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LE MALATTIE DA ACIDO U R I C O CAUSE, CONSEGUENZE, CURE PER IL PROF. L. DEVOTO CON SCRITTI DEI PROFESSORI P. BOVERI - A. CERESOLI - G. FASOLI - D. MELOCCHI G. PIERACCINI - R. PINALI - A. PUGLIESE - U R I C E M I A - 6 FIGURE NEL TESTO E 6 TAVOLE IN NERO E A COLORI MILANO ANTONIO CORDANI S. A. 1927 Ultima correzione 16 aprile 2011 Tutti i diritti riservati

Malattie Da Acido Urico

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LE MALATTIE

DA ACIDO U R I C O

CAUSE, CONSEGUENZE, CURE

PER IL

PROF. L. DEVOTO

CON SCRITTI DEI PROFESSORI

P. BOVERI - A. CERESOLI - G. FASOLI - D. MELOCCHI

G. PIERACCINI - R. PINALI - A. PUGLIESE

- U R I C E M I A -

6 FIGURE NEL TESTO

E 6 TAVOLE IN NERO E A COLORI

MILANO

ANTONIO CORDANI S. A.

1927

Ultima correzione 16 aprile 2011

Tutti i diritti riservati

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Ai cortesi lettori

Dicono i competenti, e confermano le statistiche, che le condizioni di salute del popolo italiano migliorano di anno in anno. E questa certamente cosa che deve rallegrarci, ma che non deve farci dimenticare come i progressi igienici saranno ancora più sentiti quando la grande maggioranza degli italiani saprà difendersi, anche con un regime appropriato di vita, da tutte quelle malattie che sono evitabili e dalle molteplici conseguenze di esse.

Tale convincimento è stato il seme, se ci è permesse la parola, di questo Manuale di vita igienica e previdente, che avrebbe per fine, anche in successive edizioni, di portare a conoscenza di tutti le principali malattie, e le più diffuse, suscettibili di non essere contratte o di essere molto attenuate, con una volontà fatta di consapevolezza. Rischiarare, aiutare questa volontà volgarizzando, esponendo in termini semplici, ma precisi, tutte quelle conoscenze che oggi sono proprietà di pochi e che pur sarebbero utili a tutti, seguendo in ciò l’esempio luminoso di un grande igienista - Paolo Mantegazza - ecco la nostra mira.

Un gruppo di distinti medici, sotto la guida sapiente dell’illustre prof. Luigi Devoto, accettò di dar vita al nostro progetto. Collaboratori migliori e guida più autorevole ci sarebbe stato impossibile trovare.

- L'Editore

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Uricemia artritismo o neuroartritismo

Cause, conseguenze, cure

Che cosa è l’uricemia? Se ne parlate con medici, di rado vi sarà dato di avere delle risposte non discordi; se chiedete se si tratta di malattia frequente, troverete dei medici che vi assicurano che è straordinariamente diffusa, da considerarla come una malattia sociale che insidia la società e la razza umana (Maurel) e quindi pericolosa come la tubercolosi, se non più (Laumonier); altri medici (e fra essi degli italiani molto autorevoli) che non la riconoscono come tale e la designano artritismo o neuroartritismo, dichiarandola malattia collegata con una costituzione personale, deviante dal tipo normale, altri infine che non la incontrano quasi mai, e al caso pratico vi sorridono se non la deridono, e la contano come una etichetta che serve per sbarcare diagnosi di malati che non si sanno diagnosticare.

In queste discrepanze ci sta evidentemente la ragione per fare un po' di luce approfittando delle osservazioni più recenti, anche a vantaggio della stessa coltura dei profani, i quali vivono assai spesso in una ignoranza completa o in una confusa conoscenza che, qualche volta, è più dannosa dell’ignoranza, perché essi, i sofferenti, si crucciano, si tormentano e diventano malati ancora di più. Ma vi sono anche i sereni rassegnati. In Inghilterra vi è una regione in cui il cittadino colpito dal primo attacco classico di gotta ha l’obbligo, ad accesso esaurito, di dare un banchetto agli amici, perché egli se sa che d’ora in avanti soffrirà, sa pure che assai lunga sarà la vita sua.

Il profano che ha conversato con medici o ha consultato (!) testi medici sui suoi disturbi, quando ve ne parla, non nasconde la sua tristezza nel riferire che soffre di acidi urici o che vede molte sabbie nelle urine ed addita una condizione oltremodo noiosa contro la quale dovrà combattere a lungo. Quasi negli stessi termini espongono analoghe impressioni molte persone che vengono a curarsi in Italia dall’Egitto, dai Paesi balcanici, dall’Asia Minore, dall’America del sud, ecc. Ed in casa nostra è specialmente nel Veneto, in Emilia, in Toscana, nel Lazio, nel Mezzodì che sentiamo dei profani a parlare di uricemia con molta frequenza, perché vi è piuttosto diffusa.

Ma il non medico sente assai spesso parlare di acidi urici, di uricemia, di artritismo, in condizioni particolari; quando per curare un dente che da un momento all’altro si muove, va dal dentista e questi pensa all’acido urico, o quando per un disturbo della pelle insistente e ribelle, lo specialista consiglia una cura antiurica, o quando cefalee ostinate non possono essere spiegate che con l'intervento dell'uricemia, e questi incontri e simili ripetizioni di prescrizioni curative avvengono pure nel gabinetto dell’oculista, dello specialista per le malattie del naso, della gola, ecc.

E’ evidente che tanto presso i medici, quanto presso il pubblico non si è formato un movimento di pensiero che si vada approssimando a quello che realmente rappresenta la uricemia. Tanto più che due punti si possono dire effettivamente accertati:

1. il numero degli uricemici va aumentando; 2. l’uricemia può essere prevenuta; certamente curata in ogni suo periodo, e tanto meglio se è

conosciuta per tempo. Di guisa che si può anche dire, di fronte alle vedute un po’ esagerate dei due scrittori francesi (Maurel e Laumonier), che l’uricemia è di chi la vuole oppure per chi la lascia maturare riferendosi ai casi, s’intende, in cui esiste o l’eredità o una costituzione preparatrice.

Io ritengo che quella piccola minoranza di medici che si mostra ancora restia o diffidente finirà, con l’aumentare dei malati, a prendere confidenza e contatto cogli studi moderni. E per il grande pubblico? Non vi è che la volgarizzazione delle conoscenze relative, mettendo sopratutto in vista quali sono le cause che la favoriscono o addirittura la determinano, e additando le norme igieniche e curative che son capaci di arrestare o di annullare questa uricemia.

E io, che insieme ai miei cari e valenti compagni di lavoro, mi sono occupato per molti anni di questi studi (che in verità non hanno avuto larga eco nel ceto medico), credo ora che sia debito mio di concorrere con questo mio scritto a far conoscere le mie idee, quelle altrui e quelle dei miei collaboratori;

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idee tutte che, affiatate e coordinate, debbono arrivare, se non erro, a fare buona impressione sul pubblico ed anche sui medici.

E per migliorare e rafforzare lo stato di salute della massa, come è attributo di ogni medico, e per assicurare un miglior successo a lunghe e pazienti ricerche e a molti scritti usciti dalle mie cliniche di Pavia e di Milano, svilupperò in questo articolo per profani gli elementi più elementari, più pratici, e più verosimili in fatto di uricemia. Ed unicamente perché tratto una parte più generale, il mio articolo precede gli scritti di parecchi colleghi assai stimati ed autorevoli.

Io mi propongo di mostrare come una serie di ricerche scientifiche, cliniche e pratiche diano la prova meridiana:

1. che l’uso eccessivo delle carni, la vita pigra, sedentaria o angosciata, e alcune abitudini antifisiologiche preparano, singolarmente o associate, l’uricemia .

2. che con tutt’altra linea nel mangiare, nel lavorare e nel vivere, si previene e si può guarire l’uricemia. Si può anche modificare la stessa disposizione alla malattia in chi proviene da famiglia uricemica.

Ed eccoci alla dimostrazione.

Innanzitutto si può rispondere negativamente alla domanda se vi può essere uricemia senza alterazioni riferibili all’acido urico. Dall’acido urico non si può in alcuna maniera prescindere, perché esso appare sempre (in maggiore quantità che nel sano) nel sangue e nei tessuti colpiti quando la malattia si fa viva. In questo accumulo si esprime il pervertimento del ricambio, in particolare delle alterazioni funzionali dell’organismo, rese possibili da una condizione generale, fondamentale, in modo particolare aggravata da evenienze speciali di ordine esterno o interno, che entrano più o meno frequentemente in giuoco.

In altre parole, l’acido urico, che appare in maggior quantità presso uno di questi individui perché se ne produce di più e perché non si elimina, è realmente il fattore, la condizione sine qua non degli stati morbosi ricorrenti, che inizia con un accumulo nel sangue per continuare con una concentrazione e deposizione in una zona subordinata a circostanze fisiopatologiche ivi predominanti.

Ma, tra diatesi urica e lo slegamento dell’azione di fattori con consecutiva comparsa di acido urico nel sangue, sta una lacuna sulla quale finora sì è generalmente sorvolato e sulla quale possiamo dire qualche cosa. Le variazioni nella quantità dell’acido urico in una situazione diatesica, la influenza che alcune circostanze esplicano su queste fluttuazioni (quali una malattia ricorrente, il riposo ecc., o la condizione opposta, l’intenso sforzo muscolare, lo stesso fatto di una diatesi che non arriva, di sovente, a dare crisi uratiche notevoli) fanno supporre che nello sviluppo della malattia intervengono altri fattori d’ordine ambientale.

Ora un punto sicuro, che anche un profano può afferrare, è questo: nelle persone uricemiche vi è una quantità più forte di acido urico nel sangue e non in una maniera transitoria, e che questo accumulo si fa o si accresce, quando il rene non funziona bene, ossia non elimina come dovrebbe, questa scoria.

L’acido urico proviene tanto dalle sostanze che si mangiano, quanto dall’organismo quando è viziato, vale a dire quando esso permette che entro di sé si formi, più che nell’individuo normale, dell’acido urico.

Più si mangia carne e più compare acido urico nel sangue e quindi nelle urine, se i reni funzionano bene. La sostanza che contiene di più corpi purinici (a questo gruppo appartiene l’acido urico) è il timo fresco, che in 100 gr. ne contiene quasi mezzo grammo. Il timo è una ghiandola che ha carattere di organo transitorio, il quale ha un forte sviluppo nel periodo della crescenza e poi scompare. Questo organo è posto tra la trachea e lo sterno.

Però questi corpi purinici sono contenuti in proporzione minori in altri prodotti animali che noi mangiamo; tiroide, fegato, cervella, rene, milza e nelle carni in genere.

Chi introduce molta carne introduce molto acido urico.

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L’acido urico originato dai vari alimenti

In riferimento all’indicazione della pagina 9 si dà qui il quantitativo di acido urico che può formarsi da alcune sostanze alimentari, introdotte nell’organismo (il quantitativo indicato riguarda 100 grammi di sostanza: come si vede l’estratto di carne è quello che dà il maggiore prodotto di acido urico: esso oscilla da grammi 2 a 5).

Bue (fegato) . . . gr 0,3303 Pane completo . . . gr 0,0400

Bue (filetto) . . . . gr 0,1566 Farina d'avena . . . gr 0,0636

Bue (bistecca) . . . gr 0,2478 Riso . . . . gr 0

Maiale (filetto) . . . gr 0,1458 Farina di piselli . . . gr 0,0468

Vitello (timo o laccetto) . . gr 0,0681 Fagioli . . . . gr 0,0765

Prosciutto . . . . gr 0,1386 Lenticchie . . . . gr 0,0750

Pollo . . . . gr 0,1054 Tapioca . . . . gr 0

Tacchino . . . . gr 0,1512 Lattuga . . . . gr 0

Coniglio . . . . gr 0,1140 Cavolfiore . . . gr 0

Montone . . . . gr 0,1158 Asparagi . . . . gr 0,0258

Salmone . . . . gr 0,1398 Cioccolato . . . . gr 1,4300

Estratto di carne . . . . gr 2 a 5 The . . . . gr 1,2400

Patate . . . . gr 0,0064 Birra . . . . gr 0,0150

Caffè abbrustolito gr 0,1100 Brodo (carne circa gr. 100) gr 0,0450

Vini . . . . gr tracce Latte (latticini) . . . . gr tracce

Caviale . . . . gr tracce Ostriche . . . . gr 0,0865

Uova . . . . gr tracce Pesci di acqua dolce . . . gr 0,0100

Pane bianco . . . . gr 0

( da Richardiere, Sicard, Schmid, Noorden, Salomon ).

Un medico tedesco, Hirschstein, ha fatto sopra di sé un esperimento assai dimostrativo, ossia nei giorni in cui si cibava esclusivamente di grassi, oppure di farinacei o altri alimenti privi di quelle sostanze che contengono corpi purinici, l’acido urico nelle urine discendeva a 10-20 centigrammi nelle 24 ore. Quando mangiava albumine l’acido urico saliva a più del doppio, ovvero a 45 centigrammi.

Un individuo che mangia giornalmente due o tre piatti forti di carne, specialmente se in queste carni sono contenute delle ghiandole (timo, pancreas, ecc.) può essere sicuro che avrà, prima nel sangue e poi nelle urine, una quantità notevole di acido urico. Ma costui può diventar malato solo col tempo, anche perché il disordine non sarà continuo.

Per lo più passano degli anni prima che, con dei veri disturbi, la produzione ed eliminazione di acido urico dia segno di sé. Il medico potrebbe scoprire il prepararsi dell'uricemia, se egli entrasse in qualche contatto con alcuni di questi forti mangiatori di carne. Bisogna però soggiungere che nemmeno tutti i forti mangiatori di carne sono destinati a diventare uricemici. Ma anche si vi sono i refrattari, come vi sono i resistenti al vino, agli strapazzi, a certi veleni professionali, ecc., non sono da dichiarare innocui gli eccessi della carne, del vino, degli sforzi, ecc., perché i colpiti sono di gran lunga la maggioranza.

Che la carne consumata in eccesso sia una delle cause più attive di uricemia (esclusa l’uricemia degli operai che maneggiano il piombo), risulta oltre che dalle ricerche di 1aboratori anche dalle quotidiane occorrenze della vita. Vi son popoli che non consumano carne e che non conoscono la gotta. Vi sono

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regioni in Italia in cui si fa largo uso di carboidrati, e nel contempo una vita molto attiva, e la gotta e l'uricemia sono poco diffuse (Liguria).

Vi è la storia di Roma imperiale consumatrice di carni, di vini, goditrice del godibile, in cui trionfa la gotta, che viene a figurare come tema di ammonimento, di derisione o di sapienza nella poesia e nella prosa di illustri medici e non medici. Del resto da oltre un secolo son noti questi fatti: i ricchi turchi ed egiziani che si mettono a vivere (e a mangiare senza misura all'europea, dimenticando i precetti del Co-rano, diventano gottosi, come i negri che venivano assunti come cucinieri a bordo dei bastimenti, oppure come inservienti presso le armate inglesi, presentavano un numero relativamente alto di gottosi (Guarrier, in un giornale di Edimburgo 1808).

Gli Hovas del Madagascar che si cibavano quasi esclusivamente di carni vennero riconosciuti particolarmente colpiti da gotta e dalla renella (A. Vinson). Ma è superfluo indugiarsi su questi particolari perché il concorso delle carni e di talune carni consumate in abbondanza è ammesso generalmente.

Ma le idee dei profani, si chiariscono ancora di più quando si sappia che un po' di acido urico si elimina sempre, anche quando non si introducono carni, anche quando si sta senza mangiare. Nel famoso digiunatore italiano, Succi, gli studiosi medici, italiani e stranieri, poterono dimostrare la presenza nelle urine da 10 a 15 centigrammi di corpi purinici (acido urico e affini), che provenivano dagli scambi organici. E si era ai 25-28 giorni di digiuno. Quindi oggi si riconosce che:

1. l’acido urico esce dalle urine anche quando un individuo sta senza mangiare, come nel digiunatore Succi;

2. l’acido urico si elimina in proporzioni un po' più forti che nei digiunatori, anche se un individuo segue un’alimentazione priva di carni:

3. l’acido urico raggiunge nelle urine proporzioni assai elevate quando si introducono forti quantitativi di carni.

Vi ritornerò in seguito, ma intanto desidero fissare bene un altro punto. Ho detto che vi sono individui (assai rari) i quali pur avendo mangiato carni in gran quantità per tutta la loro vita non sono mai divenuti uricemici, e questo è verissimo. Ma vi sono, per altro, i più sensibili, quelli che con un uso non eccessivo di carni vedono anticipati i loro disturbi uricemici; ora questi sono quasi sempre appartenenti a famiglie uricemiche o gottose o per ragioni diverse si sono stabilite in essi delle inferiorità che li mettono alla pari dei figli di uricemici.

E qui conviene dire che per noi uricemia e gotta fino ad un certo punto sono la medesima cosa; però, per ragioni di chiarezza e di valutazione, è utile fare la distinzione. In genere il gottoso, come lo si intende oggi tra noi, è già un uricemico, in quanto ha il suo organismo in eccesso di produzione o in eccesso di ritenzione di acido urico. Ma un uricemico può o no diventare un gottoso nel senso nostro. Per noi gotta e gottoso vogliono dire individuo uricemico colpito da un attacco doloroso articolare classico.

Gli uricemici si dividono quindi, in due grandi categorie:

a) quelli che hanno ereditato un temperamento morboso, che spesso è rilevabile per una speciale costituzione o conformazione;

b) quelli che questo temperamento hanno acquisito, arrivando anche ad assumere a poco a poco una speciale figura corporale esterna che non è ammissibile od identificabile colla costituzione ereditaria, ma che vi si avvicina per alcuni dettagli. Pertanto al medico acuto vien fatto di esprimere qualche impressione intorno alla morbilità futura più probabile di questi individui (grassi, congesti in viso, con l'occhio giallo, la pelle accesa, le articolazioni ingrossate, ecc.).

Dunque, i provenienti da famiglie uricemiche sono più facilmente esposti ad ammalarsi, perché bastano meno carni, meno anni e meno fattori accessori per arrivare all’uricemia, o più precisamente ad una delle fasi più o meno transitorie e progressive della malattia, in quanto in essi vi è già una predisposizione morbosa.

Il lettore, il profano, a questo punto, è messo in condizione di salire di un piano per guardare le vicende dell’uricemico latente. Se il rene di costui, in qualche modo si altera, in guisa da funzionare meno bene,

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da limitare cioè la sortita dell’acido urico e di determinare una ritenzione di questo acido urico nel sangue, e nei tessuti, noi avremo necessariamente un accumulo di acido urico; un’uricemia che non avrà ancora il suo denominatore reale, perché l’acido urico non ha dimostrato in quale parte dell’organismo darà battaglia e svilupperà l’attacco con suo successo.

E la battaglia può dar origine ad una sottomissione dell’organismo con una disfatta clamorosa (attacco gottoso dolente) ovvero a manifestazioni svariate di diversa entità, molte volte suscettibili di essere confuse con disturbi collegati con malattie ben diverse. E diciamo subito, spesso si danno le ripercussioni le più volgari, le più comuni, che non si distinguono dai disturbi ordinari più banali. Tra queste figurano: nevralgie, nevriti, eczemi, albuminurie, glicosurie, mialgie, cefalee, calcolosi, malesseri generali, ecc., sostenuti esclusivamente dall’acido urico; altra volta si hanno fenomeni misti in cui un fattore ordinario di malattia comune trova nello stato uricemico un conforto, un alleato per resistere di più.

Troppo poco si fa conto della pelle nella fase preparatoria dell’uricemia e per la cura stessa della malattia. La pelle è particolarmente vulnerabile nell’uricemia. Essa dovrebbe lavorare di più, ed invece lavora meno perché, a causa della diminuita sudorazione, diventa meno pastosa, meno elastica, quindi secca, quindi capace di scarsa traspirazione. I peli, i capelli, le sopracciglia, la barba sono asciutti, secchi; e poiché la loro nutrizione è scarsa sono votati al destino degli elementi malnutriti: cadono. E si può incorrere nella calvizie anticipata: l’alopecia degli uricemici.

Ma le alterazioni per sé molto modeste, possono vedere altri sviluppi; ossia possono comparire eritemi transitori, orticaria, psoriasi, eczemi. La psoriasi uricemica preferisce il capo; ma invade anche la faccia; e qualche volta si estende anche al corpo e alle estremità. Grattando, esce facilmente il sangue. E’ questa una manifestazione assai noiosa: qualche volta gli altri fenomeni scompaiono, e resta per lo più la psoriasi. L’eczema di origine uricemica appare nei ragazzi e negli adulti. Si modifica e si elimina con una sana alimentazione. Anche le unghie si alterano facilmente, a causa delle poussées eczematose che appaiono in corrispondenza della matrice dell’unghia.

Nel corso dell’uricemia grave, quando è diventata nella gotta ed è disturbato anche il cuore, sfuggono dei rapporti importanti tra la gotta propriamente detta e le lesioni di altri organi, ad es. la calcolosi del fegato. Segue una storia istruttiva perché riguarda un medico celebre.

ABRAMO COLLES, un clinico chirurgo irlandese, molto noto per la sua legge (di Colles) soffrì dal 1834 al 1843 (anno della sua morte) di attacchi gottosi che sboccarono in una miocardite lenta con dei periodi di insufficienza e frequenti crisi notturne di asma. Recatosi in Svizzera migliorò sensibilmente. In una delle tregue volle fare un’ascensione, ne ebbe disturbi non lievi. Tornato a Dublino, fu ripreso da un nuovo periodo di stanchezza cardiaca con edemi agli arti inferiori, oliguria, congestione epatica. Con le cure opportune ebbe un breve miglioramento; ma nell’autunno del 1843 il Colles viene colpito da una congestione polmonare (secondo Stokcs) che è mortale. All’autopsia si riscontrò la lesione cardiaca e la presenza di 30 calcoli nella cistifellea.

Nel grafico che qui riproduco è esposto quasi tutto quello che può accadere a causa dell’acido urico accumulato nell’organismo. La linea orizzontale rappresenta il raduno dell’acido urico nel sangue. Sotto l’influenza negativa del rene che non funziona bene e di qualche fattore speciale che noi non conosciamo bene, l’acido urico esplode nell’organismo, e si esprime con una delle tante voci che s’innalzano dalla linea orizzontale come fossero le canne di organo. Ogni canna emette una voce, e dalla sua natura si fa la diagnosi del disturbo, ma ciascuno (compreso il medico) deve risalire alla sorgente, e riconoscere che è l’uricemia la fonte della musica poco lieta.

Nella determinazione di uno o più degli stati morbosi esposti nel grafico (spesso si hanno delle associazioni, ad es. gotta e calcolosi renale, calcolosi biliari e dermatiti, nevriti e glicosuria, ecc.), il medico valuta anche nel singolo caso il contributo degli apporti degli organi a secrezioni interne, del sistema nervoso, ecc.

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Come pure non va trascurata l’influenza delle impressioni d’ordine psichico sullo sviluppo della uricemia e sul decorso delle sue manifestazioni. Un caso dei più significanti è il seguente:

Un individuo di 52 anni, molto fermo di carattere e tutt’altro che nervoso, che aveva avuto il primo attacco gottoso a 27 anni, mentre si trova in preda ad un attacco violento che per lasciargli fare alcuni passi lo obbligava all’uso di due bastoni, riceve la notizia che il suo socio si è suicidato. La crisi dolorosa scompare, egli pianta bastoni, ecc., provvede a tutte le incombenze. Sepolto il collega, l’attacco riprende (Umber)

E’ di questi giorni la comunicazione di un’autorevole pratico, il D’Ancona, che mette la cosiddetta febbre da fieno tra le malattie ereditarie e famigliari, che ricorre secondo lui, specialmente tra le donne ed in alcune classi sociali, fra i semiti e le famiglie delle più chiusa aristocrazia, perché affette da uricemia ereditaria. In queste stesse famiglie il D’Ancona ha constatato altre manifestazioni morbose comuni ai neuroatritici come la emicrania, le mialgie, i tic, eczemi, psoriasi, orticaria ecc. con tendenza ad aggravarsi da una generazione all’altra, rendendosi così evidente presso di essi una specie di tara degenerativa.

E qui si comprende cosa avviene; se si conosce la natura fondamentale si batte un binario di cura che conduce al successo, se si ignora la sorgente si batte un binario o più binari diversi dal giusto e si perdono danari, tempo e qualche volta si lascia aggravare la malattia. Guardiamo a queste vicende particolari.

Dalle stomatiti e manifestazioni aftose del cavo orale fino alle enteriti e alla enterocolite mucomembranacea, alle emorroidi in età giovane, l’albero gastroenterico offre una serie di compromissioni ostinate e gravi, nè dobbiamo dimenticare che alcune forme di ipercloridria gastrica stanno in rapporto con uno stato uricemico, né si deve dimenticare che la stitichezza ostinata è quella che fa anticipare in una famiglia uricemica le vere manifestazioni gottose ed artritiche tra i singoli membri.

Le vie respiratorie offrono partecipazioni non solo dal punto di vista flogistico, ma ancora manifestazioni di natura nervosa. E così si hanno esempi di forme asmatiche, casi di frequenza respiratoria, di dispnea,

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ecc., rese possibili le une e le altre da processi provocati anche da una deficente funzione difensiva degli epiteli, del muco, per cui più facilmente si scompone la protezione delle vie aeree negli uricemici.

Il miocardio può entrare in una condizione mista di flogosi e degenerazione, come pure aversi da parte dei vasi sindromi arteriosclerosiche, con o senza ipertensioni o viceversa, e crisi anginoidi.

In contrapposto a queste alterazioni, che rappresenterebbero condizioni non da tutti riconosciute come diagnosticabili, stanno forme più accertabili che hanno qualche documento in più, ad es., renella nelle urine, tofi, manifestazioni articolari, mentre si afferma nitida ed indiscussa la forma più grandiosa e più completa dell’uricemia: la gotta.

Quali forme evolutive e progressive degli stati uricemici surricordati possiamo considerare la glicosuria, la insufficienza epatica, quel tipo speciale di grassezza che ricorre su di un terreno uricemico, talune forme di calcolosi epatica, per salire poi ad una forma più netta: la calcolosi urica del rene, ed al quadro massimo: della gotta; ognuno di queste forme costituisce oggi un capitolo di patologia degno di vivere entro i quadri della uricemia, ma non ogni trattato, non ogni scuola, si è peranco deciso a riconoscere la vastità e la intensità di questi rapporti.

Nei trattati francesi e in alcuni tedeschi, colla denominazione gotta si intendono tutte le malattie da acido urico; per essi una congiuntivite, un eczema, una sciatica ecc. di natura uricemica è gotta. E quindi si dovrebbe chiamare gotta anche lo stato latente o precedente a questi disturbi,come si chiama gotta anche l’attacco gottoso articolare. Quanta maggior chiarezza nell'uso del nome: uricemia.

E a proposito del momento in cui l’organismo si va più caricandolo di acido urico che si è voluto indicare una specie di vigilia, si è creduto di fissare il punto o graduare il momento di saturazione del sangue in acido urico; e si è detto da taluno che il sangue degli uricemici può tollerare circa 8 milligrammi per cento di acido urico e che avvicinandosi questa condizione l’acido urico precipita. Ma evidentemente se vi è qualche cosa di ultra individuale, sono e la tolleranza dell'organismo, ed in modo particolare, del rene

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presso i singoli e il grado diatesico-discrasico presso ognuno di essi. Le reazioni e le deposizioni locali di acido urico sono subordinate all’economia organica e allo stato di nutrizione locale dei tessuti in cui l’acido urico si depositerà. Come si possono stabilire formole? E così, non sappiamo ancora sotto l’influenza di quale processo si riduce o scompare l’acido urico dal sangue, in pieno attacco gottoso, perché si attenuano altri sintomi patologici, durante l'attacco, e come si spiega la depressione del rene.

Il riconoscimento clinico della uricemia, dal punto di vista pratico, urta qualche volta in speciali difficoltà, perché non sempre si può procedere al dosaggio dell’acido urico nel sangue che sarebbe nei casi non maturi la prova decisiva. Ma in molti casi, le perquisizioni familiari frazionate, le anamnesi severe, la constatazione di parecchi disturbi viscerali resi suscettibili di essere riuniti sotto un medesimo tronco, le reazioni eccessive e prolungate dell’individuo verso stimoli comuni, gli effetti notevoli dello strapazzo fisico o mentale, o del riposo, dell’allontanamento delle cause attuali, aiutano la diagnosi.

Se dai dati raccolti nell’interrogatorio non fosse messo in grado il medico di stabilire la diagnosi di diatesi urica, il paziente si sottometta alla ricerca della quantità dell’acido urico nel sangue da praticarsi, ad es., col metodo Benedict per il quale bastano 7-8 cc. di sangue. Nell’individuo uricemico, nonostante la dieta priva di nucleine si ritrovano costantemente 6-8 milligrammi di acido urico per cento (PRETI) mentre nell’individuo normale non si arriva mai in regime apurinico o in assenza di uricemie funzionali a riscontrare dosabili quantità di acido urico.

E il problema a questo punto resta avviato alla sua soluzione, in quanto che dinnanzi alla presenza di quantità abnormi di acido urico nel sangue, si arriva facilmente ad appurare se queste sono le espressioni di una anomalia transitoria o funzionale, ovvero la derivazione di una produzione endogena od organica. Questo esame del sangue ha una portata notevole, perché esso permette di precisare gli effetti di uno strapazzo, di un ascesso od altra raccolta, di una leucemia, di un avvelenamento da piombo, di una radioterapia di durata eccessiva, di una lesione renale sul contenuto di acido urico nel sangue stesso.

E’ stato superiormente accennato che un gottoso ossia uno che ha avuto od ha un attacco di gotta (o po-dagra) è un uricemico, ossia ha un’alterazione del suo sangue ed in più un processo locale, mentre l’individuo che ha l’uricemia pura e semplice, ossia una limitata alterazione del sangue, può diventare gottoso, ma gottoso ancora non è, data la maniera d’intendere i rapporti tra gotta ed uricemia, che è adottata in Italia da molti ed anche da me. Per chi non fa, o non sa fare distinzione possono succedere dei malintesi, specialmente per colpa dei malati, dei quali bisogna spesso diffidare sopratutto in fatto di notizie riguardanti il loro passato.

Veniamo ad un caso pratico: quante volte un medico non è chiamato al letto di un individuo, che gli dichiara di essere stato colto dall’attacco dolorosissimo ad un’articolazione del piede, all’improvviso, per la prima volta, senza alcun’altra sofferenza, di nessun genere nel passato vicino e remoto. Non basta; il medico, dopo aver fatto diagnosi di attacco gottoso, resta non poco sorpreso di apprendere, ad es., che il paziente è un appassionato e valente cacciatore, un uomo attivo, neanche grande mangiatore di carne, tanto che davanti a questi elementi che respingerebbero l’uricemia e la gotta, è quasi condotto a pensare, se non ha larga pratica in materia o si affida alle informazioni del malato, che la gotta capita a chi capita.

La gotta invece è, ripetiamolo, di quelli che la vogliono, l’uricemia del pari, fatta eccezione per i figli degli uricemici sui quali pesa un’eredità, a cui peraltro, a chi lo sa, è concesso di sottrarsi. Ma ritorniamo al nostro cacciatore. Per prodursi l’attacco gottoso c’è voluto qualche cosa di vicino e di lontano.

Di vicino: un cangiamento nel suo essere in forza del quale l’acido urico si è depositato nelle vicinanze di una articolazione, cosa assai semplice per chi guarda il fenomeno superficialmente, ma in realtà semplice non è, perché debbono essere avvenuti altri fatti ossia un’alterazione locale (presso l’articolazione) che attiri o faccia depositare l’acido urico, inoltre che l’acido urico sia già aumentato sensibilmente nell’organismo. A fianco o in mezzo a queste tre circostanze che rinomino: deposito di acido urico, richiamo di acido urico in un posto, aumento preesistente di acido urico nell’individuo, interviene un’altro fattore: ritenzione di acido urico da parte del rene, ossia diminuzione di acido urico emesso con le urine; e ciò fa presupporre un’alterazione o fissa o transitoria del rene divenuto incapace di far sortire l’acido urico, che giornalmente deve lasciare l’organismo. Per un profano vi sarebbe qui già un insieme di

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particolari capaci di illuminarlo e di rendersi conto dello scatenamento dell’attacco, o di quale disatten-zione o disordine che abbia disturbato la funzione dei reni o comunque turbato l’equilibrio in cui egli si trovava.

Ma vi è dell’altro da dire: questo scatenamento di malattia non può avvenire come uno scoppio di fulmine, vi è nel malato tutta una preparazione lenta, silenziosa, lontana, antica, che come già è stato notato, sfugge non di rado all’interessato ma è fotografata retrospettivamente dal medico e anche dai parenti più accorti, quando negli interrogatori ben guidati giungono a mettere insieme tanti particolari, che formano le pietre della storia dell’uricemia nell’individuo in parola e rischiarano lo scoppio dell’attacco gottoso.

E’ e resta ancora oscuro per i medici l’insieme del fenomeno (di natura nervosa o no) che determina e re-gola l’attacco, la scomparsa sollecita dell’acido urico dal sangue, la imponente reazione generale e locale nel colpito da crisi dolorosa. Ma col tempo si colmeranno anche queste lacune, anzi possiamo asserire che si è sulla strada, ma si tratta di punti prettamente di laboratorio.

Ma non dimentichiamo il cacciatore dolorante. Mentre noi siamo andati chiarendo questi particolari, il paziente, che ha chiamato il medico intelligente e penetrante, in mezzo ai parossismi del suo dolore, calmatosi, tratto tratto, avrà potuto fornire dei particolari al medico, particolari di un certo valore, che uniti a quelli che vi aggiungerà il medico stesso per cognizione propria o per attinzione dai parenti, dagli amici, dai dipendenti, viene messo in grado di ricostruire il passato vicino e lontano del cacciatore.

E qui appare l’abilità del medico, il quale con una ricostruzione limpida, precisa e scultorea, di tutti i più minuti dettagli del passato, mostra che l’uricemia e la gotta non sono sbocciate in un attimo. E tutti finiscono con l’ammettere che il nostro seguace di S. Uberto sia da tempo un candidato, un esposto all’uricemia; anzi un incamminato sui binari dell’uricemia. Ma, si obbietta con premurosa insistenza, sta tutto bene; il nostro amico è stato colpito subito dopo, o qualche giorno dopo, un esercizio molto sano, dopo una partita di caccia, vita all’aperto, ecc., ecc., durante la quale non si ha spesso nè tempo di mangiare nè di disordinare a tavola, che anzi, si noti, il nostro cacciatore è ancora di quelli che non mangiano i frutti della caccia, nè propria nè di altri. Come si giustifica, come si spiega questo attacco che sarebbe addirittura una pugnalata antifisiologica, a tradimento?

Il medico non resta turbato da tali obbiezioni e durante questi conversari, che si svolgono nelle camere vi-cine a quella del sofferente, egli ha buon filo per tessere. Vi è caccia e caccia, vi sono i luoghi di caccia, vi è la stagione, le condizioni del tempo, vi sono i fattori meteorologici climatici, gli imponderabili che agiscono notoriamente (cicloni) sui diversi sistemi nervosi, sulle secrezioni interne. Ma scendendo da queste considerazioni un po' alte, a rilievi più pratici, il medico continua.

