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A Sonia Bottalico, carissima amica poetessa Vezio Ruggieri Nella nona di Beethoven una festa a Bacco. Proposte per una rappresentazione. Le radici culturali dell’antica Grecia e un’introduzione psicofisiologica ad esperienze estetico-espressive. UN’ANNOTAZIONE DI BEETHOVEN: “NELL’ADAGIO COME TESTO UN MITO GRECO O UN CANTICO DA CHIESA. NELL’ALLEGRO FESTA A BACCO.” 1

nona sinfonia saggio

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A Sonia Bottalico,carissima amica poetessa

Vezio Ruggieri

Nella nona di Beethoven una festa a Bacco.

Proposte per una rappresentazione.

Le radici culturali dell’antica Grecia e un’introduzione psicofisiologica ad esperienze

estetico-espressive.

UN’ANNOTAZIONE DI BEETHOVEN: “NELL’ADAGIO COME TESTO UN MITO GRECO O UN CANTICO DA CHIESA.

NELL’ALLEGRO FESTA A BACCO.”

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Introduzione

Questo saggio propone una chiave di “lettura” della nona sinfonia di Beethoven che, attraverso una puntuale analisi del rapporto tra la musica ed il testo poetico di Schiller, fornisce un’interpretazione unitaria dell’opera che consente di cogliere in tutta la sua grandezza la complessità del progetto beethoveniano. Ricordiamo che, paradossalmente, la nona sinfonia, che ha riscosso e continua a riscuotere l’universale plauso del pubblico fino a divenire una sorta di icona retorica della cultura occidentale ha, fin dalla sua origine, sollevato critiche e perplessità di numerosi musicologi esperti che cercavano nell’opera una coerenza formale che la collegasse alle forme specifiche della “sinfonia” consolidate ed in qualche modo sacralizzate dalla tradizione. Pertanto l’accusa più frequente mossa all’ultima sinfonia beethoveniana è di “incoerenza formale” che renderebbe l’opera musicalmente mal inquadrabile, poco comprensibile e scorretta (!?).

Importante punto di riferimento culturale nella nostra analisi è un bellissimo volumetto di Massimo Mila (1977) “Lettura della nona sinfonia” non solo molto documentato sulle diverse sfaccettature del pensiero “critico” musicale e delle dotte polemiche ma anche ricco d’intuizioni (sostenute da dati filologici) su alcuni significati profondi del pensiero beethoveniano, cui noi abbiamo cercato di dare più ampia coerenza.

A differenza della maggior parte della critica, siamo partiti dall’analisi del testo di Schiller e non dalla ricerca affannosa e frustrata di una logica formale di tipo musicale che ci lascerebbe comunque insoddisfatti e perplessi. Invece, mettendoci dal punto di vista di un compositore che intende dare vita musicale ad un testo poetico o di dare significato poetico-letterario ad un’esperienza musicale, riteniamo di aver individuato una nuova logica formale e narrativa che fornisce alla nona sinfonia una

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dimensione di tipo liturgico propria di un rito bacchico. Tale rito si trasformerebbe progressivamente, nello sviluppo della corale, in un’esperienza religiosa legata alla concezione del teismo settecentesco (Dio oltre le stelle! Abbraccio universale etc.). La presenza di tali componenti è individuata anche da Mila, ma esse restano, nella riflessione di questo autore, elementi isolati senza una chiara unità narrativa. La nostra interpretazione della nona sinfonia ricostruisce invece un ampio mosaico da cui emerge una chiara idea compositiva che è, all’origine, in qualche modo pre-musicale e che prende corpo in una nuova forma di rappresentazione di parola e musica difficilmente inquadrabile in categorie codificate che, come vedremo, neanche la formula proposta da Wagner di Wort-Ton-Drama può adeguatamente descrivere. Dal mosaico emerge una forte componente teatral-narrativa caratterizzata da sequenze immaginative in cui la dimensione teatrale si lega strettamente all’esperienza di danza. Secondo noi lo spettatore che s’immerge nel percorso musicale “vive”, sia pur inconsapevolmente, la logica non del tutto esplicita ed esplicitata del progetto beethoveniano sviluppando, sui pilastri fondamentali costituiti dall’intreccio di musica e testo schilleriano, un “sentire” che funge da trama connettiva e da supporto ad un’esperienza integrata anche se non ne “conosce” l’esatta dimensione narrativa. Il nostro lavoro consiste dunque nel rendere evidente tale dimensione. Questa è la prima fase della nostra impresa. Partendo dall’ipotesi che la nona sinfonia si proponga come un’esperienza liturgica che ha il suo perno nella Gioia, intesa sia come divinità che come realtà psicologica interiore che rappresenti la traduzione in termini psicologici dell’invasamento bacchico, abbiamo cercato di esaminare approfonditamente le componenti psicofisiologiche che sono alla base della esaltazione gioiosa (esaltazione bacchica). Quest’ultima può realizzarsi, sul piano artistico,nell’intreccio di testo musica e danza. L’invasamento bacchico, come vedremo, ruota, nel contesto del progetto del culto, intorno alla gestione

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della liberà psicofisica che, sganciata da controlli inibitori altrettanto psicofisici, può generare un particolare stato di coscienza. Ciò che è centrale nel culto bacchico è la fisicità che caratterizza tale vissuto subbiettivo di libertà. Secondo noi il progetto beethoveniano allude, nelle coordinate dell’arte (musica e testo) a tale vissuto emozionale legato all’esperienza di libertà. L’allusione, secondo noi, si realizza, anche se in modo appena accennato attraverso comportamenti psicofisici concreti di cui il soggetto non è sempre pienamente consapevole. Se dunque noi collochiamo questa nucleare esperienza estetica nel contesto di una danza collegata alla musica e al testo, ne amplifichiamo notevolmente le componenti corporee che danno forma, obbiettivamente evidente e subbiettivamente percepita, a tutta l’esperienza. A questo punto ci siamo chiesti se l’accesso all’esperienza dell’esaltazione gioiosa sia facilmente realizzabile per danzatori e, in qualche misura, per gli spettatori (che vivono all’esperienza per brevi cenni psicofisici). La capacità psicologica di aderire ad una esperienza emozionale ed emozional-estetica, in particolare, è legata per ogni individuo alla sua gestione della dinamica “libertà espressiva-controllo”. A questo proposito siamo consapevoli del fatto che l’ipercontrollo psicofisico esercita un’azione inibitoria tanto sulle componenti gestuali-espressive che su quelle soggettive psicologiche. Pertanto abbiamo ritenuto importante intervenire pedagogicamente, attraverso un approccio psicofisiologico, sulle dinamiche psicofisiche di controllo che possono impedire la libera esperienza di gioiosa esaltazione che può emergere nel contesto di una danza bacchica.

L’approccio psicofisiologico, che si fonda su ricerche cliniche e di laboratorio, consentirebbe ai danzatori di vivere, nel contesto della gestualità danzante che riproduce antiche iconografie delle baccanti, anche le componenti psicologiche presenti nel progetto beethoveniano della liturgia bacchica. Con questo approccio abbiamo lavorato ad un’esperienza di laboratorio di preparazione alla rappresentazione della liberazione liturgica. Ma data la

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novità delle teorie psicofisiche di riferimento e la loro rilevanza, per la comprensione dell’esperienza estetica (anche in rapporto all’estetica platonica), abbiamo ritenuto opportuno farne un’esplicita presentazione nella seconda parte di questo volumetto.

Quindi, in stretta connessione con l’analisi interpretativa teorica, abbiamo dato forma ad un’esperienza teatrale integrata che rendesse visibile quello che a nostro avviso è il sotteso, complesso ed affascinante progetto beethoveniano.

Per entrare nell’immaginario cognitivo, emozionale, espressivo e pedagogico ci siamo accostati alla tragedia greca, ed in particolare al testo de “Le Baccanti” di Euripide, che a nostro avviso può aver costituito un nucleo d’ispirazione per lo stesso Schiller (vedi dopo). La tragedia ruota intorno a tematiche di tipo liturgico-religioso ed alla definizione del rapporto con la divinità. In essa è anche centrale l’esperienza del sacro invasamento che non è solo “raccontata”, ma che si esprime sul piano teatrale attraverso la corporeità della danza. Per mettere bene a fuoco la relazione tra testo cosiddetto “ letterario” (con il ritmo del verso poetico), musica e danza abbiamo rivisitato alcuni concetti di Platone espressi nella “Repubblica” che fanno riferimento a precise intenzioni estetico-pedagogico-programmatiche.

Nel nostro lavoro alla messa in scena del corale della nona abbiamo cercato di rendere attuali le indicazioni di Platone, collegandole con le concezioni elaborate nell’ambito della ricerca scientifica psicofisiologica.

In tal modo, a partire dalle strette interazioni di musica e testo letterario, le varie fasi del finale della sinfonia entrano a far parte di un unico, ben articolato, disegno narrativo-esperienziale che abbiamo utilizzato come una sorta di sceneggiatura per una rappresentazione in forma di danza che, seguendo puntualmente il testo dell’ode schilleriana, ne ripropone una “visibilità teatrale” nella forma di una narrazione coreografica.

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Il nostro lavoro si sviluppa su tre piani.

1. IL PROGETTO BEETHOVENIANO. Nel primo presenteremo delle argomentazioni che mirano a

rendere esplicito quello che secondo noi è il latente pensiero beethoveniano che è alla base di tutto il progetto della sinfonia, collocando le immagini dell’ode di Schiller in una coerente e significativa tessitura.

2. INTRODUZIONE ALLA PSICOFISIOLOGIA DELLE DINAMICHE ESPRESSIVE

Nel secondo esporremo, sempre in rapporto alle tematiche espressive ed artistiche con particolare riferimento all’ideologia estetica del mondo greco antico, i principali concetti psico-fisiologici sviluppati in ambito sperimentale e applicati in ambito arte-terapeutico.

3. COSTRUZIONE DI UNA COREOGRAFIA E NARRAZIONE DI UN’ESPERIENZA PEDAGOGICA

Nel terzo parleremo del nostro intervento che, con l’introduzione della danza, opera una teatralizzazione (wort-ton drama?) del 4° movimento della nona sinfonia nella forma di una coreografia che rappresenta un’esperienza liturgico-religiosa, questa costruisce un ponte tra il mondo greco ed il mondo cristiano.

In questa terza area l’esposizione della coreografia s’intreccerà con la descrizione del lavoro psicofisiologico di preparazione degli attori-danzatori alla messa in scena. Il gruppo di lavoro è costituito da studenti e psicologi che frequentano il seminario di Psicofisiologia dell’esperienza estetica e teatrale gestito da Vezio Ruggieri presso la Facoltà di Psicologia dell’Università di Roma “La Sapienza”. In quest’ultima fase s’incontrano i diversi piani: della poetica

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beethoveniana, della riflessione scientifica e della realizzazione teatrale. La coreografia del 4° Movimento della nona sinfonia è stata presentata in diversi contesti teatrali ed accademici.

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PARTE I IL PROGETTO BEETHOVENIANO

Partiamo dunque dall’interazione tra musica e testo poetico che potrebbe suggerire la presenza di un implicito ma ben evidenziabile immaginario del compositore con conseguenti intenzioni programmatiche, la cui esplicazione fornirebbe una coerente interpretazione di tutta l’opera che, come abbiamo detto, è stata oggetto, dalla sua prima esecuzione ad oggi, di aspre critiche e di accuse di incoerenza formale da parte di numerosi accaniti musicologi. L’analisi puntuale del rapporto musica-testo, seguendo la logica del suo sviluppo, consente di ipotizzare, sulla base delle immagini del testo poetico, un programma-cornice che legherebbe i diversi passaggi del 4° movimento, dando vita ad un vero percorso “rappresentabile” attraverso una coreografia. Nella danza, musica e testo si trovano in una logica forma unificante. Segnaliamo anticipatamente che lo stesso Beethoven ha accennato, nei suoi appunti, alla possibile presenza della danza in una festa bacchica. Pertanto la nostra operazione non ha nulla a che vedere con un’eventuale gioco di libere associazioni visive evocate dalla musica, ma nascerebbe da una stretta connessione logico-strutturale rinvenuta nell’opera beethoveniana. Sottolineiamo questa sostanziale distinzione proprio per anticipare possibili comprensibili dissensi di coloro che sentono “offesa” la purezza del linguaggio musicale. Si tratterebbe di critiche della stessa natura di quelle rivolte a Beethoven, colpevole di aver imbastardito, introducendo la dimensione poetico-verbale, lo schema perfetto della forma sinfonica cui egli stesso ha dato un enorme contributo.

Naturalmente siamo consapevoli del fatto che la musica pura è, a differenza del linguaggio verbale, “autoreferenziale” mentre il linguaggio verbale è etero-referenziale in quanto rappresentazione di “eventi-altro” rispetto all’evento sonoro (i suoni della parola

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tavolo rappresentano un tavolo), mentre una melodia rappresenta solo se stessa. Ovviamente la musica, che ha una struttura formale complessa, rilevabile attraverso un’analisi cognitiva, è fondamentalmente generatrice di esperienze di natura emozional-estetica.

Con queste sintetiche note, non possiamo qui non ricordare anche il ruolo insostituibile della musica nell’accendere e sostenere la danza. Comunque nel finale della nona sinfonia la linea guida interpretativa è costituita dal testo poetico, che pone non piccoli limiti ad eventuali interpretazioni costruite su una logica narrativa puramente musicale, che a sua volta fa riferimento a moduli e schemi consolidati (per es. la più volte citata “forma sonata”) che sono patrimonio di una tradizione tutto sommato relativamente recente.

A questo punto ci chiediamo perchè Beethoven abbia sentito il bisogno di aggiungere un testo poetico a qualcosa di già compiuto come una narrazione musicale. Aggiungere? O non piuttosto “partire da”? Le istanze creative possono avere diversa origine e nascere da diverse forme di bisogni psicologici e fisiologici che generano l’intenzione programmatica. Ora, considerando la personalità di Beethoven, la scelta di un testo non poteva essere casuale né legato a ragioni di natura esclusivamente estetiche. Inoltre è facile pensare che un testo utilizzato in un contesto inconsueto, quale quello di una sinfonia, debba collegare la sua “logica” con quella del linguaggio musicale. Quale potrebbe essere la finalità di questa connessione? Forse che la musica rischia di fare da semplice supporto alle parole? O non piuttosto che la musica interpreti l’essenza profonda delle parole come si verifica per esempio nella Messa in re minore di Beethoven?

Nel 4° movimento della nona sinfonia il tema noto come Freudenmelodie (inno alla gioia) è introduttivamente esposto in forma puramente orchestrale. Ma non si tratta di un semplice enunciato poiché esso si colloca in un più ampio contesto narrativo e cioè subito dopo l’improvvisa e chiassosa irruzione della terrifica

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fanfara (Schreckenfanfare), in forma puramente orchestrale (del cui significato parleremo tra breve).

Le “parole” di Schiller compaiono nella ripetizione del tema già presentato in forma orchestrale, come se esse rappresentasserono una sorta di specificazione ed esplicitazione di ciò che era racchiuso nella sola musica. Come se le parole rompessero l’involucro musicale e dessero forma ad un implicito protomentale. Invece i critici che hanno cercato di individuare la logica strutturale del finale della nona (Schenker, Baensch e Sanders citati da Mila), hanno cercato “corrispondenze” con le diverse possibili architetture formali della tradizione musicale senza accettare l’assoluta libertà “narrativa” dell’impresa beethoveniana che avrebbe creato, senza però farne una esplicita dichiarazione, una forma assolutamente nuova fondata su una logica extramusicale, o meglio neo-musicale, come è nel caso, per esempio di musica composta per la liturgia di una messa. Il nostro lavoro cercherà di mettere in evidenza la plausibilità di questa ipotesi.

Pertanto in questo saggio intendiamo presentare, partendo da articolate argomentazioni teoriche, il lavoro che ci ha portato ad una messa in scena coreografica del finale della Nona Sinfonia di Beethoven. Il punto chiave è in una rivisitazione critica dell’opera beethoveniana, che, come abbiamo già accennato, ci ha indotto a pensare come la Nona, nell’immaginario del nostro compositore, dovesse costituire una sorta di “nuovo genere” musicale, non riconducibile soltanto al genere Sinfonia (legata allo schema della forma sonata) ma collegabile anche parzialmente ad una forma particolare di Wort-ton-drama (dramma di parole-suono, secondo una definizione di Wagner). La forma è però particolare, e si differenzia da una drammatizzazione perché contiene, come cercheremo di dimostrare, aspetti che potremmo più genericamente definire “liturgici”, che avrebbero interessanti implicazioni per quanto riguarda le forme di partecipazione intellettuale ed emotiva del pubblico. Ma anche il termine drama ci sembra insufficiente, poiché noi pensiamo che l’immaginazione beethoveniana si

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sviluppasse non soltanto intorno ad un’idea musicale e al testo di Schiller (parola-musica, cantata e strumentale) ma che l’intreccio musica-testo poetico costituisse una struttura drammatica narrativa che, come vedremo più avanti, può contenere germi evidenti di forme ben precise di danza e di movimento. Prendiamo dunque le mosse da un’annotazione beethoveniana estremamente significativa nell’ambito del suo percorso creativo per la costruzione di una sinfonia ( citata da Mila, pag.10):

“Adagio cantico. Canto religioso per una sinfonia negli antichi modi : Herr Gott, dir loben wir (Dio noi ti lodiamo) Alleluia. In maniera indipendente o come introduzione ad una fuga. Forse in questa seconda maniera l’intera seconda sinfonia potrebbe essere caratterizzata con l’entrata delle voci nel finale (…) “Nell’adagio come testo un mito greco o un cantico di chiesa: nell’Allegro festa a Bacco”.

Questa annotazione di Beethoven è stata forse sottovalutata dai critici. Infatti è fin troppo ovvio pensare che una personalità come quella del nostro compositore non intendesse alludere agli “antichi modi” in termini superficialmente formali. E’ possibile che sia stata una suggestione schilleriana a condurre il musicista nel mondo antico (“figlia dell’Eliso; Santuario; scintilla divina…”), poiché ci sembra infatti che lo stesso Schiller abbia posto le radici dell’ode alla gioia nell’antico mondo classico. Infatti ritroviamo nella tragedia “le Baccanti” di Euripide molte immagini e riflessioni cui forse il testo schilleriano potrebbe essersi richiamato: nella tragedia, per es., “la dolce ala” intesa come metafora è più volte citata, così come appare il tema della “natura che nutre” per non parlare “dell’uva e della vite”, che sono temi dichiaratamente bacchici. E’ possibile dunque che tanto Schiller quanto Beethoven intendessero fare un’operazione sostanzialmente simile e cioè di innestare un’esperienza poetica “moderna” sulle fondamenta dal mondo classico?

Ipotizzando una risposta affermativa ci sembra che il lavoro di Beethoven rappresenti una sorta di completamento di un’impresa

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che va ben oltre i limiti di una semplice esperienza musicale. Questa idea si alimenta anche dell’accenno beethoveniano agli antichi “modi”.

Mila (pag. 11) parla inoltre di un progetto beethoveniano del 1818 di una sinfonia tedesca con un intervento corale su parole tedesche, su idee mistiche della mitologia e del cristianesimo. Inoltre sempre Mila (pag.150) segnala una frase che, negli schizzi Beethoven aveva associato ai recitativi strumentali (forse pensati essenzialmente per il baritono), “Heute ist ein feierlicher Tag, meine Freunde, dieser sei gefeiert mit durch Gesang und (Tanz?) (Oggi è un giorno di festa amici, sia festeggiato con canto e (danza ?) .” Interessantissimo, per il nostro discorso è l’ipotesi, formulata da Beethoven, di festeggiare con la danza. Questo testo di Beethoven è stato poi sostituito sempre da un’esortazione del baritono “Fratelli, non con questi toni etc.” che rende a nostro avviso ancora più chiara ed incisiva l’intenzione del nostro compositore.

Ritornando all’accenno agli antichi modi ed alla sottovalutazione fattane dai critici, appare assolutamente inadeguata quella critica negativa che accusa Beethoven di 1. aver corrotto, con l’introduzione della voce legata ad un testo letterario, la purezza della musica assoluta propria della “Sinfonia” e 2. di aver utilizzato moduli e schemi musicali non sempre facilmente riconducibili alla tradizione musicale occidentale consolidata (per es. la forma sonata) dando luogo ad un’opera stilisticamente incoerente e confusa. Questi autori cercano a mio avviso una coerenza stilistica nel posto sbagliato. Sono loro, infatti, i critici negativi che con arroganza pretendono di incasellare il progetto beethoveniano soltanto in tradizionali formule musicali, assumendo un atteggiamento preconcetto ed irrispettoso nei confronti delle possibili intenzioni programmatiche del compositore! Il loro limite è nel voler cercare scolasticamente la logica compositiva esclusivamente in una grammatica linguistica musicale senza tener conto di un progetto culturale innovativo di

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grande portata. La colpa di Beethoven, se così si può dire, è nel non aver presentato un manifesto programmatico, come hanno fatto invece molti autori se dicenti “innovatori” nei secoli successivi sia nel campo musicale e letterario che in quello della arti figurative. Se prendiamo per significativa e concretamente realizzata, la scelta degli antichi modi, possiamo ipotizzare che Beethoven intendesse ripresentare, in una traduzione che le rendesse compatibili, con un linguaggio contemporaneo, forme espressive proprie dell’antico mondo greco. D’altra parte è stata più volte citata l’annotazione di Beethoven apposta al terzo tempo del quartetto 132: “Canzona di ringraziamento in modo lidio offerta alla divinità da un guarito”. L’introduzione in stile lidio è interrotta da un episodio di diversa fisionomia (andante in re maggiore) cui è apposta l’annotazione “neue Kraft fuehlend” (sentendo nuova forza) ad indicare come per Beethoven la musica avesse chiaramente la funzione di esprimere e rappresentare la condizione esistenziale dell’uomo, e come tale funzione “utilizzasse” diversi linguaggi musicali valorizzando anche forme antiche e desuete (stile lidio). Pertanto l’impiego degli antichi modi non avrebbe un significato esclusivamente formale ma dovrebbe esprimere “modalità” antropologiche di organizzare specifiche esperienze emozionali di alta rilevanza collettiva. A questo punto il nostro sguardo si sposta sulla musica greca antica. Scrive Ballerino (2000) nella introduzione alla traduzione del testo dello Ps.Plutarco “sulla Musica”: “Gli antichi avevano un concetto di musica molto più ampio del nostro: il termine mousiké, connesso alle Muse non indicava soltanto l’arte dei suoni, ma comprendeva anche la poesia e la danza; (…) drammaturghi come Eschilo, Sofocle ed Euripide erano anche i compositori della musica che accompagnava i loro canti e i coreografi delle danze. All’unione intrinseca di parole, melodia e ritmo che costituiva la mousiké, la cultura greca attribuiva un significato profondo legato a concezioni religiose, etiche e filosofiche. (…) Diverse fonti attestano che i fedeli di Dioniso entravano in contatto con la divinità, che penetrava nelle

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loro anime, abbandonandosi al suono di flauti e tamburelli. (…) Osservando l’effetto prodotto sull’animo umano dalle varie melodie, elaborarono la dottrina dell’Ethos. Questa dottrina, teorizzata per la prima volta da Damone di Atene e a noi nota soprattutto dalle successive speculazioni di Platone e Aristotele, controllava l’influsso della musica sul comportamento dell’uomo e stabiliva per ciascuna melodia il proprio campo di applicazione a seconda che inducesse all’azione o al riposo, all’equilibrio o all’eccitazione” (pag. 5 e 6).

Il testo dello Ps.Plutarco racconta le trasformazioni della musica greca a partire dalle più antiche melodie tradizionali che avevano il nome di nomoi (termine usato per indicare un particolare canto citaredico solistico) alle diverse forme di ditirambo, cioè del canto cultuale di Dioniso. Per es. in occasione della festa Dionisie Urbane, ad Atene, i concorsi ditirambici tragici e comici rappresentavano l’elemento più rilevante. Il nomos come canto rituale, che doveva rimanere nel tempo sostanzialmente immutato, fu sostituito dall’harmonia che indicava “un complesso di caratteri che concorrevano a individuare un certo tipo di discorso musicale: non solo una particolare disposizione degli intervalli, l’altezza dei suoni, un certo andamento melodico, il colore, l’intensità, il timbro che erano gli elementi distintivi della produzione musicale di uno stesso ambito geografico e culturale (Comitati in Plutarco, trad. 2000, pag. XV). Per cui si parla di Harmonia dorica (con carattere virile e austero), eolica (che esprimeva solennità e imponenza) e ionica (in cui si distinguono una nobiltà, non priva di durezza, delle aree tradizionali dalla dolcezza e dalla mollezza delle aree moderne). Non è questa la sede per aprire un dibattito sulla musica dell’età classica, sulle sue forme, sul suo ruolo etico, sui giudizi e sulle scelte estetiche di Platone ed Aristotele, sulle scelte e sulle novità introdotte dagli autori tragici in particolare da Euripide. Inviamo chi volesse approfondire a “La Musica” dello Peudo-Plutarco che è, a questo proposito, un trattato molto ricco ed esplicativo. In esso si parla anche delle regole dell’accordatura e

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delle scale che, costituendo degli schemi che si definiscono attraverso diverse sequenze di specifici intervalli, creano differenti stilemi (genos): diatonico, cromatico e armonico.

Se abbiamo accennato a questa tematica è per ipotizzare come sia possibile che l’attenzione beethoveniana si orientasse verso questo antico universo musicale non solo ponendo attenzione alle sue forme, ma soprattutto attribuendo alle forme antiche, desuete ed estranee alla recente tradizione musicale europea, significati di natura psicologico-emozionale ed antropologico-liturgico. La difficoltà dei critici negativi è nel non aver capito questo aspetto, tutto tecnico-musicale, delle intenzioni di Beethoven e cioè quello di riportare nel contesto linguistico delle forme a lui contemporanee, che egli stesso ha contribuito a far sviluppare, modi e linguaggi di un altro universo culturale. Ma l’operazione è metalinguistica ed ha un profondo significato quale quello di dar vita ad un’esperienza estetica che definisce la condizione umana lungo una linea di sviluppo che stabilisce una continuità tra le radici antiche del mondo occidentale e le tematiche contemporanee. Questo è dunque l’umanesimo beethoveniano! L’impiego della voce in questo contesto non è soltanto il prodotto di una scelta estetico-musicale ma esso ha un preciso significato simbolico: se la musica ha la funzione di esprimere il protomentale dando forma sonora ad un complesso di sensazioni emozional corporee, la voce umana con la parola rappresenta un livello più alto di differenziazione psicologica e di incisività comunicativa propria dell’evoluzione degli umani! Come eco del mondo greco compare, a nostro avviso, non solo la Schreckenfanfare (vedi dopo), né soltanto l’apparentemente incomprensibile recitativo vocale, di cui si parlerà in seguito, e che costituisce il pilastro di tutto il nostro ragionamento, ma lo stesso tema della Gioia (Freudenmelodie) che con semplice accompagnamento di oboi, clarinetti e fagotti, che ricalcano la linea melodica del basso, rievoca un’antica monodia propria della musica greca dove appunto (Comotti in Ps.Plutarco, trad. 2000)

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“mancava l’armonia nel senso moderno del termine e la polifonia, e la musica si esprimeva esclusivamente attraverso la melodia. L’accompagnamento seguiva fedelmente la linea del canto o all’unisono o ad intervallo di un’ottava”. Dunque non siamo d’accordo con le prevalenti interpretazioni della Freudenmelodie, che ne sottolineano il carattere popolaresco. Mila per es. la considera una forma di Lied popolare e conclude sostenendo che essa avrebbe piuttosto la forma di una chanson, anch’essa di tipo popolare. Interessante è anche il fatto che Romain Rolland (citato da Mila) vi senta delle allusioni di tipo rivoluzionario vincente (di vittoria popolar rivoluzionaria della rivoluzione francese). Per noi, invece, la Freudenmelodie rievoca canti liturgici del mondo greco antico, mentre lo spirito popolaresco-rivoluzionario sarebbe ben presente nella “Alla Marcia. Allegro vivace” (una rivoluzione popolare in marcia; il popolaresco espresso dal gran tamburo, cinelli, triangoli). La varietà delle forme espressive non sarebbe legata alla logica di una sinfonia, ma alle istanze suggerite dalle fasi della liturgia (laica) suggerita da Beethoven. Per esempio alcune forme di enfasi “maestosa”, che tutti considerano assolutamente pertinenti nella musica del “Gloria” di una messa, sembrerebbero non aver alcuna giustificazione nel contesto del finale della nona, a meno che non le si leghi ad una intenzione di tipo liturgico-religioso (“Il cherubino sta dinanzi a Dio. Come un eroe verso la vittoria etc.”). Qui più che una lode a Dio siamo in presenza di una glorificazione dell’umano nell’ambito dell’esperienza del divino!

La musica antica riecheggia ancora quando si parla di vite e tralci in cui le coppie di crome in forma diatonica si legano tra loro a costituire una sorta di stretto e compatto “tessuto sonoro”, che rappresenterebbe i legami tra vite e tralci.

Ci sembra dunque di poter dire e di poter dimostrare che, aderendo punto punto alla narrazione beethoveniana, intesa come l’intreccio di musica e testo, emerga, con un’incredibile naturalezza, una sorta di azione narrativa che potrebbe assumere la

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forma di una danza esprimibile nella forma di una coerente coreografia. In altri termini ci sembra che Beethoven, non solo abbia creato l’intreccio testo-musica (Wort-ton drama) ma che abbia elaborato, senza svelarla interamente (forse per dare spazio alla libera immaginazione dello spettatore), una vera e propria rappresentazione in cui la danza può svolgere la funzione di tessitura. Come se a livello immaginativo inteso in senso più ampio, sia visivo che senso-motorio, durante l’ascolto lo spettatore potesse vivere un’esperienza di danza. Noi pertanto, attraverso una “visualizzazione” degli impliciti beethoveniani e una loro trasformazione in azione, intendiamo portare alla luce e rappresentare le componenti narrative sottese e, sviluppando un’ipotetica coreografia, pensiamo di contribuire a rendere più chiaro il pensiero beethoveniano, aprendo la via ad un allargamento dell’esperienza estetica dell’opera.

