invece era di sestesso».

Vedendo le foto della mostra ci s’in-terroga se può essere già stregata dallapropria immagine la bimba che, ritrat-ta a Roma nel ‘99, si guarda sgranandogli occhi; o quante volte si è rimirata lasposa napoletana, vestita di bianco ver-ginale, prima di uscire di casa; o ancorachi sta cercando, il suo compagno o sestessa riflessa, la ragazza immortalatain un ristorante napoletano. Sono lon-tani dalle fissazioni legate al mondo delfitness e della magrezza a tutti i costi i ra-gazzi indiani che con rudimentali pesi siallenano in una palestra di Benares. Di-stratti da tutto, tranne che dallo sguar-do dell’altro, appaiono i due innamora-ti che si abbracciano in un vecchio tre-no siciliano.

Ma lui, Scianna, perché dagli specchiè così incuriosito? «Sono il mistero deimisteri, qualcosa che a nostra insaputa,e anche dopo la nostra morte, si ostina aduplicarci e a duplicare il mondo che cicirconda. In qualche modo è come se lospecchio rilasciasse, a chi ricerca la pro-pria immagine riflessa, un certificato divita». Mutevole e onesto, lo specchioogni volta che lo guardiamo ci ricordachi siamo. Mette a nudo le nostre pauremalcelate e i desideri insoddisfatti. Alui, non si può mentire.

IRENE MARIA SCALISE

“Così ho esploratola duplicazione”

Le foto a Milano dal 27 ottobre

Repubblica Nazionale

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i luoghiViaggi di carta

Una rassegnadi blasoni industriali,della nuova araldicaborghese che fiorìtra fine Ottocentoe inizio Novecento

I SIMBOLIA centro pagina:

il gruppo appenninico

del Gran Sasso

(stampa del 1884)

Qui accanto:

l’etichetta

del Cordial Ginepro

(Brescia 1921),

il marchio della

Manifattura italiana

tessuti (1899)

e l’insetticida Polvere

Vulcano (1924)

In basso: altre

pubblicità

dell’epoca

Una singolare mostra alla Società geografica italianaricostruisce un’inedita storia per immagini dei nostri monti:centinaia di marchi aziendali - oggi si direbbe “loghi” -che usano Alpi e Appennini come testimonial commerciali

Per Dino Campana era «unpantheon aereo». Ugo Ojet-ti ci vide «un diamante ingrande». Il geologo HoraceDe Saussure fu estasiato dalsuo «mantello di neve». Il

suo fascino spinse regine in carica(Margherita di Savoia) e futuri papi(Achille Ratti, poi Pio XI) ad attrezzarsidi scarponi e alpenstock. La più hima-layana delle cime alpine, il Monte Rosa,per secoli ha parlato al cuore degli uo-mini, ispirando immagini elevate esoavi come il suo nome. Come diavolosarà venuto in mente allora ai signoriSciuri e Cattaneo, nel 1920, di prendereil profilo maestoso della seconda cimadelle Alpi, infilarlo in un ovale e farne ilmarchio (depositato registrato brevet-tato) del loro Thè Monte Rosa, il lassati-vo ideale? Azzardiamo associazioni diidee: il ghiacciaio che dolcemente sci-vola e si scioglie, o la forza irresistibileche spinge a valle e tritura anche le roc-ce più dure... Sul bancone della farma-cia questa versione scatologica del su-blime poteva anche funzionare. Ma lapoesia era ormai bell’e andata.

La conquista alpinistica delle Alpi sicompie in modo travolgente tra il 1800e il 1870. La loro metamorfosi commer-ciale segue di pochi decenni. Ecco tra iprimi il Cordial Bitter Monte Spluga,1901, e poi nel giro di qualche anno loSmalto Adamello, la Penna Monceni-sio, il Burro Cervino, la Caramella Mon-te Bianco, e ancora, ancora, per decine,centinaia di etichette, una corsa all’ac-caparramento del nome più prestigio-so, un’affannosa scalata mercantiledelle cime, una lotta a gomitate per is-sare in vetta prima degli altri la bandie-rina del proprio prodotto, escludendo-ne i concorrenti. Non stiamo parlandosolo dell’immagine della montagnanelle réclame d’inizio secolo: ma di co-me i monti italici divennero elementocostitutivo della stessa identità diaziende e prodotti, una volta inglobati

nei marchi commerciali ufficiali, quel-li che adesso si chiamano logo, che di-stinguono un’impresa o un prodottoda tutti gli altri e perciò vengono pro-tetti da severissime norme. In Italia unalegge di tutela dei marchi esiste fin dal1869. Ed è dall’archivio sterminato (ol-tre 172mila pezzi) di quei blasoni indu-striali, nuova araldica borghese, con-servati nell’Archivio centrale dello Sta-to ma solo oggi in parte catalogati e va-lorizzati, che la Società geografica ita-liana e l’Istituto nazionale della monta-gna hanno trovato le fonti di un’ineditastoria per immagini della montagnaitaliana. La storia di come la montagna,ultimo baluardo della natura assoluta,patrimonio indisponibile del genereumano, è diventata simbolo mercanti-le, e merce essa stessa.

Per la verità, quando questa storiainizia, la montagna non è più da secoliil luogo deserto e spaventoso, abitatoda mostri e demoni, l’antitesi orrida esublime della civiltà che qualche osti-nato romantico tenta ancora di veder-ci. Alla fine del Settecento le catenemontuose, almeno in Europa, sono ter-ritorio largamente antropizzato, fon-damento di economie e società un po’isolate ma ben vive e tutt’altro che sel-vagge. Fino a quel momento, però, lamontagna è dei montanari. Che la co-noscono, la sfruttano, la rispettano enon la cedono volentieri ai forestieri,neppure in prestito. I viaggiatori delGrand Tour, scendendo verso il paesedei limoni, affrettano il passo tra valliostili e valligiani poco ospitali. Del re-sto, i colti pellegrini dell’arte non vedo-no alcuna utilità in quei relitti tettoniciingombranti e pericolosi: «A cosa ser-vono le montagne? Se si potessero sop-primere cosa perderebbe la natura senon un peso che grava inutilmente sul-la terra?», sbottava a fine Seicento Gil-bert Burnet, vescovo di Salisbury.Montagne addomesticate, dunque,ma da un’economia locale e margina-le, addomesticate come tranquillemucche al pascolo; per il secolo indu-striale i monti rimanevano invece vuo-ti di senso, oggetti senza storia esclusidalla radiosa marcia verso il progresso.

Eppure Kant, geografo prima che fi-

losofo, aveva declamato: «Quanto sa-rebbe monotona la figura della terrasenza le montagne!». E Ruskin, estetadell’età delle macchine, aveva poi ri-preso: «Quelle desolate e minacciosecatene di scuri monti che l’uomo hasempre guardato con terrore sono, inverità, fonti di vita e di felicità». E final-mente tra le élite urbane qualcosa co-minciò a cambiare; nei circoli aristo-cratici, dai tavolini dei circoli dei nota-bili, qualcuno iniziò ad alzare lo sguar-do. Desiderio d’altitudine, mito dellesommità come metafora trasparentedel potere dell’uomo sul mondo. Con-quista del verticale da parte dei popoli“orizzontali” delle pianure. Ambizio-ne babelica di vicinanza al Cielo, nonpiù esclusiva dei mistici. Ascensioni alposto di ascesi: insomma, nacque l’al-pinismo.

Guardare il mondo dall’alto: è la vista

42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 22OTTOBRE 2006

MICHELE SMARGIASSI

E le scintillanti vettesi trasformarono in spot

Repubblica Nazionale

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Sono gli anni infantilidell’arte pubblicitariaL’incontro tra cimee immagine di marcacomincia con burro,formaggio, grappa...

sce. Ma le cartoline bisogna riceverleper posta, le riviste bisogna comprarlee sfogliarle. Le etichette dei prodotti diconsumo invece ci vengono incontrodagli scaffali della bottega. È nelle odo-rose drogherie dell’Italia giolittianache avviene la commodification, la tra-sformazione in merce dell’immaginedella montagna.

È un processo irruente, ingenuo, atratti divertente. In quegli anni d’infan-zia dell’arte pubblicitaria, i persuasorisono assai poco occulti. L’incontro framontagna e immagine di marca è faci-le, spontaneo. Del resto: «Su le dentatescintillanti vette / salta il camoscio,tuona la valanga», i primi versi del Pie-monte di Carducci, con tutto il rispetto,sembrano già un jingle da Carosello.Per prima cosa le cime fanno da testi-monial a prodotti che con la montagnahanno un rapporto evidente e materia-

l’organo predatorio dello scalatore.Montagne come balconi per il dominioattraverso lo sguardo. È l’età dei pano-rami. E della fotografia. E del coloniali-smo. Vittorio Sella, straordinario pio-niere fotografo di alta montagna, è del-la stirpe dei Sella, banchieri e statisti. Laconquista della montagna è l’opera-zione paramilitare della borghesia ur-bana risorgimentale. I turisti piccolo-borghesi arriveranno un po’ dopo. Mala strada è ormai aperta, le corde e iramponi dei pionieri rendono le mon-tagne accessibili ai foresti: meglio, con-sumabili. Prima di tutto, beni di consu-mo visuale. Il venditore di cartoline se-gue l’alpinista. Le riviste illustrate se-guono le cartoline. La montagna, pri-ma di essere praticata, aggredita, cal-pestata dalle pedule degliescursionisti, è logorata dagli sguardidesideranti di chi ancora non la cono-

le: formaggi, burro, liquori d’erbe,grappe, acque minerali, il surrogato dicaffè Cicoria delle Alpi. Poi vengono lesimilitudini sensoriali, visuali, tattili,olfattive: lo Smalto Bianco Adamello, lacrema per la pelle Neve Hybros, la Men-ta Glaciale Cinzano, la Liscivia Albinache ovviamente è «candida come la ne-ve». A un livello già più sofisticato, l’im-magine della montagna sollecita asso-ciazioni emotive con le virtù della sta-bilità e della forza (per i tessuti, adesempio), della purezza e della genui-nità (soprattutto per i prodotti che nedifettano, come il burro artificiale);quando è necessario, anche gli anima-li delle vette, l’aquila, lo stambecco, illupo, vengono scritturati per rafforzareil messaggio suggestivo, che in fondo èuno solo: la naturalità, virtù già perce-pita come carente nella moderna vitaurbana. Ma è sempre una naturalitàtranquilla e domata, s’intende. FiloSpagnoletta Sempione, tessuto Mada-polam Sempione: qui non è evocata lamontagna vergine, ma quella penetra-ta dal traforo, geografia dominata dallatecnologia.

In delicate litografie a colori, o inasciutte stilizzazioni monocrome, lemontagne dei marchi di fabbrica sonoquasi sempre riconoscibili, non gene-riche. Il secolo dell’alpinismo strappale vette dall’anonimato delle catene acui appartengono, le rende individui:dalla fine del Settecento tutte le cime siguadagnano un nome proprio. Graziealle immagini popolari, acquistanoora anche una fisionomia inconfondi-bile. Un Cervino se possibile ancorapiù acuminato nell’etichetta dell’Au-la, il marsala della vetta, le Dolomitischeggiate del Mugolio Dallari. Pernon parlare dei vulcani, casi particola-ri perché già in possesso di una solidatradizione iconografica, di un’indivi-dualità secolare. Sono infatti i marchidi fabbrica con le «montagne di fuoco»quelli che tendono precocemente ver-so la stilizzazione moderna. Per “dire”il Vesuvio in figura basta un triangolocon un pennacchio, come nel clichédegli utensili Vesuv.

