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LICEO MUSICALE IDONEITÀ ALLA V TEORIA, ANALISI E COMPOSIZIONE - Il Sistema Tonale - Armonia Musicale - Tonalità - Intervallo - La Nascita della Notazione Ritmica - La Semiografia Musicale - Strumenti o Timbro - Dinamica o Ampiezza

LICEO MUSICALE IDONEITÀ ALLA V · 2019-01-31 · LICEO MUSICALE IDONEITÀ ALLA V TEORIA, ANALISI E COMPOSIZIONE -Il Sistema Tonale-Armonia Musicale-Tonalità-Intervallo-La Nascita

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LICEO MUSICALE

IDONEITÀ ALLA V

TEORIA, ANALISI E COMPOSIZIONE - Il Sistema Tonale - Armonia Musicale - Tonalità - Intervallo - La Nascita della Notazione Ritmica - La Semiografia Musicale - Strumenti o Timbro - Dinamica o Ampiezza

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IL SISTEMA TONALE

Nella musica popolare (popular music) e “di consumo”, e in quella che usiamo chiamare musica classica (includendovi una fetta sostanziale della musica barocca e romantica), ogni brano è composto in base al sistema tonale, cioè a partire da un sistema di regole compositive centrate sulla relazione gerarchica fra le altezze delle note di una scala musicale diatonica rispetto alla tonica della scala stessa, che funge da nota fondamentale e centro di convergenza di quel particolare brano. In questo senso, in realtà, dovremmo dire che è “tonale” non solo la musica propriamente tonale, ma ogni composizione che ruota intorno ad un suono principale di riferimento, da cui si origina una scala o un sistema organizzato di suoni, quali i modi ecclesiastici e medievali, i raga indiani o i maqam arabi (Modalità). D’altro canto, nella tradizione musicale occidentale, l’aggettivo “tonale” è spesso utilizzato in contrapposizione con “modale” e “atonale” stabilendo così una netta (e fin troppo schematica) divisione storica tra la musica pre-tonale (fino al 1600), tonale (dal 1600 al 1900) e post-tonale. Tale distinzione concepisce il sistema tonale come un tronco principale nell’evoluzione del linguaggio musicale e gli attribuisce un valore normativo rispetto a quanto lo precede e gli succede.

Il sistema tonale è basato su due modi (o generi di scale), maggiore e minore che, con le rispettive caratteristiche musicali ed espressive e la valorizzazione dei molteplici rapporti armonici tra le note della scala, mettono in atto una complessa rete di relazioni lineari e polifoniche in cui la melodia sfrutta il potenziale di tensione o di appagamento offerto da ogni singola nota, ma in contemporanea interagisce con il potenziale di tensione o di appagamento offerto dal contesto armonico, ossia dalla successione di accordi che la sottende. Lo sviluppo storico dell’armonia tonale nel suo rapporto con l’evoluzione della prassi compositiva è sinteticamente inquadrato alla voce armonia, mentre qui sono delineati il concetto di tonalità nelle sue basilari strutture (l’accordo, la distinzione fra tonalità di modo maggiore e minore, la costruzione delle tonalità) e le tecniche fondamentali per la conduzione dell’armonia tonale (relazione funzionale fra gli accordi, cadenza e modulazione).

Accordi o Triadi

L’accordo è un insieme di almeno tre note suonate contemporaneamente. L’accordo di tre note, o triade, è il primo fondamento della musica tonale poiché assume un significato specifico e individuale all’interno della scala diatonica di riferimento. Come ricordato alla voce intervallo, l’intervallo di quinta giusta è un intervallo ’perfetto’ e naturale. Se i due suoni che lo formano sono eseguiti in contemporanea,

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però, la sonorità risultante risulta ‘vuota’ per la nostra sensibilità musicale, come potremmo facilmente sperimentare suonando al pianoforte una successione di quinte parallele, così estranea al gusto tonale che è tassativamente vietata dalle regole dell’armonia (naturalmente ciò vale come principio, la cui validità è garantita dalla possibilità dell’eccezione). La diade (due suoni simultanei) di quinta manca infatti di un costituente essenziale della musica tonale: l’intervallo di terza. L’introduzione di una nota intermedia collocata ad intervallo di terza da entrambi i suoni della diade, rende completa armonicamente la sonorità risultante: nel caso dell’esempio seguente la triade do-mi-sol è formata da una terza maggiore (do-mi) ed una terza minore (mi-sol); mentre gli estremi della triade (do-sol) sono ad intervallo di quinta giusta, come specificato alla voce intervallo. L’accordo fondamentale in un contesto musicale tonale è la triade che si costruisce sulla nota generatrice della scala. Per semplicità ci riferiamo alla scala di do maggiore, per cui la triade maggiore costruita sulla fondamentale è l’esempio canonico dell’accordo perfetto maggiore. Nella tonalità minore la triade di tonica è invece una triade minore, cioè formata da una terza minore più una terza maggiore; nella tonalità di do minore, ad esempio, la triade minore di tonica è do-mib-sol, che è un accordo perfetto minore:

Le due triadi sono composte dalla tonica della scala (do), dalla modale della scala (mi per la scala maggiore, mib per la scala minore) e dalla nota detta dominante (sol). L’accordo si legge partendo dalla nota più bassa alla più alta: do-mi-sol. Procedendo di grado in grado lungo la scala diatonica, è possibile costruire una successione di triadi: tale successione definisce sette diversi accordi, uno per ciascun grado della scala (nell’immagine che segue si è aggiunto l’accordo di tonica all’ottava superiore), che, impiegati secondo le regole dell’armonia, costituiscono la dimensione ‘verticale’ della musica tonale. Comporre un brano nella tonalità di do maggiore significa impiegare le note della scala di do maggiore e gli accordi costruibili su di esse in modo coerente.