Il nostro lavoro cercherà di evitare facili psicologismi, ma esaminerà approfonditamente le connessioni complesse, che legano lo sviluppo logico della narrazione musicale alla logica del testo poetico di Schiller, partendo dal presupposto che Beethoven non sia esclusivamente un musicista ma sostanzialmente un filosofo che esprime attraverso il linguaggio musicale riflessioni sulla condizione umana. L’ode di Schiller non è dunque una sorta di aggiunta che compare inattesa ed improvvisa nel corso di una sinfonia. Sembra che, secondo i critici negativi, il percorso creativo di Beethoven partisse essenzialmente dalla musica e che il suo “titanico conflitto” (per usare le parole di Mila) si concentrasse su come integrare due diverse forme espressive, ma è probabile che il percorso creativo in questo caso fosse inverso, e cioè che l’immaginazione nucleare poetica di Beethoven partisse proprio dall’ode con i suoi profondi significati intorno a cui, certo non senza difficoltà, costruire una sinfonia. L’ode come una pietra preziosa e la sinfonia come la montatura di un anello. Ovviamente non si tratta di un prima e un dopo, ma di una “meta” da raggiungere, tenuta tanto tempo in sospeso nella mente e nel cuore

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(vedi Mila circa l’interesse mostrato da Beethoveen verso l’ode schilleriana fin dalla sua gioventù). Come se l’ode fosse il libretto “segreto”, che Beethoven ha modificato in modo coerente in rapporto alle sue istanze, l’intenzione di tutta l’opera che compare solo ad un certo punto della vita del compositore e ad un certo punto della sinfonia. Diciamo questo perché ci sembra che i “critici” negativi non abbiano colto la sostanza dell’operazione beethoveniana. A questo proposito ricordiamo che la musica può comparire in diversi contesti, assumendo ruoli, funzioni differenti che ne attribuiscono differenti significati. Basti pensare all’opera lirica, alle canzoni, alla danza, alle marce militari e ai contesti delle cerimonie liturgiche e laiche. In molti contesti la musica costituisce l’elemento portante dell’esperienza, ma in altrettanti casi essa ha il ruolo di umile ancella. Nella sinfonia essa è ovviamente la regina unica e insostituibile ed è forse proprio questo che i critici negativi rimproverano a Beethoven, di avere cioè, sia pure in modo estremamente parziale, detronizzato, con l’introduzione della voce collegata ad una semantizzazione verbale, la regale maestà propria nella sinfonia. Dunque il quesito che noi ci siamo posti è il seguente: è possibile che Beethoven intendesse proporre un nuovo (e mai più riproposto in altre opere) e più complesso livello di coerenza anche formale, non coincidente con il poema sinfonico, o con le cantate ? IL SIGNIFICATO DEL IV MOVIMENTO NEL

QUADRO DELLA NONA SINFONIA

Il nostro discorso prendendo le mosse dall’analisi del testo di Schiller si accosta alla musica di Beethoven a partire dalla corale del IV movimento. In base all’interpretazione che emerge dall’esame della seconda parte del IV movimento, è possibile

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collocare anche i primi movimenti alla luce di un ipotetico progetto beethoveniano dei primi tre movimenti di cui parleremo più avanti.

Ma procediamo con ordine cercando di ripercorrere le tappe di una riflessione che a nostro avviso ha evidenziato la logica narrativa musicale e poetica che unifica tutta l’opera. La mia ipotesi interpretativa nacque durante l’ascolto in un concerto dell’esecuzione della non sinfonia di Beethoven. Ciò che richiamò la mia attenzione fu l’intervento vocale del basso che, al di fuori di ogni logica apparente, subito dopo l’esplosione dei suoni della Schrecken-fanfare (vedi dopo) proclamava a gran voce con un recitativo: “Amici, non con questi toni, ma lasciateci intonare qualcosa di più gradevole e di più gioioso”.

Il tutto era pronunciato in uno stile tra il gregoriano e l’invocazione orante di un muezzin. La prima impressione superficiale e grossolana, suscitata dal cantante fu quella di un invito a “fare un brindisi” rivolto ad un gruppo di amici. In che contesto? Le domande che mi posi furono: chi è questo signore? Che ci fa qui? A chi si rivolge? Poiché “l’esortazione” aveva un chiaro intento interlocutorio, comparve dinanzi alla mia immaginazione un gruppo di amici, del tipo dei “compagni di osteria”! Un brindisi in una birreria tedesca? Improbabile. Ma subito dopo, l’esortazione formulata dal basso, mette in moto un’interazione dialogica in cui ci si rende immediatamente conto che gli interlocutori ipotizzati esistono realmente e costituiscono un coro che all’invocazione “gioia!” risponde “gioia!” a “oho” risponde “oho”. Dunque il “qualcosa” di più gradevole e gioioso cui alludeva il cantante è proprio la gioia qui invocata come una divinità. All’invocazione il coro risponde ripetendo l’invocazione stessa sottintendendo una partecipazione condivisa allo stato emotivo (“Anstimmung”), suggerito dal Basso solista. A questo punto rievochiamo la già citata annotazione beethoveniana scritta durante la progettazione della nona sinfonia (“Adagio cantico. Canto religioso negli antichi modi: Dio noi ti lodiamo. Alleluia”) che collega l’esperienza della gioia ad una forma religiosa ed in

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particolare ad una forma religiosa antica espressa musicalmente dal “modo degli antichi greci”. Sembra dunque che il cantante non abbia solo introdotto una novità musicale ma una nuova dimensione “scenica”, che si sovrimpone all’esperienza musicale pura. Quest’ultima riflessione può risultare assolutamente ovvia, se non fosse che essa dà avvio ad un immaginario narrativo che si estende all’ascolto successivo.

Infatti si introduce qui una dimensione di tipo teatrale. Ma come si svilupperà? Che tipo di genere musicale assumerà? A questo punto è interessante esaminare in modo puntuale il testo Schilleriano che ci consentirà di costruire un percorso esperienziale di tipo spirituale e religioso (nelle forme di una nuova liturgia cui l’individuo può aderire) e che contemporaneamente riassume, nelle sue varie tappe, momenti significativi della storia della cultura occidentale: dalla Gioia bacchica all’esperienza del divino trascendente (oltre le stelle), all’amore universale in cui tutti gli uomini sono fratelli. Vedremo come mirabilmente Beethoven, dopo aver esposto le diverse tematiche narrative che corrispondono a specifici stati psicofisici di coscienza (esaltazione gioiosa; amore sociale; agape fraterna) esperienza della propria “grandezza” dinanzi a Dio; consapevolezza dell’amore del padre oltre le stelle, abbraccio di tutti gli umani), esortando i partecipanti a farne esperienza, intrecci mirabilmente, attraverso ripetuti innesti musicali e testuali, gli stati di coscienza delle esperienze vissute nelle diverse fasi, in un unico costrutto psicologico esperienziale che è la base di una nuova coscienza.

Inno alla Gioia.Prima strofa del testo schilleriano

Gioia bella scintilla degli dei, figlia dell’ElisoNoi entriamo, ebbri di fuoco,

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o celeste, nel tuo santuariole tue magie legano ciò che la moda ha separato. Tutti gli uomini diventano fratelli Dove si libra la tua dolce ala

(Freude schoener GoetterfunkenTochter aus ElisiumWir betreten feuertrunkenHimmlische, dein Heiligtum!Deine Zauber binden wieder,Was die Mode streng geteilt;Alle Menschen werden Bruder,Wo Dein sanfter Flugel weilt).

Per sottolineare come una certa letteratura considerasse assolutamente irrilevante il testo poetico di Schiller, inquadrato soltanto nella superficiale retorica della gioia universale, segnaliamo una traduzione del testo, assolutamente delirante che, secondo un commentatore delle sinfonie beethoveniane (Magni-Dufflocq) “pur essendo un poco arbitraria e perdendo molti concetti che sono fondamentali nella poesia dello Schiller è ormai entrata nell’uso”. La traduzione è la seguente: Gioia figlia della luce/ dea dei carmi, dea dei fior/ il tuo genio ne conduce/ per sentieri di splendor.

Mi chiedo a questo punto come sia possibile fare un commento alla nona sinfonia partendo da un tale travisamento del testo!

L’identità dinamica “Bacco- Gioia”

Comunque, tornando ad analizzare le parole di Schiller, vediamo come la gioia presenti qui contemporaneamente due aspetti. Il primo è quello di una “divinità” ben individuata collocata nell’universo religioso della Grecia antica. Infatti essa è

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chiamata ”celeste” (himmlische), figlia dell’Eliso ed in suo onore è stato eretto un “santuario” (Heiligtum). Il secondo aspetto considera la gioia come una “realtà psicologica”, un’emozione che fa parte dell’esperienza psicologica degli umani che diventano “ebbri di fuoco” (Feuertrunken). I due aspetti della Gioia sono interconnessi. Poiché se da una parte essa è una divinità dall’altra è un motore psicologico, una “scintilla” degli dei (Goetterfunken) che accende l’animo dei fedeli che diventano “ubriachi di fuoco” (feuertrunken). Un “santuario” è comunque un’immagine-rappresentazione molto ben individuata.

Noi non vorremmo qui fare, in rapporto al solo testo di Schiller dei voli pindarici ingiustificati ma non possiamo fare a meno di sottolineare come qui si intenda la gioia come uno stato psicologico che svolge un’azione specifica tra gli umani nell’ambito di un contesto sacro. Ma il sacro è per così dire liberato dal suo involucro formale, non più rappresentato da figure di divinità, poiché dal mondo degli dei (Goetter) giunge “una scintilla” (Funk). Non è difficile pensare che nel mondo poetico di Schiller, le diverse divinità possano essere considerate come proiezioni di tratti psicologico-comportamentali degli umani, che si condensano nella forma di personalità divine ben individuate. Questa operazione schilleriana della gioia come appartenente al mondo degli dei e al contempo descritta come “motore psicologico” che crea l’ebbrezza, rappresenta una relativa novità. Infatti in genere la metafora immaginativa dell’Eliso presenta vere e proprie “divinità-persona” che, in quanto tali, interagiscono in modo palese o misterioso, ma sempre in quanto persone, con gli umani. Tra queste divinità fa però eccezione Dioniso-Bacco che ha anche la caratteristica di “invasare” gli umani.

L’invasamento non è l’effetto, prodotto dall’esterno dell’azione di Dioniso, ma è legato alla “presenza” del dio dentro gli umani. La divinità “persona” si trasforma, nel rito, in sostanza psicologica, in un processo d’identificazione immaginativa: il dio si sovrappone all’uomo e accende il comportamento proprio dell’invasamento.

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Dioniso è una divinità che si trasforma da struttura iconica in processo psichico. Talvolta anche per Venere e per Marte assistiamo a questi cambiamenti di forma e di apparenza ma non si mescolano, come fa Dioniso, completamente con la sostanza psicologica corporea ed espressiva degli umani con cui entrano in contatto. Nelle Baccanti di Euripide il gioco delle trasformazioni della divinità è ancora più complesso, poiché Dioniso assume anche forma umana, in rapporto alla guida del culto ed alla sua promozione. In tal modo Dioniso anticipa la corporeizzazione del divino proprio del cristianesimo (eucaristia; et verbum caro factum est).

Si dice nelle “Baccanti” di Euripide: “Il dio entra nel corpo degli invasati” (trad. Zammarell, Ed. Ciranna. Palermo: 2003, pag. 23). “Ho cambiato la mia forma divina e in spoglie di mortale mi mostro” (Ibid. pag. 23). In qualche punto il testo di Euripide suggerisce l’idea che Bacco “esista nel ditirambo” cioè nella forma del canto cultuale come se la “verità” dell’esistenza del dio fosse nella stessa celebrazione del suo culto. Ma a questo proposito, nella lettura del testo euripideo, ci imbattiamo in uno strano passaggio, Penteo, il re di Tebe che non riconosce la divinità di Dioniso. Pertanto il coro nel primo stasimo, strofe 1, per denunciare l’empio e sacrilego Penteo che ha inveito contro Dioniso ed ordinato la sua cattura, si rivolge ad una nuova, per noi incomprensibile, divinità: Osia che diversi traduttori hanno tradotto con diverse sfumature e con un non sempre chiaro significato. Per es. Zammarelli traduce: “Santità, dea grande tra i numi, Santità che sulla terra porti la tua ala d’oro, odi le parole di Penteo?” Mentre in traduzione “letterale” lo stesso traduttore traduce: “o legge divina, veneranda tra le dee, o legge che porti l’aurea ala per la terra” (pag.100). Lo stesso traduttore sostiene che il termine esatto per Osia è Pietà (Pietas) che solo in Euripide è personificata. Noi sottolineiamo il termine Pietas e ci sembra di poter interpretare la divinità come l’astratta reificazione della LITURGIA SACRA. Alla luce di questa

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interpretazione è la stessa esperienza liturgico-religiosa che è contemporaneamente oggetto di culto e culto stesso. Infatti tutta l’opera euripidea è l’esaltazione del culto divino che in quanto tale pone ordine tra i mortali poiché regola la dinamica libertà-controllo, in modo da renderla socialmente accettabile. Qui Euripide appare come un saggio legislatore che dando spazio al culto, si comporta come una sorta di “razionalista opportunista” che ritiene utile per una comunità credere ad una religione praticandone il culto.

Ma per noi che intendevamo studiare la relazione tra il mondo greco antico e l’universo immaginario di Schiller e di Beethoven è fondamentale il fatto che il coro, rivolgendosi a questa divinità che noi definiamo “Sacra liturgia” la proclami “grande tra i mortali” e le dica “che porti sulla terra la tua ala d’oro”. Questa citazione ci sembra confermi l’ipotesi secondo cui Schiller, nella composizione dell’Ode alla Gioia si sia direttamente ispirato ad Euripide. Perché, come tutti sanno, un attributo fondamentale della Gioia, è “la sua dolce ala che fa sì che gli umani diventino tutti fratelli”. Sembra, questa di Schiller quasi una citazione tratta dalla tragedia di Euripide, trasferita in un altro contesto concettuale. Le due divinità “astratte” dunque la “sacra liturgia” di Euripide e la gioia di Schiller, “figlia dell’eliso” hanno un’ala rispettivamente “d’oro” e “dolce” con cui intervengono tra i mortali.

La riflessione sull’analogia Freude-Dioniso è stata per me probabilmente stimolata dall’importante e già citata (Mila, pag. 151) annotazione di Beethoven: “Heute ist ein feierlicher Tag, meine Freunde, sei gefeiert mit durch Gesang und (Tanz?)” (Oggi è un giorno di festa amici, sia festeggiato con canto e (danza?).

Interessante è che il progetto di Festa a Bacco possa alludere non solo ad una “rappresentazione musicale”, ma ad un’esperienza religiosa di una vera e propria cerimonia religiosa. Inoltre sempre Mila segnala, a pag. 11, che “in una

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conversazione tenuta con Rochlitz, nell’estate del 1822, Beethoven diceva di avere in mente due grandi sinfonie, una tutta strumentale ed una sinfonia tedesca, cioè con intervento corale, probabilmente quel progetto del 1818, su idee mistiche della mitologia e del cristianesimo. Svanite queste speculazioni, risorse dalle profondità della coscienza il vecchio proposito di musicare l’ode alla gioia di Schiller”.

A questo punto emerge chiaramente il contesto religioso dell’opera beethoveniana, solo che lo stesso Mila, con la sua grandissima apertura mentale, è “troppo musicologo” per mettere inizialmente da parte la logica musicale, per rivisitare il processo creativo di Beethoven a partire da queste intenzioni narrative ed espressive cui pure accenna: “mito greco o un cantico di chiesa, Festa a Bacco, idee mistiche della mitologia o del cristianesimo”. Secondo noi queste tematiche sono assolutamente centrali nella nona sinfonia ed emergono, suggerite dal testo di Schiller, nel 4° movimento. Qui noi cercheremo di rendere esplicito e ben evidente ciò che riteniamo Beethoven abbia inteso esprimere. In realtà a queste tematiche Beethoven non ha solo “accennato” o “alluso” bensì le ha chiaramente collocate in una coerente architettura che, se non è immediatamente visibile, è solo perchè l’attenzione dell’ascoltatore è orientata e catturata dall’idea pregiudiziale di essere di fronte all’ascolto di una tradizionale sinfonia, appena modificata rispetto alla tradizione dall’aggiunta della voce umana. Certamente non si va a cercare una logica narrativa extra-musicale in una sinfonia! Ma noi pensiamo che, con la chiave di lettura che emerge dalla nostra analisi, potrebbero trovare soluzione tutti i problematici quesiti che hanno tormentato i critici scettici. Del resto lo stesso Mila suggerisce di effettuare “un esame della partitura come un romanzo” (pag. 147).

Seguendo dunque lo sviluppo narrativo, entriamo, senza accorgercene, in un dialogo tra un personaggio che potrebbe essere

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un sacerdote ed un’assemblea di fedeli. In altri termini sembra che Beethoven ci abbia introdotto in una vera e propria liturgia, con un corifero che sembra evocare una processione, sull’onda del tema principale dell’inno alla Gioia (Freudenmelodie) proclamato come idea-guida e sostegno di un percorso di fedeli.

L’idea di una processione religiosa potrebbe sembrare a tutta prima troppo immaginifica, ma essa prende chiara forma se si considera la logica del testo introdotto dallo stesso basso-sacerdote (che ha la funzione di corifero) seguito poi dal popolo dei “fedeli” che dichiara, rivolgendosi alla gioia, “noi entriamo ebbri di fuoco nel tuo santuario”. Dunque un gruppo di persone, invocando la gioia come una divinità, entrano nel santuario a lei eretto. Sono dunque i membri del coro che insieme con il sacerdote, cantando, sottolineano il fatto di compiere l’azione di “entrare” nel santuario. E’ facile dunque, collegando il canto del coro e la simultanea azione dell’entrare, immaginare di poter essere in presenza di una “processione” propria di un contesto liturgico. Ad essa però non si allude soltanto con la musica ed il testo, cioè con un riferimento indiretto, poiché l’azione enunciata è sostenuta in prima persona dai membri del coro (noi entriamo). Intanto prende maggiore consistenza l’idea che il corifero possa essere con tutta probabilità un sacerdote di un rito antico, e perché no, bacchico, visto le allusioni a Bacco poste per iscritto proprio da Beethoven. Risulta così possibile che il recitativo iniziale pronunciato dal “basso” possa essere un’esortazione sacerdotale nei confronti di un’assemblea di fedeli. Un’esortazione che musicalmente ha una forma un po’ arcaica e/o vagamente gregoriana (compare il tema dell’intreccio tra mistico antico-pagano e cristiano). Ma è importante segnalare il fatto che la “processione” compare dopo il recitativo del “sacerdote”, che sembra costituire una sorta di risposta alla Schreckenfanfare che rappresenta idea religiosa negativa e terrifica.

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LA SCHRECKENFANFARE

L’esortazione del sacerdote fa seguito al grande frastuono sonoro definito da Wagner Schreckeunfanfare, una fanfara di terrore. Mila si sofferma ad esplicitare la struttura musicale di questo “inizio”, di questa clamorosa, nel senso etimologico del testo, dissonanza. Rimandiamo pertanto alla lettura di Mila (pag.148) per chi volesse approfondire. Si dice lì anche che la frase della fanfare “non è un tema nel senso tradizionale della dialettica musicale del settecento, un mattone per edificare, ma un gesto drammatico di esasperato espressionismo, senza alcuna preoccupazione strutturale. (…) E’ la lacerazione brusca e violenta di un sipario a rivelare d’improvviso il palcoscenico che ci sta dietro” (pag. 149). E ancora Mila parla di “desiderio inconfessato di esperienze teatrali” alludendo alle interpretazioni wagneriane che vorrebbe collocare l’opera nel genere del Wort-und-drama. Questa Schreckenfanfare mi sembrò potesse acquistare una sua logica dopo l’ascolto di una edizione discografica di musica greca antica, in cui compariva un analogo “chiasso” strumentale, con strumenti d’epoca (sistri, timpani, etc.) seguito da un canto processionale che chiaramente alludeva ad una “cerimonia religiosa”1. Prendeva forma il significato liturgico di tale passaggio musicale che rinforzava ulteriormente la ipotizzata presenza del “sacerdote-corifero” della frase immediatamente successiva... E ne era a sua volta illuminata. Nell’ambito di un contesto liturgico il drammatico gesto sonoro poteva alludere ad un improvviso irrompere sulla scena di qualcosa di “terribile”, di una sorta di simulazione liturgica del divino che appariva ai fedeli. Teatralità della liturgia! E perché non pensare che questa sia un’esperienza panica di tipo religioso, e che rappresenti l’irrompere di Dioniso che, nelle tragedia delle Baccanti di Euripide, è più volte definito

1 Anarousis Orestes stasimo musique de la grece antique. Atrium musicae de Madrid harmonia mundis s.a. mas de vert 1 200 arles, 1979 made in germany.

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come il”dio dello strepito”. Gli artefici dunque di questa chiassosa manifestazione potrebbero essere gli stessi sacerdoti o accoliti officianti con strumenti a fiato, timpani, etc. Nella nostra immaginazione si consolida quindi la presenza di un gruppo di sacerdoti ed officianti che intonano, nel dialogo con i fedeli, la Freudenmelodie, l’asse portante di tutto lo svolgimento narrativo della seconda parte (quella con la voce) del quarto movimento. Infatti secondo noi questo movimento percorre diverse dimensioni immaginative ognuna, come vedremo, con un suo specifico contenuto mistico-religioso-esperienziale. Ognuna di queste dimensioni prenderà sempre l’avvio, sarà per così dire introdotta e commentata dal “gruppo dei sacerdoti officianti”. Questa del rito religioso sarebbe dunque la logica (ben individuabile ma non esplicitata da Beethoven) del IV movimento, che corona un percorso fino a quel momento esclusivamente musicale, e dà ragione dell’accadere psicologico di tutta la sinfonia intesa dunque come espressione della condizione esistenziale degli umani, nella loro ricerca della felicità.

Forse il gesto sonoro drammatico che noi vediamo come realizzato da ipotetici antichi sacerdoti rappresenta una dimensione del divino, l’orror panico cui Beethoven però contrappone una esortazione pronunciata dal baritono (antico sacerdote) che indirizza verso “la ricerca di qualcosa di più gradevole e più gioioso”. A questa esortazione fa seguito la Freudenmelodie. L’intervento del recitativo, pronunciato subito dopo la Schreckenfanfare, proprio per il suo contenuto acquista un evidente significato polemico, come se Beethoven proponesse una esperienza religiosa molto diversa da quella “terrifica” (“qualcosa di più gioioso”). Questa operazione si svolgerebbe pur sempre nella cornice di un immaginario liturgico antico come se nella radice del mondo greco introducesse una sensibilità moderna cristiana e postcristiana ( vedi dipo a proposito degli accenni a temi popolar-rivoluzionari) ed orientata a favorire l’autorealizzazione dell’umano.

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Beethoven accenna alla danza

Ritorniamo alla citazione beethoveniana in cui si accenna, in forma interrogativa, alla possibilità della danza messa tra parentesi come se Beethoven, più che incerto, avesse quasi timore di proporre una danza in una sinfonia (che noi, invece spudoratamente, intendiamo rendere evidente). Infatti quando si riferisce alla forma di danza, come nel quartetto 130, scrive esplicitamente “alla danza” ma non sottintende che l’esperienza musicale debba essere danzata, come si potrebbe invece sospettare nel caso di una vera e propria liturgia concreta. Con le debite differenze consideriamo che l’esperienza di una messa dove il testo (per es. “Gloria”, “Credo” etc.) non sia soltanto proposto all’ascolto dei fedeli (che artificialmente si trasformano in spettatori in un concerto) ma costituisca la base di un’esperienza di vera e propria di preghiera che coinvolge l’ascoltatore. Il fatto che una messa beethoveniana sia spesso presentata nel contesto di un “concerto” non toglie nulla alla sostanza liturgica della composizione! E’ evidente che il testo è il supporto-base per una concreta esperienza di preghiera!

L’annotazione di Beethoven sembra rinforzare la multimodalità dell’opera poiché la colloca in un ampio progetto non inquadrabile in nessun genere specifico, non coincidente con i limiti angusti di un tradizionale schema di sinfonia. Compare dunque nel nostro immaginario “la danza”. Se è possibile ipotizzare la presenza di un immaginario di danza, di che danza si tratta?

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La processione

Dopo l’imprevista e apparentemente misteriosa esortazione del basso, compare il tema della gioia (Freuden-melodie). Mila, dopo averlo apprezzato per il suo tratto popolare, lo trova forse “troppo semplice” e comunque non perfettamente corrispondente alle aspettative gioiose sollecitate dal basso (freudenvollere).

A questo punto ricordiamo al lettore che non avesse bene in mente lo schema della sinfonia, che il tema della gioia compare una prima volta in forma esclusivamente strumentale, portato inizialmente dai violoncelli e dai contrabbassi, dopo una citazione-riepilogo dei temi dei tre movimenti precedenti, che rinforzano l’idea della sinfonia come riflessione-esperienziale su temi filosofico-esistenziali. Dopo l’esortazione del baritono, la ripetizione della Freudenmelodie si presenta cantata con le parole di Schiller, (Freude, schoener, etc.). E qui il tema è sorprendentemente nudo accompagnato da una linea melodica esile (pianissimo) di clarinetti e oboi, con tenue sostegno degli archi. E’ lo staccato degli oboi che allude alla marcia. Questa apparentemente incomprensibile nudità ne sottolinea il carattere monodico e tira in ballo da un lato la natura rituale-liturgico-processionale di questo momento della sinfonia e dall’altro riecheggia la messa in scena dell’antica tragedia greca, dove il canto recitato era accompagnato melodicamente da un flauto (vedi Nietzsche “Sulla storia della tragedia greca”. Trad. 1995). Il canto monodico-processionale è parte evidente di un dialogo con il coro, che sempre più assume l’aspetto di un’interazione tra sacerdote (i) e assemblea dei fedeli. La caratteristica di marcia-processionale ha un suo chiaro perno logico-immaginativo nelle parole del testo schilleriano, dettato dal sacerdote-corifero che rivolgendosi alla gioia dice “Wir betreten”: noi entriamo nel tuo santuario. Ecco dunque “gente” in movimento che si avvia ad entrare nel santuario, per partecipare ad un rito sacro. Il ritmo (Beethoven ha indicato metronomicamente 80) non è lento, ma nella forma di “allegro

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assai”, è ieratico. Tale forma rievoca l’intenzione di Beethoven di usare gli antichi “modi”. Ricordiamo a questo proposito lo stile “lidio” della preghiera (Beethoven parla esplicitamente di “canzona di ringraziamento di un malato alla divinità”, nel 3° movimento del quartetto 132). Nel caso del quartetto Beethoven, non propone semplicemente l’ascolto di una preghiera, ma invita a prendere parte ad un’esperienza di preghiera.

La differenza è sostanziale: non si tratta di una rappresentazione, ma di un momento liturgico partecipativo. Non spettatori di teatro o ascoltatori di concerto, ma co-oranti. Come in una messa, (ricordiamo la Missa Solemnis op. 123) per es. il Kyrie, è una vera e propria preghiera e non raramente la sua esecuzione si svolge non in una sala da concerto ma in una chiesa nel contesto di una vera e propria liturgia. C’è però da dire che, anche in ambito liturgico, sono presenti momenti narrativi (per es. lettura del Vangelo) e momenti di condivisione esperenziale (per es. l’eucarestia). Pertanto il testo musicato entra a far parte di un’esperienza liturgica più ampia, per cui cambia il modo di partecipare dello spettatore-fedele. Sviluppando questo pensiero potremmo dire che la Nona Sinfonia si presenta anche nella forma di una liturgia laica, in cui s’intrecciano elementi narrativi e partecipativi.

Passaggio 1°. Dalla processione alla danza bacchica

Dopo che il corifero e l’assemblea dei fedeli hanno dialogato (Basso: Freude; popolo risponde: Freude) e dopo la marcia processionale, in cui i fedeli “ebbri di fuoco” (feuer-trunken), perché accesi dalla divinità “gioia” che è contemporaneamente una scintilla (divina), entrano nel “santuario”, la secca monodia è sostituita, in una ripetizione del testo cantato dal coro (assemblea

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dei fedeli), da un festoso insieme di flauti, oboi, fagotti, clarinetti, timpani, etc. che pur insistendo sull’atteggiamento di un movimento processionale, sembra però creare un’espansione del movimento stesso, sembra voler sviluppare una vera e propria danza dionisiaca. La nostra immaginazione si sofferma dunque su una prima trasformazione liturgica: da processione antica a danza dionisiaca in cui si ripete danzando l’invocazione alla divinità e si sottolinea la funzione riparativa della gioia medesima: “deine Zauber binden wieder was die Mode streng geteilt, alle Menschen werden Brueder wo dein sanfter Fluegel weilt” (le tue magie legano di nuovo ciò che la moda ha fortemente separato. Tutti gli umani diventano fratelli dove si libra la tua dolce ala). La gioia è qui il motore di un’esperienza di aggregazione, di legame, di superamento di differenze culturali, di opinioni, pregiudizi etc. che Schiller chiama moda (Mode). In altri termini tutti gli elementi di separazione, emarginazione e di conflitto vengono meno se sono “incendiati” dall’esperienza della gioia, da un’esperienza emozionale positiva, che propone “vissuti” incompatibili con le situazioni di conflitto. In base a queste riflessioni, il termine Moda usato da Schiller, perde la sua asciuttezza descrittiva poco lirica, per suggerire la dialettica tra l’esplosione emozionale travolgente della gioia e la dimensione pregiudiziale socio-cognitiva (quale che sia la sua origine) degli umani, che genera separazioni e conflitti. Ma l’esperienza della gioia non si può solo raccontare. Essa deve essere “vissuta” in una compartecipazione psicocorporea integrata, come si verifica nella danza. La danza è il perno della tragedia di Euripide “Le Baccanti”. A questo proposito segnaliamo alcune annotazioni di Nietzsche (trad.1995) che condividiamo pienamente, in cui si sostiene che questa tragedia è essenzialmente un’opera cantata e danzata, un’opera esperenziale, nel senso che noi abbiamo dato a questo termine, e non riservata all’ascolto essenzialmente cognitivo-critico. Si tratta di un’opera assolutamente antibrechtiana. Il coro narra cantando i movimenti dei piedi delle

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baccanti, il loro modo di muovere le membra, etc. In questo aspetto espressivo, legato anche all’iconografia della baccante, ricavata dalle sculture dell’opera, torneremo in seguito analizzandone i dettagli per comprenderne la finalità espressiva .

CORO. Così nelle lunghe danze notturne,/ poserò il mio bianco piede/ nel delirio di Bacco,/ agitando il mio collo nell’aria rugiadosa/…..(da Euripide “le Baccanti” trad: Sanguinetti, Bur, Milano 2003, pag.49).

Qui abbiamo la necessità di contraddire un luogo comune. L’orgia dionisiaca non è sostanzialmente un’esperienza erotica, essa è un particolare stato di coscienza (e conoscenza) legato all’invasamento del dio. La processione dunque dei nostri fedeli, che sempre più si connota come gruppo di baccanti (anche se l’identificazione non è sempre così rigida), si rivolge al divino nella ricerca di un invasamento, dell’incendio interiore suscitato dalla presenza del dio. Per Nietzsche la sostanza della tragedia è nella modulazione che l’apollineo (regola, ricerca di bellezza, etc.) fa della sregolatezza e dell’irrazionalità dionisiaca. Ecco dunque il sorgere della liturgia. Ma il testo di Schiller cantato nel dialogo tra corifero e coro propone un’ulteriore sviluppo concettuale. Infatti in Schiller-Beethoven assistiamo ad un interessante cambiamento di ottica. Se infatti Euripide fa dire al coro “E quale dono degli dei è più bello, per gli uomini,/ che premere, con la mano forte/ sopra la testa dei nemici?”, anche nel testo della sinfonia sono scomparsi i nemici! Si parlerà infatti più avanti di eroi e di vittoria, ma in termini di esultanza narcisistica di autorealizzazione e non in rapporto alla distruzione dell’altro.

