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Magari domani lo faccio

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Eleonora Rango, sentimentale

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Eleonora Rango

MAGARI DOMANI LO FACCIO

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MAGARI DOMANI LO FACCIO Copyright © 2011 Zerounoundici Edizioni

Copyright © 2011 Eleonora Rango ISBN: 978-88-6307-354-x

In copertina: Immagine fornita dall’Autore

Finito di stampare nel mese di Aprile 2011 da Logo srl

Borgoricco - Padova

“I wanna a breeze and an open mind I wanna swim in the ocean,

wanna take my time for me, it's all free So maybe tomorrow I'll find my way home”

Stereophonics - Maybe Tomorrow

“Life has a funny way of sneaking up on you Life has a funny, funny way

of helping you outHelping you out”

Alanis Morissette - Ironic

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CAPITOLO 1 Il primo lunedì mattina di settembre, le vacanze appena trascorse, Irene sta tornando al lavoro senza nessuna voglia di rimettere mano alle sue scartoffie, tra partite doppie, bilanci d’esercizio e fonti di finanziamen-to. Seduta sull’autobus che la sta portando in ufficio, si chiede cosa diavo-lo stia facendo lì. Come ha potuto sprecare tanto tempo in studi di cui in realtà non le importava niente? Guarda distrattamente dal finestrino. Sì, si sente decisamente fuori luo-go. Le porte si aprono, e con uno slancio dettato dall’abitudine scende dall’autobus. Pochi passi ed è arrivata. Studio del Professor Agostino De Angelis, Dottore Commercialista. Un uomo impareggiabile. Profes-sionista stimato, campione nell’arte di delegare ai suoi dipendenti, cata-lizzatore di attenzioni in ogni tipo di conversazione. Praticamente parla solo lui. Ferratissimo in qualsiasi argomento, lettore di una quantità in-finita di giornali, riviste di settore, romanzi, classici greci e latini. Nel suo studio c’è un continuo turn-over di giovani laureati in economia e commercio dalle brillanti speranze. Forgia i migliori commercialisti della provincia. Un capo che pretende moltissimo, ma questo è lo scotto da pagare per poter scrivere nel curriculum che si è lavorato per lui. Un valore aggiunto di non poco conto. Irene gode di tale privilegio, e non gliene può fregare di meno. I suoi colleghi: Marinella, Giovanna e Davide. Marinella ha la solita espressione insoddisfatta e stanca, Giovanna è più in forma che mai e Davide si sta preparando per uscire. Il grande capo fortunatamente non è ancora arrivato. Dopo due settimane che non lo vedono, toccherà sorbirlo per tutta la mattinata mentre racconta la sua mirabolante estate e si informa su quella dei suoi dipendenti. Sottoporrà senz’altro astute domande che hanno un unico scopo: sottolineare che le loro vacanze, a confronto delle sue, fanno schifo. Irene non fa in tempo a sedersi che Marinella è già accanto alla sua scrivania. «Allora? Tutto bene?»

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«Non ci lamentiamo, grazie» risponde laconica, vorrebbe chiudere pre-sto la conversazione. Marinella è una che se attacca bottone, non la smette più. Ci vuole un’ottima disposizione d’animo per stare ad ascoltarla: la nonna che soffre di cuore e sono due anni che se ne preannuncia la morte, il padre che ha avuto l’ennesima crisi d’asma ma fuma come un turco e non c’è verso di convincerlo a smettere, la mamma che ha l’esaurimento nervo-so e litiga con la zia, che tra le altre cose è una grandissima stronza, perché quando il nonno è morto ha fatto non si sa quali raggiri per fre-garsi diecimila euro dall’eredità. Senza contare che il carissimo defunto stava a casa con loro, e doveva andarci lei nello stesso bagno in cui lui aveva schizzato la tavoletta. E la cosa che più le rode di tutta la storia è che quei diecimila euro sono finiti dritti filati nell’acquisto della mac-china della cugina, mentre lei ancora divide la sua con la madre. Quel giorno Marinella è appena partita con un racconto sulla sua va-canza a Formentera, le spiagge fantastiche, il clima magnifico, il pesce fresco tutte le sere, anche se purtroppo il troppo sole le ha fatto venire un eritema. E mentre è lì che sta per abbassarsi la maglietta sulle spalle, Irene infila una mano nella borsa e accende il cellulare. Spera ardente-mente che qualcuno la chiami. E le sue preghiere vengono esaudite: dopo trenta secondi arriva il desiderato trillo. «Scusami un momento.» Sms ore 09:07 DA: Fabio “Buongiorno carissima! Come è iniziato il primo giorno di lavoro? Andrò a pranzo con Francesco, ci vediamo stasera a casa. Il pane lo prendo io. Un bacio stella” «È una cosa importante, esco un attimo che devo chiamare casa.» Afferra sigarette e accendino, e si dirige verso l’uscita. Aria, ha bisogno di aria. Sms ore 09:17 A: Fabio “Per ora ti dico solo che mi hai salvato da una chiacchierata con Ma-rinella! Ti spiegherò.:-) Ok per il pane… salutami Fra! Bacio”

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Cerca di placare la sua inquietudine aspirando lunghe boccate di fumo e intanto chiama Laura per chiederle se ha voglia di andare a pranzo con lei. «Ok, passo a prenderti in ufficio.» Nel frattempo ha finito la sua sigaretta. Fa rotolare il filtro lungo il pol-lice e con una schicchera prova a centrare l’anfora dell’ingresso. Il mozzicone va a sbattere contro la parete bianca lasciando una lunga striscia di cenere, e Irene ha l’ulteriore conferma che quella è davvero una giornata storta.