In talune partite di caccia, lunghe e faticose, si ha spesso un vero stato di strapazzo muscolare con uno speciale eccitamento del cacciatore, si hanno sudorazioni intense, urine più dense, più acide, spesso disturbi nel movimento del sangue nelle vene, anche il sangue è diventato più viscoso, raffreddamento alle estremità, modificazioni nel sangue, produzione in più di sostanze particolari: acido urico, acetone; astensione prolungata dal cibo, sforzi o strappi presso una giuntura, circostanze tutte capaci di diminuire l’attività del rene e la condizione di integrità di un’articolazione. Se questa risulta in qualche modo scal-fita ed il rene lavora meno, ecco l’attacco.

Non è forse dimostrato che nei forti camminatori specialmente se persiste un disturbo umorale (quale l’uricemia) le superfici articolari possono restare lesionate e particolarmente quelle del piede e tra le altre quella dell’alluce?

Se queste righe cadono sotto gli occhi di un cacciatore gottoso, certo, otterranno il di lui consenso.

Un altro punto assai interessante della preparazione dell’uricemia è quello della gente modesta, gente del popolo che diventa uricemica e gottosa. Ora si tratta quasi sempre di persone che favorite dalla fortuna, ma grazie anche ad un lavoro poderoso, tenace, continuo si formano un patrimonio in danaro. Non saprei come meglio riprodurre questo sviluppo di circostanze riguardanti il povero, il quale si fa ricco e da sano diventa gottoso, che esponendo una mia vecchia descrizione che si riferisce ad un ragazzo genovese

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emigrato tanti e tanti anni addietro. La descrizione privata di qualche termine medico è sempre quella.

Un ragazzo del popolo, intelligente, di famiglia disagiata e numerosa, lascia, sui 15 anni, la terra natia e va nelle Americhe. Comincia a fare quel mestiere che primo gli capita e che non esige preparazione, si mette a fare il manovale; attivo ed intelligente dopo qualche anno aumenta di grado, è passato muratore e poi assistente ai lavori e, circondato di fiducia ascende ancora, diventa capomastro, appaltatore e poi costruttore e socio e più tardi grande impresario e dopo 25-30 anni ritorna in Patria, al paese nativo, assai ricco e malaticcio: egli, come molti altri suoi compagni saliti in grande fortuna rientra colla diagnosi di gottoso o portatore di calcoli o di uricemia.

Lo confrontate, nella casa paterna ai superstiti, ai fratelli e alle sorelle rimaste al lavoro dei campi e delle officine e vi è uno spiccato divario: non solo essi sono sani ma vi è tutta una serie di note differenziali e nella costituzione e nell’insieme dell’uno e degli altri, e subito doro le prime impressioni, vi vien fatto dire che il gottoso rimpatriato vi esibisce tutto un tipo diverso dai fratelli e dalle sorelle, il tipo classico del grasso o del gottoso costituzionale, tanto più che nei figli suoi - gli ultimi procreati - vi sono anche le note dell’uricemia, mentre i parenti del gottoso non presentano segni di malattie colla loro prole pure sana stanno ad attestare che l’eredità comincia proprio dall’emigrante.

E perquisito il passato personale di questo nuovo uricemico, risulta che egli ha lavorato forte e faticato forse molto di più dei parenti lasciati a casa, risulta tutta una storia di stenti di bisogni, di insuccessi e di fortune, con interposte malattie intercorrenti: reumatismi e bronchiti, contratti nel salire, e vivere sui ponti nel lavorare nell’umidità alle intemperie, con “ surmenage ” e con una era di abusi alcoolici e nicotinici, di godimenti della tavola seguiti da aumentato lavoro mentale e diminuita attività fisica, che si inizia o si accentua non appena si è consolidata la fiorente fortuna. L’esame fatto dal medico di Genova ove egli è sbarcato vi dà: un uomo grasso, col viso rosso e congestionato. con facili palpitazioni, con qualche eczema, col fegato ingrandito, con la sabbia nelle urine e con le articolazioni più o meno deformate e doloranti; in breve avete raccolto più di quello che occorre per accertare l’esistenza di uno stato gottoso.

A dir il vero, questa speciale narrazione non è di pertinenza dei soli arrivati dalle Americhe: anche tra noi, tra i figli del popolo che col lavoro indefesso, coll’ingegno eletto, si sono elevati tra i più alti strati sociali e da operai son diventati capi-fabbrica e padroni, industriali, impresari, ecc., è dato qualche volta di rilevare il medesimo fenomeno, ma sempre dopo che la vita febbrile e laboriosa abbia avuto delle soste o gli agi e gli ozii della vita si sieno associati all’uso del tabacco, all’alcool, alla tavola più raffinata e via dicendo. E tutti questi individui, ascesi, dalle ricche fortune, contrastano pur sempre cogli altri familiari, che hanno continuato nel primitivo tenore di vita povera e semplice .

A questi esempi clinici che sono nella coscienza e nella pratica di tutti non voglio chieder troppo: ma il consentimento su due circostanze, su cui da molti si sorvola, ce lo danno esplicito e concreto:

1. che senza precedenti familiari si può arrivare al vertice uricemico-gottoso, esibendo presso non pochi, se non in tutti, anche un abito generale uricemico che evidentemente è acquisito;

2. che i figli nati in questo speciale periodo sono degli esposti, mentre non lo sono i maggiori, concepiti in un ambiente che era ancora normale.

E questo secondo punto ricorda come in talune famiglie vi sono i predisposti e gli esenti. Ma intanto non occorrono, lo si vede, generazioni per far maturare la diatesi; d’altra parte le anamnesi familiari approfondite spiegano la possibilità di binari disuguali nella discendenza degli uremici non ereditari.

Nella discendenza degli uricemici si osserva che non tutti i figli sono colpiti, nè in ordine di giovinezza, nè in ordine di anzianità. Se il procreatore è uricemico dal matrimonio, teoricamente nei figli dovrebbero aversi le manifestazioni secondo l’anzianità, invece non si ha la ordinata maturazione, precedono od anticipano quelli tra i figli che hanno sofferto di disturbi intercorrenti (stitichezza, coliti, forme infettive, ecc.) che danno la spinta alla maturazione precoce. Al contrario se nel procreatore la uricemia si presenta ad una certa età, dopo 8-10 anni di matrimonio, i nati in questo periodo e dopo sono più colpiti dalla uricemia, però, nemmeno qui secondo un ordine progressivo, e per le ragioni su esposte.

Come mai diventano uricemici e poi gottosi uomini preclari per studii, per vita anche austera, filosofi,

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scrittori, ecc.? Su questo importante quesito risponderà altri in altra parte di questa pubblicazione.

Dirò invece che molti operai diventano uricemici e gottosi quando sono colpiti da speciali modalità di avvelenamento da piombo. Non si tratta di gotta od uricemia da ricchezza e da ozio, ma dal lavoro professionale. Ed inchiniamoci, col maggiore rispetto, a questi sventurati, i quali veri uricemici e gottosi per ragione professionale, come venne dimostrato con larghe documentazioni nella Clinica del Lavoro da me diretta, meriterebbero una più larga protezione e riparazione!

La vita sedentaria determina un singolare torpore dell’attività circolatoria, per cui ne viene un aumento dell’anidride carbonica nel sangue, la quale a sua volta agisce, come il piombo, provocando un aumento di acido urico. Vita sedentaria, inazione muscolare, depressione circolatoria, aumento della pressione venosa, iperviscosità sanguigna, turbamenti del sistema nervoso per surmenage, ansietà, preoccupazioni, formano una catena che concorre coll’accumulo dell’anidride carbonica alla produzione di maggiori quantità di acido urico, e d’altra parte e colle alterazioni delle arterie (comprese quelle del rene) e colla meno buona nutrizione del rene, alla ritenzione dell’acido urico.

In questa vita oziosa di prima di mangiare, di lunghe soste a tavola, di riposo o di sonno dopo aver mangiato, la circolazione resta priva di quel validissimo contributo che le è dato dalle contrazioni muscolari e dalle provvide trasformazioni che avvengono nel muscolo dal moto, che favorisce il giuoco respiratorio, circolatorio e tutti gli scambi nei tessuti, la traspirazione cutanea, le funzioni intestinali, ecc.

Muoversi in automobile, in treno, in vettura, equivale a riposare a star fermi. Il moto sano è il moto attivo goduto e ricercato, il moto all’aperto o l’esercizio sportivo, ginnastica, che rientrando nella cornice fisiologica ha una profonda ripercussione favorevole sul sangue e sui suoi elementi figurati: corpuscoli rossi e bianchi. Il sangue parte dal cuore a velocità iniziale di 45 centimetri al secondo (ossia l600 metri all’ora) rallenta la sua marcia in mezzo ai capillari ed attraverso le vene raggiunge il cuore colla modesta velocità di 20 cent. al secondo.

Nella vita sedentaria questa marcia del sangue nelle vene, sangue carico di acido carbonico avviene ancora più lentamente, mentre da un punto fisiologico ideale questa liberazione del sangue ossia il suo lavaggio nel lago respiratorio polmonare dovrebbe avvenire al più presto. Se non temessi che mi facesse velo alla mente 1a grande fiducia che ho nei soggiorni in alta montagna sulla neve invernale, oserei dire che l’uricemico inoltrato, il gottoso, dovrebbe profittare in certo grado del soggiorno, del moto in alto. Non ho esperienza personale di gottosi autentici curatisi sulla neve. Negli incamminati, negli iniziati all’uricemia l’indicazione è evidente.

Intorno alla comparsa di tofi e di nodi (presso le articolazioni) dirò che non sono rari gli individui che hanno presentato o presentano tofi, nei quali individui non è mai intervenuto l’attacco gottoso. Ed il tofo ha valore diagnostico categorico. Mentre altrettanto non si può dire, e lo accenno di sfuggite, dei nodi articolari di Heberden.

E così l’uricemico può, lo ripeto, più di ogni altro individuo offrire occasione all’insorgenza di una calcolosi urica renale ed epatica, alle affezioni muscolari croniche, alle affezioni delle vie respiratorie. Ma quando queste ripercussioni fossero per allontanarsi dalle sintomatologie più chiare, per esprimersi con segni più modesti e più comuni, è possibile dalla constatata associazione di più disturbi risalire al ceppo comune.

Una circostanza voglio ricordare che alle volte può trarre in inganno. Che le malattie infettive od altre forme morbose possono sollecitare la pubblica manifestazione di uricemia latente è notorio. Ma il meccanismo del favoreggiamento vuol essere ricordato. L’attacco gottoso si è già presentato per la prima volta o ripresentato, in individui colpiti da polmonite in atto o appena superata. I prodotti della lesione polmonare hanno trovato impreparato od insufficiente l’organismo o si son date le condizioni per l'esa-gerata produzione di acido urico. E ricordo il caso di un collega nostro artritico, che nello svolgimento di una raccolta marciosa, fu assalito da un attacco gottoso in correlazione con l’alimentazione, che era scarsissima, ma con le sostanze derivanti dalla distruzione dei corpuscoli bianchi contenuti nell’ascesso.

Ne è da sorprendere che vi siano individui con attacco gottoso da poco superato che restano a letto, che

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non mangiano e nei quali si ripete un altro accesso gottoso in altra articolazione. La completa astinenza dal cibo, una depressione ulteriore del rene, una cura mal fatta, un raffreddamento, l’occupazione mentale eccessiva possono essere i fattori della ripresa. Qualche volta l'attacco gottoso è preceduto da un episodio assai modesto.

Una congiuntivite catarrale non raramente è fenomeno prodromico dell’attacco gottoso, quando non ne sia compagno. E’ il grande anatomo-patologo di Padova, MORGAGNI, che l’ha osservato su sè stesso; Morgagni che era gottoso si vide colpito da congiuntivite che si accentuò nel corso di 24 ore, dopo di che esplose l’attacco gottoso al piede e la congiuntivite scomparve rapidissimamente.

A Graves, clinico inglese, invece capitò un altro fenomeno. Egli pure era gottoso; un giorno è colpito da un acutissimo dolore ad un orecchio (al padiglione), dopo un’ora si scatena un attacco di gotta al piede ed il dolore all’orecchio scompare.

Ma è bene che sia conosciuta la storia talvolta silenziosa o sbiadita di alcune vicende.

Vi sono individui che prima di costituirsi in uricemici classici hanno sofferto per uno o più inverni di gravi sensazioni di freddo alle estremità, di disturbi gastro-intestinali di stitichezza o di diarrea, o di emorroidi, di affanno, di dolori muscolari od articolari, di cefalea, di movimenti sub-febbrili, di raffreddori piuttosto protratti, di sudori abbondanti, o di riduzioni notevoli della funzione sudorifera.

Questi individui possono anche aver notato riduzioni o concentrazioni delle urine, aver avuto lievi attacchi di asma, vertigini, ecc.

Ma tutto questo passa talvolta inavvertito o ad esso vengono in soccorso le più bizzarre interpretazioni fino a che non si presentano attacchi gottosi od altre crisi che si impongono allo studio e al riconoscimento del medico.

Cosa era quel periodo di malessere proteiforme che ha preceduto la malattia attuale? Non un preludio vero e proprio, ma lo stato uricemico sguinzagliantesi verso le sezioni dell’organismo meno valide, mentre mancava ancora o la densità della condizione urica o la peculiare condizione locale capace di dare ospitalità e cooperazione all’acido urico per la esplosione dell’attacco gottoso.

Nella storia antica e recente di un gottoso troviamo quasi sempre questo duplice elenco di disturbi generali e locali. Ma in quanti altri individui ha esistito ed esiste quel preludio storico di sofferenze generiche, nei quali non è intervenuta ancora, e forse non interverrà mai, la seconda tappa delle localizza-zioni dell’acido urico! Ebbene, questi non sono soltanto casi di uricemia astratti, ma sono dei malati latenti od in potenza o possono essere anche rappresentanti in potenza di ogni altra eventuale associazione morbosa.

Sono degli uricemici, che a poco a poco correggendo metodi, regimi, abitudini, vanno conferendo minori materiali all’ulteriore pervertimento del ricambio, risparmiano l’economia di organi cospicui, quali il rene, il fegato, il sistema nervoso e sopprimendo l’alcool, il tabacco ed ogni altro dispendio organico o si allontanano dalla possibilità gottosa o rimettono ad età più inoltrata il pagamento del gravame ereditario.

Come possiamo spiegarci i meravigliosi risultati di cure nelle stazioni balneari presso i candidati e gli iniziati uricemici se non invocando questo terreno facilmente migliorabile ?

L’'uricemia maturata, che dà dei disturbi attivi, è per il medico una specie di poliedro che si consolida, e trionfa tristemente colla molteplicità svariata delle sue facce strettamente aderenti e solidamente composte. Dirigere le cure, ossia l’assalto generale verso questa complessa situazione, non è sempre facile: ma il medico deve graduare i suoi metodi curativi, ossia applicare trattamenti minerali purgativi, climatici, dietetici, ciascuno dei quali torna efficace sul fronte su cui l’abilità del medico dispone l’as-salto.

Vincere su di un distretto vuol dire sollevare e migliorare la lotta e scuotere altri lati. Ed in vero l’elevare notevolmente la diuresi 15-20 giorni, con acque leggermente alcaline che diminuiscono la più alta

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viscosità del sangue, che abbassano la pressione, che asportano detriti dai canalicoli renali, che attivano la circolazione renale, presso stazioni alpestri, lungi dalle preoccupazioni e dalla vita intensa, è oggi assioma terapeutico, che attraverso la tradizione, si consolida cogli orientamenti odierni della patologia e coi successi incontrastati presso gli ammalati.

Ma nelle stazioni balnearie per le cure antiuretiche si deve andare con spirito sereno, con buona preparazione morale, che dovrebbe essere già fatta dal medico che consiglia la cura, con una qualche conoscenza di quello che rappresenta la malattia, che è da vincere o da attenuare.

Gli impazienti, gli affrettati, i premurosi dagli affari (che premono quasi più del maggior affare della salute da riconquistare) con le ore quasi contate, non offrono alla bibita quel calmo e remissivo adattamento che le è tanto propizio. Non dimentichino costoro che non vi sono cure che possano in 2-3 settimane modificare radicalmente un temperamento, una diatesi, una serie di mucose o di sierose o di tessuti abituati da più anni a sinistri contatti, tanto più quando si è diffidenti od ostili alla sorgente, o si vuol mangiare di tutto o si vuol fare la vita brillante e notturna. Non turbiamo il silenzioso e delicato lavorio chimico dell’acqua medicatrice con azioni contrarie ed intorbidanti! Eppure vi sono le persone dall’animo fidente, che osservando strettamente la cura notano in sè stessi dopo 6-8 giorni una rinnovazione profonda, inaspettata, insperata.

Molti anni fa mi trovavo, nelle ferie, a S. Pellegrino assieme ad uno dei più illustri fisiologi viventi. Con quale precisione egli non attendeva alla cura, e con quale diligenza non studiava sè stesso, giorno per giorno! Io ricordo quello che ha voluto scrivere in linguaggio elevato questo illustre maestro della sua cura, perchè le stesse sensazioni sono provate ed anche espresse da altri che fanno la cura come va fatta. E si ritorna alla fonte 1-2-3 anni di seguito per ottenere maggiori risultati o per conservare i benefici conseguiti. A S. Pellegrino sono memorabili le frequenze di Emilio Visconti Venosta, di Costantino Nigra, di Pietro Carmine, di Giuseppe Fasce, del sen. Speroni ecc., che singolarmente per oltre 5 lustri, furono assidui di quella stazione.

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Si deve combattere l’accesso acuto di gotta?

Sydenham, il celebre scrittore e celebre paziente della gotta, si dimostrò ostinatamente avverso ad ogni cura diretta ad attenuare e sopprimere il dolore nell’attacco gottoso. “il dolore amarissimo, egli scrisse, è il farmaco della natura; più veemente è il parossismo di dolore e più presto si risolve l’attacco; più lunga e più perfetta sarà la sosta tra questo ed il futuro attacco, et viceversa”.

Trousseau, un clinico insigne di Parigi, 50 anni addietro, scriveva: “all’inizio della mia professione tentai più volte di lottare contro il male; oggi resto con le braccia incrociate, non faccio nulla, assolutamente nulla contro gli attacchi di gotta acuta, specialmente quando i colpiti sono individui robusti e giovani. Quando cercai di combattere il dolore corsi il rischio di vedere gli accessi più frequenti e cangiare una gotta franca e passeggera in una gotta fredda, atonica e persistente. Chi sa sopportare il dolore, si compra più mesi di salute perfetta ”. Oggi non si trovano più dei pazienti come il Sydenham e dei medici come lui disposti a soffrire e a lasciar soffrire.

Oggi con le maggiori conoscenze che si hanno intorno all’alimentazione, intorno agli effetti delle cure minerali, con le conquiste nel campo della terapia fisica (diatermia, massaggi, fanghi, ecc.) sono da paventare meno gli eventi segnalati da Sydenham e da Trousseau curando e calmando l’attacco. Non si può essere per il libero soffrire, tanto più che oggi la gente non ha più il grado di tolleranza di una volta. Coi preparati di colchico, cogli altri prodotti che hanno la proprietà di mobilitare l’acido urico e di farlo eliminare e con cure severamente condotte alle fonti specifiche e con le norme dietetiche, si può combattere l’accesso classico.

In quanto all’alimentazione curativa, l’alterazione interna si comprende, non deve ricevere spinte e contributi dall’acido urico somministrato in quantità coi cibi. Il medico che concede l’uso abbondante di carni e in maniera particolare le carni ricche di corpi nucleinici a chi proviene da ceppi artritici, evidentemente è fuori di ogni direttiva profilattica contro l’uricemia; nè vale nemmeno il proposito di una cura alimentare ricostituente del sistema nervoso, a base di sostanze ricche di corpi purinici, a giustificare l’abbandono di norme preventive dell’uricemia. Chi ha nei propri antenati casi di artritismo, fin dalla tenera età, anche senza sintomi, va protetto; ma medici e parenti in ogni malattia dell’infanzia o dell’età adulta che colpisce la discendenza immediata dell’uricemico, vi debbono ravvisare e temere un alleato incosciente, ma valido, nella condizione latente, e l’alleanza va quindi impedita e neutralizzata.

Le faringiti, le affezioni bronchiali, i disturbi delle vie digestive, la stitichezza, le manifestazioni reumatiche debbono essere razionalmente curate presso i predisposti all’uricemia. E diventa in questi individui un provvedimento quasi profilattico, una cura balneologica antiurica. Fa risparmiare e preservare il ridotto patrimonio dei fermenti, ecco, un compito di primo ordine, presso chi ha la preparazione verso l’uricemia. E questo patrimonio può essere usurato da alimentazione impropria, da malattie intercorrenti, da vita antigienica. Così pure l’attenuare ed eliminare tutte le circostanze capaci di insidiare il tessuto renale, il pensare al suo risparmio, provvedere a che venga messo in azione tutto ciò che oggi dalla vita all’aperto, dalla scuola dell’educazione fisica, dall’igiene del lavoro siamo in grado di ripetere, è programma da applicarsi largamente a titolo preventivo.

“Le cure con acque minerali, che hanno conseguito e conseguono risultati notevoli si spiegano colla loro singola costituzione e coll’azione fisiologica esplicata”.

Questo io scrissi tre lustri addietro, questo riaffermo oggi, e per arrivare ad una conclusione che è frutto di una profonda convinzione dichiaro che l’aumento della uricemia e stati affini è determinato:

1. dall’uso eccessivo delle carni; 2. dalla vita sedentaria, dalla vita agitata, dalla rinunzia che molti fanno agli sports; 3. dal cangiamento della vita attiva laboriosa in vita di lusso, di eccessi alimentari, di abusi nel bere,

nel fumare, ecc.; 4. dalla noncuranza dell’ereditarietà nei fanciulli provenienti da genitori uricemici;

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5. dalla ignoranza delle norme profilattiche e curative che sono idonee ad arrestare o prevenire la malattia.

Ed ora una domanda: si possono sposare gli uricemici, i gottosi? Vi ha risposto affermativamente molti anni addietro un autorevole medico tedesco, il Senator; ed eguale risposta è da darsi oggi; tanto più che si è visto come molti giovanotti, uomini di affari o no, fattasi la famiglia e cambiata regola di vita, di dietetica ecc. hanno visto attenuare in sé i segni della uricemia.

E la donna, che è piuttosto risparmiata dall’uricemia acquisibile od acquisita, ha appunto la missione di determinare, governando l’andamento famigliare con criterio, notevoli modificazioni nelle condizioni di vita del marito, adottando regimi dietetici più poveri di carni, di salse, di vini, imponendo le passeggiate, le escursioni, le serene distrazioni, insomma la vita all’aperto. Ed i coniugi, colpiti da uricemia, sapendo che sono in grado di far pesare questa uricemia sulla prole, hanno la possibilità, modificando i regimi alimentari ecc., di non creare passività ereditarie nei loro figli, i quali un giorno potrebbero anche fare qualche obbiezione verso la ignoranza o la indifferenza dei procreatori.

Giunti alla fine, è permesso di segnalare un fatto che ha quasi del paradossale. Gli antichi avevano visto bene ed acutamente in questa malattia del ricambio che è la gotta uricemica, e pur non arrivando a precisare la figura dell’acido urico (scoperto solo nel 1776) avevano saputo intravedere i rapporti tra stato costituzionale e disturbi dei diversi organi, della pelle ecc.

Ed in questa concezione che dominava anche la cura si ottenevano risultati notevoli. Io penso che non poche sorgenti minerali hanno avuto in tempi difficili per guerre, comunicazioni, ristrettezze economiche, delle correnti continue di pubblico, perché frequentate da questi malati del ricambio, malati complessi offrenti come si è detto una specie di poliedro di disturbi, ad impalcatura reciproca, in cui la caduta di uno promoveva una scossa altrove e che ottenevano nelle diverse località di cura dei benefici reali.

Anche i non medici erano al corrente della natura dei disturbi e delle cure. Cassiodoro, ministro di Teodorico e successori, conferma da Ravenna la diagnosi delle sofferenze da cui è colpito il governatore militare di Pavia, gli dà un congedo e lo autorizza ad andare a Bormio a curare la sua gotta, perchè altro che gotta non erano i suoi disturbi .

Coi progressi delle scienze mediche nella seconda metà del Secolo XIX, colle conquiste dell’anatomia patologica, già negli albori e poi coi trionfi della batteriologia, tutto è abbattuto, quasi nessuno vuol più parlare e sentir parlare di diatesi, di umore, di discrasie. I tedeschi sono i massimi distruttori e solo da pochi lustri cominciano a rivedere le loro posizioni e ad uscire dal passato negativismo. Ma ad un grande dermatologo di Vienna l’Hebra, che fu uno degli spiriti più rivoluzionari e distruttori in argomento, è toccato che un suo eminente discepolo, il Kromayer di Berlino avesse a scrivere “benchè scolaro di Hebra ho finito per credere nell’origine uricemica degli eczemi e da quando ne ho visto 30 anni addietro il primo caso, oltre un migliaio sono caduti sotto la mia osservazione”.

E non è fuor di luogo rilevare come non poca gente, affetta da disturbi della pelle sia stata, sotto l’influenza delle conquiste della scienza, diagnosticata e curata, non senza danno, in maniera diversa da quello che avrebbero fatto i vecchi medici e di quello che si fa oggi, perché i dermatologi e molti altri cultori della specialità accettano il principio e le conseguenze delle diatesi.

Il piccone demolitore dei vetusti edifizi che hanno sfidato i secoli non deve risultare mai cieco, quando intende riformare!

Noi ci teniamo ad aver dimostrato, in base allo studio della preparazione dell’uricemia negli operai che maneggiano piombo, che dalle uricemie transitorie, fugaci e ripetentisi, viene a costituirsi a poco uno stato più complesso, più complicato, in forza del quale l’organismo subisce delle modificazioni nei suoi umori, in taluni organi; si stabilisce una condizione diatesica, che consente ad un individuo di avere disturbi in più punti, in parti diverse, disturbi che si sottraggono agli ordinari metodi di cura più propri dei disturbi similari, quando dipendono dalle cause comuni. In questo stato l’individuo può essere, col concorso di altri fattori, colpito di artrite gottosa, da altri fenomeni morbosi come visto in precedenza.

Le carni consumate in eccesso o troppo ricche di sostanze puriniche conducono quasi alle stesse

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risultanze, obiettive, biochimiche del piombo.

La vita sedentaria con l’aumento dell’acido carbonico nel sangue circolante e nei tessuti, la mancanza di moto, di esercizio, di vita all’aperto congiunta a stati speciali emozionali o no ha la tendenza a favorire le conseguenze della carne consumata o no in eccesso, come pure cooperano in ogni settore, spesso contemporaneamente, l’abuso dell’alcool, del fumare, dei godimenti della vita.

Tali deviazioni hanno la proprietà di anticipare tutte le manifestazioni uricemiche in chi proviene da famiglia uricemica.

E quindi da augurare, e si passa da un problema particolare ad una visione generale, che quella parte di pubblico che fa uso eccessivo di carne, lo riduca notevolmente e che d’altra parte il popolo italiano in massa accresca ed estenda ancora il suo consumo di carni, (perché l’Italia come viene dimostrato in un notevole scritto dal prof. Pugliese, sta indietro sensibilmente ad altri popoli nel consumo delle carni), senza superare per ogni italiano quella quota che la fisiologia e la Clinica ritengono utile ed indispensabile ad un popolo, che ha alte missioni di civiltà da espletare nel mondo, in conformità del suo genio, del suo sentire generoso e nobile, della sua passione per il lavoro.

Ed in vista di questo grande panorama nazionale non sarebbe degna della vita maggiore che attende la patria nostra una promessa ed una pratica di vita più austera, più che per conquistare la forza fisica che non può essere un fine, per conseguire la salute più ampia, fisica ed intellettuale, che forma anche la felicità delle famiglie e degli individui?

Prof. L. Devoto

Milano.

Masticate con molta cura, mangiate adagio; non leggete giornali, lettere e, meno di tutto listini di borsa a tavola.

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L’esercizio fisico nella prevenzione e nella cura dell’uricemia

Nel grande quadro della patologia umana, le cosiddette malattie del ricambio hanno assunto in questi ultimi tempi un’importanza e un interesse del tutto particolari, perché offrono, purtroppo, occasione a gravi ripercussioni, assai più di quanto non l’offrissero in passato, e perché, col concorso di nuovi fattori, dal punto di vista scientifico si vanno aprendo nuovi orizzonti a una più vasta concezione patogenetica di questi stati morbosi. E’, infatti, oggi generalmente risaputo che il terreno storico e tradizionale delle malattie classiche del ricambio, ossia dell’uricemia, dell’obesità e del diabete, si va allargando per la incursione che fanno tra esse talune perturbazioni, che si osservano nella crescenza, nella pubertà e nella vecchiaia, quelle che si verificano durante la convalescenza di malattie acute febbrili, e i perturbamenti funzionali dovuti ad alterazioni funzionali delle ghiandole a secrezione interna.

Ma di tutte le forme patologiche del ricambio quella che ai fini pratici di queste pagine più particolarmente ci interessa è l’uricemia, per la sua diffusione ai giorni nostri assai più larga di quanto si pensi; per le varie spesso ingannevoli manifestazioni con cui si palesa; per le fasi successive di sviluppo che, ove non sia curata, può spesso presentare; infine pei vantaggi incontestabili che a scopo sia preventivo che di guarigione può derivarle dalla cura del movimento associata, s’intende, a norme di regime dietetico.

E’ di osservazione comune il fatto che nelle famiglie dove la tavola è troppo ricca e dove è scarso o quasi del tutto abbandonato l’esercizio fisico del corpo o diciamo sinteticamente la passione per il moto, più facilmente si incontrano individui malati di ricambio. E ciò è ovvio; manca in queste condizioni una giusta proporzione fra la quantità di alimento introdotto e il lavoro muscolare che delle funzioni del ricambio il più potente promotore. La sobrietà è virtù di pochi e pochi quindi sanno apprezzarne l’utilità; soltanto le persone ultra sobrie potrebbero fare una qualche rinunzia ad un lauto programma di moto. Bene apprezzò la sobrietà Luigi Cornaro! Chi non ricorda l’elogio che ne dettò questo gentiluomo veneziano del Rinascimento con quel suo trattatello in quattro discorsi “ Della vita sobria ” da lui scritto nella più tarda età e che ebbe molte ristampe nel secolo XVI, e fu tradotto e ancora ristampato nei secoli seguenti, e commentato dal celebre Ramazzini, e da Pompeo Momenti, illustrato da par suo circa vent’anni sono?

E chi a proposito di sobrietà, tanto poco osservata ai nostri giorni, non ricorre col pensiero alle disposizioni religiose che sancivano col digiuno ricorrente precetti di temperanza il cui alto valore igienico non si può negare da alcuno?. “Quando ciò si consideri, osserva Piero Giacosa, non si può non deplorare che oggidì l’etica religiosa abbia abbandonato questa via; se le pratiche igieniche che la scienza dimostra efficaci a combattere i mali avessero sanzione religiosa, esse sarebbero certo adottate più facilmente”.

La gente di campagna al contrario che è ordinariamente frugale, ed è per necessità di cose più dedita, anzi obbligata, al lavoro muscolare di quanto lo sia gran parte di quella che vive in città, non si ammala di uricemia. E che la frugalità e l’esercizio fisico del corpo tengano lontano questa malattia, lo dimostrano luminosamente le osservazioni di uricemici che si incontrano tra individui dal passato familiare puro, i quali saliti da modestissime condizioni alla più larga fortuna, dall’antica e parca mensa sono passati ai piaceri della tavola più imbandita e da una vita di lavoro e di moto a una vita torpida e sedentaria.

Ora dei due coefficienti di cui ci stiamo occupando - esercizio fisico e alimentazione - la parte più importante spetta senza dubbio al primo, che del ricambio ha funzione regolatrice, e che nella misura della sua intensità e della sua durata trova un regolatore naturale nel senso della fatica. Il secondo, invece, ossia l’alimentazione, non sempre può sottrarsi al capriccio dell’individuo e alle sue cattive abitudini se non intervenga 1’impero della volontà, perché l’abuso dell’alimento, si può dire, non ha freno. Il cuoco più abile e più celebrato è colui che ci fa mangiare di più, che ci fa mangiare anche quando si ha poco appetito, e che sa trattenerci molte ore a tavola! (1).

Ma se il lavoro muscolare ha effetti così importanti sul ricambio generale da poterne mantenere in equilibrio la complessa funzione e da ricondurvela quando ne sia deviata, deve in ogni caso associarsi a

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un regime conveniente il quale “crescerà in valore termodinamico col consumo per il maggior lavoro muscolare e dovrà contenere abbondante, ma non eccessiva proporzione di albuminoidi, moderata quantità di idrati di carbonio (farinacei) e specialmente di grassi, scarsi gli alcoolici e i nervini e in quantità ragionevoli anche l’acqua” - (Ascoli V.).

Non si creda, come spesso erroneamente si pensa, che il lavoro o l’esercizio muscolare diminuisca il valore alimentare di un siffatto regime; al contrario esso lo accresce perché la contrazione dei muscoli non è oggi, con le nuove conquiste della scienza, una mera espressione meccanica od energetica, ma costituisce un complesso scambio di materiali che sono al di fuori dell’impulso centrale, e che attraverso spostamenti dell’equilibrio acido basico influiscono sull’organismo e sulla grandezza e sulla capacità delle sue prestazioni.

In tal modo il lavoro o l’esercizio del muscolo non ha soltanto effetti locali di circolazione, di temperatura, di chimismo e di nutrizione; ma per le correlazioni circolatorie, nervose, umorali che uniscono fra loro i vari organi ed apparati, fa risentire la sua azione anche a distanza stimolando tutte le funzioni organiche: la circolazione sanguigna e linfatica, il respiro in tutte le partecipazioni dei muscoli respiratori e particolarmente del diaframma, la funzione digerente, la traspirazione cutanea con un’attivazione della marcia del sangue venoso che più presto si libera dell’eccesso di acido carbonico fattore di iperuricemia (Devoto - Preti), ecc., col risultato ultimo di un maggior lavoro di tutti i congegni che a queste funzioni sono preposti.

La maggiore introduzione di ossigeno nel sangue che si verifica in queste condizioni, la maggior attività dei fermenti che stanno a capo delle intime trasformazioni chimiche che si verificano in seno ai tessuti, favoriscono più rapide le combustioni, e le elaborazioni del materiale nutritizio, onde gli scambi in-tercellulari si compiono più regolarmente e più regolari; di conseguenza si effettuano i processi dell’assimilazione e della disassimilazione per le loro opposte direzioni. Tutto il complesso e intimo procedimento della nutrizione viene in una parola ad esser stimolato con pregiudizio fondamentale e fatale, ovvero con la riduzione, della iperproduzíone di acido urico.

In questo esagerato funzionamento dei fenomeni della vita organica risiede pertanto l’utilità preventiva e curativa degli effetti generali dell’esercizio, e del movimento nell’uricemia che, convien ripeterlo, non è che un esponente del rallentamento della nutrizione generale. Chi, pur essendo modico mangiatore, trascura cotesto lavoro cullandosi in un regime di torpore fisico, o limitando eccessivamente l’atti-vità delle membra, si avvia tosto o tardi a diventar uricemico. Nè lo inganni il suo aspetto di floridezza che egli crede riconoscere dal bel colorito del volto e più ancora da quel principio di ingrassamento che i francesi chiamano embonpoint.