E’ importante questa riflessione poiché il testo poetico opera un passaggio dalla dimensione psicologico-spirituale propria del rito greco segnata dalla gioia come scintilla individuale, all’amore fraterno, all’agape di matrice cristiana.

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Passaggio 2°: dalla danza dionisiaca alla scoperta della solidarietà e dall’amore nella forma di agape.

Un cerchio sociale si forma infatti sulla base di profondi legami amicali e di forti reciproche “appartenenze”.

Colui al quale è toccata la grande venturaDi essere amico di un amico,Colui che ha ottenuto una dolce donnaMescoli il suo giubilo al nostro

Sì, chi anche soltanto un’anima Può chiamare sua sulla terraE chi non ha potuto si involiPiangendo da questa riunione.

(Wem der grosse Wurf gelungen Eines Freundes Freund zu seinWer ein holdes Weib errungenMische seinen Jubel ein!Ja, wer auch nur eine Seele Sein nennt auf dem Erdenrund Und wer nie gekonnt, der stehleWeinend sich aus diesem Bund)

Dalla “gioia” come scintilla, che si accende nei singoli individui, si passa al sentimento del legame interpersonale, alla dimensione delle appartenenze affettive (chi anche solo un’anima può chiamare sua) che è alla base del giubilo collettivo, e dell’esperienza positiva del gruppo. Si tratta di una dimensione nuova, non ben presente nella tradizione greco-ellenistica, propria

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di una sensibilità cristiana che il testo stesso di Schiller sembra qui riecheggiare, all’incontrario di quello del Lied “Gegenliebe” che i musicologici considerano essere l’antenato melodico della Freuden-melodie. Lì si accenna alle sofferenze di un amore incompreso e respinto, qui si pone in positivo la partecipazione al giubilo collettivo e chi non è stato in grado di stabilire legami affettivi, “si allontani piangendo dal nostro circolo”.

Passaggi 3°-4°: la condizione umana inserita nelle forme e nelle diverse dimensioni della natura. Tema bacchico del vino e dell’uva attribuito alla gioia.Dal verme al cherubino dinanzi a Dio Tutti gli esseri suggono gioia Dal petto della naturaTutti i buoni, tutti i cattivi Seguono la sua traccia di rose.

Essa ci ha dato baci ed uveUn amico provato fino alla morte;Anche al verme è stata data la voluttàE il cherubino sta dinanzi a Dio.

(Freude trinken alle WesenAn den Bruesten der Natur;Alle Guten, alle BoesenFolgen ihrer Rosenspur.

Kuesse gab sie uns und Reben

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Einen Freund geprueft in TodWollust ward dem Wurm gegeben,und der Cherub steht vor Gott.)

Dopo la scoperta della Gioia-solidarietà, il testo di Schiller allarga il suo orizzonte ponendo la Gioia nella più ampia dimensione della natura: “tutti gli esseri bevono gioia dal petto della natura”. La gioia diventa un nutrimento naturale universale che può aggregare gli umani, i buoni e i cattivi. Tutti seguono la sua “traccia di rose”. Questa “traccia di rose” è a mio avviso una citazione dell’antico romanzo di Apuleio “L’asino d’oro”, dove durante la processione in onore della divinità spargono petali di rose.

Quindi il testo di Schiller introduce un altro tema frequentemente presente nell’iconografia delle feste bacchiche: il tema dell’uva e della vite. “La gioia ci ha dato baci ed uve”. Ecco che ricompare la tematica dionisiaca del vino, e quella cristiana, mutuata dalla prima, della “vite e dei tralci”, del sangue trasformato in vino nella transustanziazione eucaristica. Nel passaggio successivo (4°) il quadro ridiventa universale e cosmico. Si scoprono tutti i gradi della natura (quasi un accenno alla filosofia hegeliana) intrecciando Gioia e Piacere: “anche al verme è stata data la voluttà” (esprimendo il grado più basso del biologico) e il “cherubino sta dinanzi a Dio”. Qui compare una prima grande trasfigurazione della natura. La dimensione della gloria divina nasce come uno sviluppo stesso della natura. Tra il verme e il cherubino c’è l’uomo, che possiede da una parte la voluttà (anche al verme…) e dall’altra entra a far parte della gloria divina. Risulta ancora più chiaro a questo punto che è il testo poetico che spiega la musica, che a sua volta spiega e rinforza il testo poetico medesimo, e non un’astratta logica esclusivamente musicale, come invece vorrebbero esperti musicologi! A questo proposito segnaliamo che, mentre l’esaltazione del cherubino in presenza di Dio è facilmente comprensibile da un punto di vista

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musicale, più complessa è l’analisi estetica della musica dei passaggi 3° e dell’inizio del 4°, dove i concetti tradizionali di “bellezza e gradevolezza” sono fortemente messi in discussione. La musica che suggerisce l’esperienza degli esseri che suggono gioia dal petto della natura, è piatta, uniforme, senza slanci, ma sembra essere, anche in rapporto alla suggestione del testo, come “liquida”, quasi si alludesse all’esperienza del “bere” (dalla natura). Quando poi si passa ai baci e all’uva (pampini) compare una certa asprezza e tensione interna al brano. L’esecuzione canora di questa strofa è particolarmente difficoltosa per i cantanti, che hanno espresso il loro disappunto sin dai tempi di Beethoven. Sconcerta soprattutto la sostituzione delle semiminime con delle crome. Ma la nostra diffidenza iniziale è ben superabile se si ipotizza che Beethoven abbia voluto rappresentare musicalmente la stretta tessitura della vite e dei tralci. L’intreccio delle voci sarebbe una riproduzione dell’intreccio di rami e frutti sottolineando acusticamente la presenza del tema iconografico bacchico-cristiano del vino, vite-tralci, etc. A questo proposito segnaliamo il bellissimo mosaico di una campata del Mausoleo di S. Costanza a Roma in cui è raffigurato il tema della raccolta dell’uva. Quelle crome che hanno sostituito le semiminime, anche se ostiche da riprodurre per i cantanti, sarebbero in realtà gli arabeschi della tessitura vite-tralci. Dopo la scoperta del cherubino nella gloria di Dio, comincia una nuova figura. Passaggi 5°-6°. Dalla marcetta popolar-rivoluzionaria a degli astri solari che percorrono l’universo come eroi alla vittoria

(Questo passaggio inizia con una marcia senza parole cui segue)

Lieti come i suoi soli volanoPer il magnifico piano del cieloPercorrete fratelli il vostro cammino

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Gioiosamente come un eroe verso la vittoria.

(Froh! Froh! Wie seine Sonnen fliegen Durch des Himmels praecht’gen Plan,Laufet Brueder, eure Bahn,Freudig wie ein Held zum Siegen)

Ricordiamo ancora una volta che gran parte della letteratura sulla nona si è sempre un po’ stupita della semplicità della Freuden-melodie, che è sempre stata assimilata ad una canzone popolare, o ad un motivetto di canzone rivoluzionario del tipo “ça ira” o “Allons enfants etc”. Nel 1824, la rivoluzione francese era lontana e si era in una fase di restaurazione, pertanto allusioni troppo esplicite ai momenti rivoluzionari potevano risultare politicamente pericolose. Eppure Beethoven inserisce qui una variazione della Freudenmelodie, che ha un sapore di marcetta militar-rivoluzionaria. La connotazione di marcetta è estremamente gioiosa e sembra veramente di veder (o sentir) marciare in un festa popolare. La maggioranza degli autori citati da Mila non colgono la componente ironico-popolaresca, anche se si cita Beethoven che parla di musica turca e Mila spiega che “per musica turca s’intende il complesso di percussioni allegramente tintinnante e bandistico fatto di grancassa, triangolo, campanelli e intersezione fra i legni del flauto piccolo col suono acutissimo e sibilante. Mozart l’aveva spesso usata nel “ratto dal serraglio in funzione di umoristico color locale”. Incidentalmente vorremmo ricordare che una delle arie del mozartiano “ratto del serraglio” è un’ironica lode a Bacco (Bacchus vivat etc.). Bacco è ovviamente il perno di tutta la narrazione beethoveniana nel finale della nona sinfonia. Comunque ci sembra di poter dire che qui Beethoven faccia sentire una eco della rivoluzione francese che, in questo contesto può essere considerata come una fase preparatoria, una sorta di passaggio verso l’esperienza successiva in cui gli umani, a partire dalla

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partecipazione ad una marcetta popolare, si trasformano, su indicazione dei sacerdoti, in astri e soli rotanti.

Ad un certo punto assistiamo ad una evoluzione-trasformazione della marcia. Il testo schilleriano ancora una volta propone una “esortazione” che noi attribuiamo agli immaginari sacerdoti: “percorrete fratelli, come degli astri solari la vostra strada nel cielo”. Alla luce della nostra interpretazione sarebbero ricomparsi i “sacerdoti” ad esortare i fedeli. Ciò che però qui compare è una trasformazione di scenario: dalla marcia popolare si passa ad una corsa di astri nel cielo. Immaginiamo che i fedeli (le baccanti) si trasformino, nella fase 3-4 , da vermi in cherubini e qui da festosi rivoluzionari in astri solari e da astri in eroi che vanno verso la vittoria.

Nuovo inquadramento di tutta l’opera: un percorso spirituale attraverso i quattro movimenti della sinfonia.

Per comprendere pienamente questa “evoluzione” indicata dal testo schilleriano, inquadriamo il finale della sinfonia (4° movimento) nel contesto di tutta la sinfonia che consideriamo globalmente come un vero e proprio percorso psicologico esistenziale. A partire dalle prime battute del primo movimento caratterizzate da una ripetizione giambica “taràn, taràn, taràn”, la sinfonia sembra proporre un intreccio inquieto di affermazione e di dubbio (una forte domanda irrisolta) che inizialmente si svilupperebbe, nel primo tema, in una espansione di grandiosità narcisistica. Ma tale titanismo ha una particolare connotazione

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poiché il “grandioso” è in qualche modo frenato e ridimensionato. Infatti Beethoven definisce questo movimento “allegro ma non troppo, un poco maestoso”. Egli sembra voler sottolineare proprio un ridimensionamento del grandioso o la sua “insufficienza”. Il grandioso potrebbe non avere qui un sostegno psicologico adeguato, sarebbe in qualche modo millantato. Questa interpretazione della sinfonia come di “percorso esistenziale” poggia su alcune notazioni di Beethoven che, dopo aver scritto il secondo (allegro vivace) ed il terzo movimento (adagio molto cantabile) annota di suo pugno: “non è questa la soluzione”. E’ evidente inconfutabilmente che il nostro autore cercava “una soluzione”. Ma ci chiediamo una soluzione di quale problema? In che senso il dolcissimo tema lirico del terzo movimento “non è una soluzione”? Si comprende dal contesto che la soluzione è nella esperienza della “gioia”.

A conferma dell’ipotesi di un progetto filosofico di un percorso di ricerca spirituale, ricordiamo l’impianto quasi teatrale dell’inizio del 4° movimento: appare sulla scena la Schreckenfanfare seguita da un recitativo in forma puramente orchestrale (il recitativo, presenta lo stesso tema che sarà cantato dal basso nella fase successiva del corale, in cui si invita gli amici a cambiare “toni”). La Schreckenfanfare ricompare una seconda volta, seguita ancora una volta da un recitativo orchestrale. Quindi altre figure sonore compaiono sulla scena. Esse sono facilmente riconoscibili, sono i temi principali dei tre movimenti precedenti. Beethoven propone qui una sorta di citazione letteraria. I tre temi sono accennati e poi bruscamente interrotti, quasi che ognuno di essi indicasse una direzione sbagliata, una strada da non percorrere. I recitativi orchestrali appaiono come una sorta di ouverture, nel senso originario del termine, come se si proclamasse l’inizio dello spettacolo o meglio della cerimonia religiosa, per poi introdurre il tema della Freudenmelodie che, dall’incerto inizio prontamente interrotto, evolve verso il suo pieno sviluppo nella versione puramente strumentale. Anche in questa versione il tema della

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gioia è riproposto, in successione, in diversi ambiti musicali come se Beethoven pensasse a diverse aree e livelli e fasce dell’universo musicale. La Freudenmelodie fiorisce per così dire prima nell’area dei bassi per poi riproporsi nell’area dei violini e degli strumenti a tonalità più alta; come se l’aree dell’altezza delle note dei diversi strumenti non rappresentassero soltanto eventi acustico-sonori ma assumessero anche una connotazione spaziale, e, nella forma di fasce sonore, che la gioia ripercorre, riproducessero i piani ed i livelli della natura. Come se l’architettura beethoveniana proponesse una struttura narrativa di tipo filosofico per descrivere un percorso spiritual-esperienziale, che attraversa tutti gli stadi della natura per giungere nel corale al livello più alto rappresentato dalla parola e dal pensiero linguistico proprio degli umani.

Ripetiamo che se Beethoven, dopo la presentazione dei primi tre temi, scrive: “non è questa la soluzione”, siamo indotti a pensare che la soluzione sarebbe nell’esperienza della gioia collegata alle radici arcaiche di un’esperienza religiosa, che va incontro ad importanti trasformazioni che portano alla consapevolezza psicologica del “valore” dell’umano in stretto rapporto con l’esperienza del divino (un buon padre oltre le stelle) e dell’amore universale.

Pertanto Beethoven ci conduce in un altro spazio immaginario. Non siamo più nell’ambito di una cerimonia religiosa pagana come all’inizio, né in un bosco abitato dalle baccanti, e neppure nella natura a bere dalle fonti della gioia. Ci siamo trasferiti in cielo. Gli umani, trasformati in astri celesti, sono invitati a “correre” (laufet ) nella splendida strada-percorso (Bahn) del cielo. In questa corsa c’è un’ulteriore trasformazione. Gli umani-astri diventano eroi verso la vittoria. E’ una nuova forma di titanismo, privato però della lotta contro un destino avverso che tanto peso ha avuto nella retorica beethoveniana. Qui gli umani hanno già una strada segnata “eure Bahn” (la vostra strada) nello splendido piano del cielo.

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7° passaggio. Solo strumentale. Sviluppo dell’immagine di “soli” ed astri rotanti, con marce-danze e “tarantelle”

Quando finisce la parte cantata, lo spazio musicale si allarga ulteriormente. Noi interpretiamo questa fase in modo molto diverso sia rispetto a Mila sia rispetto ad altri importanti commentatori, Schenker, Wagner e Romain Rolland (citati da Mila). Schenker, di solito molto cauto, ammette che “non è fuori luogo intenderlo come una rappresentazione sonora di eroico combattimento e vittoria”. Le parole della strofa precedente ricevono un’illustrazione del loro contenuto (pag. 190). Ci pare comunque interessante il fatto che Schenker “osi” collegare l’interpretazione della musica al testo poetico! Wagner parla di gioiosa battaglia, il cui frutto deve essere la gioia. Romain Rolland invece sostiene “Fini de chanter, la bataille s’engage” e, mentre gli archi dipanano in spigolose terzine di crome il tema della gioia, i focosi contrappunti dei legni sferzano la marcia con i loro cadenzati rintocchi ritmici. Un corpo a corpo nella mischia sempre guidato dal battito di marcia ostinata sulla quarta croma d’ogni battuta (croma e semiminima col punto cioè il ritmo giambico che noi designiamo come ta-tàn ) (Mila, pag.191). A noi però sembra che l’interpretazione di questo passaggio come di una battaglia sia impropria. Anche nella eventuale interpretazione di una “battaglia interiore”! Innanzi tutto perché questa parte strumentale compare dopo che il tenore solo (Heldentenor) ha sollecitato gli umani (i fedeli del culto bacchico secondo noi) a correre come dei soli “verso” la vittoria, ed il coro, riprendendo l’esortazione, ha proclamato, nell’enfasi musicale, “il trionfo e la gloria dell’eroe verso la vittoria.” Far immaginare una guerra dopo la vittoria avrebbe poco senso. Ma ancora più determinante a questo proposito mi sembra il testo schillerino che sollecita gli umani non solo a correre cervo la vittoria, ma di essere “Froh” (lieti) e

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“Freudig” (gioiosi). Si tratta di atteggiamenti decisamente poco guerreschi. Collocare lo scenario nelle coordinate di una battaglia, costituirebbe un passo indietro, una regressione psicologica rispetto alla scoperta delle potenzialità espansive dell’umano sostenute dalla gioia. Quando abbiamo formulato l’ipotesi di un profondo legame tra il testo di Schiller e le Baccanti di Euripide forse non abbiamo sottolineato abbastanza il fatto che a differenza della antica tragedia non si ritrovano temi come “colpa”, “punizione”, “distruzione dell’avversario”, anzi addirittura non c’è un “avversario” da combattere ma solo l’esperienza di emarginazione in chi non cerca e non riesce a creare legami interpersonali. L’eroismo verso la vittoria è quello dell’autorealizzazione, che passa attraverso la consapevolezza della propria grandezza e che si completa nell’abbraccio universale con l’umanità.

Pertanto gli umani si collocano in una nuova dimensione immaginativa di tipo spaziale: nell’universo stellare. Quindi secondo noi è molto più importante sviluppare in questo contesto la metafora degli astri rotanti, che non riecheggiare ipotetiche battaglie peraltro mai citate nel testo poetico. Infatti nella lettura del gioco delle metafore sono “i soli” che si atteggiano ad eroi e non il contrario e non eroi che diventano soli: “wie ein Held zum Siegen” (come eroi alla vittoria). Inoltre gli eroi sono gioiosi, cioè portano in sé quella gioia le cui magie ristabiliscono i legami interrotti dalla Moda. Quindi il grande dinamismo musicale della fase successiva è molto vicino alla vorticosa danza di astri nel cielo.

Ma se analizziamo la partitura, a partire dalle descrizioni di Mila, vediamo che si tratta di “un pezzo orchestrale a due soggetti, o piuttosto un soggetto fondamentale e un controsoggetto o contrappunto. Il soggetto (…) in terzine inarrestabili di crome negli archi (prima i bassi, poi i violini); il controsoggetto o contrappunto è tratto dalla melodia principale in forma giambica (ta-tàn) in 6/8” (Mila pag.189 e 190). Se ascoltiamo questi due soggetti (come li

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chiama Mila) con un’attenzione non solo di tipo musicale, ma musical-motoria (danza), ci sembra sia molto facile riconoscere delle precise figure di movimento danzante. Quelle che Mila definisce “terzine inarrestabili degli archi”, nel corso dello sviluppo narrativo, proseguono, senza soluzione di continuità, con terzine caratterizzate da salti di quinta e di ottava (sia ascendenti che discendenti) che possono facilmente alludere, in coerenza con la nostra interpretazione, a dei passi di danza. Pertanto ci sembra di poter dire che se consideriamo tutte le terzine come un’unica figura musicale, (sia quelle iniziali che alludono ad una giga, che quelle dei salti di terza e quinta), prende forma una tarantella. L’altro soggetto o contrsoggetto ha un’evidente forma di marcia, ben marcata nella sua forma giambica. Oltre che di marcia la forma ta-tàn ripetuta sollecita immaginativamente un movimento di rotazione della danzatrice su se stessa, che nella danza va sotto il nome soutenue. La nostra interpretazione di questo passaggio strumentale è che Beethoven intenda continuare la metafora degli astri solari. Gli eroi dopo la vittoria si muoverebbero in un nuovo spazio e cioè in quello siderale. Uno spazio occupato da astri danzanti.

Lo spazio celeste è invaso da una ridda di figure sonore rotanti e danzanti. I due soggetti musicali sembrano generare movimenti di astri che, presenti in una dimensione celeste unitaria, sviluppino in modo indipendente figure di danza ben differenziate tra loro da un punto di vista motorio, ma che interagiscono intrecciandosi ed alternandosi nella cornice sinfonica. Anche nello spazio celeste lo schema motorio fa riferimento sia alla marcia (progredire in un percorso spirituale) che a danze “terrene di tipo popolare” (tarantelle). Ormai lo spazio concreto dell’antica Grecia è lontano, gli umani divenuti astri ruotano e percorrono dinamicamente l’universo stellare.

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Ricompaiono i sacerdoti immaginari: i fiati riportano l’azione sulla terra, nel contesto liturgico.

Gli umani sono stelle tra le stelle in un’affascinante e creativa danza sonora, che è però interrotta ad un certo punto da un categorico sonoro richiamo dei fiati. E’ un richiamo, un invito ad interrompere la festa! A nostro avviso a questo punto è ricomparso l’antico contesto liturgico-sacerdotale, una ripresa della cerimonia rituale in onore della Gioia figlia dell’Eliso (in onore di Bacco). Il gruppo dei fedeli, dell’universo stellare è ricondotto, dal richiamo sacerdotale espresso dai fiati, da una dimensione celeste al qui ed ora dell’esperienza liturgica.

8° passaggio: nuova esplosione della Freudenmelodie in cui convergono la danza bacchica e la marcia degli umani.

Ma nel nuovo contesto liturgico riesplode, all’unisono delle voci del coro, la Freudenmelodie con la ripresa del tema iniziale. Durante questa fase si ha una sorta di fusione tra la danza bacchica della Freudenmelodie ed un atteggiamento di marcia. In questo tripudio sonoro, a sottolineare l’intreccio tra marcia e danza, compare anche una nuova melodia non sempre facilmente identificabile, che riecheggia una sorta di danza scozzese o irlandese. Incidentalmente ricordiamo che nel catalogo tematico beethoveniano2 compaiono numerose “canzoni” irlandesi e scozzesi.

2 Catalogo tematico beethoveniano, a cura di G.Diamonti, ILTE, Torino 1968

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9° passaggio: l’abbraccio universale. Andante maestoso. Tempo 3/2 Ricompaiono quindi i sacerdoti (che si esprimerebbero attraverso il coro) con una chiara esortazione:

Seid umschlungen, milionen!Diesen Kuss der Ganzen Welt!Brueder, ueberm SternenzeltMuss ein lieber Vater wohnen.

Siate avvinti, o milioniQuesto bacio al mondo intero!Fratelli, sopra la volta stellata Deve abitare un caro padre.

L’introduzione ad una nuova situazione è affidata ai fiati e ricorda una liturgia e sembra avere la funzione di richiamare l’attenzione di fedeli immaginari. E’ come un invito a ritornare (mentalmente?! Soltanto?) sulla terra, nel contesto di una cerimonia religiosa. Dagli spazi del mondo stellare di umani-eroi e di astri rotanti, si ritorna alla dimensione terrena del qui e ora. Ma contemporaneamente, in questo contesto, l’orizzonte psicologico si è enormemente espanso. L’assemblea dei fedeli si è allargata. All’inizio c’erano degli “amici” (“non con questi toni…”) ora ci si rivolge a “milioni” di persone. Il punto nodale è costituito dal particolare abbraccio che può unire tra loro gli umani (avvinghiati, umschlungen) con un bacio a tutto il mondo (den ganzen Welt), che si completa con la consapevolezza che oltre la tenda delle stelle deve abitare un buon padre. Ecco dunque il teismo del ‘700 come sottolinea anche Mila. La frase “siate avvinti etc.” (seid umschlungen milionen) possiamo immaginarla come pronunciata

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dai coriferi in un ritrovato contesto liturgico. Iniziano i tenori e i bassi del coro pronunciandola in modo secco ed essenziale, come una esortazione. Immediatamente dopo essa è ripresa da tutte le componenti del coro, con una particolare orchestrazione (fiati, violini e viola) che la carica di vibrazioni liriche ed intimistiche, quasi a costituire una sorta di eco interiorizzata, una risonanza intima dell’enunciato sacerdotale. Qui dunque prende forma la nuova cerimonia religiosa caratterizzata da uno sviluppo del dialogo sacerdoti-fedeli, che, dopo l’esortazione all’abbraccio universale e dopo aver acceso la consapevolezza della presenza del buon padre oltre la tenda delle stelle, evoca nei fedeli una intensissima esperienza mistica. Ancora una volta la musica in questi ultimi passaggi non è più narrativa, ma costituisce lo spazio emozionale, l’involucro e il sostegno, o meglio il binario, in cui prende corpo una forma particolare di vissuto religioso dei fedeli della cerimonia immaginata (e per estensione di tutti gli ascoltatori presenti al concerto) che li collega col divino. E’ importante sottolineare che l’esortazione all’abbraccio universale e segnalazione del buon padre oltre le stelle è seguita da una ripresa della Freudenmelodie. Sul significato di queste riprese parleremo tre breve.

10° passaggio. Momento mistico. Alla ricerca del proprio creatore Adagio ma non troppo ma divoto

Vi prostrate, Milioni?Senti il tuo Creatore, o mondo?Cercalo sopra la volta stellataOltre le stelle egli deve abitare!

(Ihr stuerzt nieder, milionen?

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Ahnest du den Schoepfer,WeltSuch Ihn ueberm SternenzeltUeber Sternen muss er wohnen!)

Qui compare in modo esplicito una ben precisa concezione della divinità e del rapporto uomo-Dio. L’atteggiamento di Schiller-Beethoven è fortemente polemico nei confronti di una concezione religiosa in cui gli umani devono umiliarsi (Ihr struerzt nieder? vi prostrate?). Invece nei confronti del proprio creatore c’è una sorta di “sentire intuitivo” (ahnest du) che può spingere l’uomo a ricercarlo. Ma la ricerca deve indirizzarsi non nell’ambito del mondo terreno, bensì oltre la tenda delle stelle. La stessa indicazione di Beethoven (adagio ma non troppo, ma divoto) suggerisce una esperienza mistica. La musica beethoveniana contribuisce, ben al di là delle parole, ad evocare tale esperienza, attraverso un crescendo di tensione sonora con la ripetizione di note alte. E qui la musica produce una lentissima e prolungata tensione, una lunga, intensa, ineffabile esperienza mistica di ricerca del contatto con il creatore che abita oltre le stelle. Sembra che la musica “trascini” il fedele o meglio evochi in lui una progressiva tensione psicofisica, che lo spinge verso l’alto, “oltre le stelle”. I “sacerdoti” dicono: “Vi prostrate milioni”. In tedesco il “prostrate” è detto con due parole (stuerzt nieder) e la musica separa i due termini formando quasi uno scalino sonoro che può facilmente alludere al gesto, in due tempi, di genuflessione. Continuano i sacerdoti: “senti il tuo creatore (ahnest du den Schoepfer, Welt). Cercalo oltre la tenda delle stelle, oltre le stelle egli deve abitare…” La domanda è carica di pathos! E’ come se i sacerdoti dicessero ai fedeli: “Non prostratevi inutilmente. Se cerchi il tuo creatore, cercalo in alto, non nella terra, in un gesto di umiltà (humus di umiltà è la terra, rivolgersi verso la terra). Cercalo invece in alto oltre la tenda delle stelle.”

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Riepilogando (considerando le tappe in successione) possiamo dire a questo punto che l’orante ha preso coscienza

1. della presenza di “un caro padre oltre al tenda delle stelle”. Questa consapevolezza (“l’amore del caro padre”) si collega

2. all’abbraccio universale (“siate avvinti milioni”). Ma questo nuovo livello di consapevolezza non è alternativo, anzi si aggiunge alla

3. esaltazione gioiosa propria della danza bacchica che l’orante ha sperimentato nelle prime fasi di questo itinerario. E il vissuto della gioia costituisce 4. la base per lo sviluppo di un sentimento di esaltazione narcisistica positiva (“cherubino dinanzi a Dio” ; “astri solari rotanti nell’ universo”). Ad indicare che le diverse fasi sono parti di un percorso spirituale Beethoven assegna a questi ultimi momenti un andamento di marcia.

11° passaggio. L’intreccio dei temi in forma di doppia fuga: Freudenmelodie e “seid unschlungen milionen” (Siate avvinti milioni)Allegro energico, sempre ben marcato. Tempo 6/4.

Ciò che il fedele-immaginario e lo spettatore del concerto hanno sperimentato come “situazioni psicologiche” distinte e vissute in successione, viene ad essere unificato attraverso l’intreccio musicale dei temi della doppia fuga.

Qui, attraverso la musica (e relativo testo poetico), si costruisce una nuova esperienza in cui la danza bacchica si collega al tema dell’amore universale (milionen). Si tratta di unificare all’interno del vissuto del fedele due dimensioni psicologiche: la gioia come libera esaltazione emozionale (che trova forma nella danza

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bacchica) e lo slancio affettivo che spinge gli umani all’abbraccio universale (espresso dalla frase “siate avvinti o milioni”). A questo proposito noi riteniamo che la costruzione di questa esperienza musicale, con le ripetizioni tematiche e gli intrecci che la caratterizzano, non abbia una finalità di carattere esclusivamente emozional-estetico, ma sia anche parte di un percorso psicologico proprio di un atteggiamento di preghiera e di pietas. Nella preghiera per esempio è spesso presente il modulo della ripetizione. Basti pensare alla reiterazione della invocazione “Kyrie Eleison”, propria della liturgia cattolica! La ripetizione non solo dà maggior forza all’atto dell’invocazione, ma ha anche l’effetto di modificare in qualche modo lo stato di coscienza dell’orante. Ricordiamo a questo proposito l’uso delle ripetizioni di frasi nel contesto di esperienze di tipo Yoga. Queste riflessioni possono acquistare particolare pregnanza se proviamo ad interpretare la nona sinfonia non solo come esperienza musicale, né soltanto come una un’esperienza poetico-narrativa, ma come un vero e proprio percorso spirituale (psicologico), che produce nel suo itinerario, in chi vi partecipa, in rapporto alle esperienze suggerite e vissute, delle profonde modificazioni psicologiche che riguardano, non solo l’assunzione di stati di coscienza modificati (micro-esperienze mistiche), o lo sviluppo di un modo diverso di “sentire” nell’ambito di nuove dimensioni psicologiche, ma anche una nuova capacità di integrare esperienze emozionali molto diverse tra loro. L’esaltazione gioiosa e lo slancio d’amore universale possono essere per alcuni individui inconciliabili ed incompatibili tra loro o compatibili solo in momenti e contesti diversi! La reiterazione ed il loro intreccio nella forma di doppia fuga, dei due temi musicali, rappresentativi delle due diverse dimensioni psicologiche, contribuisce notevolmente all’acquisizione, nel fedele che partecipa al rito (orante immaginario ed ascoltatore del concerto), alla crescita di tale consapevolezza.

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Cerchiamo ora di seguire da vicino questo percorso spirituale. I contralti iniziano con “Seid umschlungen” (siate avvinti). Seguono (una battuta dopo) i soprani con la Feudenmelodie intercalata dalla esclamazione “Gioia” che si conclude con un “noi entriamo nel tuo Santuario” (Heiligtum). Il canto della parola santuario si estende per ben 8 battute. Lo stesso gioco è riproposto dai tenori (che iniziano con “seid umsschlungen” (siate avvinti) e proseguono con la Freudenmelodie) “e dai bassi che fanno il contrario. Il doppio fugato termina con la riproposizione delle domande (“vi prostrate?”; “percepisci il tuo creatore?” e si conclude con l’indicazione di cercarlo oltre la tende delle stelle fatta inizialmente da tenori e bassi cui si aggregano soprani e contralti.

