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LUCA RIBUSTINI NUVOLE DI MEMORIA “SOGNATORE È UN UOMO CON I PIEDI FORTEMENTE APPOGGIATI SULLE NUVOLE” (“Diario degli errori” - E.Flaiano) Nuvole. Bianche o grigie talvolta quasi nere. Nuvole rosse cariche di sabbia del deserto portate sulle nostre coste dallo scirocco; memoria di luoghi lontani a ricordarci che la terra è di tutti. Nuvole che non scelgono confini geografici grandi o mediocri che siano, riversano acqua senza distinguere. Un’azione che sta nella natura delle cose, immutabile. Solo pressione e temperatura ne scatenano la forza, null’altro. La terra stessa non distingue, accoglie anche la sabbia d’Africa. Acqua incolore, inodore e apolide e, quando diventa rossa, nutre la terra d’una cultura ignota; un dono esotico che libera la fantasia e costringe ad andare lontano per il breve volgere di un temporale. Idrometeore. Acqua (hýdor) che sta in alto (metéoros) nel cielo. Nome nobile. Ciò che sta in alto precipita sulla terra grani di rocce, messaggi, elementi vitali di origine misteriosa e acqua. La terra, quando può, restituisce. La natura racconta ogni giorno una circolarità energetica che si nutre e si alimenta degli stessi elementi che ne scatenano la forza. Ciascun elemento trae beneficio dall’altro, questa è l’inesauribilità del processo. Ogni composto non può fare a meno dell’altro e nell’altro trova l’autorevole certezza della propria esistenza. Ciascuno nella propria diversità, ciascuno nel rispetto reciproco delle proprie funzioni. Nuvole, o idrometeore, mutano la forma, la densità, il colore, il peso, la velocità ma la sostanza rimane la stessa: ridare alla terra ciò che la terra restituisce all’aria. L’unica aspettativa degli elementi è quella di cercare la diversità perché dalla diversità traggono la loro ragion d’essere.

NUVOLE DI MEMORIA

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Page 1: NUVOLE DI MEMORIA

LUCA RIBUSTINI 

 

 

 

NUVOLE DI MEMORIA 

 

 “SOGNATORE È UN UOMO CON I PIEDI FORTEMENTE APPOGGIATI SULLE

NUVOLE” (“Diario degli errori” - E.Flaiano)

Nuvole. Bianche o grigie talvolta quasi nere. Nuvole rosse cariche di sabbia del deserto portate

sulle nostre coste dallo scirocco; memoria di luoghi lontani a ricordarci che la terra è di tutti. Nuvole

che non scelgono confini geografici grandi o mediocri che siano, riversano acqua senza

distinguere. Un’azione che sta nella natura delle cose, immutabile. Solo pressione e temperatura

ne scatenano la forza, null’altro. La terra stessa non distingue, accoglie anche la sabbia d’Africa.

Acqua incolore, inodore e apolide e, quando diventa rossa, nutre la terra d’una cultura ignota; un

dono esotico che libera la fantasia e costringe ad andare lontano per il breve volgere di un

temporale.

Idrometeore. Acqua (hýdor) che sta in alto (metéoros) nel cielo. Nome nobile. Ciò che sta in alto

precipita sulla terra grani di rocce, messaggi, elementi vitali di origine misteriosa e acqua. La terra,

quando può, restituisce. La natura racconta ogni giorno una circolarità energetica che si nutre e si

alimenta degli stessi elementi che ne scatenano la forza. Ciascun elemento trae beneficio

dall’altro, questa è l’inesauribilità del processo. Ogni composto non può fare a meno dell’altro e

nell’altro trova l’autorevole certezza della propria esistenza. Ciascuno nella propria diversità,

ciascuno nel rispetto reciproco delle proprie funzioni. Nuvole, o idrometeore, mutano la forma, la

densità, il colore, il peso, la velocità ma la sostanza rimane la stessa: ridare alla terra ciò che la

terra restituisce all’aria. L’unica aspettativa degli elementi è quella di cercare la diversità perché

dalla diversità traggono la loro ragion d’essere.

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Nu.V.O.L.E. (Nuovi Valori ed Opportunità dei Linguaggi Espressivi) ha esattamente questa finalità:

raccogliere – potremmo dire “evaporare” - l’essenza più pura di linguaggi come il teatro, il cinema,

l’audiovisivo, la musica i nuovi media, e restituirli – potremmo dire precipitarli – ai giovani come

opportunità non occasionali per lo sviluppo ed il consolidamento di un vivere pieno e consapevole

della contemporaneità. Un ciclo virtuoso che ha visto esperti e docenti impegnati in un compito di

grande responsabilità: attivare il processo.

Nella complessità del percorso si sono rese necessarie elaborazioni teoriche ad hoc che,

attraverso uno sforzo di sintesi, progettassero strutture e processi semplici, chiari e di immediata

applicazione. Il bagaglio altamente tecnico che affianca – e talvolta sovrasta - il lavoro dell’esperto,

andava in questo caso posto in secondo piano rispetto alla finalizzazione progettuale. Veniva

chiesto altro rispetto alle competenze specifiche possedute e altro andava dato. Un impegno che

ha visto i docenti alle prese con una costante destrutturazione delle loro prassi educative al

servizio di processi “evaporativi” che cogliessero le essenze del pensiero occidentale nelle

rispettive discipline. Nu.V.O.L.E. dunque, come un collettore di energia sospeso a mezz’aria,

metafora del canone infinito della conoscenza dove testa e coda si inviluppano (1) in un incessante

scambio prolifico. Tutti noi, che abbiamo preso parte a questo progetto, siamo stati sognatori con i

piedi fortemente appoggiati sulle Nuvole e di questo, credo, serberemo memoria per lungo tempo.

1. Inviluppo è una tecnica di elaborazione elettronica dei suoni. Denominata ADSR, descrive le quattro

variabili che generano la vita di ogni singolo suono (Attack (Attacco), Decay (Decadimento), Sustain

(Sostegno), Release (Rilascio)

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I RAGAZZI DEL MURETTO DIGITALE

Comunemente per linguaggi espressivi si intendono le forme di comunicazione oltre il linguaggio

verbale o scritto. La musica, il teatro, il cinema, la danza come anche l’utilizzo di apparecchiature

elettroniche per le elaborazioni creative multimediali, sono i nuovi strumenti attraverso i quali i

giovani raccontano. Le nuove tecnologie digitali hanno naturalmente reso tutto ciò più facilmente

fruibile dalle nuove generazioni. Chiunque, soprattutto i ragazzi, sono veri e propri centri di

produzione. Catturano segnali visivi e/o sonori, immagini, montano il loro racconto e, sempre più

spesso, condividono sulle piattaforme online le loro storie. Siamo alla comunicazione attraverso i

nuovi media.

Il telefonino è diventato il centro delle relazioni così come lo è il social network, il nuovo “muretto

digitale” dove trascorrono una parte significativa del loro tempo e dove consumano passioni,

amori, amicizie, angosce. Vivono una realtà che talvolta non prevede la corporeità con i suoi odori,

le sue forme perfette ed imperfette; la consistenza dei sensi passa così in secondo piano.

Sembrerebbe che le giovani generazioni reagiscano al “mal di mondo” con una loro presenza

assenza. Ci sono ma non si vedono. Esistono ma solo su internet. Amano per sms. Si interrompe il

flusso vitale mente corpo, si cela il proprio volto o lo si espone in modo distorto privo dell’odore

dell’aria e della misura che l’aria stessa dà della nostra fisicità.

Quando i ragazzi si incontrano capita di registrare accadimenti abnormi, fuori misura per violenza o

per incapacità di prendere le misure esatte tra la loro energia, il loro corpo e ciò che li circonda.

Una relazione che, anche nella realtà, è sempre più simile a un video. Vi sono cose che hanno un

senso oscuro e misterioso, incomprensibili, illeggibili. Fare le corse sfidando il semaforo rosso è

una di queste. Non tutti sono così, ma molti vivono in prossimità di queste cose incomprensibili. Il

passato non esiste se non per vaghe nozioni distanti e polverose; è un passato senz’anima né

passione che sembrerebbe non riguardarli. Il futuro è angoscia pura, già divorato da chi dovrebbe

lasciarglielo puro e illibato. Rimane l’attimo del presente sempre più sottile e somigliante al nulla o

a un semaforo col rosso. D’altronde, fuori, profitti scellerati li usano come macchine da guerra nei

centri commerciali.