Ma i vulcani sono montagne specia-li, “vive”, mitologiche, si prestano a

simboleggiare prodotti rudi e sulfurei:polveri insetticide, fertilizzanti, attrez-zi metallici. Per questo sono un’ecce-zione. Sono un’enclave meridionalenel catalogo quasi tutto nordico dellamontagna da vendere. Trionfo delle Al-pi, eclisse degli Appennini: le cime del-la spina dorsale peninsulare sono qua-si assenti dai marchi, e vengono convo-cate quasi esclusivamente come atte-stazione d’origine geografica, più cheper potenza simbolica. Non è solo undifetto di altitudine e imponenza. Lacorona alpina, alla fine dell’Ottocento,s’impone all’immaginario perché è giàin partenza un oggetto simbolico, ele-mento di una geografia ideologica e po-litica. Confine «naturale» della patria,dettano le maestrine dalla penna rossaai piccoli Garrone d’Italia. Pedagogianazionale su base orografica. Parados-so: l’identità nazionale di una penisolail cui profilo inconfondibile è ritagliatodal mare si concentra sulle cime inne-vate. Gli atlanti accentuano con vivi co-lori il rilievo del crinale nordico. Neisuoi marchi industriali, la borghesia ir-redentista mescola volentieri interessecommerciale e retorica dell’amor pa-trio. Eccole, guardatele, le montagnenostre, sentinelle dell’unità patriotti-ca. Esposte ad uso di chi, abitante diun’Italia mediterranea e lontana, nonle conosce ancora de visu. Alfabetizza-zione per immagini, che concorre es’integra con quella delle cartoline, del-le figurine, dei sussidiari. Sui banchi discuola gli alunni di un’Italia provincia-le imparano a familiarizzare con le lon-tane montagne «del nostro destino». Inattesa che, mutato il grembiulino con ladivisa, un sovrano di origini montana-re li spedisca a conoscerle di persona, averificare la solidità delle rocce nel fan-go delle trincee, a macchiar di sangue icandidi versanti di quelle dolci monta-gne di carta incontrate sulle bottigliedel liquore di papà, ora improvvisa-mente ritornate anonime, pure «quo-te» d’altitudine, e di nuovo come untempo ostili, feroci, insensate.

LA MOSTRA

La mostra Immaginidella montagna italiana: marchidi fabbrica, libri e cartegeografiche tra il 1869 e il 1930è promossa dall'Istituto

nazionale della montagna,

dalla Società geografica italiana

e dall'Archivio centrale

dello Stato. Dal 26 ottobre

al 5 novembre circa trecento

marchi commerciali

che includono immagini

di montagne saranno esposti

a Roma, nel Palazzetto Mattei

di Villa Celimontana,

via Navicella 12. Nei pannelli

della mostra i marchi di fabbrica

più rappresentativi saranno

messi a confronto

con le immagini cartografiche

e vedutistiche coeve delle stesse

montagne, provenienti

dal patrimonio documentario

della Società geografica italiana.

La mostra esemplifica come

l’immagine della montagna,

attraverso i marchi di fabbrica, si

sia diffusa nell’Italia postunitaria

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 22OTTOBRE 2006

MERCI IN VETRINANelle pagine una serie di marchi pubblicitari

che utilizzano come logo la montagna

Qui accanto (dall’alto in basso): l’estratto di pomodoro

Marca Piave (1924), la reclame del vermouth Ballor (1922),

Nevidor crema (1926), l’etichetta del liquore Strega (1901),

estratto di pomidoro Andreani Spera (1905)

e burro artificiale Fior d’Alpe (1923)

Repubblica Nazionale

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44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 22OTTOBRE 2006

Nel dicembre del 1836 la H.M. S. Beagle, con CharlesDarwin a bordo, raggiunsela Terra del Fuoco, nel re-moto australe delle Ameri-che, una regione conside-

rata desolata e maledetta da Dio e dagli uo-mini. Guardandola dalla nave, questa lan-da manteneva intatta la sua fama, circon-data dal mare più tempestoso del mondo.E la situazione non migliorò quando gli uo-mini dell’equipaggio insieme con lo scien-ziato inglese scesero a terra, dove ad atten-derli con aria truce — l’aggettivo è diDarwin, non mio — era schierato il popolopiù repellente e orribile che si potesse im-maginare. Darwin, al suo primo grandeviaggio (che rimarrà anche l’unico), dura-to cinque anni, rimase inorridito dall’a-spetto degli indios, che si dipingevanometà faccia con colori che li facevano as-somigliare a demoni. Charles fu colpito inparticolare dal loro modo di parlare, chevariava da quell’osceno aspirare l’aria tradenti e lingua, come fanno gli allevatori dipolli per richiamare le bestie — insommauna specie di pio-pio — a dei terrificanti ra-schi di gola, che suscitarono l’orrore gene-rale. Per Darwin quegli indios erano fuoridella comunità umana, come scrisse nelsuo diario. Molti anni più tardi, dovendoparlare del missing link, l’anello mancan-te tra uomo e scimmia, si ricordò degli in-dios fuegini, trovandoli particolarmenteadatti a riempire quel ruolo.

A volte gli uomini di genio — e Darwin,naturalmente, è stato uno scienziato alquale si può applicare meglio che a chiun-que altro questa definizione così vaga enello stesso tempo così inevitabile — ope-rando sempre borderline, in zone di confi-ne dove si riduce più che altrove la distan-za tra la cazzata e l’invenzione sublime, so-no indotti più di altri, proprio perché ri-schiano. a scivolare sulla prima opzione.Nel caso degli indios fuegini, questi dove-vano essere gli Yaganes, popolo di mareche viveva e dormiva nelle canoe. O gliOnas, popolo di terra, ma una terra che erauna costa, raccontati da Francisco Coloa-ne molti anni più tardi, quando eranograndemente diminuiti di numero perchéquei gentiluomini degli allevatori di meri-nos, per impadronirsi delle loro terre, ave-vano promesso una ricompensa di duesterline a chiunque riportasse indietro unpaio di cojones di indio. Ora gli Yaganes,prima del loro sterminio avvenuto tra la fi-ne dell’Ottocento e i principi del Novecen-to, adoperavano nel loro linguaggio cor-rente un vocabolario di trentamila parole,ricostruito dal primo missionario inglesemandato nella Terra del Fuoco e raccoltoin un libro visibile fino a qualche anno fanella biblioteca del British Museum a Lon-dra. A dare un’occhiata al manoscritto ci sisarebbe accorti che il linguaggio era spe-cializzato e raffinato per tutto quello che ri-guardava il mare. Contro il nostro «man-giare il pesce» loro adoperavano una qua-rantina di vocaboli e intere frasi come «ildente affonda nel duro e poi trova il molle»per i gamberi. Altro che missing link.

Mi è venuto in mente questo infortuniogiovanile del grande scienziato leggendoun concettoso libretto tedesco uscito inquesti giorni, I coralli di Darwin di HorstBredekamp, che ha l’apparenza di unacrobatico saggio di divagazione con il to-

STEFANO MALATESTA

Corallo

Prima dell’autore dell’“Origine della specie”, i naturalisti avevanosempre rappresentato la storia e l’organizzazione della vitaumana e animale ricorrendo all’immagine dell’albero

Ma - come rivela un libro di Horst Bredekamp - l’ideatoredella teoria dell’evoluzione preferì ispirarsi al colorato organismomarino, che dava perfettamente forma alle sue ideerivoluzionarie, trasformandolo in una nuova icona della scienza

Il ramo rossoche ispiròlo scienziato

Darwindi

il

una chioma lussureggiante.Anche Jean-Baptiste Lamarcke, conser-

vatore del Museum d’histoire naturelle diParigi (1744-1829), uno dei bersagli pole-mici di Darwin, che aveva fatto ponderosistudi per dimostrare che gli organismi sievolvevano e diventavano più complessiper innata e quindi interna predisposizio-ne, aveva scelto un albero come icona del-la sua teoria. Ma per Darwin, che stavapensando all’evoluzione come ad unaspietata lotta che avrebbe permesso solo aivincenti di andare avanti, la placidità del-l’albero era esattamente il contrario diquanto andava cercando. Rimase invecefolgorato da un rametto di corallo, per latensione dinamica prodotta dalle sue ner-vature e per le ramificazioni secondarie

atrofizzate, adattissime a simboleggiare lespecie estinte nella dura lotta. Nei disegniche fece del rametto, questa distinzione trale diramazioni morte in basso e quelle vivein alto è ancora più evidente per essere sta-ta marcata da un tratto differente: puntiniper i fossili morti e linea trionfante per le di-ramazioni vincenti e tese verso l’alto.

Più di cento anni dopo, Stephen JayGould, uno scienziato di chiara fama (que-sto non c’è nel libretto, un po’ troppo am-bizioso per le sue possibilità, tuttavia pub-blicato in Germania da un editore straor-dinario per finezza e gusto come Klaus Wa-genbach), autore diThe Structure of Evolu-tionary Theory, un grande tentativo di rin-novare il darwinismo, ha anche lui tiratofuori il rametto di corallo per tutt’altro sco-po. Il tronco rappresenterebbe la teoriadell’evoluzione e le prime tre ramificazio-ni sarebbero i tre principi fondamentalidella logica darwiniana.

Sono andato alla ricerca di altri ramettima non ne ho trovati, forse perché man-cava l’entusiasmo. Detto francamentequesto tirar fuori a destra e a manca il co-rallo non mi sembra né entusiasmante négeniale. Mi è sembrato molto più genialeche Gould, sapendo benissimo cheDarwin intorno agli anni Trenta dell’Otto-cento aveva dedicato molto tempo a stu-diare Adam Smith, abbia messo in paral-lelo i concetti della selezione naturale conquelli economici di Adam Smith in La ric-chezza delle nazioni.

Quanto alla genialità di Darwin, biso-gnerebbe mettere un calmiere all’abusodel termine o cercare di spiegare ogni vol-ta di che tipo di genio si tratti, perché l’ela-sticità del suo significato e la malafede dichi lo usa sono entrambi grandissimi. Tragli uomini politici abbiamo avuto Kissin-ger che diceva che Nixon era un genio e DeGaulle che se lo diceva da solo; una quan-tità di scrittori veniva chiamata con que-st’appellativo, tra i quali D. H. Lawrenceche se la prendeva come fosse un insultopersonale. Nel cinema dire genius è cosìcomune che anche l’elettricista si offendese non lo chiami così. Alcuni sono statichiamati geni per il lavoro di tutta una vita

IL LIBRO

La casa editrice Bollati

Boringhieri manderà

nei prossimi giorni

nelle librerie il volume

di Horst Bredekamp

I corallidi Darwin.I primi modellievolutivi e latradizione dellastoria naturale(141 pagine,

20 euro), dal quale

sono tratte

le immagini

che illustrano

questa pagina. L’autore

insegna Storia dell’arte

alla Humboldt Universität

di Berlino ed è membro

dell’Accademia

delle scienze germanica

L’ALBERO1866: albero

genealogico

degli organismi

di Ernst Häckel,

da GenerelleMorphologie derOrganismen

no del divertimento, ma in realtà parlatutto il tempo della genialità di Darwin,che per visualizzare la sua rivoluzionariateoria evoluzionistica si servì di un ogget-to fino a quel momento amato dai colle-zionisti o finemente lavorato, soprattuttonel sud dell’Italia (a Torre del Greco e aTrapani), da specialisti che ne ricavavanostupendi gioielli: il corallo. Nella iconolo-gia tradizionale di molti paesi, per raffi-gurare degnamente ed efficacemente losvolgersi della vita umana, non era statofatto un grande sforzo di fantasia: in nu-merosi casi, anche lontanissimi tra loronel tempo, il simbolo scelto era stato l’al-bero, con i rami possenti che in primave-ra riprendevano il loro vigore, sempre te-si verso l’alto, fino a formare tutti insieme

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45DOMENICA 22OTTOBRE 2006

L’albero della vitametafora vincente

Perché Darwin preferiva il corallo

TELMO PIEVANI

Quando una teoria scientifica nasce dentroun guscio di legno cullato dagli oceani percinque anni finirà necessariamente per at-

taccarsi a una metafora dal sapore marinaro, edalle conseguenze imprevedibili. È la tesi del raf-finato saggio di Horst Bredekamp, I coralli diDarwin, che trae spunto da un indizio contenutonei taccuini compilati dal naturalista subito dopoil ritorno del Beagle. Nel 1837, a poche pagine dalsuo primo schema sulla discendenza delle specieper ramificazione, annota: «L’albero della vita do-vrebbe forse essere chiamato il corallo della vita».

