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Narrativa 72

Mi ricordo di te

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Si sentì un fruscio e la vegetazione secca davanti a loro scricchiolò, come calpestata. Gli altri non sembravano aver notato niente, ma Katrín non poté fare a meno di pensare che non fossero da soli, lì a Hesteyri.

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Narrativa

72

Yrsa SigurdardóttirMi ricordo di te

Traduzione di Silvia Cosimini

www.ilsaggiatore.com (sito & eStore) Twitter @ilSaggiatoreEd Facebook il Saggiatore editore

© Yrsa Sigurðardóttir, 2010 This book is published by arrangement with Literary Agency Wandel Cruse, Paris

Opera pubblicata con il contributo del Fondo Islandese per la Letteratura.

© il Saggiatore S.p.A., Milano 2012 Titolo originale: Ég man þig

Mi ricordo di te

Questo libro è dedicato ai miei adorabili suoceri, Ásrún Ólafsdóttir og Þórhallur Jónsson.

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Le onde dondolavano la barca avanti e indietro con un ritmo in cui era impossibile distinguere una sequenza. La prua oscillava pigramente su e giù, e ogni movimento più deciso agitava la barca fino a farla beccheggiare vigorosamente sui lati. Il capi-tano era impegnato ad assicurare la barchetta all’esile bitta d’ac-ciaio, ma pareva che il pontile consumato dagli agenti atmosfe-rici si divertisse a scansarsi di continuo. Con calma ripeté più e più volte gli stessi movimenti, allungò la cima sfilacciata verso l’ormeggio, ma ogni volta che il cappio stava per infilarsi al suo posto sembrava venisse strattonato. Tutto portava a credere che il mare stesse prendendosi gioco di loro, dimostrando chi co-mandava sul serio. Alla fine l’uomo riuscì ad assicurare la barca, ma non era chiaro se le onde si fossero stancate di canzonarli, oppure se l’esperienza e la pazienza del capitano avessero avuto la meglio. Si rivolse ai tre passeggeri e disse, in un tono del tutto privo di espressione:

«Prego, ma attenti al gradino.» Indicò con un cenno del mento le casse, le borse e gli altri bagagli che avevano portato con loro. «Posso aiutarvi a scaricare questa roba dalla barca, ma non a metterla al riparo in casa, mi spiace.» Aguzzò la vista e scrutò la superficie del mare. «Mi pare più sicuro spicciarsi a tornare indietro. Avrete tutto il tempo per occuparvene da soli, dopo che me ne sarò andato. Dovrebbe esserci una carriola, da qualche parte.»

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«Nessun problema.» Garðar sorrise debolmente all’uomo ma non parve disposto a darsi da fare per scaricare la barca. Indugiò sui suoi passi e sbuffò con foga. Guardò verso la terraferma, dove si potevano distinguere alcune case al di sopra della bat-tigia. In lontananza si intravedevano altri tetti. Il tenue chiarore invernale scemava velocemente anche se era passato da poco il mezzogiorno. A breve sarebbe calato il buio totale. «Non si può certo dire che sia l’atmosfera di una metropoli» disse cercando di apparire di buon umore.

«No. Cosa si aspettava?» Il capitano non nascose il proprio stupore. «Credevo foste già stati qui. Magari volete rivedere i vostri piani? Non fate complimenti se pensate di tornare in-dietro con me, naturalmente sarebbe gratis.»