I giovani si raccontano per sintesi emotive, verbali, per contrazioni linguistiche che inventano

nuove scritture. Nel linguaggio del XXI secolo è tornato l’uso dei simboli. Un monitor, grande o

piccolo che sia, è la pietra digitale su cui incidere “emoticon” e farli durare il tempo di un “canc”.

Tempus perfectum cum prolatione imperfecta (1). Con pronuncia imperfetta, le lunghe strade del

pensiero cercano elaborazioni dell’emozione nel tempo brevissimo, seppure perfetto, di una

sinapsi. Nella partitura globale della contemporaneità raccontata attraverso un’agogica (2) inedita,

le nuove sintassi si muovono veloci senza distinzioni di razze, religioni o paesi. Le occasioni offerte

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per moltiplicare esponenzialmente la capacità di riconoscere, valutare e gestire in modo

consapevole le proprie e altrui emozioni sembrerebbero non avere limiti se non quelli di una

normale giornata di veglia. Verrebbe da pensare, in questa moltitudine di sollecitazioni, che tutto

volga velocemente verso una ridefinizione dell’intelligenza emotiva dei giovani. Poi accade che,

superato l’inebriamento da overdose tecnologica, torni il sospetto che questa risorsa delle mente –

e dell’animo - stia precipitando in una confusione generatrice di falsi piani, di sovrapposizioni di

cortocircuiti, di realtà parallele vissute come vere. Se da un lato, dunque, i timori che riemerga il

magma informe sono assai diffusi, dall’altro vi sono alcuni, ma chiari, segnali che indicano la

necessità di insegnare che l’evaporazione e la restituzione hanno un loro tempo, in mancanza del

quale il rapporto tra la vita dei giovani e la contemporaneità è destinato a contrarsi fino a piegarsi

su sé stesso e annullarsi.

Con i nuovi linguaggi i giovani hanno grande dimestichezza, ma ne sono anche governati. I

terminali che generano questi nuovi linguaggi, sono scatole dove i codici sorgente sono

inaccessibili. La violazione dei complessi sistemi informatici o delle banche dati è considerata,

dalle giovani generazioni, come una delle strade per accedere alla cabina di comando dove i codici

vengono scritti e implementati; quando il giovane hacker non riesce a cambiare un bel niente

nonostante l’accesso, lascia tracce di omini virtuali saltellanti o trasforma interi programmi in bolle

di sapone sul monitor; come a dire “noi ci siamo, ora ci vedete”. Naturalmente fa riflettere il modo

che gli è concesso per mostrare il proprio talento.

Sono finiti i tempi delle mappe di memoria dei chip a 8 bit, ancora per pochi eletti i software open

source. Verso la fine degli anni ’80 lavoravo a Roma con i ragazzi delle scuole medie sui

processori audio 6581 e il successivo 8580 della MOS Technology, i SID (Sound Interface Device)

montati sulle macchine Commodore 64 e 128 e già allora mi resi conto che “la struttura mentale

che sottende l’approccio conoscitivo” (3) andava progressivamente mutando in una direzione

inedita. In quella breve manciata di anni dopo la quale le grandi hardware house chiusero

definitivamente le porte alla programmazione via software dei processori di sintesi sonora,

sperimentai con i ragazzi la progettazione di un sequencer. Mappa della memoria sotto gli occhi,

on/off in codice macchina per ogni bit. Sapevano esattamente cosa accadeva dentro il sistema.

Loro ne erano protagonisti assoluti. Inventavano suoni, polifonie e melodie. Progettammo insieme

una matrice tridimensionale che consentiva la gestione simultanea e assolutamente indipendente

di tre voci. I processori SID consentivano un accesso ext-in. Il loro mondo fisico entrava in quello

emotivo. Con un piccolo microfono manipolavano le loro voci e ciò che li circondava, in sintesi

sottrattiva.

Oggi queste elaborazioni sono naturalmente possibili ma con la sostanziale differenza che le

possibilità sono date da preset: una scelta di sistemi chiusi che solo apparentemente offrono

libertà, in realtà veicolano estetiche, mode, intercettano le logiche dei giovani trasformandole in

business. Il palmare e il tablet sono lo stato dell’esistenza: più belli, più facilmente connessi, più

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prossimi ai ragazzi i software che li animano. Ho, dunque sono. Ma i giovani tentano di esprimere

ciò che tentano di comprendere di loro stessi e, dunque, intercettare la sostanza di queste nuove

espressività è importante quanto far acquisire alle nuove generazioni la consapevolezza della

necessità di appropriarsi del codice sorgente inteso come opportunità per capire, alla radice, i

fenomeni della contemporaneità.

L’incontro con i ragazzi del Centro di Formazione Professionale del CIOFS di viale Palmiro

Togliatti è avvenuto verso l’estate. Una delle fasi finali dove l’obiettivo era quello di

sperimentare, con gli alunni, i sussidi messi a punto nella fase precedente insieme ai

formatori. Naturalmente era forte la trepidazione sia da parte dei formatori che degli

esperti che avevano animato il percorso fino a quel momento. Andare in classe significava

in primo luogo non solo trasferire ai ragazzi tutto quanto si era fatto fino a quel momento

ma, soprattutto, verificare nella pratica che i percorsi messi in campo – sia teorici che

pratici – avessero una loro consistenza formativa oltre che fondamento teorico poggiato su

di un percorso logico e coerente.

Preparai quegli incontri con grande attenzione. Naturalmente i formatori avevano

dimestichezza con quelle classi e, dunque, sapevano a cosa sarebbero andati incontro

almeno per quella parte che genericamente si definisce relazionale. Per il resto

aspettavano da me, come dagli altri esperti, che indicassimo la strada giusta da

percorrere. Ho deliberatamente scelto di poter sperimentare i sussidi in molte delle

discipline che fanno parte del percorso didattico. Una parte della sperimentazione è stata

svolta con i cinque formatori che hanno seguito il lavoro durante tutto il periodo dell’Azione

Non Formativa, un’altra parte – seppure marginale – è stata svolta dagli altri cinque

docenti che hanno potuto frequentare solo le poche ore di Azione Formativa, dunque, non

completamente immersi nello spirito del progetto, nelle sue fasi, nei prodotti realizzati e in

tutti i passaggi necessari per arrivare fino a quel punto. Ho cercato e previsto con

decisione anche questo tipo di sperimentazione – quella fatta con i formatori meno esperti

presenti nella sola Azione Formativa – perché avevo sia la necessità di sperimentare i miei

sussidi in condizioni non ottimali – pur essendo questi formatori bravissimi nel saper

gestire sussidi mai visti prima – sia di capire che tipo di problematiche potessero emergere

in una condizione tipo come quella che potrà ricrearsi in uno dei numerosi Centri di

Formazione Professionale della Provincia di Roma dove il nostro lavoro sarà messo a

regime in strutture che non hanno mai visto noi esperti/docenti e che non hanno seguito lo

stesso percorso dei formatori del CIOFS.

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Il lavoro con i ragazzi è stato assai interessante con risultati rilevanti sia sotto il profilo

pedagogico che meramente tecnico. Mi rammarico ancora di aver trascorso con loro poco

tempo. Un tempo in cui ho potuto solo “vedere la classe” senza poter entrare in relazione

con ogni singolo allievo. Una fretta che non mi ha permesso di imparare i loro nomi,

percepirne gli umori, la noia, lo stupore, le quotidiane fatiche d’età e di vita. Per alchimie

d’orari scolastici, in alcune classi ho trascorso più tempo potendo sperimentare lo stesso

sussidio con più formatori dunque in contesti disciplinari diversi. Quei ragazzi verso le

ultime ore abbozzavano timidi sorrisi e brevi cenni di mano per salutarmi. Troppo poco per

quello che avrei desiderato, forse già tantissimo per loro nei confronti di un illustre

sconosciuto che li va a tormentare provando a farli ragionare in modo diverso da come

fanno di solito.