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CAPITOLO 2 Dall’altra parte della città Stefania si è tirata su dal letto con una irre-frenabile voglia di andare in ufficio. Ancora due gocce di profumo sui polsi ed è pronta a iniziare la sua ma-gnifica giornata. Sono quindici giorni che non vede Nicola. L’uomo dei suoi sogni: affa-scinante, intelligente, carismatico, l’unico che l’abbia distolta dal pen-siero fisso della carriera. Nicola è il suo capo, e sua moglie è bellissima. Stefania ha trascorso le vacanze a casa in attesa di questo momento. Ha preferito non partire, sperava di riuscire a vederlo anche solo per qual-che ora, ma le sue aspettative sono state deluse: la famiglia di Nicola reclamava attenzioni. Così una mattina, ora se ne vergogna terribilmente, era andata a fare jogging davanti a casa sua. Voleva solo dare una sbirciatina, si era det-ta, non aveva intenzione di fermarsi a spiarlo. Ma una volta arrivata, la tentazione era stata troppo forte. Si era appostata dietro alla rete di re-cinzione della villetta. Solo un minuto, giusto un’occhiata e me ne vado. Invece era rimasta nascosta come un detective di quart’ordine per tre quarti d’ora. Per prima era uscita la moglie, preparava il tavolo per la colazione in terrazza come nelle pubblicità del mulino bianco, già vesti-ta e truccata di tutto punto. Una donna da spot, appunto. Poi era apparso Nicola. Bello come il sole, aveva abbracciato la moglie e si era seduto con lei a mangiare. Sembravano due fidanzati alla loro prima vacanza. Si era allontanata a passo di lumaca, non aveva più voglia di correre. Ma non si sentiva ancora sconfitta. Sta recitando la parte del marito affettuoso. Nicola quando è con lei finge. Per lui è uno sforzo terribile, me lo ha detto mille volte, non devo preoccuparmi. Non doveva preoccuparsi, continuava a ripeterselo. Intanto piangeva. La sua estate era stata scandita dalle corse la mattina, filmetti mielosi trasmessi in televisione nel primo pomeriggio e le letture in giardino dopo cena, mentre le zanzare si divertivano a divorarla. Fingeva di stare bene, non c’era niente che non andava e lei non doveva preoccuparsi.

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Se la tristezza prendeva il sopravvento, continuava a ripetersi discorsi che ormai aveva imparato a memoria. Era stanca delle sue stupide ambizioni, stanca di spremersi come un li-mone, di pretendere sempre di più da se stessa e di vivere con l’eterna paura di perdere. Voleva un po’ di serenità. Voleva non pensare. Vole-va che qualcuno badasse a lei. Come da bambina, quando non sapeva niente della vita, dell’amore, delle responsabilità, del denaro, del lavo-ro, della morte, della nostalgia, dei sensi di colpa, delle scelte sbagliate. La stessa litania ogni volta, la recitava come un mantra. Una difesa che a ogni attacco diventava sempre più forte. Se c’era una falla, subito la individuava e immediatamente provvedeva a riempirla con il cemento armato. Oggi finalmente lo rivedrà. Ancora prova a credere in quella storia, ancora spera. Stefania è così: obiettivo, impegno, risultato raggiunto. Con il risveglio è tornata quell’eccitazione mista ad ansia che tanto le mancava. La fa sentire vi-va. Appoggia la boccetta di profumo sulla mensola del bagno e si guarda allo specchio. Ha paura che un giorno o l’altro andrà letteralmente via di testa. Si punta contro il dito medio. «Vaffanculo!» Forse non è poi così magnifica questa magnifica giornata.

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CAPITOLO 3 Il suo risveglio, di buon’ora, è privo di emozioni. Non ha né un lavoro da detestare, né un uomo da desiderare, nessun amplesso da ricordare. A movimentare la giornata fortunatamente è arrivata una chiamata di Irene per un invito a pranzo e un messaggio di Martina che le riferiva di Andrea, la sua ultima conquista. Laura ha già tirato giù le tende, le ha lavate e riappese, ha pulito le ser-rande e sta terminando di passare lo straccio sul balcone. La fronte su-data e le mascelle che continuano a serrarsi masticando il niente a causa dello stress. Il dentista l’ha costretta a mettere un apparecchio di notte, per evitare che i suoi denti si grattugino come formaggio. Prima di mettersi a letto infila in bocca quel coso trasparente e sembra un pugile che sta per salire sul ring. Peccato che quasi mai ci sia qual-cuno da combattere. Giovanni a volte non rincasa neppure, e comunque torna tardissimo, sembra quasi che voglia evitarla. Si sono conosciuti quattro anni fa. Laura faceva pratica forense nello studio legale in cui Giovanni era socio. Prima ancora che lei concludes-se il primo anno di praticantato erano già sposati. Giovanni è più vecchio di lei di quindici anni, anche per questo motivo hanno deciso di accelerare i tempi. Lei avrebbe voluto subito un figlio, che purtroppo non è arrivato. Hanno fatto alcune analisi, e il problema è risultato essere di Giovanni. Il medico ha detto che si potrebbe provare con un piccolo intervento chirurgico, o al limite tentare una insemina-zione in vitro. Lui non ne ha mai voluto sapere. «Se questo è il nostro destino, dobbiamo accettarlo.» Così ha sentenziato a chiusura del discorso, e non ha più voluto parlar-ne. Laura ancora non l’ha accettato. Evita di insistere sull’argomento, im-magina che per Giovanni non sia stato facile digerire la diagnosi. Sa-rebbe stato meglio se a risultare sterile fosse stata lei. Rilegge il messaggio di Martina. Le loro esistenze sono agli antipodi, non riuscirebbe mai a vivere come lei, e forse proprio per questo l’amica le piace tanto.

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Senza una certezza, un punto fermo, ogni giorno diverso dall’altro. Laura si incanta quando Marti le racconta le sue avventure e pensa che vorrebbe tanto avere la sua stessa leggerezza. Se ne frega di tutto, di-pende esclusivamente da se stessa e non deve rendere conto di nulla a nessuno. Laura invece è circondata da una corte di giudici: sua madre, suo fratel-lo, suo padre, Giovanni e infine il più implacabile di tutti, se stessa. Il display del cellulare la avvisa che è tardi: ha ancora un sacco di cose da fare, e prima di andare a pranzo con Irene deve passare da sua ma-dre. La signora Patrizia detesta i ritardi e Laura detesta farla arrabbiare.

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CAPITOLO 4 «Buongiorno a tutti!» Stefania entra in ufficio e cerca di cominciare la giornata nel migliore dei modi. Le risponde solo Margherita, la nuova stagista. Sta sempre sulle sue e non parla mai con nessuno. In compenso saluta. Gli altri non sembrano molto allegri, il primo giorno di lavoro è traumatico per tutti. Immediatamente dopo guarda dentro all’ufficio di Nicola, muore dalla voglia di incontrarlo. Da quella sbirciatina riesce solo a vedere metà della sua faccia, sta ridendo. Evidentemente è insieme a qualcuno, ma non riesce a capire chi sia. Va ad appendere la giacca e prova di nuovo a buttare l’occhio. Stefi ancora prova a crederci, spera che non appena lui si accorgerà che lei è lì, la chiamerà nel suo ufficio con una scusa qualsiasi. Sono due settimane che non si vedono… Si siede alla scrivania, preme il tasto di accensione del pc e mentre a-spetta che tutte le applicazioni siano cariche, accavalla le gambe. Il suo piede continua ad agitarsi su e giù in un movimento incontrollato. È nervosa. Con chi diavolo parla? Non sarà mica una donna? Con quel sorriso smargiasso incanta tutte. Gloria non è alla sua scrivania. La classica segretaria tutta occhioni che ammiccano e sorrisini mielosi. Di quelle che buttano l’intero stipendio in borse, scarpe, vestiti ed estetista. Stefania la odia. Non può sopportare il pensiero che Nicola sia con lei. Si alza in piedi, va verso la macchinetta del caffè passando di nuovo davanti alla porta. Non riesce a vedere niente. Lui continua a parlare a bassa voce, e ride, e parla, e ride, poi chiude la porta. No, sta troppo male. Deve per forza entrare in quella stanza. Prepara un caffè, fa un lungo respiro, e bussa. «Avanti…» «Ciao Nicola… volevo salutarti e…» Una ragazza stupenda è seduta su una sedia di fianco alla sua, stanno guardando qualcosa al computer.