Sissignori, le difficoltà che incontra la medicina e l’igiene nei confronti delle norme restrittive pro-vengono dal fatto che l’uomo in genere è felice se aumenta di peso; se dimagrisce son guai! Si parla degli uomini che non raggiungono 90-100 chili, ma di nessuna donna, perché la donna schiava della feroce tirannia, deve dimagrire!

Dietro quelle apparenze di salute perfetta si preparano lentamente a scadenza più o meno lontana gli episodi più vari dell’uricemia che, prima di esplodere in modo indubbio coi dolori articolari, o con un attacco di gotta, o una colica renale, o coi segni di una insufficienza epatica, ecc., suole avere i suoi esponenti nei sintomi più diversi, in comuni emicranie, in volgari disturbi di stomaco e di intestino, in catarri bronchiali e in accessi intercorrenti di asma, in vertigini e cosi via spesso nascosti o negletti da un buon aumento di chilogramma!

Perché in questo aumento di peso il profano vede erroneamente un indizio di buone condizioni fisiche, che, al contrario si dovrebbe tener d’occhio. Il suo apparire, dice Heckel, costituisce una specie di avvertimento o di garanzia automatica, offerta dalla natura dei pericoli che l’individuo corre per l’indebolirsi della funzione dei suoi organi e sopratutto dei suoi muscoli e che, ove non si ricorra ai ripari, lo condurrebbero a una progressiva diminuzione della propria vitalità per riduzione degli scambi organici, a quel tipo nosologico cioè che Landouzy ha creduto di sintetizzare col nome di braditrofismo, di cui una delle manifestazioni più comuni è appunto l’uricemia.

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Da quanto si è finora esposto risulta dunque chiara, ai fini di prevenzione e di cura dell’uricemia la necessità di associare a un regime adatto l’esercizio del corpo. La semplice empirica riduzione degli alimenti non può esser sufficiente; talvolta anzi la sua riduzione comunque imbastita è causa di non piccoli disturbi. Heckel ricorda che in queste circostanze l’individuo dimagrisce nei primi giorni, col sacrificio esclusivo del tessuto adiposo, che si era infiltrato fra le fibre dei tessuti e che nell’obesità avanzata ricopre anche la superficie di alcuni di essi; la massa organica (albumine organizzate) non si consuma che in minima parte in questo primo periodo di alimento ridotto.

Ma prolungando la dieta dimagriscono notevolmente anche i visceri e seguono le scomparse dei cu-scinetti adiposi, quindi sopravvengono la ptosi di essi e non manca l’anemia dovuta a emolisi, ossia a distruzione dei globuli del sangue con tutte le conseguenze che ne derivano: sicchè alla fine si ha una riduzione di tutta la massa dell’organismo. Le cose procedono ben diversamente se ad una razionale modificazione del mangiare si accoppia l’esercizio fisico; questi inconvenienti sono evitati, perché l’esercizio conserva il muscolo, il quale fissa per mezzo del suo lavoro la maggior parte dell’alimento introdotto, e se da una parte consuma il grasso, provocando una inevitabile perdita di peso, preserva dall’altra tutti gli altri organi nobili dell’economia.

E sono poi proprio necessari gli esercizi, parmi di sentire obbiettare? Durante la guerra i contadini d’Italia e di Francia che non hanno mai fatto ginnastica né sports, non hanno meravigliato il mondo, durante la guerra, con tutte le meravigliose energie muscolari che hanno saputo esprimere in tutte le più ardue prestazioni, in tutti gli sforzi?

Non vi sono le statistiche ad es. di una importante città del sud-ovest di Francia in cui la gioventù pratica gli sports e sopratutto il foot-ball, dove la visita militare ha eliminato 292 giovani sui 20 anni su 624 presentatisi?

Per prevenire le cosiddette malattie del ricambio rappresentate dall’uricemia e dall’obesità e stati affini si esige, in generale, quella quantità giornaliera di attività muscolare che sia idonea ad impedire gli effetti deleteri della sedentarietà. Non sono quindi sedentari per noi quei mestieri o quelle occupazioni ad es. quali quelle del contadino, del giardiniere, del muratore, del vetturino, del portalettere, del fabbro, ecc. che son costretti a muoversi, e all’aperto, per una parte della giornata. L’attività professionale di questa gente è espressione attuale di ossequio alle dottrine della educazione fisica, è esercizio fisico, è moto.

Il padre trappista che nei solchi della terra si affatica e li bagna del suo sudore non diventa né uricemico né gottoso, mentre lo diventa l’altro padre che nelle celle, pur ristringendo l’alimentazione, fa vita di studio, ma sedentaria. Al primo è superfluo l’esercizio, che dovrebbe imporsi il secondo.

E’ utile riprodurre qui lo specchio di Pugliese che dimostra quali modificazioni avvengano nel muscolo che lavora, in rapporto alla irrigazione sanguigna, al consumo di ossigeno e alla produzione di acido carbonico.

Riposo Lavoro Aumento

Irrigazione sanguigna lit. 12.229 lit. 56.321 1 : 4.60

Consumo di ossigeno lit. 0.307 lit. 6.207 1 : 20.10

Quantità per chilogrammo di muscolo e per ora Produzione di acido

carbonico lit. 0.221 lit. 7.835 1 : 35.45

Ad un uomo in riposo che pesa 70 kg occorrono giornalmente tanti alimenti che corrispondano a 2170 calorie. Un terzo di queste calorie si trasforma in lavoro, che si calcola in chilogrammetri (una caloria da 425 chilogrammetri) e perciò in quest’uomo ben 300.000 chilogrammetri corrispondono alle sue calorie per il lavoro meccanico. Se questo individuo dal relativo riposo passa ad una marcia di 50 Km. che copre in ore 8 e mezza, esegue un lavoro meccanico che corrisponde a 350.000 chilogrammetri, ossia questo uomo abbisogna di un’introduzione raddoppiata di calorie alimentari.

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E per dare qualche esempio si ricorda che nell’uomo di 70 Kg. che fa in un’ora Km. 3.6 il lavoro è di chilogrammetri 21.000; Km. 6 è 42.000; Km. 8.4 è 102.000 chilogrammetri.

Però da un punto di vista generale è indifferente se noi domandiamo del moto all’aperto o dell’esercizio muscolare a piedi, in bicicletta, a cavallo, in pianura, in montagna, del nuoto, del tennis, il giuoco a bocce ecc. purché si verifichi quella maggiore attività muscolare che è esposta nelle tavole, ossia che non si stabilisca il regime della vita sedentaria, ossia della immobilità o della mobilità in automobile o carrozza.

Ma poiché non sempre ogni persona può regolarmente, ogni giorno, attuare le passeggiate, od il gioco all’aperto od altro esercizio, ritorniamo al punto di partenza e domandiamo:

Ora, quali esercizi sono praticamente più adatti allo scopo che ci proponiamo, di prevenire cioè e di migliorare gli stati uricemici? Secondo una nomenclatura abbastanza diffusa gli esercizi fisici sono stati divisi in esercizi di ginnastica propriamente detti (liberi o con attrezzi), in esercizi naturali e in esercizi sportivi. Nel caso nostro è bene dare la preferenza ai più semplici, a quelli che ognuno può eseguire dovunque, in ogni stagione e senza bisogno di speciale attrezzatura.

Meglio degli altri serve quindi la cosidetta ginnastica da camera che risponde appunto a questi requisiti e con la quale si può con metodo individualizzato e regolarmente graduale agire su tutti gli organi ed apparati e influire quindi con maggiori benefici su tutta la massa del corpo. La ginnastica da camera deve ad ogni modo precedere gli esercizi dello sport, e costituire eventualmente, di essi una fase preparatoria colla rieducazione dell’apparato muscolare.

Le sedute di ginnastica medica si fanno appena alzati e semivestiti, dopo l’abituale toilette e a finestre aperte. La prima seduta deve essere breve, della durata di non più di dieci minuti, da seguirsi in posizione eretta, e consiste in movimenti metodici e lenti del capo, degli arti e del tronco: flessioni anteriore e laterali, estensione e rotazione del capo; flessione ed estensione degli avambracci, elevazioni complete sul piano anteriore e laterale degli arti superlori e rotazioni di essi intorno alla spalla; flessione ed estensione delle ginocchia sulla punta dei piedi anteriormente aperti con la divaricazione delle ginocchia stesse, elevazione massima anteriore, laterale e posteriore degli arti inferiori a ginocchio disteso e circonduzione intorno all’articolazione dell’anca; flessione anteriore e laterale del tronco e sua massima estensione all’indietro.

Gli esercizi degli arti superiori, nelle due fasi del movimento di abduzione e di adduzione, devono essere accompagnati rispettivamente da inspirazioni ed espirazioni lente e profonde a bocca chiusa, associando così alla ginnastica degli arti una vera e propria ginnastica respiratoria sulla cui importanza non si insisterà mai abbastanza, qualora si pensi, che l’uricemico pecca quasi sempre più o meno di insufficienza respiratoria. Gli esercizi di respirazione suaccennati, mentre tendono a vincerla, aumentando gradatamente anche con la accresciuta attività del diaframma la capacità toracica del soggetto, rendono più attive le altre funzioni organiche con la maggior introduzione di ossigeno.

Dopo le prime sedute gli esercizi degli arti superiori si possono eseguire impugnando manubri non troppo pesanti (2 Kg. ciascuno), ed i movimenti di flessione anteriore del dorso e di sollevamento degli arti inferiori a ginocchia distese si possono praticare stando sdraiati su un piano orizzontale. Con quest’ultima modalità si agisce efficacemente contro l’adiposità iniziale del ventre, di cui abbiamo già parlato.

Si tratta di esercizi che richiedono un certo sforzo, perché vanno eseguiti tenendo le mani dietro la nuca o tentando durante il movimento di flessione del tronco di toccare con esse la punta dei piedi: devono quindi essere intercalati da soste di riposo. Essi mantengono la tonicità dei muscoli dell’addome rinforzandola se è diminuita, e influendo quindi beneficamente anche sulle funzioni digerenti e su quella dei polmoni sapendosi che i muscoli addominali sono muscoli accessori della espirazione.

Tutti questi esercizi vanno eseguiti possibilmente ogni mattino, aumentando gradatamente di numero ogni serie dei singoli movimenti e prolungando quindi giorno per giorno la durata della seduta fino a 25 minuti al massimo. Protrarla più a lungo vuol dire favorire lo sforzo e le sue dannose conseguenze e annullare ogni vantaggio della ginnastica.

Degli esercizi naturali il più comune e più facile è la marcia, utile, anzi necessaria a tutti e in modo

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particolare a chi conduce vita sedentaria che favorisce, come s’è detto, lo stato uricemico. In questo caso la marcia va praticata ogni giorno, a passo celere e per la durata almeno di un’ora che va naturalmente abbreviata qualora intervenga senso di fatica, o suddivisa in due periodi, prima del pranzo serale e dopo di esso, non immediatamente. E intendiamo riferirci, come è chiaro, alla marcia in pianura.

Il prof. Oertel di Monaco, molti anni addietro ha proposto un sistema di cura consistente nella marcia in salita a pendenza e di durata gradualmente progressive: è la cosiddetta cura del terreno indicata specialmente per alcuni disturbi di circolo. Questo esercizio esige com’è chiaro un dispendio di energia ben superiore alla marcia in pianura e dev’essere esattamente dotato secondo le condizioni fisiche di chi deve eseguirlo, variando la distanza, la durata, le pause di riposo e l’itinerario più o meno inclinato. Ma noi ricordiamo questo metodo esclusivamente per segnalare che si può fare l’esercizio anche in salita e con vantaggio.

E altrettanto deve dirsi degli esercizi sportivi che, nelle loro più comuni manifestazioni, e quando non eccedano certi limiti, possono esser utili a prevenire e a migliorare le deviazioni del ricambio che caratterizzano l’uricemia. Alcuni di essi possono servire di complemento agli altri esercizi di cui si è testè parlato o a mantenere e consolidare il miglioramento con questi ottenuto, come ad es. il tennis e il golf. Il remare, il nuoto, la bicicletta e il pattinaggio, possono anche essere tenuti in considerazione. Altre maniere di sports richiedono un periodo di allenamento non sempre breve e non sempre attuabile e non possono quindi offrire buoni vantaggi che in determinate circostanze. Fra queste va annoverato l’alpinismo che per i coefficienti di varia natura che lo accompagnano presenta indubbiamente delle grandi risorse per la nostra salute. Però molti uricemici dopo ascensioni alpine sono stati assaliti da attacchi gottosi.

Di passata diremo che negli uricemici che hanno avuto attacchi dolorosi (gottosi o non) superata la crisi, tornano utili le applicazioni locali di massaggio. Così pure l’elettroterapia nei suoi metodi: generale e locale (bagno idroelettrico a corrente sinusoidale o faradica - la diatermia - l’elettrolisi positiva mediante il cloruro di litio).

Concludendo: tanto il predisposto quanto l’individuo sano hanno nella vita attiva (di movimento) con esercizio giornaliero un mezzo potente per prevenire l’uricemia, per diradarne od attenuarne la ripetizione se già installata; naturalmente, con l’esercizio muscolare deve associarsi un regime alimentare confacente e l’abbandono di tutte quelle altre abitudini che favoriscono lo stato uricemico.

Prof. Dott. R. Pinali.

Torino.

(1) Vespasiano da Bisticci, bibliografo e scrittore del l500, narrando lo sbigottimento provato da Poggio Fiorentino mandato da papa Martino V in Inghilterra al vedere i costumi di quella gente, scriveva: “Dannava molto la vita loro di consumare il tempo in mangiare e bere; usava dire per piacevolezza che più volte sendo invitato da quelli prelati o signori inghilesi a desinare o a cena, istando quattro ore a tavola, gli bisognava levare più volte da tavola e lavarsi gli occhi coll’acqua fresca per non si addormentare”.

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APPENDICE

La longevità degli artisti teatrali.

Ho accennato alla partecipazione del diaframma, come muscolo respiratorio, in tutto lo sviluppo della funzione respiratoria. Un buon diaframma attivo, energico, non limitato da aderenze, ecc., è una fortuna per ogni persona, sopratutto per gli uricemici. Negli individui portatori di calcolosi epatica si consiglia il soggiorno in alta montagna, per attivare la respirazione, i movimenti del diaframma e quindi le funzioni del fegato.

Negli artisti teatrali lirici e drammatici, come osserva giustamente il Tissiè, il diaframma entra in particolare attività grazie alla ginnastica educativa a cui per necessità di cose è sottoposto.

Gli artisti respirano meglio che le altre persone, respirano aria cattiva nei teatri, nei camerini, dietro le quinte, ma si rifanno all’aperto con le laute espansioni del torace. E gli artisti vivono a lungo. Ecco alcuni nomi di artisti lirici drammatici, francesi, italiani e tedeschi che hanno vissuto a lungo.

Arnoult Plessy.......................74 Geoffroy...............................91 Bassi Domenico....................81 Giraud ..................................74 Betz Franz............................65 Got.......................................77 Bolter Bulturini......................75 Hyacinthe .............................76 Bouffé ..................................88 Lacressionère .......................78 Campi Annetta......................78 Lafont...................................72 Cholet ..................................89 Laurent Maria.......................76 Ciotti....................................72 Lhéritier................................76 Coquelin, ainé.......................68 Magapani Argìa (vivente)...... 81 Cotogni ................................89 Marini Virginia ......................76 Ortolani................................78 Ravel....................................76 Doche Eugenia......................71 Patti Adelina .........................77 Dupms Rose.........................90 Régnier.................................75 Duse.....................................67 Rossi Ernesto........................70 Edmunds Edmond.................91 Salvini Tomaso .....................86 Ferravilla ..............................65 Sarah Bernhardt....................79 Frédérick-Lemaitre...............76 Thérèsa ................................76

E l’elenco potrebbe continuare, ed essere accresciuto dai nomi delle grandi ballerine che raggiungono età invidiabili. P.

Lasciate passare sempre qualche minuto tra un piatto e l’altro.

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Nella pratica stomatoiatrica si presentano non di rado pazienti che appartengono alle classi più agiate e che verso l’età matura si accorgono di disturbi alle mucose orali e all’apparato dentario, mentre, in precedenza, avevano goduto di perfetta salute e mai avevano notato malattie dentarie o paradentarie.

I sintomi più leggeri, che tali pazienti presentano, sono senso di calore alle mucose gengivali, anormale accumulo di tartaro, arrossamento notevole alla regione marginale delle gengive e secrezione molesta, non bene localizzata, ad alcuni gruppi di denti, con maggior frequenza ai molari.

Più tardi si nota che i denti dapprima ben solidi nei loro alveoli vanno perdendo a poco a poco la loro stabilità ed insorgono lentamente dei processi infiammatori periodontali. Contemporaneamente avviene una forte retrazione delle gengive in corrispondenza del colletto dei denti per cui si manifestano disturbi di sensibilità agli stimoli termici della polpa dentale. Altra volta i pazienti ricorrono al sanitario, quando un dente od un gruppo di denti sono in uno stato di vacillamento molto palese in modo da disturbare la masticazione.

Questi individui, che si affrettano a presentarsi allo specialista della bocca e dei denti, raccontano allarmati e sorpresi, che avevano una dentatura magnifica, eccezionale e che rompevano con facilità corpi duri come noccioli di frutta, ghiaccio, ecc. ed invocano immediato soccorso. All’esame, generalmente, li troviamo immuni da carie o per lo meno poco predisposti ai focolai di carie croniche e per nulla a quelle acute. Ora queste osservazioni per noi specialisti sono tutt’altro che rare e su di esse bisogna richiamare l’attenzione del pubblico.

Un tempo, quando gli studi odontologici non appartenevano strettamente al campo scientifico della medicina, si ritenevano queste alterazioni più o meno iniziali come processi puramente locali; e senza indagare oltre si lasciavano quasi cadere in abbandono, quando non si faceva del danno. Per il maggior contatto della nostra specializzazione cogli studi di medicina interna, si andò sempre più radicando il concetto che le malattie dentarie hanno uno stretto rapporto con tutto l’organismo e che certi casi , come nei disturbi dell’età della crescita, nel rachitismo, nelle gravi discrasie, compaiono alterazioni dentarie precocemente in modo da giustificare l’aforisma che i denti sono una finestra aperta per osservare le condizioni dello scheletro. Questa direttiva deve restare sempre presente oltre che agli specialisti e ai medici pratici, anche al profano.

Nella letteratura, tuttavia, troviamo solamente brevi e contradditori accenni sui rapporti tra le affezioni orali e disturbi uricemici, e mancano ricerche cliniche estese su larga scala e studi scientifici esaurienti. Il fatto è da imputare anzitutto alla frequenza di quel complesso sintomatico detto “piorrea alveolare” che un tempo si riteneva malattia tipica urica, mentre dalle numerose ricerche e osservazioni recenti risulta appartenere a un gruppo di malattie affatto diverse per momento casuale, per comportamento clinico e per reperti anatomo-patologici.

Un tempo si riteneva che le paradentosi come vengono chiamate oggi definite queste affezioni, avessero un’unica causa. In tal guisa si arrivò all’eccesso che determina le reazioni, e così all’esagerazione che voleva una parte che tutte le manifestazioni di piorrea alveolare fossero cagionate da artrite o da gotta, e da altri, quasi per reazione negavano affatto le cause generali e ammettevano la causa e l’infezione locale.

La confusione andò diminuendo quando si poté fare una netta distinzione fra le forme di piorrea prodotte da mancanza di igiene o altre cause locali e quelle che riconoscono gli indiscutibili stati costituzionali. Qui rifulge una dei reali progressi della medicina stomatologia.

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Senza voler diffonderci sulla complessa questione della piorrea alveolare, vogliamo segnalare quanto la pratica osservazione ci insegna riguardo ai rapporti fra stati uricemici e alterazioni dentarie ed orali. E’ innegabile che molti pazienti, affetti da sintomi comuni alla piorrea alveolare, studiati con precisione si rivelano dei veri soggetti uricemici. Lo specialista coscienzioso non si accontenta di precisare la malattia locale, ma consiglia in questi casi il paziente di ricorrere all’esame del medico generale, e solo i tal modo può sperare che il paziente associando le cure generali a quelle locali possa averne benefici.

Ora è necessario insistere da parte nostra, perché purtroppo vi è qualche medico che non vuol tener conto della diatesi uricemica. Specialmente per osservazioni di autori americani in passato si dava la massima importanza alla gotta nella piorrea trascurando altri fattori, finché si arrivò ad ammettere che la deposizione di concrementi di usate alle superfici dentarie, in corrispondenza delle radici, determinasse uno stato patologico del legamento alveolo-dentario e di conseguenza una suppurazione che gradatamente portava alla caduta dei denti.

Le analisi fatte su queste concrezioni non danno reperto costante e qualcuno ammette che l’analisi abbia dato luogo a errori. Vi sono di quelli che obbiettano come ci si incontra qualche volta in uricemici senza disturbi dentari. Ma questo argomento non ha valore perché la uricemia non determina, sempre, alterazioni in ogni apparato. Ma senza entrare in tale discussione sta il fatto che con relativa frequenza capitano osservazioni cliniche di soggetti cui il primo avviso di disturbi uricemici generali avviene in bocca.

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Si ritiene che i soggetti uremici in genere siano meno soggetti alle carie; in realtà si tratta per lo più di persone robuste che poco o nulle hanno sofferto di carie e di malattie delle mucose orali nell’infanzia e nella gioventù. Questi pazienti presentano denti ben conformati; con tessuti bene calcificati; le corone dei molari si presentano piuttosto basse, a forma quadra e con tendenza all’usura alle superfici trituranti (denti inchiodati).

Le mucose gengivali sono iperemiche, nei primi stadii si osserva solo un forte arrossamento marginale con lieve accumulo di patina biancastra al colletto dei denti. Il tartaro nei punti noti di predilezione e spesso su tutti i denti specie dell’arcata inferiore si va depositando copiosamente e nei casi più gravi arriva ad inervitare gran parte delle superfici dentarie. Quando l’accumulo avviene in modo rapido il tartaro è molle, facilmente spappolabile, mentre nei casi a decorso lento e più leggeri, il tartaro assume una forte consistenza e prende un colore bruno per cui alcuni osservatori hanno ritenuto trattarsi di concrementi di urati, il che non è stato accertato da recenti ricerche.

Con l’aggravarsi degli stati uremici vediamo sovente una forte atrofia del legamento alveolo-dentario scarsa suppurazione delle tasche gengivali e con segni di infiammazione attorno ai denti, per cui riacutizzandosi saltuariamente i fenomeni dolorifici i pazienti sono costretti a ricorrere alle estrazioni dei denti che si trovano ormai in uno stadio troppo avanzato per una cura conservativa. Negli stati gravi si ha contemporaneamente una vera stomatite diffusa con e gonfiore delle gengive, senso di molestia e difficoltà di masticazione; non di rado il dente vacillante presenta all’estrazione dei focolai di riassorbimento lacunare alle radici; altre volte il quadro finale è la formazione di ascessi alveolari in causa del rilassamento del legamento periodontale e di conseguenza penetrazione di germi nelle sacche gengivali e infezione diretta del periodonto a dente integro.

A carico della polpa dentaria c’è da rilevare che questa risulterà soggetta a graduale atrofia in modo che la nutrizione dell’organo viene ridotta e il dente diventa più duro e più fragile e quindi anche più soggetto all’usura specialmente al colletto per effetto meccanico dell’uso di dentifrici corrodenti che per lo più sono a base di carbonato di calcio.

Ne consegue spesso la formazione di quelle piccole concrezioni nell’interno della polpa dentaria, che noi chiamiamo odonteli. Spesso queste concrezioni determinano ribelli nevralgie non facili da diagnosticare se non con l’esame accurato dei denti e col sussidio di un esame radiologico. Si potrebbe obbiettare che tali concrezioni sono frequenti in tutte le usure dentarie sia della superficie triturante che del colletto; sta il fatto però negli ultimi uricemici questi odonteli si formano con più facilità forse per la maggiore tendenza alle deposizioni calcari in altri parti dell’organismo e più ancora per la diminuita attività della polpa, poiché in fondo tali, concrezioni rappresentano fatti degenerativi.

Dal complesso sintomatico di queste affezioni rileviamo, pertanto, che non si tratta di un quadro patologico caratteristico, ma comune a tutte le forme di paradentosi, che conducono alla perdita dei denti e possiamo considerarle delle vere affezioni artritiche di origine uricemica in quanto il legamento alveolo dentario si comporta in molti casi come un tessuto articolare. Ma è altrettanto vero che nella maggior parte dei casi possiamo riconoscere la causa generale uricemica come unica spiegazione dei fatti locali e lo specialista farebbe opera incompleta e solo temporanea se si affidasse alle cure locali.

Lo specialista stomatologo una volta indagata la causa generale ha il dovere di consigliare il paziente di farsi visitare dal medico generale, ed in base al responso di questi, dirigere le sue cure locali. Queste consistono anzitutto nella diligente e ripetuta ablazione del tartaro, eseguita fino ai punti più profondi delle tasche gengivali, consigliando una nettezza speciale a questi pazienti specialmente dopo i pasti usando spazzolini non molto duri e colluttore non irritante. Risponde bene l’acqua ossigenata diluita e le tinture di sostanze aromatiche con tintura di resina ed acido benzoico.

Nei primi stadi di vacillamento dei denti possono giovare gli apparecchi di fissazione e contenzione specialmente gli apparecchi a ponte quando si debbano sostituire anche denti mancanti poiché gli antagonisti rientrano in funzione e possono rimanere immuni dalla malattia o migliorare. Se contemporaneamente vengono consigliate ed eseguite buone cure generali non di rado si vedono miglioramenti e vere guarigioni.

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Quando si tratta di stati avanzati in uno o più denti è sempre preferibile l’estrazione e la sostituzione con apparecchi fissi o mobili in modo da ripristinare la funzione masticatoria.

Se i denti restano privi di antagonisti, in questi casi cadono rapidamente come in tutte le malattie congeneri del legamento alveolo-dentario.

Per quanto possa darsi di osservare soggetti uremici, con dentatura integra o immuni da queste affezioni di natura artritica, la pratica dimostra che non mancano le sorprese a distanza di tempo più o meno lungo, giacché nel maggior numero di casi lo stato uricemico tende ad accompagnarsi a disturbi dentari o delle mucose gengivali o della bocca, qualche volta isolati, altre volte associati.

Molto spesso i primi sintomi di uno stato generale cadono sotto l’osservazione del medico stomatologo, come all’oculista, all’otoiatra e al dermatologo, di sospettare o diagnosticare una malattia interna. Nei popoli selvaggi pare che tali alterazioni della bocca e dei denti non esistano, e ciò deve essenzialmente attribuirsi all’alimentazione e alla vita immune da tanti inconvenienti nocivi all’igiene generale, importati dalle civiltà, che non provocano la formazione degli stati uremici. Così pure se osserviamo i crani dei soggetti preistorici e dei popoli antichi, vediamo che le dentature erano molto solide e come per le carie anche le forme di malattie alveolo-dentarie costituivano privilegio dei popoli più civili e più amanti delle mallerie della vita.

L’uso di cibi cotti al punto, di poca carne, di pane integrale e la buona e forte masticazione sono da considerarsi i fattori della migliore conservazione degli alveoli, ma oltre a ciò devono essere valutati altri e complessi fattori e in primo luogo il fattore eredità ed ambientale. Anche la costituzione dei terreni e delle acque sembra concorrere alla più perfetta composizione dei tessuti organici. La mancanza o la povertà di calcio concorre a rendere inferiore l’organismo e questa inferiorità si rivela anche attraverso i denti o coi denti.

Concludendo oggi che gli studi odontalgici e stomatologici sono divenuti un ramo delle scienze medico- chirurgiche, è tanto più doveroso uno stretto rapporto fra il medico generale e lo specialista per cui questi deve sentire aumentata la sua responsabilità verso i suoi pazienti, in quanto è suo dovere invocare l’esame di tutto l’organismo non appena abbia rilevato disturbi endoorali che lo possono far sospettare l’esistenza di condizioni in rapporto all’intero organismo.

E in queste valutazioni, il successo è sempre notevole.

Prof. Gaetano Fascoli

Milano

Se amate il latte, e il latte vi fa bene, non ingoiate le tazze in una volta. Il latte vuol essere bevuto a sorsi, con piccole soste intercalate tra una bevuta e l’altra; se i vostri nervi non sono così pazienti da concedere queste pause, allora attaccatevi, piuttosto a un giornale e leggete, e prendete di tanto in tanto un sorso di latte.

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Manifestazioni nervose dell’Uricemia.

L’Emicrania

Mentre ai tempi di Sydenham, di Graves, di Graefe e di Trousseau, si attribuiva non raramente alla gotta la causa di diverse malattie gravi del sistema nervoso, sia a localizzazione celebrale quali l’emorragie, l’epilessia, l’encefalomalacia, sia a localizzazione midollare, quali le mieliti. Ora il progredire degli studi ha portato a una più esatta restrizione nel campo delle malattie nervose in rapporto a siffatta etiologia.

Nessuno pensa più a incolpare la gotta, come causa diretta, di colpo apoplettico, come credevano Norman Moore, Parry, Scudamore, Garrot, o di una paraplegia da mielite (casi descritti da Graves, Todd, Albers, Duckworth, Gowers). Per contro, oggi, noi attribuiamo alla uricemia – che, come sostiene la nostra Scuola, è la malattia fondamentale discrasia, a larga base, da cui potrà poi svilupparsi la gotta – molti sintomi nervosi, sovente isolati, i quali costituiscono i primi segnali di allarme dello stato sanguigno patologico, sia esso ereditariamente tale, sia che silenziosamente si vada stabilendo; sintomi i quali, se giustamente interpretati, possono condurre alla diagnosi precoce e di conseguenza a una cura opportuna.

Come l’isterismo (Babinski), come il gruppo delle nevrosi (Oppenheim), sono andati progressivamente restringendosi e smembrandosi, (alludo alle mioclonie, agli spasmi muscolari, alle coree, al morbo di Parkinson ecc.), così anche le manifestazioni nervose nella gotta si sono in un certo modo circoscritte, man mano che meglio si conosceva e più precocemente si riusciva a svelare lo stato a essa antecedente, cioè l’uricemia.

Nel campo dell’uricemia, le manifestazioni a carico del sistema nervoso tengono nettamente il primo posto.

Mi manca lo spazio per toccare l’importante problema della costituzione, della disposizione, dell’eredità nei rapporti con l’uricemia. Mi limiterò solo a ricordare come già la scuola francese, con la denominazione di neuro-artritismo, metteva implicitamente in rilievo la parte preponderante di spettanza del sistema nervoso nello svolgimento di questo gruppo di malattie della nutrizione.

L’uricemico, qualunque sia la causa che lo abbia ridotto tale, è un individuo a sistema nervoso ipersensibile.

L’uricemico,specialmente se ereditariamente tale, è un iperestesico, un sovente emotivo, un ansioso; un individuo il cui sistema nervoso vegetativo si trova in uno stato di funzionalità anormale.

E’ noto che nell’organismo umano esistono due sistemi di nervi e di centri nervosi, i quali diversificano per dati anatomici e per differenze fisiologiche, pur essendo ambedue collegati e interferenti, allo scopo della conservazione e della salute dell’individuo.

Essi sono: il sistema nervoso della vita animale o di relazione (cervello, midollo spinale, nervi periferici), e il sistema nervoso autonomo, della vita vegetativa, o simpatico (gangli simpatici e rami da essi dipendenti, con le loro propaggini agli organi interni, alle arterie, ecc.).

Orbene, io mi sono fatto il convincimento che nell’uricemico il sistema nervoso simpatico è altrettanto colpito quando il sistema nervoso della vita di relazione; forse, anzi è il simpatico che per primo risente dello stato uricemico.

L’ipersensibilità a qualsiasi stimolo esterno, la esagerata emotività, le reazioni abnormi al dolore, al calore, ecc., i facili disturbi vasomotori, alcune cefalee e altri fenomeni dolorosi a differente localizzazione, sono, a parer mio, l’espressione di uno stato di ipereccitabilità, di squilibrio del sistema nervoso vegetativo. Allorquando noi osserviamo il quadro dell’uricemia in un soggetto femminile (una volta su 39 uomini, secondo le statistiche di Garrod), e in cui tanto frequentemente può essere dimostrata una peculiare condizione ereditaria, le manifestazioni dell’instabilità e dell’eccezionale reattività nervosa, sono di grande evidenza.

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E’ bensì vero che nell’uricemia ogni organo, ogni sistema si può ammalare, ma se si dovesse fare una statistica sulla frequenza delle manifestazioni patologiche a carico di questo o di quello dei visceri o dei sistemi organici, credo che il primo posto sarebbe tenuto dal sistema nervoso.

Non mi soffermo sui rapporti fra uricemia, sistema nervoso simpatico e ghiandole a secrezione interna; un tale capitolo mi porterebbe troppo lontano, data l’indole di questo mio scritto.

Sintomi nervosi precoci d’indole generale

Essi costituiscono un quadro veramente polimorfo, per lo più a tinte modeste, a sfumatura, quasi in abbozzo; sintomi irregolari, sfuggevoli, mutevolissimi. Un medico perspicace li rintraccerà, per collegarli con l’uricemia (1). Talvolta è una diminuzione dell’attitudine al lavoro intellettuale, un senso di pesantezza al capo, cefalea, qualche vertigine.

Altre volte il soggetto - si tratta per lo più di professionisti ad occupazioni tumultuose e affaticanti (viaggiatori di commercio, industriali, banchieri, uomini politici, letterati, ecc.) e che pure non dimenticano i cosiddetti piaceri della vita - diventa nervoso, irascibile per cause minime, con cambiamento di carattere tale da preoccupare .

Se noi interroghiamo minutamente questi pazienti, sentiamo riferirci che sovente hanno sensazioni anormali fugaci di freddo alle gambe, al dorso, oppure senso di intorpidimento o di ingrossamento alle dita delle mani, i anche di formicolio (parestesie o disestesie) specialmente al mattino al primo risveglio, insieme talvolta a qualche doloretto alle piccole articolazioni delle dita stesse delle mani o dei piedi. Il paziente stesso dice di essere barometrico, usando un’espressione comune, cioè sensibile alle variazioni atmosferiche.

Fenomeni tutti il cui carattere peculiare è la fugacità. Sovente sono colpiti i muscoli, ed allora il dolore si fa sentire in qualsiasi punto del corpo, alle gambe, al dorso, alle braccia, alle mani, al collo, sia spontaneamente, sia in occasione di movimento, di preferenza dopo un periodo di riposo e di rilassamento muscolare (mattino). Non di rado sono crampi muscolari che fanno dolorare il paziente ad un braccio, ai lombi, oppure dolori nevralgici in questo o quello dei segmenti del nostro corpo. Tali dolori possono presentarsi anche a lunghi intervalli, onde il paziente non vi fa caso, attribuiti per solito a influenze transitorie esterne. In verità l’influenza esterna dell’ambiente (freddo, correnti d’aria, umidità, ecc.), come pure un disordine dietetico, hanno la loro importanza, ma non come causa esclusiva e patogenetica del dolore muscolare, ma solo come causa occasionale ultima, per avere messo in evidenza lo stato uricemico latente.