Verso la fine della sperimentazione – se non ricordo male o l’ultimo giorno o uno degli

ultimi – accadde una cosa che lasciò me e il formatore senza parole. Stavo finendo questa

parte del lavoro e mi rimaneva un’ora nella classe del docente formatore della materia

video editing. Avevamo concordato con il docente l’uso del sussidio “preludio” (4) e lui

stesso aveva raccolto del materiale, frutto delle sue lezioni, che potesse animarsi

attraverso questo sussidio. Nella classe multimediale, ogni ragazzo aveva il suo PC con il

software necessario al montaggio di una sequenza video-fotografica che avrebbe preso

forma concettuale sul preludio di Bach. I ragazzi dovevano scegliere da una serie di foto,

fatte durante una gita scolastica in un museo, quelle che a loro avviso potevano essere

adatte a ricostruire una sequenza logica o semplicemente emotiva esattamente come fa

Bach nel suo preludio attraverso i picchi melodici distanti tra loro ma coerenti nella forma,

nel percorso melodico e armonico.

Io e il professore affrontiamo la classe armati di idee chiare, materiali pronti e una buona

dose di esperienza sulle spalle. C’era un piccolo dettaglio che non ci eravamo detti, ma

che sia io che lui sapevamo come un tarlo nella testa dell’altro: che effetto avrebbe fatto

alla “ciurma”, abituata a ben altra musica, l’ascolto di un preludio di Bach? Io provai, da

buon progettista, a prevederne l’esito ma mi astengo, per stile della scrittura e contesto del

racconto, dal dar memoria dei verbi coloriti e dei gesti poco canonici che mi sono saltati in

mente. Vado dunque oltre inutili congetture e, con il formatore, entriamo in aula. I ragazzi

mi avevano già visto, questo giocava a mio favore. Mi salutano con sorrisi un po’ stanchi,

ma sinceri. La quinta ora faceva già sentire il suo effetto sullo tsunami di testosterone che

dalle 8 della mattina aleggia in tutto il Centro. Spiego brevemente cosa andremo a fare e il

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docente, per parte sua, dà i dettagli operativi e tecnici sull’uso del software. A quel punto

decido che è ora: accendo il lettore e faccio ascoltare il preludio.

Segue un silenzio assoluto, totale, sconvolgente. I ragazzi mi guardano. Abbozzo un

sorriso poi capisco che è fuori luogo. Continuano a fissarmi e mi cercano con gli occhi,

tento di guardarli uno ad uno. Poi iniziano a guardarsi tra loro, si capiscono anche senza

parole. Si fissano, gli sguardi si sciolgono. Mi chiedono di ascoltarlo un’altra volta. Non

dico una parola, faccio ripartire il CD. Dopo i pochi minuti che dura il preludio, nuovo

silenzio. L’anziana e amabile suora entra pian piano nella classe, sorride e dice: “Ma che

succede qui? Che silenzio!” Le dico cosa stiamo facendo. Lei sorride ancora e rimane con

noi per un altro ascolto. Quello che accadde dopo è ampiamente documentato nel

progetto, quello che accadde in quel momento è qualcosa che nessuno aveva previsto. La

bellezza dell’arte irrompe in una classe di ragazzi devastati da subculture e fa centro.

A 16 anni hanno saputo riconoscere; hanno capito che qualcuno li ha condotti per mano,

senza forzature e con il garbo e il rispetto dovuti, al cospetto di un mondo che è anche il

loro ma che a loro è precluso. Hanno ringraziato con gentilezza e riconoscenza per quello

che è stato loro offerto in modo semplice ma con un obiettivo forte. Si sono sentiti in quel

momento parte di quella bellezza, non solo perché ascoltatori attenti, ma anche perché

protagonisti di una restituzione di Nu.V.O.L.E. L’esperto ha “evaporato” odori ed essenze

musicali verso le nuvole ed esse hanno restituito in quel momento, ai ragazzi, una delle

strutture di pensiero – in questo caso musicale – più imponenti e straordinarie prodotte

dalla cultura occidentale. Nu.V.O.L.E. ha chiesto ai giovani della classe di conoscere e

utilizzare questa struttura per raccontare loro stessi, la loro cifra narrativa, e diventare

protagonisti della loro esistenza attraverso processi di memoria alchemica dal passato.

Decontestualizzare forme nate per una sintassi e che da una sintassi prendono corpo e

vita è sempre un rischio, ma tali strutture stimolano approcci alla percezione che possono

essere estrapolati e stilizzati e, dunque, possono raccontare altro in ambiti disciplinari

diversi. Strutture di pensiero che insegnano a organizzare i materiali, le procedure, le

priorità, le gerarchie degli elementi della comunicazione, strutture che insegnano a ricreare

dalle macerie della nostra contemporaneità e contribuire a “fondare una “cartografia

dinamica della conoscenza” nella quale il singolo o il gruppo ricostruisce frammenti di

conoscenze e di esperienze e li rappresenta con i nuovi linguaggi” (5).

In quel momento, in quella classe, ho capito che ci sono molte cose possibili. Che molte

delle cose possibili sono faticose, complesse ma alla fin fine realizzabili. Che molte delle

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cose faticose, complesse e realizzabili non si fanno. Quando si fanno - perché ad un tratto

si decide il meglio - ci si accorge che il disagio è sabbia e che uno sforzo congiunto e

intellettualmente onesto procura un benessere che restituisce civiltà. Quella che ci

chiedono le nuove generazioni

1. Nella notazione mensurale bianca (metà XV sec. Fine XVI sec.) è il rapporto tra brevis e semibrevis

con quattro diverse combinazioni tra prolationis e tempus

2. Tra i sussidi proposti ai formatori nel percorso dell’Azione Non Formativa, c’è il “preludio”. Nello

specifico si è utilizzato la struttura del preludio in Do minore dal Clavicembalo Ben Temperato di

J.S.Bach (BWV 847). Acusticamente il risultato sonoro è su due livelli: il primo è una sorta di

“motore” dove la velocità e la quantità di suoni rende difficile ogni discriminazione sonora; il secondo

sono dei “picchi” di suoni, scanditi con regolarità ritmica, che ricostruiscono – seppure distanziati tra

loro - una melodia. Chi ascolta si trova dunque ad affrontare due livelli: un “motore” veloce e di

difficile comprensione delle singole note e/o melodia, e i “picchi” in alto che seppure distanziati tra

loro, raccontano una storia/melodia. Dal punto di vista concettuale il sussidio stimola alla

comprensione di elementi/notizie/parole in un contesto apparentemente confuso (“motore”

sottostante).

3. L'agogica (voce dotta dal tardo greco agogikόs, aggettivo di agogé "condotta, movimento") è il

complesso delle leggere modificazioni dell'andamento ritmico apportate ad un brano musicale

durante la sua esecuzione per ragioni squisitamente interpretative.

5. Progetto Nu.V.O.L.E. pag. 61 D2

6. Progetto Nu.V.O.L.E. pag. 61 D2

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CRONACHE DA VIALE PALMIRO TOGLIATTI

Il sabato mattina la strada per arrivare alla sede CIOFS di Viale Palmiro Togliatti è vuota. Traffico

scarso, alcuni semafori ancora lampeggianti. A gennaio, in pieno inverno, il Grande Raccordo

Anulare è gelido. Riscaldo il motore della moto per almeno cinque minuti, il tempo che mi occorre

per indossare tutto il necessario e preservare breve memoria del tepore della notte. So che non

devo superare i 90 Km orari, oltre i quali il fenomeno del wind chill (1) abbasserebbe la

temperatura delle mie mani fino al malessere da freddo intenso. Mi godo il silenzio e gli odori della

strada, la luce tersa dell’alba, i castelli in lontananza si riescono a vedere nei dettagli. Gli occhi

sempre puntati sulla carreggiata in cerca di qualche lastrone di ghiaccio da evitare. So che se

viaggio dove passano i tubi di scarico delle macchine, la temperatura dell’asfalto è meno rigida

dunque meno probabilità di sterzate all’ultimo metro. Viaggiare in moto in condizioni di tranquillità

mi permette di concentrarmi su quanto dovrò fare, le cose da dire e quelle da programmare, le

criticità e le sfide della giornata. Prima della galleria oltre la quale c’è lo svincolo per i Castelli, lo

scenario è suggestivo. Si mescolano ruderi di metropoli, la campagna ghiaccia e ferma dell’inverno

riposa in pace e non chiede nulla. Vapori da qualunque cosa viva vi sia. Tutt’intorno, sui prati che

costeggiano la corsia, ancora tracce di foschia bassa e densa della notte. La moto procede fluida,

la velocità è giusta e le mani non mi fanno male.