Garðar scosse il capo e sembrò evitare di guardare Katrín. La donna tentò inutilmente di incontrare i suoi occhi per poter an-nuire, o fargli capire in qualche altro modo che era più che di-sposta a tornare indietro. Non era mai stata entusiasta quanto lui per quell’avventura, ma nemmeno si era mai mostrata pale-semente contraria. Invece si era lasciata trasportare, si era fatta inghiottire dal suo interesse sincero e dalla certezza che tutto sarebbe andato secondo i piani. Ma ora che pure lui dava qualche segno di cedimento, anche la sua convinzione sembrava svanire. Adesso le pareva una certezza che quel progetto sarebbe finito, nel migliore dei casi, in un fiasco totale, ma scelse di non pensare affatto a cosa sarebbe potuto accadere nell’eventualità peggiore. Vagò con lo sguardo verso Líf che si aggrappava al parapetto in cerca di un equilibrio che era rimasto sul molo di Ísafjörður. Era del tutto svigorita dopo aver lottato con il mal di mare per gran parte della traversata. C’era ben poco, in lei, adesso, che ricor-dasse la donna spavalda che aveva voluto a tutti i costi unirsi a loro per quel viaggio e ignorare le esortazioni alla cautela da parte di Katrín. Perfino Garðar era diventato l’ombra di se stesso; mentre si avvicinavano alla riva si era attutita l’irreale temerarietà che lo aveva caratterizzato durante i preparativi. Nemmeno Katrín, ovvio, stava meglio, seduta sul sacco di legna da ardere, e non vedeva l’ora di potersi alzare. L’unica differenza tra lei e gli altri due era che non aveva mai bramato molto quella

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trasferta. L’unico passeggero che sembrava impaziente di sbar-care era Putti, il cagnolino di Líf, che si era rivelato un ottimo cane da barca al di là di ogni previsione.

A parte lo sciabordio delle onde, regnava un silenzio totale. Come poteva esserle passato per la mente che potesse funzio-nare? Loro tre, da soli in pieno inverno in un paesello disabitato del Nord, in culo al mondo, senza elettricità e riscaldamento e solo un tratto di mare come unica via di fuga. Se fosse accaduto qualcosa avrebbero dovuto cavarsela completamente da soli. E adesso che si trovava davanti al fatto compiuto, Katrín sapeva che nessuno di loro era stato molto previdente. Nessuno dei tre era un campeggiatore particolarmente esperto e qualsiasi cosa appariva più affrontabile che ristrutturare una vecchia casa. Aprì la bocca per tagliare la testa al toro e accettare l’offerta del capitano, ma la richiuse senza dire niente, sospirando invece tra sé. L’attimo era svanito, le cose non sarebbero cambiate da quel momento in poi e ovviamente era troppo tardi per impun-tarsi. Sapeva bene di non poter incolpare nessun altro se non se stessa, di essersi infilata in quella stupidaggine, perché si era lasciata sfuggire innumerevoli occasioni per protestare o tirarsi indietro. Da quando avevano cominciato a parlare di quella baracca, per esempio, avrebbe potuto suggerire a suo marito di dire «passo» alla parte di proprietà della casa, oppure di aspet-tare a ristrutturarla fino all’estate successiva, quando sarebbero ripresi i regolari servizi di traghetto. Katrín sentì d’un tratto la brezza fredda e chiuse meglio il giaccone. Era evidente che era stata una cazzata.

Ma la colpa principale non ricadeva sulla sua passività, bensì sull’entusiasmo del compianto Einar, che era stato il mi-gliore amico di Garðar nonché marito di Líf. Era difficile essere arrabbiati con lui adesso che non era più tra i vivi, ma a Katrín era comunque chiaro che era proprio lui il maggiore responsa-bile per come si erano evolute le cose in quell’assurda vicenda. Einar aveva fatto trekking sugli Hornstrandir durante l’estate due anni prima, e quindi conosceva un po’ Hesteyri, dove si trovava la casa. Aveva raccontato loro di quel villaggio ai con-fini del mondo abitato, della bellezza e della quiete e degli in-