Di estrema importanza è per noi il fatto che questa complessa materia tematica sia espressa in un tempo di 6/4 con l’indicazione di “allegro energico, sempre ben marcato” che fornisce al brano una evidente caratteristica di marcia. In tal modo, come abbiamo già accennato, le tematiche psicologiche si formano nel contesto di un percorso che è proprio di un’umanità in marcia nella direzione di una “crescita psicologica”. Essa si fonda su l’amore universale, la gioia, la ricerca di Dio e la coscienza della sua presenza. Questa sembra essere la base di una nuova religione, che dà sacralità all’esperienza. Infatti grande spazio ha la rappresentazione del Santuario (come concetto-contenitore del culto della gioia) e nel finale dei fugati si sollecita la ricerca di un buon padre oltre le stelle.

12° passaggio. S’invoca la Gioia e le sue magie che uniscono e rendono tutti gli uomini fratelli. Allegro ma non tanto. Tempo tagliato.

Freude, Tochter aus Elysium.

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Deine Zauber binden wiederWas die Mode streng geteilt Alle Menschen werden Brueder

Gioia, figlia dell’Eliso, le tue magie legano ciò che la moda ha separato. Tutti gli uomini diventano fratelli.

Qui l’invocazione alla Gioia, che riprende in parte la Freudenmelodie, preceduta da una breve, leggera, quasi danzante, introduzione di violini e viole, seguiti dai fiati, è pronunciata in successione dai solisti (tenore e basso seguiti da soprano e contralto) e si sofferma essenzialmente sulle sue virtù magiche che uniscono ciò che la moda ha separato. All’enunciazione dei solisti fa seguito il coro, che sottolinea essenzialmente il fatto che “tutti gli uomini diventano fratelli”. Quest’ultimo è un concetto su cui Beethoven si sofferma a lungo riproponendolo all’unisono (del coro e poco dopo dei solisti), creando in tal modo l’effetto di un grande afflato universale. Le ultime battute all’unisono del coro sostituiscono “l’allegro“ precedente, con “poco adagio” ad ampliare il sentimento di afflato universale.

13° passaggio (poco adagio)

wo dein sanfter Fluegel weilt (dove si libra la tua dolce ala)

Da questa “fusione umana” emergono le voci dei solisti, che ripropongono con grande ed articolata ampiezza il gesto del librarsi dell’ala della gioia. E’ ormai non più scintilla ma ala, la ragione della fratellanza. La musica sembra essere analogica con l’articolato movimento del distendersi dell’ala. Incidentalmente

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ricordiamo che la figura dell’ala è presente anche nella tragedia euripidea delle Baccanti.

14° passaggio. Poco allegro, stringendo il tempo, sempre più allegro (tempo tagliato).

Seid umschlungen milionen!Dieser Kuss der ganzen WeltBrueder,uebberm SternenzeltMuss ein lieber Vater wohnenSeid umschlungenDiesen Kuss der ganzen Welt (ripetuto più volte)

Freude schoener Goettyterfunken (ripetuto)Tochter aus ElysiumFreude schoener GoetterfunkenTochter aus Elysium.

Siate avvinti, milioni!Questo bacio a tutto il mondoFratelli, oltre la tenda delle stelleDeve abitare un buon padreSiate avvintiQuesto bacio a tutto il mondo (ripetuto più volte)

Gioia bella scintilla degli dei (ripetuto)Figlia dell’ElisoGioia bella scintilla degli dei Figlia dell’Eliso

Abbiamo presentato le frasi del testo nella loro successione perché, a nostro avviso, il collage effettuato da Beethoven ha

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ancora una volta un pregnante significato nel contesto liturgico-esperienziale. Avviandosi alla conclusione il nostro compositore si è soffermato su alcuni temi che intreccia tra loro: l’abbraccio universale e la consapevolezza della esistenza del “padre” oltre le stelle. La consapevolezza del divino, ultra-umano, non può che collegarsi con l’afflato universale.

Violini seguiti da fiati, fino all’esplosione di timpani, triangoli cinelli e gran tamburo che in prestissimo (132 di frequenza metronomica) esplode nell’unisono dei solisti “siate avvinti milioni, questo bacio a tutto il mondo; e tutto il mondo”. E ancora l’amore universale s’intreccia con la consapevolezza della presenza di Dio oltre la tenda delle stelle. “Fratelli, oltre la tenda celeste deve abitare un caro padre” (ripetuto). Seguito ancora da “siate avvinti; questo bacio a tutto il mondo” (ripetuto) più volte e poi ripetuto con grande ampio respiro melodico. Ci sembra qui sostanziale rilevare che le ripetizioni e la scelta delle frasi non abbiano solo una funzione puramente estetica, utilizzando elementi narrativi che appaiono e scompaiono a sorpresa, o disegnando nuove eleganti trame di canoni o di allusioni a fugati. Ci sembra invece che l’intenzione di Beethoven realizzi una particolare esperienza protomentale. Con questo termine su cui non ci dilunghiamo, ma che è stato spiegato altrove (vedi Ruggieri, 1997) ci riferiamo ad un livello di esperienza di tipo psicofisico, in cui si esperimenta la nascita di ciò che chiamiamo “mentale”, una sorta di conoscenza corporea precognitiva. Ma pur sempre una forma di conoscenza, se non addirittura l’impalcatura strutturale di ogni forma di conoscenza. Si tratta di una gestualità “interiore” (o considerata tale, comunque vissuta come tale) che genera significati ineffabili, cioè che non sempre possono essere espressi con parole. Ma qui ci sembra che le parole schilleriane usate da Beethoven spieghino proprio il protomentale del gesto sonoro musicale. La gioia è una scintilla divina che accende fuochi qua e là e dal suo accendere apparentemente episodico e ripetuto genera la riconciliazione tra gli umani (binden wieder); fratellanza… La

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musica è all’unisono. In questa condizione mentale i sacerdoti esortano i milioni (l’umanità tutta) ad un reciproco abbraccio (seid schlungen) ed un bacio a tutto il mondo. Quel “tutto” (ganzen welt) è il grande respiro universale In questo grande respiro si libra la dolce ala della gioia e si lega alla consapevolezza della presenza del buon padre oltre la tenda delle stelle! Si costruisce qui una dialettica che lega due diverse dimensioni psicologiche e stati di coscienza tra il vissuto individuale di eccitazione “orgiastica” acceso dalla scintilla della gioia ed il sentimento di espansione emotiva, proprio di un abbraccio universale che crea un’ unione con “tutto il mondo” (tutti gli uomini diventano fratelli dove si libra la tua dolce ala). I due piani nel finale s’intrecciano significativamente: subito dopo aver detto “a tutto il mondo” per un’ennesima volta, i solisti richiamano la gioia (Freude; Freude) bella scintilla divina, bella scintilla divina (figlia dell’Eliso) … questo richiamo termina con la “scintilla degli Dei” nell’esplosione orgiastica finale.

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PARTE IIINTRODUZIONE ALLA PSICOFISIOLOGIA

DELLE TEMATICHE ESPRESSIVE (Anche in rapporto alla ideologia estetica e pedagogia dell’antica Grecia espresse da Platone)

ANALISI DEI PROCESI PSICOFISIOLOGICI AI FINI DELLA LORO APPLICAZIONE NELLA FORMAZIONE DI ATTORI, MUSICISTI E DANZATORI.

Questa parte del nostro lavoro, anche se con alcune ripetizioni e ridondanze, deve essere letta sempre come uno sviluppo delle riflessioni esposte nella prima parte.

Qui partiremo dall’analisi dei principali aspetti del lavoro psicofisiologico da noi eseguito in occasione della messa in scena della coreografia (che svilupperemo nella parte III). La riflessione teorica è fondamentale per il nostro tipo di lavoro, che si fonda su un’analisi psicofisiologica dell’esperienza estetica e ne ripropone l’applicazione in ambito artistico-espressivo. Alcune riflessioni, in particolare quelle che si riferiscono al ritmo ed alla produzione della voce, sono di particolare interesse, anche pratico, perché il lavoro sulla nona sinfonia, seguendo l’ipotesi che il progetto beethoveniano proponga una liturgia antica bacchica, ha avuto per una gran parte come riferimento “Le Baccanti” di Euripide, di cui si è curata contemporaneamente la messa in scena.

La moderna psicofisiologia ha la capacità di collegare la “meccanica” corporea con le dimensioni immaginative-emozionali e con la struttura dell’Io. In tal modo i movimenti ed i gesti, acquistano “significato” diventando così eventi psicologici.

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Si tratta di significati che si sviluppano sia in una dimensione interpersonale e relazionale, che in una dimensione intraindividuale funzionale alla struttura dell’Io.

Poiché dalla nostra analisi della nona sinfonia emerge con grande evidenza la presenza di una “festa a Bacco” (citazione beethoveniana), che introduce antichi codici linguistici proprii di un’altra sensibilità e di un’altra cultura, senza dichiarate ed apparenti fratture formali, nell’universo linguistico-espressivo a noi più vicino, cercheremo di analizzare con gli occhi di uno psicofisiologo moderno, alla luce di recenti concezioni scientifiche, l’ideologia estetica dell’antica Grecia. Essa è stata esposta in modo molto puntuale e concreto da diversi autori antichi, tra cui, in posizione di primo piano, Platone. Tale ideologia ha progressivamente trasformato istanze emozional-irrazionali e mistiche in culto ed il culto in esperienze artistiche che hanno assunto la forma di “rappresentazioni” di alta rilevanza sociale (teatro, danza, poesia recitata, musica etc.). L’ideologia estetica ha svolto anche un ruolo fondamentale nella pedagogia (Platone) intervenendo anche sui meccanismi di produzione delle forme del canto, della danza, del teatro esplorando anche l’auspicato processo dell’integrazione delle diverse forme espressive. La psicofisiologia moderna, come abbiamo detto si confronta con le descrizioni antiche.

Il vissuto della gioia, che come abbiamo detto può essere considerato la traduzione moderna, nei limiti di un’esperienza estetica, dell’invasamento bacchico, emerge nel contesto di particolari dinamiche corporee (vedi dopo) ed è caratterizzata da una espansione del soggetto che rompe i diversi piani dello spazio.

La nostra esperienza pedagogica e psicofisiologica clinica ha messo in luce la difficoltà che hanno molti soggetti a vivere in piena libertà l’esperienza dell’esaltazione gioiosa, suggerita dal testo e dalla musica di Beethoven.

L’esperienza bacchica, come si evince dal testo euripideo, è un’esperienza di libertà vissuta dai fedeli anche come libertà

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psicofisica. Noi sappiamo che la gestione psicofisica della libertà si sviluppa nel contesto della dinamica libertà-controllo (anch’esso psicofisico). Un controlo rigido ed esteso blocca ogni libertà psicofisica. Il controllo, da un punto di vista psicofisiologico compare in diversi contesti e situazioni esistenti, dove assume diversi significati funzionali. La psicologia ha evidenziato alcune forme specifiche di controllo che il soggetto mette in atto come difesa della propria integrità psicofisica. Pertanto con l’intervento pedagogico psicofisiologico s’intende modificare quei meccanismi di difesa che, troppo rigidi, impediscono l’esperienza di libertà. Gran parte dei meccanismi di difesa hanno la funzione di inibire emozioni negative o emozioni positive troppo intense che potrebbero alterare la stabilità psicofisica del soggetto. I nostri studi hanno evidenziato la struttura psico-fisica dei meccanismi di difesa, che agisce attraverso un ipercontrollo del sistema muscolare. Poiché abbiamo messo in evidenza il ruolo del sistema muscolare come gioco di tensioni dinamiche nella genesi dei vissuti soggettivi delle emozioni (vedi Ruggieri, 1988), abbiamo anche messo a fuoco il ruolo della dinamica muscolare nel controllo inibitorio delle medesime.

I meccanismi inibitori consistono in un elevato incremento di tensione muscolare (fino alla rigidità) o in contrazioni croniche (contratture) che impediscono al muscolo contratto di svolgere altre attività motorie quali per esempio la libera produzione di gesti (distrettuali o di tutto il corpo) o del gioco di tensioni toniche, che sono una parte fondamentale nella genesi dei vissuti emozionali.

Tali meccanismi inibitori muscolari oltre che una azione fasica di breve durata possono svolgere una azione cronica nell’ambito del controllo delle emozioni e di gesti che il soggetto percepisce come non autorizzati. Pertanto in questi casi, tutt’altro che rari, l’attività muscolare inibitoria (costituita essenzialmente da contratture, cioè da contrazioni croniche) finisce col diventare una componente strutturale stabilmente presente nel contesto della

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postura e delle dinamiche posturali (equilibrio, controllo del peso etc.).

Tali contratture muscolari, nate per inibire alcune esperienze emozionali, esercitano di fatto un’azione inibitoria su diversi distretti corporei o sul corpo nella sua totalità, che può ridurre consistentemente la libertà motoria ed espressiva del soggetto. La riabilitazione psicofisiologica integrata a questo punto interviene a modificare tali meccanismi inibitori, nell’ambito di una ristrutturazione costruttiva dell’Io, che acquista una nuova libertà nella gestione della emozioni e delle relazioni col mondo. Tale lavoro preliminare è funzionale alla capacità di acquisire nuovi schemi postural-motori, che ampliano notevolmente l’orizzonte espressivo e comunicativo dell’Io stesso.

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La psicofisiologia tra contenuto e forma

L’analisi psicofisiologica non solo ci consente di entrare nei meccanismi della creatività ma anche di cogliere alla radice l’interazione profonda tra contenuto e forma. La distinzione effettuata dai linguisti tra significante e significato, talvolta utile in alcuni contesti didattici, è un esempio del diffuso orientamento che frammenta la dialettica dei processi morfogenetici. Altrove (Ruggieri, 1997) abbiamo scritto, nello spirito di Schiller, che compito dell’arte è quello di “dare forma”, cioè di creare significato attraverso il significante! L’esperienza dell’arte, nelle sue coordinate protomentali, è nel vissuto emozionale generato dalla forma del significante. Forma e non formalismo! Il contenuto è una componente strutturale della forma, della fenomenologia comunicativa, e non può essere separato da essa. O meglio può essere separato solo in contesti didattici che si prefiggono analisi esplicative, che possono essere utili introduzioni o preparazioni all’esperienza dell’arte, ma non sono “l’esperienza estetica”.

L’esperienza estetica ha il suo centro nel rapporto forma-vissuto emozionale. Come e quando la forma genera vissuti emozionali?

Cercheremo di rispondere in concreto considerando come esempio l’approccio al tema della “Gioia”, che è centrale nel finale della nona sinfonia. L’evento-gioia compare in diversi contesti. Può essere semplicemente evocata come “scintilla degli dei, figlia dell’Eliso” oppure può essere un punto di riferimento verso cui i fedeli si rivolgono (“noi entriamo nel tuo santuario”). In questo caso la Gioia è oggetto di “invocazione” quindi entra a far parte di

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una diversa dimensione immaginativa, quale quella in cui è presente un desiderio di Gioia. Ma il poeta pone un’ulteriore specificazione perchè i fedeli entrano nel santuario della Gioia “ebbri di fuoco”. Quindi il desiderio di Gioia si accompagna ad un sentimento di eccitazione interiore. Per affrontare correttamente questa tematica, nel contesto di una concreta drammatizzazione teatrale, allarghiamo il raggio delle nostre riflessioni esplorando il mondo della percezione, dell’immaginazione e delle emozioni in rapporto all’espressività e, naturalmente, anche in rapporto alla struttura dell’Io.

Analisi denotativa e connotativa dell’evento-stimolo

Partiamo dall’analisi dello stimolo. A questo proposito ricordiamo che i linguisti distinguono tra la decodificazione denotativa e connotativa dell’evento-stimolo: la prima si riferisce al “contenuto” d’informazione la seconda al “vissuto emozionale” evocato dall’evento stesso. Attraverso questa distinzione è possibile analizzare alcuni aspetti specifici dell’esperienza dell’arte.

Per far questo è necessario individuare i meccanismi psico-fisiologici che sono alla base della decodificazione denotativa e di quella connotativa. In termini molto generali possiamo dire che sono interessati due diversi sistemi psicofisiologici. Per rispondere adeguatamente a questo quesito esaminiamo innanzi tutto gli aspetti denotativi (contenuto dell’informazione) dei processi percettivi ed immaginativi. Ricordiamo incidentalmente che già a livello denotativo sono attivati due meccanismi uno specifico strettamente legato al contenuto modale dell’informazione ed uno aspecifico legato al livello di eccitazione (arousal-activation).

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I rapporti tra le rappresentazioni mentali, immaginative e percettive, sono il perno dinamico dell’accadere psichico. Identità strutturale fisiologica di immaginazione e percezione.

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La nostra analisi ha messo in evidenza come la dinamica psicofisiologica dell’accadere psichico abbia il suo centro nelle relazioni che si instaurano tra le rappresentazioni mentali. Nostre ricerche hanno documentato che l’attività sensorial-percettiva e quella immaginativa hanno componenti strutturali fisiologiche comuni per il soggetto che percepisce e/o immagina, sia a livello cerebrale (sede delle rappresentazioni) che a livello della periferia corporea, dove i recettori (vista, udito, tatto, propriocezione cioè attività muscolare tonica e di movimento etc.), costituiscono la base di partenza di informazioni sensoriali che, nel caso della percezione, sono il prodotto di trasduzioni nel linguaggio bio-elettrico di eventi esterni, che agiscono sui recettori e nella immaginazione sono auto-elicitate dal sistema nervoso medesimo. In questo ultimo caso sarebbe il sistema nervoso centrale a stimolare i recettori periferici che in seguito, attraverso le vie nervose afferenti, portano l’informazione di ritorno alla corteccia cerebrale (feed-back). Quindi immaginazione e percezione hanno in comune la rappresentazione cerebrale e l’attività dei recettori periferici! Le rappresentazioni mentali (senza mai perdere la connessione funzionale con i recettori che ne determinano l’esistenza), a loro volta, entrano a far parte di diversi contesti cerebrali, contribuendo a creare nuove funzioni psicofisiologiche specifiche quali per esempio il linguaggio verbale, la programmazione ed il controllo del comportamento, i processi di “sintesi astraente” (Ruggieri, 1997) e, non ultimi per importanza, i meccanismi di gerarchizzazione e di inibizione delle rappresentazioni stesse e dei comportamenti corporei ad esse collegati. Si comprende come le “rappresentazioni” entrino a far parte strutturalmente dei processi di memoria e di rimozione gestiti dall’Io, che ne regola la loro comparsa o la loro temporanea o definitiva scomparsa dalla dimensione della “visibilità”, o

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meglio della esperienziabilità soggettiva. Così le rappresentazioni diventano per il soggetto, coscienti (per es. visibili) o scompaiono dal suo campo di coscienza. In quest’ultimo caso alcune rappresentazioni divenute “non visibili” (rimosse dal campo di coscienza e riposte nel deposito della memoria) manterrebbero pur sempre la loro presenza a livello corporeo-periferico. Si tratterebbe di una sorta di apparente decapitazione del processo immaginativo che avrebbe perso l’evidenza (per es. la visibilità) della rappresentazione ma ne conserverebbe l’impalcatura fisiologica sensorial-corporea. Ma il ruolo del corpo nell’immaginazione non interesserebbe solo i recettori sensoriali ma anche altre strutture, quali gli atteggiamenti posturali che costituiscono una base sensoriale integrata e, secondo la nostra modellistica, avrebbero una funzione rilevante nell’organizzazione dell’esperienza spaziale.

Immaginazione e spazio

L’Io del soggetto organizzerebbe l’universo delle rappresentazioni (percettive ed immaginative) operando una sorta di gerarchizzazione regolando il rapporto visibilità soggettiva- inibizione. Alcune rappresentazioni sarebbero stabili ed avrebbero una funzione portante nell’ambito della struttura psicofisiologica dell’Io. Le rappresentazioni “rimosse” potrebbero riemergere in diversi contesti percettivi ed immaginativi. Alcune rappresentazioni nel processo di gerarchizzazione perdono, solo apparentemente, la loro evidenza perché oscurate o coperte da altre aventi maggior forza e/o attualità espressiva. Un altro rilievo fondamentale che emerge dalle nostre ricerche è che tutte le rappresentazioni, sia quelle percettive che immaginative con le loro componenti cerebrali e periferiche (recettori sensoriali), hanno una collocazione spaziale in rapporto al soggetto che le “osserva”.

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Teoria psicofisiologica della costruzione dell’esperienza spaziale. Rapporti con l’organizzazione posturale

L’esperienza spaziale sarebbe un prodotto attivo psicofisico dell’Io. L’Io, attraverso particolari processi psicofisiologici (astrazione) trasformerebbe le informazioni sensoriali visive e tattili-muscolari elementari, generando sia “lo spazio visivo” che quello “corporeo” (il corpo percepito come una unità sarebbe una fondamentale esperienza spaziale integrata). I due spazi sarebbero comunque automaticamente collegati tra loro a costituire un’unica esperienza spaziale. E’ importante dunque considerare il ruolo della corporeità nell’organizzazione dell’esperienza spaziale dove assumerebbero una funzione centrale i concreti atteggiamenti postural-spaziali assunti dal soggetto (abituali o occasionali) che definiscono la forma specifica della relazione corpo-mondo (stabile di base e occasionale). Da nostre ricerche sperimentali emerge che le immagini mentali hanno una loro collocazione spaziale: il soggetto “osserva” le immagini mentali da un determinato punto di vista legato, come del resto anche nella percezione cosiddetta reale, alla posizione degli occhi e del capo nel contesto di una postura. Anche la rappresentazione mentale sarebbe strettamente collegata agli atteggiamenti visuo-pstural-spaziali nel cui contesto si colloca la rappresentazione (per un approfondimento di questo discorso e sulle sue basi cliniche e sperimentali vedi Ruggieri, 2001). Quindi possiamo immaginare che nel magazzino della memoria gli eventi rappresentazionali siano conservati non in modo isolato ma come componenti, anche se insostituibili, di moduli-schema in cui sarebbero presenti contemporaneamente eventi cerebrali, sensorial periferici, e postural-spaziali. Possiamo quindi estendere a questi moduli i

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concetti di gerarchizzazione e di regolamentazione della loro “espressività fenomenologica” operata dall’Io.

Il bagaglio di rappresentazioni di cui un soggetto dispone è dunque costituito da un insieme di tanti moduli, in reciproca relazione tra loro, di cui alcuni ben presenti nel campo di coscienza, altri collocati sullo sfondo ed altri ancora rimossi ma collocati in memoria. Possiamo dire che quando un’immagine mentale emerge dal temporaneo oblio in cui è temporaneamente immersa, coinvolge, nel suo apparire, anche il corrispondente atteggiamento posturale. Da ciò deriva anche che ogni atteggiamento posturale è il corrispondente fenomenologico di un’autorappresentazione immaginativa e programmatica, costruita a sua volta sulla base delle afferenze corporee e costituisce il punto focale della relazione soggetto-ambiente definendo il modo concreto di essere al mondo del soggetto. Questo discorso acquista particolare pregnanza se ci riferiamo a quel capitolo specifico delle rappresentazioni immaginative costituito dall’autorappresentazione che è la componente fondamentale dell’identità dell’Io e delle sub-identità (Ruggieri, 2001).

Un’analisi delle dinamiche posturali della relazione postura-movimento-immaginazione sarà effettuata più avanti dopo aver accennato ad alcune suggestioni proprie dell’estetica di Platone che possiamo accogliere nel contesto di un approccio psicofisiologico.

A questo punto spostiamo il discorso sulle componenti connotative (microemozionali) della decodificazione che si estende, dopo quanto detto anche alla pura dimensione immaginativa per poi passare allo studio della relazione tra espressività e feeling.

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Nella postura si legano espressività e sentire emozionale (feeling). Cenni sul sentimento e sul piacere.

In ogni rappresentazione mentale, è sempre presente una componente microemozionale (connotazione). Essa ha, secondo la nostra modellistica, la sua radice fisiologica nelle variazione di tono del sistema muscolare e variazioni del sistema di termoregolazione.

L’esperienza connotativa dei colori caldi e freddi

Per es. abbiamo dimostrato sperimentalmente (Ruggieri e Petruzziello, 1989) che per definire connotativamente uno stimolo cromatico come caldo il soggetto modificherebbe, anche se in modo appena accennato, la temperatura corporea: lo stimolo visivo stimolerebbe i centri della termoregolazione (ipotalamo) che modificherebbero la temperatura corporea creando un leggero innalzamento. Il lieve ma sistematico innalzamento della temperatura corporea, misurata alla periferia del corpo, a sua volta costituirebbe un segnale ad effetto retroattivo (feed-back). Il sistema nervoso centrale, raccogliendo questo segnale di ritorno (lieve incremento di calore) lo collegherebbe alla informazione denotativa (frequenza delle onde elettromagnetiche che caratterizza il colore). Il sentimento di calore rappresenta dunque la componente connotativa del colore.

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L’attività muscolare tonica genera il sentire

Un’analisi recente dell’attività del sistema muscolare ha evidenziato, oltre alle ben note funzioni contrattili che producono il movimento ed a quelle tonico-statiche importanti per l’equilibrio posturale, anche altre di non minore rilevanza fisiologica. Tra queste ha un ruolo fondamentale la funzione muscolare legata alle variazioni di tono (tensione) che sono alla base del “sentire” soggettivo. Si tratta di una fondamentale e specifica funzione fisiologica: così come per es. l’occhio è responsabile della percezione visiva, il muscolo è il generatore della percezione somestesica integrata del “sentire”. Il Sentire è una componente fondamentale di ogni esperienza psicofisica sia come componente connotativa, che come elemento caratterizzante le diverse emozioni (collegandosi ad altri processi neurovegetativi).

Di altre due funzioni muscolari 1. contributo alla costruzione dell’auto rappresentazione (Immagine Corporea) e, strettamente collegata con la prima, 2. funzione di connessione tra distretti corporei, di cui parleremo in seguito.

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Dunque il meccanismo maggiormente utilizzato per la componente connotativa e nelle emozioni è costituito dalle variazioni di tono muscolare, sia nella direzione dell’aumento (come per es. nella rabbia), che in quella della riduzione, che contribuiscono a produrre il vissuto soggettivo di tensione-rilassamento. La dinamica delle tensioni muscolari (prodotta sia da variazioni del tono di base che da contrazioni isometriche) genera, attraverso le informazioni di ritorno che dai muscoli raggiungono il sistema nervoso centrale, il sentire soggettivo ed il sentimento che caratterizza un emozione (il feeling degli anglosassoni ed il fuehlen e l’empfinden dei tedeschi). In italiano il termine sentimento ha la stessa radice di sensazione. Il sentimento è dunque una particolare modalità di organizzazione dell’attività sensoriale tattile-muscolare. Esso sarebbe generato dalla sintesi unificante dell’attività tonico-tattile. Il sentimento si differenzierebbe dalla sensazione-percezione perché quest’ultima è alla base del riconoscimento di un evento sensoriale circoscritto ben individuato spazio-temporalmente. Mentre il sentimento è il prodotto di una fusione percettiva di informazioni corporee tattili-muscolari (cenestesiche) che entrano a far parte della dimensione piacere-dolore. Il sentire (processo sentimentale) fornisce il significato esistenzial-esperienziale ad eventi che altrimenti sarebbero astrattamente cognitivi o di pura meccanica motoria. In altri termini, come abbiamo detto, uno stimolo “accende” funzionalmente due vie: quella denotativa e quella connotativa. Per quanto riguarda la seconda, il sistema nervoso centrale genererebbe, attraverso vie nervose efferenti, un’attività periferica muscolare, che successivamente costituirebbe la base d’informazione di ritorno del sentire psicologico. Il sentire personalizza l’attività mentale aggiungendo il significato di vissuto, con tutte le implicazioni ad esso connesso, al puro significato percettivo-cognitivo. Il

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sentire non compare soltanto in rapporto a rappresentazioni autoindotte o prodotte da stimoli esterni, ma anche nel contesto di attività comportamentali (output).

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Per il nostro discorso è importante ricordare che tra le informazioni sensoriali hanno un ruolo determinante quelle che provengono da quella attività muscolare che costituisce l’asse portante di performance espressive: parola, produzione di musica, danza etc. Il tema che qui si solleva è quello del “sentire” sempre sostenuto da un gioco di variazioni di tensione nel contesto di pattern motori espressivi. Questi accenni sulla fisiologia del sentimento ci consentono di affrontare, in modo più preciso ed articolato, un quesito che è centrale in tutte le forme di esperienze estetiche. Ci chiediamo infatti quale sia la base psico-fisiologica che differenzia una rappresentazione formalmente perfetta, ma arida e meccanica, da una rappresentazione in cui sono presenti, in chi la genera ed in chi l’osserva, significativi vissuti emozionali. L’elemento distintivo è costituito dalla presenza di variazioni toniche nel contesto di un programma motorio espressivo. Per comprendere come il gioco delle variazioni di tono muscolare entri a far pare di diversi vissuti connotativi e sentimentali facciamo l’esempio del piacere sessuale. In un precedente lavoro (Ruggieri, 1987) abbiamo messo a fuoco la presenza nell’ambito del comportamento sessuale di due diverse forme di piacere. Uno legato ad un incremento di tensione muscolare (che si accompagna ad altre variazioni vegetative generali e del distretto genitale) caratteristico delle fasi che precedono l’orgasmo ed uno legato alla riduzione della tensione come si verifica nella fase orgastica. Abbiamo citato come esempio il comportamento sessuale, ma il gioco delle tensioni assume forme specifiche in numerosi comportamenti e contesti. Esso costituisce pur sempre la base nucleare dei vissuti soggettivi di piacere-dispiacere, che assumono forme differenziate a seconda dei contesti immaginativi ed emozional-comportamentali in cui tale gioco prende forma. Vedremo anche in seguito quali meccanismi, anch’essi relati a diversi contesti psicofisiologici (es.

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controllo delle emozioni, conflitti di schemi etc.), possono inibire o frenare il vissuto di piacere o creare esperienze di dispiacere.

Come si produce un aumento di tensione muscolare. Il ruolo del contesto muscolare

La differenza tra un gesto di un attore percepito, dall’osservatore e dall’esecutore, come freddo e meccanico ed un gesto emotivamente significativo è tutta nella presenza delle variazioni di tono muscolare che sono alla base dei vissuti di tensione psicologica. Come si può aumentare la tensione? Innanzi tutto attraverso un gioco di contrapposizioni funzionali tra muscoli agonisti ed antagonisti. Per es. come si può aumentare la tensione nel muscolo bicipite? Contraendo simultaneamente il suo antagonista, il tricipite. Immaginiamo che un soggetto inizi a contrarre il bicipite per compiere l’atto di flettere l’avambraccio sul braccio. Se la contrazione isotonica del bicipite (contrazione muscolare caratterizzata da accorciamento del muscolo senza variazioni di tensione) avviene senza ostacoli, si avrà un fluido movimento di flessione. Ma se il soggetto contrae simultaneamente il tricipite (muscolo posto posteriormente che produce l’opposta azione di estensione dell’avambraccio sul braccio), la flessione del braccio è ostacolata e quindi rallentata o completamente inibita se la forza di contrazione dell’antagonista(tricipite) è pari a quella dell’agonista (bicipite). Il risultato è quello di un aumento di tono muscolare del bicipite. In tal caso si parla di contrazione isometrica, cioè di una contrazione senza modificazioni di lunghezza ma con aumento di tensione.