L’uscita è quella di Cinecittà. I grandi studios cinematografici – patrimonio comune che ancora oggi

dobbiamo difendere – sono nell’immaginario quotidiano di tutti quelli che nel quartiere sono nati,

nonni, padri e figli. Molti hanno lavorato a Cinecittà. Facchini, custodi, scenografi, baristi, qualche

comparsa. Naturalmente vantano conoscenze di star e starlette anche se viste una volta sola a

distanza di binocolo. C’è chi là ha passato le notti per arrotondare lo stipendio e la mattina andava

a guadagnarsi una busta paga che non bastava mai. Tutti parlano di Cinecittà, tutti vogliono bene

a quel brutto mostro costruito nel ventennio ma efficiente e ben progettato. I ragazzini hanno

sempre trovato pertugi dove infilarsi e spiare le riprese di scene immaginando mondi che non

avrebbero mai visto. I film in costume sugli antichi romani, i western, i polizieschi e i bastimenti

onirici di Federico Fellini in viaggio di ritorno dal suo inconscio. Cinecittà è stato il sogno, le

fantasie, la consapevolezza di stare al centro del mondo dello spettacolo in un quartiere fuori dal

mondo, periferico un po’ malfamato e depredato dai palazzinari romani in anni in cui non si faceva

molto caso se le mescole di cemento erano a norma oppure no. Un quartiere malandato e

maltrattato ma che riserva anche tracce esclusive, e poco note, di storia antica e recente. Il

docente di Rapporti Storico Politico Sociali, esperto in materia e nativo del quartiere, spesso mi ha

raccontato di siti medioevali, storie di torri e avamposti di avvistamento. Una memoria locale che

varrebbe la pena di raccontare e di cui il professore va fiero. Il mio unico ricordo della zona è

quello del quartiere Quarticciolo, adiacente alla lunghissima Viale Palmiro Togliatti, e non solo per

il famigerato “Gobbo”, ma soprattutto per “il Quagliaro”: un postaccio che assomiglia ad un’osteria

con un oste ignorante – se non gli garbi non ti fa entrare – che cucina le migliori quaglie a Roma,

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forse al mondo. Tanto è la stessa cosa. Ogni volta che passo davanti a Cinecittà una moltitudine di

fantasie affolla la mia testa per il tempo di un semaforo. L’unico di Roma che mi sembra troppo

breve.

Dopo cinque minuti sono davanti al grande complesso del CIOFS di viale Palmiro Togliatti. Una

costruzione degli anni cinquanta voluta come opera assistenziale per gli abitanti del quartiere –

inizialmente chiamata Asilo S.Giovanni Bosco - affidata da subito ai Salesiani. Il 15 ottobre 1951,

due suore – Suor Nicolina Santarelli e Suor Rina Coletta – presero possesso del primo padiglione.

In quegli anni la zona era deserta. Pecore, pastori ed enormi buche lasciate dalle esplosioni delle

bombe dell’ultimo conflitto mondiale. Immondezza ovunque, topi, ordigni inesplosi. Trecento

abitanti circa risiedevano nelle uniche palazzine della zona, fatte costruire appositamente per

ospitare gli sfollati. Incattiviti e ostili, senza più niente e nessuno, si arrangiavano come potevano in

mezzo al disastro che la guerra aveva lasciato. Le grandi buche sul terreno erano il centro dei

traffici e teatro di nefandezze d’ogni sorta. Non c’era luce, né un medico o una farmacia. Chi stava

male doveva dar fondo a Fede o rimedi della nonna. L’unico telefono presente nella vastissima

area si trovava presso l’Istituto di Cinecittà poco distante dal padiglione dei salesiani. Da queste

due suore e dalle poche altre sopraggiunte nei giorni successivi al 15 ottobre del ’51, nasce il

CIOFS di Viale Palmiro Togliatti.

Ho fame. Il desiderio di un caffè caldo e di un cornetto prende il sopravvento. Scendo dalla moto

che sembro uscito dal freezer. Inizio la svestizione lentamente, casco, paraginocchia e

paraschiena, poi i guanti. Le mani stanno bene, anche se le muovo a fatica. Calzo il berretto di

lana e mi avvio al bar. Nei mesi di lavoro a Togliatti, ho sempre preso il caffè dai “cinesi”. Così li

chiamano tutti. Non so se siano cinesi o coreani e da dove provengano esattamente, ma hanno gli

occhi a mandorla e il bacino basso dunque, poche sottigliezze, sono “cinesi” e basta. Una famiglia

composta da padre, madre e due figli maschio e femmina immagino maggiorenni. Corpi robusti e,

almeno i figli, hanno un bel viso. Il padre ha la pelle macchiata da quel fastidio dell’epidermide che

scolora il pigmento lasciando ampie chiazze di un bianco candido. La madre è piuttosto giovane,

alta e piacente. Mi pare sia spesso lei a fare i conti. Una volta l’ho vista scrivere in “cinese corsivo”

su un foglio di carta, probabilmente l’inventario del giorno. Avevo appena finito di far colazione e la

notai alla cassa, a capo chino, che con una biro riempiva la pagina bianca di una gran quantità di

segni con una precisione ed una velocità che ai miei occhi appariva magica. La osservavo già da

diversi minuti estasiato quando poco dopo alzò il viso, mi guardò con i suoi occhi freddi e,

accorgendosi del mio stupore, mi sorrise piuttosto divertita. Parlano male l’italiano ma capiscono

perfettamente quelle quattro cose che gli chiedi. Sono affabili e il ragazzo il caffè lo sa fare.

Cornetti troppo grandi ma buoni. Secondo i formatori del Centro pare sia un bar non proprio ben

frequentato. In ogni caso, e in barba alla fama, è il ritrovo mattiniero dei ragazzi del CIOFS che

fumano, parlano, si abbracciano, si scambiano sguardi, si rattristano, non sanno bene cosa li

aspetti nella giornata e nella vita; alcuni guardano nel vuoto altri a vuoto. Qualcuno di loro mi

Page 11: NUVOLE DI MEMORIA

riconosce e mi saluta timidamente: “ciao professò”. Rispondo volentieri se non ho il cornetto in

bocca, altrimenti alzo la testa in segno di saluto come fanno i siciliani.

Ora sto meglio. Ho ripreso la giusta temperatura del corpo. Dieci minuti per fumarmi il sigaro,

prima di entrare. Sto davanti all’ingresso principale e una delle suore più giovani fa la spola tra il

bar e il portone per invitare i ragazzi a salire. Già, perché per alcuni di loro - nonostante siano

regolarmente iscritti, nonostante i loro genitori sappiano di averli lasciati a scuola, nonostante

abbiano l’obbligo della frequenza e della firma - da quando esistono i salesiani, le suore si

adoperano ogni mattina che il Padre Eterno fa nascere, al convincimento del giovane ad entrare a

scuola. La giovane suora ha la meglio su un gruppetto che si trovava già a pochi passi dal portone.

Poi si avvia con passo spedito – alta, un bel viso e occhi svegli – verso una decina di ragazzi e

ragazze sbracati sui tavoli esterni del bar dei “cinesi”. Mancano pochi minuti al suono della

campanella. Lei si siede e inizia a parlare. Non so cosa dica, troppa è la distanza. Non so cosa

dicano le suore salesiane da quando esistono, ogni mattina, ogni volta che i giovani faticano a

varcare la soglia del Centro, ma dopo qualche minuto si alzano tutti pigramente dalle panche del

bar. Suora, ragazze e ragazzi si avviano lentamente all’ingresso. La suora ha gli stessi tempi e

movenze dei ragazzi, non si scompone. Alla fine tutti sono nelle aule.

Per accedere alle classi bisogna salire tre rampe di scale. I ragazzi schiamazzano, si scambiano

complimenti leggeri e pesanti. Ogni tanto circola nell’aria qualche parola tenera che dà la misura di

chi siano. Li accoglie il coordinatore, alle 8 tutti sui banchi. Salgo anche io dietro di loro e come

ogni mattina nei lunghi mesi di lavoro al CIOFS, la Suora anziana mi offre il caffè. Pacata ma molto

energica, uno sguardo dolce e intelligente. Ha fatto studi d’arte ed è capitato spesso di scambiare

insieme riflessioni di musica o temi legati all’attualità. Molto affabile nei modi, è una delle tante

intelligenze che contribuiscono a rendere il clima sereno.