Dolorabilità, saltuarietà di localizzazione, breve durata del dolore: queste sono le caratteristiche delle prime avvisaglie morbose, di ordine neurologico, che si osservano nell’uricemico.

Un disturbo importante e che non raramente ho incontrato negli stati precoci è il ronzio agli orecchi unito a un leggero grado di sordità. E’ un sintomo che fin’ora non è mai stato sufficientemente messo in luce, anche perché, ricorrendo l’ammalato allo specialista otoiatra e questi non costatando nessuna lesione a carico dell’orecchio, esso viene erroneamente interpretato.

Tutta questa sintomatologia precoce, d’indole generale proteiforme, può in progresso di tempo andare stabilizzandosi e orientandosi verso un determinato quadro morboso onde ne risultano vere malattie.

La clinica ci offre le seguenti sindromi principali: nevralgie, enteralgie, emicrania, mialgie, artralgie, nevriti, miositi, stati neuropatici, alterazioni dell’apparato uditivo, alterazione dell’apparato visivo, asma nervosa, meningismo.

Su di altre manifestazioni cerebrali e midollari rare, alle quali già abbiamo accennato, e che non possono essere collegate che molto indirettamente con l’uricemia, non credo sia qui il caso di parlare.

Le nevralgie sono frequenti, continue o intermittenti, periodiche o irregolari, con dolori di puntura, di trafittura, di strappamento, di bruciore, a carattere sordo o lancinante. Talora aumentano col calore del letto, talaltra si esacerbano coi movimenti, con la pressione, con uno stiramento muscolare, con una

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emozione. Sovente esse sono precedute da prodromi, come le parestesie, o disestesie e le iperestesie, e si accompagnano a disturbi vasomotori durante gli accessi.

Le nevralgie dello sciatico assumono un andamento ostinato e possono progredire fino ad aversi una nevrite vera, con atrofie muscolari e impotenza funzionale di tutto l’arto.

Le nevralgie del trigemino vanno dai gradi leggeri ai gradi massimi, con dolori esasperanti, insopportabili. Si presentano ad eccessi, possono colpire tutto il nervo oppure una delle sue branche (nevralgie oftalmica, nevralgia del nervo mascellare superiore, nevralgia del nervo mascellare inferiore) o anche qualche filetto isolato (nevralgie dentarie, ecc.).

Il plesso brachiale, il plesso cervicale, il grande nervo occipitale di Arnold, i nervi intercostali, possono tutti essere sede di dolore.

Una forma particolare di nevralgia è quella che si localizza in punti circoscritti degli arti inferiori dando luogo al quadro morboso detto Achillodinia se colpisce il tendine di Achille, o di Talalgia, se il dolore risiede al tallone.

Ho potuto di recente osservare un caso di talalgia in una uricemica sulla cinquantina grande mangiatrice di carne nella quale il sintomo talalgico era quello preminente sugli altri, modesti, d’indole generale e in cui la sindrome uricemica si era manifestata poco dopo la menopausa.

Enteralgie, celialgie ed enteriti spastiche più o meno acute o torpide, con retrazione addominale, con particolari sensibilità dei punti celiaci, con singolare variabilità e molteplicità di sintomi: esse fanno parte del grande gruppo delle manifestazioni uricemiche a carico dell’apparato gastro-enterico, ma devono essere interpretate come una reazione nervosa addominale.

Mialgie e At ralgie

Sono fra le manifestazioni più comuni dell’uricemia e anche in ordine di tempo fra le precoci. Si localizzano, come abbiamo detto, a un muscolo o gruppo muscolare o in qualunque articolazione, non danno fenomeni obbiettivi, resistono a molti medicamenti, si esacerbano a seguito di errati trattamenti terapeutici; possono durare per anni come unico sintomo di uno stato uricemico latente.

Sedi più frequenti sono i muscoli dorso-lombari (lombaggini), i muscoli della spalla, quelli della nuca (torcicollo posteriore), le articolazioni del ginocchio, del piede e delle mani.

Allorquando la mialgia si fissa in un determinato muscolo, il quale diventa particolarmente dolente anche alla pressione, con manifesta diminuzione della sua funzionalità, talvolta anche in preda ad aumento di calore della cute sovrastante e, quando la constatazione riesce possibile, a tumefazione e ingrossamento globale, con partecipazioni generali subfebbrili, allora si può parlare di miosite. I tendini possono essi pure partecipare al fenomeno infiammatorio, con dolore e tumefazione. In tali casi qualsiasi movimento provoca dolori d’intensità massima.

Per la miosite vale quanto è detto a proposito delle nevralgie e delle nevriti. Nel caso attuale anzi, le differenze sono ancora meno dimostrabili e perciò i due quadri presentano le più grandi analogie.

Nevriti

Le nevriti uricemiche e gottose sono oggi ammesse da molti autori e classificate fra le forme poli-nevritiche discrasiche.

Meno conosciuto è il meccanismo patogenetico. Buzzard, tempo fa, ne raccolse otto casi nei quali dei dolori a forma nevralgica, accompagnati da paresi con modificazioni leggere dell’eccitabilità elettrica, si erano manifestate in soggetti gottosi contemporaneamente a delle poussées di tumefazioni dolorose all’alluce ed erano scomparse insieme al dissiparsi di queste ultime. Furono in seguito pubblicati casi da Chauffard, da Ebstein, da Grube.

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Il loro inizio è per lo più lento e insidioso. Raramente lo sviluppo della malattia arriva agli stati avanzarti gravi. In principio appaiono delle sensazioni di formicolio o punzecchiatura dei muscoli o nella cute, lungo il decorso di un ramo nervoso. In seguito possono comparire dolori acuti di tipo nevralgico e insieme dei disturbi della motilità e del trofismo, con le abituali gradazioni d’intensità e di localizzazione.

Le alterazioni del trofismo muscolari e i disturbi vasomotori, sia pure lievi, non sono quasi mai assenti.

A questo proposito, credo che non si debba più mantenere quella barriera tanto alta che fin ora era ammessa fra nevralgia e nevrite. La nevrite presenta in un primo stadio, lo stesso quadro della nevralgia e se ragioniamo, come in realtà dobbiamo fare, più fisiologicamente che, anatomicamente, ci persuaderemo della affinità e dei molti punti di contatto fra le due sindromi morbose.

Qui, come in molte forme nervose, noi dobbiamo vedere nella sindrome, non la lesione di un organo, ma la perturbazione della sua funzione.

I nervi che più facilmente possono essere colpiti sono quelli che dipendono dal plesso brachiale (circonflesso, mediano, radiale, cubitale) e quelli del plesso sacrale (sciatico).

Un esempio veramente tipico di nevrite iniziale uricemica potei osservare, anni or sono, in una donna di 36 anni, immune da tubercolosi e da sifilide, la quale presentava il seguente quadro: eredità gottosa sicura, fenomeni di facile instabilità del sistema nervoso simpatico, cefalee, emicranie, mialgie, calcolosi renale (confermata dall’esame radiografico). In questa paziente si sviluppò lentamente una nevrite del nervo cubitale destro, con fenomeni algici, disturbi motori, trofici (leggera atrofia muscolare) e vasomotori. Una cura appropriata la fece retrocedere e guarire.

Stati nevropatici

Questi stati, in rapporto alla uricemia, sono da tutti ammessi; non però nella misura così estesa che veniva accettata tempo addietro. La nevrastenia, specialmente a tipo depressivo non è per nulla eccezionale mentre ancora è da dimostrare l’esistenza di vere forme psicopatiche. Forse molti psicosi che Berthier, Charcot, Rayner, Clark, e altri raggruppavano sotto una simile etichetta, oggi troverebbero una più esatta interpretazione patogenetica.

Organi dei sensi: occhi

Da quando Morgagni fece su se stesso l’osservazione che una congiuntivite può essere il sintomo prodromico di un attacco articolare e può scomparire durante la crisi gottosa, molti studiosi confermarono i rapporti fra malattie oculari, gotta e uricemia.

Oltre alla congiuntivite acuta ordinaria, è dovere di segnalare una forma speciale di congiuntivite con forte lacrimazione, associata a eczema secco delle palpebre.

Furono inoltre descritte episcleriti, ulcere corneali, iriti, coroiditi di origine gottosa.

L’irite, come la coroidite, ha un’evoluzione acuta con tendenza emorragica e cede, non alla terapia salicilica, ma alla dieta apurinica e alla cura dell’atophan.

Circa le lesioni interessanti del nervo ottico e il cristallino (cateratta) la loro etiologia gottosa non è ancora ben dimostrata.

Lapersonne e Cantonnet ammettono una “retinite gottosa” rara, caratterizzata da una punteggiatura biancastra a forma di stella incompleta attorno alla macula.

Venne anche descritta da Graefe una miosite dei muscoli oculari, ma naturalmente si tratta di casi rarissimi nei quali sono necessarie molte riserve.

Il carattere uricemico di tutte queste manifestazioni, è soprattutto dimostrato dal loro presentarsi in rapporto ad attacchi articolari o anche, in mancanza di questi, ad altre manifestazioni sicuramente diatesiche.

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Organi dei sensi: apparato uditivo

All’infuori dell’eczema e delle concrezioni tofacee che possono svolgersi nel padiglione dell’orecchio, l’uricemia è da considerarsi come il fattore etiologico, più importante nell’evoluzione delle sclerosi auricolari, che è quanto dire della sordità. Si può anzi affermare che la otite media sclerosante è, nella maggior parte dei casi, una manifestazione uricemica locale.

Questa concezione dei rapporti fra sordità e uricemia, ha una grande importanza terapeutica, inquantochè riconoscere nel sordo iniziale un uricemico, equivale a curalo bene sia dal punto di vista igienico dietetico che terapeutico e perciò ad arrestare l’evoluzione della sordità.

Ho potuto convincermi di questa verità attraverso un grande numero di uricemici più o meno avanzati. Mi è occorso anche più volte di svelare minimi gradi di sordità, che non erano neppure denunciati dal paziente, il quale tutt’al più, a opportune domande, rispondeva accusando leggero ronzio agli orecchi. Ed, in realtà, è sovente sintomatico o premonitore di sordità in soggetto a diatesi uricemia.

Quali altre manifestazioni concomitanti, a carico dell’udito, si riscontrano sovente le vertigini e non sono rari ispessimenti della membrana del timpano e le deposizioni uratiche simili a quelle dei tofi (monouratosodiche), sia nella membrana del timpano che a livello del manico del martello e delle articolazioni degli ossicini.

Asma nervosa

Le conoscenze odierne sull’asma bronchiale anafilattico ci spiegano miglio la produzione di questa bizzarra sindrome morbosa; onde la questione dell’asma da uricemia impone ancora non poche riserve.

Invece nel bambino eredo-gottoso, gli attacchi asmatici non sono rari: incominciano bruscamente, sovente di notte, con carattere di violenta intensità, sono di breve durata.

Meningismo

Carrière (1903) descrisse un meningismo uricemico in un bambino di sei anni, asmatico ed eritematoso, e in un secondo bambino di 22 mesi (vomiti, rigidità della nuca, febbre, guarigione in quarta giornata). Il liquido cefalo-rachidiano non presentava leucocitosi, bensì cristalli di urato acido di soda.

Altri studiosi accennano a manifestazioni meningee, senza alterazioni anatomiche, in bambini eredo-gottosi o a diatesi neuro-artritica; ma ritratta di forme non comuni, e d’altro lato, tanto per l’asma quanto per il meningismo, sono necessari nuovi studi che mettano meglio in luce i loro rapporti patogenetici con l’uricemia.

Mal di testa: cefalgia

Quando il fenomeno dolore si localizza al capo, ed il dolore è diffuso a tutta la testa (senso di pesantezza, di costrizione sovente più accentuato alla fronte o alle tempie e con dolenza anche talvolta ai tegumenti esterni), lo definiamo come cefalgia (cèphalgie goutteuse simple dei francesi, uric acid headache, degli inglesi).

Mal di testa: emicrania

Riserviamo la dicitura di emicrania a quella forma speciale di cefalea la cui caratteristica è quella di presentarsi ad accessi violenti, talvolta periodici e con ritmo d’ intercorrenza a volte sorprendente.

Orbene, nella uricemia l’emicrania è un sintomo non molto raro e può permanere per molto tempo isolato, onde giustamente il Trousseau chiama l’emicrania “une maniére d’être de la goutte larve”.

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Anche per l’emicrania, i pareri non furono sempre concordi, ammettendo gli uni, negando gli altri, la sua relazione casuale con la gotta e con l’uricemia. Secondo Trousseau, l’emicrania periodica è sovente da ritenersi come la sola espressione della predisposizione ereditaria negli individui nati da genitori sicuramente gottosi.

Anche la scuola inglese, dall’Haig all’Osler, pone l’uricemia e la gotta fra le cause dell’emicrania (sick headache). Per contro, il Möbius, il Minkowski, il Brugsch e altri autori tedeschi si dimostrano sempre piuttosto contrari a queste vedute.

Oggi credo che non si possa più negare l’esistenza di un’emicrania legata unicamente all’uricemia, anche in base alla precisa dimostrazione, data dalla chimica clinica, della iperuricemia in individui affetti da emicrania, senza nessun’altra alterazione apprezzabile.

L’attacco di emicrania può svilupparsi a seguito di circostanze diverse: una forte emozione, una eccessiva fatica mentale o uno strapazzo, disturbi della digestione, ecc.

Il carattere parossistico, e la sua periodicità, sono due caratteristiche dell’emicrania, la quale può presentarsi ogni giorno alla stessa ora, oppure in un dato giorno della settimana, ogni quindici giorni o anche ogni mese.

In molti casi il paziente avverte dei sintomi premonitori che fanno presagire l’attacco. In genere è un risveglio, al mattino, con una indefinibile indisposizione, con un dolore sordo; lontano, leggero in una metà del capo, di preferenza nella regione orbitaria o sotto-orbitaria, meno di frequente nelle zone laterali e posteriore della testa. Il dolore va crescendo d’intensità e diventa urente e lancinante. La pressione anche semplice della parte, che è diventata iperestesia, risveglia i più vivi dolori, e il malato, diventato iperalgico a ogni stimolo esterno, è costretto a rifugiarsi in una camera buia, lontano dalla luce e dai rumori, nel più assoluto riposo. Nausea e vomiti accompagnano sovente la crisi dolorosa.

La durata e l’intensità dell’attacco sono naturalmente variabili a seconda del soggetto. Raramente l’attacco oltrepassa le dieci, le dodici ore. Cessato il dolore, il paziente ritorna a uno stato normale oppure può restare abbattuto e stanco per molte ore.

Altri fenomeni di ordine nervoso complicano la crisi di emicrania. Fra i disturbi sensitivi è doveroso ricordare il senso d’intorpidimento, di puntura o anestesie e iperestesie, limitate a un arto e perfino, raramente, a una metà del corpo.

In una forma particolare che va sotto il nome di emicrania oftalmica, e il fenomeno tipico è l’apparizione di uno scotoma scintillante: il malato percepisce, all’infuori della zona della visione diretta centrale, una macchia oscura, a bordi sfrangiati e scintillanti, la quale si muove, si deforma scompare. Il fenomeno può durare da pochi minuti a un’ora ed è seguito da emianopsia transitoria.

Il sistema nervoso simpatico prende una parte manifesta alla crisi di emicrania con fenomeni di vasocostrizione,e perciò pallore della faccia, dilatazione pupillare, salivazione abbondante, lacrimazione: emicrania spastica di Du Bois-Reimond. Oppure con fenomeni di vasodilatazione: rossore e calore cutaneo e del padiglione dell’orecchio, restringimento della pupilla, ecc.: emicrania paralitica di Mollendorf.

In realtà, più che la distinzione di due forme cliniche, credo che si debba oggi parlare di due stadi susseguentesi dello stesso attacco emicranico, i quali si presentano ciascuno con intensità e con durata maggiore o minore, a seconda che ci troviamo di fronte a individui più o meno vagotonici o simpaticotonici.

Una particolare importanza, mi pare si debba attribuire a un fenomeno, da me pure riscontrato, e cioè alla vasocostrizione iniziale dell’arteria temporale che diventa un cordoncino duro, a battiti quasi impercettibili, la quale poi, sul finire della crisi, si allenta e si dilata. Lo stesso fatto ma con minore evidenza si può constatare esaminando attentamente individui affetti da forma di emicrania comune.

Sorvolo su di una forma descritta come emicrania oftalmoplegica, con paralisi recidivante del nervo oculomotore comune, in quanto questa forma, d’altronde rara, non può essere eziologicamente collegata,

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a parer mio,con l’uricemia e con la gotta.

Quantunque le nostre conoscenze sul substratum fisiopatologico dell’emicrania siano molto poche, pure oggi si pensa che la crisi di emicrania corrisponda a un disturbo vascolare, a una vasocostrizione o a una vasodilatazione delle arterie encefaliche in un determinato territorio.

E mentre dal punto di vista umorale vanno estendendosi, perfino un po’ troppo,le interpretazioni di ordine anafilattico, io penso che, principalmente per l’emicrania, ma anche per le altre manifestazioni, nell’uricemia,debba essere messo in grande luce il sistema nervoso simpatico, con le sue fini e delicate tessiture peri ed endoarteriose, con la sua funzione, regolatrice della funzione e della vita stessa di tutti i visceri.

Questi disturbi, sinteticamente prospettati, che si riferiscono al più importante sistema dell’organismo umano e che meritano di essere tenuti presenti anche al pubblico.

Prof. Piero Boveri

Milano.

Un buon medico dello stomaco è il dentista: mettendo in ordine i denti, preparando buoni apparecchi,ove ne sia il caso, fa scomparire,o previene molti disturbi della digestione.

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L’EREDITÀ URICEMICA

La gotta nella stirpe de’ Medici Granduchi di Toscana

L’eredità chimico-biologica è tra le più difficili a rilevarsi,quando ci si riferisca non all’eredità chimico-fisiologica, ma a quella che da questa più o meno si allontana; o, in altre parole, quando studiando nell’uomo ( o negli altri viventi) l’eredità della formula chimica, ci si riporti alla formula generale delle strutture fisico-chimiche, ma alle speciali o specifiche modificazioni di essa. Così nulla sappiamo — almeno per quanto è a mia conoscenza — di ciò che ha referenza a trasmissione dello stato ormonico e neppure ai rapporti endocranici tra madre e feto (inneità); da un gruppo di valorosi si sta studiando con buon successo l’eredità del potere agglutinante specifico del siero di sangue umano sui globuli rossi di altri individui ( gruppi sanguigni ) e si confida poter giungere a valersi delle differenti individualità sanguigne nella ricerca della paternità; ma pur su questo argomento siamo in fase investigativa.

Più definite, nel campo dell’eredità biochimica, appaiono i risultati degli studi sulle malattie diatesiche e precisamente del diabete, dell’uricemia e dell’obesità, mentre nulla sappiamo nei riguardi della fosfaturia e della ossaluria. Il metodo genealogico, per tal genere d’indagine è quello che meglio si presta ( se pure non è l’unico ) a svelare questi segreti della natura.

Io ho studiato dal punto di vista dell’eredità biologica quella famiglia Medici di Cafaggiolo che prima signoreggiò Firenze e poi la Toscana, e l’ho seguita in una trafila di ben tredici generazioni successive, rilevando in esse una deviazione morbosa della formula chimica, manifesta e grave in un altissimo numero dei membri maschi e in alcune femmine; si trattò di manifestazioni uricemiche varianti dal piccolo al grande artritismo, sovente affermantesi con clamorosi accessi di gotta1.

L’eredità artitica è nota fino dai tempi antichi, ma sull’argomento i primi documenti di precisa osservazione furono raccolti dal Bouchard verso la fine del secolo passato; tuttavia egli e quelli che lo seguirono non rimontarono mai in tali constatazioni di fatti oltre la quarta o la quinta generazione. Invece sopra 55 soggetti nati in casa Medici e vissuti oltre il 30° anno ( la popolazione medicea totale da me studiata fu di 121 individui, ma da questa cifra si tolgono 28 donne immigrate spose in famiglia Medici (ossia eterofamigliari) e i premorti al 30° anno; quest’ultimi per la ragione che l’artitismo non è, d’ordinario, appannaggio dei giovani), sopra a 55 soggetti — 21 femmine e 34 maschi — si ebbero fenomeni di grande uricemia in 4 donne e in 18 uomini, cioè si raggiunse per le donne il 19,05 % e per gli uomini il 52,94 %, omettendo nel calcolo — come ho accennato — tutti quei Medici che pure avendo oltrepassato il 30°, offrirono manifestazioni di piccola uricemia; e anche costoro non furono pochi.

Se si ricerca la ragione del perché l’uricemia colpì un numero un numero tanto più elevato di maschi che di femmine omofamigliari (cioè nate in casa Medici), credo che la spiegazione debba ritrovarsi — pur concedendo una parte causale del fenomeno delle abitudini diverse fra maschi e femmine fondamento nel citato studio sulla famiglia Medici, e secondo la quale, la donna ha maggior tendenza dell’uomo a perpetuare il tipo medio della razza e a correggere nella deviazione troppo sentita dallo stato normale.

Tale concezione fu prima delineata dall’Orchansky per ciò che ha referenza ad alcuni stati morbosi (non all’uricemia); e parrebbe urtasse contro il fatto che per 11 generazioni filate l’artritismo si sia mantenuto nella famiglia Medici e non si sia corretto ad opera delle donne eterofamigliari. Occorre peraltro tener presente la complessità del determinismo nel campo biologico e la interdipendenza caudale che regola i fenomeni naturali;così, nel caso nostro, il patrimonio biologico–chimico eredo–famigliare è stato governato dagli incrociamenti matrimoniali (eterofamigliari)e in tal modo è stato rafforzato dalle convergenze (cioè dalla presenza di uguali o similari anomalie nei due genitori) , in altri casi invece è

1 Pieraccini G. La stirpe de’ Medici di Cafaggiolo. Saggio di ricerche sulla trasmissione ereditaria dei caratteri biologici. Edit. Vallecchi, Firenze 1925

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stato attenuato dalle divergenze costituzionali o diatesiche dei genitori stessi, e quindi volta a volta allontanato riavvicinato o ricondotto al tipo chimico mediano o normale della specie. E poiché nella famiglia Medici entrarono a più riprese donne provenienti da famiglie uricemiche e rappresentanti esse stesse l’uricemia per quanto a bassa dosatura ( la Cristina di Lorena sposa al granduca Ferdinando I; la Maddalena d’Austria sposa a Cosimo II; la Margherita d’Orleans sposa a Cosimo III), così l’artritismo potè radicarsi nella Famiglia cafaggiolense, propagginandosi di generazione in generazione. La “ legge della convergenza ereditaria”, che ha valore tanto in linea fisiologica che patologica — e per ciò che riguarda le forme e le strutture del corpo, e per ciò che riguarda le doti e le viziature spirituali —, suggerisce anziché prima di concludere un matrimonio si proceda a quella inchiesta dei fidanzandi e delle loro rispettive famiglie (certificato medico pre-matrimoniale), allo scopo di evitare i rafforzamenti di eventuali deviazioni organico-funzionali e assicurare invece con incroci a contenuto correttivo, la nascita di individui belli, intelligenti, vigorosi. La consanguineità matrimoniale è nociva proprio e unicamente nei casi in cui possa agire la legge ereditaria dell’assommanza dei fattori anormali, di qualunque genere e natura essi siano; nel caso dell’uricemia, padre e madre anche piccoli uricemici o provenienti da famiglie pur debolmente uricemiche, possono dar prodotti a grande uricemia.

L’eredità dell’uricemia si comporta conseguentemente come ogni altra specie di eredità biologica: né ciò sorprenderà quando si consideri che effettivamente il patrimonio biologico rappresenta un’unità, per quanto le singole componenti, cioè i differenti caratteri o le personali proprietà biologiche — lo ha messo bene in evidenza anche il Mendel con la legge della disgiunzione dei caratteri ereditari — possano trapassare dissociati. Le differenti intrisecazioni dell’eredità naturale obbediscono singolarmente a circostanze particolari, ma rispondono anche sempre alle leggi fondamentali : così appunto alla legge dell’<<eredità convergente>> , come a quella (antagonista) dell’ << eredità divergente>>.

E’ per questo che l’ <<antropologia delle famiglie>>, ossia lo studio della <<storia naturale delle famiglie>> seguito per varie generazioni seriate — io ho integrato lo studio della famiglia Medici con quello di altre dodici nobili famiglie fiorentine a quella Medici coeve —,viene a mostrarci in linea di fatti che l’eredità per le singole varie manifestazioni organico-funzionali si compie per aggruppamenti, costituiti da più individui per generazione e per una più o meno estesa serie di generazioni. Se una particolare determinante biologica inserita nella cellula germinale di un genitore, si mescola con un’analoga o uguale determinante dell’altro genitore (anfimissi), le due energie o i due caratteri normali o anormali si assommano nel generare (ciò in via ordinaria, che è in tal materia nulla vi ha di assoluto), ed è il prodotto, più o meno lontano dallo stato mediano della specie, potrà far rivivere nella discendenza la particolare sua caratteristica: questa avrà poi ancora risonanza nelle successive generazioni, finché non intervenga un elemento modificatore. (Che talvolta potrebbe essere anche di origine esogena o extra-organica).

Ora, poiché nelle unioni fra uomini, per quanto nella scelta matrimoniale possano concorrere e concorrano anche le affinità elettive fisiche e psichiche fra gli sposi, e possano per altre vie (comprese le ambientali) concorrere nella generazione altre cause pure a carattere omogeneizzante ( p. es. l’uguaglianza della condizione sociale, di clima, di alimentazione, ecc.), possono intervenire anche elementi eterogenei e perfino contrastanti — in specie nel campo della patologia —; talché, una particolare caratteristica eredo-famigliare che avremo seguito per alcune generazioni in diversi individui e a diverse fasi di sviluppo,andrà a modificarsi e talvolta a scomparire (a seconda delle predette circostanze),anche dopo aver durato per qualche secolo. Si avranno in tal modo gli aggruppamenti particolari più o meno numerosi, e particolari << arie somatiche di famiglia>> — come i primi Medici del Principato toscano —; e si avranno i particolari <<caratteri spirituali di famiglia>> — come il gruppo dei poeti e dei verseggiatori in casa Medici avanti il principato granducale, o l’altro gruppo degli allegri mondani durante il principato.

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Albero genealogico della stirpe de' Medici di Caffaggiolo

I generazione COSIMO IL VECCHIO (m. 1464) (grande uricemico) sp. Contessa Bardi.

II generazione PIERO IL GOTTOSO (grande uricemico) sp. Lucrezia Tornabuoni.

III generazione LORENZO IL MAGNIFICO (grande uricemico) sp. Clarice Orsini.

IV generazione LUCREZIA MEDICI (ignota patologia) sp. Jacopo Salviati.

V generazione MARIA SALVIATI (grande uricemica) sp. Giovanni delle Bande Nere.

VI generazione COSIMO I (medio uricemico) sp. Eleonora da Toledo.

VII generazione FERDINANDO I (grande uricemico) sp. Cristina di Lorena.

VIII generazione COSIMO II CLAUDIA (grande uricemico) (forse piccola uricemica) sp. M. Maddalena d’Austria. sp. F.U. Della Rovere.

IX generazione FERDINANDO II sp. a V. DELLA ROVERE (pingue) (artritica e obesa)

X generazione COSIMO III F. MARIA CARD (uricemico pingue) (polisarcico) sp. Margherita d’Orleans

XI generazione FRANCESCO III GIAN GASTONE MARIA LUISA (m. 1747) (uricemico obeso) (uricemico obeso) (piccola uricemica)

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Se la speciale stimata familiare — per una prima volta comunque e per qualunque via,acquisita da un di Famiglia —, sia volta verso il perfezionamento fisico, si potrà raggiungere con la sanità anche un’ottima architettura nelle forme del corpo e delle fattezze del volto — la famiglia Medici, anche per le favorelissime condizioni economiche e sociali in mezzo a cui visse, fu una famiglia di bella corporatura e di tratti raffinati —; e se la carica ereditaria tenda verso l’elevamento della mente, potrà dare produzioni elevate nel campo intellettuale — come si verificò nella stessa casata Medici, la quale generò in straordinario numero uomini e donne cospicui per doti intellettuali, volitive e morali, e perfino dette individui d’eccezione, quali Caterina de’ Medici Regina di Francia, Lorenzo il Magnifico, Cosimo il primo granduca di Toscana, il cardinale Leopoldo attivo colto originale, fondatore e presidente dell’Accademia del Cimento.

Ma se invece l’aggruppamento familiare nelle successive generazioni si carica a ripetizione di elementi degenerogeni, allora si scende negli abissi, e si realizza su tutti i campi della patologia quella legge formulata dal Morel, sul solo terreno delle infermità mentali, e secondo la quale nelle generazioni successive di una stirpe psicopatica,si ha una progressiva discesa degenerativa, che porta, in ultimo, all’estinzione della famiglia. L’avvenimento terribile si verificò pure nella stirpe dei Medici di Cafaggiolo.

L’annosa uricemia che tanto tormentò con le sue manifestazioni morbose le generazioni medicee da Cosimo il Vecchio innanzi (morì nel 1464), consentì alla Stirpe l’ascesa sociale lunga e faticosa fino al trono granducale; e il fastigio della dinastia del governo, culminò quasi due secoli dopo la scomparsa di Cosimo il Vecchio, con le magnifiche figure dei granduchi Cosimo I e Ferdinando I.

Ma quando la Claudia Medici, figlia di Ferdinando I, discendente da stirpe uricemica, in linea paterna e materna (Cristina di Lorena, piccola uricemica, fu la sposa di Ferdinando I), quando la Claudia si unì in matrimonio (vedi albero genealogico più sopra) con Federigo Ubaldo Della Rovere Duca di Urbino, figlio egli pure di un grande artritico (Francesco Maria II Duca Della Rovere, padre di Ubaldo, soffrì per molti anni di gravissima artrite a tipo deformante) (1), e quando successivamente la Vittoria Della Rovere, nata da Claudia e dal Duca F. Ubaldo, sposò Ferdinando II dei Medici (matrimonio tra cugini di primo grado), allora la discendenza cadde nella più spiccata uricemia, le forme artritiche comparvero associate alla polisarcia.

Questo binomio gotta-polisarcia, inaugurato personalmente dalla Vittoria Della Rovere (che soffrì di artrite e morì obesa a 72 anni), si ripeté in tutti e quattro i maschi discendenti da Ferdinando e da Vittoria, e cioè: in Cosimo III, nel Cardinale Francesco Maria suo fratello (che fu mostruosamente grasso), e nei due figli di Cosimo, Ferdinando e Gian Gastone; mentre l’unica femmina, Maria Luisa di Cosimo III (l’ultima a scomparire della Famiglia medicea; si spense nel 1743), ebbe lievi manifestazioni uricemiche e morì di cancro in età matura.

Il matrimonio Claudia Medici e Federigo Ubaldo Della Rovere, riunì in linea riproduttiva, oltreché forti tare uricemiche, anche deficienze di altra natura, e precisamente anomalie del sistema nervoso centrale, che F. Ubaldo fu un degenerato e morì giovanissimo sotto un attacco epilettico; mentre poi, per colmo di sventura, Cosimo III si unì con ,aria Luisa d’Orlèans, una uricemica discendente da famiglia di uricemici e una semifolle. Si giunse così alla spaventosa catastrofe biologica della gloriosa stirpe de’ Medici; si ebbe il gruppo degli artritico-polisarcici — quindi un altissimo esponente della diatesi uricemica — e nel gruppo comparvero gli squilibrati, gli alcolizzati, i pazzi, gli epilettici e perfino un frate ladro suicida, in un figlio bastardo del cardinale Francesco Maria de’ Medici. La sterilità genetica intervenne con costoro a recidere il filo della Stirpe.

Quando il Laumonier (1912) e altri con lui hanno chiamato l’uricemia una malattia sociale, attribuendole

1 Tutto questo che nel presente scritto è semplicemente affermato, ha ricevuto ampia documentazione di prova e chiara, dimostrazione nella precitata opera del Pieraccini sulla <<Stirpe de’ Medici di Cafacciolo>>; tre volumi di oltre 1800 pagg. in 8 grande, con ricchissima illustrazione iconografica.

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in tal senso una perniciosità anche maggiore a quella della tubercolosi, certo, a parer mio esagerarono un principio vero; ed errarono sempre a mio modesto parere, quando affermarono doversi riferire lo spopolamento della Francia alla grande diffusione dell’uricemia.

Questa, secondo costoro spopolerebbe i paesi abbassando la prolificità degli abitanti, e porterebbe all’estinzione delle famiglie uricemiche nel giro di quattro o al massimo di cinque generazioni. Anche qui i miei studi sulla stirpe dei Medici infirmano le recise e sconfortanti affermazioni di Laumonier; dovendosi per altro tenere per fermo, che la formula chimico-uricemica — e forse le deviazioni umorali in genere — offre una grande tenacia ereditaria e anche un’eredità delle più temibili, ove trovi incremento in matrimoni a carica convergente, o in coadiuvanti di scostumate abitudini alimentari o in particolari pratiche di vita o in speciali avvelenamenti, ecc. ecc..

L’eugenetica — la scienza del ben procreare — dovrà quindi aver presente, già lo accennammo, anche lo stato diatesico familiare — oltre il morfologico il psicologico e il patologico in generale — nelle pratiche di scelta matrimoniale; pur ricordando che, nei riflessi della figliolanza, più che l’accidentale comparsa in una famiglia di un isolato individuo tarato nell’uno o nell’altro campo morboso, è soprattutto temibile la decadenza familiare stabilizzata nella serie di due o più generazioni, e tanto più temibile quanto più lunga sia la serie genealogica dei soprastanti e del numero dei debilitati imparentati; che il caso sporadico è per converso facilmente correggibile da opportuno matrimonio. L’eredità degenerativa — presa questa parola nel senso più lato e quindi considerando anche le strutture biochimiche cui particolarmente mi riferisco in questo scritto — è tanto meno sanabile quanto più essa è estesa nella superficie parentale e nella profondità delle generazioni. In tal caso fatalmente e progressivamente si degenera; mentre nella prima fattispecie, facilmente ci si restaura.

PROF . GAETANO PIERACCINI

Firenze

Non mettetevi a mangiare subito dopo una corsa, una fatica, dopo aver fatto, ad es., un grosso baule. Ma riposatevi almeno 15 minuti, dopo la corsa, dopo lo sforzo, ecc.

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La gotta di Carlo V

La vita e le opere di Carlo V sono in netto contrasto con la sua salute che mai fu fiorente. La sua corporatura era fine, malaticcio fu fin dalla nascita; e il suo sviluppo estremamente tardo, sia dal lato fisico che da quello intellettuale. Questo non gli assicurò nemmeno una vecchiaia vegeta, come spesso accade agli individui non precoci; che anzi malattie e cure di governo si aggiunsero alla fragilità congenita del suo organismo per metterlo ben presto in condizione di non occuparsi più di politica e quindi per farlo morire a soli cinquant’anni. L’unica dote che egli possedeva in grande misura era la tenacia, che dal mondo psichico si riverberava certamente su quello fisico, di cui riusciva ad aumentare la resistenza. E questa tenacia ebbe ben presto occasione di manifestarsi, perché Carlo V, da quando ebbe l’uso della ragione, fu sempre sovrano : a sei anni nei Paesi Bassi, a sedici in Spagna e a diciannove in Germania.