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finiti sentieri escursionistici e di un posto indimenticabile. In-vece non era stato l’amore per la natura che aveva invogliato Garðar, ma il fatto che Einar non fosse riuscito a pernottare a Hesteyri perché l’unica pensioncina del posto era al completo. Katrín non ricordava chi di loro avesse suggerito di verificare se una delle altre case fosse in vendita e di convertirla in una struttura ricettiva, del resto aveva poca importanza; dopo che l’idea era stata lanciata non erano più potuti tornare indietro. Garðar era disoccupato da otto mesi e la prospettiva di poter ricominciare finalmente a fare qualcosa di sensato l’aveva con-quistato. E l’interesse non si era smorzato, com’era ovvio, quando Einar aveva voluto assolutamente aderire e aveva detto di essere disposto a metterci manodopera e capitale. Líf poi aveva alimentato i loro entusiasmi con enfatiche affermazioni di che splendida idea fosse, e li aveva incoraggiati con la sua solita avventatezza. Katrín ricordava che la sua ingerenza le aveva dato sui nervi, e aveva sospettato che Líf volesse rita-gliarsi un po’ di libertà dal marito, che sarebbe rimasto per lunghi periodi a nord per ristrutturare la casa. Il loro matri-monio in quel periodo le era sembrato a pezzi, ma quando Einar era morto il dolore di Líf era stato senza fondo. Nella mente di Katrín si era insinuato un brutto pensiero: sarebbe stato meglio se Einar fosse deceduto prima di concludere l’acquisto della casa. Ma sfortunatamente non era andata così, adesso si ritro-vavano quella proprietà e solo un uomo a entusiasmarsi per i lavori di ristrutturazione, anziché due. Che Líf volesse a tutti i costi assumere il ruolo del marito e lanciarsi nella ristruttura-zione della casa di Hesteyri faceva senza dubbio parte del pro-cesso di rielaborazione del lutto, perché di certo non era abile con il fai da te, né era disposta ad ammazzarsi di lavoro. Se avesse voluto fare marcia indietro, la casa sarebbe tornata in vendita e adesso loro si sarebbero trovati davanti alla televi-sione a casa, nell’ambiente sicuro della capitale, dove la notte non era mai tanto nera come lì a Hesteyri.

Quando fu chiaro che il progetto non era morto con Einar, Líf e Garðar erano corsi nei Fiordi Occidentali per il fine setti-mana e da Ísafjörður avevano raggiunto Hesteyri col traghetto

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per esaminare la casa. A dire il vero si era rivelata in pessime condizioni, ma questo non aveva smorzato l’interesse di Garðar e Líf. Erano tornati indietro con una gran quantità di fotografie di ogni angolo e anfratto della casa e Garðar si era messo subito a organizzare le cose da fare prima dell’inizio della stagione turistica. A giudicare dalle immagini, a Katrín era parso che la casa stesse in piedi grazie alla vernice della tinteggiatura, nono-stante le affermazioni di Garðar che il precedente proprietario avesse concluso tutte le riparazioni che necessitavano di mano-dopera specializzata. E Líf aveva aggiunto, estatica, racconti di bellezze naturali indescrivibili. Poco tempo dopo iniziarono grandi calcoli secondo i quali Garðar alzava il prezzo del per-nottamento a notte ogni volta che apriva il file excel e aumen-tava i posti letto nella piccola casa a due piani. Sarebbe stato interessante vedere quello splendore con i propri occhi e capire come Garðar pensasse di sistemare tutta quella gente.

Katrín si alzò ma dal punto in cui si trovava sul ponte della barca non riuscì a vedere la casa. A giudicare da una foto gene-rica che Garðar aveva scattato alla zona, sembrava ergersi ai margini del grappolo di case, ma piuttosto in alto, quindi avrebbe dovuto vederla. E se fosse semplicemente crollata dopo la visita sul campo di Garðar e Líf? Erano passati quasi due mesi, il maltempo si era abbattuto sull’isola in parecchie occasioni. Aveva intenzione di proporre loro di verificare, prima che la barca riprendesse il mare, ma a quel punto il capitano inter-venne, temendo sicuramente di doverli trasportare a braccia giù dall’imbarcazione:

«Bene, se non altro siete fortunati, con il tempo.» Scrutò il cielo. «Ma potrebbe sempre cambiare, nonostante le previsioni, quindi dovete essere pronti a tutto.»

«Lo siamo. Guardi qua quanta roba!» Garðar sorrise e di nuovo si percepì nella sua voce l’antica convinzione. «Credo che l’unica cosa di cui dobbiamo avere paura siano i dolori ai mu-scoli.»