Il terzo piano dell’immenso edifico ha aule grandi, luminosissime e ben attrezzate. Ormai la

formazione professionale si sta dotando dei più avanzati sistemi didattici che la pedagogia

moderna possa offrire. Aula multimediale con decine di computer, software specifici per lo sviluppo

di competenze tecniche e, ultimo acquisto, le LIM. Lavagne Interattive Multimediali. Tutte le classi

sono state dotate di questi strumenti che, installati recentemente, si stanno rivelando eccellenti

nello sviluppo della didattica con i ragazzi. I formatori restituiscono feedback molto positivi e i

ragazzi hanno, probabilmente, la sensazione di essere sulla cresta di un’onda di mutamento

innovativo e per certi versi rivoluzionario nel rapporto tra docente e discente.

Tutto è pulito, ordinato e raccolto in modo razionale. Ogni formatore ha il suo carrello - con

dotazione di pennarelli, fogli, libri e quant’altro occorre – che trascina da una classe all’altra

evitando improbabili trasbordi con mani e braccia. Alle 8 i formatori e noi esperti ci ritroviamo

nell’aula dei professori. Uno di loro, da quando è in servizio, il sabato mattina porta un vassoio di

cornetti per tutti. Doppia colazione per me e doppia per molti. Si comincia con il sapore della festa.

Page 12: NUVOLE DI MEMORIA

Battute, occhi stanchi ma una buona dose di energia. La sensazione è quella di un lavoro scelto

non solo per necessità. L’investimento che in questi ultimi anni è stato fatto in questo settore della

didattica è restituito da un approccio all’impegno che è consapevolezza del ruolo e del compito

affidato. Ho sempre avuto la sensazione di un corpo docente all’altezza e per nulla frustrato.

L’affiatamento tra i formatori, sia professionale che umano, è evidente.

Pochi minuti prima dell’inizio delle lezioni un brevissimo briefing per arrivare in classe con le idee

chiare attivando la giusta empatia con i ragazzi. Si chiudono le aule e iniziano le lezioni. Ora c’è

silenzio. La suora anziana riprende fiato e si concede minuti di calma. I corridoi sono vuoti, posso

osservare meglio. Tutto è in ordine, pulito. Ogni cosa è al suo posto, carta, libri, pennarelli,

materiali e sussidi. Non si butta nulla, l’idea è quella di riciclare carta e oggetti che potrebbero

rinascere con uso diverso. Un pacco di cartelline in plastica colorata diventano le gelatine per

l’“occhio di bue”; tastiere di PC e monitor rotti sono la scenografia per la scrivania di un giornalista

nel Modulo Audiovisivo, cuffie non più funzionanti l’accessorio indispensabile per l’inviato nella

simulazione di una delle sperimentazioni. La suora anziana tira fuori dal cappello magico – un

armadietto del suo ufficio – mille oggetti suggerendone destinazione ed uso. C’è grande cura per

tutto, l’odore è quello del rispetto e del futuro.

In uno degli uffici, prima di entrare nel lunghissimo corridoio dal quale si diramano le aule, c’è il

direttore del Centro. Una suora giovane ed energica. L’ho quasi sempre vista sprofondata nella

sua scrivania dove, a testa bassa, non capivo mai se ragionava ad alta voce oppure parlava con

qualcuno al telefono. In ogni caso è un capo. Dai toni sbrigativi dirime le centinaia di problematiche

del Centro in un battito d’ali e, se non ci riesce, il tono della voce raggiunge picchi di decibel non

immaginabili. Poi tutto si sistema. Ti guarda dritto negli occhi e sai che non c’è scampo. Una delle

tante combattenti che circolano al CIOFS. L’ho intravista una volta parlare con un ragazzo e i

genitori ed il suo tono era molto affabile; sempre presente, talvolta stanca. A luglio era sfinita.

C’è silenzio, le classi hanno porte con chiusure ben sigillate e riesco a sentire la spiegazione dei

formatori solo passandoci davanti. Quando suona la ricreazione, ed il tempo lo permette, si scende

tutti nel cortile a mangiare e fumare. Noi adulti evitiamo di fumare di fronte ai ragazzi. I formatori

parlano spesso e a lungo con i ragazzi, così come le suore. Ci scherzano, sorridono, volano

battute. Uno spazio moderatamente confidenziale in cui si può osare l’esposizione emotiva, si

cercano risposte a domande che non si riuscirebbe mai a fare in classe, ci si addestra alla vita con

adulti a disposizione per questo. Ogni tanto qualche suora tira due calci al pallone con i ragazzi;

molte tra loro, soprattutto quelle più giovani, calzano scarpe da jogging. Sul classico abito grigio

chiaro delle salesiane è un dettaglio di modernità che vedendole all’opera ne chiarisce la funzione.

La ricreazione dovrebbe durare, se non ricordo male, 15 minuti ma il rientro in classe è sempre

laborioso e sofferto come il passaggio a nord-ovest: dal bar dei “cinesi” al portone della scuola la

mattina, dal piano terra al terzo piano dove sono le aule dopo la ricreazione. Anche qui entra in

gioco la suora giovane, ora un po’ più sbrigativa, che invita i ragazzi a salire. I formatori danno una

Page 13: NUVOLE DI MEMORIA

mano e i ragazzi penzolano verso le scale con una lentezza esasperante. Se il tempo di rientro si

dilata eccessivamente interviene la direttrice. Un ciclone in una vetrina di porcellane cinesi.

Naturalmente né la direttrice è un ciclone né i ragazzi sono porcellane cinesi. Ma l’accostamento

rende l’idea. Mi guardo intorno e ovunque ci sono immagini di Don Bosco. Su periodici, foto, ritratti,

disegni fatti dai ragazzi. Lui è ancora lì, tutti i giorni, da sempre.

1. Quando il vento spira ad una certa velocità influisce sulla sensazione di freddo che il corpo umano

percepisce perché sottrae il calore che il corpo stesso produce raffreddandolo più rapidamente.

Questo fattore è noto come ''Fattore di wind-chill'' (Raffreddamento). Con una temperatura esterna di

0°, alla velocità di 90 KM/h, la temperatura percepita dal corpo è di -10°, sulle parti più esposte –

mani e piedi – può arrivare anche a –15°.

Page 14: NUVOLE DI MEMORIA

PROVA GENERALE

La memoria del rapporto professionale con i docenti formatori con i quali ho condiviso i

mesi di progetto Nu.V.O.L.E. è in primo luogo di gratitudine per lo sforzo intellettuale che è

stato loro chiesto e che hanno brillantemente condiviso con me. Resistenze, difficoltà ad

entrare nelle finalità progettuali, destrutturazione di metodologie didattiche consolidate,

fatica nell’accostarsi ad un linguaggio, quella della musica, non per tutti familiare e

frequentato, sono stati parte integrante della fatica umana e professionale affrontata

durate il lavoro.

Preparando gli incontri della Azione Formativa – la prima prevista dal progetto – sapevo

che sarei arrivato con due grandi temi: ciò che volevo comunicare e ciò che costituiva la

finalità più profonda del progetto. Nella ordinaria didattica quotidiana entrano

improvvisamente due elementi che costringono a cambiare le carte in tavola, a porsi delle

domande e faticare nel trovare le risposte giuste. Insomma, uno tsunami che, tuttavia, i

docenti formatori del CIOFS sono abituati ad affrontare. Continuamente si sottopongono a

corsi di aggiornamento professionale e percorsi sullo sviluppo di nuove metodologie

didattiche. In tal senso ho trovato professionisti avvezzi a mettersi in gioco ed a porsi in

modo interlocutorio di fronte alle novità.

Dal punto di vista metodologico ho scelto un approccio che tendesse alla semplificazione

degli elementi senza rinunciare in alcun modo – non potevo consentirlo – alla complessità

della materia trattata. Un grande impegno nel trovare le parole giuste, gli esempi più

efficaci ed i parallelismi più consoni per far passare l’impossibile: in poche ore raccontare

la storia del linguaggio musicale dell’occidente, la sua evoluzione, la sua dissoluzione e,

come un’alchimista del XXI secolo, distillare da tutto ciò strutture di pensiero utili al

conseguimento delle finalità progettuali. Insomma di questo ero convinto, dopo la lettura

approfondita del progetto, sapendo che la sfida poteva essere vinta solo con il contributo,

l’intelligenza e la creatività dei formatori.