Bredekamp insegue questa traccia circa l’im-magine originariamente corallina, e non arbo-riforme, dell’evoluzione attraverso gli affascinan-ti recessi dei marginalia darwiniani. Sotto la sualente finiscono gli appunti occasionali del giova-ne Darwin, i disegni tracciati a matita dietro un bi-glietto, le chiose sbiadite e coperte da strati di no-te. Si va insomma fin nel cuore stesso dell’officinanascosta dello scienziato. Lo storico dell’arte è in-teressato in particolar modo ai diagrammi cheDarwin utilizza per sintetizzare le sue idee. Ben-ché non avesse alcun talento per il disegno, comeammette lui stesso nell’autobiografia, Bre-dekamp rinviene nei suoi schizzi una polisemialussureggiante e un’ambiguità rivelatrice.

Ciò che non convince Darwin nell’immagineclassica dell’albero genealogico è la sua latente li-nearità, la progressione verso l’alto, il senso diun’intrinseca gerarchia dei viventi. Le contrappo-ne perciò, agli esordi, l’iconografia più irregolaree “cespugliosa” dei coralli, con i loro rami prolife-ranti, la storia congelata negli intrecci delle calci-ficazioni, le esplorazioni casuali che si aprono aventaglio in ogni possibile direzione di crescita.Per Darwin è il corallo il simbolo del dramma del-la morte e della sopravvivenza, la sintesi plasticadell’incomprimibile varietà della natura, il mo-dello evolutivo più corretto per rappresentare lasuprema contingenza dell’estinzione e della spe-ciazione. Ma soprattutto, l’antidoto contro ognitentazione di associare l’evoluzione a un progres-so perfezionante.

Secondo l’autore, Darwin sarebbe poi ritorna-to controvoglia all’immagine dell’albero della vi-ta nel 1857 per rimarcare la priorità della sua idearispetto al collega più giovane Alfred R. Wallace,giunto indipendentemente alla scoperta del mec-

canismo della selezione natu-rale. Questa scelta “politica” loobbliga quindi a tenere insie-me due metafore contraddit-torie: quella visiva del corallo,che traspare da un’analisi mi-nuziosa del modo in cui dise-gna l’unico, e celebre, dia-gramma de L’origine delle spe-cie, e quella verbale dell’albe-ro, che predilige quando devedescrivere gli effetti dell’azio-ne della selezione naturalenell’arena gladiatoria dellalotta per la sopravvivenza.

Dopo Darwin il modello del-l’albero della vita, con la suagloriosa chioma culminantenelle forme attuali, avrà il so-pravvento, divenendo orto-dossia nelle raffigurazioni diErnst Haeckel. Così Bre-dekamp ha gioco facile nel ve-dere una tradizione dimenti-cata nel corallo e il “cattivo del-la storia” nell’albero, la cui di-rezionalità ascendente vieneassociata persino alle visionifinalistiche. Finiamo così pertrovare nel corallo qualche si-gnificato di troppo: la dialetti-ca fra l’utilitarismo della lotta

per la sopravvivenza e la bellezzagratuita delle forme naturali e addiritturaun presunto sperimentalismo anarchicocontrapposto agli effetti cumulativi dellaselezione naturale.

Il corallo ha un curioso ascendente su-gli evoluzionisti. Stephen J. Gould, checonosceva il potere delle grandi icono-grafie nella storia del pensiero biologico,ha mostrato quanto fosse promettentequell’alternativa cespugliosa e rizomati-ca sfiorata dal giovane Darwin. Nel suotestamento scientifico del 2002, in cuidescrive la sua visione darwiniana plu-ralista dell’evoluzione, usa proprio uncorallo, raffigurato nel 1670 da Agosti-no Scilla, come metafora per descrive-re, questa volta, i molteplici livelli e fat-

tori del processo evolutivo. Forse alloraanche la teoria dell’evoluzione è come un corallo,con i nuovi getti in costruzione che spuntano daogni parte ma poggiano sui rami pietrificati e con-torti delle fondamenta darwiniane.

L’autore, filosofo della biologia,insegna Filosofia della scienza all’Università

degli studi di Milano Bicocca

CAPELLI BIANCHIA sinistra, un ritratto

di Charles Darwin

in tarda età

Le ramificazionisecondarieatrofizzateeranoadattissimea raffigurarele specie estintenella dura lottadella selezionenaturale

e altri per una battuta dettain punto di morte, come quella fa-mosa di Buffon, il grande naturalista: «Allafine è tutto biologia». Nel ventesimo seco-lo il genio per antonomasia è stato Picasso,ma quante volte il termine è stato impiega-to per definire artisti che al più meritavanola fucilazione o lo sputo in un occhio, comenella gag di Totò in Totò a colori?

L’aspetto abbastanza straordinariodella vicenda di Darwin è che questo au-tentico, grande genio, da ragazzo non ave-va mai dato nessun segno di brillare intel-lettualmente (non è stato il solo: la gover-nante di casa Einstein chiamava il frugo-letto Albert «cretino» perché tardava sem-

pre a rispondere equando rispon-

deva lo facevain manierai n c o m p l e -ta). Un suo

amico di allo-ra ha racconta-

to che era impos-sibile descrivere il

suo carattere, tal-mente il suo modo di fa-

re era allineato a comporta-menti così quieti e anonimi da

non lasciare traccia. Darwin è sta-

to uno studente indifferente in ogni fasedella sua educazione formale e la scelta diabbracciare la carriera religiosa, fatta pri-ma del viaggio con la Beagle, si deve a que-sta assenza totale di interessi. La spedizio-ne scientifica in Sud America fu la suagrande occasione e il momento in cui unastraordinaria, sottile combinazione di dif-ferenti attributi si coagulò in una persona-lità da uomo-orchestra. L’uomo che nonaveva avuto interessi da giovane a metà

della sua vita spaziava attraverso unimmenso territorio composto da

geologia, geografia, botanica,zoologia, biologia, antropolo-

gia, paleontologia, diven-tando uno dei più pro-

duttivi, seducentie creativi vitto-riani. Fu il so-stenitore delle

grandi trasfor-mazioni ottenute

con piccoli passi e questo valeva nella vitadi ognuno come nell’evoluzione del gene-re umano, con l’aiuto della gradualità edell’uniformità. Così il suo genio si espres-se attraverso un’inverosimile accumula-zione di fatti e scritti che setacciava giornodopo giorno, mettendo da parte quelloche restava in fondo.

Una capacità immensa di avanzarelentamente, ma non lasciare nulla di ine-vaso davanti a sé, come una tramoggiache raccatta anche i più piccoli fili d’erba,li inghiotte e li digerisce. Un lavoro sfian-cante anche per una persona in ottimecondizioni di salute, mentre Darwin con-tinuò a soffrire per tutta la vita di un nu-mero esagerato di malanni, uno più pe-sante e anche disgustoso dell’altro. Ed èuno straordinario paradosso, che da solorende inestimabile la scienza, che daun’apparentemente pedante, sfiancantee diciamo pure noiosa immensa ricerca— Darwin si applicava per anni in studisecondari di scarsa importanza, in base alprincipio del “non si sa mai” — sia natauna delle più rivoluzionarie, dirompenti,brillanti e durature teorie che l’uomo ab-bia mai avuto il coraggio di elaborare.

Repubblica Nazionale

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la letturaBestiari fantastici

46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 22OTTOBRE 2006

I labirinti di Borgessognatore di draghi

Il carbonchiotesta di gemma

In mineralogia il carbonchio, dal latino carbunculus,“piccolo carbone”, è un rubino; quanto al carbonchiodegli antichi si suppone che fosse un granato. In Ameri-

ca del Sud, nel Cinquecento, i conquistatori spagnoli die-dero lo stesso nome a un misterioso animale, misteriosoperché nessuno l’aveva mai visto abbastanza bene da capi-re se fosse un uccello o un mammifero, se avesse le piumeo la pelliccia. Il poeta-sacerdote Martín del Barco Centene-ra, che afferma di averlo avvistato in Paraguay, lo descrivenell’Argentina (1602) semplicemente come «un animalepiuttosto piccolo, che ha sulla testa uno specchio che bril-la, una sorta di carbone acceso». Un altro conquistatore,Gonzalo Fernández de Oviedo, associa tale specchio scin-tillante nell’oscurità — che ha scorto due volte nello Stret-to di Magellano — con la pietra preziosa che si riteneva fos-se nascosta nel cervello dei draghi. Aveva ricavato questeinformazioni da Isidoro di Siviglia, che scriveva nelle sueEtimologie: «Viene estratta dal cervello del drago, ma si in-durisce in una gemma solo se si taglia la testa dell’animaleancora vivo; per questo i maghi decapitano i draghi mentresono immersi nel sonno. Gli uomini abbastanza ardimen-tosi da avventurarsi nelle tane dei draghi spargono dei se-mi avvelenati per assopire la bestia e, quando quella dor-me, le mozzano la testa ed estraggono la gemma». Ci tornaalla mente il rospo di Shakespeare (Come vi piace, II, 1) che,sebbene «brutto e velenoso, ha un prezioso gioiello nellatesta...». Possedere il gioiello del carbonchio portava ric-chezza e fortuna. Barco Centenera si sottopose a grandi fa-tiche per dare la caccia a quell’elusiva creatura sui fiumi enelle selve del Paraguay; non riuscì mai a trovarla. Ancoraoggi, non sappiamo altro di questo animale e della pietrasegreta che porta nel capo.

(© 1996 Maria Kodama. 2006 Adelphi Edizioni)

LONDRA

Per rileggere gli ani-mali immaginari diJorge Luis Borges, laporta girevole dello

Zoo di Londra in Regent’s Park è unbuon inizio e un colpo d’occhio appro-priato. Specialmente in questa estate tar-diva che tiene sveglia la salamandra, ri-tarda il rosso degli ippocastani, fa sboc-ciare gelati rosa tra i cuccioli dei turisti e ilfumo degli hot dog.

specchio che ci contiene. Tutti generatida quel lentissimo sonno che sveglia la vi-ta solo dietro ai nostri occhi, la trasformain parole, moltiplicandola in così tanteforme e muscoli vivi — dal giaguaro all’u-nicorno, dalla balena alla fenice — da po-polare la terra, il cielo e l’acqua, per rac-contarci il mistero che i millenni ci tra-mandano. Il vuoto che ci tiene in allarme.La natura che infine non si spiega, se nonper simboli, ipotesi, fede. Dai tempi in cuinacque — insieme con l’inganno delle si-rene, gli enigmi della Sfinge e il fuoco deidraghi — la nostra solitudine.

Ha scritto: «Noi abbiamo sognato ilmondo. Lo abbiamo sognato resistente,misterioso, visibile, ubiquo nello spazio,fermo nel tempo. Ma abbiamo ammessonella sua architettura tenui e eterni in-terstizi di assurdità per sapere che è fin-to». I suoi animali fantastici stanno inquegli interstizi. Presidiano quelle as-surdità. Che a loro volta contengono al-tri mondi, altri sogni. Come gli atomi diPascal che nel loro trascurabile spazioracchiudono universi.

Le loro storie e la nostra trasmigranodagli uni agli altri, lungo mondi che viag-giano insieme. E che talvolta scivolanovia. Come i draghi che nei tempi remoti,abbandonando l’Etiopia, attraversaronoil Mar Rosso. Come la sabbia delle clessi-dre che disfa il tempo svuotando la metàdel vetro, per riaddensarlo nell’altra. Co-me le lettere dell’alfabeto quando forma-no parole non del tutto casuali. E che gliscrittori, dall’alba della scrittura, ricopia-no nel libro destinato all’unico luogo cheli contiene tutti, la Biblioteca fatta di stan-ze esagonali, e che finalmente li fa coinci-dere nel silenzio definitivo dell’ultimissi-mo destino. Che è poi sempre il primo, l’i-nizio, cioè il vuoto dello zero.