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«Ciao, capiti a proposito. Volevo presentarti Sabrina, sostituirà Gloria. Non so se te lo hanno già detto, ma si è dimessa.» Di male in peggio. La tipa si alza. Uno schianto, un metro e settanta-cinque di forme fantastiche, lunghi capelli neri e un sorriso a settanta-due denti. Porge la mano a Stefania mentre Nicola elenca le sue infinite qualità, l’enorme fortuna che hanno nell’averla in squadra e il fatto che l’azienda punta molto su di lei. Una così più che sostituire Gloria po-trebbe sostituire lui. O Stefi. Cazzo! «Piacere di conoscerti.» È l’unica cosa che riesce a dire. Sta per girare i tacchi e andarsene quando si accorge di avere il bicchiere con il caffè ancora in mano. Lo posa sulla scrivania. «Ti ho portato il caffè.» Nicola la ringrazia senza neanche guardarla. «Portane un altro per Sabrina. Dovrò annoiarla ancora per un bel po’ di tempo con le mie chiacchiere.» Si volta verso di lei e le sorride educatamente. Stefania resta in piedi impalata, immobile di fronte alla scrivania come un’ebete. Avrebbe vo-glia di riprendersi il caffè e buttarglielo in faccia, andare a recuperare la sua giacca e uscirsene sbattendo la porta. Potrebbe andarsene a passeggiare sul mare. Provare a credere che meri-ta di più, che non era questo che si aspettava, ricordare tutto il tempo che ha sudato per raggiungere i suoi obiettivi. Rimboccarsi le maniche per cominciare a ricostruire la sua vita. Ma l’unica cosa che riesce a fare è abbassare lo sguardo per nascondere gli occhi pieni di lacrime.

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CAPITOLO 5 L’odore di casa propria. Inconfondibile. Laura è appena entrata in casa sua, casa di sua madre. Che fatica dirlo. Tre anni che si è sposata e ancora considera quella la sua casa. La cucina è già satura degli odori del pranzo: pasta al sugo, spezzatino con patate, torta di mele. Può riconoscere il profumo di ogni ingredien-te. La sua vecchia cameretta con le pareti rosa è rimasta come l’ha lasciata: i peluche sul letto e il poster dei Take That dietro allo sportello dell’armadio; il piumone bianco d’inverno e il copriletto a fiori d’estate. Lo scendiletto peloso per terra e la foto del primo giorno di scuola sul comodino. Tutto immutato da vent’anni. «Lauretta vuoi fermarti a pranzo con noi?» «No, grazie mamma! Vado, ho appuntamento con Irene.» «Tesoro, ma perché non resti? Giovanni è contento che te ne vai a spas-so con le amiche quando lui non c’è? Non sta bene che due ragazze pranzino in giro da sole, e poi, figlia mia, sei anche sposata! Per le tue amiche è diverso, sono tutte singol!». «Mamma, Irene convive.» «E non è la stessa cosa? Non ha mica un marito a cui rendere conto! Sta solo con uno che l’aiuta a pagare l’affitto!» «Irene non paga l’affitto. Lei e Fabio hanno un mutuo. Sono una fami-glia, non due persone che dividono le bollette.» «E vabbè! Fa lo stesso. Comunque Irene è una donna che lavora, lei può andare a pranzo dove le pare. Tu stai a casa tesoro mio, sai quanto è importante in famiglia che la donna…» «Ti prego mamma. Ho ventotto anni. E poi lo sai che Giovanni non tor-nerebbe a casa comunque, ha molto da fare.» Prende la borsa dal divano e va verso la porta. «Fai come ti pare, potresti comunque impegnarti a far andare le cose in un’altra direzione, poi non lamentarti con la storia dei bambini e…» Con un bacio di saluto la zittisce.

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«Ciao Mamma! Ci sentiamo domani.» In sala c’è ancora una vetrinetta con tutte le coppe vinte durante le gare di pattinaggio artistico; nel corridoio una foto formato poster di Laura con tocco e toga il giorno della sua laurea e, sulla parete opposta, una gigantografia raffigurante lei e Giovanni il giorno del loro matrimonio. Una figlia modello, Laura. Tranne che adesso i nipotini non arrivano. E se i meriti sono suoi, le colpe non possono essere da meno. Tutti in casa sanno che è Giovanni a non poter avere bambini, ma sua madre, senza troppi giri di parole, continua a sostenere che se lui non ne vuole sapere di trovare una soluzione la colpa è solo sua, che negli ul-timi tempi è cambiata e invece di crescere, va all’indietro come i gam-beri. Dovrebbe mettere la testa a posto, non può più permettersi le usci-te da ragazzina come quando andava l’università. Per non parlare delle amicizie che non sono mai andate bene. Le sue amiche erano sempre la causa delle “strane idee che si metteva in testa”. Qualsiasi cosa, dal de-siderio di avere jeans firmati, a una risposta data di traverso a quindici anni. Pensa che Laura si lascerebbe condizionare da chiunque, quando in re-altà l’unica persona che ha sempre ascoltato è lei. Giovanni è invece l’intoccabile. Un santo. Ogni volta che vanno a pran-zo dai suoi, si ripetono le solite scene che rasentano il ridicolo. La si-gnora Patrizia ci tiene che tutto sia perfetto, prepara pranzi degni di una tavola reale, e davanti al genero si atteggia pateticamente a donna sofi-sticata, nonostante una volta sì, e l’altra pure, sbagli i congiuntivi. Apre il portone, tre scalini ed è nel piazzale. Aria, ha bisogno d’aria. La giornata è stupenda. C’è un sole meraviglioso. Prima non ci aveva fatto caso. Tra poco passerà a prendere Irene.