La storia del suo regno, riempita quasi completamente dalle guerre con il Re di Francia, Francesco I ed Enrico II, può parere ai nostri occhi un seguito ininterrotto di successi militari : ma i successi politici rimangono un pochino più oscuri, e, a ogni nuova vittoria, più modesti : dalla prima pace conclusa a Cambrai nel 1529 si arriva a quella d’Augusta del 1555, che consacra con la libertà religiosa la sconfitta dell’imperatore, alle successive abdicazioni, al suo ritiro in Spagna. C’era forse qualche elemento non politico, ma personale in questa crescente difficoltà di sfruttare i successi militari?

Nell’anno 1528, quindi a vent’otto anni, mentre era all’apice della sua potenza, il ricordo della battaglia di Pavia ancora fresco e si preparava alla pace di Cambrai, Carlo V viaggiando in Spagna è colto dal primo attacco di gotta, del quale egli stesso ci dà notizia nella sua autobiografia. E’ lecito immaginare che cosa volesse dire per un uomo così giovane, che doveva dominare tutta l’Europa con la sua presenza materiale questa improvvisa minorazione della sua attività. Carlo V non ci racconta tutti gli attacchi successivi, ma, quando giunge all’anno 1544, l’anno della terza pace conclusa con Francesco I (si noti, senza nessun guadagno territoriale nonostante la schiacciante vittoria), egli riferisce che, a Bruxelles, fu minacciato da un attacco di gotta, che si manifestò nel mese di dicembre a Gand e lo immobilizzò fino alla Pasqua successiva.

Quest’attacco fu l’undicesimo, fu dolorosissimo, oltre che lungo, benché per la prima volta avesse consentito a sottoporsi a un regime e a una dieta adatta; cioè dai 28 ai 44 anni Carlo V ebbe a subire quasi ogni anno un attacco di gotta. Nel periodo successivo il suo stato peggiora : nell’autunno del 1546, impegnato personalmente in battaglia coi Protestanti nella Bassa Baviera, fu costretto a far legare il suo piede al collo del cavallo per diminuire gli atroci dolori. L’anno successivo ad Augusta, fu colto dal quattordicesimo attacco, che , come quello di Gand, si protrasse per tutto l’inverno. Egli riferisce di aver provato per la prima volta, in questa occasione, una tisana, detta <legno di China>.

Le sue memorie s’interrompono, ma ormai il suo declino è in corso. Nel 1552, in preda a un altro attacco di gotta, a Innsbruck rischia di essere fatto prigioniero dall’elettore Maurizio di Sassonia; nel 1555 fa la pace definitiva e rinuncia alle diverse corone. Il suo regime di vita è efficacemente descritto in un libro di Francesco Sansovino intitolato: "Simulacro di Carlo V imperatore", dove si legge fra l’altro : "Mangiava assai e cose generative di umori grossi e viscosi , dal qual mangiare procedono le gotte e l’asma : le quali infermità nell’età sua più matura lo tormentarono assai e specialmente le gotte erano di così maligna natura,che mandando i fumi dello stomaco al capo lo mettevano spesso in forse della sua vita, la quale esso teneva di certo che sarebbe stata breve. Con tutto ciò, quando stava bene, quasi non si curava dei medici, quasi che non avesse da ritornare a infermarsi,e la sera mangiando poco credeva di riparare al disordine della mattina".

X.

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La gotta di un gran chimico: Giacomo Berzelius

La personalità di Giacomo Berzelius si rende estremamente interessante anche per la storia della gotta, sia perché la malattia lo colse relativamente giovane e lo accompagnò intermittentemente fino alla morte, sia perché le notizie che abbiamo sono assai numerose e chiare, nelle lettere che ci sono rimaste come nella monografia che vi ha dedicato il clinico Ebstein. G. Berzelius, svedese, nacque nel 1779 e morì a 69 anni, nel 1848.

La sua infanzia era stata tormentata da disturbi che egli stesso chiama di “ natura gottosa”, ma che noi, data l’età, non riusciamo a interpretare : comunque essi avevano determinato una certa fragilità dell’organismo, che i lunghi anni di vita sedentaria, occupata soltanto dagli studi non fecero che aggravare. Così si ebbero dei turbamenti nel sistema nervoso che gli provocarono dai 23 anni in poi delle emicranie periodiche, più tardi stanchezza, noia, svogliatezza completa per il lavoro scientifico. Attraverso alti e bassi di disturbi puramente nervosi si raggiunge così l’estate del 1825, in cui per la prima volta appare nelle sue lettere un cenno di gotta: egli deve trattenersi più a lungo in campagna perché le ginocchia e i piedi non gli si irrigidiscono completamente. Gli attacchi di gotta che si aggiungono alle sofferenze di un sistema nervoso alterato lo deprimono nel senso che gli tolgono la possibilità di viaggiare, cioè l’unico mezzo per distrarsi nei periodi di stanchezza psichica più acuta.

Intorno ai cinquant’anni par di intravedere sul suo epistolario una specie di tregua, l’umore migliora e mancano tracce di attacchi di gotta. È nel 1835 (a 56 anni) che si ricade nello stato di depressione fisica e morale e si ha un accenno a disturbi addominali di natura uricemica, non meno strettamente legati però alla solita depressione psichica. Il terzo periodo di disturbi, non limitati alla gotta, ma accompagnati certamente da coliche epatiche, si inizia quattro anni dopo, nel 1839. Da allora in poi, fino alla morte, è un succedersi continuo di nuovi attacchi e di miglioramenti transitori.

Ma, man mano che la natura gottosa delle sofferenze si accentua,il sistema nervoso si viene adattando a poco a poco e nei momenti di tregua gli permette di continuare a occuparsi dei suoi studi, e anche di osservare lucidamente tutto quello che accade nel suo organismo. In una lettera del 1844, egli racconta che, essendo stato chiamato dal re perché gli proponesse una lista di studiosi stranieri da decorare di ordini svedesi, potè discorrere per tre quarti d’ora intorno ai candidati che intendeva proporre, ma, appena tornato a casa, nell’imminenza di un attacco di gotta, si dimenticò completamente di quello che era successo, e nulla seppe riferire.

Egli moriva il 7 agosto 1848 dopo che da una settimana il suo organismo era come paralizzato, ma con lo spirito lucido fino alla fine.

Il mondo medico vede in Berzelius l’uomo più crudamente perseguitato dalla gotta. Non si sa di altra persona che abbia egualmente sofferto. S i direbbe che tanto più il male si accanì contro di lui, quanto più egli si ostinò, nella sua passione per la scienza, a rivolgere la grande mente e tutte le sue forze alla speculazione e alla ricerca nel campo della chimica, che doveva portare così in alto.

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Bartolomeo Eustachi (nato a San Severino delle Marche tra il 1500 e il 1510, morto il 27 agosto 1574 sulla strada di Fossombrone,ove si portava, per quanto colpito da attacchi dolorosi, per assistere il suo grande mecenate, il card. Giulio Feltre della Rovere). Fu uno dei più grandi anatomici italiani. Il suo nome è legato ai progressi delle scienze mediche, anche perché fu il primo a ottenere, in Roma, dai pontefici la facoltà di fare autopsie e dare quindi grandi contributi, specialmente negli ultimi anni di vita.

Ebbe esistenza travagliata; colpito dalla gotta è costretto a interrompere le sue ricerche; e le sue tenui sostanze poi non gli consentivano di terminare e pubblicare gran parte della sua migliore produzione. La sua vita laboriosa ebbe fine nei dolori, e un suo biografo aggiunge “quasi nella miseria”. Già nel 1505, ossia sui 55 anni, l’Eustachi ebbe attacchi di gotta, dei quali si doleva soprattutto per non poter corrispondere agli alti incarichi di medico, d’insegnante e di studioso.

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Francesco Redi, laureato in filosofia e medicina a Pisa, figlio di medico, nacque ad Arezzo nel 1626 e morì a Pisa nel 1697 e sepolto ad Arezzo. Questo grande naturalista e scrittore sembra che sia morto per un assalto di emorragia cerebrale. Già in precedenza aveva avuto ripetute manifestazioni, per le quali si era stabilita una paresi nella metà destra del corpo, per cui si era dovuto abituare a scrivere con la mano sinistra.

Ma un’altra malattia lo infastidì a lungo : la calcolosi epatica di cui Redi parla spesso nelle sue lettere, che or lo molesta fortemente,or sembra dileguarsi, dandogli l’illusione di essere guarito. E questa malattia non lo scoraggia, ma gli fa trovare anche parole per discorrerne con gioconda serenità. Gli dispiaceva di non poter andare a caccia : “mi reggo a puntelli, scriveva, ancorché in apparenza paia il contrario”.

Dopo i 60 anni smagrisce rapidamente e fortemente, soffre d’insonnia, è stancabilissimo, perde l’appetito, ma si riprendeva “ a forza di lunghissimi sonni e a forza parimente di certe minestre meravigliose che il tenerissimo Granduca, mio signore, ha comandato al suo primo cuoco, che mattina e sera mi faccia, e io me le mangio con grandissima soddisfazione, della gola e dello stomaco, il quale non dura molta fatica a digerirle”.

Redi però non fu mai un mangiatore,ma tenero per i cibi gustosi per il vino bianco dolce, consumato in piccola quantità.

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Tomaso Sydenham, nato a Windford Eagle nel Dorsetshire nel 1624, morì a Londra nel 1689 di colera; visse negli anni più difficili dell’Inghilterra per le guerre civili, per le epidemie e per i travagli politici; Repubblicano contrario agli Stuart, si tiene lontano per tutta la vita da ogni carica pubblica d’insegnare politica. Non si occupò che di medicina e di malati. Appena laureato venne assalito dalla gotta che, tratto tratto,ebbe a tormentarlo per tutta la sua esistenza, gotta complicata, perché si accompagna spesso a ematuria. Qualche volta era preso da accessi più furiosi della durata anche di tre mesi.

Certamente le gotta, che dette a Sydenham gli elementi per scrivere il più completo trattato sulla gotta, ebbe anche a influire sui suoi centri nervosi, perché, scoppiata nel 1665 con fiera violenza la peste a Londra, egli se ne fuggì.Ed ebbe poi a scusare questa fuga con le condizioni della sua salute, avanzando l’attenuante di essere ritornato a Londra quando vi era ancora l’epidemia per cui potè prestare l’opera sua.

Sydenham fu apprezzato, oltre che per il suo sapere, per la sua grande onestà professionale. Restìo a prescrivere medicinali, se ne asteneva in modo assoluto nei casi in cui non vedeva chiaro, e a questo proposito ebbe a scrivere “essere deplorevole che il malato rimasto senza ricette attribuisca a negligenza o a ignoranza del medico quella che deve attribuire alla sua probità e buona fede”.

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Carlo Linneo. Il celebre naturalista ( n. 1707, m. 1778), poco più che trentenne venne colpito dalla gotta che prendeva in seguito uno sviluppo più grave. A 43 anni gli attacchi gottosi assunsero in Linneo una certa intensità; perdette le forze, il sonno e l’appetito. Il caso di Linneo è memorabile per un particolare delle sue cure.

Un giorno mentre dolorava per la gotta, gli venne presentato un piatto di fragole, che si decise a mangiare; potè con sua sorpresa prendere sonno nella notte veniente. Messosi a consumare giornalmente un piatto di questi frutti, cominciò a sentirsi così bene, da lasciare entro breve tempo il letto e passeggiare. Nei 4 anni successivi la gotta si presentò in Linneo, ma più leggera, e perciò egli rimase fedele alle fragole che continuò a usare a titolo profilattico. Venne a mancare per emorragia cerebrale.

Ma le fragole usate da molti altri pazienti, ad es. da Berzelius, non dettero buoni risultati stabilitisi (forse per una condizione personale) in Linneo.

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Giulio Cohnheim, uno dei più geniali e originali patologi tedeschi della seconda metà del secolo XIX, morto il 14 agosto 1884, all’età di 45 anni, cominciò a soffrire di attacchi gottosi nel 1872. In una lettera

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äFaceva la descrizione dei suoi accessi gottosi che si erano presentati già ben 17 volte. Venne praticata l’autopsia di Cohnheim da C. Weigert, che poi la rese pubblica; e si potè dimostrare che le articolazioni che furono colpite dagli attacchi gottosi non conservavano alterazioni di sopra e alcun deposito di urati.

Quindi nel caso di Cohnheim è da ritenere che mai si sia avuto un vero e proprio deposito di urati nelle sedi articolari perché altrimenti si sarebbe riscontrato da uomo così competente come Weigert qualche alterazione residua. Cohnheim nelle sue lettere lamentava la grande debolezza muscolare da cui restava afflittto dopo gli attacchi.

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Oltre ai sopra ricordati tra gli uomini delle diverse età che soffrirono di uricemia e gotta sono da ricordare :

Cesare Augusto, i Medici di Firenze, Giorgio III, Federico II, Napoleone I ;

Harvey, Boerhave, Morgagni, Rindfleisch, Lancereaux, Bouchard.

Ennio, Luciano, Milton, Tieck, Goethe ;

Rubens ;

Lutero, Erasmo, Leibnitz, Kant, Fichte ;

Colombo, Franklin, Kästner ;

Wallenstein, Tomaso Moro, i due Pitt, Depretis, Di San Giuliano.

Nessuno deve divenire schiavo della tavola. Ma gli studi dei fisiologi hanno dimostrato che lavora meglio lo stomaco, il cui padrone ha gustato e sa gustare quello che mangia e ne gode e sa mantenere serena l’ora del pasto e delle digestioni.

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L’Uricemia è particolare appannaggio dei gaudenti, degli oziosi e dei dotti.

E’ tradizione inveterata che l’uricemia sia la malattia dei ricchi, degli oziosi e dei gaudenti, in cui si aggiungono anche “gli studiosi a tavolino”, quali i letterati, i filosofi, gli storici e in generale gli uomini di cultura; e realmente l’uricemia — è pressoché sconosciuta nei lavoratori dei campi, poco frequente fra gli operai delle industrie, mentre, movendo da quei mestieri e da queste arti “più muscolari” verso le professioni sedentarie e liberali e quindi “più cerebrali”, il comparire dell’uricemia si raffittisce. E’ questo un giudizio suggerito dalla pratica medica — che non esistono statistiche in proposito — ma è anche un pensiero universale nel mondo scientifico ; il Sydenham lo sintetizzò in questa espressione : “ La gotta ha rovinato più saggi che stupidi “.

Non facile è dare la spiegazione di questi fatti, tanto importanti anche nei riflessi sociali ; ma innanzi di accennare a qualche ipotesi interpretativa, si deve sgombrare la via da una pregiudiziale, giusto a contenuto sociale. E’ vero, come affermò Lesage, che l’artritismo dei genitori spiega azione dannosa sullo sviluppo mentale dei figli? A parer mio questa azione degenerogena dell’uricemia sulla sfera psichica, si verifica solamente nelle condizioni in cui la trasmissione agisce per lunga serie di generazioni in via cumulativa, a valanga, come spiegai nel precedente capitolo ; e forse, anche in tal caso, per arrecare forti danni a una casata, abbisogna ancora della collaborazione di altre cause degenerogene. Cosimo il Vecchio — tornando ancora a valersi di dati di fatto, che sono poi quelli che contano — fu un grande uricemico e uno dei fiorentini più illustri del ‘400 ; suo figlio Piero il Gottoso — il soprannome di “gottoso” dice tutto — fu un umanista distinto e primeggiò fra i suoi concittadini ; Lorenzo il Magnifico del Gottoso, fu l’uomo ( aiutando in linea ereditaria la madre Lucrezia Tornabuoni-Medici ; vedi albero genealogico a pag. 71 (34-35) ) di genio della Famiglia ; da costoro discese un bel numero di superiori alla comune dei contemporanei, e in nona generazione si ebbe il card. Leopoldo ancora un uricemico ma anche un perfetto prodotto spirituale.

Certamente nella patogenesi dell’uricemia accanto al fattore antropologico entrano spesso coefficienti esterni, anzi talvolta l’elemento extra-organico o d’acquisizione, può essere la causa principale della malattia — secondandola l’individuo — non fosse altro per formare, in una famiglia di sani, il primo anello della catena artritica. E’ sapienza antica che l’eccesso del bere e del mangiare — ed è nozione recente che anche altre cause esterne possono determinare la comparsa dell’uricemia ; così il saturnismo, secondo gli insegnamenti della Scuola del Devoto, — è sapienza antica che fra le determinanti dell’uricemia rientrano gli eccessi della tavola ; ma si potrebbe anche chiedere se la diatesi uricemica non sia di per se stessa uno stimolo alla richiesta di un’abbondante alimentazione, e se il metabolismo viziato dell’uricemico non svegli e mantenga un famelico plebiscito delle cellule organiche all’introduzione del cibo. Si tratterebbe di una specie di esagerato appetito abituale di tutto l’organismo,non facilmente contenibile, all’ora della mensa, in limiti morigerati ; in inverno alcuni artritici, messi in guardia dal medico contro l’abuso degli alimenti, dichiarano di non poter resistere all’invito bulemico, anche perché se riducono la razione dei pasti provano poi come un senso di languore allo stomaco, cioè laddove ha la sua particolare sede la sensazione cosciente della fame.

Dunque, la costituzione organica e la morfologica e più precisamente il tipo macrosplancnico brevilineo (questo particolare tipo morfologico e la diatesi urica coincisero pressoché in tutti i membri artritici della casata Medici), e l’alimentazione copiosa e l’uso generoso di alcolici, possono unirsi nella genesi dell’uricemia ; ma vi può essere un’uricemia da causa quasi tutta alimentare e da abituale inoperosità (mangiatori impenitenti e oziosi cronici), e vi può essere un’uricemia quasi tutta o tutta d’origine costituzionale, ossia ereditaria. Così Cosimo I, Ferdinando I, Cosimo III, Leopoldo cardinale,furono dei temperatissimi della tavola e furono anche degli uomini iperattivi (a ciò perfino sollecitati dai medici curanti), ma nonostante pagarono il loro contributo alla malattia di famiglia.

Chi ha una qualche conoscenza della vita cittadina e domestica degli uomini delle non lontane età passate

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e della rispettiva patologia di quel tempo — io ho appreso notizie assai diffuse e abbastanza precise delle abitudini familiari e delle malattie dominanti nei secoli XV-XVIII in Firenze, — può assicurare che la gotta, fu in quel periodo diffusissima nelle classi sociali superiori : erano gottosi gli umanisti, i principi, i nobili, i prelati, i segretari di Stato, i cortigiani…, ma era fra tutti costoro abito diffusissimo il banchettare in modo luculliano. E’ con un’impressionante sorpresa che si leggono oggi le note dei loro simposi ; si ritrovano note favolose per il numero e la varietà delle vivande servite a un solo pranzo (1); si dedicavano alla mensa varie ore della giornata ed era corrente ripetere che “ a tavola non s’invecchia”. Non fu raro il caso che nel palazzo del signore s’invitassero i più noti mangiatori del paese e anche i forestieri, per sottoporli a una specie di “gara del piatto”, e c’interessava poi di sapere quanto ciascuno aveva trangugiato di vitto e di bevande, e come aveva digerito, per l’assegnazione dei premi. Una delle qualità più ricercate in quei nani che fecero tanta brutta mostra nelle corti principesche del ‘500 e del ‘600, fu la loro straordinaria voracità ; si tenevano volentieri alla mensa, quasi fungessero da allenatori al mangiare.

I meccanismi di produzione dell’uricemia sono dunque diversi e spesso si raccolgono nei loro effetti; ma se si chiede, in particolare, la ragione del perché la gotta preferisca gli oziosi e i dotti in confronto dei lavoratori del braccio, possiamo pensare, anche sulla scorta delle cose dette, che in riguardo ai pigri e agli oziosi si abbia in conseguenza di questa abituale inerzia fisica un ricambio materiale lento, o incompleto, o comunque alterato; senza peraltro escludere che un modificato ricambio possa in altri casi essere la determinante prima della poca attività fisica e mentale di certi individui.

E che nel caso delle persone dotte, la vita di confine in ambienti di studio e di meditazione, rallenti o comunque disturbi per diverse vie il ricambio intraorganico; così si avrebbero minorate le combustioni interne ed esterne per scarso movimento muscolare e per diminuita ampiezza delle escursioni respiratorie e quindi per impoverito scambio gassoso; per abbassata attività del circolo sanguigno e linfatico; e poi si avrebbero anche modificazioni nell’eliminazione dell’acido urico per via renale, ecc. ecc.. Specificando peraltro, che, ove si ammettessero processi d’imperfetto metabolismo in colui che lavora col cervello di fronte a colui che lavora coi muscoli ( o lavora col cervello e coi muscoli insieme), ciò dovrebbe essere inteso solo in via relativa e comparativa, perché sta di fatto che anche l’attivata funzione cerebrale aumenta in proporzione diretta i consumi organici ; e che il lavoro mentale, specialmente se compiuto con passione e godimento, stimola l’appetito e non disturba in nulla le funzioni digestive ed assimilative gastro-intestinali.

Ricercando dunque un’interpretazione sul maggior gettito di uricemici dato dalle classi intellettuali in paragone delle classi manuali, si può pensare — in mezzo a tanta imprecisione di idee, a tanta scarsità di esatte nozioni su molti punti della genesi dell’uricemia ( certo l’acido urico vi ha una primaria importanza), e soprattutto in mezzo a un cumulo di fatti difficilmente coordinabili in una sola teoria, — si può pensare che i meccanismi di produzione siano complessi, e molteplici siano i fattori che isolatamente o in associazione possano concorrervi ; sempre stando alla base della patogenesi dell’uricemia, il fattore antropologico e bene spesso l’elemento ereditario.

Si potrebbe aggiungere — in linea di argomentazione logica — che, il comparire l’uricemia in due opposti gruppi d’individui, negli ignoranti oziosi e nei dotti muscolarmente poco attivi (aiutando le condizioni economico-sociali per assicurare una buona alimentazione), avvalora il concetto che tale malattia tragga reale ragion d’essere anche dalla ipoattività muscolare e da quei coefficienti che ordinariamente fan corona allo scarso movimento del corpo (difetto di stimolo luminoso naturale, aria confinata, ecc.), inquantoché sopra a soggetti differenti per abitudini ma postisi in certe analoghe condizioni di vita, le medesime cause produrrebbero eguali effetti. Cui si può aggiungere l’altra considerazione che nei lavoratori dei campi, gente parsimoniosa nel vitto e costantemente operante in mezzo all’aria pura e alla luce meridiana, l’uricemia è pressoché sconosciuta, proprio in contrasto a quanto rilevasi nel gaudente crapulone della città. Non si può escludere che i fattori uricogenici ricordati,agiscano attraverso speciali condizioni di tono del sistema nervoso vegetativo modificando il metabolismo interno, sia direttamente sia a mezzo delle ghiandole endocrine. Il sistema nervoso può ben 1 Arch. storico in Firenze; Miscell. med., n 593.

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variare le sue influenze trofiche a seconda delle stimolazioni che raccoglie da una vita libera e da un attivo esercizio del corpo in piena aria e luce, o da una vita sedentaria in un ambiente rinchiuso.

Fattori esterni o ambientali e fattore costituzionale o antropologico possono dunque a volta a volta, o separatamente o in associazione, generare l’uricemia ; ma nella prima e nella seconda evenienza, si tratti dell’ozioso o del ricco gaudente o dell’intellettuale, entra quasi sempre in funzione la trasmissione del

Prof . Gaetano pieraccini

Firenze

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Gli uricemici e le assicurazioni sulla vita.

Un argomento, o meglio una questione molto dibattuta e non ancora praticamente risolta in modo certo e definitivo, è l’assicurabilità del gottoso, o degli uricemici. Il nostro pensiero in proposito, risponderà alla conclusione di chi oggi si occupa, nel campo medico e assicurativo, dell’assicurazione sulla vita.

Si può assicurare il gottoso? Prima di rispondere a questa domanda e di risolverla, vogliamo esaminare le principali cause per cui gli Istituti e le Società di Assicurazione italiane rifiutano di assicurare i gottosi (e, in generale, gli affetti da uricemia) le quali si riducono sostanzialmente a una : la probabile degenerazione della gotta in una forma polisarcica con complicanze all’apparato cardiaco, rientrando quindi in quella categoria delle forme cardiache, che non concede l’assicurazione a chi ne è colpito. La preoccupazione ci sembra eccessiva, il rifiuto ingiusto(1).

Basta pensare, per convincersene, a un caso tipico di assicurazione sulla vita, al quale le Società non si oppongono, e che rappresenta invece una grande incognita, l’assicurazione del pleuritico. La tubercolosi è, in genere, (escludendo l’ereditarietà) un prolungamento o sviluppo della pleurite, una — ci passi l’espressione — pleurite posteriore che sopraggiunge silenziosamente, senza che non pochi di coloro che ne vengono colpiti possano difendersi. Comincia allora la lotta muta, sorda e terribile tra l’organismo che cede lentamente e il male che lentamente invade, lotta senza tregua e senza sofferenza, della quale chi è colpito non dubita troppo tardi quando ormai il male è irreparabile.

I leggeri malesseri sono attribuiti a debolezza fino al giorno in cui sopravviene la febbre e la diagnosi certa. Le ragioni sono semplici e chiare : guarito del male, dopo le cure e il regime della convalescenza ( ammettendo che queste cure e questo regime siano sempre seguiti) il pleuritico rientra in un apparente stato normale il quale ha bisogno, per essere, di una sorveglianza assidua che dovrebbe durare anni e anni. Accade spesso, specialmente nei giovani, che tale sorveglianza venga abbandonata per insofferenza o per incuria e che il pleuritico si sottoponga a un regime di vita contrario alle cure che dovrebbe avere di sé ; e, anche senza ciò, si verificano spesso sviluppi o amplificazioni collegate con la prima manifestazione pleuritica se era di natura tubercolare.

Nel gottoso, invece, avviene l’opposto. Si dice infatti che il gottoso è medico di se stesso. Infatti, per la necessità del male, egli è costretto a mantenersi in continuo regime curativo o auto-curativo e, appena lo abbandona, — specialmente se si nutre di cibi che non gli sono consentiti —lo assalgono improvvisi, acuti e spasmodici i dolori caratteristici della gotta e subito, anche senza ricorrere al medico, egli torna a seguire la cura.(2)

Di conseguenza, le degenerazioni o complicazioni dovute a incuria si presentano più raramente nel gottoso e — mentre gli si nega ingiustamente l’assicurazione — si assicura il pleuritico dove sono invece frequentissimi i casi di degenerazioni inavvertibili e fatali . Ancora una pietra di paragone molto persuadente è questa . Chi è il medico che vieta il matrimonio a un gottoso? Non crediamo che ne esistano, a meno che non si tratti di stati gravi. Invece si nota che il gottoso entrato nella via matrimoniale migliora notevolmente e vede spesso guarire i suoi disturbi.

Una necessità che ne consegue e alla quale bisogna assolutamente soddisfare, la costituzione di corpi medici specializzati, sarebbe un’ottima risoluzione per i problemi che, come quello che abbiamo ora discusso, si presentano continuamente nella pratica assicurativa. Le grandi Compagnie estere e specialmente le Compagnie inglesi e americane, hanno appunto creato questi corpi medici e i vantaggi che ne derivano sono evidenti : una più rigorosa sicurezza e una più larga umanità.

Oggi, all’estero, si assicura il gottoso. Una nostra inchiesta fra medici fiduciari di un’importante 1 Nella pratica quotidiana vediamo invece come alcune Società italiane, imitando le grandi Compagnie estere, pure rifiutandosi di assicurare gli ammalati di cuore,accettano tuttavia le assicurazioni per i gottosi garantendosi con un soprapremio ; argomento questo di valore attivo e virtuale che riporteremo più oltre. 2 D’altra parte le statistiche parlano chiaro : dal 1919 al 1925 la moralità oscilla, per la gotta, dal 3 all’1 per diecimila.

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Compagnia d’Assicurazioni di una provincia dell’Emilia ha portato a queste conclusioni davvero confortanti : nove decimi di essi — una maggioranza assoluta ! — hanno risposto che si può e si deve assicurare il gottoso. Perché in Italia non lo si assicura ? Alcune Compagnie lo fanno e questo prova in modo evidente che è possibile. Bisogna che tutte le Compagnie, tutte le Società, tutti gli Istituti lo assicurano indistintamente, garantendosi, nel giusto limite, con il soprapremio. Non si può negare al gottoso questo beneficio della civiltà, quando la scienza e la pratica positiva dimostrano l’ingiustizia del rifiuto, perché l’assicurazione sulla vita ha un alto e nobile scopo al quale non deve assolutamente mancare : la previdenza sociale che è una fra le più grandi conquiste dell’economia politica.

Domenico Mellocchi

Dottore in Giurisprudenza.

Chi non dorme più bene, chi si risveglia dopo mezzanotte e non prende sonno, prima di ricorrere a sedativi pensi al suo mangiare impropri, alle sue digestioni incomplete, alle abitudini di bere prima di andare a letto. E cominciate a rinunciare alla carne se ne mangiavate con insistenza alla sera, abituatevi a fare in bocca il purè ideale di tutto quello che mangiate alla sera e sopprimete le bibite serali, la stessa acqua fresca.

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Storia della gotta.

La storia di una malattia non è soltanto un capitolo della storia della medicina, che illumina i tecnici sopra la lenta e faticosa evoluzione dei concetti fondamentali della patologia e della terapia, ma è strettamente legata a una determinata età che con tutto l’ambiente sociale che, per abitudini acquistate o prove imposte, favoriva o ostacolava la predisposizione di certi mali. Essa interessa perciò quanti nell’antichità ricercano non tanto un succedersi di vicende politiche più o meno sensazionali, quanto forme sociali distinte da caratteri propri, non dissimili dalle nostre per groviglio di passioni e per le esigenze della lotta per la vita. Non si pecca però di esclusivismo che deve essere trattato in queste pagine, se si afferma che , per le diverse malattie, forse nessuna, come la gotta, ha una storia così legata alle teorie generali, della medicina, da una parte, e dall’altra alla vita dei singoli individui, nel complesso della loro attività fisica e intellettuale.

Come le pagine precedenti hanno dimostrato, non si tratta del risultato di un contagio momentaneo o di una minorazione delle facoltà difensive dell’organismo, dovuta a fatiche o a pericoli : si tratta di una consuetudine di vita legata a uno stato di benessere economico, inteso nel senso non solo di maggiore possibilità di usare e abusare di tutti i piaceri della vita, ma anche di una minor parte dell’esercizio fisico, in rapporto a tutte le attività vitali.

La storia della gotta e dell’uricemia quindi, interessa perciò non tanto il fiore delle classi sociali, quanto il fiore dell’intelligenza : è un capitolo vero e proprio del pensiero umano.

Questa considerazione non data però dalle origini; essa rappresenta un’elaborazione di concetti scientifici e di osservazioni pratiche che si è protratta per secoli.

La medicina indiana quale la conosciamo dai testi letterari più antichi e dalle opere mediche di Caraka e di Cucruta nel Medio Evo ( opere che rispecchiano dottrine certamente molto anteriori) procede con una logica inesorabile. Il corpo umano si compone di tre elementi primordiali o dhatu che sono Bile, Schiuma (muco) e Respiro ; alla pari con queste viene considerato anche il sangue. Ogni malattia dipende da uno spostamento non naturale nell’equilibrio primordiale che la natura assegna a questi elementi : ma poiché questi elementi sono irriducibili, la massima parte, se non tutte le cause di malattia vanno ricercate in fatti esterni : e anche le malattie che hanno maggior svolgimento all’interno sono considerate, per la teoria stessa, più che per deficienza d’osservazione, sotto questo aspetto. Nell’ambito di una stessa malattia vengono prese in maggior considerazione le varietà che sono legate più con la superficie, come avviene per la gotta che si riduce quasi esclusivamente alla varietà acuta dell’artrite. Tutto questo deve preparare a considerare con non troppo scandalo manifestazioni di “vatarakta” o manifestazioni artritiche come affini alla lepra (lebbra). Basta pensare che non essendo possibile un’alterazione che proceda dall’interno all’esterno, l’estreme manifestazioni di podagra e di chiragra non potevano essere considerate che come i primi passi di una affezione cutanea, che alterava l’equilibrio dei dhatu e s’inoltrava sempre più nei visceri, fino a divenir mortale.

Il concetto fondamentale della più antica medicina greca è assai diverso. In luogo di un’unità da mali, prodotti da cause esterne vengono distinte fin da principio due serie : una di malattie acute, esterne, indipendenti dalla volontà degli uomini, precisabili nelle loro manifestazioni : le altre croniche, interne, difficilmente rintracciabili nella loro evoluzione, collegate in gran parte al regime di vita degli uomini stessi, evitabili si, ma difficilmente e lentamente guaribili. In luogo della contrapposizione di questi caratteri astratti.

I Greci impiegavano l’espressione di mali solidi o divini (procurati dagli Dei) in confronto di quelli considerati rispettivamente come liquidi. Ora, alle origini della medicina greca, noi troviamo già,per quel che riguarda la gotta, due concetti che, direttamente o indirettamente, sono in relazione ancora con i nostri tempi. Da una parte le sue considerazioni come malattia interna o umorale, con tutti i caratteri che

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logicamente derivano da questa sua valutazione ; dall’altra l’espressione più o meno metaforica di liquido che si conserva ancora nell’uso della parola “gotta” o goccia (vedi oltre). Questo non vuol dire che per arrivare ai nostri concetti attuali il cammino sia stato breve o facile : erano necessari anzi parecchi giri e percorsi apparentemente a ritroso, ma tutta la storia delle dottrine sulla gotta si accompagna alla fortuna e alle ombre della sua spiegazione umorale.

Come veniva esposta tecnicamente la patologia generale e quella speciale dello stato gottoso e dell’uricemia nei più antiche testi medici? L’analisi del corpo umano non poteva limitarsi infatti ai due concetti di liquido e di solido, tanto più che medicina e filosofia erano strettamente unite e le nostre conoscenze più antiche risalgono ai residui delle dottrine pitagoriche e ai dialoghi di Platone non meno che ai volumi della collezione ippocratea. Ora dunque noi apprendiamo che, a somiglianza dell’India si distinguevano nel corpo umano la cholè o bile, il phlegma o muco e il pneuma o respiro. Ma la differenza dall’India non consisteva tanto nel fatto che il sangue era considerato come un elemento solido che soffriva gli spostamenti dell’equilibrio dei tre elementi primordiali, senza provocarli, ma che gli spostamenti d’equilibrio erano concepiti come un processo di “purificazione”, come necessità in cui il corpo si trovava nella sua lotta per l’esistenza di esagerare certe sue attività.

A questo si ricollegano le due più antiche nozioni che abbiamo della gotta. La prima,che si trova in un trattato che potremmo chiamare “topografia dell’uomo”, spiega come l’eccesso di muco che determina la podagra si depositi preferibilmente nel fiele, come nella regione di minor resistenza, dopo essere stato respinto dagli altri organi più nobili. La seconda si trova nel trattato delle “affezioni”, uno dei più recenti della collezione ippocratica. Esso distingue molto bene la podagra dall’artrite, indicando nella prima una contaminazione del sangue, a causa di eccessiva bile e phlegma, non localizzata e cronica ; nella seconda un deposito di bile e phlegma localizzato nelle articolazioni e acuto, per quanto non mortale.