Jorge Luis Borges si svegliò nel cuore diBuenos Aires il 24 agosto del 1899. La suaera una famiglia di proprietari terrieri. Ilpadre faceva l’avvocato e insegnava psi-cologia. Spesso doveva trasferirsi per la-voro. Perciò Borges viaggiò il mondo.Abitò, oltre che a Buenos Aires, a Ginevra,Lugano, Maiorca, Siviglia, Madrid. Im-parò ad amare il silenzio mai disabitatodei libri. A sette anni tradusse Il principefelice di Oscar Wilde. A nove scrisse il suoprimo racconto, La visiera fatal, che era lastoria di un sogno raccontato alla madre.Poi imparò cinque lingue. Mandò a me-moria La Divina Commedia. E il Don Chi-sciotte. E scrisse mille altri racconti, saggi,poesie. Anche se i racconti, i saggi, le poe-sie, le cinque lingue, La Divina Comme-dia e i cieli immaginari dell’Hidalgo era-no sempre la medesima declinazione delmedesimo labirinto.

«Il labirinto è un edificio costruito perconfondere gli uomini. Il simbolo eviden-te della perplessità». Che può avere infi-niti percorsi senza uscita. Oppure uno so-lo, ma altrettanto insormontabile, come ildeserto del racconto dei Due re, «dovenon ci sono scale da salire, né porte da for-zare, né faticosi corridoi da percorrere, némuri che ti vietano il passo».

Dal padre eredita la biblioteca. Dallamadre la passione per la lettura. Dal tem-po la lentezza. Da Buenos Aires il rim-pianto. E naturalmente il tango che tal-volta compare in veste alfabetica a creare«un confuso/ irreale passato forse vero/un assurdo ricordo d’esser morto». Glipiacciono le mappe, gli orologi e la prosadi Stevenson. Considera Conrad il più

Arpie, ippogrifi, basilischi, gnomi, grifoni, sfingi, unicorniEsce “Il libro degli esseri immaginari” del grande scrittoreargentino. Con tutte le voci raccolte in anni di studiocompresi alcuni inediti che proponiamo in queste paginePerché il mondo che abbiamo pensato visibile e fermoammette “ interstizi di assurdità per sapere che è finto”

Borges, con le sue finzioni, sta in unpunto qualunque, e perpetuo, tra i retico-lati del labirinto che imprigiona le ali del-l’aquila reale, il nodo freddo del pitonemaculato, e le molte biforcazioni dei sen-tieri narrativi, dove transitano i sogni de-gli uomini, i fantasmi dei bambini, e glisbadigli dei leoni. Lui li ha sovrapposti,talvolta intrecciati, per compilare la sto-ria mobile dell’infinito. Farne il sogno chedormendo sogniamo. E che contempora-neamente ci sogna.

Il suo dizionario di artigli e di cerberi, digalli celesti e di volpi millenarie, è uno deitanti mondi paralleli riflessi dal grande

IN LIBRERIA

Jorge Luis Borges

pubblicò nel 1957

a Città del Messico

Il Manual de zoologíafantástica (compilato

insieme a Margarita

Guerrero). Lo riprese

dieci anni più tardi,

a Buenos Aires,

col titolo Libro de losseres imaginariose vi aggiunse

34 capitoletti. In questa

versione completa esce,

per la prima volta in Italia,

il 25 ottobre, Il librodegli esseri immaginari(Adelphi, 16,50 euro)

JORGE LUIS BORGES

PINO CORRIAS

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47DOMENICA 22OTTOBRE 2006

Il chonchónha la forma di una testa umana; le orecchie, chesono estremamente grandi, gli servono da ali per volarenelle notti senza luna. Si ritiene che i chonchones siano do-

tati di tutti i poteri dei maghi. Se infastiditi, sono pericolosi, ecorrono tante leggende su di loro. Esistono vari modi per farcadere queste creature volanti quando ci passano sopra la te-sta intonando il loro sinistro tuì tuì tuì, la sola cosa che tradi-sce la loro presenza, dal momento che sono invisibili a tutti,tranne che ai maghi. Ecco alcuni prudenti consigli: recitare ocantare una preghiera nota solo a pochi che si rifiutano osti-natamente di divulgarla, ripetere due volte una certa dozzinadi parole, tracciare sul suolo il sigillo di Salomone e, infine,stendere per terra in un determinato modo un panciotto aper-to. Il chonchón cade, sbattendo con furia le ali, e per quanto sisforzi non può rialzarsi finché un altro chonchón non vienein suo aiuto. In genere l’incidente non si chiude lì, perchéprima o poi il chonchón si vendica di chiunque si sia presogioco di lui. Testimoni degni di fede hanno raccontato laseguente storia. In una casa di Limache, dove una sera era-no radunati alcuni ospiti, si udirono all’improvviso le gri-da concitate di un chonchón. Qualcuno tracciò il segno delsigillo di Salomone e nel cortile cadde qualcosa di pesan-te: era un grosso uccello con i bargigli rossi, delle dimen-sioni di un tacchino. Gli tagliarono la testa, la dettero a uncane e buttarono il corpo sul tetto. Subito sentirono assor-danti schiamazzi di chonchones, e al contempo notaronoche il ventre del cane si era gonfiato come se l’animale aves-se inghiottito la testa di un uomo. La mattina successiva, cer-carono invano il corpo del chonchón: era scomparso. Qual-che tempo dopo, il becchino del paese raccontò che quellostesso giorno diversi sconosciuti erano andati a seppellire uncorpo e, dopo la loro partenza, aveva visto che era senza testa.

(© 1996 Maria Kodama. 2006 Adelphi Edizioni)

grande narratore di tutti i tempi. E Ki-pling, di cui possiede in camera da letto laclessidra da cinquanta minuti, il migliorcompagno di avventure.

Quando sui suoi occhi azzurri affiora lamalattia, vecchia di sei generazioni e fi-glia del destino, fronteggia nove opera-zioni, la setticemia, il crepuscolo della lu-ce e infine la cecità. Che slitta dentro a unavertiginosa coincidenza, la nomina go-vernativa a direttore della Biblioteca na-zionale, anno 1955: «È una sublime ironiadivina avermi dotato di ottocentomila li-bri e al tempo stesso delle tenebre».

La cecità è parte dell’inganno. È l’inter-stizio che svela la finzione, sve-la l’assurdo: «I miei amicinon hanno volto/ le don-ne sono quelle che era-no molti anni fa/ gliincroci potrebberoessere altri/ non cisono lettere nellepagine dei libri».Ma è in quel vuotoche Borges scopredi nuovo se stesso(«presto saprò chisono») e nuove por-te e mondi successi-vi. La cecità «può esse-re una clausura — rac-conterà in un’intervista— ma anche una liberazio-ne. Una chiave e un’algebra, unasolitudine propizia. Grazie a lei ho scrit-to di più».

Ha scritto dettando parole e sempreimmaginandole da un punto di vista spe-ciale, il loro spazio interno, la loro luce chetrapela nel nulla, spinte dalla corrente deltempo «che corre diverso». Per poi la-sciarsi conquistare da quel buio che illu-mina e che fa del paradosso una rivelazio-ne. Come il volo immobile della freccia.Come la lentezza di Achille. O il poema diuna sola riga, la poesia di una sola parola.Fino all’Aleph, la minuscola sfera, «il cuicentro è dappertutto e la circonferenza innessun luogo», dove si trovano, senzaconfondersi, tutti i luoghi della Terra.

Il suo Bestiario, che nasce insieme conl’amore per Margarita Guerrero, e l’ami-cizia per Adolfo Bioy Casares, viene da untempo remoto, quello delle mitologie,delle interpretazioni simboliche della na-tura, delle Arpie e del Minotauro, quandola notte era una nube più grande del mon-do e altrettanto insondabile. I suoi cento-venti esseri (non) terrestri sono parole intransito, descrizioni di descrizioni tra-mandate da Omero, Plinio, Apollodoro.Da Confucio. Dai lampi del Budda e dallelacrime di Shaharazad.

Vengono dal Medioevo. Dagli imperidel Drago. Dagli Oceani sul vuoto. Dalleterre inesplorate dove si immaginavanoChimere e Asini a tre zampe, Serpenti adue teste e Gnomi, Satiri, Centauri. Ognu-no a svelarci un pezzo del nostro cuore odel nostro spavento, come i mostri incar-nano le tenebre, come l’aquila l’orgoglio,il coccodrillo l’ipocrisia, l’elefante la tem-peranza.

Pagine anche loro. Anche loro inchio-stro dello stesso libro circolare. Animali(quasi) viventi che non ci stupiscono maiper la loro diversità e per l’altrove che li re-spira, ma per la somiglianza al qui e orache ci tiene svegli. Come adesso, davantialla tigre che ci inquadra, dietro alla gab-bia centrale del Regent’s Park. E che riu-

sciamo a guardare senza orrore, secondoquanto ci ha insegnato Borges, proprioperché l’abbiamo già vista nel mondo de-gli archetipi. Anche lei partecipe del so-gno che ci ha sognato. E fatta della nostrastessa natura: la volontà di esistere. La vo-lontà di permanere nello spazio e nel tem-po per diventare un po’ di memoria inviaggio e forse una parola scritta. Da ag-giungere all’enigma che ci appassionapiù di qualunque soluzione. E che non ar-riverà mai a raggiungerci, come la tarta-ruga di Zenone, se non nei sogni degli al-tri. O in quelli di un poeta cieco che ha let-to più di quanto abbia vissuto, scrivendo-

ne tal-volta aperfezionarnel’illusione, primadel sonno finale,Buenos Aires 14 giu-gno 1986. Lasciando-ci, tra molte righe, an-che queste: «Io sono statoOmero. Tra breve sarò Nessunoproprio come Ulisse. Tra breve sarò mor-to». Che anche se sembrano un addio, so-no l’inizio. Lo zero da cui si ricomincia. Laporta girevole che dopo il vuoto, ci ripor-ta nel pieno immaginario dello Zoo.

Le orecchie-alidel chonchon

GARGOYLEA destra e a sinistra

l’immagine di un gargoyle

di Notre Dame

Qui a sinistra, le antiche

stampe di un unicorno

e di un grifone

Sotto: un’immagine

ispirata alla DivinaCommediadi Dante e, a sinistra,

Jorge Luis Borges

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JORGE LUIS BORGES

Repubblica Nazionale

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Nel 1978 i Sex Pistols dicevano addio alle scene tuonando dal palco l’ultimaprovocazione: “Mai avuto la sensazione che vi abbiamo fregati?”. Finivala breve e sconvolgente avventura del punk, la musica non sarebbe più stata

la stessa. Ma mentre Reagan e la Thatcher trionfavano, ci fu chi raccolse l’eredità di Vicious e compagniTrasformandola in pochi anni in una forma d’arte altrettanto ribelle ma molto più sofisticataI loro nomi? Molti dimenticati. Gli altri: Joy Division, Talking Heads, U2...

GINO CASTALDO

«Maiavuto la sen-sazione che viabbiamo fre-gati?», frasebanalissima,ma è diventata

un pezzo di storia. La pronunciò, bef-fardo e satanico, come fosse un conatodi vomito, Johnny Rotten al Winter-land di San Francisco, il 14 gennaio1978. Era l’ultimo concerto dei Sex Pi-stols, l’addio, l’uscita di scena della piùfulminea e sconvolgente avventurarock di tutti i tempi. Neanche due anni,giusto il tempo di imbrogliare il mondoe coniugare quella diabolica parolinache avrebbe messo a soqquadro le re-gole del gioco, una volta per tutte:punk, niente di più, niente di meno, co-me un pugno a sorpresa, un graffito da-daista, il demenziale balbettio di unidiot savant. Eppure il rock non sareb-be mai più stato lo stesso.