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CAPITOLO 6 Martina si siede sul letto a gambe incrociate, fa qualche circonduzione col collo. Da destra a sinistra, poi ricomincia dall’altra parte. Maledetta cervicale. Vorrebbe dormire tutto il giorno ma è già quasi l’una. Si sdraia di nuo-vo seppellendo la testa sotto il cuscino. Prova a riacciuffare gli ultimi ricordi della notte: sesso con Andrea. Simpatico Andrea. Era un po’ che gli stava dietro e alla fine ha fatto centro. Come sempre Cazzo, è tardi. Di scatto tira fuori la testa dal cuscino e scende dal letto. Ci sono dei jeans e una canottiera nera appoggiati sulla sedia di fronte alla scrivania, li indossava ieri sera, un paio di sandali è di fianco all’armadio. Decine di foto sono attaccate confusamente sulla parete al-le spalle del letto. Foto di lei che sorride, le sue amiche, le vacanze, foto al lavoro. Le conosce a memoria, a occhi chiusi potrebbe ricordare fa-cilmente l’ordine in cui sono disposte. Al centro ce n’è una di lei da bambina con mamma e papà; a destra quella del loro matrimonio men-tre si baciano fuori dalla chiesa. Sopra c’è una foto con Laura, Stefania e Irene sedute sul divano, Irene ha un’espressione intontita e indica di fronte a sé, Stefania ha gli occhi chiusi e Laura sta guardando Martina che corre verso di loro. L’autoscatto aveva immortalato la scena prima che lei riuscisse a raggiungere il divano. Irene continuava a dire che la foto era già stata scattata, ma nessuna le voleva credere. È l’unica rima-sta del suo ventesimo compleanno: una festa memorabile. Il cane è sulla sua poltrona che la guarda assonnato, Mino si dev’essere svegliato anche lui di malavoglia. Martina indossa canotta e minigonna svolazzante, infila i suoi occhiali da sole, prende il guinzaglio e senza neanche lavarsi la faccia, lo porta fuori. «Corri Mino! Corri corri corri!» La scena si ripete ogni giorno, la gara è a chi arriva primo in fondo alle scale. Il gioco è tutto nell’ostacolare Mino e riuscire a tenerlo dietro, se

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invece riesce a superarla, inizia a correre come un forsennato e a quel punto vince lui. Prima di aprire il portone Martina gli mette sempre il guinzaglio, altri-menti continuerebbe a correre col rischio di finire sotto una macchina. «Accidenti no! Bestiaccia ti acchiappo!» L’ha superata. Sta per saltare gli ultimi due scalini. C’è solo l’atrio dell’ingresso che la separa da Mino. È smanioso di uscire, sta seduto su due zampe e graffia il portone con le altre due. Ma in quel momento, attraverso i vetri smerigliati, Martina vede qualcuno che dall’esterno sta per aprirlo. Posso arrivare prima che riesca ad aprire. Scende gli ultimi scalini e si avventa sul portone. «Mino Mino Mi… nooo!» È troppo tardi. Travolgendo il tizio che ha malauguratamente aperto il portone prima che lei potesse mettere il guinzaglio al cane, corre come una matta verso il cancello esterno, ma quel bastardo è talmente nano che si infila tra una sbarra e l’altra. Scavalca la recinzione incurante della gonnellina da tennista che indos-sa. Dopo una corsa sul marciapiede Mino ha già svoltato l’angolo. È acca-duto un’altra volta, ed è tornato dopo poco tempo. Però Martina ha sempre paura che possa finire sotto a una macchina. «Che deficiente!» «Scusami, non l’ho fatto apposta… non mi ero accorto del cane.» Dietro di lei c’è l’inquilino del secondo piano che è accorso a darle una mano. Si è trasferito da poco nel palazzo, non sa neppure come si chia-ma. «Non preoccuparti, non ce l’avevo con te! È che quando facciamo quel gioco sulle scale lui non ascolta più e… lasciamo perdere. Non preoc-cuparti, davvero.» Il tipo indossa un completo di lino marrone e una camicia bianca, nono-stante il caldo. Infatti ha la fronte sudata. Martina si rende conto che dopo questo discorso può tranquillamente pensare che sia una pazza: parla del suo cane come se fosse un essere pensante. «Mi dispiace comunque. Se vuoi ti aiuto a cercarlo.» «No, ti ringrazio. Non ascolta nessuno tranne me. Anche se lo trovassi, non riusciresti a prenderlo. Penso che farò un giro qua intorno… anzi, hai per caso una sigaretta?»

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Lui si batte una mano sul petto e sulle varie tasche del vestito. Alla fine le trova e le porge anche l’accendino. «Non appena lo trovi fammi sapere qualcosa… ci tengo.» «Volentieri, ma… come ti avverto?» Martina finge spudoratamente di non sapere chi sia. Non si sono mai presentati, è vero, ma è fico abbastanza da essersi fatto notare in altre situazioni. «Scusami! Mi chiamo Gabriele, abitiamo nello stesso palazzo. Sto pro-prio sotto il tuo appartamento. Pensavo lo sapessi.» Infatti lo sapevo. «Piacere Gabriele, io sono Martina.» «Allora aspetto che passi da me… col cagnolino ovviamente!» Martina rimane a guardarlo mentre lui si dirige verso il cancello di casa. Tira una lunga boccata, noncurante del fatto che quella sigaretta a di-giuno sarà la causa di un’acidità di stomaco che la accompagnerà per tutta la giornata. Se acchiappa Minuccio, questa volta lo concia per le feste.

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CAPITOLO 7 Sms ore 12:55 DA: Laura “tra 5 min sono lì!;-*” In un nanosecondo Irene è in piedi, prende la giacca saluta tutti ed è già fuori. È una bellissima giornata. Mentre aspetta Laura sulla soglia dell’ufficio vede avvicinarsi il suo capo con la figlia. La prediletta Diletta. L’amore di papà. Ha la sua stessa età, come lei ha una laurea in economia e commercio, punteggio centodieci e lode. L’unica differenza è che l’ha presa in un’università americana, e adesso lavora come giornalista per una rivista economica. Noblesse oblige. Pensava di averla scampata. De Angelis non s’era visto per tutta la mat-tina. Neanche una telefonata. Troppo bello per essere vero. Quando sono a pochi passi da lei, sente il dottor De Angelis recitare versi danteschi. Diletta lo guarda ammaliata. Molto tempo prima, era ancora alle medie, doveva imparare San Marti-no per il giorno seguente. Quel pomeriggio aveva appuntamento dal dentista, la stava accompagnando suo padre. In macchina aveva provato a studiare, ma a causa del mal d’auto non riusciva a continuare. Il suo babbo aveva iniziato a ripetere i versi con lei: San Martino era l’unica poesia che suo padre sapesse. La poesia più conosciuta dagli italiani dopo Mattina, anche se spesso, come in questo caso, il merito era di Fiorello e non di Carducci. Quella era stata l’unica volta in cui lei e suo padre avevano “discusso” di poesia. «Buongiorno dottore, ciao Diletta!» «Salve Irene, come andiamo? Trascorse bene le vacanze?» Stava andando uno schifo, Ire era più stanca e depressa dell’ultima vol-ta che si erano visti. «Tutto bene grazie, le vacanze sono state davvero rilassanti!»