Questi risultati che rendono la medicina greca più antica, così vicina a noi, erano ottenuti in un territorio ristretto come delle isole dell’Egeo ed erano ormai consolidati al tempo in cui Roma era impegnata ancora nelle guerre sannitiche. L’estensione degli studi medici sulla gotta a un territorio più vasto porta conseguenze diverse, ma non si può parlare di decadenza o d’arresto. Il fiorire di Alessandria, nuova capitale del mondo ellenico, fornisce alla storia della gotta parecchi elementi nuovi:

?? una grande diffusione della malattia, in relazione al ricco tenore di vita della città; ?? una grande abbondanza di rimedi, proposti non tanto dai medici, quanto dalla religione e dalla

magia; ?? i primi risultati delle autopsie di cadaveri che Erasistrato ottenne di fare dai Tolomei.

E mentre le dottrine sono ancora in questo stato di transizione, la malattia come la nuova medicina viene importata in Roma, nello stesso tempo che delle ricchezze dell’Oriente.

Di fronte a una materia così vasta non è stato più possibile conservare l’armonia di teoria filosofica e di pratica curativa. Perduto l’interesse per le classificazioni teoriche occupata prevalentemente con l’ordinamento dei rimedii sempre più complicati, la scuola “metodista” fondata da Temisone, discepolo di Esculapio, si limita a distinguere “mali che chiudono” e mali “che aprono” .

Sotto questa semplice distinzione è naturale che molte malattie, sia pure molto lontane, venissero ad avvicinarsi e quasi confondersi all’identità della cura. Ancor più naturale è la confusione totale di malattie che come la podagra e l’artrite, erano state individuate solo a prezzo di osservazioni minuziose e di esercizio critico molto fine. Nessun carattere definisce meglio la rivoluzione che si è compiuta nelle dottrine mediche come la sostituzione dell’antica opposizione podagra, male cronico, e di artrite,male acuto, con la distinzione meramente topografica di artrite del piede, della mano, delle articolazioni e dell’anca (sciatica).

Questo si legge ad esempio nella celebre esposizione di Sorano d’Efeso, il quale non conosce che delle varietà di un unico male cronico. Non tutte le varietà della gotta erano però riconducibili a varietà topografiche: il caso più grave e più raro di gotta viscerale non poteva essere adattato al punto di vista metodico venne dimenticato. Secoli dopo l’imperatore d’Oriente Alessio Comneo si ammalò appunto di

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una forma di questo genere, che noi conosciamo assai bene perché la figlia ne ha descritto tutto lo sviluppo. Il contrasto fra i sintomi che appaiono sempre più chiari e la cocciutaggine dei medici che non potevano ammettere la possibilità di quel che in realtà avveniva, ha qualche cosa di tragico per noi moderni che leggiamo quelle pagine con animo tanto mutato.

Sarebbe tuttavia un errore far risalire tutte queste affermazioni alla preoccupazione esclusivamente di curare, dei metodisti. Un contributo non trascurabile a questa confusione di podagra e di artrite è stato dato anche da ricerche che sotto altri aspetti con diventate fonte di insperabile progresso per la medicina, e precisamente dai primi tentativi dell’anatomia patologica. L’identità delle lesioni che si riscontravano nei cadaveri di podagrosi e di artritici doveva fatalmente contribuire all’identificazione delle malattie. Ma non è tutto: anche dopo l’introduzione del metodismo, la medicina dogmatica, quella cioè che discendeva direttamente da particolari dottrine filosofiche è rappresentata in modo tutt’altro che trascurabile della scuola “pneumatica” che risaliva agli Stoici e che faceva consistere la salute e le malattie rispettivamente nella stabilità o nelle alterazioni dell’elemento “pneuma” o respiro. Ebbene, anche i due autori pneumatici Archigene e Areteo parlano di varietà topografiche dell’artrite non diversamente del metodista Sorano.

D’altra parte vi sono elementi che provano la vitalità e la capacità di diffusione delle dottrine metodiste: è la storia della gotta in Roma. Nei tempi più antichi non si conosceva presso i Romani che l’ “artrite” chiamata morbus articularis, male non estraneo ad una popolazione di rudi lavoratori campestri.

La mancanza di una parola latina podagra, il silenzio sotto cui passa presso Catone sono testimonianze più che sufficienti. Certo, la podagra non è stata importata dalla Grecia solo dopo la conquista romana alla metà del 2° secolo avanti Cristo; ma risaliva, come molte altre istituzioni religiose e culturali, a tempi ben più antichi, come del resto la malattia di Ennio (3° sec. a.C.) ci prova. Ma la differenza delle due malattie era nettamente percepita come fatto obbiettivo, attestato anche da Lucilio e come fatto sentimentale, attestato dalla preferenza che Cicerone manifesta per il male patrio a danno di quello straniero. Tutto questo è stato cancellato dalle vittoriose dottrine metodiste.

Solo alcuni secoli più tardi, quando il metodismo è già ridotto a un tenue filo che si salva in Africa delle dottrine prevalenti, noi possiamo ritrovare una traccia di questa distinzione non teorica, ma si potrebbe dire sentimentale, e nazionale in occidente. E’ l’opera di Celio Aureliano, che nel 5° secolo dopo Cristo costituisce insieme con Teodoro Prisciano il ponte fra l’antichità, la scuola medioevale di Salerno e il Rinascimento.

Ma il bisogno di idee generali, di far della teoria, si fa sentire di nuovo, e ben presto insieme di conoscenze appagatrici prende il nome da Galeno; e, se non per merito del suo fondatore, certo per le circostanze storiche che favorirono la codificazione di tutto il sapere, essa rimane, come la filosofia aristotelica, la patologia generale per eccellenza durante secoli interi.

Da un punto di vista teorico la riforma di Galeno si fonda sopra due punti: il bisogno di precisare e di classificare il termine vago di umore, che viene diviso in quattro forme fondamentali, sangue, muco, bile gialla, e bile nera; il bisogno di far corrispondere l’attività di queste quattro sostanze fondamentali con qualche fatto naturale, al di fuori della natura dell’uomo.

Tracce più antiche di questo modo di ragionare non mancano: e Galeno crede di ricondurre nientemeno che all’onore del mondo le idee di Ippocrate. Comunque, rimangono legate al suo nome le deduzione che da queste premesse vengono tratte, per quanto riguarda la gotta. Così, l’errore metodista che riuniva sotto un’identità di sostanze le divergenze soltanto topografiche di podagra, chiragra e sciatica, si aggiunge, con le teorie di Galeno, un arbitrio: la tesi che esistano più forme di gotta, non per maggiore e minore intensità, non per una diversa localizzazione, ma per una diversa ”qualità” di origine.

La debolezza di questa dottrina non era tanto nell’allontanamento dalla verità che essa rappresenta in confronto all’umorismo vago dei più antichi: se è lecito il paradosso si potrebbe dire che sta esclusivamente nella sua forza, nella sua precisione, che, fornite dalla decadente civiltà occidentale, dalla mentalità degli Arabi neofiti, diretti eredi della dottrina, si sono perpetuati più oltre ancora del Rinascimento. Tutto ha congiurato perché la patologia e la clinica della gotta fossero per mille anni alla mercé di una serie di articoli di fede, sviluppati e illustrati con arida disciplina scolastica.

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Eppure per chi insegue durante i secoli passati il filo delle idee che si svolgono ora più lente, ora più rapide, patologia e clinica non sono tutto, anche quando l’argomento in questione è proprio una malattia. Il fatto di ammettere più di una qualità di umori che, secondo cause sia pure cervellotiche,si alternano, si diffondo o rallentano alternativamente la loro attività, conduce ad attribuire arbitrariamente alla testa piuttosto che al fegato le manifestazioni gottose: ma, dal nostro punto di vista, né patologico né clinico, dà anche un’immagine di equilibrio instabile o di lotta fra questi elementi, che si avvicina alla realtà più di quel che non fosse nel caso di quell’umore vago, che non impegnava nessuna responsabilità diretta, ma che era un deus ex machina di natura teatrale più che medica.

L’attendibilità di questo apprezzamento appare in miglior luce quando si consideri la prima violenta e radicale critica che del sistema di Galeno sia stata fatta, precisamente da Paracelo. Se si pensa che ai quattro umori egli sostituisce la trinità di zolfo, mercurio e sale,che alla trinità di questi corpi fa corrispondere le tre qualità di gassoso, liquido e solido, che, all’infuori della patologia, nessun altro merito la medicina riesce ad attribuirgli, si è facilmente indotti a mettere Paracelo ancora al di sotto di Galeno. Eppure, le quattro qualità di Galeno erano attrazioni arbitrarie ; le tre di Paracelo sono un abbozzo di sostanze naturali che potranno far sorridere gli studiosi della chimica fisiologica, però non abbastanza per togliergli il merito di aver sostituito il vocabolario chimico a quello addirittura meteorologico di Galeno.

La strada era segnata : aver stabilito che l’unico o i quattro umori non sono argomento di speculazioni filosofiche, ma conseguenze di osservazioni che con l’andar del tempo saranno sempre meno imperfette ha fatto sì che la questione del numero ha perduto importanza, quindi addirittura si è scissa secondo i singoli mali.

Per la gotta, le tappe sono rappresentate, prima della critica di Schneider nel Liber de catarrhis specialissimus del 1664, dove dimostra l’impossibilità anatomica della discesa di un umore dalla testa ; quindi da Sennert che trasforma l’“umore” della gotta in un elemento ben precisato, come composizione salino, come localizzazione intermedio tra la digestione e l’ematopoiesi, in altre parole in una causa d’imperfetta “concozione” del sangue ; finalmente, nel 1776, dalla scoperta dell’acido urico l’espressione “uricemia” non ha più così valore retroattivo, ma risponde allo stato attuale delle conoscenze.

La distanza delle tre qualità di Paracelso è certo molta ; dalle quattro qualità di umori di Galeno molto maggiore : ma dal dogma di un umore unico che dice tutto e nulla non solo è lontana, ma è separata addirittura da un ostacolo insuperabile.

La dottrina di Galeno, esagerata e arbitraria come “sistema” di patologia, dannosa e sterile come clinica terapia, ha trovato la sua naturale evoluzione in un campo più ristretto, nella ricerca delle qualità un tempo astratte e poi fisiche e chimiche che si trovano in contatto dell’organismo dell’individuo ad es. gottoso. Ma per quanto universale sia stata la diffusione e l’onore in cui è stato tenuto Galeno nel medio evo, pure non andranno del tutto distrutte le traduzioni dell’umorismo vago, e precisamente sotto forma del metodismo. L’eredità di Cartagine e di Bisanzio si è trovata riunita nella scuola italiana di Salerno, ha ripreso vita, evolvendo pian piano, nel Rinascimento. Nemmeno essa può ormai pretendere di essere un “sistema” ; ma, di fronte alla minore o maggiore potenza dell’elemento apportatore del morbo, essa illustra più o meno completamente la resistenza che l’organismo nei singoli casi sa opporre. Ancora una volta il progresso e la modernità dei concetti sono dovuti in non diversa misura alla chiarezza schematica degli speculativi, all’analisi frammentaria dei tecnici.

Le prime innovazioni che noi siamo in grado di osservare rispetto all’antichità consistono in un allargamento del campo d’indagine. Ora la precisione degli antichi che opponevano la podagra, cronica,al reumatismo articolare acuto, faceva sì che molte forme di dolori muscolari, articolari, ossei, rimanessero al di fuori di queste categorie principali o di quelle secondarie che riusciamo a rintracciare accanto alle prime. Queste manifestazioni non ben codificate erano chiamate kopoi o “stanchezze” e di un autore non medico come Teofrasto ci sono rimasti alcuni frammenti su questo argomento. Sono le antiche “stanchezze” che forniscono il materiale su cui si elabora il nuovo concetto di reumatismo,e attraverso il quale si riesce i nuovo a costituire un’opposizione simile a quella antica di podagra e di artrite. Spesso si sente dire dai laudatores dell’antichità che la storia delle dottrine mediche per quanto

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riguarda la gotta si riassume in un ritorno abbastanza recente a una distinzione precisa di podagra e di artrite, che era stata formulata fin dall’antichità e quindi dimenticata dalla fondazione del metodismo in poi. Questa constatazione ha un valore soltanto pratico. Dal punto di vista teorico la confusione che era stata fatta dai metodisti si è perpetuata nel Rinascimento e nel periodo successivo, nel senso che il concetto “artrite”, una volta opposto di podagra, continua a significare anche la podagra. Il concetto opposto di reumatismo, per quanto assorba a poco a poco qualche parte dell’antica artrite, è, in origine, nuovo nella sua sostanza perché discende dall’antiche “stanchezze” non meno che nella sua denominazione, sorta in età abbastanza recente. Tutta l’originalità dei medici del Rinascimento in poi si restringe così l’elaborazione del concetto di reumatismo, mentre quello di “artrite” subisce l’influenza delle loro dottrine senza prendervi parte in modo diretto.

A questa opera si possono dare come limiti da una parte Cardano, che ha criticato per primo e a più riprese il monismo di Galeno per quel che riguarda la podagra e l’artrite, e dall’altra il francese Chesneau che ha definito l’opposizione di artrite, (cioè antica podagra) e reumatismo nel senso di due mali di cui il primo è giustificato da cause interne, l’altro, oltre la predisposizione, ha bisogno di cause esterne occasionali. Il cammino intermedio è illustrato dai nomi di Charles Lepois e di Felix Plater, che preparano la strada, di Guglielmo Baillon che la percorse fino all’illustrazione compiuta del concetto reumatismo. Ma tutto questo periodo s’identifica ancora con l’allargamento del significato di “reumatismo” non si raggiunge il parallelismo con l’espressione dell’antichità se non con Sydenham, dal quale si comincia a distinguere le forme articolari da quelle non; si riconquista cioè la nozione di un reumatismo articolare acuto, dell’ “artrite” dell’antichità.

Per quanto riguarda l’origine del male, non si va più a ricercarla nella testa, ma il concetto di articolazione predomina, e si parla di flegmasie dei tessuti articolari . Anche qui però si tende inconsciamente ad avvicinarsi alla dottrina antica, non nel senso di un umore, ma di una predisposizione generale di tutto l’organismo. Ma per trovare un’esposizione di questa interpretazione più comprensiva, si viene in contatto delle dottrine contemporanee. Su queste e sulle loro conseguenze è stato detto largamente nelle pagine che precedono.

Di qualche interesse possono riuscire alcuni dati che riguardano i giudizi morali intorno alla gotta e alle persone dei gottosi. Che i malati nascondano l’origine dei loro dolori e attribuiscano le loro crisi alle cause più inverosimili è affermato nell’antichità come nei tempi moderni. Lo si può leggere in Areteo, lo studioso della scuola pneumatica, come in Sorano d’Efeso, nel poemetto Ocipo, attribuito a Luciano, come nel trattato “ De Arthritide” di Sennert stampato nel 1656. Che il profano non nutrisse particolare simpatia per il gottoso dell’antichità, lo si apprende dal fatto che Cicerone tiene a far passare sua moglie Terenzia come affetta da artrite e non da podagra o dal ritratto che nel V° secolo dopo Cristo, Siconio Apollinare fa del parassita e che corrisponde perfettamente alla descrizione di un gottoso. Ma quello che è strano è che questa condanna morale non manchino giudizi medici, siano quelli del celebre Galeno o del più modesto seguace di Salerno, Arnaldo di Napoli. Dobbiamo arrivare al Rinascimento per trovare van Helmont che parla della gotta come della malattia che “in altri tempi si attribuiva alla gioia di vivere”. Certo in relazione con questi antichi peccati dev’essere messo il consiglio di pazienza e rassegnazione che antichi come Luciano e moderni come Carlo V fanno ai gottosi come il miglior rimedio dei loro mali.

Già Seneca aveva detto: “Voi non guarirete mai, perché il vostro male è inguaribile; statevene contenti se viene meno spesso e se gli acciacchi sono meno dolorosi”. Luciano, che, forse come Sydenham, studiò su se stesso la malattia che descrive, ci dà con ironica allegria i risultati della sua triste esperienza: non valgono i rimedi della medicina e della ciarlataneria antica, dalle radici d’elleboro alle formule magiche: solo la pazienza vale. Chi osa lottare contro la crudele nemica è vinto, “che la lunga pratica e l’abitudine del vostro male, egli dice (Tragopodagra) vi servano i consolazione. State allegri, dimenticate le vostre sofferenze e soprattutto lasciate che vi prendano in giro e vi canzonino. Questa è ormai la sorte che vi spetta”. È una quindicina di secoli dopo, Sennert dirà: “che il gottoso si consoli: ciascuno ha le sue disgrazie, ciascuno le sue fortune, e la gotta è detta la malattia dei ricchi. I gottosi soffrono del loro male, ma la maggior parte di essi vivono nell’agiatezza o almeno nella mediocrità. Tanti, se non hanno gli stessi dolori, sono invece affetti ogni giorno dalle pene della povertà”. Ma non basta; a differenza d’altri ammalati, i gottosi conservano quasi sempre intatte le loro facoltà intellettuali.

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Noi dobbiamo alla podagra, egli continua, una quantità di opere d’illustri persone che non avrebbero visto la luce se i loro autori non fossero stati ammalati. E, come dice Cardano, è dal letto della gotta che un uomo di grande scienza, Erasmo, ha dato al pubblico tutte le cose sue che meritano di essere lette (Ieo).

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Gotta: la parola e il concetto

Dalle pagine precedenti è stato rilevato che le parole “gotta” e “uricemia” non sono accettate oggi come sinonimi, ma nello stesso tempo non sono nemmeno diverse secondo un criterio qualitativo : i concetti che esse rappresentano sono in rapporto non di coordinazione, ma di subordinazione. Nel passare in rivista l’espressioni che sono state impiegate nelle diverse lingue, per significare questi concetti, bisogna tenere presente la maggiore o minore estensione che in origine, veniva data ad esse. In secondo luogo, se è vero che si tratta di espressioni non limitate al linguaggio tecnico, ma entrate nell’uso comune, pure non è possibile trascurare né gli eventuali influssi di una dottrina scientifica né, dall’altra parte, le immaginazioni popolari che si contengono in una data parola, anche dopo che è stata elevata al rango di espressione scientifica.

La parola che l’India consacra a quelle affezioni che ricordano le nostre manifestazioni gottose, è in armonia con la dottrina, se non proprio cutanea, almeno esterna della gotta, che è stata esposta più sopra : “ vàtarakta”. E’ il risultato di una combinazione di due parole “vàta” e “rakta”, con un procedimento astratto e, scientificamente, assai comodo, ma non per questo meno familiare alla lingua. “Vàta” rapprensenta la parte dottrinale, è uno dei tre elementi costitutivi del corpo umano, è quello che soffia, il vento : dal punto di vista medico ciò che i greci chiamano “pneuma”. “Rakta” riguarda invece l’osservazione e nel suo senso più generale non significa altro che “alterato” ; “alterazione del pneuma” è quello che ci dice la parola indiana. Soltanto, “rakta” è, nella lingua comune, un cambiamento di colore : se la parola, nel suo complesso, può far ritenere che esistesse una teoria interna di quanto, oggi si riassume nell’uricemia, intesa come alterazione dell’elemento “soffio”, l’analisi dei suoi termini costitutivi ci mostra che il punto di partenza dell’alterazione era così esterno da essere imparentato con un cambiamento di colore.

Passiamo alla Grecia. Clemente d’Alessandria dice che esisteva in Laconia un tempio di “Artemis podagra”. Non si può trattare evidentemente di un santuario al quale accorressero i gottosi, perché nessuna divinità dell’Olimpo poteva essere meno indicata della dea della caccia e delle selve a proteggere le vittorie di una vita troppo sedentaria. Ma “podagra” vuol dire per se stessa niente altro che “trappola” o “tagliola”, armi con le quali Artemis prendeva cervi, lupi, volpi. La parola “podagra” non è solo perciò una parola di origine popolare per se stessa, ma popolare è anche il traslato, per il quale “trappola” ha potuto significare, prima ancora che la gotta in generale, il momento più acuto dell’attacco al piede. Tutto questo presuppone una completa indipendenza del concetto popolare di “gotta”, da quello più generale di “uricemia”. Questa è la modesta origine della parola che è passata inalterata in latino e quindi nelle lingue moderne acquistando non solo maggiore estensione come concetto, ma anche una certa nobiltà che nei testi medici le è rimasta sin verso la metà del secolo scorso. Podagra appare ancora oggi in russo e in polacco, come unica espressione scientifica.

Questa parola di profumo silvestre è venuta a far parte, fin dal tempo della medicina greca, di un mondo di parole insipide,formate con un procedimento astratto, proprio dei filosofi. “Arthritis” è una qualità astratta inerente alle articolazioni che solo nell’uso medico è diventata qualità “cattiva”. Questa “cattiva qualità”,le articolazioni l’acquistavano a causa dei prodotti eliminati dalla testa e dalle altre regioni più nobili del corpo nel processo di purificazione o “Katharsis”. Queste sostanze erano concepite, non come un contagio in astratto, quale potremmo intenderlo noi, ma come uno stato fisico ben definito e, precisamente, liquido. La parola che definisce lo spostamento di queste sostanze dai luoghi di partenza alle regioni che poi rimangono colpite è legata perciò al concetto di scorrere : si chiama “rheuma”.

Di fronte a queste denominazioni greche, il latino non ne ha che una sola, quella che indica il nostro reumatismo articolare. E poiché il latino non si prestava, come il greco, alla formazione di parole nuove e non esistevano filosofi che avessero elaborato una dottrina medica armonica così nei suoi concetti come nel suo linguaggio tecnico, quest’unica espressione latina non ha nulla di peregrino : suona semplicemente “morbus articularis”.

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Greche non meno di “podagra”, le tre parole accennate, “arthritis, catharsis, rheuma,” hanno avuto un destino opposto, come opposto era stato l’ambiente in cui si erano formate. “Arthritis”che cade sotto un certo punto di vista, perde qualsiasi precisione di significato e coincide, qualche volta sostituendola,con la vecchia “podagra”, intesa di malattia diffusa. Le altre due si alterano ben più profondamente: l’una diventa l’italiano “catarro”, che a noi non ricorda più nulla di una purificazione; l’altra il francese “rhume” che solo in un senso affatto diverso da quello originario, e certo per niente dottrinale può venire avvicinato al concetto di scorrere.

Ma il latino non è stato soltanto il veicolo che ha trapiantato in occidente le espressioni mediche greche, senza nessun tentativo di assimilazione. Si sono avuti anche degli sforzi per rendere latinamente i concetti fondamentali che si nascondevano sotto di esse.

Il liquido che scorre non è conosciuto da noi altro ché con l’espressione latina di humor o umore. E’ con un’espressione latina che noi definiamo il carattere della medicina antica, l’umorismo: è quando vogliamo esporre le differenze fra le teorie più antiche e la riforma di Galeno, non usciamo dal dominio di questa parola e parliamo di umorismo vago e di un umorismo che precisa quattro specie distinte di umori. Le teorie di Galeno che hanno cristallizzato la patologia per secoli hanno lasciato una traccia ancora più vivace nel linguaggio: la distinzione di umori intrinsecamente diversi si è riflettuto metaforicamente nel mondo psichico; alle distinzioni di bile bianca e nera si sono sostituite a poco a poco i traslati dei colori “verde” o bilioso, nero, cupo e melanconico e in genere di umore “buono” e “cattivo”. Sicché nel valutare questa espressione ai nostri giorni tanto comune noi dobbiamo tenere presente non tanto l’immagine del liquido misterioso che un giorno si credeva fluisse nel nostro interno, quanto la rigida classificazione degli umori fatta da Galeno: la storia di questa parola è strettamente legata alle tappe successive delle dottrine mediche, e delle dottrine sorpassate conserva ancora oggi vive le tracce.

Ma il passaggio dalla rigida espressione tecnica degli umori di Galeno all’espressione metaforica di uno stato d’animo non è improvviso. Il momento critico da superare era questo: l’impiego di “humor” non come qualche cosa di intrinsecamente definito, ma sempre nell’ambito della medicina come una qualità astratta che doveva esser poi specificata con un aggettivo. Raggiunto questa elasticità di significato, tutto il destino ulteriore della parola era segnato. Ora nei primi secoli del medioevo noi troviamo appunto delle espressioni come “rimedio adatto” a “humorem podagricum” oppure “ad omnes humores”, vale a dire pressa poco, al male podagrico o a tutti i mali (beninteso umorali).

In quale ambiente cadevano queste espressioni? Possiamo dire tranquillamente che si trattava del contrasto più deciso con quello dell’antichità classica. Le espressioni tecniche dell’antichità cadevano in un ambiente ben disposto ad accoglierle: se alcune espressioni erano tratte dalla lingua parlata, non era perché l’espressione tecnica dovesse adattarsi a una limitata capacità di comprensione del pubblico, ma semplicemente perché essa rispondeva esattamente al concetto scientifico non meno che a quello volgare. L’assillo degli scrittori medievali era invece di farsi comprendere, non solo con la chiarezza del ragionamento, ma con l’evidenza delle immagini. Se la progressiva astrazione di “humor” rappresentava l’evoluzione naturale del concetto di umore da Galeno in poi, essa era quanto di più innaturale rispetto alla sensibilità del pubblico che poco apprezzava l’espressioni vuote di un contenuto intuitivo. Si preparava così il terreno a una parola nuova: “humor” che non ricordava più niente di liquido si sentì prima accompagnato poi sempre più soppiantato da “goccia” o “gutta”. Il primo impiego di gutta è dunque quello di “gutta podagrica” o di “omnes guttae”; nulla di diverso dal punto di vista del concetto, molto diverso dal punto di vista della sensibilità popolare, che ricordava questa parola non tanto col potere d’astrazione della sua attività psichica quanto con gli occhi e col tatto che custodivano viva l’immagine della “goccia”, di qualcosa che cade.

In relazione con la sua origine, “gutta” da principio ha voluto dire tutti e nessun male. Si è scritto di una “gutta caduca” o epilessia, di una “gutta malogranata”o emicrania e solo per la storia della medicina intesa in senso ristretto possono avere interesse le tappe successive, le successive limitazioni che al termine gotta si sono imposte con l’andar del tempo. Ma la parola presa in se stessa e nei suoi rapporti col mondo profano degli studiosi non ha importanza sapere che goutte in francese è oggi l’insieme delle manifestazioni uricemiche, gotta in italiano è invece uno stadio dell’uricemia.

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Oggi “gotta” regna, sotto varie forme, in tutto il mondo neolatino, dalla Romania all’America Latina e nel mondo anglosassone. Le lingue slave per quanto rappresentino più di duecento milioni di individui hanno espressioni diverse e create in tempi recenti per sostituire le espressioni straniere come podagra o altre. Dalla parola tedesca “Gicht” che appare leggermente alterata, in olandese e nelle lingue scandinave, poco si può dire perché appare improvvisa e isolata nella storia senza fornirci il mezzo di etimologia attendibile. L’unico dato interessante che ci offre il mondo germanico risale al più antico monumento di quel gruppo di lingue, alla traduzione del Vangelo che il vescovo Wulfila ha fatto nel IV secolo per i Goti. Là dove si parla, nel 9° capitolo di Matteo, della guarigione del paralitico, la parola impiegata è uslithan che etimologicamente vuol dire sì “privo dell’uso delle membra” ma in una realtà non corrisponde ad altro che a “gottoso”. Ci mancano i dati per sapere in che senso si può parlare di gotta presso i Goti : resta soltanto acquisito alla storia che , di fronte all’espressioni dell’India e della Grecia, in un testo frammentario e isolato come quello di Wulfila si trova un’altra espressione caratteristica per quel male, affatto indipendente da quelle che sono state passate in rivista più sopra.

Esse ci mostrano tutti i destini più diversi che possono toccare una parola : podagra quella di origine popolare che viene accolta nel mondo scientifico e si nobilita. Katharsis e Rheuma, quelle di origine astratta e scientifica che a poco a poco si abbassano e si riducono a esprimere i concetti particolari e volgari. Finalmente in gotta si hanno due processi opposti : da una parte la parola popolare che si nobilita, dall’altra il concetto scientifico che si popolarizza nascondendosi in una parola di contenuto materiale.

IEO.

Molta gente che prende i suoi pasti nelle vetture ristoranti dei treni, ne ha di frequente, disturbi gastrointestinali, e ne suole far risalire la causa, erroneamente spesso, alla qualità degli alimenti o alla loro confezione. Ma vi è un’altra causa,la più naturale e più attiva : si mangia troppo in fretta o per meglio dire, si è costretti a mangiare troppo in fretta perché le serie s’incalzano, e il movimento del treno con le conversazioni, spesso inevitabili del piccolo tavolo, compiono l’opera donde le diarree precedute o no da doloretti, da piccoli malesseri. E lo stesso si può dire dei consumatori dei cestini anche quando questi non siano troppo generosi.

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L’alimentazione ipercarnea nella storia

Come è difficile distinguere in tutta la storia meno moderna della medicina i confini esatti di medicina e filosofia, così i giudizi spassionati e i consigli igienici sul regime di vita sono da principio in stretto contatto con gli apprezzamenti morali di cui si è dato più sopra un saggio. L’affinità è tanto maggiore nel caso della prevenzione della gotta, legata così intimamente con il regime alimentare, non solo perché si tratta sopra ogni altra cosa del consumo di carne e si favorisce il modo ai moralisti di far delle disquisizioni sul diritto di uccidere e sui limiti legittimi dei piaceri della mensa, ma anche perché si tocca una leva potente del movimento sociale che uomini d’azione come Federico II o di pensiero come Kant hanno riconosciuto in tutto il suo valore. Fra i detti che tutti ripetono e di cui nessuno sa provare l’autenticità si possono ricordare qui, appunto Federico II “ Ogni civiltà è in relazione con lo stomaco” e di Kant “L’uomo è quello che è la sua alimentazione”. Chi volesse fare dell’ironia potrebbe domandare allo spirito di due illustri uomini se la civiltà a cui apparteneva il primo o il genio che ha reso immortale il secondo avevano davvero qualche relazione con la tormentosa podagra, di cui entrambi borghesemente soffrivano.

Fin dai tempi più antichi si possono seguire due correnti di pensiero, che si accompagnano fino al giorno d’oggi, l’una critica, indulgente o benevola ironica, ma sempre negativa, l’altra, positiva che mira a provare secondo strade diverse la naturalezza e l’opportunità di un regime nuovo e più degno.

Uno dei dati di fatto più antichi e più seri a proposito delle conseguenze del regime carneo risale nientemeno che a Omero, il quale,nel nono libro dell’Odissea, contrappone ai Lotofagi, mangiatori di loto e miti di animo, i carnivori e feroci Ciclopi. Sopra questo modello, si potrebbe fare una lunga enumerazione di popoli e di classi sociali che, per impossibilità o per rinuncia non fanno, fra l’altro, uso di carne. Santità, salute, longevità dei bramani dell’India come dei profeti di Israel o dei monaci Cristiani che trascorrevano lunghi anni nelle solitudini delle selve o dei deserti sono proverbiali. Ma qui il fervore dell’apostolato non deve essere spinto troppo oltre : per queste persone d’eccezione non si tratta tanto di un regime alimentare non carneo, quanto di un regime complessivo di vita ; sarebbe fuori luogo insistere troppo a lungo sul loro esempio. Più interessanti sono certo le testimonianze di Luciano, che parla di uomini dei suoi tempi, che hanno vissuto a portata delle debolezze e dei piaceri degli uomini.Ma fra la vaga asserzione che scrittori sacri, filosofi e maghi del suo tempo erano sani a causa dell’esattezza del loro regime, è di gran lunga preferibile il racconto di Gorgia oratore che, interpellato sulla possibilità della sua fiorente vecchiaia (morì a 108 anni), la attribuiva alla moderazione che aveva sempre conservato nei banchetti. Era un ragionamento che certo non si applicava solo a Gorgia, ma che tutti potevano fare per diretta esperienza.

E che la carne fosse considerata la principale colpevole fra le gioie della mensa è provato dalle sentenze che spesseggiano negli autori moraleggianti, ma non mancano nemmeno negli autori più indipendenti, popolari o anche lontani dal periodo delle abitudini più epicuree. “L’uomo non è stato creato per divorar la carne degli animali” dice Plauto nell’Aulularia e la personalità dello scrittore è quanto mai significativa. Ovidio sa esser sì al momento opportuno rugiadoso e romantico: ma nel libro XV della Metamorfosi si mostra troppo lucido per contrapporre i concetti che fa esprimere a un suo personaggio, perché noi crediamo a uno slancio sentimentale più che a una credenza diffusa.

“Quale delitto delle viscere porre nelle viscere, veder un corpo avido che si impingua di un altro corpo inghiottito, un essere vivente che vive della morte altrui! E’ lecito, fra tante ricchezze della terra, la migliore delle madri, produce per noi, nessuna cosa ti sia gradita se non il mordere col tuo dente crudele le miserie ferite, se non il ripetere il rito dei Ciclopi?”

il personaggio che pronuncia queste parole è Pitagora: è a Pitagora che fa capo la corrente ricostruttrice che non solo sostiene i danni dell’alimentazione ipercarnea ma vuol contrapporle in modo organico la tesi vegetarista. Il regime di Pitagora ha esperimento sopra se stesso Seneca, che confessa di essersene sentito più agile di spirito. Anche se questo periodo limitato fa temere che al filosofo storico sia venuta meno la

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forza necessaria per quelle rinunce, pure rimane di lui la condanna che egli ha decretato al regime comune di vita : dal suo Epistolario si apprende il concetto non nuovo che sulla terra esistono abbastanza alimenti perché noi dobbiamo macchiarci di sangue innocente; altrove si vede sviluppato il concetto che “ la vita non l’abbiamo avuta in sorte troppo breve ma breve ce la facciamo noi”, concetto che può essere approvato anche da un punto di vista fisiologico, anche se non è esageratamente personale.

Un parallelo perfetto ci offre Plutarco, anche se non sussiste la prova che la sua abnegazione si sia spinta a provare su se stesso come Seneca le alte virtù del regime pitagorico. Ma s’impara ciò non di meno che per il corpo umano è cosa innaturale mangiar carne; che la pesantezza e la sazietà non sono soltanto una conseguenza della creofagia sul fisico degli uomini, ma anche e soprattutto si ripercuotono sulla vita dello spirito. E finalmente un aureo precetto non si sa se più di morale fisiologica o di fisiologia morale : “ I cibi sono in tanto gradevoli in quanto sono utili all’organismo”:

Se la mancanza di originalità rende faticosa e monotona la raccolta di queste citazioni, essa permette d’altra parte di stabilire che non si tratta tanto di slanci personali più o meno peregrini di singoli autori, ma di una coscienza diffusa, non abbastanza su un cambiamento di condotta, abbastanza per tormentare con moniti discreti della coscienza quelli stessi che s’incaricavano poi di ammonire gli altri. Non esiste ancora nell’antichità un concetto preciso dei rapporti fra le “qualità” degli alimenti, di cui la carne forma la parte più rappresentativa e le “qualità” delle forme uricemiche. Ma esiste non solo nel pensiero di qualche chiaroveggente, ma nella coscienza popolare il concetto del debito che si contrae con la natura quando si pecca con la gola, e della minacciosa contropartita che la natura custodisce a lungo in segreto fino a quando è troppo tardi.