Quel giorno, in un certo senso, ilpunk morì, definitivamente carboniz-zato pochi mesi dopo quando Sid Vi-cious ammazzò la sua fidanzata NancySpugen in una stanza del Chelsea Hotela New York, per poi ammazzarsi a suavolta. Ma fu anche l’inizio di quella cheè stata definita l’era post-punk, setteanni di inimmaginabili furori che Si-mon Reynolds racconta in un bellissi-mo libro intitolato Post-punk 1978-1984.

La tesi è affascinante. Quegli anni so-no stati una seconda età dell’oro, so-stiene Reynolds, paragonabile comeintensità e ricchezza di proposte a quel-la degli anni Sessanta. Stesso fervore,stessa voglia di ridisegnare il mondo,ma ovviamente con un segno diverso.Niente più sognanti utopie, niente illu-sioni fantasiose, l’età dell’innocenzaera stata falciata per sempre e in questosenso il punk era stato davvero la can-cellazione definitiva.

Il post-punk è quel vasto movimentoche in America e in Inghilterra, ma an-che nell’Europa continentale, contrad-disse la volontà nichilista e demagogicadel primo punk, e si mise in mente dicompletare quella incompleta rivolu-zione. Anche a costo di ridiscutere i ter-mini stessi della percezione che abbia-

48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 22OTTOBRE 2006

Quei bravi ragazziche finirono la rivoluzione

Èstata una seconda età dell’oro,paragonabile a quella dei SessantaStesso fervore, stessa voglia di ridisegnareil mondo, ma senza sognanti utopie:l’età dell’innocenza era tramontata

VINTAGENella foto grande i Clash. Qui sopra a sinistra, il gruppo mascherato dei Residents

e, a destra, il gruppo dei Talking Heads

NOVEMBRE ’76Esce Anarchy in the Uk,

singolo dei Sex Pistols

e canzone-manifesto

del movimento punk

Il testo è una violenta

miscela di anarchia

e di ribellione contro

il conformismo borghese,

la musica è ruvida come

un pugno nello stomaco

SETTEMBRE ’77Gli americani TalkingHeads pubblicano il loro

primo album: TalkingHeads ’77. La loro

musica è un’eclettica

sintesi di rock e funky

Storie di adolescenti

e nevrosi urbane, i temi

più ricorrenti nei testi

OTTOBRE ’78I Devo pubblicano

Satisfaction, versione

robotica dell’omonima

celebre canzone

dei Rolling Stones e

provocano i mostri sacri

dicendo che la loro

è la vera versione

Il brano fonde rock

e musica sintetizzata

GIUGNO ’79Esce Unknown pleasure,

primo album degli inglesi

Joy Division. La rabbia

punk ha ormai lasciato

il posto a una cupa sfiducia

La musica di Curtis & Co

è fatta di geometrie

gelidamente perfette

le parole sono disperate

DICEMBRE ’79Con London Callingdei Clash, il punk

“storico” è ormai

definitivamente

alle spalle. Il disco riassume

e chiude il ciclo aperto

tre anni prima dai Pistols

La sua cifra stilistica

è la varietà: rock‘n’roll

soul, ska, reggae, r&b

LE TAPPE

mo del mondo. In effetti se solo andia-mo a scorrere l’elenco dei gruppi cre-sciuti in quegli anni ce n’è abbastanzaper riscrivere la storia del rock di quelperiodo: Talking Heads, Devo, Joy Divi-sion, U2, Clash, Pere Ubu, Art of noise,Kraftwerk, Residents, Patti Smith, IggyPop, solo per citare i più famosi, più unasterminata marea di band dalla voca-zione rigorosamente alternativa, riuni-ta intorno a etichette dal piglio militan-te. Esperienze diverse, alcune dellequali iniziate anche prima dell’esplo-sione punk, ma che possono essere ac-comunate da un sentimento comune.

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 49DOMENICA 22OTTOBRE 2006

Per tutti il 1977 era una specie di annozero, una tabula rasa da cui ripartire, ri-costruire una visione del mondo, attin-gendo al mondo dell’arte, accostando-si senza pudori alla realtà post-indu-striale, all’elettronica, contro l’avanza-ta reazionaria capitanata da Reagan inAmerica e dalla Thatcher in Inghilterra,un furore iconoclasta, ma anche in di-versi modi positivo, almeno nella deter-minazione a ribaltare i vecchi valori percercarne di nuovi.

Fu una stagione entusiasmante. L’an-no zero, anzi il grado zero dell’esteticamusicale, consentiva rovesciamentiprovocatori e destabilizzanti. I Devo in-cisero il classico dei Rolling Stones, lavecchia infallibile Satisfaction, con ro-botiche vibrazioni elettriche, ma disse-ro che la versione originale era la loro. Lacover era quella degli Stones. Possibile?Certamente, a patto di aderire alla loroteoria del devoluzionismo: il futuro erail passato e viceversa. I Residents girava-no il mondo con spettacoli apocalittici,vere e proprie opere della nuova era,complesse ed enigmatiche, mascheraticon giganteschi globi oculari intorno alviso. Nessuno ha mai visto le loro facce,nessuno ha mai saputo chi ci fosse die-tro quelle maschere devastanti. ITalking Heads reinterpretarono il co-smopolitismo newyorchese introdu-cendo ritmi africani e deviazioni psi-coallucinatorie, e nel 1980 realizzaronoil capolavoro Remain in light, ovvero ilritratto di una tribale giungla metropo-litana fatta a strati, correnti sotterraneeche si riunivano in un flusso di coscien-za che demoliva le certezze borghesi.

In parte l’avvio arrivò proprio dai SexPistols, anzi da una costola del gruppo,quando Johnny Rotten, stufo di gridareal mondo «sono l’anticristo» accompa-gnato dal primitivo fragore rock’n’rolldel gruppo, fondò i Pil, la prima verabanda del post-punk, una scelta colta,raffinata, ma egualmente devastante,radicale, annichilente. Le Slits, come ledefinisce Reynolds, «erano una bestia-le banda di ragazze». Con loro e con l’a-mericana Lydia Lunch, il rock iniziò aparlare una nuova lingua femminile,violenta, sfrontata, per la prima voltaprotagonista in modo aggressivo e spu-dorato. Ari Up, la cantante delle Slits, in-dossava le mutande sopra i vestiti, e unavolta urinò sul palco, solo perché nonaveva tempo di cercare il bagno.

Ma a parte i gesti estremi, le provoca-zioni e la congenita blasfemia dissa-

nolds, «ed è vero, un’alta percentuale dimusicisti post-punk avevano le loro ra-dici nell’art-rock. La scena No Wave diNew York, per esempio, era pratica-mente costituita da pittori, cineasti,poeti e artisti performativi».

Sta di fatto che in quegli anni il rockcominciò a parlare il linguaggio adultodella cultura trasversale: Alfred Jarry,Hugo Ball, il Futurismo, la fantascienzafilosofica di Dick e Ballard, i libri di Bur-roughs. Marcel Duchamp era una spe-cie di santo protettore, ma i nuovi grup-pi gettavano il loro sguardo fino allaBauhaus e al costruttivismo. Il post-punk fu una sistematica razzia delleavanguardie artistiche del Novecento,sentendosi in qualche modo affine aquei movimenti e tutto sommato mo-strando una nuova e ammirevole con-sapevolezza del ruolo intellettuale delmusicista rock nella nuova era. Nonerano ammessi abbellimenti ed eccessidi compiacimento. Fu in questi anniche le ambizioni del progressive rock eanche le più ovvie convenzioni, vedi so-prattutto gli strazianti assolo di batteriae di chitarra che appesantivano i con-certi, furono ridicolizzate e disintegrate(«il post-punk», spiega ancora Rey-nolds, «prediligeva una spigolosità fre-netica e cristallina»).

Inevitabile a questo punto pensare aquello che sta succedendo oggi. Il punk,paradossalmente, sopravvive ancora,come filiazione dell’ala populista. Faproseliti, ma ovviamente nella sua stes-sa ripetizione nega i presupposti da cuiera nato. Il punk di oggi è una parodia,una resa incondizionata di fronte all’in-capacità di inventare nuovi e più ap-propriati slogan. Il post-punk, inveceha lasciato tracce profonde. Ha lasciatoi suoi segni sulla crescita degli U2, ri-spunta come torbida chimera nello sti-le dei Radiohead. È stato, come sostieneReynolds, un periodo di irripetibile fer-mento. Ma c’è molto da ripensare e ri-scrivere. Gli anni Ottanta, oggi ricorda-ti soprattutto per l’avvento di ridicoligruppi di bambocci per teenager in cer-ca di facili proiezioni erotiche, sono sta-ti al contrario una frontiera avventuro-sa, l’ultima vera chance concessa alrock di proporsi come organica visionedel mondo, come strumento per legge-re la realtà.

crante, prevalse il gusto, anzi l’urgenzadi ricostruire la musica, di proporsi co-me prototipi di intellettuali (anche se ri-gorosamente antiaccademici) dellanuova era. I gruppi allora parlavano dipolitica, di arte, di realtà, di letteratura,consideravano la musica come parte diun progetto più ampio. «Alcuni irridu-cibili accusavano questi sperimentali-sti di ricadere proprio in ciò che il punkintendeva originariamente distrugge-re, l’elitarismo art-rock», racconta Rey-

Quel periodo, oggi ricordato soprattuttoper l’avvento di ridicoli gruppidi bambocci per teenager in cerca di faciliproiezioni erotiche, è stata in veritàl’ultima chance concessa al rock

RABBIA E SOLITUDINEA destra, gli Specials, qui sotto

una locandina shock delle Nuns

In basso a sinistra, gli Human League

e, a destra, una locandina dei Buzzcocks

IN LIBRERIA

S’intitola Post-punk (Isbn Edizioni,

730 pagine, 32 euro) ed è un bilancio

di una stagione (gli anni 1978-1984)

fondamentale per l’evoluzione

della musica pop. Scritto dal più noto

giornalista musicale inglese, Simon

Reynolds, il libro ripercorre

quegli otto anni di intensissimo

fermento musicale attraverso

una serie di micro-storie. Si tratta

di una vivace carrellata di aneddoti,

segreti, approfondimenti realizzata

più su base geografica o di affinità

musicale che seguendo una fredda

cronologia. Reynolds racconta

la musica di band come Cure, Joy

Division, Bauhaus, New Order

in modo brillante e divertente senza

però nulla togliere al rigore analitico

e della ricerca documentale

Il libro sarà in vendita dal 26 ottobre

Repubblica Nazionale

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i saporiCulture e colture

Si ripete a fine mese a Torinola grande kermesse ideatada Slow Food:cinquemilacontadini e allevatori da tuttoil mondo per costruire il futurocon la sapienza del passato

Si scrive con le iniziali maiuscole: questione di rispetto, e di precisio-ne. Non una terra qualunque, ma la Terra, non una madre qualsiasima la Madre Terra. Due anni dopo la prima kermesse, aperta da Van-dana Shiva e chiusa da Carlo d’Inghilterra, a Torino tornano (da gio-vedì 26 ottobre) gli ex-dannati della terra. Cinquemila contadini datutto il mondo, in rappresentanza di 1.600 comunità del cibo e di 130

paesi: veri laboratori alimentari a cielo aperto dalla storia lunghissima e dal fu-turo incerto, nessuno dei quali sponsorizzato dalle multinazionali della tavola.

Eppure, se non ci fosse del marcio in Danimarca — per dirla con Amleto —le industrie avrebbero tutto da guadagnare lasciando spazio, anzi promuo-vendo il lavoro e lo sviluppo di sapienzialità capaci di nutrire la gente con for-maggi senza latte, datteri irrigati con acqua salmastra, mieli da usare per to-gliere la fame e guarire gli occhi.