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Irene si volta verso Diletta, vuole troncare la conversazione con De Angelis, non le va che inizi con le sue domande, a maggior ragione di fronte alla figlia, per lui sarebbe troppo divertente. «Tu Dile, come stai? È un po’ che non ci vediamo… sei stata fuori per le vacanze?» «Figurati, le ultime due settimane sono stata a Boston. Cose di lavoro, ho dovuto seguire un convegno. Una noia mortale. Purtroppo sono l’ultima arrivata. Non posso permettermi le ferie. Sai, quando si lavora a certi livelli…» Se scendessi da quella pianta il livello sarebbe più basso. Attenta che se cadi da lassù ti spappoli per terra. «…una noia mortaaale.» Per Ire il massimo della trasferta a lavoro è una capatina alle poste. Per dirla alla Diletta, mezz’ora lontana dall’ufficio è “uno spaaasso asso-luuuto”. Le viene in soccorso un clacson: Laura si è fermata in seconda fila dalla parte opposta della strada e le sta facendo segno di sbrigarsi. «Immagino… scusatemi, una persona mi sta aspettando per andare a pranzo. Piacere di averti visto Diletta. Arrivederci dottore.» È contenta di vedere Laura, e la abbraccia con un trasporto particolare: deve ancora riprendersi dalla chiacchierata con De Angelis e pre-Diletta. Decidono di andare a pranzo in una trattoria che è proprio vicino a casa di Martina. «La chiamiamo? Vediamo se può raggiungerci» propone Irene. «Ciao Marti! Che fai?» Rumore di traffico. «Sto cercando Mino!» Ha il fiatone. «È scappato?» «Sì! Quel cane è un demente! Se lo acchiappo vivo giuro che stavolta lo ammazzo io! È la seconda volta che fa così! Non ce lo porto più fuori! Adesso gli compro la lettiera come ai gatti, lo faccio pisciare là dentro! Gli faccio venire una crisi d’identità a quell’imbecille patentato!» Irene intuisce che non è il momento più opportuno per chiederle se ha voglia di andare a pranzo con loro. «Aspetta aspetta, aspetta che forse l’ho visto! Mino… Minooo!» Ire allontana il telefono dall’orecchio per evitare la rottura del timpano mentre Laura continua a fare gesti: chi è scappato?

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«Eccolo! Razza di un mentecatto! S’è cacciato sotto un camion… cia-o…» Dopo dieci minuti hanno già parcheggiato di fronte casa di Martina, ma l’amica non risponde al cellulare. Laura è già preoccupata: «Che facciamo adesso?» «Dividiamoci, tu vai a destra, io a sinistra, e se non ci incontriamo pri-ma ci chiamiamo con il cellulare.» Irene sta già morendo di fame e ora le è venuta anche sete. Ci saranno almeno ventotto gradi; la bretella della borsa le si è appiccicata alla spalla e quello stramaledetto reggiseno la fa sudare. Passa davanti a una pizzeria al taglio. L’ingresso è spalancato e in un attimo ha l’acquolina in bocca. Lancia un’occhiata con il buon proposi-to di non fermarsi. Calzoni fritti, mozzarella filante, formaggio fuso, pezzettini di salsiccia pieni di olio, prosciutto crudo fresco di taglio. Irene quando ha fame non riesce a vedere altro. Però stavolta tira dritto, stoicamente: potrebbe imbattersi in Martina che seduta a terra sta pian-gendo al fianco di Minuccio spiaccicato sull’asfalto. Invece è Laura a trovarla: riconosce le ciabatte, perché l’amica è stesa sotto un camion e di lei si vedono solo le lunghe gambe abbronzate. E la voce è inconfondibile: sta urlando una serie di improperi contro il cane che è raggomitolato accanto a una delle ruote anteriori. Continua ad abbaiare e non ne vuole sapere di uscire. «Marti… Marti che fai? Esci fuori di lì! Non vedi che Mino trema come una foglia? Non ti ascolterà mai se continui a urlare in questo modo!» «E gli conviene non uscire! Se lo acchiappo lo strangolo!» Laura si dirige dall’altra parte del camion: il cane non ha neppure il tempo di accorgersi che sta arrivando alle sue spalle, che lo afferra per la coda. Un salto in avanti tentando un’ultima fuga, e Martina lo ac-chiappa. «Preso, bastardo!» La faccia paonazza, i vestiti unti come quelli di un meccanico, ha chia-ramente voglia di uccidere. Ma riesce solo ad assestare al fuggitivo una gran pacca sul culo. Laura lo salva dalla furia assassina della padrona. «E lascialo stare povera bestia! È colpa tua se è scappato. E adesso calmati o la allento a te una bella chiappata!» Il terzetto intercetta Irene proprio quando stava per abbandonare i nobili propositi e infilarsi in quella pizzeria da sogno. «Dai Minuccio, non preoccuparti che ora andiamo a casa e la padronci-na ti perdona» lo rassicura Laura.

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Martina la guarda di traverso e le fa una linguaccia: «È da vedere. In-tanto tienimelo lontano!»

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CAPITOLO 8 Sono rimasti chiusi nell’ufficio di Nicola fino a ora di pranzo. Quando sono usciti, Stefania l’ha visto aprire la porta e cederle il passo. L’ha accompagnata fino alla sua scrivania, quella dove prima stava Gloria, e le ha detto soave che per il momento poteva cominciare con il risponde-re al telefono e sbrigare le pratiche di segreteria. «Così inizi a interfacciarti con le aziende e ti fai un’idea della nostra clientela.» In giornata si sarebbe occupato lui stesso di ordinare il suo computer portatile. La storia tra lei e Nicola era iniziata proprio per vicissitudini legate a un laptop. Era da un anno e due mesi che lavorava alla MB Counsulting, una società di consulenza aziendale. Era stata assunta ancor prima di laurearsi, alla fine di uno stage che le aveva proposto l’università. Tutto andava a gonfie vele, Nicola le era sempre vicino per darle una mano, il lavoro le piaceva e l’entusiasmo era alle stelle: il suo capo sembrava nutrire per lei una grande stima. In più di un’occasione aveva notato che le rivolgeva attenzioni partico-lari, e ne era lusingata naturalmente, ma le aveva considerate premure di un capo verso una ragazza sveglia, dedita al suo lavoro, e meritevole di carinerie. Aveva deciso comunque di darsi questa spiegazione: Nicola era sposa-to, e non appena qualche strano pensiero le balenava in mente, lo scac-ciava in un attimo, come fosse un insetto fastidioso. Fino a quando una sera erano rimasti solo loro due in ufficio. Lui nella sua stanza, lei alla scrivania nell’open space. Stava per mettere via le ultime cose e andarsene, quando aveva deciso di andare da Nicola: in più di un’occasione gli aveva chiesto un pc portatile, ma lui aveva sem-pre rimandato. Quello le sembrava il momento adatto per avanzare di nuovo la proposta. In fin dei conti tutti i suoi colleghi ce l’avevano, e lei se lo meritava. Aveva infilato la giacca dirigendosi verso l’altra stanza.