«Se lo crede lei.» Il capitano non spiegò che cosa volesse dire e scaricò uno degli scatoloni sul pontile. «Spero che abbiate i telefoni completamente carichi, se risalite quella collina lassù

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potete trovare una discreta copertura di rete. Qua sotto è inutile provare.»

Garðar e Katrín si volsero entrambi a guardare verso la col-lina che ai loro occhi era più simile a un monte. Líf fissava an-cora oltre il parapetto verso la nera superficie del mare in con-tinuo movimento. «Buono a sapersi.» Garðar diede una leggera pacca sulla tasca del giaccone.

«Speriamo comunque che non ci capiti di doverli utilizzare. Dovremmo finire entro la settimana, l’aspetteremo qui sul molo come abbiamo stabilito.»

«Tenete presente che non riuscirò a venire, con il brutto tempo. Mi vedrete comunque appena le condizioni meteo mi-gliorano. In quel caso, naturalmente, non dovete stare qui sul pontile ad aspettare, verrò io a cercarvi. È impossibile stare fermi al freddo e al vento.» L’uomo si voltò e guardò verso il fiordo. «Si prevede tempo discreto, ma in una settimana pos-sono cambiare molte cose. Non occorre che ci sia mare grosso, perché la barca si comporti come un tappo di sughero, è per questo che non riusciamo a uscire con il maltempo.»

«Quanto dev’essere brutto, il tempo, perché lei non riesca a venire?» Katrín tentò di celare quant’era seccata. Perché quell’uomo non l’aveva fatto presente prima che si accordassero per il trasporto? Magari avrebbero noleggiato un’imbarcazione più grossa. Si rese conto nel momento in cui ci pensava che non l’avrebbero mai fatto, una barca più grande sarebbe costata di più.

«Se le onde hanno la cresta bianca qui, appena al largo, è improbabile che possa uscire.» Guardò di nuovo il fiordo e in-dicò con il mento verso quella direzione. «Non mi metto in mare se diventano molto più bianche di quanto sono adesso.» Si volse ancora verso di loro. «Devo andare.» Si spostò verso l’ormeggio sul ponte e porse a Garðar il primo materassino che stava su un mucchio. Insieme scaricarono sul pontile scatoloni, latte di tinta, legna da ardere, strumenti da lavoro e sacchi neri per l’immon-dizia pieni di tutto quello che non era considerato fragile. Katrín ebbe il compito di spostare la roba sul pontile, in modo che non si accumulasse a un’estremità, mentre Líf fu esentata. Aveva già il suo bel daffare con se stessa, riuscì appena a raggiungere pia-

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gnucolando la terraferma e a distendersi sulla battigia. Il cagno-lino Putti la osservava e saltava avanti e indietro sulla sabbia, chiaramente felice di essersi assicurato la terra sotto le zampe e indifferente al malessere della sua padrona. Katrín ce la metteva tutta per fare più in fretta possibile, e a volte i due uomini ave-vano bisogno di saltare sul pontile a darle una mano. Final-mente il loro bagaglio fu disposto in una lunga coda; formava una sorta di monumento alle abilità manuali degli ospiti. Il ca-pitano cominciò a esitare. Sembrava gli costasse lasciare Garðar e Katrín, più di quanto costasse loro salutarlo. La sua vicinanza implicava una certa sicurezza che sarebbe sparita insieme alla barchetta all’orizzonte; a differenza di loro, aveva affrontato le forze della natura e senza alcun dubbio aveva una soluzione per ogni eventualità. Sotto sotto, a entrambi balenò l’idea di chiedere al capitano di fermarsi e dare loro una mano, ma nes-suno dei due ne fece parola. Alla fine l’uomo si decise: «Bene, allora, non mi resta altro da fare che accompagnarvi sulla terra-ferma e spicciarmi a ripartire». Rivolse le sue parole a Garðar che sorrise in modo ben poco convincente. Scese sul pontile, e tutti e due rimasero lì immobili a fissare l’uomo che abbassò lo sguardo, quasi imbarazzato.