Perché questi sono i cibi destinati a salvare il mondo, vuoi grazie alla rinascita dicomunità agricole sull’orlo della scomparsa, vuoi per l’uso virtuoso delle tecnologie,che si traduce in accesso facilitato ai mercati e scambio di esperienze tra comunità.

Insomma, gli archeo-cibi che hanno accompagnato la storia dell’uomo, sono vivi evegeti. E se non possono competere con le mega-produzioni alimentari, sono invecefondamentali per preservare culture e sfamare villaggi, ma anche preservare modalità dicoltivazione e allevamento di incredibile modernità.

Qualche esempio? In Italia la diffusione della cultura vegetariana-vegana ci ha fatto cono-scere il tofu, il cosiddetto formaggio di soia. Che tutti i gastro-curiosi hanno comprato almenouna volta, nel tentativo di comprenderne il gusto (e, se afflitti dal colesterolo alto, anche di far-selo piacere). Quasi tutti respinti dall’aspetto gommoso, dal sapore così delicato da rasentare ilnulla, dagli straordinari sforzi gastronomici per renderlo più gradevole.

Terra Madre manderà in passerella la comunità dei produttori di Kechek el Fouqara, il non-for-maggio preparato attraverso cotture e fermentazioni successive del grano e impreziosito, una voltatrasformato in bocconcini, con semi oleosi o fiori d’arancio, e conservato nell’extravergine prodotto da-gli stessi artigiani.

Il Kechek è solo un esempio dei tanti muni, i cibi di lunga durata realizzati dalle donne libanesi nei mo-menti di abbondanza e messi in dispensa per meglio affrontare i tempi grami. Al Lingotto, il Souk El Tayebdi Beirut, il primo farmer’s market (vendita diretta dei contadini), chiuso sotto i bombardamenti, riaprirà perfar ricredere i delusi del tofu sulle potenzialità dei finti formaggi…

Altra storia meravigliosa, quella delle patate andine liofilizzate. Chi ha vissuto la bizzarra stagione dei pri-mi cibi ridotti in polvere, sorriderà scoprendo che, a dispetto delle tecnologie più avanzate, i contadini an-dini riducono naturalmente le coloratissime patate delle loro campagne impervie a lievi bozzetti. Una pra-tica millenaria fa sì che, attraverso esposizioni alternate alla luce del sole e al gelo della notte, a cui seguonobagni ripetuti nelle gelide acque dei torrenti, i tuberi possano restare intatti per molti anni senza alterarsi,pronti a trasformarsi in buon cibo grazie a una banale bollitura. Il tutto, come nel caso del Kechek libanese,lontano da supporti chimici e nel pieno rispetto dell’ecosistema.

Se pensate che sia semplice folklore applicato al cibo, passate alla larga da Torino, negli ultimi giornidel mese: mille supercuochi in arrivo dai cinque continenti e duecento tra le migliori menti del pia-neta saranno lì a spiegare l’esatto contrario. Con molta passione e pochissima voglia di scherzare.

LICIA GRANELLO

50 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 22OTTOBRE 2006

MadreTerra

Caffè de Sierra CafetaleraRepubblica Dominicana

Coltivato sopra i 1000 metri

di altitudine, è un eccellente caffè

di montagna, di varietà arabica

Typica e Caturra. Le piantagioni sono

state in gran parte abbandonate

a metà degli anni Novanta per colpa

della crisi. In Italia, il progetto

di rivalorizzazione del caffè

domenicano e guatemalteco

(Terre Alte di Huehuetenango) passa

dal laboratorio del carcere torinese

delle Vallette, dove viene tostato

MotalArmenia

Prodotto al confine con la Turchia,

tra le vette di Aragatson e il biblico

Ararat, con il latte di capre

dalle lunghe corna arcuate,

è un formaggio di tradizione

millenaria. La cagliata viene

mescolata con erbe essiccate

e pressata in un’anfora di terracotta

unta di panna acida, sigillata

e capovolta su uno strato di cenere

per almeno sei mesi. Mancano

i luoghi di stagionatura

Pecora Navajo-ChurroStati Uniti

Resistente alla fame e alla sete,

è allevata nel New Mexico secondo

i metodi della transumanza

e del pascolo. Ha carne magra

e di sapore dolce, offre latte

in abbondanza e lana di ottima

qualità. Dai 2 milioni degli anni

Settanta, l’imposizione degli incroci

di razza e l’indebolimento della

cultura Navajo hanno ridotto a 500

il numero dei capi. Si sta attivando

un sito web per la vendita diretta

Riso rosso di AndasibeMadagascar

Dall’incrocio di risi africani e asiatici,

è nato il Vary Mena, ricco

di vitamine e dal caratteristico gusto

nocciolato. I contadini malgasci

lo preparano a mo’ di zuppa

con erbe selvatiche, oppure condito

con peperoncino e sale, o come

contorno di pollo bollito, uova fritte,

lenticchie, foglie di cassava. Come

tutti i risi integrali, è stato sacrificato

sull’altare delle alte rese, malgrado

la sua riconosciuta salubrità

Kechek el FouqaraLibano

Il formaggio dei poveri, detto anche

Jebnet el burghol, formaggio

di burghul, in realtà è senza latte,

e si produce con grano fermentato

in acqua, cotto, frantumato

e rifermentato altre due volte

Al termine della lavorazione,

si ottiene un impasto da profumare

con timo, cumino, fiori d’arancio,

sesamo, pepe. Vengono così

realizzate delle palline conservate

in olio prodotto dai contadini

Dieci cibi per salvare il pianeta

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 51DOMENICA 22OTTOBRE 2006

Antichi seminuovi brevetti

Una battaglia di civiltà

VANDANA SHIVA

Diciannove anni fa, nel 1987,ho cominciato a mettere daparte sementi per creare un

futuro diverso da quello progettatodall’industria biotecnologica: unfuturo cioè in cui tutti i semi saran-no geneticamente modificati e bre-vettati. Questa visione di libertà deisemi si è concretizzata nell’asso-ciazione Navdanya. Navdanyavuol dire «nove semi». Vuole anchedire «il nuovo dono». Tramite Nav-danya abbiamo portato il nuovo

dono di semi antichi ai no-stri contadini. Navdanyacrea banche comunitariedi sementi basate sul sal-vare, conservare, ripro-durre, moltiplicare, distri-buire varietà autoctone ocontadine, varietà che sisono evolute e sono stateselezionate nel corso deimillenni.

Da una parte il nostro seed savingdifende le sementi come un benecomune, resistendo, attraverso l’a-gire quotidiano, all’idea degradata,immorale, incivile, che il seme sia“proprietà intellettuale” delle mul-tinazionali, e quindi che salvare i se-mi sia un reato. Dall’altra, le banchedei semi di Navdanya sono alla ba-se di un’altra economia alimentare,un’economia alimentare basatasulla biodiversità e sulla diversitàculturale, sulla sostenibilità e sullagiustizia.

L’economia alimentare domi-nante è basata su monopoli e mo-noculture, sull’industrializzazionedella produzione e la globalizzazio-ne distributiva di una manciata dicereali, come mais e soia, riso e gra-no. Questa economia ha spinto unmiliardo di persone alla fame e altridue miliardi all’obesità. Sta cancel-lando specie e uccidendo contadi-ni. Centoquarantamila farmer inIndia si sono suicidati perché le va-rietà ibride e geneticamente modi-ficate (quindi sterili) li hanno obbli-gati ogni anno a comprare semi co-stosi e non redditizi. A venderli, so-no i giganti del biotech come Mon-santo, che accumulano profittiesorbitanti dai brevetti, mentre icontadini finiscono stritolati daidebiti, arrivando fino al suicidio.

Il seed saving di Navdanya spargesemi di vita anziché semi di morte.Noi spargiamo semi di speranza an-ziché semi di disperazione e sfidu-cia. Spargiamo semi di libertà anzi-ché semi di schiavitù e suicidio.Dopo lo tsunami, una varietà di ri-so adatta ai terreni salini ha rico-struito l’agricoltura devastata diTamil Nadu. I nostri semi di Deh-

ra Duni Basmati ci hanno da-to la forza di combattere la

Ricetec del Texas, cheaveva brevettato il risoBasmati. Le nostre se-menti di grano autocto-no ci hanno ispirato a

combattere Monsan-to quando ha brevet-

tato una varietà digrano indiano abasso contenutodi glutine.

I nostri semi ciinsegnano lezioni

di diversità e demo-crazia. Dai nostri semiimpariamo come di-fendere la libertà dellabiodiversità e la libertà

dei contadini in un’epo-ca di strapotere di multi-

nazionali, tecnologie mo-derne e pochissime colture glo-

balizzate.

UmbùBrasile

Piccolo frutto succoso, aromatico,

agrodolce, deve il nome alla parola

india y-mb-u, albero che dà da bere

Grazie alle particolari radici,

che immagazinano grandi quantità

d’acqua, è compatibile al clima

siccitoso del Sertão e produce

anche tre quintali di frutti l’anno

Con la polpa (fresca o conservata)

mescolata a latte e zucchero,

si prepara l’umbuzada, bevanda

energetica che sostituisce la cena

Datteri dell’oasi di SiwaEgitto

Tre fra le varietà più pregiate,

coltivate nel cuore fertile di una zona

desertica (300mila palme e 70mila

olivi, uniche piante che tollerano

l’irrigazione con acqua salmastra)

sono a rischio di scomparsa. I datteri

sono l’ingrediente principale di Elhuji

(con uova e olio), Tarfant (a base

di pane e olio di oliva) e Tagilla

(con farina, olio di oliva, acqua).

Durante il Ramadan, si mangiano

la sera, per rompere il digiuno

Nettare di CanudoBrasile

Le piccolissime (e senza

pungiglione) api Canudo sono

allevate nei villaggi degli indios

Sateré-Mawé che perpetuano

l’uso della medicina tradizionale

con i prodotti dell’alveare e

preservano la produzione dell’antico

miele dei Maya. Acido e molto

zuccherino, è liquido, aromatico,

pregiato, particolarissimo. Vanta

anche proprietà medicinali, tra cui

prevenzione e cura della cataratta

Chuño bianco tradizionalePerù

È un metodo di elaborazione

complesso che permette

di liofilizzare le patate sfruttando

i forti sbalzi di temperatura: esposte

al gelo della notte (anche a -15 gradi)

in alternanza alla luce e al calore

del giorno, poi immerse in acque

gelide, le patate diventano bianche

e leggerissime, come una pietra

pomice. Così trattate si conservano

anche per dieci anni: basta rinvenirle

in acqua prima della cottura

Stoccafisso di SørøyaNorvegia

Il limite dell’Oceano Artico nel nord

della Norvegia ospita una delle zone

più ricche di pesce del mondo, dove

i merluzzi arrivano a deporre le uova

Qui vengono presi all’amo - sistema

di pesca sostenibile - e consegnati

entro due ore (quindi non congelati)

per la trasformazione in stoccafisso,

grazie all’essiccazione all’aperto

per tre mesi. La difficoltà di trovare

un mercato adeguato mette

a rischio la produzione

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le tendenzeMode storiche

Abiti-peplo tagliati sotto il seno, scarpine di velluto ultrapiatte,mussole e giacche con stemmi imperiali. Mentre nelle saleimpazza l’ultimo film di Virzì sull’esiliato Napoleone e si attendela prima di “Maria Antonietta” di Sofia Coppola, in vetrinatornano, rivisitati in chiave moderna, i modelli del passato

52 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 22OTTOBRE 2006

Nonsolo film, ma costume, moda, quasi mania. Mentre sta per ar-rivare nelle sale Maria Antonietta (il 17 novembre), il film rococò-rock di So-fia Coppola sulla giovane regina di Francia, e Io e Napoleonedi Paolo Virzìè sugli schermi da poco più di una settimana, sulle passerelle e nellevetrine impazza lo stile regale e quello impero. A garantirlo sonoproprio gli stilisti che, per primi, si sono innamorati di queste

versioni cinematografiche di Maria Antonietta e di Napoleone. Le fan della gio-vane e sventurata regina di Francia giocheranno con crinoline dai colori pa-stello, cappelli e scolli decorati con fiori di campo, mentre le supporter di Na-poleone e la sua corte di dame si noteranno per gli abiti con tagli stile impero.Da qui a Natale, le pellicole dedicate a Maria Antonietta e all’epopea napo-leonica lasceranno tracce ben visibili negli armadi delle donne. Sottogonne,sbuffi, balze, pizzi, fiocchi e altri dettagli tipici del Settecento, rivivranno, in chiavemoderna, nel guardaroba di questo autunno-inverno insieme ad abiti alla Paolina Bonapar-te, sorella dell’Imperatore, perfettamente tagliati sotto il seno, morbidi sul corpo e quindi ideali permascherare piccole imperfezioni. La silhouette alla “Napoleon” fa belle le donne e piace anche aMonica Bellucci, che nel film di Virzì veste i panni della bella baronessa Emilia. «Grazie allo stile im-pero — dice, guardandosi allo specchio — noi donne non avremo più problemi ai fianchi».