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L’aumento di tensione muscolare che compare nel gioco di contrapposizioni funzionali antagoniste di schemi motori, genera nel soggetto che lo produce un vissuto subiettivo di tensione psicologica. La modalità descritta per la flessione dell’avambraccio può essere applicata a tutti i distretti corporei: ogni comportamento che impegna alcuni muscoli può essere antagonizzato da altri schemi comportamentali, che con altri muscoli si oppongono alla sua realizzazione creando resistenza al movimento e vissuto di tensione. Più in generale si comicia a capire che gruppi di muscoli possono avere un effetto di freno sull’attività di altri gruppi muscoli. Questo concetto è estensibile a tutti i muscoli del corpo: esso ci consente di cogliere il fenomeno della potenziale interdipendenza che lega tra loro, direttamente o indirettamente, tutti i muscoli del corpo. Questa dinamica interattiva dei muscoli è presente, non soltanto in rapporto ad un movimento (per es. flessione dell’avambraccio), ma anche in condizione “riposo” (stand-by), intervenendo sul tono muscolare di base di tutti i muscoli del corpo con un gioco di minime reciproche trazioni ed allentamenti.

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Costruzione dell’Unità dell’Io

Pertanto i muscoli sono sollecitati a produrre variazioni di tono in condizione di base, indipendentemente da un eventuale programma e realizzazione di movimento. Tali variazioni sono percepite in modo automatico dal soggetto e in virtù dei segnali di tono muscolare costituiscono la base del vissuto di “presenza” non solo dei muscoli stessi, ma anche grazie al loro gioco interattivo, contribuiscono a costruire una “presenza integrata” che è alla base del vissuto di unità corporea (componente fondamentale della struttura dell’Io e del Sé).

Ripetiamo dunque che i meccanismi descritti costruiscono un’unità di esperienza corporea legata alle oscillazioni delle tensioni muscolari di base prodotte da una rete muscolare interattiva. (Come più volte diremo, questo meccanismo è alla base dell’esperienza di “esserci”). Gli esempi da noi addotti hanno sottolineato prevalentemente gli incrementi di tensione, ma come vedremo sono altrettanto significative le riduzioni di tensione (rilasciamento), specie se fanno parte di pattern di tensione-rilasciamento. Se l’aumento di tensione ha la funzione di ipersegnalare la presenza, il rilasciamento oltre che indicare una ridotta tensione può generare un vissuto di cedimento, perdita o abbandono.

Le implicazioni di questo inquadramento, sia in ambito clinico e, ciò che qui soprattutto ci interressa, in ambito artistico-espressivo, sono evidenti specialmente per i risvolti “pedagogico-trasformativi” che possono incidere sull’esperienza psicofisica corporea (e della struttura dell’Io), modulando i vissuti soggettivi di tensione attraverso il lavoro sul tono di base dei muscoli che caratterizzano degli atteggiamenti posturali.

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L’intervento pedagogico e trasformativo, condotto alla luce di categorie psicofisiologiche generali, deve essere assolutamente individualizzato.

ORGANIZZAZIONE DELLE TENSIONI CORPOREE POSTURALI IN FUNZIONE DELL’ UNITA’ DELL’IO E DELLA GESTIONE DEL PESO. SUO RUOLO NELL’ESPERIENZA ESPRESSIVA (danza, teatro etc)

In questo lavoro dobbiamo tener conto che l’Io che ci appare come una struttura psicofisica unitaria, ben articolata nelle sue parti e funzioni, è il risultato di un continuo processo d’integrazione orientata verso una stabilità flessibile, sia sul piano morfologico obiettivo che in quello del vissuto subiettivo. In questo processo bisogna tener conto della gestione della dinamica del peso, in rapporto all’equilibrio posturale ed alla produzione di gesti e movimenti.

La gestione ottimale del peso presuppone la presenza di una struttura corporea (per es. i piedi), che rappresenta la base di appoggio attraverso cui il peso si scarica su una struttura di sostegno.

In questa operazione si produce un gioco di tensioni muscolari: da una parte l’azione delle tensioni muscolari antigravitarie che si oppongono alla forza peso utilizzate per il mantenimento della postura eretta e dall’altra il rilasciamento delle tensioni medesime per consentire la scarica del peso. L’alternanza di tensione antigravitaria-rilasciamento è alla base del rimbalzo tonico (Ruggieri, 2001) (vedi dopo). Per il processo d’integrazione che è alla base dell’esperienza di unità corporea, abbiamo individuato due fenomeni di organizzazione fisiologica. Al primo abbiamo

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dato il nome di “integrazione e sostegno propriocettivo”. A questo proposito una nostra ricerca ha documentato (Ruggieri, Thellung, Tocci in press) che alcuni distretti corporei costituiscono un’area di confluenza unificante delle tensioni muscolari provenienti da diversi distretti corporei ed hanno un ruolo determinante come area di sostegno nella postura eretta. Se un soggetto immagina di ridurre o di sciogliere le tensioni di questo distretto, avverte una perdita di equilibrio con una tendenza a cadere. Le aree d’integrazione e sostegno propriocettivo, presenti in tutti i soggetti, mostrano notevoli differenze individuali quanto a localizzazione corporea. Un atro fenomeno che secondo noi è importate nel determinare un’esperienza d’integrazione è costituito dal Body Focus Perceptual Point (Ruggieri, 2001). Il soggetto utilizza una parte del suo corpo come punto di riferimento per il suo orientamento nello spazio, come una prua di una barca che funge da riferimento per il marinaio per orientare la barca nello spazio durante la navigazione.

Nella parte terza di questo volume riprenderemo questo discorso nel concreto della sua applicazione all’esperienza estetico-espressiva.

La decodificazione imitativa. Come accostarsi all’esperienza della Gioia

A questo proposito ricordiamo che ovviamente la rappresentazione della gioia può essere realizzata attraverso una figura simbolica (metafora di una divinità). Nella danza tale rappresentazione può esser prodotta da specifici atteggiamenti dei danzatori che “mimano” gli atteggiamenti di una figura che riproduce un atteggiamento gioioso. Ma, ci chiediamo, è possibile che la “rappresentazione” (come nel caso di una scultura) eliciti in chi la osserva un sentimento di gioia? Abbiamo altrove descritto

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questo fenomeno che abbiamo chiamato “decodificazione imitativa” (Ruggieri,1997). Sperimentalmente infatti è stato osservato che durante l’osservazione di una figura stimolo che esprime una specifica espressione mimica, i soggetti assumono, sia pur in modo accennato, inconsapevolmente e per cenni, lo stesso atteggiamento mimico che caratterizza la figura stimolo. Ciò sarebbe documentato da un sistematico innalzamento di tensione muscolare (misurato miograficamente) nei muscoli che hanno un ruolo centrale nella genesi della espressione mimica in questione. Per esempio durante la decodificazione dell’immagine di una bambina che impegnava un muscolo del mento (mentalis: elevatore del labbro inferiore) nella produzione di una smorfia di broncio-disgusto, i soggetti decodificanti presentavano un punteggio più elevato di attività muscolare (in modo statisticamente significativo), rispetto all’attività miografica dello stesso muscolo, durante la decodificazione di immagini la cui espressione non implicava l’attività di quello stesso muscolo (Ruggieri, Fiorenza e Sabatini, 1986) . Pertanto s’ipotizzò che nel processo di decodificazione, oltre al “riconoscimento dello stimolo” (aspetto denotativo) fosse presente una sorta di attività di decodificazione, legata subliminalmente all’imitazione del pattern dello stimolo.

Tale micro-imitazione sarebbe alla base dell’esperienza di un “vissuto” generato dalla micro-riproduzione. Il soggetto che tendesse ad imitare l’espressione mimica della figura-stimolo genererebbe, per far ciò, un necessario gioco di tensioni muscolari, che avrebbero la funzione di autosegnali di tensione. Essi consentirebbero al soggetto decodificante di avere l’esperienza di un vissuto microemozionale, costruito intorno al segnale (attraverso la reafferentazione di ritorno dai muscoli al cervello dell’attività muscolare) “simile” a quella ipoteticamente presente nello stimolo. In tal modo si creerebbe un legame “emotivo” tra il mondo degli stimoli ed il soggetto che decodifica. Incidentalmente ricordiamo che per noi tale meccanismo sarebbe alla base di alcuni processi di empatia, ipotizzati in ambito psicanalitico, in cui il

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terapeuta partecipa delle stesse emozioni del paziente. Ciò che abbiamo inizialmente esaminato in rapporto ad immagini visive, che riproducevano espressioni mimiche è ben estensibile anche alla decodificazione estetica di quadri astratti. Le tensioni dovute alla distribuzione delle linee di tensione di un quadro sono”riprodotte” dal soggetto decodificante che le avverte soggettivamente come esperienze di tensione che avrebbero un ruolo rilevante nella esperienza estetica.

APPLICHIAMO LE CONOSCENZE PSICOFISIOLOGICHE AL LAVORO SULLA NONA SINFONIA-APPARE PLATONE-

Possiamo applicare il concetto della decodificazione imitativa anche all’ascolto della nona sinfonia: attraverso l’analisi di antiche iconografie si possono individuare le dinamiche psicofisiologiche che sottendono i gesti espressivi, cercando di mettere a fuoco la radice protomentale che collega la rappresentazione di gesti di danza antica con la dinamica musicale che genera la danza attuale.

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Cominciamo con ordine. Una volta presentata la nostra chiave di lettura del finale della nona sinfonia, abbiamo pensato che la concezione beethoveniana potesse essere spiegata, ancor più che con le parole, con una vera e propria rappresentazione che ne riproponesse, anche visivamente, ciò che ad un osservatore superficiale potevano sembrare delle semplici allusioni narrative. Ciò ci sembra importante poiché Beethoven non avrebbe semplicemente suggerito o alluso alle tematiche presenti nel testo schilleriano (che egli stesso ha rielaborato), ma avrebbe organizzato una vera e propria rappresentazione nella forma di una concreta attività liturgica. Il lavoro beethoveniano ha elaborato un’esperienza in cui si intrecciano momenti musical-narrativi e momenti di vera e propria esperienza di tipo liturgico-religioso. Questa forma originale di rappresentazione che emerge dal contesto della forma tradizionale della sinfonia, presenta, per alcuni aspetti, delle somiglianze con alcune componenti della tragedia greca ed in particolare delle “Baccanti”. Partiamo per esempio dalla considerazione che la tragedia “Le Baccanti” non consista soltanto nella recitazione verbale e nello sviluppo della trama narrativa che caratterizza l’azione, ma che, specialmente per le parti del coro, essa sia un’opera che più che recitata deve essere danzata e cantata. In quanto rito bacchico!

A questo proposito citiamo un bellissimo volume dal titolo “lettura della scrittura delle immagini (Bilderschrift) delle sensazioni (e/o dei sentimenti) (der Empfindungen)” che esplora i processi educativi e pedagogico-formativi nell’antichità greca classica (Rittelmeyer e Kluenkler, 2005) in cui si descrive con estrema chiarezza la Mousiké come unità di armonia, ritmo, logos, cioè di interazione tra la musica, la danza ed il testo poetico (la parola).

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Abbiamo cominciato dunque ad analizzare il finale della nona sinfonia e, attraverso uno studio puntuale del testo poetico e del suo rapporto con la musica, e ci si è parata dinanzi in modo sorprendente una nuova concezione dell’estetica beethoveniana che avrebbe le sue radici nella dimensione cultural-antropologica etica e pedagogica, carica di valenze di tipo liturgico-religioso, del mondo greco antico. Ed ecco appare Platone con le sue concezioni estetico-morali e pedagogiche a suggerire uno sfondo coerente per lo sviluppo della logica del finale della sinfonia!

L’incontro con Platone è dunque importante per due aspetti: 1. per la completa comprensione del quadro culturale cui Beethoven fa riferimento e 2. per le concrete indicazioni tecnico pedagogiche che il filosofo propone. Dalla lettura di testi platonici citata da Kluenker, emerge con sempre maggiore evidenza la presenza determinante della danza cui Beethoven accenna solo timidamente con una breve annotazione in margine. Il concetto di danza ha nel mondo greco antico un significato ben diverso rispetto a quello della Vienna dell’800. Da una parte essa si lega all’educazione corporea, dall’altra costituisce l’asse centrale di un’esperienza estetica integrata in cui s’intrecciano parola e musica. L’esperienza estetica integrata secondo Platone, citato dalla nostra autrice (pag.98), è caratterizzata da due processi psicofisi: la mimesi e l’entusiamo . Essi ricalcano, nel campo dell’arte espressiva, la distinzione tra aspetti denotativi (di puro contenuto informativo) e connotativi (di microesperienza emozionale) da noi attribuita ai processi percettivi cui abbiamo già accennato.

PLATONE E LA DANZA. LA PAROLA E LA FRASE.

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Quindi la danza ha sia la funzione di rappresentazione (mimesi, componente informativa dell’esperienza) che la capacità di generare un intenso vissuto emozionale (entusiasmo che vuol dire: en theon, cioè dentro il dio). E’ evidente che qui Platone, con il termine entusiasmo si riferisce allo stato di esaltazione emozionale legato all’esperienza mistico-religiosa dell’invasamento del dio. Da un punto di vista pedagogico è da tener presente (op.citata pag. 98) che“L’arte della danza, nella sua origine è da ricondurre alla “rappresentazione” (Darstellung) del parlato attraverso i movimenti corporei (Koerperbewegungen)… Il termine schemata è la mimesi di ciò che è detto e cantato nei “canti”. Ciò si realizza non soltanto attraverso un legame tra ritmo e armonia ma attraverso la corporeizzazione della parola (logos)”.

A questo proposito ciò che ci sorprende innanzi tutto è la convergenza pedagogica tra alcuni aspetti del nostro approccio psicofisiologico e l’estetica formativa platonica. Per poterla comprendere è necessario partire dall’analisi psicofisiologica della parola e della frase. Se Platone si pone come finalità l’interazione tra parola, danza e musica che s’incontrano nel ritmo è necessario soffermarci, prima ancora di analizzare il fenomeno “ritmo”, ad individuare le componenti corporee della parola (allusione platonica alla corporeizzazione del logos).

LA SOLUZIONE MODERNA DELLA PEDAGOGIA PLATONICA: ANALISI DEL RITMOIntroduzione fisiologica al concetto di ritmo per il suo impiego nella danza bacchica e nel teatro greco antico

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Ritmo: tensione d’attesa-soluzione (sospensione-scarica)

Se è facile cogliere il RITMO nel concreto di un’esperienza operativa, non è sempre facile definirlo a livello di analisi e di descrizione cognitiva. Le diverse e numerose definizioni di ritmo, che sono state date sia nell’antichità che nel mondo contemporaneo, sono a nostro avviso sempre un po’ incomplete e non esaurienti. Tale difficoltà cresce se si vuole costruire un’esperienza unificata di musica danza e parola. La difficoltà ampiamente sottolineata da Kluenker, nel volume citato, è quella di collegare la rigida regolarità nella ricomparsa di un evento (che chiama metro, Takt) con la fluidità che è anche parte caratterizzante l’esperienza ritmica. Il concetto di ritmo ruota intorno a quello di misura delle durate delle componenti di sequenze percettive ed espressive presenti nell’analisi, nella riproduzione di configurazioni di stimoli, visivi, musicali etc. e, nell’esperienza musicale e verbale, al gioco degli accenti che caratterizzano la configurazione medesima. Si pone quindi il problema dell’integrazione dei livelli ritmici.

Psicofisiologia del ritmo e pedagogia platonicaTensione d’attesa-soluzione (sospensione e scarica)

Pur non intendendo qui approfondire quest’ampia tematica riteniamo interessante, ai fini del nostro lavoro artistico-espressivo, definire il fenomeno “ritmo” da un punto di vista psicofisiologico.

Noi definiamo il ritmo come la ricomparsa periodica di un evento “atteso”. Punto centrale del discorso è costituito dalla analisi psicofisiologica del processo di “attesa”.

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Nell’antichità greca la cornice di riferimento è sempre costituita dal corpo e dalla sua attività: per definire il verso e le sue articolazioni nelle forme di accentuazione e durate si parla per esempio di “piede” o di dito (dattilo) etc. Il ritmo, nell’ambito della mousiké fa espressamente riferimento ai movimenti corporei dei danzatori e deve esser inteso come un processo spaziale e corporeo (Rittelmeyer e Kluenker pag. 35). Dunque la descrizione antica dell’esperienza ritmica è legata a concrete esperienze estetiche, in cui la dimensione corporea ha un ruolo centrale.

Interessante a questo proposito è che Platone parlando della mousiké, ed in particolare del ritmo, con una esplicita finalità pedagogica, (citata da Rittelmeyer e Kluenken, 2005, pag. 91), parla di arsis (Hebung: sospensione-innalzamento) e di thesis (Senkung : caduta) che, come si vede, coincide con il nostro concetto di sospensione-scarica di tensione, che trova nell’atteggiamento corporeo (che attraverso il ritmo è alla base della dinamica motoria della danza) un importante punto di raccordo. La concezione platonica in qualche modo differisce da altre numerosissime definizioni che sono formulate quasi esclusivamente in rapporto alle caratteristiche della figura stimolo (ripetizione, somiglianza, ricomparsa dell’evento ritmico proprio dello stimolo).

Noi invece intendiamo integrare tale modalità di analisi, a partire dalle operazione psicofisiche che compie il soggetto decodificante. Per far ciò è necessario considerare l’atto percettivo come un processo ampio e complesso, che non consiste esclusivamente nell’incontro del soggetto (contatto percettivo e riconoscimento) con lo stimolo. Fondamentale in questo processo è l’esperienza psicofisica di “attesa” che è caratterizzata da una tensione d’attesa. Ora, alla luce della nostra modellistica psicofisiologica ogni esperienza di “tensione” è il prodotto di un relativo incremento di tensione muscolare (innalzamento del tono muscolare). L’esperienza di “tensione” è già rappresentata dal termine attesa (ad-tendere: tendere verso), così come essa è

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altrettanto centrale nel termine “attenzione” (tensione-verso). La tensione d’attesa è una speciale forma di tensione. Sua caratteristica è la “sospensione”. Del tutto analoga è la sospensione legata all’esperienza propria di una domanda. Per es. quando il soggetto chiede: “E’ arrivato Mario?” Noi riconosciamo che si tratta di una domanda dal fatto che la prosodia (il profilo d’intonazione della frase) crea una situazione di sospensione, che si risolverà al momento della risposta: “E’ arrivato Mario”. Ad un osservatore acuto apparirà chiaro che l’atteggiamento di sospensione non riguarda soltanto il piano sonoro, ma che lo stesso piano sonoro è determinato da una dinamica muscolare che interessa, anche se in modo appena accennato, l’atteggiamento posturale di tutto il corpo. “Domanda e risposta” formano una sequenza caratterizzata da una successione di tensione-rilasciamento muscolari, legati agli atteggiamenti posturali sia di chi formula la domanda che di chi produce la risposta. Ora, ritornando alla nostra definizione, possiamo dire che la (ri)comparsa periodica di un evento atteso, propria del ritmo, è parte strutturale di una sequenza costituita da un’alternanza di livelli di tensione muscolare ( incremento di tono):“tensione d’attesa” che si risolve (scarica di tensione con abbassamento del livello di tono muscolare) nell’incontro con lo stimolo atteso. Tale processo è presente, secondo noi, in tutte le forma di esperienza ritmica, sia essa visiva, motoria, acustica.

IL RITMO NEL LINGUAGGIO VERBALE

A nostro avviso ciò che può felicemente collegare danza, parola e musica è una particolare modalità di impiego coordinato dell’accento in rapporto al ritmo ed ai ritmi (vedi dopo). Nell’ambito del linguaggio verbale corrente l’impiego dell’accento è talmente automatizzato che il parlante per lo più non

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si rende conto della sua presenza e della sua funzione nei processi cognitivi d’individuazione e riconoscimento. L’accento può costituire la “soluzione” dell’attesa. L’accento, la forza muscolare e la gestione del peso

Prima però di esaminare i meccanismi psicofisiologici che generano l’accento nel linguaggio verbale, nella musica e nella danza, è utile iniziare il discorso a partire dagli accenti nell’ambito delle percussioni. Ciò perché tra le diverse forme espressive esistono alcuni elementi comuni e l’analisi delle percussione consente di esaminare la componente strutturale elementare comune a tutte. L’accento in una sequenza di suoni può essere definito come un aumento di intensità, che riguarda un elemento della sequenza che lo rende emergente rispetto al contesto. Esso è legato all’aumento della forza con cui si percuote. Essa, a sua volta, dipende dall’incremento della forza della contrazione muscolare dei muscoli impegnati nel gesto del percuotere.

Ricordiamo qui incidentalmente che le forme di attività dei muscoli sono 1. tono di base (principalmente per mantenere una postura, ma non solo) 2. contrazione isotonica (accorciamento necessario per produrre il movimento) e isometrica (importante nel generare un vissuto di tensione e nello sforzo) 3. stiramento elastico (allungamento provocato dalla trazione).

Per il nostro discorso e utile ricordare che lo stiramento elastico di un muscolo determina, per via riflessa, una risposta di “contrazione” dello stesso muscolo stirato. Pertanto ricordiamo che la contrazione muscolare è producibile sia in via diretta dal sistema nervoso centrale che per via riflessa attraverso lo stiramento dello stesso muscolo. Il meccanismo riflesso ha anche un ruolo nella regolazione del tono muscolare di base.

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Cenni generali su alcuni aspetti della regolazione motoria

Interessante è a questo proposito ricordare che l’aumento della forza muscolare può essere prodotto volontariamente (come realizzazione di un programma motorio volontario che ha il suo starter nei lobi frontali) o in via riflessa interessando meccanismi fisiologici, che hanno il loro perno nell’attività stessa della muscolatura corporea. In quest’ultimo caso la componente portante è costituita da meccanismi reflessogeni implicati nella regolazione del peso e dell’equilibrio posturale (encefalici e spinali della motricità volontaria ed extrapiramidale). Per capire bene la differenza tra i due meccanismi partiamo da un esempio concreto. Immaginiamo che un soggetto con un braccio alzato e teso verso l’alto, voglia sollevare il braccio ancora più in alto. Per quest’ulteriore sollevamento si possono creare due situazioni.

Figura 1. Innalzamento volontario del braccioAB

La prima in cui il soggetto è invitato a sollevare volontariamente il braccio attraverso un ulteriore impiego di forza muscolare producendo anche un certo “sforzo” (Fig.1) (sulla fisiologia dello sforzo vedi Ruggieri 1984).

In una seconda modalità uno sperimentatore spinge verso il basso, con un colpo secco, il braccio teso del soggetto. (Fig. 2) In questo caso, in risposta alla pressione verso il basso, si osserva la comparsa di una sorta di rimbalzo elastico-riflesso che porta il braccio ben più in alto rispetto al livello di partenza (per la fisiologia dei processi elastici e dei riflessi neurologici vedi Ruggieri, 2001).

La spinta verso il basso del braccio mediamente teso determina una trazione-stiramento dei muscoli della spalla che si contraggono

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in via riflessa (ed elastica) in rapporto allo stiramento stesso. In questo caso la corteccia cerebrale non invia direttamente impulsi ai muscoli interessati, ma esercita su di essi una sorta di controllo modulante come quello di “chi osserva lasciando fare”.

La corteccia cerebrale “lascia fare al corpo” guidando soltanto la dinamica motoria in senso globale, senza intervenire direttamente sulle componenti dei singoli distretti, che sono affidati a meccanismi di regolazione automatica tonico-posturale.AB A¹Figura 2. Innalzamento riflesso a seguito di aumento di tensione-trazione prodotto dall’applicazione rapida di una forza esterna che spinge il braccio verso il basso (vedi testo).

Il rapporto tra la corteccia cerebrale e l’attività dei muscoli periferici, che agiscono in via riflessa, può essere paragonato a quello che s’instaura tra un fantino ed un cavallo per il salto di un ostacolo. Il fantino sollecita l’azione del saltare, ma l’azione del salto è opera del cavallo. Il fantino svolge esclusivamente un’azione-guida. Se la corteccia cerebrale esercita un’azione di ipercontrollo (sulla fisiologia del processo “controllo” vedi Ruggieri, 2001), l’effetto è per lo più quello di “inibire” il salto interferendo con l’attività dei meccanismi periferici.

Un altro esempio utile per la comprensione dei meccanismi motori reflessogeni integrati, legati alla stessa dinamica di trazione-contrazione, è rappresentato dalla pratica sportiva del “salto in alto”. Nel salto in alto l’equivalente della spinta verso il basso, che sollecita il pattern di risposta contrattile, è rappresentato da una scarica del peso di tutto il corpo che, immediatamente prima del rimbalzo, si concentra, attraverso uno dei due piedi, su una base d’appoggio. Possiamo anche immaginare, ai fini del nostro ragionamento, che la base d’appoggio sia costituita da una pedana elastica che, proprio in virtù della sua elasticità, favorisca il rimbalzo con la spinta verso l’alto. In questa operazione vorremmo

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evidenziare il momento per noi centrale dell’appoggio sulla base (sia essa il pavimento o una pedana). L’atleta per saltare “prende la rincorsa” ed orienta tutto il corpo, con le sue tensioni, verso un punto della padana (o verso un punto del pavimento) dove poggia (a fine rincorsa) il suo piede scaricando tutto il peso del corpo. In questo momento l’atleta mette in atto due processi psicofisiologici in rapidissima successione 1. allentare per un attimo tutte le tensioni del corpo lasciandosi andare alla forza peso, che egli stesso convoglia su punto di appoggio e 2. organizzare la direzione delle risposte di contrazione muscolare riflessa, evocate dalla trazione indotta dalla scarica del peso nel contesto del gesto del salto che interessa tutto il corpo. Vedremo tra breve che il concetto di appoggio attivo sulla pedana deve essere rivisitato valorizzando la componente reflessogena legata al peso. Anche qui, come per il sollevamento del braccio, il soggetto può esercitare una forte pressione volontaria o utilizzare il contributo di automatismi di tipo riflesso. E’ facile immaginare che una pressione concentrata, molto forte, non orientata verso la spinta, che tenda ad esaurirsi in se stessa, non solo non favorisca il rimbalzo del salto, ma lo inibisca. E’ quanto si verifica, mutatis mutandis, nella percussione di uno xilofono con una bacchetta: una pressione molto forte del braccio che percuote senza rimbalzo, piuttosto che generare un’ampia espansione del suono, paradossalmente, esercita su di esso un’azione frenante (schiaccia il suono). Anche se può produrre un aumento d’intensità del suono stesso. Ma si tratta pur sempre di un suono bloccato nella sua espansione.

Il gesto del percuotere del musicista, come quello del salto dell’atleta e, ciò che in questo contesto ci interessa in modo particolare, la dinamica motoria del danzatore, deve essere dunque immaginato, all’atto della sua programmazione cerebrale, come una figura motoria bifasica: 1. una caduta del braccio verso il basso seguito da 2. un libero librarsi del braccio

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verso l’alto, una sorta di V il cui vertice in basso è costituito dal contatto bacchetta-strumento, piede-pedana (base d’appoggio) dove si genera la contrazione propria del rimbalzo.

L’atleta deve immaginare che il perno della figura motoria è nell’appoggio-pressione seguito da un breve rilassamento sulla pedana, che costituisce il punto conclusivo della prima fase e l’inizio del movimento verso l’alto che caratterizza la seconda. Il musicista, come il saltatore e il ballerino, per organizzare in modo efficace l’attività corporea, deve rappresentarsi già in partenza le due fasi del movimento. Nella prima, lasciandosi andare al peso del corpo (vedi dopo) ed orientandolo verso il punto di appoggio-rimbalzo, deve contestualmente preparare l’orientamento del corpo della seconda fase. La seconda fase, si realizza in modo ottimale se nel corpo dell’atleta, libero da tensioni (frenanti), spesso presenti anche sotto forma di contratture croniche, si sviluppa in via riflessa la sequenza contrattile antigravitaria che produce la spinta verso l’alto.

In questa rappresentazione programmatica si organizza la dinamica dell’attività motoria che caratterizza il gesto nelle sue componenti di contrazione, rilassamento, variazioni toniche sia distrettuali che di tutto il corpo che costituiscono, queste ultime, la “dinamica delle tensioni muscolari”.

Al lettore distratto ricordiamo che il nostro ragionamento fisiologico è solo un’introduzione utile per la comprensione della pedagogia estetica proposta, nel suo contesto culturale, da Platone. Essa si basa su specifiche modalità di organizzazione della fisiologia corporea (specialmente tonico-motoria) generatrice di specifiche forme di espressività.

Ripetiamo che esaminando la dinamica motoria del “salto in alto” e studiando il modo con cui l’atleta può esercitare la pressione concentrata sulla pedana che precede il rilassamento che a sua volta è l’appoggio-perno del salto, ci rendiamo conto del

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ruolo rilevante che può assumere una specifica gestione della forza “peso” dell’atleta e del danzatore. Anche qui si può efficacemente utilizzare una via indiretta utilizzando, attraverso la gestione del peso, gli automatismi elastico-reflessogeni che regolano il tono muscolare e la motricità. Come può l’atleta utilizzare la forza peso? Attraverso un’inibizione temporanea del tono (o sua riduzione) che determina una brevissima sospensione temporanea dell’azione antigravitaria dei muscoli del corpo. In tal modo i muscoli non antagonizzano più il peso della struttura. Nel rimbalzo tonico il soggetto, invece di contrapporsi volontariamente al peso (cercando di aumentare direttamente il tono muscolare), si lascerebbe andare, per una frazione di secondo, all’azione stessa del peso del proprio corpo, riducendo o abolendo il tono muscolare, producendo un rimbalzo tonico ad effetto antigravitario. Il peso stesso eserciterebbe sui muscoli una trazione meccanica (stiramento dei muscoli resi temporaneamente ipotonici dalla decisione di “lasciarsi andare al peso) che, a sua volta, metterebbe in moto la risposta di contrazione muscolare riflessa. La contrazione dei muscoli ottenuta per via riflessa può essere anche più intensa di una contrazione prodotta volontariamente (Fig.3).

Figura 3. Rappresentazione del rimbalzo tonico

A. Tono di base A'. Caduta del peso B. Contrazione

elastico riflessa

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Quindi per l’atleta l’appoggio col piede sulla pedana è legata alla temporanea scarica del peso sul punto di appoggio che determina il “rimbalzo tonico” antigravitario, responsabile della spinta verso l’alto che caratterizza il salto. Ovviamente la sospensione temporanea dell’azione antigravitaria dei muscoli, che precede l’appoggio sul perno, rappresenta un momento della complessa figura motoria bifasica di cui abbiamo parlato. Per meglio comprendere il rapporto riduzione del “tono-contrazione muscolare” ricordiamo che in fisiologia è stata individuata la presenza di una fase di rilasciamento, che precede la contrazione che è ben evidenziabile nella trasduzione grafica della sequenza motoria che compare in seguito ad uno stimolo. Tale fase di rilasciamento è noto come “naso di Rauh” (Mitolo, 1959).