«Andrà tutto bene. Spero solo che la vostra amica si riprenda.» Allungò il mento in avanti per osservare Líf che si era seduta. La giacca bianca era appariscente, ma allo stesso tempo dimostrava quanto fossero fuori posto in quell’ambiente. «Allora, cari miei, sembra sentirsi già meglio.» L’uomo non riuscì a far loro co-raggio – se era stata la sua intenzione – e Katrín si chiese che effetto dovevano fare a quell’uomo: una coppia di Reykjavík, un’insegnante e un ingegnere, appena oltre la trentina, e nessuno dei due probabilmente in grado di fare grossi sforzi, per non parlare poi del terzo elemento che teneva a malapena su la testa. «Sono certo che andrà tutto per il meglio.» La voce aspra dell’uomo non trasmetteva la convinzione che le parole avreb-bero dovuto lasciare intendere. «In ogni modo, non aspettate troppo a portare il carico in casa, sta per calare la notte.»

A Katrín cadde sugli occhi una ciocca di capelli pesante e scomposta. Con tutto quel trambusto per non dimenticare

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niente delle provviste necessarie e del materiale che stavano sulla lista, aveva scordato di portarsi un elastico.

Líf ne aveva con sé solo uno, e aveva dovuto utilizzarlo du-rante la traversata per scostare i capelli dal volto mentre vomi-tava. Katrín fece un tentativo poco felice di pettinarsi la chioma con le dita ma il vento continuò incessantemente a scompi-gliarla. I capelli di Garðar erano in condizioni appena migliori, ma erano molto più corti dei suoi. I loro scarponi da trekking lasciavano intendere di essere stati acquistati apposta per quel viaggio e anche se i pantaloni e le giacche a vento non erano nuove di zecca, potevano comunque sembrarlo. Li avevano avuti in regalo per il loro matrimonio dai fratelli e dalle sorelle di Garðar, ma era la prima volta che avevano l’occasione di indossarli. Líf aveva comperato la tuta da sci bianca per un viaggio sulle Alpi in Italia, ed era altrettanto adeguata alle cir-costanze quanto un accappatoio. Il loro incarnato pallido oltre-tutto rivelava che i tre non erano molto amanti della vita all’aria aperta. Comunque erano tutti in forma dopo aver sudato tra le quattro mura di una palestra, anche se Katrín sospettava che i loro allenamenti non sarebbero serviti a molto.

«Sa se devono arrivare altre persone, durante la settimana?» Katrín incrociò le dita senza che gli uomini la vedessero. Se non altro c’era la speranza di poter trovare prima un passaggio per tornare a casa, se le cose fossero andate storte.

Il capitano scosse il capo. «Non sapete molto di questo posto, vero?» Avevano potuto parlare ben poco durante la traversata, per il frastuono del motore.

«No. In effetti no.»«Qui non viene mai nessuno, se non durante l’estate, perché

non c’è niente da fare in inverno. Una sola delle case è abitata dall’inizio di gennaio, e qualche proprietario fa un salto ogni tanto per controllare che tutto sia a posto, ma per il resto quest’area è abbandonata durante i mesi invernali.» L’uomo tacque e volse lo sguardo verso le abitazioni visibili da lì. «Quale sarebbe la casa che avete acquistato?»

«Quella sul punto più esterno. Credo che fosse la canonica.» La voce di Garðar non era del tutto priva di una punta d’orgo-

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glio. «In realtà non si vede da qui al buio, ma è impossibile non notarla.»

«Che? Ma ne è sicuro?» Il capitano sembrò stupito. «Nessun pastore ha mai abitato in paese. La chiesa veniva servita da Aðalvík, finché c’era ed era in funzione. Credo vi abbiano dato informazioni sbagliate.»