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Nicola era assorto a leggere dei documenti, le maniche della camicia girate e gli occhiali da vista appoggiati sulla fronte. Per attirare l’attenzione Stefania aveva picchiettato leggermente le noc-che sulla porta. «Dimmi Stefania.» «Scusami se ti disturbo…» «Nessun disturbo.» Aveva reclinato la testa indietro fino a poggiarla sullo schienale della poltrona. Si era messo comodo. «Avrei necessità di un computer portatile. Ricordi? Te ne avevo già parlato. Ora credo che… sia indispensabile. Potrei lavorare a casa e rendere molto di più.» Nicola le aveva sorriso scuotendo lievemente la testa. E lentamente si era tolto gli occhiali, riponendoli con cura nella custodia. «Ti prego Stefania, siediti.» L’imbarazzo che le era parso di percepire l’aveva allarmata. Per prima cosa aveva pensato che volesse licenziarla, e stesse cercando le parole per dirglielo nel modo migliore. Quella sensazione era priva di fonda-mento, ora lo sapeva, non c’erano motivi per preoccuparsi, ma non era riuscita a dare un’altra spiegazione a quel silenzio che era sceso su di lei come una colla appiccicosa da quando aveva messo piede nell’ufficio di Nicola. Si era allora seduta sulla punta della sedia di fronte alla scrivania, pron-ta al peggio. Mentre lui nel frattempo si era alzato, e aveva aperto la fi-nestra accendendosi una sigaretta, senza mai guardarla. Evidentemente non ne aveva il coraggio. «Sono un po’ imbarazzato, non so da dove cominciare… Penso ti sarai accorta che ultimamente con te mi comporto in maniera… diversa.» Spostando la tenda, aveva distrattamente guardato fuori. Era una serata di fine estate, il sole era già tramontato, e un’ultima luce dorata avvol-geva la sagoma di Nicola. «Senti Nicola, puoi parlare liberamente. Ho capito che la storia del pc è solo un pretesto, il nocciolo della questione è un altro!» E guardami in faccia quando ti parlo! Vigliacco! Stava innervosendosi, non capiva perché continuasse a tergiversare. Se non la voleva più in quell’ufficio, pazienza, avrebbe trovato un altro la-voro. «Hai ragione. Inutile che continuo a girarci intorno.» Bene, era pronta a firmare le dimissioni. Finalmente Nicola aveva alzato il viso guardandola dritto negli occhi.

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«Non faccio che pensare a te.» Cervello in black out. Non sapeva cosa fare, non sapeva cosa dire. La tensione che aveva provato fino a un attimo prima l’aveva abbandonata con la velocità della luce. L’aveva sentita fisicamente scivolare via dal-la base della testa. Una scossa aveva percorso le braccia, lo stomaco e le gambe, scaricando a terra. Nicola aveva continuato a guardarla senza dire niente, e poi aveva scos-so la testa, negli occhi un’espressione di sconfitta, lasciando intendere che era già pentito, pronto a fare dietrofront. «Scusami, sono stato un cretino. Un vero imbecille! Chissà cosa mi ero messo in testa. È che tu sei così in gamba e piena di vita, per un attimo ho pensato che… lasciamo perdere. Non so neanche io cosa ho pensato. È stata sicuramente una cazzata. Una enorme cazzata! Adesso non so come fare. Ho rovinato tutto…» Era piuttosto comico. Mentre parlava era tornato alla scrivania e conti-nuava a spostare carte da una parte all’altra. Ma il suo imbarazzo aveva intenerito Stefania, inducendola ad abbassare le difese. La situazione era quantomeno surreale, e a un certo punto le era quasi venuto da ride-re. «Nicola… stai calmo… fermati un attimo e ascoltami.» Stefania ti prego non farlo. Mentre le parole le scivolavano fuori dalla bocca, una parte di sé la guardava esterrefatta, come se a parlare fosse una perfetta sconosciuta, che per giunta stava dicendo cose alle quali lei non credeva. «…anche io non faccio che pensare a te.» Perché aveva detto quella frase così definitiva, compromettente e, so-prattutto, falsa? Certo, qualche fantasia l’aveva pure fatta, Nicola era un bel tipo, ma niente che giustificasse quella dichiarazione. Era stata la sensazione di potere che provava in quel momento a farla rispondere come la protagonista di una telenovela messicana? Sì, forse l’idea di averlo in pugno la eccitava. Tuttavia quelle parole pronunciate con assoluta leggerezza, ora le sembravano già autentiche, tanto da pensare che quel desiderio era nascosto da tempo nel suo cuore, e che aveva solo cercato di occultarlo. Perché lo considerava impossibile da realizzare, improbabile quanto trovare Jude Law che suona il campanel-lo di casa e ti chiede di nasconderlo perché sta scappando dagli alieni. Per questo lo aveva allontanato. Stefania obiettivo, Stefania impegno, Stefania risultato raggiunto. Nien-te sprechi inutili.

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Nicola rimaneva in piedi, aveva appoggiato entrambe le mani sul tavolo e la guardava con gratitudine. Sembrava felice. Poi aveva fatto il giro del tavolo e prendendo il suo viso tra le mani l’aveva baciata. Non baciava un uomo da… non ricordava neanche da quanto. Gli uomini non erano mai stati la sua priorità. Tantomeno in quel perio-do della vita. Prima di salutarsi, avevano impiegato una buona mezz’ora per riordina-re la scrivania. Da lì in avanti la sua vita era cambiata radicalmente. Ogni cosa aveva senso solo se ruotava intorno a lui. Anche nel lavoro cercava di dare il meglio esclusivamente per avere la sua approvazione. Il guardaroba si era riempito di gonne da abbinare con tailleur originariamente composti da giacche e pantaloni. Erano più funzionali allo scopo. Lo facevano in qualsiasi momento e ovunque. Nel suo ufficio, in ba-gno, nell’archivio. Non badavano troppo alle comodità. E certe scopate, anche col senno di poi, Stefi è sicura che le rimpiangerà per tutta la vi-ta. Intanto, è una donna di ventotto anni con una brillante carriera che le sta sfuggendo di mano, innamorata di un uomo sposato che molto pro-babilmente non la ama più. Per rimetterla in sesto ci vorrebbe una flebo di autostima.