Se applichiamo il concetto del rilasciamento precontrattile alla percussione del tamburo o al salto, rileviamo che la forza di percussione con il relativo incremento d’intensità sonora, è maggiore se è preceduta da un brevissimo rilassamento e la rappresentazione visuo-spaziale della meta (superamento dell’asticella del salto). Con il rilassamento il soggetto si “lascia andare al peso”.

Caratteristica fondamentale del rimbalzo tonico è che la contrazione muscolare si realizza senza sforzo. Il soggetto deve imparare a distinguere tra l’azione del “premere” sulla base d’appoggio, che produce sforzo con aumento di tensione, e l’azione del “lasciar cadere” il peso di tutto il corpo favorendo il rimbalzo elastico.

La meccanica motoria componente strutturale dell’espressività psicologica

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A questo punto è necessario mettere a fuoco il rapporto tra i sistemi di regolazione della meccanica muscolare tonico-motoria, legata al rapporto “equilibrio posturale-movimento”, con il contesto psicologico (immaginativo ed emozionale e di autorappresentazione) in cui tale dinamica si sviluppa. Punto centrale del discorso è che la dinamica motoria costituisce la componente strutturale dell’espressività, che assume specifiche forme ed atteggiamenti posturali in rapporto 1. ai programmi ed alle intenzioni comunicative e relazionali; 2. ai vissuti emozionali; 3. alle rappresentazioni percettive ed immaginative, cioè alla dinamica psicologica. Tale intreccio psicofisico costruisce, nella dinamica espressiva posturale il modo di essere al mondo (Da-sein).

La base di tutte le interazioni è costituita dalla funzione di autorappresentazione dell’Io, che costituisce l’elemento portante dell’identità nucleare, in relazione con le subidentità occasionali e situazionali.

Per la comprensione dei processi espressivi, dunque, esamineremo sia la meccanica di base che il modo con cui tale meccanica contribuisce alla costruzione della dimensione psicologica. Di questo complesso processo metteremo a fuoco il ruolo dell’autorappresentazione, evidenziando i rapporti tra “autorappresentazione/i” e schema/i motori. Il temine “schema” ha delle suggestive assonanze con le descrizioni Platoniche dei fenomeni artistici.

La gestione della dimensione psicologica tra input e outputdalla tensione muscolare alla psicologia – body image

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Partendo dal presupposto che ogni movimento nasce da un contesto posturale è necessario sottolineare anche il fatto che, per produrre un movimento in modo correttamente corrispondente all’intenzione, il sistema nervoso centrale deve essere informato del livello di tensione dei muscoli che saranno impegnati nella produzione del movimento programmato. Pertanto diventa estremamente rilevante l’informazione che, circa il livello di tensione (tono muscolare), i muscoli inviano al sistema nervoso centrale (input). Possiamo sviluppare questo concetto sottolineando che la programmazione di tutte le attività espressive e comportamentali (output) presuppone una raccolta di tutte le informazioni (input) distrettuali e globali provenienti dal corpo e dal contesto spaziale in cui si progetta la loro realizzazione. Il processo di raccolta dell’input è una funzione molto complessa ed articolata che interessa il sistema nervoso centrale, dove confluiscono le afferenze neurologiche portatrici delle informazioni provenienti dalla periferia del corpo. Il meccanismo di raccolta delle informazioni corporee è alla base dell’autorappresentazione che il soggetto ha di se stesso (Immagine Corporea-Body Image). Si tratta di un’operazione di sintesi che si svolge in una determinata area della corteccia cerebrale. Per la costruzione della Immagine Corporea si raccolgono e si sintetizzano, generando autorappresentazioni integrate, non solo tutte la informazioni dell’attività del corpo, ma anche tutti i segnali esterni che fanno riferimento al modo di essere del corpo (giudizi espressi da eventuali interlocutori, sottolineature in senso positivo o negativo di caratteristiche corporee, globali o distrettuali etc.) che influenzano l’autorappresentazione medesima. Le informazioni ed i segnali utilizzati hanno contemporaneamente componenti denotative e connotative e contribuiscono a formare l’autorappresentazione di Sé. In questo processo le posture (atteggiamenti posturali), con le specifiche distribuzioni delle tensioni muscolari che le caratterizzano, svolgono un ruolo determinante.

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Le tensioni muscolari convergono in una rappresentazione unitaria e si intrecciano con le autorappresentazioni immaginative e percettive globali (autorappresentazioni di Sé in diversi contesti psicosociali) in cui si sviluppano. Secondo noi l’area corticale in cui si produce “l’immagine corporea” (Body Image) esercita anche una modulazione ed un controllo sui circuiti encefalici della programmazione motoria, che presiedono alla regolazione dell’equilibrio posturale (cerebellari, del tronco encefalico, dei nuclei della base etc.). La dinamica motoria,con i suoi automatismi, è dunque regolata dai centri della Body Image in cui si elabora una rappresentazione unitaria di Sé. Del resto un atteggiamento posturale deve essere considerato come una composizione unitaria, una figura motoria espressiva, con impliciti significati psicologici intrapsichici ed interpersonali e con una sua dinamica legata alle variazioni di tono muscolare collocata nel contesto spaziale, che va oltre la semplice regolazione statico-posturale.

Ogni postura (atteggiamento posturale) è un quadro espressivo di significato psicologico

Poiché la danza e la messa in scena teatrale si concretizzano sempre in atteggiamenti postural corporei espressivi, che riproducono a livello corporeo-spaziale, la rappresentazione immaginaiva della coreografia e dei personaggi accenniamo ai processi psicofisiologici che collegano la dimensione “immaginativa” con l’espressività postural-corporea. La principale interazione tra questi due livelli è presente nei processi d’Identità. In un precedente saggio (Ruggieri, 2001) abbiamo definito l’identità dell’Io come la corrispondenza tra “l’autorappresentazione di Sé e la esperienza attuale psicofisica di Sé che conferma l’autorappresentazione medesima.” L’autorappresentazione (Body Image) si sviluppa in

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corrispondenza della corteccia cerebrale, attraverso un meccanismo simil-digitale sulla base delle informazioni dell’attività dei diversi distretti corporei che costituiscono un atteggiamento posturale. Nell’autorappresentazione sono presenti componenti stabilmente strutturali (che costituiscono l’Identità nucleare) e componenti variabili ed occasionali (sub-Identità).

L’organizzazione posturale, programmata dal cervello, produce a livello della periferia corporea concreti atteggiamenti posturali che sono dei veri propri quadri espressivi, caratterizzati da particolari distribuzioni di livelli di tensione muscolare (tono) che, pur sempre nella cornice del controllo dell’equilibrio posturale, si differenziano tra loro. A questo proposito sottolineiamo il fatto che non esiste un’unica postura “ideale”, ma che esistono soltanto concreti atteggiamenti posturali, i cui centri cerebrali di programmazione, realizzazione e controllo corrispondono alle aree dell’immagine corporea (Body Image). A livello periferico-corporeo si realizza una rappresentazione dell’autorappresentazione. L’autorappresentazione a livello corticale è parte di un’unica struttura immaginativo-visuo-postural spaziale. Sempre a livello corticale, l’autorappresentazione globale deve essere intesa come una complessa struttura in cui in cui sono presenti diversi livelli e forme di autorappresentazione, di cui una stabile (autorappresentazione dell’identità nucleare) ed altre, conservate in memoria, che corrispondono alle diverse subidentità che fanno parte dell’universo immaginativo del soggetto, che possono a loro volta o essere stabilmente presenti, intrecciandosi con l’identità nucleare, o comparire perché evocate da situazioni-stimolo immaginative o reali. In base alle nostre riflessioni sul rapporto “immaginazione-spazio”, o meglio “rappresentazione-spazio”, risulta evidente che ogni autorappresentazione (sia dell’identità nucleare che delle subidentità) non investe elusivamente l’attività del cervello, ma si concretizza contemporaneamente, sul piano corporeo, in atteggiamenti visuo-postural spaziali.

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Nella forma dell’atteggiamento posturale generalmente s’incontrano, integrandosi tra loro in una nuova unità fenomenologica, sia l’atteggiamento proprio dell’identità nucleare che quelli delle subidentità. Esiste dunque in rapporto all’identità, una postura abituale di base che interagisce dinamicamente con le diverse posture occasionali, che nascono nei diversi contesti immaginativi e percettivo-situazionali, dando vita a nuove forme espressive, che si integrano nell’ambito dell’equilibrio posturale. E’ qui che prende forma la dinamica tra stabilità e flessibilità dell’Io che ha le sue radici nella stabilità-flessibilità posturale.

Rapporti tra movimento e postura di base

Ciò che abbiamo descritto in riferimento alla dinamica di un’azione deve essere applicato anche alla regolazione dell’equilibrio posturale. Noi infatti consideriamo gli atteggiamenti posturali come pattern costituiti da caratteristiche distribuzioni di tensioni corporee. Essi sono “gesti” che coinvolgono tutto il corpo e si svolgono in un tempo ampio. Costituiscono la base di partenza che orienta la forma e lo sviluppo di ogni singolo atto. Tale “gestualità” si sviluppa sempre in specifici contesti immaginativi. L’immaginazione programmatica, che determina la presenza dell’atteggiamento posturale, deve collegarsi con la più ampia auto-immaginazione (psicologico-sociale) che ne costituisce il contesto.

La gestione della dinamica della tensione corporea può assumere infinite forme, ma deve sempre collegarsi con la gestione di base del peso corporeo. Infatti per mantenere una postura eretta il soggetto deve effettuare un’attività antigravitaria, che si contrappone alla “forza peso”. Se i muscoli non svolgessero un’azione antigravitaria, il soggetto, si accascerebbe come una marionetta cui sono stati allentati i fili di sostegno. I muscoli sono in sostanza l’equivalente dei fili della marionetta, che in questo

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caso sono però “incorporati” nella sua stessa struttura. Il sistema nevoso centrale regola la dinamica della tensione muscolare (tono) coordinando la gestione del peso con l’equilibrio posturale. Tale coordinazione è fondamentale nella programmazione, realizzazione e modulazione controllante dei diversi atteggiamenti posturali, che definiscono il modo di essere al mondo dell’individuo. A questo punto ricordiamo che, come per le singole rappresentazioni, anche per l’autorappresentazione esistono componenti “denotative” e “connotative”. La componente connotativa costituisce il grande capitolo del piacere narcisistico.

Il narcisismo. Una nuova interpretazione psicofisiologica. Un approccio al “sentire”

Parte integrante dell’autorappresentazione è l’informazione corporea che costituisce la base dell’esperienza microemeozionale di piacevolezza-spiacevolezza, legata all’intreccio tra variazioni vegetative (calore etc.) e gioco delle tensioni presenti sia nel tono di base sia in comportamenti motori, che abbiamo definito connotativa. A quest’ultimo processo inteso nella sua globalità abbiamo dato il nome di piacere narcisistico. Esso deve essere inteso come una componente psicofisiologica strutturale normale, presente in tutti gli umani, e non va confuso con il disturbo narcisistico che è alla base di alcune forme di patologia psichiatrica. Il piacere narcisistico può essere considerato come il piacere che deriva dall’integrazione unificante di tutte le attività dei diversi distretti corporei. Sarebbe il piacere di autopercepirsi come un’Unità ben individuata, compatta e flessibile. Secondo questa ipotesi l’attività muscolare svolgerebbe un ruolo fondamentale nell’integrazione narcisistica e nella genesi del vissuto di piacere ad esso collegato. Ciò è possibile se si attribuisce ai muscoli un’ulteriore funzione, oltre a quella di generare il

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“sentire soggettivo”, che è quella di legare, unificando funzionalmente i diversi distretti corporei. Il legame, che si realizza attraverso i muscoli, genera diversi livelli di tensione subiettivamente rilevabili creando vissuti di piacevolezza-spiacevolezza.

La nostra ipotesi sul narcisismo modifica l’ipotesi freudiana, che lega troppo rigidamente il piacere narcisistico alla dinamica del piacere sessuale (piacere sessuale rivolto verso il Sé).

Pertanto nella dimensione narcisistica l’organizzazione posturale, in quanto specifica distribuzione di tensioni muscolari (accanto a muscoli tesi con funzione portante esistono anche muscoli di diverso tono-tensione), svolge un ruolo determinate nella costruzione del piacere narcisistico.

Cenni su alcune tematiche psicofisiologiche dell’Io relate all’organizzazione delle dinamiche posturali: trattenere-cedere Rigidità e Controllo

Queste riflessioni psicofisiologiche hanno immediate implicazioni pedagogiche. Il punto nodale è costituito dal fatto che l’organizzazione posturale di base è sempre parte di un più ampio atteggiamento psicologico globale, che si esprime sul piano fenomenologico. Infatti i nostri studi hanno messo in evidenza che alcuni processi psicologici, che interessano l’Io nella sua totalità, hanno un ruolo fondamentale nella regolazione della dinamica posturale. E’ qui importante sottolineare che la nostra concezione della postura presuppone non soltanto la sua connessione con contesti immaginativi più ampi, ma anche una particolare dinamica fisiologica costituita da un’attività ritmica strutturale, caratterizzata da una continua alternanza nelle tensioni dei muscoli implicati

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nella postura. Secondo noi l’impalcatura muscolare tonica, che costituisce e sostiene una postura, presenta non soltanto differenti livelli di distribuzione di tensione (pattern neuro-muscolari), ma, all’interno degli stessi muscoli, mostra continue oscillazioni di livelli di tono. Nostre ricerche hanno dimostrato che le forme di variazioni di tono a riposo possono essere considerate come caratteristiche di personalità. Secondo un’ottica più specificamente fisiologica è necessario ipotizzare, in una postura di base, un’alternanza nell’attività delle unità motorie che compongono un muscolo, per evitare il fenomeno della fatica periferica (per es. con iperproduzione di acido lattico etc.). Oltre all’alternanza nell’attività delle fibre muscolari di ogni singolo muscolo, ipotizziamo anche un’alternanza nel gioco delle tensioni toniche dei muscoli che costituiscono una postura. Questo fenomeno fornirebbe una spiegazione fisiologica alle micro-oscillazioni che si osservano nelle postura a riposo e che interessano tutto il corpo. Esse costituirebbero un particolare meccanismo che consentirebbe di evitare la rigidità posturale, contribuendo alla costruzione di un equilibrio posturale dinamico. La rigidità posturale

La rigidità è il prodotto di una prolungata tensione muscolare, che non tiene conto della dinamica degli atteggiamenti posturali, sopprimendola e che s’intromette nella libera esecuzione di movimenti. Dalla psicofisiologia clinica sappiamo che tale rigidità può essere legata all’istanza psicologica di ipercontrollo (sia cognitivo, nei confronti di diverse situazioni stimolo, che nel controllo delle proprie emozioni) e, nei casi più clamorosi, può costituire un meccanismo atto ad operare una forzata integrazione narcisistica, quando sia presente una fragilità strutturale dell’Io (disturbo narcisistico). Nel caso del controllo cronico delle emozioni il soggetto produce delle contratture muscolari

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(contrazioni croniche non seguite da rilasciamento) che interessano alcuni distretti corporei ed impediscono il libero gioco di tensione-detensione. A queste contratture abbiamo dato il nome di spezzature perché interrompono la scarica del peso che, percorrendo tutto il corpo, raggiunge la base di appoggio (per un approfondimento di questa tematica vedi Ruggieri, 2002).

Il massimo di rigidità porta ovviamente all’immobilizzazione. Le condizioni cui abbiamo accennato bloccano, attraverso la rigidità, l’alternanza di tensione-rilasciamento, che a sua volta è parte della gestione dinamica del peso, costituta dall’alternanza tensione antigravitaria-sospensione temporanea dell’attività antigravitaria dei muscoli.

Nella pratica, sia sportiva che artistico-espressiva, della gestione della dinamica tra stabilità e flessibilità posturale, il punto nodale da noi evidenziato è nella sospensione temporanea dell’azione antigravitaria dei muscoli, che, osservata dal punto di vista del soggetto che la produce, si traduce in “lasciarsi andare” temporaneamente all’azione del peso e che precede il rimbalzo tonico. L’operazione del “lasciarsi andare” non è per niente facile da produrre. In altri termini la realizzazione di una determinata meccanica fisiologico-motoria passa attraverso la capacità, tutta psicologica, di “cedere”. Quest’ultima condizione è opposta a quella, altrettanto psicologica del “controllo” attivo sui meccanismi fisiologici, che sono basilari non solo della postura eretta, ma anche del sentimento di presenza stabile ed integrata nel mondo, che è alla base dell’esserci del soggetto. “Non cedere” e “trattenere-tenersi” sono il prodotto di forze psicofisiche d’integrazione, che si oppongono a quelle della disgregazione proprie del cedere. Un Io abbastanza stabile gestisce facilmente la dinamica psicofisica ritmica di “integrazione (tensione)-disintegrazione (rilassamento posturale)”. E’ implicito in questo discorso che il vissuto soggettivo del cedere sia legato alla riduzione delle tensioni (tono di base). Il mantenimento delle tensioni è parte anche di un meccanismo di difesa che il soggetto

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mette in atto per salvaguardare la sua integrità psicofisica. E’ comprensibile dunque la forte resistenza che molti soggetti nei confronti dell’esperienza suggerita del cedere al peso.

Pertanto è spesso indispensabile, nella produzione di comportamenti espressivi nel campo del teatro e della danza, lavorare costruttivamente su tale resistenza.

L’intervento si svolge su due piani: uno di carattere psicologico (immaginazione, autorappresentazione e gestione dell’emozioni nel contesto della stabilità e flessibilità dell’Io) ed uno più strettamente di tipo fisiologico-posturale. Quest’ultimo si focalizza intorno alla ricerca delle modalità di appoggio per la scarica dinamica del peso. Come si comprende da queste brevi note, la dimensione psicologica e quella postural-fisiologica sono strettamente collegate tra loro perché s’incontrano nella gestione psicofisiologica integrata dell’Io. Infatti, per superare la difficoltà di lasciarsi andare dinamicamente al peso, è talvolta necessario “riorganizzare” la distribuzione delle tensioni posturali, che caratterizzano abitualmente la postura di un soggetto. La rigidità delle tensioni che caratterizzano un determinato distretto muscolare è legata al controllo delle emozioni (vedi Ruggieri 2001, 1988) ed alla supervalutazione delle difficoltà di esecuzione di un compito.

Ruolo dell’appoggio nella formazione dell’attore-danzatore

Pertanto il lavoro pedagogico positivamente ristrutturante è abbastanza complesso. Il perno del lavoro è nel collocare il fenomeno fisico dell’appoggio dinamico (alternanza di tensione-rilassamento con scarica del peso sul punto di appoggio) nel contesto più ampio dell’appoggio psicologico che implica una “fiducia” (verso se stessi e verso il conduttore che può costituire un

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temporaneo, significativo sostegno). Per capire la struttura psicofisica della fiducia facciamo l’esempio del nuoto. Chi non si fida dell’acqua ed ha paura di affogare ha difficoltà nel nuotare. Se, in rapporto alla propria paura, il soggetto aumenta notevolmente le proprie tensioni corporee, non solo non nuota, ma addirittura affoga. Chi si fida pienamente dell’acqua può provare il piacere di galleggiare senza sforzo né movimenti, facendo ciò che in gergo si chiama “il morto a galla”. Non è questa la sede per entrare nei dettagli dei percorsi pedagogici che devono essere ovviamente individualizzati (vedi Ruggieri, 2002; Ruggieri, Fabrizio, Della Giovampaola, 2004)

La consapevolezza che il peso e la sua gestione sia il centro di un incrocio tra psicologia e meccanica fisiologica, introduce nel campo della pedagogia una nuova luce circa i rapporti tra meccanismi fisiologici, che noi abbiamo chiamato protomentali nucleari, e processi espressivi con le loro componenti cognitive ed emozionali.

Il controllo

Ricordiamo incidentalmente che, dal punto di vista psicofisiologico, il fenomeno “controllo” che è considerato un processo “mentale”, consiste in un atteggiamento preventivo, caratterizzato da un aumento di tensione muscolare, nei confronti dei “situazioni-stimolo”. Per esempio consideriamo la condizione più semplice da controllare quale l’esecuzione di un gesto. Il controllo sul movimento, che è costituito da una sequenza di contrazioni muscolari, si realizza attraverso l’attività controbilanciante (per lo più di tipo tonico) di muscoli che antagonizzano il movimento stesso. Un controllo eccessivo può inibire completamente il movimento. E’ importante sottolineare che, sulla base di nostre osservazioni cliniche e sperimentali, la tensione muscolare è presente in tutte le forme di controllo, anche

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di quelle che intervengono su comportamenti considerati esclusivamente psicologici.

Un approccio pedagogico psicofisiologico, che si concentra su esperienze artistico espressive, può consentire di mettere a fuoco il rapporto tra protomentale ed espressività differenziata e complessa.

Ricapitolando dunque, una postura consiste in specifici atteggiamenti posturali, ognuno dei quali è il prodotto di un processo di coordinazione unificante delle attività delle diverse aree del corpo, programmato, stimolato e guidato dal cervello nella sua esecuzione. L’atteggiamento posturale è dunque un fenomeno psicofisico che rappresenta il modo concreto di essere nel mondo (Da-sein). L’atteggiamento posturale è a monte della produzione dei gesti e dei movimenti del corpo ed ha un ruolo estremamente rilevante nel definirne gli sviluppi spazio-temporali e la loro forma. Esso dunque è “il modo di essere di base” (la forma corporea di base), in cui si raccordano istanze di natura meccanica e di mantenimento dell’equilibrio con forme gestuali di rilevanza espressiva e comunicativa, che a loro volta generano “vissuti” soggettivi psicologici protomentali di tensione-detensione, piacevolezza-spiacevolezza, leggerezza-pesantezza etc., o più esplicitamente psicologico-emozionali quali rabbia, gioia, paura etc. o preparano e modulano nella loro realizzazione comportamenti espliciti di aggressione, fuga, immobilizzazione, ricerca di contatto etc.

Ritornando a Platone ci chiediamo come in concreto si possa realizzare l’interazione tra danza parola e musica, da lui proposta per rispondere che il nodo che può intrecciare i tre livelli espressivi è costituito dalla coordinazione degli accenti presenti in ognuno dei livelli.A questo punto però diventa necessario soffermarci brevemente ad analizzare 1. la presenza ed il ruolo dell’accento nella parola e nella frase e 2. quali sono i meccanismi fisiologici che producono l’accento nella produzione vocale e se anche

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nell’ambito della vocalità, l’aumento dell’intensità sonora possa essere generata dalla dinamica motoria del “rimbalzo tonico” che abbiamo descritto.

La parola e la fraseAspetti fisiologici della prosodia

La parola è un evento sonoro complesso (significante) che ha la funzione di “rappresentare” altri eventi generando il significato. Essa è il prodotto dell’interazione del cervello, dove ha luogo una rappresentazione immaginativa programmatica, e dell’apparato di fonazione (polmoni, laringe, risonatori e, non raramente, tutto il corpo) che le dà concretezza e consistenza fisica (onde nell’aria). L’atto di decodificazione si realizza attraverso una “rappresentazione” cerebrale immaginativa del decodificante, in rapporto all’analisi fonemica e sonora della parola ed all’analisi prosodica della frase. Su questa ultima intendiamo soffermarci brevemente. La prosodia è il profilo d’intonazione di una frase, determinato dalle variazioni di frequenza, intensità, durata e dal ritmo che insieme caratterizzano la sequenza sonora.

Per quanto riguarda il riconoscimento del significato della parola, ha una funzione rilevante (anche se non adeguatamente considerata dalla letteratura scientifica) l’accento, cioè l’aumento di intensità sonora che si concentra su una specifica sillaba dandole rilevanza e prominenza sonora. In tal modo l’accento della parola assume una funzione distintiva. Provate a spostare l’accento di una qualsiasi parola e vedrete che essa diventa incomprensibile! Per es. invece di pronunciare la parola “tavolo” accentuando la “ta” accentuate la “vo”. Dunque la specifica distribuzione dell’intensità sonora svolge un ruolo rilevante nell’esperienza del linguaggio. Ovviamente la decodificazione dell’evento sonoro richiede, in chi decodifica, a livello cerebrale, la

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presenza di una corrispondente “rappresentazione” (Ruggieri e Plevi, 2009). Il gioco della distribuzione dell’intensità sonora (con la produzione degli accenti) non riguarda soltanto le singole parole ma anche l’intera frase. Siamo dunque in presenza di due “livelli” di accentuazione sonora: oltre all’accento proprio di ogni parola, c’è un accento che si applica a livello soprasegmentale. Esso, nel caso più semplice, si applica su una singola parola dell’intera frase, dando ad essa particolare rilevanza sonora. Se facessimo un paragone con una narrazione di tipo video-cinematografica potremmo dire che l’accento è l’equivalente sonoro di una zoommata, che ha la funzione di guidare l’attenzione circoscrivendola ad un primo piano o ad un dettaglio o estendendola ad un insieme più ampio, isolando o contestualizzando variamente le singole componenti della rappresentazione visiva. L’accentazione soprasegmentale è una parte determinante del gioco delle variazioni d’intensità, che caratterizzano tra l’altro la dinamica prosodica che generano, nel discorso, salienze, emergenze, sfondi sonori etc.

La prosodia alla base della costruzione del significato

In tal modo il gioco degli accenti svolge un’insostituibile funzione nella costruzione della “logica” della frase. Per logica della frase intendiamo quella tessitura che collega gli eventi rappresentati (immaginativamente), che in una dimensione cerebrale verbal-linguistica assume la forma di quella trama-griglia che chiamiamo grammatica e sintassi. Tale trama concettuale (grammatica e sintassi) assume concretezza nell’ambito della comunicazione, attraverso le modificazioni d’intensità sonora e di frequenze proprie della prosodia che “spiegano” il significato contestuale (es. soggetto, predicato etc.) degli eventi sonori (e delle

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corrispondenti “rappresentazioni” cerebrali) presenti nel linguaggio verbale. Per es. il rapporto tra proposizione principale e proposizione relativa è reso comprensibile sul piano acustico generando, per le due proposizioni, due diversi livelli d’intensità sonora. Incidentalmente ricordiamo che l’articolazione prosodica che costruisce significati ha dato luogo alla trasduzione grafica della punteggiatura, che ne riproduce alcuni elementi essenziali utili alla comprensione logica della frase. Per esempio una certa intonazione segnalata graficamente da un punto interrogativo può trasformare un’affermazione in una domanda, una sicurezza in un’incertezza. Il gioco prosodico, al di là della semantica convenzionale, agendo sulla semplice forma sonora, attribuisce alle parole un importante significato di sospensione-attesa o di conclusione. In tal modo la prosodia dà forma e significato alle pause e ai silenzi) che s’interpongono tra le parole. Una parola “sospesa” crea un’attesa che può risolversi nella parola successiva, una sonorità “conclusiva” separa una frase dalla seguente. La prosodia dunque congiunge, separa, raggruppa…E’ come se, agendo su suoni e pause, organizzasse il contesto sonoro generando significati. I significati a loro volta, proprio in virtù del gioco prosodico, si sviluppano sia nell’ambito di una dimensione cognitiva che emozionale e, in ognuna delle dimensioni, possono proporre all’interlocutore interpretazioni che interessano diversi livelli e piani di “conoscenza esperenziale”.

Ritornando dunque al ruolo dell’accento, considerate la frase “Io domani verrò a scuola”. Se l’accento è posto sulla parola “io” si sottolinea il fatto che l’azione sarà eseguita da soggetto parlante e non da altri attori. Se spostiamo l’accento su “domani”, intendiamo specificare che l’azione avverrà domani e non un altro giorno, oppure, spostando ancora l’accento, si sottintende che il parlante andrà a scuola e non altrove.

Quindi l’accentuazione di una parola nel contesto di una frase, ha la funzione di distinzione oppositiva.

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L’accento nella parola e nella frase.

E’ necessario a questo punto fare alcuni cenni alla meccanica fisiologica che produce l’accento sonoro, per poter comprendere come sia possibile coordinare l’accento sonoro della parola con gli accenti della danza e della musica.

I brevi, sommari cenni che faremo sul sistema di fonazione servono soltanto a mettere in evidenza il ruolo dei muscoli impegnati nella produzione del suono, per dimostrare che le variazioni della forza di contrazione di questo apparato muscolare, che sono alla base delle variazioni d’intensità sonora (variazioni d’intensità sonora della prosodia e dell’accentuazione), sono simili nella loro dinamica funzionale alle variazioni di forza di contrazione che ritroviamo nella percussione e nel salto. L’analisi delle similarità funzionali delle tre forme è fondamentale ai fini di una loro coordinazione ed integrazione in una unità espressiva.

Il sistema respiratorio generatore del suono e dell’accento

Ci sembra opportuno a questo punto fornire pochi cenni sulla dinamica respiratoria che è alla base della produzione del suono. L’esposizione sarà ovviamente semplificata e rivolta a facilitare la comprensione dei non addetti ai lavori. Punto chiave del nostro discorso è che l’apparato respiratorio produttore dei suoni, attraverso la gabbia toracica, è collegato funzionalmente con i muscoli di diversi distretti corporei, molti dei quali s’inseriscono sulla gabbia toracica medesima. In tal modo la gabbia toracica, oltre che nel respiro, ha un ruolo determinante di collegamento

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nella formazione degli atteggiamenti posturali e della loro dinamica.

Il suono è prodotto dall’apparato di fonazione costituito dalla gabbia toracica (assimilabile ad una specie di organetto) che contiene i polmoni pieni d’aria, collegati con l’albero bronchiale che possiamo definire un sistema di tubi, di calibro variabile, attraverso cui passa l’aria. Il sistema di tubi continua con una struttura, anch’essa in qualche modo tubolare, dove è collocato l’apparato di fonazione vero e proprio, la laringe in cui l’organo generatore dei suoni è costituito dalle corde vocali (due spesse corde muscolari ricoperte da una membrana) inserite sulla parete laringea.

Durante la fonazione le corde vocali si accostano tra loro in modo da ostruire completamente la cavità laringea bloccando il passaggio dell’aria.

La gabbia toracica è una struttura osteo-cartilaginea che può espandersi (inspirazione) o contrarsi (espirazione) modificando i suoi diametri (longitudinale, trasversale sia anteroposteriore che latero-laterale), chiusa in basso dal diaframma e su cui s’inseriscono diversi muscoli: oltre al diaframma, gli intercostali, i muscoli della parete addominale, muscoli della regione lombo-sacrale, a partire dal bacino e dalla colonna vertebrale, muscoli del collo, della scapola etc.