Garðar ebbe un’esitazione e nella mente di Katrín affiorarono pensieri diversi, tra cui la speranza che fosse tutto un malinteso, che non avessero acquistato nessuna casa e che potessero tor-nare subito indietro. «No, l’ho visionata ed è chiaramente l’abi-tazione di un pastore. In ogni modo, c’è una bella croce incisa sulla porta d’ingresso.»

Il capitano sembrava avere difficoltà a credere a Garðar. «Ma chi altri la occupa, insieme a lei?» Aveva aggrottato le sopracci-glia e probabilmente sospettava che fossero entrati in possesso della casa con metodi illegali.

«Nessuno» rispose Garðar con un’espressione risentita. «L’abbiamo acquistata da un tale che è morto prima di riuscire a risistemarla.»

Il capitano strattonò la cima e si avviò sul pontile. «Credo sia meglio se mi fate controllare di cosa stiamo parlando. Conosco tutte le case dell’abitato e in genere ognuna ha più di un pro-prietario, di solito fratelli e sorelle e i discendenti dei residenti originari. Che io ricordi, nessuna è di proprietà di un singolo individuo.» Si asciugò i palmi delle mani sui pantaloni. «Non posso lasciarvi qui se non so con certezza che abbiate un tetto e che non siano solo chiacchiere vuote.» Si avviò lungo il pontile. «Mi indichi la casa qui dalla riva, siamo abbastanza lontani dalla barca perché le luci non ci disturbino.»

Lo seguirono mentre avanzava ma dovettero fare passi più lunghi del solito per tenersi al passo con quell’uomo basso dalle ampie falcate. Si fermò all’improvviso così com’era partito, tanto che poco mancò che lo superassero. Erano arrivati al punto in cui Líf era seduta nella sua desolazione. A Katrín parve che stesse riprendendo colore sulle guance. «Spero di aver smesso di vomitare.» Cercò di sorridere verso di loro, ma senza risultati convincenti. «Ho tanto freddo. Quando entriamo?»

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«Fra poco.» Garðar fu insolitamente brusco ma fu chiaro che se ne pentì perché aggiunse, molto più mite: «Cerca di ripren-derti». Spinse via Putti quando accolse il loro arrivo facendogli le feste. Seccato si spolverò la sabbia dalla gamba dei pantaloni.

Il capitano si rivolse a Garðar. «Dov’è la casa che mi diceva? La vede, da qui?»

Katrín si sistemò accanto ai due uomini e osservò con lo stesso interesse del vecchio capitano. Anche se aveva ben pre-sente la foto che Garðar aveva scattato al paese, era difficile farla coincidere con quello che le appariva davanti. Una decina di case e qualche baracca accanto a loro si estendevano per più di quanto aveva sperato, e rimase colpita notando quanto di-stavano le case tra loro. Aveva immaginato che in una società tanto isolata la gente preferisse vivere più vicino, sentire il so-stegno reciproco se fosse accaduto qualcosa. Ma che cosa ne sapeva, lei? In realtà non aveva nemmeno idea di quando era stato edificato quel posto. Forse gli abitanti avevano dovuto contare su appezzamenti di grandi dimensioni per tenere il bestiame oppure per piantare verdure e patate. Non c’era certo un negozio di alimentari, lì. Finalmente Garðar adocchiò la co-struzione che stava cercando di individuare e la indicò. «Ecco, proprio all’estremità, dall’altra parte del fiume. A dire il vero si vede solo il tetto dalla parte del poggio, con il pino che la copre appena.» Abbassò la mano. «Non è forse la canonica, quella?»

Il vecchio capitano fece schioccare la lingua e aprì bocca fis-sando dritto davanti a sé verso il tetto che si allungava al di sopra della vegetazione ingiallita sul declivio. «L’avevo dimen-ticata, quella casa. No, non è la canonica. La croce sulla porta non ha niente a che vedere con il pastore. Chi vi abitava simpa-tizzava per la Trinità, gli piaceva quella croce.» Ci pensò su un attimo e parve sul punto di dire qualcosa, ma poi si fermò. «Per molto tempo la casa è stata chiamata “ultima visione”. La si vede dal mare.» L’uomo sembrò di nuovo sul punto di aggiun-gere qualcosa, ma ancora una volta si trattenne.

