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Ninfa dolce ninfa

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Racconto di un idillio, di Stefano Curreli

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Non sapevo il suo nome, tantomeno ne conoscevo la voce, ma gli sguardi fulminei e innocenti di quegli occhi disegnati con maestria su un viso ad arte che ogni tanto incrociavano i miei scompigliarono tutti gli spiriti che mi abitano. Ero da poco arrivato a Firenze, tre settimane al massimo – il tanto di organizzare la mia stanza e di imparare la strada da casa mia alla facoltà; ero ancora disorientato. Le lezioni erano iniziate da appena una settimana, e avrei giurato su Dio che prima di allora non l’avevo ancora vista in quell’aula. Mi ricredetti quando il giorno che la vidi per la prima volta disse ad una collega che le prime due lezioni le aveva trovate pesanti, e che man mano che passavano i giorni stava iniziando però, per fortuna, a prendere un buon ritmo. Questo succedette pochi minuti dopo che la notai, non appena la docente di cinema russo ci concedette una pausa, e appena uscita dall’aula tutti si distesero e chiacchierarono un po’; alcuni uscirono dall’aula per andare a prendersi un caffè alle macchinette automatiche o per andare a fumare. Mi girai come si fa delle volte per vedere chi ti stava a fianco un’intera ora, e a meno di due palmi dal mio viso si presentò alla mia vista un’ineffabile bellezza. I nervi mi tremarono tutti. Rimasi bloccato, come quando l’aria diventa solida in gola e t’interrompe il respiro, il tempo e i pensieri. Fossi Dostoevskij o chissà quale maestro del dettaglio

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starei ora qui a disegnarne ogni linea del viso con parole, meticolosamente, e a cercare di indagare su quello sguardo che, senza troppi riguardi, mi sfiorò, e poi ci riprovò ancora, e poi un’altra volta ancora. Ma anche se, sventuratamente, un pittore del dettaglio non sono, cercherò comunque di dare un’idea al lettore di quale ninfa mi affiancava, benché a parole – armi in questo caso impotenti – è impresa assurda potermi soltanto avvicinare a un’idea del genere. Ogni suo gesto era musica mai sentita prima. E non parlo di chissà quali acrobazie, ma di impercettibili movenze; mani sui capelli come pettine di Ginevra – il tuo Lancillotto è in trance. Le labbra s’arricciavano su un viso di seta. Per non parlar delle sue forme angeliche che quasi uscivano dagli indumenti meticolosamente vagliati. L’equilibrio delle linee che la disegnavano era algebra visiva. Pareva soltanto un Dio essere stato in grado di averla creata. Non mi parlò, solo mi incrociava lo sguardo, delle volte, col fare di chi timido lo è ma in quel momento se ne ravvede bene di sentirsi tale, poiché sa di essere grazia smisurata e quindi immune a certe nudità. Da quel dì mi si è fermato il tempo innanzi. E sono lì, come sciocco deturpato dall’amore, a domandarmi combattuto se cruciarmi al mio silenzio o se fermarla per parlarle, alla fine di una di queste ore bradipe, negli anditi e nei meandri che ci hanno fatto incontrare.