Tra gli stilisti che più di altri hanno reso omaggio alla corte di Napoleone, ci sono i Dolce eGabbana. I loro abiti da sera, a vita alta con corpetti e generosi décolletée, scendono morbidied eterei fino alla caviglia, con maliziose trasparenze e decori preziosi. Sono abiti importanti,da indossare con borse di velluto sulle quali campeggiano corone ricamate in oro (già copia-tissime dal mercato parallelo del falso). Lo stile impero piace e la schiera dei creativi pro-Na-polone, stilisticamente parlando, conta nomi illustri. Eccoli: Valentino, Armani, Chanel,Roberto Cavalli, Gucci, Fendi, Krizia, Mariella Burani, Missoni, Luisa Beccaria, Laura Bia-giotti e Antonio Marras.

Nell’elenco figura anche Gianfranco Ferrè, lo stilista-architetto che fa abiti stile impe-ro ma è pronto ad esaltare anche «la grazia di Maria Antonietta che si colora di maliziacon trine e merletti, preziosi damaschi virati in tinte pastello, vite strizzate e corsettimozzafiato». Dalla parte di Maria Antonietta ci sono anche Miu Miu con mini gonnein broccato, Yves Saint Laurent che firma una cappa reale tempestata di rose, Vic-

tor&Rolf che hanno bagnato nell’argento i loro corsetti, e Vivienne Westwood conuna ricca serie di abiti realizzati pensando a Versailles.

«Quest’inverno le donne si concederanno qualche civetteria in più — dice Al-berta Ferretti —, affascinate da questi film si divertiranno a indossare abiti impe-

ro o gonne con crinoline, sensuali e, comunque, moderni, perché la moda an-che se strizza l’occhio al passato veste le donne di oggi tenendo ben presente

che un abito deve essere pratico e facile da indossare». La Perla ha model-lato reggiseni adatti a sostenere il décolletée impero, Donatella Versace,

da parte sua, ha creato modernissimi abiti tagliati sotto il seno e più va-porosi sui fianchi, Roberto Cavalli ha disegnato preziose camicie dal-

le maniche a sbuffo, Blumarine si è affezionata al blu royal che di-venta golf con bordi in visone, Custo Barcelona ha rilanciato le

gorgiere mentre Lanvin ha aggiunto fiocchi ai giri di perle. E ancora: Enrico Coveri ha dato un tocco di colore consventagliate di paillette, Louis Vuitton ha fatto abiti da

vera cortigiana, Kristina Ti ha firmato le borse da co-cotte reale, mentre Moschino si è divertito a dise-

gnare cappotti sartoriali degni di Paolina Bona-parte. Il tutto accompagnato da fragranze

agrumate. «Lo stile impero richiama l’olioessenziale di neroli, frutto della distilla-

zione di fiori freschi dell’arancio ama-ro — spiega Laura Tonatto maestra

profumiera —. L’essenza piace-va a Napoleone e anche sua

sorella Paolina se ne inna-morò, facendola diven-

tare una delle fra-granze più im-

portanti dell’e-poca».

LAURA ASNAGHI

stileImpero

Le fan della giovaneregina di Franciagiocano con corsettipizzi, fiocchi,balzee dettagli in vogaa fine Settecento

SI APRANO LE DANZEAbito per il gran ballo

a corte, firmato

da Christian Lacroix

che usa sete preziose

per le vaporose

gonne a fiori, sorrette

da un piccolo bustier

Ai piedi sandali

gioiello con pietre

preziose e perle

TRIONFO ETNICOTaglio stile impero

per l’abito di Kenzo,

disegnato da Antonio

Marras. I bordi sono

decorati con motivi

etnici. Il corpetto

che fascia il seno

lascia spazio

a un ampio décolletée,

sostenuto

da spalline nere

PASSI FELPATIScarpe in camoscio con “fiocco

d’amore”, per Ballantyne, storico

marchio del grande cachemire

L’eleganza ritrovatanel segno di Bonaparte

LA STATUA“Paolina Borghese”,

realizzata dal Canova

nel triennio 1805-1808

ARMATI D’IRONIAÈ ironica la borsa

di Braccialini

che ha la forma

di una corona

reale, decorata

con pietre preziose

Si porta al braccio,

chiude con la zip

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 53DOMENICA 22OTTOBRE 2006

Cagionevolicoturni cingevano i piedi nudi, dalle dita inanellate. Le tuniche,chiare e leggere, non arrivavano al ginocchio, e lasciavano intravedere idiamanti delle giarrettiere — “i diamanti della corona”, si disse; serti di bril-lanti incoronavano i “globi proconsolari” dei seni; e scintillavano sui venta-gli le paillettes, un tempo proscritte dalla virtù repubblicana. La tenuta di ma-dame Tallien, amante di Stato del Direttore Barras, a una serata d’apparato

all’Opéra alla presenza di Napoleone, era stata concepita da Amaury Duval, capogabinet-to delle Scienze e delle Arti al Ministero dell’Interno.

Il primo console eccepì. Ma era ineluttabile ispirarsi a tenute anteriori a Gesù Cristo; perinterrompere la storia, la rivoluzione dell’89 aveva riabilitato la tunica greca, e le donne nonsi vestivano più, si drappeggiavano. Stoffe impalpabili rivelavano la linea del fianco, on-deggiante alla nuova andatura imposta dagli scarpini piatti; il seno, appena velato dallascollatura rettangolare, sorretta da corte maniche chiamate, giustamente, bretelle, era sot-tolineato dalla cintura, avvinta subito “sotto il braccio”.

Si sa che Napoleone aveva conquistato la Beauharnais con un prezioso scialle di ca-chemire («invece di mandare i soldi alla famiglia, che ne aveva tanto bisogno», soffiavaBarras). Esotici e coloratissimi, i turbanti e gli scialli erano l’unica barriera contro il gelo.L’Impero napoleonico portò un po’ di morale, e di corpetti di velluto cremisi, alla ditta-tura delle mussoline e dei veli bianchi, inzuppati per essere più rivelatori. Agli uomini,che sembravano tutti cocchieri, così costretti nelle redingote scure dell’abito inglese,già “democratico”, le vittorie di Bonaparte imposero militareschi stivali. Il blocco na-vale intanto rendeva proibito e proibitivo il cachemire inglese; e si dovette sdogana-re d’autorità il materiale per le divise del Direttorio. Le parrucche periclitavano. Dasempre i parrucchieri andavano al Louvre a studiare in rispettoso silenzio, nell’ate-lier del pittore giacobino David, le acconciature delle sorelle di Bruto da riprodur-re sulle clienti — aggirandosi tra i mobili “etruschi” che Jacob copiava da Ercola-no, e che la spedizione in Egitto decorerà di sfingi e palmette. Il parrucchiere al-

la moda diventò Duplan, l’ex valletto di Talma, il grande attore che inse-gnava la dizione a Napoleone e disegnava i propri costumi sulle statue

antiche; l’onnipresente taglio alla Tito — ancora oggi in uso: ca-pelli corti, senza parrucca e senza cipria né codino — veniva da

un suo successo a teatro. Ma all’inizio, agli stranieri, le testealla Bruto facevano pensare a altrettanti babbuini.

Anche per le donne furoreggiavano i capelli bagnati oall’annegata — cioè veri e lavati, semmai mescolati ariccioli posticci, a aureolare la fronte come alle ma-trone romane. Ai tempi del divino Léonard, quan-

do era Maria Antonietta a dettare la moda, le parruccheospitavano intere voliere e fregate, e erano così alte che si do-veva entrare in carrozza in ginocchio (Léonard aveva seguitola sua regina nella fuga a Varennes, col risultato che avevanoghigliottinato, in sua vece, il fratello). Ora restava solo il lar-go cappello di paglia, di tutta la fantasia preromantica erousseauiana dell’ultima regina, che aveva ricreato alTrianon di Versailles la natura selvaggia e un primiti-vo evo contadino. Ma al posto del cappello si prefe-

riva dar volume ai riccioli naturali esponendoli aivapori di una pentola in ebollizione.

Era stata (di nuovo) madame Tallien laprima a sacrificare le lunghissime chio-me, ciocca dopo ciocca, per far arri-vare dei biglietti, dalla finestra del-

la sua cella del Terrore, almarito sottostante. Maora, per chi si penti-va del sacrificio

della chioma,c’erano i “copri-

pazzia”, cortep a r r u c c h eblu.

DARIA GALATERIA

PIOGGIA DI CRISTALLILa “belle Vivier”, modello Tiffany,

con tacchi bassi, realizzata in raso

con fibbia tempestata di cristalli

OMAGGIO A PAOLINASi chiamano Miss Paolina

e l’Etoile, la borsa con borsellino

dei Dolce&Gabbana dedicata

alla sorella di Napoleone

L’ANELLOIMPERIALEKidult reinventa

l’anello in “stile

impero”: ed ecco

un grappolo

di boule in ametista

montate su acciaio

PROFUMO D’AUTOREÈ di Baccarat la boccetta

per il profumo,

in edizione limitata,

di Burberry Brit Crystal

TOUR EIFFELIl bracciale rosa

di Jean Paul

Gaultier ha i bordi

in pelliccia

Al centro, la Tour

Eiffel, simbolo

di Parigi

CON IL FIOCCOLa scarpa

Moschino

in vernice verde

con fiocco

in gros grain

è di ispirazione

settecentesca

OLTRE IL DRAPPOL’abito da sera

di Valentino, ispirato

a una giovane

e moderna Paolina

Bonaparte,

ha un corpetto

decorato

con preziosi ricami,

mentre la gonna

fascia le gambe con

morbidi drappeggi

PER REGINE ROCKBorsetta di pelliccia,

a pelo lungo, di Miu

Miu con coda

a mo’ di ciondolo,

per regine in versione

rococò-rock, come

la Maria Antonietta

di Sofia Coppola

LUCE DORATAStrass, perle e oro

per i sandali Pucci,

con il tacco alto

Di Rossimoda

DA GRAN DAMARealizzato

in tessuto dorato

l’abito da sera

di Giambattista

Valli con corpetto

e gonna lunga

da gran dama

Tunica greca e ricciolilook da Rivoluzione

CATENA E CORONABorsa da sera

di Philosophy, la linea

giovane di Alberta

Ferretti, con grande

corona reale e tracolla

in sottile catena di metallo

GIOIE FEMMINILIÈ un gioiello

con fiocco di diamanti

In perfetto stile

impero l’ultima

proposta di Dior

Repubblica Nazionale

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54 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 22OTTOBRE 2006

l’incontroMaschera e volto

LAURA LAURENZI

ROMA

Una signora altera, inac-cessibile, scostante, unmodello da ammirare dalontano. Così la dipinge

la leggenda. Leggenda falsa: vista da vi-cino Rossella Falk è una donna alla ma-no, simpatica, persino affabile. La vocenon è affatto impostata, il modo di fareè naturale, quasi semplice. La corniceperò non lo è. Ci incontriamo nella suacasa romana: un fastoso attico altobor-ghese in via Nazionale, nel palazzo delTeatro Eliseo, l’appartamento in cuiabitò Paolo Stoppa.