«Ultima visione. Okay.» Garðar cercò di atteggiarsi come se la cosa non lo riguardasse, ma Katrín interpretò le sue emozioni.

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Una delle cose che gli erano piaciute di più di quella casa era il fatto che anticamente avesse ospitato uno dei notabili dell’abi-tato. «Ovvio, sarebbe stato eccessivo, avere una canonica in un posto così piccolo.» Garðar passò lo sguardo sulle case, quasi tutte visibili dal punto in cui si trovavano, a parte quella che adesso era di loro proprietà. «C’erano più case, qui, però, all’e-poca, vero? Qualcuna dev’essere stata demolita nel corso del tempo.»

«Sì, sì, è vero.» Il vecchio non si era ancora rivolto verso di loro e sembrava alquanto distratto e pensoso. «C’erano più case. Non hanno mai abitato molte persone, qui, a dire il vero, ma alcuni hanno portato via la casa con sé quando si sono trasferiti. Restano solo le fondamenta.»

«Lei c’è mai stato? In casa nostra?» Katrín aveva la sensa-zione che ci fosse un grave problema, ma che per qualche mo-tivo l’uomo non volesse rivelarlo. «Il tetto sta crollando, o cose del genere?» Non aveva abbastanza immaginazione per pensare a qualcosa d’altro. «Siamo sicuri che non corriamo pericoli, là dentro?»

«Non sono entrato, ma il tetto è senza dubbio a posto. I pro-prietari precedenti si sono dati molto da fare per sistemare la casa. Cominciano tutti bene.»

«Cominciano?» Garðar strizzò l’occhio a Katrín e ghignò. «Allora è venuto il momento che qualcuno si rimbocchi le ma-niche e completi l’opera.»

L’uomo non raccolse il tentativo di Garðar di allentare la tensione, ma si voltò da quel grappolo di case che si poteva definire a malapena villaggio e si preparò a scendere di nuovo lungo il pontile. «Vado a prendere una cosa in barca.» Rimasero lì stupiti senza sapere se doverlo aspettare oppure seguire, ma decisero poi di seguirlo.

«Dove state andando? Non lasciatemi qui da sola!» Líf si alzò faticosamente in piedi.

Katrín si voltò. «Ci impieghiamo un attimo. Stai lì seduta da più di mezz’ora, quindi qualche altro minuto non ti cambierà nulla. Riposati.» Non diede a Líf la possibilità di ribattere e al-lungò il passo per raggiungere Garðar e il capitano.

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Il capitano sparì nella barca ma riapparve quasi subito con una scatola di plastica aperta contenente oggetti non identifica-bili. Ne estrasse un mazzo di chiavi con delle normali chiavi di casa e altre molto più belle e decisamente più antiche. «Per si-curezza, prendete le chiavi della pensione nella casa del me-dico.» Indicò una delle case più sfarzose che si vedeva bene dal pontile. «Avvertirò io i proprietari che ve le ho prestate; chi se ne occupa è la sorella di mia moglie, sarà felice di sapere che avete un altro posto in cui rifugiarvi, se dovesse accadere qual-cosa. Non abbiate timore a entrare.»

Sospesi a mezz’aria tra Garðar e Katrín rimasero dettagli inespressi; non avevano raccontato a quell’uomo i loro progetti di fare concorrenza alla pensione di cui stavano per avere le chiavi. Nessuno dei due disse niente. Katrín allungò la mano e prese il mazzo. «La ringrazio.»

«Poi dovete fare attenzione alla batteria dei telefoni, e non esitate a chiamare se siete in difficoltà. In condizioni di tempo discreto posso arrivare in due ore.»

«È un pensiero gentile.» Garðar cinse Katrín per le spalle. «Non siamo proprio così disperati come possiamo sembrare, dubito che possa succedere.»