L’aria che durante l’espirazione è “spinta” verso l’esterno dalla contrazione di volume della gabbia toracica (assimilabile alle contrazione di volume di un organetto), supera l’ostacolo delle corde vocali accostate, esercitando su di esse una pressione che le mette in vibrazione. In tal modo si producono onde sonore nell’aria espirata che raggiungono i risonatori (per es. strutture ossee del distretto fronto-oculo-nasale) che, messi anch’essi in vibrazione, contribuiscono alla formazione del suono. L’aria espirata inoltre incontra a livello faringeo e del cavo orale una serie di brevi ostruzioni (per es. a livello delle labbra o dei denti o delle cavità

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nasali etc.) o di modificazione di percorso. In tal modo si producono le consonanti e le vocali.

L’aumento d’intensità sonora, che caratterizza l’accento, è prodotto da un aumento di pressione con cui l’aria dai polmoni preme sulle corde vocali mettendole in vibrazione. La pressione dell’aria è determinata dalla contrazione della gabbia toracica (dei suoi tre diametri), principalmente ad opera del diaframma, degli intercostali, dei muscoli della parete addominale e della regione lombo-sacrale. Immaginiamo dunque la gabbia toracica come una specie di organetto pieno d’aria che produce suoni quando i muscoli, che s’inseriscono su di essa, contraendosi riducono il suo volume. Quindi le variazioni d’intensità sonora sono legate alle dinamiche tonico-motorie dei muscoli della gabbia toracica e, come vedremo, di tutto il corpo. Sottolineiamo dunque con forza questo concetto. La dinamica della gabbia toracica legata al gioco ritmico di tensioni muscolari che, a partire da diversi distretti agiscono su di essa, s’inserisce nel più generale gioco che regola la dinamica delle tensioni posturali con la gestione-scarica-rimbalzo tonico del peso. La nostra finalità pedagogica è quella di coordinare i diversi livelli funzionali: respiro di base, postura, produzione sonora. Anche per i muscoli respiratori esistono due vie di regolazione: quella cortico-piramidale diretta e quella elastico-reflessogena indiretta legata alla gestione del peso. Pertanto a proposito di quest’ultima modalità, il lavoro psicofisiologico da noi proposto per la produzione dell’accento sia della parola e, soprattutto della frase, ha come perno il fenomeno del rimbalzo tonico, che riguarda tutto il corpo nel suo insieme, con una polarizzazione postural-corporea delle dinamiche motorie orientata verso l’apparato di fonazione (sistema respiratorio con i meccanismi motori ad essi collegati orientati ad esercitare una pressione sonora sulle corde vocali).

Per il nostro discorso estetico-espressivo è fondamentale segnalare il fatto che, in modo in tutto simile al linguaggio

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verbale, ogni frase musicale ha un suo accento. Esso non deve essere confuso con l’accento ritmico, che è ovviamente altrettanto importante! L’accento della frase musicale, in modo del tutto analogo all’accento soprasegmantale di una frase linguistica, ha un’importante funzione nel dare alla frase un’individualità che la caratterizza. Contribuendo in tal modo a costruire un significato estetico. Pertanto il nostro lavoro estetico nella danza cerca di realizzare il rimbalzo tonico in coincidenza dell’accento che caratterizza la frase musicale. In tal modo tutto il corpo partecipa della dinamica musicale. Nel rimbalzo tonico s’incontrano l’accento musicale (della frase), che coincide con l’accento di una componente della sequenza ritmica e con momenti significativi della dinamica dell’immaginario visuo-narrativo, che la coreografia intende riprodurre. Se l’immaginario narrativo è espresso anche in parole, il rimbalzo tonico, che unifica gli accenti in una coerente gestualità corporea, contribuisce a creare una significativa unità espressiva che va nella direzione dell’estetica platonica.

In conclusione in questa seconda parte ci siamo soffermati essenzialmente a descrivere alcuni processi psicofisiologici di base, su cui si può intervenire in modo adeguato in ambito artistico espressivo. Abbiamo analizzato l’espressività, sia pur sommariamente, come punto d’inseparabile confluenza di moduli organizzativi della dinamica posturale, dell’equilibrio corporeo-spaziale (visuo-posturale) e dei contesti rappresentazionali situazionali (percettivi ed immaginativi), in cui il soggetto dà forma alla sua espressività corporea. Di quest’ultimo aspetto parleremo estesamente nella terza parte di questo lavoro.

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PARTE IIISCRITTURA DI UNA SCENEGGIATURA DEL FINALE DELLA NONA E LAVORO PSICOFISIOLOGICO CON GLI ATTORIL’incontro tra psicofisiologia e pedagogia platonica.

Dice infatti Platone che quando il movimento di danza coincide ritmicamente col canto, il ritmo si rende visibile in quanto espressione dell’attività corporea. Questi due processi, canto (movimento della voce che noi definiamo andamento prosodico) e movimento-danza hanno in comune, come elemento specifico, lo schema posturale che è alla base degli atteggiamenti corporei. Noi traduciamo con il termine di schema posturale la parola greca schema, che per i nostri autori tedeschi potrebbe essere tradotto come atteggiamento corporeo, posizione, gesto figura, forma (op. citata pag. 91). Preferiamo parlare di schema posturale per sottolineare la presenza di un modulo organizzativo dei diversi livelli di attività corporea, che dà forma allo/agli atteggiamenti posturale/i.

In modo del tutto analogo al grande filosofo anche noi ci poniamo il problema di come far coincidere il movimento della danza con il ritmo della lingua e della musica, nella preparazione di una coreografia “interpretativa” della poetica beethoveniana-schilleriana, inquadrata inizialmente in un’antica liturgia bacchica. Come vedremo l’incontro tra i livelli trova unità in speciali forme di organizzazione posturale che consentono di coordinare in un unico modulo organizzativo gli accenti prodotti da un aumento di attività (muscolare e sonora) nel contesto di un gioco di tensione-scarica che caratterizzano ognuno dei tre livelli (previsione dei punti di appoggio per la scarica-rimbalzo tonico).

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Il nostro intervento, dunque, nell’ambito di questa esperienza estetico-teatrale si concentra oltre che sulla coreografia, sul lavoro specifico degli attori-danzatori su loro stessi. Si interviene sulla gestione delle proprie dinamiche psicofisiche postural-corporee, per consentire ai soggetti il massimo di libertà espressiva. Il tema pedagogico centrale è nel favorire una coerente integrazione degli schemi regolatori delle proprie dinamiche posturali abituali, in rapporto all’assunzione di moduli espressivi suggeriti dalle iconografie plastiche e pittoriche dell’antica Grecia nelle rappresentazioni delle Baccanti. Lo scopo finale della pedagogia è essenzialmente quello di costruire un’esperienza di danza che abbia un carattere di autenticità attraverso uno stretto legame tra la “meccanica gestuale” e “vissuto soggettivo” del danzatore. In atri termini non intendiamo qui “imitare” soltanto la gestualità delle antiche immagini ma di sollecitare, attraverso un intervento psicofisico, il vissuto della gioia o meglio dell’invasamento bacchico.

La possibilità che, attraverso un intervento pedagogico costruttivo sulla gestione di atteggiamenti psicofisici, si possa realizzare il nostro intento, si fonda sulla conoscenza scientifica del fatto che il vissuto emozionale “scaturisce” dall’integrazione delle tensioni corporee, che ne definiscono la forma e la qualità. Il vissuto emozionale a sua volta diviene un modulatore del comportamento espressivo stabilendo con esso uno stretto inestricabile legame. Pertanto gli elementi in causa sono 1. la rappresentazione mentale immaginativa dello schema espressivo esaminato anche nel contesto dei suoi significati. L’immaginazione programmatica individua, nella successione del gioco tensione-scarica, i principali momenti della sequenza in cui si passa dalla tensione di base alla scarica e dalla scarica al rimbalzo. 2. La concreta realizzazione del programma attraverso la dinamica corporea. 3. L’integrazione unificante, psicofisica, coerente, delle tensioni presenti nella meccanica espressiva che generano il

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vissuto soggettivo. Ognuno dei tre punti indicati richiede un lavoro specifico, che deve concludersi in una efficace integrazione.

Sui passi concreti eseguiti in questo lavoro parleremo più avanti.

Ora mettendo a fuoco i legami da noi ipotizzati tra la nona sinfonia e le radici dell’antica cultura religiosa greca vediamo come il culto bacchico sia centrato intorno al tema del rapporto libertà-controllo. Le donne trovano nell’ambito del tiaso lo spazio mentale e fisico per esprimere la propria libertà, nei limiti delle coordinate del rito ditirambico. L’esperienza di libertà sul piano fisico è legata ad un’esperienza della propria espansione nello spazio, della capacità di conquistare lo spazio occupandone dinamicamente diverse aree, rompendo sempre dinamicamente, con tutto il corpo e/o con singoli distretti, i diversi piani spaziali. Il percorso individuale di ogni danzatore ricalca le trasformazioni che hanno caratterizzato la produzione delle sculture del mondo greco in cui le rigide figure arcaiche spazialmente coartate evolvono in figure che si espandono rompendo diversi piani spaziali.

La danza è il motore di questa esperienza

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Ritorniamo dunque a Beethoven dichiarando spudoratamente

che noi abbiamo solamente applicato una sorta di video, una coreografia, che ha solo reso visibile l’architettura e l’articolazione narrativa dell’opera, che risultava “incomprensibile” a molti valenti critici musicali. Si tratta dunque di una coreografia esplicativa! Il rischio è che la spiegazione risulti troppo scolastica e pedante. La coreografia dunque non è altro che una pedissequa traduzione visiva del testo schilleriano ed assume sovente la forma di danza. Cominciamo dunque a seguire lo svolgimento della sinfonia secondo la logica di una rappresentazione.

Per questa coreografia abbiamo immaginato tre complessi figurali.

A) Il primo è costituito da un gruppo di sacerdoti dell’antica Grecia. C’è un sacerdote principale che funge da corifero che dà inizio alla cerimonia e costituisce la guida di tutto il percorso. I sacerdoti hanno la funzione di narratori. Essi trasformano in azione scenica mimando in play-back i vari interventi canori del testo di Schiller-Beethoven, prodotto dai solisti e dal coro, a cominciare dalla prima esortazione al pubblico di “anstimmen” a qualcosa di più gioioso etc. Alcuni sacerdoti hanno strumenti antichi e li usano mimando alcuni passaggi musicali (beethoveniani sul testo di Schiller), che hanno un particolare significato nel percorso liturgico.

B) Il pubblico costituito dalle Baccanti oranti che è in atteggiamento di ascolto nei confronti del sacerdote corifero e degli altri sacerdoti. Il gruppo delle donne oranti, che diventano Baccanti e si trasformano in rapporto alla narrazione beethoveniana e schilleriana (es. da baccanti diventano di volta in volta “vermi” o “cherubini dinanzi a Dio” etc.), senza peraltro mutare d’abbigliamento. Le baccanti vestono secondo

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l’iconografia delle antiche raffigurazioni ed hanno in mano un tirso.

C) La Gioia (una danzatrice che rappresenta la Gioia)

I tre elementi figurali sono indipendenti ma interagenti. Il gruppo A ha una struttura formale verticale, sacrale e compatta, è nettamente distinto rispetto alla libertà motorio-spaziale delle baccanti. In alcuni passaggi anche i sacerdoti entrano a far parte della danza mescolandosi al gruppo delle Baccanti.Cominciamo dunque.

La Schrecken-fanfare

L’esplosione di suono rappresenterebbe l’irruzione del divino nella cerimonia religiosa. Il divino impetuoso e terrifico. In un’antica liturgia sono i sacerdoti stessi che impiegano gli strumenti atti a produrre questi effetti. Compare quindi un gruppo di sacerdoti che, con strumenti musicali, aprono il rito “suonando”, imitando con trombe, tamburi, etc., la Schrecken fanfare prodotta dall’orchestra.

I sacerdoti formano un gruppo compatto che guida la cerimonia. Da esso si stacca il sacerdote- corifero (che mima l’intervento del baritono) che dichiara: “Fratelli, non con questi toni, etc.”.

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L’atteggiamento del sacerdote è quello di chi si rivolge ad un ampio gruppo di Fedeli, costituito essenzialmente da donne, in abito da Baccanti che ascolta l’esortazione del corifero e dialoga con lui. Il gruppo all’esortazione “Freude” risponde “Freude”

In lontananza compare eterea, una danzatrice che impersona la Gioia. Essa è distante dal gruppo delle Baccanti, ma trasvola leggera fino ad intrecciarsi nel suo percorso con il gruppo che intanto ha iniziato, sull’onda della Freudenmelodie, una processione diretta verso il santuario della gioia (Dein Heiligtum): “Wir betreten (noi entriamo, ebbri di Fuoco etc)”. Le oranti si muovono durante la fase processionale seguendo il canto del baritono che intona la Freudenmelodie. L’andatura è di tipo processionale con la gioia che volteggia intorno alle oranti che sono diventate, in virtù della nostra immaginazione, BACCANTI.

Dalla processione alla danza bacchica.

Cominciamo dall’immaginario della processione dei fedeli verso il tempio della Gioia, che è una traduzione moderna e psicologica di Bacco. I fedeli si muovono spinti dal desiderio di divinità. L’atteggiamento psicologico è quello di accogliere la divinità, di lasciarsi invadere dal dio. Questo atteggiamento psicologico si può realizzare anche attraverso una preciso atteggiamento corporeo: le braccia aperte ad accogliere, il torace espanso come se il dio fosse “l’aria che penetra e pervade tutto l’individuo” e contemporaneamente l’oggetto verso cui è proteso tutto il corpo del fedele. Nell’espressione del desiderio è presente

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una tensione corporea orientata verso l’oggetto stesso del desiderio che si accompagna ad un atteggiamento dinamico della gabbia toracica come se il soggetto inspirasse profondamente con la parte alta del petto per lasciarsi pervadere dal dio. Non si tratta di esibire un torace staticamente iperespanso, ma di una tendenza a produrre un ritmo respiratorio che ha il suo apice nell’espansione della parte alta della gabbia toracica che esprime il desiderio e la disponibilità ad accogliere il dio. L’immaginazione del fedele che nella processione produce questa gestualità è orientata verso l‘ipotetico incontro con la divinità. Quindi nella processione il fedele si dirige verso la divinità, come se la sua marcia fosse generata da una sorta di trazione della parte antero-superiore del torace. Ma nella marcia c’è anche l’immaginazione, e l’esperienza ad essa collegata, dell’eccitazione interiore prodotta dalla gioia (che è una scintilla che rende ubriachi, ebbri di fuoco), una sorta di ubriacatura con un incremento di eccitazione interna che, quando raggiunge il suo massimo, genera a sua volta la danza bacchica quasi a risolvere nel gesto di tutto il corpo la tensione accumulata nella marcia.

Le baccanti, man mano che procedono nel loro percorso, si caricano progressivamente di uno stato di eccitazione che, sempre ovviamente in rapporto alla musica, esploderà nella danza libera in cui, mentre si allarga la partecipazione degli strumenti dell’orchestra, tutto il coro canta la Freudenmelodie. L’effetto è quello di un’atmosfera festosa bacchica, ben diversa dalla sobria spiritualità della marcia processionaria iniziale.

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Riferimenti all’iconografia greca antica: tra Bacco e Atena

Per esprimere adeguatamente la “gestualità dinamica che è alla base del movimento di danza delle baccanti” abbiamo fatto ricorso alle rappresentazioni del mondo greco antico (vedi figure 1, 2, 3).

Figura 1Figura 2

Errore: sorgente del riferimento non trovata Di ognuna delle tre figure consideriamo la posizione e

l’orientamento del tronco (in flessione o in estensione) della testa e del collo, delle gambe e dei piedi (che sottolineano un movimento rivolto verso il basso secondo la direzione della scarica del peso o orientate in senso antigravitario verso l’alto), la posizione dei piedi in rapporto al pavimento (sospesi o appoggiati). Ognuna delle tre figure caratterizzerebbe una fase della dinamica della danza bacchica che s’incentrerebbe intorno al “rimbalzo tonico”: la figura 1 descriverebbe l’atteggiamento di preparazione alla scarica del

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peso. La figura 2 descriverebbe l’atteggiamento di momentaneo abbandono del controllo posturale, in cui la Baccante “lascia andare all’azione del peso”.

In tal modo la scarica del peso del corpo su un piede costituisce la base per la risposta antigravitaria (riflesso-elastica) dei muscoli del corpo che generano il rimbalzo tonico (del salto). La figura 3 rappresenterebbe la fase espansiva del “salto” in cui tutto il corpo si libra leggero nell’aria.

Ci sembra a questo punto interessante, per entrare nel vivo del mondo greco antico, presentare per un confronto anche un’immagine che rappresenta una dimensione spirituale in qualche modo opposta a quella di una menade invasata. In tal modo si potrà avere una visione più precisa del significato psicologico (o meglio psicofisologico) della gestione del peso corporeo. Dal volume già citato (La lettura della scrittura delle immagini dei sentimenti), rileggendo le suggestioni di uno dei due autori (Rittelmeyer, pag.15), proponiamo al lettore l’analisi dell’atteggiamento posturale di una “Atena pensosa” (vedi figura 4).

Figura 4Tanto nelle figure delle menadi che di Minerva,

l’iconografia è estremamente precisa nel rappresentare la dinamica motoria, in rapporto alla gestione del peso cui abbiamo già

accennato. Un piede della menade, come per il salto in alto, si appoggia sul terreno scaricando sul punto di appoggio tutto il peso

del corpo. Tale scarica del peso ha la funzione di generare un rimbalzo tonico. Si disegna per la baccante la V con due bracci

(discendente-scarica del peso ed ascendente-rimbalzo) che abbiamo descritto nella dinamica del salto. Il rimbalzo tonico

consente l’espansione globale di tutto il corpo, che in un gesto di leggerezza si espande nello spazio rompendo piani circostanti.

L’esperienza di libera espansione nello spazio è dunque l’elemento caratterizzante questa figura. Analizziamo l’atteggiamento della opposta iconografia di Atena perché, attraverso un accentuato

contrasto, si comprenda più approfonditamente la psicofisiologia

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della baccante. Questa figura è stata brillantemente analizzata da Rittelmeyer (2010) cui rinviamo il lettore. Noi ne sottolineiamo soltanto alcuni aspetti psicofisici importanti per la comprensione

delle dinamiche motorie.Figura 5

Al contrario della Menade, il piede destro di Atena è la partenza di un movimento di scarica del peso che non disegna una V che si espande nello spazio, ma un triangolo a vertice in alto che

sembra richiudere in se stessa l’esperienza spaziale. Il piede contribuisce a costruire la base di un triangolo isoscele i cui lati

sono costituiti rispettivamente dalla lancia e dall’asse che percorre tutta la figura disposta obliquamente. Il vertice del triangolo è

costituito dalla testa di Atena, appena leggermente flessa rispetto al resto del corpo. Il capo cinto d’elmo forma una sorta di ponte tra la figura e la lancia. Il punto di contatto tra la fronte (il pensiero) e la lancia che, sostenuta dalla mano tocca la fronte, sembra condurre il pensiero, lungo il lato del triangolo costituito dalla lancia fino alla

base. Ma quale che sia il punto di partenza, ciò che caratterizza questa figura è la circolarità della dinamica del peso (caduta e

risalita). Nel contatto della testa-mano-braccio si mette in moto il percorso circolare del peso che, nascendo dalla fronte sembra quasi

mimare il percorso del pensiero, che, attraverso la lancia, raggiunge il pavimento per ritornare attraverso il corpo, in via

ascendente, nuovamente al capo. Il muretto su cui poggia la lancia costituisce un ulteriore limite spaziale che definisce, chiudendo, il

percorso del pensiero. La figura di Atena sottolinea l’azione autoriflessiva della divinità che si chiude in un mondo di pensiero

continuamente autoriproducentesi. Ottima illustrazione della dinamica intellettuale che si svolge nel chiuso di una dimensione

interiore! Quest’analisi ci fa intendere meglio la differente condizione psicologica della baccante che è di tipo estrovertente. Ella sembra rompere gli spazi o meglio, conquistare nuovi spazi riproponendo continuamente il gesto della caduta con ribalzo. Il

movimento del tirso, tenuto dalla mano destra, sembra costituire la

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guida di un ampio movimento che, conquistando lo spazio verso destra ed in alto, determina un’ampia espansione del corpo nella

stessa direzione in un ampio gesto di estroflessione con iperestensione retroflettente presentando, sia pur superficialmente,

la dinamica motorio-gestuale della baccante. La prima figura, come abbiamo detto, rappresenta l’avvio della sequenza motoria: la baccante, accennando ad un atteggiamento globale di flessione

in avanti ed in basso, si prepara a “lasciar cadere il peso”, generando con il braccio discendente una V, orientando così la

forza peso di tutto il corpo verso il piede destro. La seconda figura rappresenta invece la scarica del peso nel contatto del piede con la

base di appoggio. In questa fase la baccante si lascia andare al proprio peso. La scarica del peso implica, quando raggiunge la

base di appoggio, il rimbalzo tonico che caratterizza la terza fase. Le tre fasi ripropongono la forma a V che caratterizza la dinamica del salto nella danza. Nel rimbalzo espansivo la baccante assume un atteggiamento di iperestensione di tutto il corpo con una forte

retroflessione del capo. Nella mano destra il tirso, nella sinistra un capretto o un tamburo. Il torace è iperespanso. Il movimento, che parte dal piede, si sviluppa dal basso verso l’alto generando una torsione del corpo verso destra. Tutto l’atteggiamento è quello

dell’invasamento bacchico. Il movimento di iperestensione retroflettente con torsione che

pervade tutta la figura della baccante, che si sviluppa dal basso verso l’alto, verticalmente, ha il suo perno-appoggio in uno dei due piedi (o il destro o il sinistro) mentre l’arto inferiore controlaterale si solleva, liberamente ed indietro, contribuendo a disegnare con tutto il corpo un ampio arco, che dal piede giunge fino alla testa e termina nel libero movimento dei capelli sciolti. Anche il movimento delle vesti ha un ruolo rilevante, insieme a quello dei capelli, nella dinamica di leggerezza e di espansione che caratterizza questa esperienza! Né si sottraggono, nel disegnare questa figura motoria danzante, gli arti superiori, braccio-avambraccio di destra e mano che regge il tirso. Il movimento, che

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partendo dal piede-perno raggiunge il capo che si retroflette, è parte strutturale di un gesto di espansione di tutto il corpo ed in particolare del torace che si completa con l’ampio movimento del tirso verso l’alto e verso l’esterno. Il tirso sembra disegnare nell’aria un movimento che corona e guida tutta la dinamica di espansiva apertura di tutto il corpo. Anche il braccio sinistro che, in una delle due figure si solleva leggero verso l’alto ed indietro, in armonia con il movimento dell’arto inferiore, concorre al disegno motorio. Come si vede l’iconografia di riferimento suggerisce una lettura del movimento delle baccanti nel senso di una “leggerezza antigravitaria” che tende ad annullare il peso del corpo (Figura 5 ).

E’ però importante sottolineare che la realizzazione di tale gestualità può risultare estremamente meccanica se non è generata da un vissuto psicofiologico del gesto nel suo prodursi. L’esecuzione dell’azione richiede per noi anche il sentimento dell’azione.

Il lavoro pedagogico per la danza

Per noi, nell’intento di rappresentare tale movimento nel contesto di una coreografia, si pone il problema di come, in concreto, produrre tale dinamica espressiva anche in rapporto al vissuto soggettivo delle danzatrici, che dovrebbero non solo rappresentare ma anche sperimentare personalmente l’esperienza della gioia (e/o dell’invasamento bacchico). I problemi sono dunque di due ordini: il primo si riferisce alla meccanica del movimento ed il secondo al vissuto emozionale ad essa legato. A questo punto noi ci siamo posti un quesito particolare. Se una determinata coreografia intende rappresentare “la gioia” con l’intenzione di suscitare nel pubblico un vissuto di gioia, come possono i danzatori realizzare questo progetto estetico-espressivo?

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Come si fa ad evitare che la dinamica motoria della gestione del peso da noi freddo meccanicismo? Nel caso in cui si richiedesse ai danzatori una partecipazione emozionale, c’è un percorso psicofisico, fatto di precisi momenti tecnico-pedagogici, che consente ai ballerini di vivere in prima persona e di trasmettere il sentimento di gioia cui cercano di dare forma espressiva? Oppure il sentimento soggettivo è affidato al caso, alla sensibilità ed allo stile emozionale dei singoli artisti? O meglio ancora, che rapporto c’è tra la forma espressiva della gioia espressa dalla danza ed il vissuto subiettivo? L’identificazione dell’attore col personaggio. Stanislavskij e Diderot.Anche in rapporto alla danza

Compare qui il tema più generale del rapporto tra identità ed identificazione proprio del dibattito ideale tra Diderot e Stanislavkij su cui ci siamo ampiamente dedicati altrove (Ruggieri, 2001). Diderot nega l’utilità dell’identificazione mentre Stanislasvkij mette in guardia gli attori dal cercare di “produrre volontariamente un’emozione”, bensì li sollecita a cercare il contesto immaginativo (affidato a piccoli atti ed anche al recupero di parti della storia personale) per far scaturire l’emozione che il personaggio intende proporre. Noi siamo d’accordo parzialmente con entrambi gli autori (vedi il lavoro citato) e condividiamo con il regista russo l’utilità di intervenire sul “contesto”, che può generare l’emozione. Ma allarghiamo notevolmente e precisiamo il concetto di contesto. Per noi oltre alla dimensione immaginativa (con le sue rappresentazioni attuali, ricordi e progetti) ed alla dimensione sociale, una parte significativa di ciò che chiamiamo contesto è costituta dal “contesto psicocorporeo concreto”. Il corpo è per noi un grande contesto che l’Io gestisce e coordina

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funzionalmente generando “l’esperienza di unità strutturale”. L’unità, come abbiamo accennato nella seconda parte di questo saggio, nasce dalla reciproca interazione di tutti i muscoli del corpo legati tra loro attraverso micro-giochi di trazione-rilassamento. In una dinamica posturale dunque i vari muscoli del corpo s’influenzano reciprocamente l’un l’altro. Questo gioco di reciproche trazioni dinamiche produce un’interazione che porta all’unificazione funzionale del corpo nella sua totalità ed è contemporaneamente alla base del vissuto subiettivo di una esperienza corporea unificata, caratterizzata da esperienze unitarie di globale tensione-rilassamento, leggerezza-pesantezza, piacevolezza-spiacevolezza. Il gioco delle reciproche interazioni muscolari toniche è a sua volta legato a concreti atteggiamenti posturali, che sono caratterizzati da specifiche distribuzioni dinamiche delle tensioni muscolari (tono) che danno forma specifica al gioco delle reciproche trazioni ed ai vissuti soggettivi corrispondenti. Naturalmente parte centrale del processo è nella relazione tra atteggiamenti posturali di base e dinamica di movimento ad essi relata. Dagli atteggiamenti posturali, dunque, emergono le diverse forme di vissuti subiettivi. L’organizzazione della distribuzione delle tensioni (muscolari) del corpo, in funzione dell’equilibrio posturale e della produzione del movimento, è alla base di pattern espressivi che hanno la doppia funzione 1. di produrre “comunicazione espressiva” (nel nostro caso la danza) e 2. vissuti subiettivi di tipo emozionale.

Abbiamo già accennato al fatto che il vissuto soggettivo, che nasce durante l’esecuzione di un movimento, è legato all’intreccio tra la contrazione muscolare isotonica (che produce il movimento) e la variazione del tono muscolare che va dall’isometria muscolare, che oppone una sorta di resistenza al movimento stesso, al rilasciamento. Nella danza bacchica tale gioco di variazione tonica assume una forma specifica.

Essa sarebbe costituita da due fasi: 1. lasciarsi andare all’azione del peso che “cade” sulla base d’appoggio e che genera il piacere

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del cedere (piacere da riduzione di tensioni) e 2. far partire dall’appoggio del piede il rimbalzo tonico, con una contrazione antigravitaria che percorre in ascesa tutto il corpo generando un vissuto di unità e di leggerezza espansiva.

L’immaginazione programmatica del movimento fa da guida all’elaborazione e realizzazione di tutta la figura espressiva. Ma l’immaginazione-guida, una volta elaborata, come un fantino su un cavallo, esercita sul comportamento una modulazione di guida-controllo indiretta, che affida gran parte dell’attività motoria a subcomponenti motorie automatizzate che costituiscono le fasi del suo processo. L’immaginazione programmatica, che “si autorappresenta” le due fasi della figura motori, ha la funzione di organizzare l’orientamento globale delle tensioni del corpo (o meglio gli orientamenti). S’instaura qui un felice gioco d’immaginazione programmatica modulante e di automatismi reflessogeni di cui abbiamo parlato nella seconda parte del saggio. L’immaginazione programmatica nell’organizzazione temporale della sequenza “prevede” anche i momenti in cui le due figure, costituite dalle subcomponenti, si devono alternare tra loro. Per esempio il momento in cui il peso del corpo cade sul piede generando il rimbalzo. In quel momento s’intrecciano le componenti immaginative della gestualità, con quelle del vissuto generato dalle sensazioni corporee. Questa interazione, che nella prevedibilità programmatica lega l’immaginazione comportamentale alla sequenza corporea di tensione-rilasciamento, è alla base dell’esperienza ritmica.

Le due fasi a componente reflessogena sono strettamente legate tra loro, poiché è il peso stesso del corpo che crea quella trazione che dà origine al rimbalzo tonico.

Le nostre baccanti passano dunque dal piacere del deliquio a quello della leggerezza espansiva. Infatti nel senso comune la gioia è legata ad un particolare sentimento di leggerezza, che coinvolge tutta l’attività muscolare dei diversi distretti corporei. La metafora

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concreta “far salti di gioia” esprime chiaramente un atteggiamento postural-corporeo che vince la forza di gravità contrapponendosi al peso.

Ma anche se non si entra nella dinamica “variazioni di tono-movimento”si possono egualmente produrre figure di danza formalmente corrette, senza però un vissuto di partecipazione soggettiva all’esperienza del piacere. Il gesto, perfetto da un unto di vista motorio, risulta freddo e meccanico.

Ciò è possibile se il soggetto mantiene il suo tono di base ad un livello di tensione costante, senza consentirgli di produrre variazioni. E’ possibile dunque sviluppare una sequenza motoria, senza variazione di tono riducendo o abolendo del tutto il vissuto soggettivo dell’esperienza motoria.

Se il tono muscolare costante è anche particolarmente elevato, il soggetto per produrre comunque dei movimenti deve impiegare una maggior forza di contrazione muscolare. Questa condizione è alla base della fisiologia dello sforzo e del suo corrispondente vissuto subiettivo che maschera il sentire (piacevole-spiacevolezza, legato alle variazioni del tono di base).

Ma per un lavoro con gli attori non basta descrivere queste condizioni psicofisiche e, in pieno accordo con Stanislavskij, diciamo che non serve a nulla dire agli attori: “sentite” la gioia, e ancor meno “riproducete una ipotetica gestualità che la rappresenta”, senza suggerire possibili percorsi psico-corporei utili per costruirla. La Gioia, dunque, per generare un sentimento diffuso di leggerezza sembra richiedere una temporanea ristrutturazione di tutte le tensioni corporee. Proprio per questo motivo si comprende come molti soggetti possano avere difficoltà nel provare gioia anche quando una determinata situazione-stimolo potrebbe facilmente evocarla, proprio in rapporto alla rigidità strutturale legata a tensioni croniche distrettuali o diffuse. Queste ultime a loro volta sono

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legate a diversi fattori psicofisici, tra cui anche l’eccesso di “controllo”.