Poliglotta, cosmopolita, una vera pri-madonna. Gran carattere, una mattatri-ce. Seduta sul divano rococò di damascodorato, eretta e impeccabile in un com-pleto pantaloni di seta cruda color limo-ne, trucco leggero, piega dei capelli per-fetta, la Falk mette una certa soggezione.Ma quando apre bocca non è più l’Ulti-ma Diva, Madame come la chiamava Vi-sconti, la Signora del Teatro, la Divina,bensì una persona normale, soltanto unpo’ stanca di dover ripetere ancora unavolta, come ha fatto per tutta la vita: nonsono quella che sembro.

La maschera e il volto. Il 10 novembrecompirà ottant’anni, un traguardo chesi appresta a tagliare senza ipocrisia,senza barare sull’età, ma anche senzagrandi festeggiamenti. «Non so dovesarò, con chi sarò, che cosa farò. Quelgiorno penserò che ho avuto una vitabellissima e che continuo ad averla, eche spero di averla ancora per un po’ ditempo. Penserò che questi anni sonopassati in un lampo perché li ho vissuticon molta naturalezza, ho sempre fattoquello che mi piaceva fare e mi sonomolto divertita».

Diecimila recite, un centinaio didrammi di cui è stata la protagonista as-soluta, 54 premi «senza contare le me-daglie al valore» e tanti progetti futuri.

Ottant’anni: davvero non li dimostra. Ilfisico è asciutto: «Il fatto di essere così al-ta, un metro e 76 — ai miei tempi era dav-vero molto — mi ha impedito di recitarecerti ruoli femminili tradizionali, Ofelia,Giulietta, le fanciulle vulnerabili e palpi-tanti. Sono stata subito chiamata a im-personare donne di grande carattere,remote, inavvicinabili, ma io non sonocosì». La pelle è tesa, levigata, le ingiuriedel tempo sembrano non avere lasciatotraccia. L’unico lifting confessato risalea vent’anni fa: «In una clinica vicino aNew York mi feci togliere le borse sottoagli occhi, che poi non mi sono mai piùtornate. Non ho niente contro un aiutodal chirurgo, ma quello che si vede in gi-ro è raccapricciante: tutto finto, tutto si-liconato, certe iniezioni che gonfiano. Ele bocche? Le bocche fanno paura. Èdavvero un viaggio senza ritorno…».

Attrice per caso. Niente sacro fuoco,niente vocazione. Lei, Rosa Antonia Fal-zacappa, non ci pensava proprio, maneppure lontanamente, a calcare le sce-ne. «Finito il liceo, studiavo il russo e gio-cavo a tennis. Un giorno ero a passeggioper Roma con un mio amico quando in-contriamo Giorgio De Lullo; io non loconoscevo, e lui mi dice, a quei tempi cisi dava del lei: perché non si iscrive al-l’Accademia? All’Accademia di che?,chiedo io. All’Accademia d’arte dram-matica, per fare l’attrice: sono tutte rac-chie e lei è una bella ragazza, la prende-ranno di sicuro. Confesso che fu la va-nità la mia prima molla».

Tutto è stato facile sin dal primo gior-no. «Non ho mai dovuto lottare per im-pormi, e questo forse è stato un peccato,mi ha tolto un po’ di grinta». Bellezza ati-pica, un po’ fuori scala, personalità fie-ra: in Accademia fu subito circondata dauna corte di ammiratori. Gassman si eraappena diplomato ma c’erano TinoBuazzelli, Gabriele Ferzetti, Nino Man-fredi, Paolo Panelli, Paolo Ferrari. «ConGiancarlo Sbragia ebbi un flirt molto se-rio, fu il primo amore della mia vita. Col-to, educatissimo, suonava il pianofortein maniera stupefacente. Davvero unragazzo fuori dal normale». Peppino Pa-troni Griffi la adocchia e chiede a un col-lega: «Chi è quella svedese dagli occhiche più occhi di così… che pare propriofarsi i fatti suoi?». Testuale. I suoi inse-gnanti sono Orazio Costa e Wanda Ca-podaglio, che le ripete: «Devi pensareche entri solo te, in scena».

A vent’anni debutta nei Sei personag-gi di Pirandello, nella parte della figlia-stra, ed è un trionfo immediato: alla Fe-nice di Venezia, a Roma, persino a Lon-dra. «Finita la recita, gli spettatori simettevano educatamente in fila peravere un mio autografo, a centinaia. Ionon mi rendevo conto. Beata inco-scienza: mi sembrava normale». Lamemoria è sempre stata un talento na-turale: «Facevo le gare con Gassman achi mandava a mente in meno tempoun intero atto di Giacosa. Avevamoun’ora a disposizione. Mi ha battuto

dai grandi attori di teatro. Perciò mi sor-prende la mia appassionata ammira-zione per Rossella Falk, un’attrice checome pochi altri ha la statura, la gestua-lità e la voce di un’eroina tragica ma cheè anche dotata di una spontaneità e diun’immediatezza profonde…». Lachiamava Rossellina: «Comunica unatale gioia di stare sulla scena che ti fa ve-nire voglia di saltare sul palco e farlecompagnia, rispondere alle sue battuteo improvvisare con lei».

Impressione ben diversa ebbe il cri-tico teatrale Roberto De Monticelli,tranne più tardi ricredersi dopo avereincontrato la Falk sulla Freccia dellaLaguna ed essere di fatto obbligato amangiare con lei allo stesso tavolo nelvagone ristorante: «Rossella Falk è an-tipatica, dura, distante e scostante.Con quella bocca avara, da egoista.Quel naso diritto e superbo. Quella sta-tura che le consente di guardarci dal-l’alto in basso».

Ride di cuore ascoltando queste pa-role la signora del teatro borghese, se-duta nel suo lussuoso salotto, fra or-chidee bianche e dalie e sue foto in cor-nici d’argento e quadri d’autore, ritrat-ti firmati Carrà, Guttuso, Mafai, DeChirico, tutto perfetto come a casa deigenitori: «Abitavamo in via BellottiBon, che era un famoso impresarioteatrale, all’angolo con via TommasoSalvini e via Eleonora Duse. Non lesembra un indirizzo predestinato?».

Ma qual è la vera Falk? Quella con «labocca avara»? O quella descritta daGianni Letta, suo grande ammiratore eanche amico, che a settembre l’ha so-lennemente premiata alla carriera alTeatro Olimpico di Vicenza e l’ha piùvolte definita «cordiale, dolce, remissi-va»? «Dolce sì, remissiva no. Nel lavorosono sempre stata determinata». Vi-sconti le disse: «Ti ho sempre ammira-ta: sei l’unica che mi ha tenuto testa».

Nella vita privata ha fatto della pro-pria indipendenza una religione, puravendo sposato due uomini del tipo fa-coltoso. Senza eccessiva fortuna tutta-via: il primo le chiese di rinunciare adavere un figlio; il secondo, GualtieroGiori, un vero Paperone re della zeccacon tre Rolls in garage, la obbligò a la-sciare il teatro per quattro anni e dopola mollò per un’altra. «A volte un uomoal fianco può essere d’impaccio. Ri-schierò di passare per cinica ma non homai creduto alla consistenza di unamore profondo fra un uomo e unadonna. Intendo dire: non ho mai cre-duto che possa essere molto duraturo».

Quando non è in tournée come inquesti giorni — prima New York, poiMilano, al Teatro Carcano con Vissid’arte vissi d’amorededicato alla Callas— si divide fra la casa di Roma e la villadi Zagarolo Hills, come lei chiama ilpaesino alle porte di Roma «deturpa-to», ride lei, «dal film Ultimo tango aZagarolo, da Ricucci e da Milingo». È lìche si ritempra, protetta da un vasto

lui, ma di pochi minuti».Perfezionista lo è da sempre: «Viveva-

mo in una casa ai Parioli molto bella do-ve tutto era sempre perfetto, le signoreche venivano per il tè il giovedì pome-riggio, fiori meravigliosi nei vasi, miopadre, colonnello di artiglieria, pieno dihumour, mia madre inappuntabile ecuratissima, credo di non averla mai vi-sta in vestaglia neanche una volta. A mepiace l’ordine, che tutto sia preciso e alsuo posto. Sono pignola, forse, comeerano pignoli però, di un perfezionismomaniacale, grandi personaggi con iquali ho lavorato, come Luchino Vi-sconti, come Giorgio De Lullo». Pigno-la, amante del rigore e perciò nemica diogni superstizione: «Mi vesto spesso diviola, anche a teatro, trovo ridicoli queiminuetti a tavola per non passarsi il sa-le, e non ho mai letto un oroscopo in vi-ta mia».

Federico Fellini, che la volle per im-personare la coscienza di Mastroianniin Otto e mezzo, la laureò con queste pa-role: «In genere non sono molto attratto

giardino botanico di dalie e castagni,leggendo, riflettendo, ospitando amici.La televisione non la guarda quasi mai:«È veramente aberrante, non ce la fac-cio. La volgarità ci sta sommergendo.Una volta ho guardato Il Grande Fratel-lo, è stato terribile. Arrivo al massimo aBeautiful, ma da un po’ di tempo hosmesso».

Donna di collaudata eleganza, de-plora la sciatteria imperante: «Questamoda di vestirsi di stracci è inspiegabi-le. L’altro giorno ero a Palermo e sonoincappata nello struscio del sabato po-meriggio in via Principe di Belmonte,una strada che ricordavo piena di beinegozi. Sono stata sopraffatta da que-sta massa di ragazzi e ragazze talmentebrutti e talmente pieni di anelli al nasoe all’orecchio e con tanti di quei rotolidi carne che uscivano dai pantaloni avita bassa che sono rientrata in albergoe non sono più voluta uscire».

I suoi leggendari guardaroba pieni diBiki, Gattinoni, Forquet e Capucci si so-no tuttavia andati assottigliando neglianni: «Quel che non indosso più lo re-galo. Ai musei o alle amiche. Che fareper esempio di tredici pellicce, ora chenon si portano più? Che fare di un cap-potto di breitschwanz tutto foderato dirosa?». Eppure al suo pubblico piacecosì: fatale e sofisticata, in mantella dibreitschwantz, sguardo alto e distante.«È soprattutto nelle città di provinciache trovo il pubblico più attento, quel-lo che veramente mi segue. Altrove,nelle grandi città, colgo una grande di-strazione. Non si capisce cosa il pubbli-co voglia dal teatro e cosa il teatro vogliadal pubblico».

Che consiglio darebbe a chi oggi vo-lesse seguire le sue orme, fare l’attoreteatrale? «Capire se ha dentro di sé unavera passione e non soltanto il deside-rio di apparire, la smania di mettersi invetrina. Chiedersi se ha abbastanzaspirito di sacrificio, abbastanza umiltà.Se ha pazienza, disciplina, voglia distudiare».

Un uomo al fiancopuò essered’impaccioRischio di passareper cinica manon ho mai credutoche tra un uomoe una donnaun amore profondopossa essere duraturo

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‘‘Tutta colpa della statura, un metroe settantasei: “Ai miei tempi eradavvero molto e mi ha tagliata fuoridalle parti di Giulietta o di Ofelia,fanciulle vulnerabili”. E dunque

questa signora del teatroche sta per compiereottant’anni ha sempreinterpretato donnedi carattere, facendosila fama di attrice alterae sofisticata. “Ma io nonsono così, io sono dolce

Solo sul lavoro sono molto decisaVisconti mi disse: ti ammiro,sei l’unica che mi ha tenuto testa”

Rossella FalkF

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