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CAPITOLO 9 «Ciao Mara! Che fai esci?» Martina entrando in bagno per fare una doccia ha trovato la sua coin-quilina che si sta truccando. «Ciao Marti! Sì, sto per uscire. Passa a prendermi Federico poi andiamo al cinema. Tu che fai?» «Credo che andrò a prendermi un dvd. Con questo tempo non vedo molte alternative!» L’estate sta finendo. Ancora non fa freddo, ma l’aria è già umida e ap-piccicosa, una di quelle giornate in cui non sai cosa metterti, puoi in-dossare qualsiasi cosa che tanto continuerai ad avere o troppo caldo o troppo freddo. Martina torna in cucina, prende una pesca dal cesto della frutta che ri-mane vuoto. Pessima idea, è tutta ammaccata. La sbuccia per bene, toglie le parti troppo mature, fa degli spicchi con quel che resta e li mette in un piattino. Sta per andare in camera a guar-dare la televisione quando passa davanti alla finestra del corridoio e ve-de Gabriele che sta parcheggiando. Ha bisogno del bagno: trova Mara al telefono, e mimando il gesto di lavarsi i capelli le chiede se la doccia è libera. «Sì, sì, vai pure… io ho finito!» Marti si lava a una velocità da record, si spalma la crema idratante e con i capelli ancora bagnati infila i suoi jeans più comodi e una felpa bianca. Dal frigo prende due birre e raggiunge la porta di casa con le scarpe da tennis ancora in mano. «Dai Mino… vieni!» Del resto Gabriele le aveva chiesto di informarlo sulla sorte del cane. Suona il campanello una, due volte, ma non le apre nessuno. Probabil-mente le toccherà il dvd. Strano però, le sembra di sentire della musica provenire dall’interno. Ma forse sbaglia, sarà dei vicini. Eppure l’ha visto rientrare a casa… Sta per andarsene delusa, ha già salito un paio di gradini, quando la por-ta si apre. C’è una frazione di secondo in cui la assale la paura che vol-

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tandosi vedrà una donna. Un’amica, un’amante, una fidanzata. Non ci aveva pensato. «Ciao!» Con sollievo riconosce la voce di Gabriele. Anche se una fidanzata c’è, almeno non è venuta lei ad aprire. «Ciao, siamo venuti a trovarti.» Gli mostra Mino come un trofeo, e il cane, grato per tanta attenzione, inizia a leccarle un orecchio. «Fermo Mino! Ho portato qualcosa da bere.» Cerca di sorridere, vorrebbe mandar via quella sensazione di imbaraz-zo, ma le sembra di collezionare pessime figure. Che diavolo le sta succedendo? Non è mai così imbranata con gli uo-mini. Gabriele indossa i pantaloni di una tuta da ginnastica e una t-shirt blu. Questa volta ha l’aria rilassata. «Hai fatto bene! Entra pure!» «Spero di non averti disturbato.» «Assolutamente no! Mi hai salvato, anzi…» L’ingresso dà su un soggiorno dove c’è un vecchio divano di pelle ros-sa scolorito e una poltrona di stoffa che ha tutta l’aria di essere scomo-dissima. Su una mensola che percorre l’intera parete nota due file di CD e un paio di centinaia di LP. «Come puoi vedere avrei dovuto dedicarmi alle pulizie… ma sei arriva-ta tu, e sono costretto a rimandare!» Effettivamente ci si fa largo tra vestiti ammucchiati, cartoni di pizza e lattine di birra. «Se trovi un posto dove sederti, accomodati pure, io vado a prendere l’apribottiglie.» «Ok!» Sotto la finestra ci sono delle ceste piene di vinili. Ne ha appena tirato fuori uno quando Gabriele torna con il cavatappi e un pacco di patatine. «Jack Peneit.» «Peñate… è un cognome spagnolo, quindi dovrebbe pronunciarsi Pe-gnate, lo conosci?» E continuiamo con le figure di merda. «Veramente no.» «Be’, in Italia non è molto famoso. Quel disco me lo ha regalato un a-mico che vive a Londra.» «Collezioni vinili?» «Veramente li uso nel tempo libero, mi diverto a fare il DJ!»

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«E nel tempo occupato?» «Sono un geometra.» Si siede sul divano traballante, stappa le bottiglie, e ne porge una alla sua ospite. «Riusciresti a vivere solo con quello che tiri su durante le serate?» Le risponde che è contento così, gli piacciono tutti e due i lavori e non potrebbe rinunciare né all’uno né all’altro. Dopo mezz’ora le ha più o meno raccontato la sua vita, e questa capacità a parlare di sé, così poco comune tra i maschi che frequenta, sorprende piacevolmente Martina. Vive solo da molto tempo, ha un fratello, i genitori sono morti a poca distanza l’uno dall’altro quando erano ancora ragazzi, e poi le spiega le sue giornate in cantiere e le notti nei locali, e di questa sua necessaria schizofrenia. Gabriele è solare. Non dice mai niente di banale, non si impegna per farla ridere nonostante sia divertente, non ci prova. Parla e sorride. Cacchio, quanto mi piace quest’uomo. Ma non è come al solito, non vorrebbe saltargli addosso e fare sesso ancor prima che sia riuscito a togliersi i vestiti. Vorrebbe sdraiarsi sul divano e appoggiare la testa sulle sue gambe: lo ascolterebbe per ore mentre le accarezza i capelli e continua a raccontare. O stendersi di fianco a lui sotto una coperta calda. Si terrebbero stretti, e sentendolo vicino si addormenterebbe. Oppure guardare la televisione, la testa sulla sua spalla, mangiando pop corn e bevendo birra. Per il momento però vorrebbe non essersi rincoglionita del tutto. Ri-marrebbe ancora, ma sono già passate due ore e deve tornare a casa per prepararsi e andare a lavorare. «Grazie delle birre, e della visita. Spero ci saranno altre occasioni.» «Grazie a te della compagnia… questa domenica rischiava di essere deprimente. «Allora a presto!» «Ciao!» Martina sente richiudere la porta solo quando lei ha già salito una ram-pa di scala. E le sembra un gesto di una grazia infinita. Vorrebbe tornare indietro e chiedergli se ha voglia di passare più tardi al locale dove lavora, ma ci ripensa. Sono troppo impulsiva. Non devo correre, e non devo sbracare. Calma. Martina è abituata a raccogliere consensi maschili a mani basse. Sa di essere bella, e con gli anni ha imparato a fare dell’indifferenza un’arma di seduzione: non è abituata a sentirsi tanto attratta da un uomo, e in-