Negli incontri della Azione Formativa, l’approccio è stato dunque di semplificazione degli

elementi. Ogni volta che un assunto teorico veniva dichiarato, seguiva sempre una verifica

puntuale con l’ausilio dell’ascolto. Un ascolto difficile per chi non era abituato, più semplice

per chi aveva dimestichezza con la musica. Di nuovo un altro concetto, cui seguiva

l’ascolto pratico a conferma di quanto affermato. Una ginnastica mentale velocissima,

consumata nel giro di pochi minuti, senza “distrazioni” di altra natura teorica o storica ma

con il preciso obiettivo di far passare ciò che era necessario alla costruzione della grande

Page 15: NUVOLE DI MEMORIA

cattedrale del saper fare ad uso dei formatori e di conseguenza dei ragazzi. In questo

esercizio faticoso e reiterato per tutte le ore di lezione previste nell’Azione Formativa, nel

gruppo di lavoro ha preso vita un pulsare comune, una condivisione di processi mentali

inediti. Alcune porte si sono aperte e parecchi occhi hanno iniziato a brillare dalle brume e

dalle diffidenze iniziali. Insomma, non ero io che mi convincevo, ma erano i formatori che

scoprivano ciò che andava scoperto. Sempre con lo stesso mantra, sempre la stessa

procedura, come una sorta di esercizio di riscaldamento dell’intelletto.

Le domande. Molte e diverse, alcune pertinenti altre spiazzanti, tutte con il dovere di una

risposta coerente. Domande per confermare ciò che si era compreso, domande per

mettere alla prova, domande per fugare l’ultimo dubbio. Ogni domanda è stata accolta con

rispetto profondo. Se io stesso non avevo risposta pronta, proponevo ai formatori di

ricostruire il percorso che induceva la domanda e, insieme, ripercorrevamo la strada per

trovare la risposta. Quella risposta, quelle risposte, consolidavano il gruppo di lavoro. Lo

rendevano partecipe, lo affiatavano ne rafforzavano il desiderio di conseguire insieme le

finalità progettuali. Il pulsare comune moltiplicava la velocità di approfondimento delle

tematiche – molto complesse sia in termini teorici che di ascolto – edificando

contestualmente la complessità della proposta che andavo facendo.

Gli incontri passano e iniziano le prime aperture. Capisci che ciò che hai fatto gli è entrato

non solo nella testa ma anche nel cuore, è parte di loro stessi, è parte della loro storia

presente e futura, sarà parte della vita dei giovani ai quali insegneranno con strumenti

nuovi e più efficaci. Dalle parole che mi dicono so che hanno capito, hanno metabolizzato

cose che richiedono un impegno fuori misura. Ho davanti docenti di grande spessore.

Iniziano ad aprirsi, a manipolare – in senso costruttivo - quello che dico e farne farina del

loro sacco. Portano esempi e gli tornano in mente esperienze del loro passato scolastico.

Azzardano similitudini alle volte azzeccate altre no. Ormai iniziano a sentirsi padroni di una

materia che mai avrebbero immaginato di vivere così. Ti dicono che non pensavano che la

musica “fosse anche questo”. Abbiamo svelato insieme un enigma nascosto dalla fretta,

dalla superficialità, dall’ignoranza. Sono piuttosto felici e, come scolari che padroneggiano

i primi rudimenti di una nuova materia, si lanciano in elaborazioni nuove. Accolgo e lascio

fare. So per esperienza che solo passando ciò che si impara dentro il frullatore della

nostra testa e del nostro cuore, si ha, come docenti, la certezza che quella cosa non sarà

mai dimenticata.

Page 16: NUVOLE DI MEMORIA

Durante il percorso dell’Azione Formativa, i docenti iniziano a mettere in relazione le loro

materie con le essenze che gli propongo. Ragionano su quali potrebbero essere le

similitudini, i campi di applicazione, le potenzialità con gli studenti, le difficoltà nelle

proposte. Nell’aria inizia a girare veloce e fiero il rapporto tra formatori e studenti. Un

rapporto che, in ogni giorno di lavoro vissuto con i docenti, è stato sempre presente anche

se raramente dichiarato o esibito come trofeo di difficoltà. Ho sentito, piuttosto, una

tensione continua nel ragionare in termini di fattibilità concreta delle proposte partendo

sempre dal bisogno dei ragazzi e cercando sempre di osservarli oltre gli abiti griffati. Un

approccio mai superficiale o disattento, faticosissimo e molto impegnativo, dove lo spazio

per la gratifica narcisistica è ridotto ai minimi termini.

L’innesco forse è riuscito. Forse i docenti riescono a pensare che quello che gli sto

raccontando può trovare applicazione nelle loro classi. Cresce progressiva e inevitabile la

tensione verso la sperimentazione, verso la pratica di ciò che era sul tavolo di lavoro.

Tanto più cresce questa “urgenza formativa” tanto più sorgono dubbi, incertezze e blocchi

sull’utilizzo del materiale che gli andavo proponendo e che saranno poi loro stessi a dover

passare ai ragazzi. Alle volte pensano e vorrebbero dire, sono intimiditi dalla mole di

informazioni che è stata loro proposta, riconoscono l’autorevolezza del messaggio e la

responsabilità del compito che sono chiamati a svolgere. Timide avances dette a metà -

per pudore - non dette o decantate come in teatro – dieci formatori tutti molto diversi tra

loro - che saranno restituite da loro stessi in quello che considero, dal mio punto di vista e

in relazione al lavoro svolto, uno dei momenti teorici più alti di tutto il progetto: il workshop.

Durante le ore destinate al workshop, l’obiettivo era di creare quel cortocircuito – chiesto

dal progetto – tra ciò che era stato loro proposto e le materie curriculari. Quello era il

momento della verità. Se la grande costruzione teorica e pratica messa in piedi fino a quel

momento era corretta lo avremmo visto durante quelle ore in cui i formatori stessi

dovevano trovare spunti applicativi nelle loro rispettive discipline. L’incontro avvenne un

sabato mattina. Colazione dai “cinesi” come sempre. La suora anziana che mi offre il

caffè, e mezzo cornetto del formatore festaiolo. Avevo una strana sensazione e non

pensavo a nulla. Sapevo di non poter tornare indietro e sapevo anche che qualunque

aggiustamento dell’ultima ora sarebbe risultato penoso, inutile e irrispettoso nei confronti

dei formatori e dei ragazzi. Tra chiacchiere e solite battute in sala professori, taglio corto.

Invito tutti ad entrare.

Page 17: NUVOLE DI MEMORIA

Il clima è strano, la giornata soleggiata. Ci sediamo e la sensazione è che tutti fossero in

attesa di qualcosa. Forse ciascuno aspettava da me, o forse ciascuno da se stesso.

Rompo il ghiaccio ed inizio a provocare la discussione ripercorrendo in pochi minuti il

percorso fatto fino ad allora e l’obiettivo per quella giornata. Sento smarrimento. I formatori

non sanno da che parte iniziare. Metto sul tavolo alcune idee ma le espongo a metà,

poche parole e poi taccio. Sto nel silenzio senza timore alcuno. Tutti stiamo in silenzio e ci

guardiamo, riguardiamo gli appunti presi in mesi di lavoro. Non c’è imbarazzo, ma la

sensazione di un missile che sta per partire. Poi, improvvisamente, il docente di scienze

matematiche si alza e va alla lavagna.

Il professore inizia a scrivere un’espressione e dividerla per le voci della fuga bachiana:

soggetto, controsoggetto, risposta ecc. Divide il tutto in gruppi di lavoro; ad ogni gruppo di

lavoro è assegnata la “composizione” di una parte della fuga/espressione matematica; chi

sbaglia una parte dell’espressione non dà modo all’altro di proseguire tutta l’espressione;

nella fuga, così come nella concatenazione delle parti che compongono un’espressione

matematica, la correttezza formale e funzionale di ogni elemento è interdipendente

dall’altro e dall’altro trae l’autorevole certezza della propria esistenza e della propria

funzionalità. Aveva centrato l’obiettivo. D’altronde la matematica sta alla musica come il

pane alla cioccolata. Dopo pochi minuti, il tempo per il formatore di completare la sua idea,

il gruppo dei docenti esplode.