Quindi procediamo chiedendoci:Che cosa impedisce la dinamica tono-movimento?

1. Innanzi tutto una rigidità costante del tono legata ai meccanismi di ipercontrollo. 2. la presenza di contratture (contrazioni croniche legate anch’esse ad una particolare forma di controllo sulle emozioni, vedi Ruggieri, 1988) presenti in alcuni distretti corporei, che impediscono al distretto stesso di partecipare all’operazione di “lasciarsi andare al peso (piacere da rilassamento) con rimbalzo”. Ripetiamo che il soggetto può riprodurre figure motorie senza contemporanee modificazioni di tono. Si comprende quindi come il lavoro pedagogico debba essere assolutamente individualizzato.

Si può pertanto suggerire alla interprete della baccante, dopo aver descritto in vario modo la figura motoria da rappresentare, di imparare a lasciarsi andare, in una prima fase, al peso del corpo. Tale schema motorio non è sempre facile da acquisire. In tal caso si può suggerire di imparare a percepire il peso di un determinato distretto corporeo e di immaginare di “lasciarlo cadere”. Chiedere al soggetto di immaginare di lasciar cadere le natiche può sembrare molto prosaico, ma aiuta ad educare al gioco del rilassamento tonico legato alla sequenza peso-trazione-rimbalzo. Si comincia così ad entrare nei meccanismi che sono alla base del vissuto dell’esperienza di danza.

Una delle difficoltà più frequenti è nella scarica del peso sul piede (o sui piedi). In questi casi è frequente osservare una rigidità e fissità dell’articolazione dell’anca (articolazione coxofemorale) che Stanislaskij, con felice intuizione, chiamò “balestre del corpo”. Un buon funzionamento di tali articolazioni consente una buona scarica del peso del distretto superiore (testa-tronco), attraverso il

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bacino e le ginocchia, sulla pianta del piede. Va da sé che il lavoro pedagogico passa attraverso una riattivazione di tale articolazione, che facilita non soltanto la scarica del peso (riduzione di tono antigravitario), ma anche il ripristino della tensione muscolare tonica antigravitaria dal piede alla testa. In altri casi la scarica del peso non raggiunge mai la pianta dei piedi ma si interrompe o a livello delle ginocchia o in un’altra parte del corpo. Le strategie per superare queste difficoltà sono complesse e presuppongono una certa competenza psicofisiologica su cui non possiamo addentrarci in questo contesto. Ciò cui possiamo qui accennare è che spesso tali difficoltà sono legate a vere e proprie scissioni funzionali tra distretti corporei. In questi casi i muscoli non svolgono più l’importante funzione da noi ipotizzata (Ruggieri, 2001) di ponti interdistrettuali ma producono, attraverso contratture croniche, delle vere e proprie separazioni tra distretti nella dinamica tonico-motoria. In ambito psicofisiologico clinico abbiamo dato il nome di spezzature a tali interruzioni morfo-funzionali, che impediscono l’armonica interattività muscolare tonica e contrattile interdistrettuale. Tali spezzature impediscono una buona integrazione funzionale tra i vari distretti corporei. Quindi, in questi casi, il problema con cui il coreografo-regista ad orientamento psicofisiologico deve confrontarsi, è quello di rendere possibile un’integrazione interdistrettuale che faciliti l’unità psicofisiologica di tutto il corpo. E’ in questo recuperato contesto unitario che prende forma l’esperienza integrata della GIOIA.

Un altro momento pedagogico fondamentale è nell’imparare ad avere fiducia nella propria base d’appoggio, collegando sempre più il timore di cedere con la previsione del felice rimbalzo. (Per questo ci siamo precedentemente soffermati sull’utilità dell’immaginazione programmatica, che si estende a tutta la sequenza espressiva e non solo alle singole fasi che la compongono).

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Senza timore di generalizzare possiamo dire che nella dinamica di questa alternanza è racchiusa la componente nucleare strutturale “protomentale” dei processi estetico-espressivi. Per esempio il gioco tensione-scarica diventa, in alcuni contesti espressivi, la base per il vissuto subiettivo di leggerezza- pesantezza.

E’ altresì importante sottolineare che il rimbalzo tonico che abbiamo descritto per la messa in scena della Gioia è un modulo fondamentale nell’organizzazione di tutte le forme espressive caratterizzate da alternanze ritmiche e da giochi di variazioni di accenti, sia che essi compaiano nel contesto di frasi verbali che di ritmi e melodie musicali. Tale modulo, che ci ha accompagnato durante tutto il lavoro sulla danza beethoveniana, consente di utilizzare in modo efficace gli automatismi reflessogeni presenti in tutte le forme motorie, riducendo notevolmente fatica e sforzo.

La rappresentazione della gioia è effetto e causa di un vissuto soggettivo. L’integrazione psicofisica consente l’esperienza della gioia nello sviluppo di un ampio gesto di libertà espressiva. Libertà e invasamento.Nelle mani delle baccanti volano i tirsi!

In queste due prime scene (processione e danza bacchica) è cambiata la scenografia dell’immaginario. Il percorso verso il santuario si trasforma nello spazio dell’antico bosco in cui si svolge la festa di Bacco. Nella strofa successiva lo scenario cambia.

Dalla danza bacchica all’Agape Fraterna

Le parole di Schiller ci portano nella dimensione delle relazioni interpersonali e dell’agape fraterna. E’ un’evoluzione rispetto al mondo greco antico classico! La responsabilità delle reciproche

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appartenenze e la fraternità gruppale alimentate dalla gioia! La nostra coreografia a questo punto disegna una serie di azioni.

I singoli fedeli si guardano in giro alla ricerca di un compagno. La ricerca esita nell’incontro segnalato da mani che si “afferrano reciprocamente ad indicare la reciproca appartenenza”. Ma da questo gesto i danzatori convergono nel gruppo, per onorare il testo che dice “chi ha avuto una dolce donna, chi anche solo un’anima può chiamare sua…”

E infine c’è qualcuno che cerca invano, senza riuscire a trovare un partner, e deluso, si “allontana piangendo”. Nella strofa successiva lo scenario cambia ulteriormente.

Tutti gli esseri bevono Gioia dal petto della Natura

Inizialmente compare la “gioia danzante” che sparge petali di rose (traccia rosea). I danzatori, immediatamente prima del suo arrivo sono divisi in gruppi: un gruppo di litigiosi (che mimano comportamenti aggressivi e di lite) ed un gruppo di “buoni” che mimano dolci abbracci reciproci. Alla comparsa della “Ballerina-Gioia” tutti i membri dei due gruppi, come affascinati da lei, interrompono la loro “azione” e la seguono.

“La gioia”, la ballerina che rappresenta la Gioia lancia loro baci e grappoli di uva (tema bacchico-cristiano). I danzatori lanciano tra loro i grappoli d’uva ricevuti dalla “gioia” e si lanciano baci.

Le baccanti e i fedeli sono esseri umani che “bevono gioia” (mimano!) dal petto della natura.

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Tutti lanciano grappoli d’uva e si tesse una rete di tralci intorno ai danzanti.

La metamorfosi: da vermi a cherubini

A questo punto si sviluppa un’azione particolare: i danzatori mimano gli atteggiamenti (fantasiosi) dei vermi (“anche al verme è stata data la voluttà”) e progressivamente si trasformano da vermi in cherubini. La metamorfosi da verme a cherubino, seguendo la musica, deve essere molto armonica ma anche molto veloce. La figura del cherubino nasce progressivamente dal “verme” per cui, da un’atteggiamento di introflessione umile (alcuni danzatori, per rappresentare il verme, strisciano per terra), le baccanti alzano progressivamente il capo, si ergono nella figura, prendono coscienza del proprio valore e si pongono “dinanzi a Dio”.

L’atto di preghiera iniziale delle baccanti, che aspettano l’invasamento di Dio, si è trasformato in una “partecipazione narcisistica esaltante” e positivamente orgogliosa dell’esperienza di Dio. Bacco ha acceso il percorso ma, dall’esaltazione bacchica e dalla gioia, grazie alle note beethoveniane, l’umano si presenta dinanzi al Dio della gloria, quasi a rispecchiarne la grandezza. Il movimento di apertura delle braccia che si allargano, esprime il sentimento di grandiosità espansiva delle danzatrici. Si tratta di un’espansione narcisistica di chi, in rapporto alla propria crescente consapevolezza, tende a superare progressivamente i propri confini. Le baccanti si pongono di fronte al pubblico in un’ampia fila. Le braccia aperte che, in rapporto alla musica, ad ogni ripetizione del testo musicato, si estendono retroflettendosi

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progressivamente: “il cherubino sta dinanzi a Dio”, dinanzi a Dio (ulteriore aumento di ampiezza), dinanzi a Dio (ulteriore estensione della braccia con vibrazioni di braccia-mani pronunciando “Di-i-i-o”!) L’estensione delle braccia con retroflessione comporta anche una espansione della gabbia toracica nella sua porzione antero-superiore. L’uomo trasformato da verme in cherubino partecipa dunque alla gloria di Dio.

La marcetta popolar-rivoluzionaria. 6/8 assai vivace.

Subito dopo l’esperienza narcisistica della gloria divina, la musica ci riporta sulla terra attraverso una marcia di festa popolare, che riecheggia ironicamente una musica da rivoluzione francese (del tipo “allons enfants” o “ça ira”). Dopo la marcia le baccanti-oranti ed i sacerdoti del mondo greco antico, che avevano assunto l’aria di allegri rivoluzionari, si trasformano progressivamente in astri solari che volano nello splendido piano del cielo. Ancora una volta gli oranti sono esortati a percorrere la propria strada come “eroi verso la vittoria”.

Dunque questa fase inizia con una briosa marcetta guerresco-rivoluzionaria. La nostra coreografia sta al gioco allusivo. Le baccanti che marciano a suon di musica hanno indossato uno spiritoso basco ed hanno trasformato i tirsi in immaginari fucili o lance, che muovono orizzontalmente in senso antero-posteriore a rinforzare il ritmo di marcia. Il solista (sacerdote), ad un certo punto, esorta con: “Froh! Felici, come soli percorrete fratelli la vostra strada, nello splendido piano del cielo, correte come un eroe alla vittoria”.

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Alla prima esclamazione “Froh” le Baccanti lanciano in aria, in segno di giubilo, il loro basco. Poi ad accentuare la loro trasformazione in soli, tirano fuori lentamente dalla cintura (ovviamente nel contesto ritmico della marcia) dei drappi di seta di colore giallo e arancio. Queste stoffe appaiono come soli (macchie di colore), che si espandono e sono mostrati al pubblico. Questa prima “presentazione” fatta dalle baccanti in fine di marcia, immediatamente dopo aver deposto i tirsi-lancie-fucili, è poi seguita dalla corsa delle stesse baccanti per la propria strada. Ma il testo dice, froh (felici) come soli che volano. I drappi gialli e arancio tenuti “leggeri” dalla mano di ogni baccante in corsa, mimano l’effetto del vento; indicano la direzione della corsa. Intanto contemporaneamente alcune baccanti srotolano delle lunghe stoffe azzurre, creando un lungo piano cromatico che segna la strada celeste seguita dalle baccanti nella loro corsa. Nella nostra coreografia abbiamo utilizzato due stoffe di diverso colore azzurro ad individuare i diversi percorsi del cielo. Il passaggio successivo di questa variazione è nella trasformazione dei “soli” in “eroi verso la vittoria”. E qui abbiamo fornito, nella forma della coreografia, un’interpretazione che è solo in parte in accordo con le osservazioni della più avveduta letteratura interpretativa musicologica citata da Mila, primo fra tutti Romain Rolland. Secondo questi autori alle parole Sieg (vittoria) ed Held (eroe) scatterebbe in Beethoven una sorta di riflesso condizionato, evocatore di immagini di guerra e di battaglia, per cui, la fase immediatamente successiva, puramente orchestrale, con la sua inquietudine “motoria”, alluderebbe appunto ad una situazione di battaglia.

Gli autori, non privi di fantasia, arrivano addirittura a vedere persino i “pennacchi dei soldati” che si agitano nello scontro

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bellico. Questa interpretazione ci sembra però non essere coerente con l’interpretazione “globale”, che anima il testo schilleriano, che sottolinea il passaggio dal verme al cherubino e che poi, rivolgendosi ad ipotetici ascoltatori (che noi interpretiamo come fedeli di una liturgia), li esorta a diventare felici come dei soli che a loro volta diventano eroi che vanno verso la vittoria. Le baccanti, trasformate in “soli”, dopo aver percorso la loro via ,si dispongono tutte frontalmente verso il pubblico (come nella situazione dei cherubini) e, seguendo la musica, proclamano la loro gloria allargando progressivamente le braccia in un’enfasi di autocompiacimento. Si tratta ancora una volta di un eroismo che si nutre di una gloria narcisistica, in tutto simile a quella dei cherubini. Essa si pone al termine di un’esaltante percorso di gioia, percorso non da soldati ma da astri celesti. Scompare qui il titanismo doloroso beethoveniano, quello che si trova sempre a scontrarsi col limite prodotto da un avverso destino. La gioia, introiettata (froh, felice; freudig gioioso) ha compiuto questo miracolo: di superare il vissuto del limite, collocando immaginativamente gli umani esplicitamente in uno spazio celeste (negli splendidi spazi del cielo) dove corrono come soli.

Il fugato orchestrale. Settimo passaggio, esclusivamente orchestrale

Per comprendere la coreografia di questo passaggio chiediamo al lettore di ritornare a leggere quanto scritto precedentemente, a proposito del 7° passaggio, in cui abbiamo argomentato circa la nostra concezione secondo cui i fedeli, ed in particolare le baccanti, trasformate in eroi verso la vittoria, entrerebbero a far parte dell’universo stellare, divenute esse stesse degli astri rotanti

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che danzano nello spazio celeste. In questa fase si ha la composizione in un unico quadro dei diversi soggetti tematici. Lo spazio immaginario, per accogliere i diversi temi (musicali e rappresentazionali), deve essere molto ampio. Lo spazio celeste è il grande contenitore…aperto. E’ nel firmamento che s’intrecciano infatti contemporaneamente diverse forme di danza, generando degli effetti che potremmo definire pirotecnici. Un primo soggetto (chiamato da Mila controsoggetto o contrappunto) è tratto dalla melodia principale nella sua forma giambica in 6/8 (ta-tàn), il secondo è costituito da quello che abbiamo chiamato della tarantella. Il contrappunto compare una battuta dopo la tarantella ma esso è, secondo noi, il motore acustico da cui origina il movimento e la rotazione delle sfere celesti (nella forma delle baccanti danzanti). Pur avendo uno sviluppo in forma di marcia, l’inizio così marcato, fa l’effetto di una rotazione che le baccanti riproducono in forma di veloci rotazioni su se stesse (soutenue), più volte ripetute in rapporto alla musica (ta-tan), che si concludono con un passo di marcia: ta-tàn, ta-tàn, taràn tarà tà. L’inizio della dinamica degli astri rotanti prodotto in “fortissimo” da clarinetti, corni e secondi violini, che compare immediatamente dopo il finale del coro, ha una caratteristica forma giambica “taràn”, che ha acceso nel coreografo l’immagine di una velocissima rotazione su se stessa della baccante-ballerina, che con tale “soutenue” sembra costituire una specie di motore-volano che mette in moto le diverse danze che, in rapporto ai diversi temi ritmico-melodici, si sviluppano “nella sfera celeste”. L’intreccio dei soggetti è così rapido e vertiginoso che talvolta, nel gioco delle ripetizioni, sembra che sia la stessa tarantella a nascere dal soutenue. Questa fase è stata chiamata impropriamente “fugato” per l’intreccio e l’alternarsi continuo dei soggetti tematici. In questo vertiginoso contesto musicale anche frasi di passaggio promuovono interessanti figure coreografiche. Per es. alcune danzatrici si pongono in fila frontalmente e, in rapporto all’ostinato della musica, giocano a scambiarsi di posto mentre le ballerine di

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un altro gruppo, una dopo l’altra ruotano su se stesse. Siamo dunque ben lontani dalla Grecia antica di cui restano remote eco. Ritornano i sacerdoti e ricompare la liturgia antica.

Questa danza vertiginosa si conclude con un ben evidente intervento dei fiati (oboi, fagotti e corni in d) che, interrompendo la danza celeste, ci riporta sulla terra. Immaginiamo che siano i sacerdoti, che con “l’uso liturgico” dei fiati, richiamano l’attenzione dei “fedeli” e sollecitano la continuazione dell’azione liturgica. Da qui nasce un momento meditativo, di introspezione che è seguito da una nuova esplosione della Freudenmelodie, cantata dal coro e sostenuta degli archi che ripropongono la forma di giga.

Quindi il passaggio precedente, che noi abbiamo interpretato come “danza cosmica”, è bruscamente interrotto dall’intervento dei flauti, che sembrano richiamare l’attenzione degli astanti. Secondo la nostra interpretazione, ci sembra che questo passaggio indichi il ritorno dei sacerdoti dell’antica Grecia, temporaneamente oscurati dall’orgia sonora della danza cosmica. Oboi, fagotti e corni hanno l’evidente ruolo di un forte richiamo alla meditazione introspettiva, un ritorno alla terra, per riprendere il percorso religioso (terreno) di ricerca interiore.

La riflessione interiore è poi seguita, sollecitata dal coro all’unisono, da una ripresa festosa della Freudenmelodie, che sboccia in una corrispondente danza bacchica. Gli archi accennano a nostro avviso ad una danza di tipo irlandese. Per cui: sulla scena, mentre alcune baccanti danzano la Freudenmelodie, altre formano

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una serpentina in fila indiana, che danza la musica irlandese che si snoda attraverso il gruppo delle baccanti!

Andante maestoso 3/2. Siate avvinti o milioni.

In questo nuovo contesto si ergono di nuovo le voci esortanti. E’ il coro (iniziano tenori e bassi seguiti da soprani e alto) che questa volta dice: “Siate avvinti o milioni”. L’esortazione, secca ed intensa fatta dalle voci maschili, è seguita da una ripetizione dolce leggera ed emozionalmente intensa delle voci femminili del coro che sembra essere, nella ripetizione, una sorta di “risposta” all’esortazione iniziale. Pertanto questo passaggio è stato interpretato da noi come costituito da un dialogo in cui si esorta (voci maschili) ed a cui si risponde nella ripetizione (voci femminili) evocando una risonanza interiore delle parole di esortazione. Figurativamente abbiamo tradotto l’immaginazione emozionale della risposta in un dinamico intreccio di corpi che mima l’avvinghiarsi richiesto, che produce un grande abbraccio universale. Abbraccio che si completa con un bacio immaginato a tutto il mondo suggerito dal testo schilleriano.

Vi prostrate?NOOltre la tenda delle stelle.

Nella logica del dialogo tra sacerdoti e baccanti, “i sacerdoti” continuano rivolgendosi agli astanti (in primis alle baccanti, ma

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anche al pubblico degli ascoltatori): “Fratelli, oltre la tenda delle stelle deve abitare un buon padre.”

S’inseriscono anche qui i soprano e i contralto ad accennare ad una sorta di eco interiore, come risposta meditativa e consapevole all’indicazione sacerdotale. I sacerdoti, nella nostra coreografia, indicano la volta celeste verso cui si rivolge l’attenzione delle baccanti. L’indicazione beethoveniana circa la componente mistico-religiosa di questo passaggio è netta: “adagio ma non troppo, ma divoto”.

In questo contesto, tutto il coro all’unisono pone agli astanti una sorta di domanda “Vi prostrate o milioni”. Le baccanti mimano a questo punto l’azione dell’inginocchiarsi e prostrarsi. La successione delle parole pronunciate “stuerzt” e “nieder” formano quasi uno scalino sonoro che fa da sfondo all’inginocchiarsi in due tempi delle baccanti.

I sacerdoti continuano dicendo: “intuisci la presenza del tuo creatore, mondo? Cercalo oltre la tenda delle stelle, oltre le stelle egli deve abitare”. Già alla prima frase (“intuisci etc.”) le baccanti prostrate, cominciano lentamente a guardarsi intorno come se cercassero il loro creatore. Quando i sacerdoti dicono di cercarlo oltre le stelle, le baccanti, disposte in cerchio, prostrate, con i tirsi rivolti verso il centro del cerchio, cominciano lentamente, come attirate da una calamita, dopo aver sollevato il capo, ad alzarsi, erigendosi progressivamente e dirigendo il proprio corpo ed i tirsi verso l’alto e verso un ipotetico centro, posto “oltre la tenda delle stelle”. Il movimento delle baccanti riproduce coreograficamente la ricerca del divino oltre la tenda delle stelle. La tensione convergente accentuata dal movimento, in lenta tensione, dei tirsi verso un punto centripeto della volta celeste, sembra quasi riprodurre la costruzione, ad opera delle baccanti, di una cattedrale gotica. (vedi foto). La tensione massima, che produce un

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movimento verso l’alto, è raggiunta dopo che il coro ha terminato e resta solo un tremolo con una sola nota “alta” degli archi. La musica favorisce dunquel’immagine di tensione verso l’alto. Il tremolo, a nostro avviso, allude chiaramente all’esperienza “oltre”, oltre la tenda verso la divinità. Da un punto di vista psicologico le baccanti sperimentano un complesso percorso spirituale, che dall’antica Grecia le porta verso i lidi di una religiosità propria del teismo settecentesco.

Fugati. Il riepilogo delle diverse esperienze del percorso liturgico religioso. Allegro energico, sempre ben marcato 6/4.

L’andamento è quello di una marcia con passo ben marcato. La marcia sottintende un percorso psicologico verso una meta.

In questa fase, detta dei Fugati, assistiamo alla riproposizione, in sequenza, dei principali temi dell’esperienza presentati. Ogni sequenza, costituita dalla successione di più temi, è presentata, nella forma sfalsata di un fugato, da quattro diverse voci che corrispondono ai bassi, tenori, contralti e soprani. Noi abbiamo immaginato che ognuna delle voci sia come generata da una sorta di sollecitazione sacerdotale. Beethoven a questo punto sembra essersi posto il problema di come unificare in un’unica tessitura psicologica i diversi livelli di esperienza mistico-religiosa: 1. La partecipazione orgiastica all’invasamento del divino, sintetizzata nell’esaltazione gioiosa, che ha assunto la forma di danza bacchica e si sviluppa in un movimento di marcia (“andare verso” la propria autorealizzazione). 2. L’abbraccio universale costituito, però, da

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un’intensa partecipazione fisica che caratterizza l’atto dell’abbracciare (“siate avvinti”), che è la base di un’espansione psicologica di tensione d’amore verso tutto il mondo (“questo bacio a tutto il mondo”). Il punto 1. sottolinea più elementi dell’esperienza: invocazione alla gioia in quanto “figlia dell’Eliso e scintilla divina; noi entriamo ebbri di fuoco nel tuo santuario” ed il punto 2. si caratterizza per i due passaggi dell’intreccio e del bacio. Le articolazioni musicali del testo schilleriano formano la base per un meraviglioso intreccio fugato, sostenuto dall’alternanza dei temi in ognuna delle 4 voci del coro. La nostra coreografia ripropone visivamente ognuna delle figure di musica e testo dando visibilità al fugato musicale per tutta la sua esposizione. I temi sono presentati, in modo sfalsato, da ognuna delle quattro voci soliste. Nella nostra coreografia si sono così formati quattro gruppi di danzatori. Ogni gruppo è capeggiato da un sacerdote antico (che si assume anche il ruolo di “mimare” la corrispondente voce: soprano, tenore, basso, contralto). Ogni tema musicale, diretto testualmente dal sacerdote, ha una sua ben precisa figura coreografica, che ogni gruppo esegue in successione. Le diverse figure che compaiono in ogni gruppo sono sfalsate tra un gruppo e l’altro. In pratica la coreografia traduce, con estrema precisione sul piano visivo (del movimento visivo), l’intreccio sonoro dei temi musicali. Questo riepilogo effettuato da Beethoven di tutto il percorso spirituale, indica che i diversi livelli di esperienza spirituale, tra loro così ben individuati e distinti, entrano a far parte di una grande esperienza psicologicamente integrata, in cui le singole componenti non perdono la loro individualità nella nuova acquisita complessità. E’ come se Beethoven intendesse sottolineare la presenza contemporanea dei diversi livelli funzionali dell’Io con stati di coscienza ben differenziati. Nei fugati Beethoven non aveva incluso la sollecitazione sacerdotale a non prostrarsi ed a cercare il proprio creatore oltre la tenda delle stelle. Questa parte (esortazioni sacerdotali) appaiono immediatamente dopo i fugati a completare il “riepilogo delle

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esperienze”. Qui frasi inizialmente frammentate confluiscono in un unisono del coro che converge sulla ricerca del padre oltre le stelle! Il recupero dell’interiorità che si unisce alla proiezione verso “l’alto”, oltre le stelle, di tutte le creature forma un forte legame mistico.

Allegro ma non troppo.

Nel movimento successivo in 2/4, dopo un’allegra introduzione

dei violini e delle viole, le baccanti, sotto la guida canora dei sacerdoti coriferi, danno vita ad un’allegra danza. Cominciano tenori e bassi a pronunciare la frase “Gioia, figlia dell’Eliso” (freude tochter aus Elisyum), seguiti poi da contralti e soprani. La frase è ripetuta dalle due coppie di cantanti, come una staffetta e prosegue, pronunciando “Deinezauber..” (le tue magie, le tue magie…) “binden wieder” (nuovamente legano) “was die mode streng getailt” (ciò che la moda ha separato). Il gioco dei cantanti sembra accendere, tra le baccanti, la gioia che, come una scintilla magica, si diffonde da una parte all’altra del gruppo. Questo processo esita con la fratellanza universale (alle menschen werden brueder), dove al librarsi della dolce ala tutti gli uomini diventano fratelli. Pertanto il movimento dell’ala mossa concretamente dalla “ballerina-Gioia” è sostenuto da un gioco musicale di terzine che compaiono, in modo sfalzato, in corrispondenza della ripetizione del testo. Questo movimento termina in un avvolgente e dolce unisono, che si realizza vivamente in un caldo abbraccio evocato dallo sfiorare dell’ala. Sottolineiamo ancora che il nome “gioia” rimbalza nella danza delle ballerine-baccanti, che dapprima isolatamente, e poi a piccoli gruppi, riprendono, nel “grido” di

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gioia il salto antico della Freudenmelodie. Si alterna il “Tochter aus Elisium”. Le baccanti si alternano nel formare gruppi di 3 alludendo quasi all’iconografia della Primavera botticelliana. E’ la ballerina che rappresenta la Gioia che accende, in successione le triadi delle baccanti. Poco dopo la musica ed il testo insistono ripetutamente sulle magie, sugli incantesimi della Gioia. La Gioia infatti crea un condizione quasi magica che “lega” nuovamente ciò che la moda ha separato. In questa riproposizione del testo iniziale da cui ha preso le mosse la processione nella antica Grecia, alla fine di un lungo percorso spirituale, sono implicitamente presenti tutte le fasi dell’esperienza vissuta. Nell’esaltazione gioiosa acquista un nuovo senso la ricomposizione dei legami interrotti dalla moda. E’ questo un punto su cui Beethoven si sofferma a lungo a meditare. La coreografia deve sottolineare il separarsi ed il ricomporsi dei legami che si stabiliscono tra gli umani (le triadi delle baccanti si unificano ad altre triadi e successivamente si riseparano), per giungere ad una finale “confluenza” in un unico grande abbraccio di tutte le baccanti alla proclamazione sacerdotale: “tutti gli umani”, “Alle Menschen” ripetuto più volte. Il grande abbraccio è costituito da un semicerchio in cui ognuna delle baccanti, col volto rivolto al pubblico poggia le braccia a destra e a sinistra della vicina e lancia baci “a tutto il mondo”. Il semicerchio delle baccanti produce dei movimenti, seguendo il ritmo di marcia, di avanzamento e di apertura espansiva verso l’intero (ganzen welt) mondo. La ballerina che rappresenta la Gioia, dopo aver acceso le scintille nei piccoli gruppi, tenendo in mano un’ampia “ala” sfiora dolcemente il gruppo, quasi a formare il collante che unisce gli umani (Fratellanza). “Gli umani quindi diventano fratelli dove si libra la tua dolce ala”.

E qui musica, testo e coreografia mettono in scena un lirico movimento dell’ala della Gioia che ricompare nuovamente

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sfiorando le baccanti, che si erano disperse dopo l’abbraccio precedente, per produrre un grande unitario abbraccio universale.

Poco allegro stringendo il tempo, sempre più allegro.

“Il sempre più allegro, stringendo il tempo” richiesto da Beethoven sembra riproporre, in crescendo, l’eccitazione della Gioia (che riecheggia l’invasamento bacchico). L’azione è sempre suggerita da esortazioni sacerdotali, che legano la fratellanza alla ricerca del buon padre che abita oltre le stelle. La bellezza estetica di questi ultimi passaggi è nell’interazione fra “eccitazione gioiosa”, fratellanza ed apertura verso l’intero mondo. Il capolavoro è nell’annodare in un unico vissuto situazioni psicologico-emozionali, che normalmente richiedono atteggiamenti distinti. La consapevolezza del divino oltre le stelle, che in questo percorso dovrebbe essere entrato a far parte delle sicurezze psicologiche del “fedele”, dà la forza per potersi espandere in un grande abbraccio ed in un bacio a tutto il mondo. Ma Beethoven sembra essere ancora preoccupato del fatto che l’esperienza religiosa teista, che può fungere da radice dell’amore universale, si dimentichi della forza magica della Gioia. Dopo la riproposizione di abbracci e baci verso il mondo, prodotto da un corale abbracciarsi delle baccanti che avanzano progressivamente verso gli spettatori (marcia verso: l’umanità in marcia con apertura verso il mondo), esplode, con un finale puramente strumentale, l’esaltazione gioiosa pura, l’orgia bacchica. Le baccanti, che hanno sostituito i tirsi con bacchette alla cui estremità sono applicati nastri di vario colore, si scatenano in una vertiginosa danza scomposta e senza regole agitando nell’aria le bacchette in un movimento multicolore.

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Il tragico ancorché catartico pessimismo greco antico è stato sostituito dall’ottimismo beethoveniano, più vicino alla nostra sensibilità. Il titanismo doloroso ha scoperto nella corporeità dell’esperienza della gioia il valore che fornisce la base per la fratellanza universale, grande, enorme, ambizioso progresso dell’umanità.

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Si ringraziano per la preziosa collaborazione il Dott. Gaetano Persico, la Dott.ssa Antonella Albano e la Dott.ssa Maria Antonietta Nastri.

CopertinaProgettazione: Vezio RuggireiRealizzazione grafica: Piergiorgio Moresco

È vietata la riproduzione, anche parziale o a uso didattico, con qualsiasi mezzo effettuato, compresa la copia non autorizzata.

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