Come nella storia degli studi medici da Galeno in poi si conserva un equilibrio se non proprio l’immobilità delle dottrine fondamentali, così, per quanto riguarda le opinioni di letterati e di scienziati si può tranquillamente raggiungere un periodo di tempo più vicino a noi. Il grande interesse che presenta ancora oggi l’opera di Cornaro, “Consigli intorno alla vita sobria” rende superflue altre citazioni italiane isolate. Questo libro infatti, ripubblicato e commentato or non è molto da Pompeo Momenti, ha avuto larga diffusione in Italia e le sue direttive hanno ricevuto anche non poca considerazione all’estero.

Altrove rinunciamo a raccogliere facilmente tratti di moralisti, filosofi o letterati, proprio come nell’antichità. E’ di Montaigne l’espressione : “ dei giorni di magro, faccio i miei giorni grassi; di quelli di digiuno, faccio dei giorni di festa”. Bossuet, obbligato a parlare degli altri e a trovare nella loro condotta prove sempre rinnovate di decadenza morale e fisica, considerava fra le cause principali l’abitudine dei pasti “micidiali” del tempo. Il ragionamento filosofico sia critico e ironico, sia creatore e ingenuamente entusiasta si trova rappresentato anche in questa questione. Così Voltaire accusa l’alimentazione carnea di essere parte importante nel determinare tutte le follie degli uomini. Rousseau considera gli uomini mangiatori di carne come più feroci e crudeli degli altri, e attribuisce così la crudeltà di certi uomini primitivi non tanto alle rozze abitudini che si tramandano di padre in figlio, quanto a una conseguenza della loro alimentazione.

A questo ragionamento aderisce anche Lamartine, nel parlare della sua infanzia; egli attribuisce la calma del suo temperamento, la costanza del suo umore al fatto che fino a dodici anni è stato nutrito solo di pane, latticini e verdure. E’ una notizia molto più interessante per noi delle declamazioni di stile ovidiano che si leggono nella “Chute d’un Ange” sulle disastrose conseguenze dell’abitudine di versar del sangue per nutrirsi. Chiude la serie Leone Tolstoi, del quale è inutile riportare dei detti isolati, quando tutta la sua opera di artista è stata consacrata e anche sacrificata a un ininterrotto apostolato per una vita ( qui compresa l’alimentazione ) più vicina alla natura.

L’indagine scientifica si è preoccupata di trovare altre giustificazioni per un’alimentazione meno carnea o affatto vegetariana, anche al di fuori della fisiologia e della patologia. L’anatomia comparata ha fornito l’argomento dei denti, che non paiono costituiti sopra il modello dei carnivori. Gassendi scriveva in conseguenza che la carne, non solo non entra nel regime normale dell’alimentazione umana, ma è estremamente nociva. Denti, stomaco e intestino provano ugualmente secondo Flourens che l’uomo in origine era frugivoro. E a questa constatazione giunge anche la parola più autorevole del naturalista Cuvier

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Oggi il problema va affrontato un po’ più da vicino : qualunque sia stata l’alimentazione originaria dell’uomo, nulla vieta in teoria che, in tanto volgere di anni, un nuovo tipo di alimentazione si sia adattato all’anatomia e alla fisiologia dell’apparato digerente umano. Per questo, di mano in mano che ci avviciniamo ai tempi nostri, il problema viene abbordato sempre più da vicino e trasportato dall’ente che accoglie il cibo e, come essere vivente, continuamente si muta, alla costituzione del cibo stesso. E’ la mentalità che ha condotto allo sviluppo attuale della chimica fisiologica.

Data la tesi che la carne è un veleno si tratta dunque di confrontare il veleno-carne con un altro, per esempio il veleno-alcool e stabilire le differenze qualitative e quantitative che lo separano da questo. Si tratta in altre parole di giustificare le asserzioni che troviamo sia nell’antichità, in un autore citato ad esempio da Oribasio per il quale ”creofagia” ed “enoposia” erano veleni allo stesso modo, sia nei tempi moderni in cui Voltaire divideva le responsabilità di tutti i mali fra cibi carnei e bevande spiritose. Nessuna prosa di questa equivalenza è migliore di quella ottenuta da un esploratore inglese che ha dato da mangiare della carne a una tribù dell’India esclusivamente frugivora. Dopo qualche ora quegli individui che avevano mangiato con voracità il cibo sconosciuto e prelibato, erano in preda a un’esaltazione fisica e intellettuale identica a quella prodotta da un liquore. E la ripetizione dell’esperimento ha dato lo stesso risultato.

I mangiatori occasionali di carne si possono così paragonare a individui astemi che sentono occasionalmente più forti le conseguenze di una dose anche moderata di alcool. I mangiatori abituali di carne (si può aggiungere, in quantità eccessiva) sono paragonabili a bevitori non eccezionali, ma d’abitudine, che sopportano benissimo quantità rilevanti d’alcool : gli uni dovranno rispondere dei loro abusi con delle forme uricemiche, paragonabili alle ipertrofie del cuore e alle cirrosi epatiche che, in ritardo, colpiscono gli altri.

Senonchè il lato negativo del problema e cioè all’astinenza non si presenta allo stesso modo per la carne e per l’alcool. E’ facile servirsi degli esempi dei lavoratori cinesi o indiani che vivono con un pugno di riso, degli italiani tradizionalmente “mangiatori di polenta” e capaci di un lavoro più lungo dei lavoratori nordici, abituati alla carne. La mancanza di carne non trova presso di essi un compenso corrispondente in altri cibi, come l’esuberanza di prestazione al lavoro non è determinata da un’esuberanza di energie. Tutta l’attività degli individui, assorbita dalla lotta per la vita, viene a ridursi o a mancare come equilibrio nervoso o capacità intellettuale, sovente anche come resistenza all’azione patogena di un contagio.

E’ perciò un’ironia voler citare gli operai italiani del Gottardo come un modello dei risultati che possiamo attenderci da un’alimentazione non carnea, voler elevare la polenta, non “velenosa”, ma certo povera, come contro altare alla carne. Si può sostenere, in teoria, che il tipo di regime di quei lavoratori è più vicino al regime ideale quale può concepirlo un fisiologo moderno di quel che non sia il regime abituale delle classi ricche, come, in teoria, sosteniamo che la dottrina della gotta dei primi “ Asclepiadi “ è più vicina a noi delle dottrine intermedie di Galeno e degli arabi. Ma com’era necessario che le idee nostre fiorissero sullo schematismo di Galeno, sui baccanali terapeutici dei metodisti dell’antichità, così dobbiamo riconoscere che solo attraverso l’aumento quantitativo dell’alimentazione portato dalla carne e dai suoi abusi, siamo riusciti a discernere e a stabilire il suo equilibrio “qualitativo”.

Per quanto le citazioni dei filosofi, dei letterati,dei comuni proverbi ripetano ancora oggi cose che si ritrovano venti secoli fa, pure la storia dell’alimentazione ipercarnea non è oggi quella che era allora. Non sono più le grandi teorie filosofiche, naturali, patologiche che si contendono il campo ; è l’osservazione tranquilla e minuta di quello che ogni alimento porta con sé di vitale e di inutile. Alle bandiere avversarie dell’antichità “non carne” (a parole) “carne” (a fatti) si contrappone oggi il modesto trinomio della chimica fisiologica “idrati di carbonio, albumine, grassi”. E se progresso vuol dire civiltà di discussioni, esattezza di confronti, serenità di giudizi, dobbiamo riconoscere le benemerenze non solo igieniche, ma anche morali che gli studiosi della medicina si sono in questo dominio acquistate.

IEO.

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Sull’uso della carne in Italia

Sommario:

?? Il bisogno di albumina dell’organismo ?? Proteine animali e proteine vegetali ?? Il consumo della carne in Italia.

Il bisogno d’albumina dell’organismo

Le nostre cellule sono fondamentalmente costituite di sostanze albuminose, perciò l’albumina viene a essere il componente più importante della razione alimentare, che non può essere altrimenti sostituito.Fino a che ebbe il sopravvento l’opinione del celebre chimico Liebig, che l’albumina, non solo ripara all’usura a cui vanno incontro i nostri tessuti funzionando, ma fornisce altresì ai nostri muscoli l’energia per il loro lavoro, è chiaro che si dovesse attribuire all’organismo un forte bisogno di albumina, che doveva esser tanto maggiore quanto più intenso era il lavoro muscolare.Non può quindi fare meraviglia che, conforme a queste vedute, il nostro Moleschott abbia fissato il fabbisogno giornaliero per un uomo del peso di 67-70 Kg. a riposo o occupato in un lavoro leggero, in 130 gr. Di albumina, e che la scuola fisiologica di Monaco abbia consigliato di mai discendere al di sotto dei 118 gr. .

Però bastò un’esperienza, ormai storica, a dimostrare non corrispondente a verità, almeno nella nostra zona temperata e nelle nostre condizioni consuete di alimentazione, l’affermazione di Liebig. Due scienziati tedeschi, Fick e Wislicenus, salirono su di un’alta montagna, il Faulhorn, innalzando il loro corpo a 1956 metri, e dall’analisi delle loro urine subito prima, durante e dopo la salita, conclusero che l’albumina decomposta durante il lavoro eseguito per innalzare il loro corpo a tale altezza, non poteva avere fornito che una parte minima dell’energia necessaria per detto lavoro.

Altre sostanze, e precisamente quelle che il Liebig riteneva meramente respiratorie, produttrici di calore, dovevano essere state utilizzate come sorgente di forza. Questa esperienza di Fick e Wislicenus fu il punto di partenza di una serie numerosa di interessanti ricerche, che portarono alla conclusione che nel lavoro muscolare piuttosto che aumentare l’eliminazione per le urine delle scorie azotate, cresce il consumo dell’ossigeno e la produzione dell’acido carbonico, ossia il consumo di quei corpi organici che non contengono azoto nella loro molecola. Le sostanze in azotate che concorrono principalmente al lavoro muscolare sono gli zuccheri, nei quali pertanto dobbiamo riconoscere la fonte prima del lavoro muscolare. Se fanno difetto gli idrati di carbonio o il lavoro è estenuante allora possiamo assistere a una distruzione notevolmente superiore alla norma delle sostanze albuminose.

Ma la primitiva teoria del Liebig seguì la sorte di tante altre concezioni scientifiche, che nuovi studi riabilitarono in tutto o in parte, quando già parevano completamente demolite. Oggidì possiamo affermare che non si può più addurre nessuna ragione fondata contro la partecipazione delle proteine al lavoro muscolare, allo stesso modo che partecipano alla termogenesi. Gli aminoacidi, i prodotti ultimi, più semplici delle proteine, bruciano nel nostro organismo anche più celermente degli idrati di carbonio, e possono essere utilizzati come sorgente di lavoro meccanico, come produttori di acido lattico, ritenuto oggidì il fattore più importante del processo della contrazione muscolare.

Il muscolo non è una macchina termica come si è ritenuto a lungo, ma bensì una macchina chemodinamica come aveva sostenuto un noto fisiologo tedesco, il Fick. Pertanto l’energia meccanica non deriva da energia termica, ma bensì da energia chimica, ossia il muscolo trasforma direttamente energia chimica in energia potenziale di tensione o in lavoro e in calore. Resta così chiarito perché

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possono essere sorgente di lavoro meccanico tanto gli zuccheri quanto le proteine e i grassi, e come sia dovuto specialmente a condizioni di adattamento il lavorare il muscolo a spese piuttosto di questo che di quel principio nutritivo organico. L’esquimese, a differenza di noi, non introduce quasi idrati di carbonio, ma mangia molto grasso e molta carne. Pflüger alimentò un cane per molti mesi a carne magra, sgrassata, e fece eseguire a quell’animale un lavoro molto faticoso senza che esso ne soffrisse.

Io ho dimostrato, a mia volta, che dal muscolo che lavora si distaccano dei gruppi proteici i quali passando nel sangue, non sono eliminati nelle urine quali scorie inutili all’organismo, ma vengono ripresi da altri organi, probabilmente dal fegato, e trasformate in sostanze nuovamente utilizzabili per la contrazione muscolare. Si aggiunga che le proteine posseggono una maggiore azione specifica dinamica in confronto dei grassi e anche più degli zuccheri. Questa azione provoca, in conclusione, una stimolazione più intensa dell’attività delle nostre cellule, e rappresenta non già uno sperpero, come da taluno si è prospettato, ma un effetto utile perché si accompagna a una maggior velocità delle reazioni chimiche funzionali e restauratrici da cui dipende in buona parte la nostra efficienza funzionale.

Adunque se la razione alimentare può contenere una quantità di albumina inferiore ai 118 gr. fissati dal Voit, soprattutto quando zuccheri e grassi si trovano nella razione in quantità sufficiente per coprire la richiesta energetica dell’organismo, non possiamo però accogliere senza riserva i risultati di Chittenden e di quegli altri sperimentatori che sostengono che quantità molto piccole di albumina — 44-50 gr. al giorno — sono confacenti per lungo tempo con una perfetta salute e con un lavoro normale. Altro è il minimo assoluto di albumina quale può risultare da esperienze rigorose di laboratorio, che però non possono che durare che un tempo relativamente breve, e avere uno scopo ben preciso, di ricercare la quantità minima di albumina ancora capace di mantenere l’equilibrio in azoto nell’organismo, e altro è il minimo igienico, sotto la quale denominazione io intendo quei limiti entro cui deve muoversi la quantità giornaliera dell’albumina nell’alimentazione quotidiana.

Ho già detto che le nostre cellule sono fondamentalmente costituite da sostanze albuminose e io sono fermamente convinto che una limitazione eccessiva nell’introduzione dell’albumina apporti a lungo andare, malgrado l’apparente equilibrio di azoto raggiunto dall’organismo in virtù della sua meravigliosa forza di adattamento, una progressiva modificazione, una lenta atrofia delle nostre cellule. Non credo possibile fissare un minimo fisiologico di albumina nella razione alimentare, ma possiamo piuttosto stabilire entro quali limiti deve oscillare la quantità giornaliera d’albumina per l’uomo secondo che lo consideriamo allo stato di riposo o di lavoro. In base alle ampie ricerche di Pflüger e dei suoi allievi, di Awater, di Slosse e mie, possiamo assegnate all’uomo a riposo grammi 1,15-1,50 di albumina al giorno per Kg. in peso, e all’uomo che lavora grammi 1,90-2,45. Prendendo come peso medio corporeo 65 Kg. avremo nel primo caso 75-100 grammi di albumina, nel secondo grammi 125-160.

Nel 1915 studiando su operai della casa di lavoro dell’Umanitaria il valore alimentare del pane fatto con farina a diversa resa, ho avuto pure la possibilità di seguire il ricambio dell’albumina su sei individui sani e robusti, i quali, pur essendo tutti alimentati allo stesso modo, eseguivano però un lavoro muscolare diverso. L’alimentazione giornaliera forniva 109 gr. di albumina, 60 gr. di grassi, 485 gr. di idrati di carbonio con un rendimento energetico di 3150 calorie. Dall’esperimento, che ebbe la durata di un mese, risultò con ogni evidenza che i 109 gr. di albumina furono eccessivi per il soggetto piuttosto anziano e quasi disoccupato ; sufficienti per tre individui giovani che compivano un lavoro non pesante, ma assolutamente insufficienti per gli altri due giovani che eseguivano un lavoro faticoso, ma non estenuante.

Questi due ultimi presentarono assai presto diminuzione del peso corporeo e deficit nel bilancio dell’azoto, quantunque gli idrati di carbonio fossero abbondanti nella razione ( 485 gr.) e la richiesta energetica fosse coperta in misura, se non alta, certo bastevole. Questi miei risultati sperimentali mi hanno rafforzato nella convinzione che il muscolo che lavora molto ha bisogno di un forte apporto non solo di zuccheri, ma anche di albumina, il componente fondamentale delle nostre cellule e, quindi, anche della fibra muscolare. Non si dimentichi che l’aumento in massa dei muscoli quale si compie l’allenamento, negli esercizi muscolari, negli individui in via di sviluppo, si fa a spese delle proteine che sono perciò, come scrive il Bottazzi, le sole sostanze alimentari capaci in realtà di aumentare il lavoro muscolare.

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Proteine animali e proteine vegetali.

Fin qui mi sono occupato delle proteine in genere, che ho chiamato per brevità albumina, ma le sostanze albuminose hanno una doppia origine, animale e vegetale. Orbene, possiamo assegnare lo stesso valore a queste due sorte di proteine? La risposta non può essere che negativa. Anzitutto l’albumina vegetale ha un coefficiente di utilizzazione più basso di quello animale ; mentre l’assorbimento gastro-intestinale delle proteine animali può raggiungere il 95-97 %, quello delle proteine vegetali si aggira sull’85 %. Inoltre Thomas studiando nel laboratorio di Rubner il valore fisiologico delle varie proteine trovò i valori più bassi per quelle vegetali.

La tabella che segue da la valenza fisiologica di molti alimenti stabilita da Thomas, cioè il rapporto secondo il quale si effettua il compenso fra azoto del corpo e azoto dell’alimento.

Carne di manzo ........104,74 Spinaci ................63,80

Latte .............................99,71 Piselli ..................55,73

Carne di pesce ............94,46 Farina frumento .39,56

Riso ..............................88,32 Farina mais..........29,52

Io poi ho avuto occasione di constatare nei miei studi sull’alimentazione che se nella razione aumentava l’albumina animale, il consumo dell’albumina vegetale non diminuiva proporzionalmente all’aumento del consumo dell’albumina animale e al maggior coefficiente di utilizzazione di quest’ultima, ma di regola in proporzioni molto più notevoli. Questo interessante fenomeno merita, a mio parere, molta considerazione quando vogliamo studiare i problemi riguardanti l’alimentazione delle masse, che non si possono ridurre solamente a problemi di energetica, di produzione di calorie.

La tendenza del lavoratore ad accrescere l’introduzione dell’albumina animale appena il suo guadagno glielo consente, il diminuire dell’albumina vegetale nell’alimentazione non in rapporto al consumo dell’albumina animale, ma in proporzione molto più forte, appartengono a quei fatti incontrovertibili che hanno il suffragio dell’esperimento sovrano, qual è quello che si compie nel grande laboratorio della vita sociale.Abbiano questi fenomeni la loro radice nella differente costituzione delle varie proteine, in rapporto soprattutto al loro contenuto quantitativo e qualitativo in amino-acidi, o altre ne siano le cause che ancora a noi sfuggono, perché sappiamo sempre troppo poco sui processi chimici che si svolgono nell’intimo della cellula, credo però di poter affermare che la nostra tendenza all’albumina animale deve dipendere in primo luogo dal fatto che questa soddisfa più presto e meglio i bisogni delle nostre cellule.

Non vale portare l’esempio dei danni che reca l’alimentazione carnea : a parte che è un errore grossolano identificare, come troppo di sovente si fa, tutta l’albumina animale con la carne, è fuor di dubbio che i danni dell’alimentazione carnea si manifestano quando questa è eccessiva, oppure si tratta d’individui già predisposti a un ricambio anormale. Nulla è più nocivo che ricercare la soluzione di problemi d’ordine generale in fatti d’ordine singolo, che costituiscono , non la regola, ma l’eccezione ; non il fenomeno fisiologico, ma il patologico.

Né maggior valore possiamo dare all’altra affermazione, ripetuta sino a sazietà, che il contadino non fa uso assai parco di albumina animale e ciò nonostante vive a lungo e vegeto, esente quasi sempre dalle manifestazioni dell’uricemia.

Ma com’è possibile parlare del contadino in genere quando sono così diverse le sue condizioni di esistenza da plaga a plaga? Solo un’inchiesta rigorosa che tenga conto di tutti i fattori che entrano nella costituzione dell’ambiente rurale, potrà dirci quanto contiene di vero l’asserzione della maggiore longevità e resistenza fisica del contadino.

Ma ciò che più interessa per il nostro argomento è che anche il contadino, là dove ha potuto migliorare le sue condizioni economiche, mostra pure la tendenza a modificare la sua alimentazione nella stessa

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direttiva dell’operaio della città. Non è affatto vero che il lavoratore della campagna, a differenza di quello della città, non appetisca la carne. Tutti, o quasi, mangiano la carne con vero piacere appena se ne presenta l’occasione, e la conferma si ebbe nella grande guerra vittoriosa. Le nostre valorose truppe, costituite in grande prevalenza di contadini, gustavano molto la carne e avevano la persuasione che essa infondesse loro forza, coraggio e sicurezza.

Il consumo della carne in Italia.

Il concetto di albumina suole essere legato a quello della carne, forse perché il tessuto muscolare, la carne per eccellenza, costituisce l’apparato motore della vita di relazione, della forza fisica, della lotta contro l’avversario. Di qui l’opinione che mangiando carne si stimola e accresce l’energia fattrice dell’uomo. E consentono in questo giudizio non solo i profani, ma anche i fisiologi rinomati come Pflüger, Albertoni e Bottazzi.

Ma altre fonti di albumina animale abbiamo nelle uova, che possono pure fornire una quantità di grassi rilevanti contenuti nel rosso d’uovo nella forma più acconcia per l’assorbimento nell’intestino, e nel latte che è la sorgente più a buon mercato di proteine e grassi animali. Occorre che l’uso del latte si diffonda sempre più nelle famiglie dei lavoratori, che anche l’operaio adulto acquisti la buona e santa consuetudine di ristorarsi al mattino, prima di recarsi al lavoro, con una buona tazza di latte. Sarà questo uno dei più preziosi mezzi di lotta contro l’alcolismo, perché latte e alcool sono alimenti, per così dire, in antitesi, e l’operaio che si è assuefatto a bere al mattino il latte, molto difficilmente cercherà, recandosi al lavoro, il bicchiere di grappa.

Vi è poi un derivato del latte, il formaggio, che è ricchissimo dell’albumina propria del latte, la caseina, e di grassi. A parità di peso, il formaggio non molto grasso, contiene una quantità di albumina molto più alta che la carne magra di bue, e una quantità molto superiore di grassi, come appare dalle seguenti mie analisi :

Proteine Grassi

Carne magra di bue ............21,33%................1,70%

Formaggio lodigiano ............32,80%..............24,50%

Formaggio Gruyére...............28,80%..............30,00%

Si aggiunga che il formaggio è un ottimo peptogeno, stimola la digestione, piace di regola molto e la sua albumina ha un elevato coefficiente di utilizzazione. In più, non occorre cuocerlo e cucinarlo, donde un risparmio di denaro e di tempo. E’ noto che i montanari e pastori introducono l’albumina animale principalmente sotto forma di formaggio.

Tornando al problema della carne dobbiamo subito rilevare che nel consumo della carne tiene il primo posto la carne bovina, a cui segue a notevole distanza la carne di maiale. Dai dati statistici del “ Bollettino Municipale, mensile della città di Milano “ risulta che il 69,27 % della carne macellata introdotta in Milano nel 1913 era costituita dalla carne bovina (buoi,vacche, tori e vitelli), il 23,60% dalla carne suina, la quale serve soprattutto per l’industria salumiera e assai meno per l’uso giornaliero, a cui in verità si presta in minor grado di quella bovina, perché poco o punto acconcia a far brodo, più compatta, più grassa e meno digeribile.

Pecore e capre, agnelli e capretti non entrano che per una debole frazione nell’alimentazione carnea. I dati sopra ricordati assegnano a queste varie qualità di carne il 0,91 % di tutta la carne consumata in Milano nel 1913.

Piccolo fu pure il contributo della carne equina — 2,82 % — sebbene si tratti di carne ad alto valore alimentare, quando provenga da animali non troppo vecchi, non denutriti né eccessivamente affaticati.

Questi rapporti si possono ritenere pressoché costanti. Invero ho calcolato l’apporto percentuale con cui le

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diverse qualità di carne fresca e congelata hanno concorso al consumo carneo in Milano negli anni 1922-1923, servendomi dei recentissimi dati pubblicati nell’Annuario Storico Statistico del Comune di Milano per gli anni 1922-1923, e ho trovato :

Anno 1922

Carne bovina in genere (fresca e congelata) . . . . . . . 70.74 Carne suina . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 25.50 Carne ovina, Caprina, equina e altre carni . . . . . . . . 3.76 Totale 100.00

Anno 1923

Carne bovina in genere (fresca e congelata) . . . . . . . 73.61 Carne suina . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 21.19 Carne ovina, caprina, equina e altre carni . . . . . . . . 5.20 Totale 100.00

In base ai dati accuratamente elaborati e calcolati dal Dott. Alessandro Molinari, il solerte e valoroso Direttore dell’Ufficio di Statistica del Comune di Milano e comunicati alla XVIa Sessione dell’Istituto Internazionale di Statistica, che ebbe luogo a Roma nel settembre scorso, è ormai possibile conoscere con sufficiente esattezza il consumo medio annuo di carne per abitante in Italia e in altre Nazioni prima e dopo della guerra.

Il consumo di carne (in Kg.), viene espresso in peso netto o in peso in quattro quarti o peso di macellazione, che, come osserva il Molinari, viene usato nella maggior parte dei paesi come termine di confronto, perché deriva dal modo di preparare la carne per la vendita, all’incirca uguale in tutte le nazioni.

Per determinare il peso di macellazione o in quattro quarti, l’animale viene ucciso e subito dopo scannato per fare uscire tutto il sangue. Poscia si estraggono le viscere, — trippa, cuore, fegato, intestino, ecc. — e ciò fatto l’animale è scuoiato completamente. In ultimo si tagliano le quattro zampe fino al ginocchio e si decapita. Quello che rimane è la carcassa il cui peso viene appunto chiamato peso netto o in quattro quarti o di macellazione.

Consumo medio annuo di carne per abitante in Italia e in altre nazioni espresso in peso di macellazione.

(In ordine decrescente).

Periodo prebellico Dopo guerra Stati Cons.in Kg. negli anni Cons. in Kg. negli anni

Stati Uniti d’America 75,96 1907-1914 73.70 1919-1923 Inghilterra . . . . . . 57,32 1907-1914 52,59 1919-1922 Germania . . . . . . 52,70 1907 40,70 1924 Svizzera . . . . . . . 42,00 1913 40,60 1924 Austria – Ungheria . 29,06 1890 — — Russia . . . . . . . . 22,70 1899 — — Italia . . . . . . . . . 17,60 1909-1913 16,00 1919

Il Dott. Molinari ha pure calcolato il consumo medio annuo di carne per abitante in alcune grandi città.

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Consumo carneo (un kg.) espresso in peso di macellazione (o quattro quarti) in alcune grandi citta’.

(In ordine decrescente).

Prima della guerra Dopo guerra Grandi Città Cons.in Kg. negli anni Cons. in Kg. negli anni

New York . . . . — — 115,26 1924 Parigi . . . . . . . 85,44 1908-1912 84,55 1920 Berna . . . . . . . 80,81 1901-1910 42,80 1919-1923 Vienna . . . . . . . 79,57 1906-1910 — — Stoccolma . . . . . . 71,10 1914 69,80 1923 Berlino . . . . . . . . 66,82 1909-1912 63,50 1921-1923 Milano . . . . . . . . 55,71 1910-1914 57,23 1919-1923 Torino . . . . . . . . 44,11 1908 — — Firenze . . . . . . . . 42,50 1908 — — Genova 42,45 1908 — — Roma . . . . . . . . . 41,76 1908 — — Napoli . . . . . . . . . 26,52 1908 — — Palermo . . . . . . . . 19,26 1908 — —

Coi dati numerici delle due tabelle ho costruito i due diagrammi seguenti, che mettono sotto occhio in ordine decrescente il consumo medio annuo di carne per abitanti in alcune nazioni e in alcune grandi città prima e dopo la guerra.

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Dai dati numerici e dai diagrammi risulta che l’Italia occupa l’ultimo posto nel consumo carneo fra le nazioni prese in esame.

Se poi mettiamo in confronto per una stessa nazione il consumo generale di carne e quello che si ha nelle città più popolose, noi vediamo che il secondo è costantemente più elevato, il che è la controprova del fatto ben noto che i centri urbani sono consumatori di carne e di cibi animali molto più che non di aggregati rurali, nei quali predomina il regime vegetariano.

L’influenza di questa differente distribuzione del consumo carneo è tale, che bastò per Milano, la città italiana più forte consumatrice di carne, l’aggregazione dei comuni rurali limitrofi perché il consumo medio della carne senza osso si abbassasse da Kg. 42,173 – 42,321, quale fu calcolato per gli anni 1922-1923, a Kg. 37,786 nel 1924, anno dell’incorporamento di detti comuni (vedi tabella che segue e diagramma a pag. 118).

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E non mi sembra fuori luogo ricordare qua il fenomeno di carattere generale sul quale ho insistito nei miei studi sull’alimentazione popolare ; che il lavoratore passando dal lavoro dei campi a quello degli opifici modifica, appena i suoi mezzi glielo permettono, la propria alimentazione, mangiando carne e cibi animali ; e non meno importante è l’osservazione fatta già dal dott. Grüner (1903-1906) e dal prof. Serpieri (1910) in Lombardia, che in quelle famiglie rurali, che possiamo definire a tipo misto, nelle quali, cioè, alcuni dei componenti lavora la terra e gli altri vanno alla fabbrica, la parte operaia della famiglia abbandona assai presto le antiche consuetudini alimentari e preferisce i cibi animali, la carne e il pane bianco di frumento.

Sul consumo annuo di carne in Milano sarà bene che ci intratteniamo un po’ a lungo, perché è l’unica città italiana che ci fornisca dati sicuri per una lunga serie di anni. E’ grande merito dell’ufficio di Statistica del Comune di Milano di avere assai presto riconosciuto l’importanza che spetta alle statistiche dei consumi per illuminarci sulla vita economica e igienica della città, e di averle elaborate con ogni cura.

CONSUMO MEDIO ANNUO (IN KG.) DI CARNE PER ABITANTE IN MILANO.

Anni con ossa senza ossa Anni con ossa senza ossa

1910 — 43,677 1918 42,878 28,572

1911 67,029 44,326 1919 46,299 24,621

1912 64,568 42,676 1920 63,083 40,096

1913 65,820 44,236 1921 59,233 39,023

1914 63,162 42,199 1922 65,593 42,173

1915 54,792 36,428 1923 64,892 42,321

1916 49,438 32,889 1924 59,995 37,786

1917 44,133 29,707

Il diagramma che segue fa risaltare anche meglio il decorso del consumo di carne in Milano fra gli anni 1910-1924.

Consumo annuo medio per abitante in Milano di carne senza ossa.

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Ma prima di procedere oltre nelle deduzioni che si possono trarre dai dati del consumo carneo in Milano, oltre quella già ricordata sull’influenza dell’unione dei Comuni rurali alla città, desidero soffermarmi alquanto sul vero significato che, mio parere, dobbiamo attribuire a queste statistiche sul consumo della carne!

Che abbiano un valore eccezionale nessuno può metterlo in dubbio, in quanto che ci informano sul consumo complessivo di carne presso molte nazioni, sulle differenze che si hanno nel consumo fra Stato e Stato e in una stessa nazione.

Ma queste statistiche e per le finalità di ordine generale a cui mirano, per le fonti di cui si valgono, per i metodi di calcolo che applicano, non possono dirci come il consumo della carne va distribuito fra i vari ceti della popolazione. Eppure è questo forse il dato statistico che più importa al medico, che desidera stabilire un esatto confronto fra uso e abuso di carne, uricemia e altre malattie del ricambio.

A questo scopo, più che le statistiche generali servono le inchieste locali e particolareggiate per i diversi ceti componenti la popolazione. In questo modo io ho potuto mettere in luce che la caratteristica dell’alimentazione popolare durante la guerra in Milano (e per analogia anche nelle regioni d’ Italia)fu la forte diminuzione nel consumo di albumina animale che in alcune famiglie raggiunse a malapena i 10

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grammi. E nel diagramma che dà il consumo medio di carne senza ossa per abitanti in Milano, noi vediamo appunto che il consumo della carne subì una graduale discesa dal 1915 (primo anno della nostra guerra) al 1919, primo anno post-bellico; ma che dovette necessariamente risentire ancora gli effetti della lunga terribile lotta. Facendo eguale a 100 il consumo medio annuo del periodo 1912-1914 avremo che esso fu del:

84,64 % nel 1915

76,42 % nel 1916

69,03 % nel 1917

66,39 % nel 1918

57,21 % nel 1919

Da questo momento il consumo carneo riprende a salire per riportarsi assai presto a un livello assai prossimo a quello dell’antiguerra.

93,17 % nel 1920

90,63 % nel 1921

97,99 % nel 1922

98,34 % nel 1923

Nel 1924 subisce un sensibile abbassamento (87,79 %) per le ragioni già esposte (aggregazioni dei comuni rurali).

Se pertanto il bilancio alimentare del periodo bellico conteneva poca albumina animale, questo dipese, in parte almeno, dalla forte diminuzione del consumo carneo. Però se prendiamo il valore più basso (Kg. 24,621, anno 1919) e calcoliamo la quantità media giornaliera di albumina somministrata con la carne, troviamo che questa (14 gr. circa) è ancora superiore al consumo giornaliero di albumina animale che io ho trovato per molte famiglie nella mia inchiesta di guerra. Il che conferma quanto io scrivevo allora, che vi erano ancora troppe famiglie che, provvedute a sufficienza di beni di fortuna, facevano un consumo giornaliero troppo forte di carne, non sentendo il dovere della limitazione che tutti avrebbero dovuto imporsi spontaneamente nell’ora grave e solenne che attraversava la Nazione.

Infine altri importanti fatti emergono dalle statistiche e dai grafici che abbiamo riportato.

E’ verissimo che in Italia si mangia assai poca carne, anche meno che in Russia, ma a collocare la nostra Nazione all’ultimo posto concorre soprattutto l’Italia meridionale. Sarebbe certo utile indagare se le popolazioni dell’Italia meridionale compensino il consumo tanto scarso di carne con più largo uso di latticini: questa sostituzione sarebbe certo ottima, date le ottime proprietà nutritive del latte e dei suoi derivanti.

Anche dal confronto del consumo delle carni nelle città più popolose d’Italia risulta questo uso parsimonioso di carne nel meridionale, tanto che passiamo dai Kg. 55,71 annui di carne con ossa di Milano, ai Kg. 26,52 di Napoli e 19,26 di Palermo. Già nel 1915 analizzando il quoziente carneo annuo e giornaliero per abitante nella città italiane con popolazione superiore ai 100.000 abitanti, osservavo che il consumo della carne cresceva da noi da Sud al Nord, raggiungendo il maggior consumo in Milano. Ora possiamo aggiungere che il consumo della carne va aumentando sempre più verso il Nord: Berlino, Parigi, New York, per citare le città maggiori, hanno un quoziente carneo molto superiore a quello di Milano. Ma non è solo questione di ubicazione, ma altresì di intensità di traffici, di popolazione fluttuante, non stabile, che prende i pasti al ristorante e fa di regola consumo di carne.

E’ molto istruttivo in proposito il caso della Svizzera in genere e di Berna in specie, che presentano nel

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dopoguerra (1919-1923) una riduzione di circa la metà, in confronto al periodo precedente la guerra, nel consumo di carne, che passò per tutta la Svizzera da Kg. 42 a Kg. 28,20 in media all’anno e per Berna da Kg. 80,81 a Kg. 42,80. Questa forte diminuzione viene attribuita in gran parte al fatto che dopo la guerra la fiumana dei forestieri che era solita rovesciarsi in Svizzera, si portò, causa l’alto prezzo della valuta svizzera, in altri paesi con costo della vita molto più favorevole. Dal che si vede quanti e vari siano i fattori che influenzano il consumo carneo, specialmente nei centri urbani popolosi con forte affluenza di forestieri.