Tutto quello che insieme avevamo costruito in mesi di lavoro in quel momento prendeva

forma e acquistava un senso. E’ difficile descrivere sei teste che simultaneamente si

rendono conto di aver centrato un obiettivo così complesso e che si ritrovano a inondare

uno spazio di intuizioni, proposte, memorie, collegamenti. Chi riusciva a prendere la parola

spiegava ciò che intendeva fare e contemporaneamente offriva la sponda al collega per

moltiplicare le idee e trasferirle su altre discipline. Io ascoltavo senza parlare troppo e

sentivo che tutto ciò che avevo dato mi veniva restituito arricchito della competenza ed

esperienza di ottimi docenti. Sempre presenti, nelle elaborazioni che andavamo facendo, i

ragazzi. Tutto era misurato alla possibilità di attuazione concreta del lavoro in classe. Tutto

andava calibrato nei tempi di attenzione di giovani non facili. Utilizzare i sussidi diventava

una sfida ad ulteriore conferma di quanto fatto fino a quel momento.

Seguirono, di lì a poco, le proposte degli altri formatori, tutte di grande qualità a

testimonianza della loro capacità di rielaborare e contestualizzare ciò che era stato fatto.

Dopo quella giornata il rapporto con i formatori è cambiato. Ha acquisito lo spessore di chi

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sa di aver vinto una sfida difficile, affatto scontata e fortemente innovativa. Nelle settimane

successive, come dopo una grande eruzione, decine di piccole e grandi idee si

sovrapponevano tra loro intersecandosi trasversalmente tra una materia e l’altra. L’energia

iniziava a circolare nutrendosi degli stessi elementi che ne scatenavano la forza. La prima

parte del processo era felicemente avviata, prova generale di quello che sarebbe accaduto

dopo.

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PAROLE IN LIBERTA’ VIGILATA

L’utilizzo dei linguaggi espressivi non porta di per sé nuove opportunità se non attraverso

una ridefinizione degli stessi in un quadro di analisi della contemporaneità e del mondo

giovanile al quale ci rivolgiamo ma anche, in ultima analisi, degli obiettivi che si intendono

perseguire. Questa considerazione ha accompagnato il mio lavoro insieme ai docenti per

tutta la durata del progetto. Una consapevolezza che ho sempre ritenuto imprescindibile

alla luce dell’uso che viene comunemente fatto dei linguaggi espressivi e dei nuovi mezzi

di comunicazione digitale. Lo scarto che vi è tra la potenza del mezzo e come si usa, dà la

misura di una delle numerose incongruenze della contemporaneità.

In mezzo c’è il mercato che segna il passo di mode, oggetti del desiderio e buono o cattivo

andamento della borsa. In altre parole: ti offro l’opportunità di acquistare una grande casa

di produzione cinematografica o un’orchestra, poi ti metto in grado solo di fare il filmino

della domenica o comporre la suoneria per il cellulare. Ancora una volta la sensazione

generale è quella di uno svilimento di valori che mortifica la creatività individuale, la propria

coscienza di cittadini liberi e attivi, in nome di una sostanza che è meramente legata al

possesso. La penalizzazione di quello che più volte ho definito pensiero critico è forse il

tema centrale non solo di chi educa, ma anche di chi governa i luoghi preposti alla

formazione dei giovani. Spesso ho scritto della mia sensazione che alla base di alcune

scelte strategiche vi fosse il desiderio di annichilire la capacità analitica, critica e creativa

dei giovani. Naturalmente innescando quel processo feroce che disegna l’essere come

avere, e spostando sempre un passo più in là l’oggetto del desiderio.

Le aspettative sociali, e il successo, si misurano in termini di capacità di consumo: “è” chi

compra, “è” chi consuma. Se una società inibisce la capacità di consumo aumentando a

dismisura l’obiettivo della realizzazione di sé attraverso un acquisto impossibile, tiene in

scacco un intero paese. Durante la guerra si vendevano i figli per un pezzo di pane, oggi si

vendono per realizzare un obiettivo che è tenuto sapientemente sempre un passo oltre al

proprio. Vi sono le premesse per superare ogni limite. Individui che devastano dilagano

nello spazio comune come diversamente non potrebbe essere in quella che, con intuizione

geniale, Zygmunt Bauman chiama "postmodernità liquida". C'è chi mette paletti, figure

esemplari che non nascondono ne si nascondono. Troppo poco in una società dove solo

chi consuma “è”.

La cancellazione della memoria storica, artistica e culturale, in nome di un apparente

ottimizzazione dei costi, sembra prevalere sulla funzione strutturale del ricordo di eventi,

Page 20: NUVOLE DI MEMORIA

fatti, storie e artigianati creativi. Di memoria corta si è alimentato uno status che ha tenuto

saldo il timone e che ha disfatto e ricostruito secondo strategie che nulla hanno a che

vedere con la libertà di una moderna democrazia. Il meccanismo è noto: dimenticare,

ricordare cose inutili o devianti, chiudere la bocca a chi ha la memoria sana e robusta; una

rimozione collettiva in nome del pensare positivo.

Gli artisti, con più o meno decisione, si sono sempre salvati da tutto ciò perseverando nel

loro lavoro che osserva il mondo e i suoi umori, cogliendone sfumature e odori. Un lavoro

che fonda le proprie radici su un uso incontinente del pensiero critico. Non

necessariamente "contro", ma libero e critico sì. E’ opinione diffusa quella che considera

soldi mal spesi quelli dati a chi ha la manìa di restaurare vecchi film che ormai non

farebbero più un centesimo al botteghino - parliamo della filmografia che ci ha resi famosi

nel mondo intero – o di destinare una parte di risorse a chi tramanda la memoria di

capolavori musicali o a chi deve salvaguardare opere di inestimabile valore per l’intera

umanità. Cancellare la memoria storica significa disarticolare il pensiero critico. Ma è

questo pensiero l’unica garanzia di governare sé stessi nella contemporaneità, senza

esserne sopraffatti.

In questa riprovevole sottrazione della memoria si annida l'angoscia dell'ignoto: non si

capisce o si stenta a capire cosa stia accadendo. Paragoni maldestri e perfino azzardati

puntellano e creano illusorie soluzioni alleviando i sensi di colpa per la disattenzione fino a

questo momento manifestata nei confronti di un'intera generazione. Non si capisce il

perché di tanta violenza spesso gratuita e priva di qualunque connotato politico, non si

capisce perché la generazione dei ventenni di oggi sia così depressa, e quando non lo è

diventi aggressiva. Da sempre la generazione precedente ha fatto fatica a capire quella

che veniva dopo ma, in cuor loro, i "vecchi" auspicavano modelli di vita migliori per i loro

giovani, magari diversi, ma migliori. I giovani riuscivano a migliorare le loro condizioni, a

conquistare conoscenza alleviando la fatica fisica, riuscivano ad imporre le loro idee, i loro

usi e costumi, la loro arte, riuscivano a trasformare il conflitto intergenerazionale in una

sana creatività vitale.

Qualcosa è cambiato. E' successo che i "vecchi" hanno occupato il mondo. Andati in

pensione con stock option da capogiro, sono stati riassorbiti come consulenti - sempre con

cifre da capogiro - mentre i “giovani” ormai over 35 - loro figli - devono accontentarsi di

contratti a termine nel migliore dei casi se non contratti a progetto. Li abbiamo visti questi

"vecchi" eternamente giovani riciclarsi in un continuum professionale senza fine, col

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sorriso sulle labbra, pimpanti e ben felici di assolvere al compito dell'unico vero

ammortizzatore sociale del nostro Paese pur di preservare questo modello scellerato: il

sostegno della famiglia.