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sieme smarrita. La gentilezza composta di Gabriele la disorienta e la in-triga. Quando infila la chiave nella porta si accorge che c’è qualcosa che non va: la toppa si è ristretta, e il legno è più scuro. Pensa a un fenomeno di metamerismo prima di capire che quello non è il suo appartamento, so-prappensiero è arrivata al quarto piano. «Signorina, che sta facendo?» «Signor Attilio, mi scusi. Sono una deficiente. Stavo pensando agli af-fari miei e non mi sono accorta di aver fatto una rampa di scale in più. L’ho disturbata?» «Figurati figlia mia, quale disturbo! Almeno mi hai fatto alzare dalla poltrona… quella vecchia suola ormai ha la forma delle mie chiappe!» «E poi oggi con questo tempo! Neanche si può andare a fare una pas-seggiata! Comunque scusi di nuovo…» «Non preoccuparti bella, non preoccuparti…» Di colpo Martina afferra la maniglia e gli impedisce di chiudere la por-ta. Il signor Attilio riapre leggermente e infila la testa nello spiraglio rima-sto aperto. «Devi dirmi qualcosa?» «Volevo solo chiederle se… qualche volta posso venirla a chiamare per fare una passeggiata. Esco tutti i giorni con il mio cane, e se lei volesse accompagnarmi ogni tanto, mi farebbe un gran piacere…» Dietro gli occhiali spessi le sembra che lo sguardo dell’uomo si tra-sformi in un abbraccio. «Oh bella mia, certo, mi piacerebbe proprio tanto! Se non ti annoi a chiacchierare con un vecchietto.» «Ma quale vecchietto, signor Attilio! Lei è più giovane di tanti miei co-etanei!» Una frase fatta, ma lui sorride compiaciuto. «Magari bella mia! Magari!» «Allora ci vediamo presto!» Quando rientra a casa sono già le sette e mezza. E pensa che ha fame, in tutta la giornata ha mangiato solo una mezza pesca ammaccata e la bir-ra le galleggia nello stomaco. Il frigo è desolatamente vuoto; per fortu-na nel freezer è rimasta una pizza congelata: gusto quattro formaggi. Tutte queste calorie per una cosa che fa anche schifo! È di Mara, poi dovrà ricordarsi di ricomprargliela. E mentre si cuoce in forno, mette un CD di Vasco e corre a cambiarsi.

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«Ciao bellezza!» «Ciao Tony, come butta oggi? Passato il raffreddore?» «Va un po’ meglio grazie. Comunque ho visto tempi migliori!» «Fatti spostare in sala per stasera, sennò prendi freddo!» Antonio è il buttafuori dell’ingresso, un omone più grasso che muscolo-so. Però fa scena. «Grazie cara, l’ho già chiesto. Ci tengo alla mia pellaccia!» «E fai bene! A dopo bello!» Appena entra al Moody vede riflessa in uno degli specchi l’immagine di Andrea che sta appassionatamente limonando dietro a una colonna. Non riesce a vedere chi sia lei, ma riconosce il vestito. È Carla, l’altra barista. Che gran pezzo di stronzo! Non che esigesse un giuramento di eterno amore. Ma sono stati insieme appena qualche giorno fa, e già ha attaccato a fare il cretino con un’altra. Martina non ha nulla in contrario alle storie lampo, ci manche-rebbe, ma ci vuole almeno un po’ di stile. Invece Andrea è uno di quelli che per farsi una scopata ha bisogno di dire che è innamorato, e lei non ne capisce il motivo. È un fico strato-sferico, alto un metro e novanta, fisico da nuotatore e lineamenti da fo-tomodello, la maggior parte delle donne andrebbe a letto con lui co-munque: che bisogno c’è di tutte quelle smancerie? Io almeno mi risparmio tutte quelle scemenze. Tanto sapeva già come sarebbe andata a finire. Lei sa sempre come va a finire. Anzi, è dall’inizio di una relazione che deve essere sicura che fi-nirà presto. Però, mai nessuno è stato male per colpa sua. Il fatto è che sceglie un certo tipo di uomini: quelli che come il latte fresco scadono presto. Andrea accompagna i clienti ai tavoli. Un maschio “tutto uccello e niente cervello”, non letteralmente parlando ovviamente. A volte là sot-to hanno certe sorpresine Kinder che nessuno potrebbe immaginare. L’ha preso di mira dal primo momento che l’ha visto. Ovviamente mo-strando il più glaciale disinteresse. Più lo teneva a distanza e più lui le stava appresso. L’ho fatto morire. Fino all’altra sera. Irene l’avrebbe definito “croccantino”. Sulla falsa riga di Costantino. Li chiama così perché “vien voglia di divorarli ma al primo morso stomacano”. L’apparenza al primo posto. Vogliono scoparsi una solo perché se la vogliono scopare tutti. Pantalone stretto sui fianchi e magliettina che lascia indovinare il bicipite pure se fuori ci

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sono meno dieci gradi. Ogni cosa che fanno o dicono ha lo scopo di sot-tolineare quanto sono machi, senza accorgersi che ogni gesto non fa che rimarcare quanto siano solo dei bambini. Quando Martina esce dallo spogliatoio dov’era andata a cambiarsi, ve-de Andrea avvicinarsi con quell’ espressione da idiota stampata in fac-cia. Ovviamente neanche immagina di essere stato visto. Appoggia la mano sul suo fianco e la bacia appena sulla guancia. «Ciao meraviglia.» Marti risponde con un mezzo sorriso finto. «Stasera sarà un inferno. I tavoli sono già prenotati e i biglietti quasi tutti andati via in prevendita. Avremo da fare!» «Sì… me l’hanno detto!» Si avvicina al suo viso e le parla all’orecchio. «Pensavo che dopo il lavoro potremmo andare da te… non ho impe-gni.» Le accarezza una guancia sorridendo malizioso. Non ha impegni lo stronzo. Carla t’ha dato buca? Che cazzo di impegni puoi avere alle cinque del mattino, imbecille! A volte mi chiedo come faccio a scoparmi certi elementi. Lo bacia sulla bocca mordendogli leggermente il labbro e si allontana. Non andrà a casa con lui, ma vuole che lo creda fino a quando lei non se ne tornerà a casa senza avvertirlo. FINE ANTEPRIMACONTINUA...

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