«Non ha niente a che vedere con voi. Girano varie voci sulla casa e anche se non sono superstizioso, mi sento molto meglio sapendo che potete trovare riparo in un altro posto, e che potete chiamare aiuto. Qui a volte anche il tempo è infido, niente di più complicato.» Visto che nessuno dei due diceva niente, l’uomo augurò loro buona fortuna e li salutò. Borbottarono qualcosa in risposta e rimasero fermi nella stessa posizione, a salutarlo quando l’uomo girò con cautela la barca e uscì dal fiordo.

Una volta rimasti soli, Katrín si sentì pervadere da una spia-cevole inquietudine. «Che voleva dire, che girano varie voci sulla casa?»

Garðar scosse piano la testa. «Non ne ho idea. Sospetto che sappia di più sui nostri piani di quanto volesse rivelare. Non ha detto forse che sua cognata si occupa della gestione della pen-sione? Stava solo cercando di spaventarci. Spero che non vada a mettere in giro storie sulla nostra casa.»

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Katrín tacque. Sapeva che non poteva essere quello, il mo-tivo. A parte Líf, nessuno era a conoscenza dei loro progetti. Nessuno di loro ne aveva discusso con il resto della famiglia, per timore che qualcosa potesse impedirne la realizzazione. Era già sufficiente che li compatissero per la disoccupazione di Garðar. La famiglia era convinta che stessero andando all’Ovest in occasione delle vacanze natalizie della scuola in cui lei inse-gnava. No, il vecchio non l’aveva detto per spaventarli, c’era dell’altro sotto. Katrín rimpiangeva amaramente di non avere insistito e di non avergli chiesto maggiori dettagli, in modo da non farsi influenzare dalla sua immaginazione. La barca si al-lontanava più veloce di quanto ricordasse di aver fatto all’an-data e in un baleno sembrò grande come il suo pugno.

«Com’è tranquillo, qui.» Garðar ruppe il silenzio che la barca aveva lasciato. «Credo di non essere mai stato in un posto così isolato.» Si chinò e la baciò sulla guancia chiazzata di salsedine. «Ma è indubbio che ci abiti gente in gamba.»

Katrín gli sorrise e non gli chiese se aveva dimenticato quella malaticcia di Líf. Volse le spalle al mare, dove non desiderava affatto vedere la barca sparire del tutto alla vista, e osservò in-vece la riva e la terra. Líf si era alzata in piedi e si sbracciava verso di loro. Katrín sollevò la mano per farle un cenno a sua volta, ma la lasciò cadere quando vide qualcosa muoversi velo-cemente alle spalle dell’amica vestita di bianco. Era un’ombra nera come la pece, molto più scura dell’ambiente in penombra. Sparì altrettanto in fretta com’era apparsa, così Katrín non riuscì a distinguere chi fosse. Però le era parsa simile a una persona di bassa statura. Si aggrappò forte al braccio di Garðar.

«Cos’era?»«Cosa?» Garðar aguzzò la vista seguendo l’indicazione di

Katrín. «Vuoi dire Líf?»«No. C’era qualcosa che si muoveva dietro di lei.»«No.» Garðar la guardò stupito. «Non c’è niente. Solo una

donna con il mal di mare e una tuta da sci addosso. Magari era solo il cane, no?»

Katrín cercò di apparire tranquilla. Poteva anche darsi che avesse avuto un abbaglio. Ma quello non era Putti, di questo era

certa, era davanti a Líf e annusava l’aria. Forse il vento aveva spostato qualche oggetto. In ogni modo, non spiegava la rapi-dità con cui era sfrecciato, anche se naturalmente poteva essere arrivata una raffica improvvisa o una corrente. Lasciò il braccio di Garðar e si concentrò a respirare lentamente per il tratto che le restava da percorrere lungo il pontile. Non disse nulla nem-meno quando ebbero raggiunto Líf. Si sentì un fruscìo e la ve-getazione secca e ingiallita davanti a loro scricchiolò, come se qualcuno l’avesse calpestata. Né Garðar né Líf sembravano aver notato niente, ma Katrín non poté fare a meno di pensare che non fossero da soli, lì a Hesteyri.