Più o meno abbienti, comunque, tutti i vecchi danno una mano; lo devono per forza di

cose. Meglio un figlio precario in famiglia da semimantenere, che io vecchietto in pantofole

sulla poltrona a leggere il giornale. Meglio un figlio che arriva a quarant'anni senza alcuna

speranza, che io che rinuncio all'ennesimo incarico d'oro da pensionato. Non per tutti è

così, né spesso è così, ma per molti è già un dramma. I nostri vecchi, con una ricchezza

ottenuta devastando un sistema economico e strutturando il clientelismo come unico

mezzo per far crescere le loro aziende, hanno divorato i loro figli. Li hanno relegati ai

margini dello sviluppo e della società con ogni mezzo possibile: precariato,

disoccupazione, svilimento della cultura e della formazione scolastica pubblica,

impossibilità a far nascere figli, impossibilità a comprarsi una casa, impossibilità ad avere

una pensione dignitosa, il tutto avvelenando l'aria che respirano, l'acqua che bevono e i

frutti della terra che mangiano con cianuro, mercurio, piombo, amianto e tutto ciò che può

danneggiare i rarissimi nipoti che potranno nascere dalle nuove traballanti famiglie.

A questi giovani hanno sottratto la speranza, annientandone in tutti i modi il futuro. La

rivolta dei giovani non deve e non può essere violenta, ma le loro urla vanno ascoltate

come si ascolta lo sguardo di pietà di una generazione condannata al fallimento e ad

un'angoscia che sembra senza fine. Questo disagio profondo si ha il dovere di ascoltarlo e

a questo disagio profondo bisogna dare delle risposte che tengano conto del valore della

memoria e dell’insostituibile servigio del pensiero critico. Lasciare i giovani soli a devastare

le piazze significa distruggerli due volte.

Ritengo che in questo quadro il progetto Nu.V.O.L.E. – seppure circoscritto nel tempo e in

luoghi specifici – abbia assunto un valore altissimo. Le intuizioni, le proposte, le prassi e le

finalità generali hanno il sapore di una piccola e pacifica rivoluzione da fare insieme ai

giovani della formazione professionale con i loro formatori e gli esperti. Un circuito virtuoso

intergenerazionale reso possibile da un governo illuminato della res publica. Dare a quei

ragazzi, che forse più di altri hanno bisogno, gli strumenti per divincolarsi dalla morsa di

un sistema che non lascia scampo all’acquisto dell’abito firmato, alla omologazione delle

idee, alla incapacità di vedere dietro, attraverso e oltre. Dare a quei ragazzi che meno di

altri hanno ricevuto stimoli, strutture emotive e valori di riferimento. Proporre questi

strumenti proprio a loro ha significato una scelta strategica di “buona società” che partisse

Page 22: NUVOLE DI MEMORIA

dal basso. Auspico fortemente che tale sforzo, condiviso da tutti i soggetti che hanno

concorso alla realizzazione, abbia buoni frutti nel tempo e possa godere ancora di nuove

semine per nuovi germogli. Nuove semine che alla luce dell’esperienza straordinaria che è

stata fatta, potranno essere più mirate ed efficaci. D’altronde le Nuvole – finché avremo gli

occhi per vedere - continueranno a restituirci l’acqua che la terra evaporerà. Solo con

nuove e stagionali semine potranno nascere nuovi frutti, forti e ricchi di sostanza utile alla

nostra comunità.

La premessa operativa a queste considerazioni – in parte condivise con i formatori

nell’azione formativa – nasce da una conferenza che tenni ad un nutrito gruppo di studenti

di Licei Classici e Scientifici della Provincia di Roma (1) dal titolo: “Un’ipotesi sulla nascita

dello “zapping”; le origini della frammentazione dei linguaggi ,dei colori delle forme.

Cronaca di una morte annunciata: la dissoluzione della tonalità. Già in quella occasione,

preparando la conferenza e operando una grande sintesi su quanto accadde alle sintassi

musicali tra la fine del ‘800 e i primi decenni del secolo successivo, mi resi conto che il

percorso straordinario, e sofferto, di musicisti come G.Mahler, R.Strauss e A.Schönberg

ed altri, raccontava in modo profetico il nostro tempo. Quel percorso consumato nella

manciata di pochi anni era il frutto amaro ed inevitabile della storia del linguaggio musicale

occidentale. Come esso si era evoluto, quali possibilità si era dato, quali furono le scelte

estetiche che portarono al suo disfacimento.

L’arte, tutta, è ricchissima di profezie. D’altronde gli artisti, per loro natura, viaggiano

spediti sull’orlo del baratro: tra vita e morte creano e vedono l’inimmaginabile. Così come

certa critica musicale piuttosto recente ha letto le esplosive politonalità stravinskijane de

“Le Sacre du printemps” (prima esecuzione assoluta a Parigi il 29 maggio del 1913) come

il preludio al di lì prossimo conflitto mondiale, allo stesso modo è evidente come la

frammentazione dei linguaggi musicali, al centro di quasi tutta la produzione musicale

colta del secolo trascorso, racconti la nostra contemporaneità.

La storia e l’evoluzione del linguaggio musicale sono, dunque, la storia profetica del nostro

tempo e dei nostri luoghi. Un tempo che tende a divorare sé stesso annichilendo

esponenzialmente tutto ciò che in progress produce. La storia del linguaggio musicale di

quegli anni è la storia di Narciso: amò sé stesso fino alla consunzione. Illuminante e feroce

in tal senso, l’affermazione di uno dei più grandi compositori di musica colta del ‘900 K.

Stockhausen (1928-2007) in occasione della distruzione delle Torri Gemelle a New York

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nel 2001: “Questa è l’opera d’arte più grande mai esistita”. Dalla sua prospettiva, forse,

altro non avrebbe potuto dire.

I paradossi del nostro tempo. Eccesso di comunicazione/incapacità di comunicazione;

eccesso di cibo/carenza di cibo; eccesso di desideri finti o veri/mancanze profonde vere o

presunte; eccesso di stimoli visuali, olfattivi, tattili, uditivi/incapacità a provare emozioni.

Quando, in occasione di un’intervista, posi queste riflessioni a Moni Ovadia (2), mi rispose

sostenendo che: “Per costruire l’essere umano abbiamo scelto l’esteriorità invece che

l’interiorità. Oggi i problemi si risolvono creando sempre più oggetti, sempre più messaggi,

sempre più in fretta. Siamo oramai, credo, quasi completamente soggiogati dal tempo

esteriore ed abbiamo una relazione di panico col tempo interiore che è il tempo del

silenzio, il tempo della riflessione”.

Tempo esteriore e tempo interiore. Forse è questa la scelta strategica e, in ultima analisi,

la vocazione più profonda del progetto Nu.V.O.L.E. Scegliere il tempo interiore. Ma è in

questa tempesta di paradossi, in questa Babele di linguaggi dove c’è perfino confusione

su categorie che a noi sembrerebbero ormai definite, come democrazia, giustizia, libertà,

in questa velocità di accumulo di sollecitazioni, in questo autocompiacimento narciso,

solistico e onanistico dove ognuno elegge sé stesso a centro delle cose e degli affetti e la

relazione con gli altri ovvero la relatività di sé stessi rispetto agli altri si sta liquefacendo,

che noi abbiamo sperimentato il recupero della memoria e del pensiero critico. Abbiamo

scelto il tempo interiore che solo solide tracce di memoria restituiscono. La fuga, la forma

sonata, il canone, le manipolazioni contrappuntistiche dei materiali sono parte della nostra

memoria così come lo sono i processi di pensiero che le hanno generate. Non fare

musica, fare teatro, fare cinema o fare comunicazione digitale, ma fare di tutti questi

strumenti ausilio ad un vivere libero, partecipato e consapevole.

L’azione che tutti noi siamo stati chiamati a svolgere è esattamente quella che chiediamo

ai giovani: smontare competenze e ricostruirle, interagire, ragionare, sintetizzare, lavorare

in gruppo, filtrare le conoscenze per ricavarne materia pura che sia in grado di ricreare,

ricostruire. Un’operazione di alchimia contemporanea attraverso le macerie e i frammenti

di conoscenza del nostro tempo cogliendo i processi di pensiero che le arti tramandano.

Quando tutto questo sarà portato a regime, allora noi sognatori saremo certi di aver

appoggiato saldamente i nostri piedi sulla Nuvola sospesa a mezz’aria, metafora del

canone infinito della conoscenza dove testa e coda si inviluppano in un incessante

scambio prolifico. L’acqua va alla terra come la terra la restituisce all’aria.

Page 24: NUVOLE DI MEMORIA

1. Conferenza in occasione della Festa della Musica – (Nettuno - giugno 1999)

2. Percorsi d’Arte e di Vita, intervista a Moni Ovadia – (Prove Aperte – aprile 2005)