Riassumendo quanto sono venuto a esporre sull’uso della carne in Italia possiamo concludere :

a) che il consumo della carne è da noi poco rilevante, il più basso che le statistiche sul consumo della carne nelle nazioni maggiori abbia rilevato ;

b) che nei centri agricoli l’uso della carne è molto più ridotto che nei centri urbani ;

c) che il consumo della carne in Italia cresce gradatamente dal sud al nord ;

d) che per le città popolose, con forte corrente migratoria giornaliera, a rendere più alto il quoziente carneo concorre la forte quantità di carne che abitualmente i forestieri mangiano nelle trattorie ;

e) che le statistiche generali sul consumo della carne per quanto accurate e preziose, come le recentissime del dott. Molinari, non sono sufficienti a stabilire se esista un rapporto fra uso e abuso della carne e alcune malattie del ricambio, perché danno il consumo globale della carne per Stato e per abitante, ma non possono assolutamente dirci come questo consumo si ripartisce fra i diversi ceti della popolazione. Questo dato, di grande importanza per il medico, non potrà essere elaborato che in base a inchieste locali, particolareggiate, indirizzate a istruirci sul consumo in carne delle diverse classi cittadine.

Dicembre 1925

Prof. Angelo Pugliese

Milano

Non usate cibi troppo caldi, rinunziate al gelato nei pasti se vi siete accorti che qualche volta vi disturba.

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Carni indigeste e indigerite nelle loro conseguenze

Nelle pagine che precedono si sono esaminate le vicende degli abusi della carne nelle diverse epoche storiche e sono anche stati dimostrati i rapporti tra uso eccessivo di carni da uricemia, gotta, ecc.. In uno studio suo, obiettivo e chiaro, il prof. Pugliese ha, magistralmente, insegnato che sono cospicui i vantaggi dell’uso delle carni (dell’albumina animale, che soddisfa più presto e meglio i bisogni delle nostre cellule) ma che in Italia il consumo della carne è assai modesto, occupando l’Italia uno dei posti più bassi, mentre i suoi consumatori sono specialmente ritrovabili nei centri urbani, e molto meno negli aggregati rurali. A fianco dunque di una minoranza di italiani che sono piuttosto forti consumatori di carni, vi sono gli scarsi consumatori, o i quasi astensionisti.

Si sa, e lo si è anche visto, che l’uricemia si stabilisce col concorso di alcuni fattori che per lo più si associano ; fra i paesi, forti consumatori di carne, è chiaro che questa partecipa casualmente presso molte persone e in preponderanza, rispetto agli altri elementi, nella determinazione degli stati uricemici. In casa nostra, ossia in Italia, quella schiera di uricemici che si costituisce soprattutto col concorso decisivo delle carni, deve essere scomposta in individui che furono effettivamente forti mangiatori di carne, in quegli altri, provenienti da famiglie uricemiche, nei quali bastano,date le predisposizioni, le più modeste spinte dell’uso non grande della carne per la maturazione. Vi sono poi altri pazienti di uricemia in cui la carne gioca un’azione più limitata, in quanto prevalgono la sedentarietà, gli altri abusi, ecc., nel provocare la malattia.

Ma l’argomento delle carni non può essere esaurito in questi termini. Le carni indigeste o indigerite quali conseguenze più vicine sogliono avere? A fianco alle lodi delle carni, alle critiche verso gli abusi o l’uso mal proprio degli alimenti carnei nei confronti dell’uricemia, vi è posto per una breve disanima di alcuni fenomeni sfavorevoli o disturbi che sogliono verificarsi, a breve scadenza o immediatamente, dopo aver usato di carni. E invero, noi medici, spesso, vediamo insorgere dei disturbi quando :

1° si è mangiato troppo di carne ;

2° si mangia male, in fretta (cattiva masticazione, denti cariati, assenti,bocca in pietosa condizione di

pulizia ) ;

3° si mangiano carni male confezionate ;

4° si è malati di stomaco o intestino ; o si soffre di nervosità (eccitabilità nervosa).

Lo stato di nervosità, che non è costante, che si presenta a periodi, spiega quello che , d’ordinario, non s’intuisce sempre, come le carni sopportate o tollerate un giorno,determinino dei disturbi gastrici o intestinali, un altro giorno, o come una differenza anche modesta nella loro quantità, nella loro cottura, nella loro durezza,possa essere seguita o da uno stimolo anormale sulla mucosa gastrica (eccesso di secrezione), da un rallentamento del passaggio nell’intestino, o da un passaggio anticipato attraverso il piloro, per modo che le carni arrivano nell’intestino in condizione d’insufficientissima preparazione, perché si sono saltate una o due stazioni di lavoro.

Si deve tener presente il compito importante del duodeno e particolarmente delle sue sezioni nei riguardi del proseguimento, prima, della funzione digestiva gastrica, dei movimenti duodenali di va e vieni degli alimenti e della neutralizzazione di questi (operazione che non è sempre di breve durata) per intendere come un individuo può rispondere in maniera diversa all’immissione nell’intestino di carni in troppa grande quantità, di carmi in cattiva condizione di digeribilità. Si è accennato in altro punto, che non è da preoccuparsi della perdita materiale, rappresentata dalla carne non digerita, non elaborata, o non assimilata, sebbene del destino a cui è esposta questa carne divenuta estranea alla sua missione o all’ambiente intestinale. Essa risulta infatti bottino di germi, che alle volte porta con sé dalla bocca e che non sono stati distrutti nello stomaco, di putrefazioni intestinali che non sono la medesima cosa dei processi ordinari, ma sono fenomeni nuovi o maggiori, dovuti all’arrivo e al reso possibile moltiplicarsi di

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batteri e quindi delle dipendenti putrefazioni, alla formazione di prodotti di scomposizione, delle albumine, alla comparsa in grande di gas, di veleni, di tossine batteriche, che susciterebbero riverberi sullo stomaco o sul fegato o effetti a distanza: palpitazioni, insonnia, cefalee, sete,bocca cattiva, reazioni febbrili lievi, manifestazioni cutanee, diarree o stitichezza, nervosità e via dicendo, reazioni più o meno spiccate a seconda dello stato del fegato, del rene, delle arterie, a seconda dell’età, dei precedenti personali dell’individuo in cui avvengono queste introduzioni malcaute di carne e improprie di carni. Carni che, solo di rado, vengono ritenute le artefici di queste situazioni: anzi si tende ad accusare circostanze talvolta assolutamente estranee.

Ma colui che sa studiarsi bene (senza fare il nevrastenico o l’ipocondriaco), o che si sottopone a un medico accorto, arriva facilmente a vedere precisato, che queste crisi, più o meno avvicinate, si collegano con l’uso di carni assunte in proporzioni eccessive (si arriva già a raccomandare di non oltrepassare gr. 150 di carne cotta per pasto) di carni dure, non suscettibili di essere masticate, di essere aggredite dai succhi gastrici, di carni senz’altro non masticate o ingerite a grossi pezzi, di carni male confezionate o male presentate. Citiamo alcuni casi. Quanti individui non sono sorpresi o da nausee, o da vomiturazioni, o da doloretti o da diarree dopo certi pasti in cui hanno figurato, nei cosiddetti antipasti (gli abituali insidiatori della digestione!)n del prosciutto crudo quasi essiccato, del salame vecchio, asciutto, tagliato a fette assai spesse, del rosso di lardo crudo, retratto, semi incartapecorito, o altri derivanti del maiale, ad es. le cosiddette bondiole, per lo più invecchiate e assai tenaci, il tutto confuso o a confondersi con legumi o sardine o funghi conservati in olio, aceto, con pepe, con sale, etc.?

Quante volte non si servono piatti di carne (e spesso fredde e quindi poco raccomandabili) associate con insalate o legumi (patate, biete, fagioli, indivia, ecc.) conditi con olio e aceto? Che succede? La presenza dell’aceto e dell’olio non è fatta per una masticazione più accurata o diligente; il boccone scorre e corre più rapidamente e come si sottrae allo sminuzzamento in bocca, così viene anche risparmiato dai succhi gastrici, che hanno minore buon giuoco verso queste carni non triturate, e sprovviste della maggiore superficie da offrire ai succhi e della capacità tutta speciale e di recente dimostrata con esperienze suggestive , di agire direttamente sulla mucosa dello stomaco. Ma la superficie aggressibile, e l'azione sulla parete gastrica sono ridotte al minimum, se ad esempio 100 grammi di carne sono ingeriti in 5-6 pezzi grossolani, senza poter essere intrisi di saliva e in fretta. E le conseguenze sono ancora più sfavorevoli, se si tratta di carni dure, fibrose.

Infine vi sono i piatti di carne male confezionati: le carni combinate con prodotti ricchi di cellulosa, lenti, carciofi, fagioli, fave, ecc., le carni avviluppate, impanate, troppo cotte, riscaldate, indurite, che vengono a offrire scarse possibilità alle funzioni masticatorie, non promuovono la secrezione dei succhi gastrici e sono meno aggressibili dalla piccola quantità di questi succhi che è presente.

Se, come è da augurare, l’uso della carne deve diffondersi in Italia tra l’elemento operaio e soprattutto rurale, non si può prescindere da un altro augurio, che cioè i nuovi e maggiori consumatori di carne sappiano almeno cuocere bene carni, prepararle bene, ossia senza quella persistente frettolosità che è abituale nella gente che lavora e che è meno pregiudizievole, fino a quando si fa uso di alimenti costituiti, in prevalenza, di idrati di carbonio, ossia di polenta calda, di minestre o minestroni, di zuppe, o dei comuni vegetali: patate, fagioli, ecc., addizionati o no di piccole quote di albumine carnee. Ritornando al punto, è da aggiungere che in individui malati nei quali non si può prescindere per ragioni superiori dall’uso di carni, la digeribilità di queste viene facilitata dalle seguenti misure :

a) le carni siano presentate e consumate calde, siano gustate molto e, ripetiamolo alla sazietà, masticate con cura;

b) che il paziente subito dopo il pasto si distenda su comoda sedia a sdraio, tenendo di preferenza la posizione sul fianco sinistro, e non discorra molto e non discuta;

c) che il paziente non prenda freddo al ventre, quindi buona protezione all’addome con fascia di lana di più giri;

d) lavatura accurata della bocca prima e dopo il cibo, soprattutto prima di mangiare;

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e) cominciare con le piccole quantità di vitello o di pollo lessato o assortito (40-50 gr.).

E poi vi sono precetti più speciali che potrà dare il medico.

Con queste misure si risparmiano le frequenti noiose stitichezze, le crisi enterocolitiche con tutte le loro svariatissime ripercussioni e in modo particolare quelle manifestazioni di nervosità che conducono alla formazione di stati di nevrastenia, i quali moltissime volte non sono che vesciche d’aria gonfiate un po’ dagli stessi individui sensibili, più gonfiate da gente ignorate o superficiale, che non sa dare un po’ di conforto sano e positivo a questi sofferenti che diventano semistupidi e quasi irresponsabili per la lettura di libri medici, di quarte pagine e della cronaca, pur troppo leggera, ma altrettanto pericolosa, dai giornali politici, cronaca che si balocca incoscientemente con una materia epidemica e contagiosa, qual è la descrizione delle auto-soppressioni di nevrastenici.

Bisogna pungere questa stupida e dannosa vescica della nevrastenia, inconsistente e nulla resterà! Quante sofferenze e quante esistenze risparmiate!

I medici, non più giovani, ricordano oggi, non senza pena, tutta la sconveniente e clamorosa pubblicità, le discussioni di medici, più o meno insigni, intorno all’isterismo, tra il 1885 e il 1890. non vi era, in allora, clinica, non ospedale, non casa di cura in cui non fossero largamente rappresentati i casi di isterismo, che venivano anche sottoposti alle abusate e deplorate manovre ipnotiche e presentati in teatri accademici e non, con l’unico effetto di moltiplicare per via suggestiva la folla latente dei predisposti! Pagine tristi, volumi grigi di letteratura medica sepolti, speriamo, per sempre.

Prof. L. Devoto.

Si può ammettere il pomodoro alla tavola dell’uricemico?

Posso usare del pomodoro? No.

E’ lecito chiedere il motivo della proscrizione? Il pomodoro accentua lo stato uricemico, e poi vi è l’ossaluria…

Queste sono domande e le risposte che passano spesso tra pazienti e medici e profani che pretendono di sapere.

Si tratta in realtà di notizie quasi stereotipate, turbate talvolta dalle notizie date da qualche giornale, di ricerche nuove, secondo le quali il pomodoro invece di essere dannoso è utile.

A me sembra che sia proprio il caso di vedere il pro e il contro, ossia se il pomodoro merita o no di essere bandito dall’alimentazione degli uricemici. Dirò subito che una risposta assoluta non è facile come potrebbe sembrare, dovendosi anche riflettere alle maniere della preparazione alimentare, cioè se il pomodoro viene usato tal quale: crudo o cotto, se è associato passivamente ad altri prodotti, ovvero se entra come ingrediente nella elaborazione di cibi, di piatti speciali nei quali il pomodoro tiene una posizione subordinata e la portata va apprezzata boccalmente.

Io conosco un illustre clinico, che sino a un anno fa vietava ai gottosi, agli uricemici l’uso di pomodoro, sia fresco che sotto forma di succo o di conserva, ma che ora è divenuto meno severo, anzi un po’ liberista perché non è riuscito a mettere insieme davanti a sé le ragioni vere per mantenere l’ostracismo.

In Austria è piuttosto diffusa la credenza che il pomodoro sia dannoso agli uricemici. Ma il v. Noorden di recente ha dichiarato che non vi è nessun dato che sostenga questa opinione.

Io stesso so di persone che per lungo tempo hanno fatto largo uso di pomodoro e dei suoi derivati nella convinzione che fosse dotato di virtù antigottose e che nonostante l’uso prolungato non ebbero mai a soffrire di quei disturbi che per solito accompagnano l’uricemia : aggiungerò che in alcuni luoghi la

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credenza popolare di queste ignorate virtù, antireumatiche o gottose, non so se a ragione o a torto, è assai diffusa.

Dunque è veramente nocivo il pomodoro? Si può concedere o si deve proscrivere all’alimentazione? Innanzi tutto si tratta di vedere se nel pomodoro sono contenute delle sostanze che modificano gli umori del sangue e dei tessuti, favoriscono, come si potrebbe supporre per gli acidi contenutivi o per altri elementi, la iperproduzione o iperpresenza o precipitazione dell’acido urico nell’organismo, oppure che componendosi, i suoi componenti determinassero, come l’acido ossalico e le sostanze puriniche, delle transitorie uricemiche.

In passato, molti medici, si sono basati su qualcuna di queste ipotesi, per decretare l’ostracismo del pomodoro, ipotesi che trovano una specie di sanzione dalla asserita comparsa di disturbi e accessi gottosi in seguito a uso di frutti o di conserve di pomodoro. Ma è questo un argomento di valore assoluto?

No, ad es. l’uso delle fragole in qualche caso fa scoppiare l’attacco, in altre costituzioni speciali, come nel grande Linneo, determina la liberazione.

Secondo recenti ricerche, nel pomodoro fresco ogni 100 gr si trovano le seguenti sostanze : Acqua 93,59%; sostanze azotate 1,29%; grassi 0,23%; sostanze estrattive non azotate 3,71%; fibre crude (cellulosa) 0,52%; ceneri 0,66% . Questi dati vengono completati da altre ricerche accurate secondo le quali il frutto fresco contiene inoltre : glucosio 1,12% ; fruttosio 1,13% ; saccarosio 1,60% ; sostanze albuminoidi 0,50% ; amido 0,36% ; acido malico 0,37% ; ceneri insolubili in acidi 0,32% . Tutte queste sostanze presentano lievi e trascurabili variazioni quantitative a seconda della varietà e maturità del pomodoro. Orbene, da questi dati risulta che tolta l’acqua che figura col 93,59% , fra le sostanze che potrebbero essere considerate, come nocive, dal punto di vista dell’uricemia, sono gli albuminoidi, le sostanze azotate e l’acido malico. Ma vi si trovano in così scarsa quantità che non è possibile attribuir loro colpa alcuna, senza dimenticare che di alcune, gli acidi in genere, l’azione nociva è solo supposta e non ancora dimostrata.

Secondo Arbenz, l’acido ossalico non è contenuto nel pomodoro fresco che nella proporzione di 8 centigrammi per un chilogrammo! La conserva di pomodoro contiene minore quantità di acqua (84,40%), e invece dell’acido malico, l’acido citrico nelle proporzioni del 0,43% : per le altre sostanze le varianti quantitative sono lievi e trascurabili. Gli ingredienti poi che si aggiungono alla polpa del frutto per fare la conserva, come aceto, droghe, sostanze aromatiche, colori di anilina, acido salicilico e benzoato di soda, per renderla sapida, colorata e inalterabile, non hanno importanza apprezzabile.Orbene, se si considera che la quantità di succo o di conserva che s’introduce giornalmente coi cibi difficilmente supera il quantitativo già ragguardevole di 100 gr., si comprende come a nessuna delle sostanze, elencate più sopra, possa imputarsi responsabilità di preparare o lo stato uricemico o lo scoppio di un accesso gottoso.

Non sarebbero invece da prendere in esame le complicate preparazioni di cucina in cui intervengono assieme al pomodoro, altri elementi aggiunti o dettagli di coltura ecc.? Dunque i dubbi sono molti, perché non esistono nel pomodoro sostanze capaci di favorire la formazione o la precipitazione di acido urico nell’organismo e che pertanto la proscrizione di esso dall’alimentazione appare eccessiva e non sostenibile : tanto più che il pomodoro rappresenta invece un elemento non gravoso sulla digestione, saporoso e innocuo, qualità sufficienti per favorirne la diffusione che va già dilagando nel mondo, non con lievi vantaggi per l’industria nazionale italiana.

E poiché è utile che il terreno sia sgombro da ogni dubbio, faccio voti che la questione venga studiata a fondo. E non potrebbero gli industriali del pomodoro che già hanno promosso scuole specializzate, incoraggiare ricerche e controlli medico sperimentali per risolvere la questione che da un punto di vista teorico sembra profilarsi per l’ammissione del pomodoro alla tavola degli uricemici?

Prof. Adriano Ceresoli

Milano

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La fabbrica dei gastro-pazienti tra gli uomini d’affari.

Il pranzo, come al solito, è per le 12,30 ; ma egli non è neanche oggi puntuale, non lo può essere mai ; una lettera, un telegramma dell’ultima ora, un appuntamento più esigente, la mancanza della vettura o di un tram assorbono la mezz’ora. In casa, tutti attendono, moglie e ragazzi; questi, intanto, si sono avventati su del pane. Il Capo, finalmente, giunge, è trafelato, di cattivo umore; dopo un po’ di toilette si mette a tavola con gli altri. Il babbo non è diverso dagli altri giorni, lo notano i figlioli; è concentrato, è affrettato; in un minuto ha finito la minestra. Quale minestra? Egli non lo sa nemmeno se ne ha preso una seconda volta, perché pensa, mangiando e tacendo; e se parla è per esprimere la nuova irritazione che esplode, perché qualcuno gli crea qualche disturbo.

Cameriera e cuoca fanno servire e mangiare in grande furia, perché ci tengono a cominciare il loro pasto. Alla minestra segue la carne a lesso o una bistecca non sempre tenera, con una verdura che sarà fredda, patate o biete all’olio e aceto. E con velocità si passa al formaggio, alla frutta, al caffè, bagnando ogni cosa di molta acqua, intercalandovi laute introduzioni di pane che proseguono talvolta anche col caffè, per dare inizio alle sigarette in serie.

Ma non un sorriso, non un momento di ilarità, non un elogio o un compiacimento per le cose mangiate in questa mezz’ora, che passa spesso in mezzo alla lettura di qualche telegramma o di lettere, o qualche comunicazione telefonica. Non mancano invece le critiche e le ipercritiche verso il servizio, la cucina, il padrone di casa, i vicini di casa e i loro rumori, il fornitore, e guai a chi difende o contraddice!

E poi, appena finito il pasto, vi sono le pagelle scolastiche, non sempre sorridenti, da firmare ; i conti da vedere e pagare, qualche invito da decidere o da subire, i programmi per la campagna e tante altre cose e poi non sogliono mancare, a turno motivi nuovi,a tendenza contrariante, che hanno sempre più forza su chi ha tali nervi. Ma si avvicinano le 14 e bisogna essere allo studio prima degli impiegati. E si corre e si smania!

Questo uomo d’affari ha mangiato? Egli non ha consumato serenamente in famiglia, né goduto sobriamente la sua colazione, che è risultata antifisiologica ; non ha masticato, non ha insalivato i cibi, non li ha apprezzati, non li ha gustati : ha mangiato da incosciente, da trasognato, un altro ha mangiato per lui, ossia ha introdotto il carbone, come un fuochista che non sa per chi lavora la sua macchina. Su per giù le medesime vicende al pranzo serotino con l’aggravante che, alla sera, si cena ancora più tardi ; se manca l’appetito vi è l’aperitivo; a pasto finito c’è da vestirsi, c’è il teatro, la conferenza o la riunione o un ricevimento ; e qui, se non si risulta finalmente un po’ sereni, bisogna dissimulare, comandarsi e sorridere. Si fuma nervosamente; intanto il circolo vizioso si restringe, ossia : le digestioni imperfette, le digestioni laboriose, le fermentazioni gastriche intestinali eccessive e le putrefazioni in larga misura, gli assorbimenti, le insonnie, le agitazioni si sommano… è giocoforza riconoscere che non si sta bene, che si dovrebbe cambiare qualche cosa, ma gli affari… E quindi… purganti… letture di quarta pagina… aperitivi… visite di pochi giorni a stazioni di cure scelte a capriccio e sbagliando.

Una volta si diceva che non si vive di quello che si mangia, ma di quello che si digerisce; oggi bisogna aggiungere che si digerisce come si vive e che quello che non si digerisce diventa anche un nostro nemico, che a poco a poco si fa sentire sempre più e ci rende nervosi, irrequieti, irritabili, intolleranti, insonni, malattie.

La domenica! In questo giorno, che dovrebbe essere quello di un buon ristoro,la musica difficilmente può cambiare, perché si è venuti su disprezzando o non sentendo il moto, le sane diversioni dello spirito, gli sport. Affari, commissioni, convegni sono ancora il pascolo assorbente della domenica.

In breve: i disturbi che sorprendono la gente malcauta si fanno sentire finalmente con tale sopravvento da far tacere l’assillo degli affari; si vorrebbe sentire un medico, ma si ascolta prima il collega, l’amico,il dipendente,il fattorino, la moglie del fornitore, ecc., che furono qualche volta malati e si curarono in una

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maniera speciale… e con successo. Ma qui tutto fallisce, si va finalmente dal medico! E questi indovinerà tosto la preparazione lunga e minuta dei disturbi e farà il programma per eliminare i fenomeni più salienti e proporrà quella rieducazione dello stomaco, che si sarebbe potuto preservare, se per esso si avesse avuto quel riguardo che tutti hanno per un animale quando gli si è affezionati.

Ma se io avessi saputo, ma nessuno ma ha detto niente, nessuno mi ha ammonito…tali sono le risposte, spesso rabbiose, che questo fabbricante de’ suoi disturbi, questa specie di autolesionista sussurra, mentre ascolta la requisitoria discreta del medico e che ora viene definitivamente ascoltato e seguito… per rieducare quello stomaco, che in pochi anni, si è compromesso. La rieducazione non si fa a casa, in margine degli affari ; bisogna andarsene nelle case di cura specializzate, che ora non mancano più in Italia.

La colazione ideale, soprattutto per chi lavora.

Latte e caffè caldo .............un quarto di litro;

Zucchero...........................10 grammi;

Pane..................................da un etto a un etto e mezzo;

Burro.................................10 grammi.

Questa colazione pesa gr. 400, sviluppa c.ca 700 cal. (il 4° o 5° del fabbisogno giornaliero) comprende :

albumine ............................gr. 23

grassi.................................gr. 16

idrati di carbonio................gr. 103

acqua ................................gr. 270

E’ colazione ideale perché:

?? vi sono comprese in una conveniente proporzione le sostanze alimentari fondamentali; ?? è calda e quindi utilissima allo stomaco; ?? giova alle funzioni digestive, perché le mette in attività in un’ora propizia; ?? concorre al lavoro che si deve compiere in mattinata; ?? è relativamente economica; ?? è avviamento alla ordinata disciplina dei pasti successivi, specialmente se ingerita con qualche

lentezza e non in fretta o in piedi; ?? fa risparmiare al mattino il sigaro, il liquore o altre bibite; ?? è istruttiva perché orienta sui bisogni dell’organismo in fatto di cibi (per un mestiere pesante

bisogna introdurre 3500 calorie, per un mestiere o occupazione di media intensità 2800, ossia cinque o quattro volte i valori alimentari presi in questa prima colazione).

Se il medico vi ordina di prendere col latte della crosta di pane, del pane abbrustolito, dei grissini, dei biscotti, perché mastichiate, egli non vi autorizza di mettere tutto ciò nel latte, anzi vi consiglia questo pane indurito perché facciate lavorare i vostri denti e per produrre della saliva.

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Soggiorno degli alimenti nello stomaco di una persona sana.

Da una a due ore: una tazza ( di mezzo litro), di acqua, di the, di caffè, di vino, di brodo, di latte ; due

uova poco cotte.

Da due a tre ore: 50 grammi di pane, due uova crude, una omelette, 500 grammi di acqua, di birra, di

latte cotto o di latte e cacao ; 125 grammi di cervella di vitello, di laccetti, di pesce

o di asparagi.

Da tre a quattro ore: 150 grammi di pane, di riso, di legumi, 100 grammi di carne ben cotta di vitello,

150 grammi di prosciutto, 200 grammi di pollo.

Da quattro a cinque ore: 200 grammi di carne un po’ dura, di selvaggina, di carne affumicata, di fagioli, lenticchie, di pane ordinario, di arringhe affumicate.

Molti credono che mangiando in fretta e masticando poco il danno si riduca esclusivamente allo spreco di un po’ di alimento. Errore ! Si spreca sì ; ma le sostanze male masticate e non attaccate poi dai succhi digestivi diventano preda di intensi processi putrefattivi che si faranno a poco a poco sentire.

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L’acido urico originato dai vari alimenti.

In riferimento all’indicazione della pagina 9 si dà qui il quantitativo di acido urico che può formarsi da alcune sostanze alimentari, introdotte nell’organismo (il quantitativo indicato riguarda 100 grammi di sostanza: come si vede l’estratto di carne è quello che dà il maggiore prodotto di acido urico: esso oscilla da grammi 2 a 5).

Bue (fegato) . . . gr 0,3303 Pane completo . . . gr 0,0400

Bue (filetto) . . . . gr 0,1566 Farina d'avena . . . gr 0,0636

Bue (bistecca) . . . gr 0,2478 Riso . . . . gr 0

Maiale (filetto) . . . gr 0,1458 Farina di piselli . . . gr 0,0468

Vitello (timo o laccetto) . . gr 0,0681 Fagioli . . . . gr 0,0765

Prosciutto . . . . gr 0,1386 Lenticchie . . . . gr 0,0750

Pollo . . . . gr 0,1054 Tapioca . . . . gr 0

Tacchino . . . . gr 0,1512 Lattuga . . . . gr 0

Coniglio . . . . gr 0,1140 Cavolfiore . . . gr 0

Montone . . . . gr 0,1158 Asparagi . . . . gr 0,0258

Salmone . . . . gr 0,1398 Cioccolato . . . . gr 1,4300

Estratto di carne . . . . gr 2 a 5 The . . . . gr 1,2400

Patate . . . . gr 0,0064 Birra . . . . gr 0,0150

Caffè abbrustolito gr 0,1100 Brodo (carne c.ca gr. 100) gr 0,0450

Vini . . . . gr tracce Latte (latticini) . . . . gr tracce

Caviale . . . . gr tracce Ostriche . . . . gr 0,0865

Uova . . . . gr tracce Pesci di acqua dolce . . . gr 0,0100

Pane bianco . . . . gr 0

( da Richardiere, Sicard, Schmid, Noorden, Salomon ).

Un consigliere di Cassazione e membro della Costituente battezzato cuoco.

Chi è che non cita, non invoca in tutte le occasioni descrittive di pranzi lussuosi, il nome del deputato all’Assemblea costituente della Francia, del consigliere della Cassazione Suprema di Francia, dell’avvocato professionista, del sindaco di Belley, del seguace di Cesare Beccaria, dell’imputato presso il Tribunale rivoluzionario di Parigi, dell’emigrato politico e quindi professore di francese, o anche di violino, e, sotto il Direttorio, attaché allo Stato Maggiore di Angereau, ossia di Brillat Savarin, dicendolo invece o cuoco, o albergatore, o puro gaudente e di puro sangue francese? Quanti cuochi, quanti servitori di mense ecc. si credono, senza esserlo realmente, discepoli o propaggini dell’avvocato Brillat-Savarin, che tra l’altro proviene da una famiglia veneta, da quella dei Savarin che dette due cardinali alla Chiesa!

I Savarin passarono dal Veneto in Francia nel 1673 e il celebre autore della “Fisiologia del gusto” nacque a Bugey nel 1745 per morire a Parigi il 21 gennaio 1826 di polmonite, presa nell’assistere a una funzione funebre in memoria del decapitato Re Luigi XVI. La “Fisiologia del gusto”, pubblicata a Parigi nel 1825,

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ha oggi un secolo. In questo libro, che contiene molte cose inutili e discutibili, vi è qualche cosa che ha diritto di vivere o per lo meno di essere ricordato. E per queste elementari considerazioni : 1° - Apostolo della gourmandìse il Brillat-Savarin , ne ha trasformato il contenuto e la portata. Per lui il “buon gusto” nel mangiare è tutto ; si può quindi essere ghiotti, ma sobrii ; il mondo, in genere, mangia troppo e il buongustaio è l’ennemi des excés. 2° - Nella trattazione di argomenti medici, come ad esempio quello dell’obesità, il Brillat-Savarin dimostra molto buon senso, e usa rispetto a quell’educazione medico-igienica che deve aver ricevuto a Digione, frequentando presso l’Università, qualche corso medico. 3° - Di fronte alla funzione psichico-igienica dell’alimentazione egli si dimostra osservatore acuto, come quando insiste perché siano evitati l’eccessivo proibizionismo e la monotonia degli alimenti; perché si usino spesso dei vegetali crudi, onde l’alimentazione non risulti unilaterale, perché a tavola non si discuta di politica, che disturba l’ingestione e la digestione, perché a tavola non si portino affettazioni di proprietà pretenziosa (ad esempio sciacquarsi la bocca e riversare l’acqua in un bicchiere), perché i gottosi, i grassi, i magri, facciano assegnamento sui regimi alimentari. Gli effetti ingrassanti dell’uva sono pure efficacemente esposti. Una delle pagine più brillanti e più Serie del Brillat-Savarin è indirizzata a combattere l’abitudine delle donne grasse di bere dell’aceto per dimagrire. L’episodio, che egli riferisce in termini così efficaci, della giovinetta Luisa che, ossessionata dalla prospettiva di venir grossa e tonda come una botte, fattale da un giovanotto, si mise a bere di nascosto, per trenta giorni di seguito, un bicchiere di aceto ogni mattina, da riportarne un avvelenamento e poi la morte (a 18 anni!) sarà stato compreso dalle moltitudini femminili che nei collegi e nelle scuole contraggono l’abitudine di bere al mattino l’aceto a cucchiai per dimagrire.

Calcolando a 150 gr. il bicchiere di aceto bevuto giornalmente, l’acido acetico contenuto in questo bicchiere non sarà stato meno di 10 grammi, che, introdotti giornalmente, hanno determinato nella Luisa la cachessia da avvelenamento cronico con diarree, acidosi, ecc. . Per quelle donne che hanno letto il capitoletto del Brillat-Savarin “Dangers des acides” la lezione non sarà facilmente dimenticabile.

Nel suo insieme il libro del Brillat-Savarin per le sue serene e acute ammonizioni, per la gaiezza dei suoi rilievi, fa pensare che l’autore abbia letto o goduto la produzione teatrale di Carlo Goldoni che, senza essere medico, ma solo figlio di medico, risultò medico della società italiana e di quei pubblici che s’interessarono al suo teatro.

Nella primavera del 1922, sotto gli auspici di un Comitato in cui figuravano le più alte autorità di Francia, venne inaugurato a Bugey un monumento che offrì occasione di ricordare del Brillat-Savarin anche una virtù italiana : la serena tenacia dell’opera. X. Diffidate di tutti i derivati o prodotti del maiale che vi sono offerti allo stato secco (troppo asciutti) e a fette troppo spesse. Li masticherete male, lo stomaco non li potrà elaborare, e andranno nell’intestino ad accrescere le putrefazioni.

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SOMMARIO

Ai cortesi lettori .............................................................................................................................................2

Uricemia artritismo o neuroartritismo ...........................................................................................................3

L’acido urico originato dai vari alimenti..................................................................................................5

Si deve combattere l’accesso acuto di gotta? ..............................................................................................16

L’esercizio fisico nella prevenzione e nella cura dell’uricemia ..................................................................19

APPENDICE ...............................................................................................................................................24

La longevità degli artisti teatrali. .............................................................................................................24

Manifestazioni nervose dell’Uricemia.........................................................................................................29

L’Emicrania .............................................................................................................................................29

Sintomi nervosi precoci d’indole generale ..............................................................................................30

Mialgie e Atralgie ....................................................................................................................................31

Nevriti......................................................................................................................................................31

Stati nevropatici.......................................................................................................................................32

Organi dei sensi: occhi.............................................................................................................................32

Organi dei sensi: apparato uditivo ...........................................................................................................33

Asma nervosa...........................................................................................................................................33

Meningismo .............................................................................................................................................33

Mal di testa: cefalgia................................................................................................................................33

Mal di testa: emicrania .............................................................................................................................33

L’EREDITÀ URICEMICA........................................................................................................................36

La gotta nella stirpe de’ Medici Granduchi di Toscana ...........................................................................36

Albero genealogico della stirpe de' Medici di Caffaggiolo .....................................................................38

La gotta di Carlo V ..................................................................................................................................41

La gotta di un gran chimico: Giacomo Berzelius ....................................................................................42

L’Uricemia è particolare appannaggio dei gaudenti, degli oziosi e dei dotti. .......................................45

Gli uricemici e le assicurazioni sulla vita. .............................................................................................48

Storia della gotta. .......................................................................................................................................50

Gotta: la parola e il concetto .................................................................................................................57

L’alimentazione ipercarnea nella storia ....................................................................................................60

Sull’uso della carne in Italia ....................................................................................................................63

Il bisogno d’albumina dell’organismo ..................................................................................................63

Proteine animali e proteine vegetali. ...................................................................................................65

Il consumo della carne in Italia...........................................................................................................66

Carni indigeste e indigerite nelle loro conseguenze ...................................................................................74

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Si può ammettere il pomodoro alla tavola dell’uricemico? .................................................................76

La colazione ideale, soprattutto per chi lavora. .....................................................................................79

Soggiorno degli alimenti nello stomaco di una persona sana. .............................................................80

L’acido urico originato dai vari alimenti. ...............................................................................................81

Un consigliere di Cassazione e membro della Costituente battezzato cuoco. ....................................81

- Fine -