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triadi di:

--tonica--sopratonica--modale--sottodominante--dominante--sopradominante--sensibile--tonica—

La successione di triadi che definisce la tonalità di do maggiore può essere trasportata su qualsiasi altro grado della scala cromatica, cioè della gamma dei suoni. Ad esempio, le triadi rappresentate nella figura seguente riproducono la stessa successione di triadi della scala di do maggiore, partendo però dalla nota sol, ma affinché ciò avvenga è stato necessario alterare, in questo caso diesizzare, il fa. La successione è relativa alla tonalità di sol maggiore:

Tonalità di Modo Maggiore e Minore

Dal punto di vista dell’armonia musicale tonale si distinguono due modalità, cioè due tipologie di scale diatoniche: maggiore e minore. Ogni scala maggiore ha una relativa minore collocata ad un intervallo di terza minore discendente dalla tonica; cioè: gli stessi suoni usati per la scala maggiore costruiscono anche una scala minore che inizia 2 toni + 1 semitono sotto la tonica (v. intervallo). La scala maggiore si differenzia dalla minore solo per la posizione di tre gradi, il terzo, il sesto e il settimo, rispetto alla tonica della scala, come specificato alla voce scala. La relativa minore della tonalità di do maggiore è dunque la tonalità di la minore(la nota la è a distanza di una terza minore nella successione discendente do-si-la), anch’essa, come la tonalità di do maggiore, non prevede alterazioni (diesis o bemolli). Il seguente schema indica la successione di triadi nella tonalità di la minore:

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Poiché i suoni del sistema temperato sono 12, altrettante sono le scale maggiori e altrettante le minori. Conseguentemente, il panorama delle tonalità risulta essere di 24: 12 maggiori e 12 minori, la cui determinazione è data da un numero crescente di note alterate (cioè diesizzate o bemollizzate) da introdurre per generare la scala, secondo una successione chiamata circolo delle quinte, come specificato più avanti). Le alterazioni corrispondono ovviamente alle note diesis o bemolle della scala musicale impiegata, e poiché gli stessi suoni entrano a far parte tanto di una scala maggiore che della relativa minore, solo l’andamento del brano permetterà di capire quale delle due tonalità è impiegata. In relazione all’impiego delle tonalità minori, occorre specificare che per creare l’effetto di risoluzione nella cadenza dominante-tonica (come più avanti specificato) è necessario alterare di un semitono la sensibile della scala. Infatti, nella scala minore naturale (v. scala) la distanza sensibile-tonica è di un tono intero, cosa che annulla l’effetto di tensione nell’impiego dell’accordo di dominante.

La Definizione delle 24 Tonalità

Come è stato sopra specificato, le scale musicali diatoniche sono all’origine del sistema di accordi che definisce il contesto tonale, in quanto su ogni grado della scala è costruita una triade che si pone in specifica relazione con le altri triadi della scala, e la sequenza risultante di accordi è trasportabile su qualsiasi grado della gamma dei suoni: scegliendo infatti una nuova scala diatonica, è possibile costruire la stessa sequenza di triadi a partire dalla tonica della nuova scala. Le triadi così organizzate assumeranno nella nuova scala le stesse denominazioni; in tal modo, ad esempio, l’accordo sol-si-re che nella tonalità di do maggiore è triade di dominante (V grado), nella tonalità di sol maggiore è triade di tonica (I grado), mentre nella tonalità di re maggiore è triade di sottodominante (IV grado), come possiamo vedere nell’esempio (si tenga presente lo stesso accordo nelle scale di do maggiore e sol maggiore sopra schematizzate):

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Il principio per cui tonalità diverse condividono alcuni accordi è alla base del meccanismo della modulazione, come specificato più avanti. Gli esempi sopra proposti di successioni di triadi in tonalità di do, di sol e di re possono essere utili per evidenziare come le tre tonalità di differiscano per l’impiego di alcuni suoni della gamma. Ad esempio, la tonalità di do presenta tutti i suoni allo stato naturale, senza alterazioni, mentre la tonalità di sol maggiore, basata sulla scala di sol maggiore, necessita della presenza del fa# come grado sensibile e come suono di ogni accordo che contiene tale grado. La tonalità di re maggiore, a sua volta, differisce dalla tonalità di sol maggiore per l’aggiunta di un’ulteriore nota alterata nella scala (il do#). Poiché fra do (tonica della tonalità di do maggiore) e sol (tonica della tonalità di sol maggiore), e tra sol e re (tonica della tonalità di re maggiore) c’è la distanza di un intervallo di quinta giusta ascendente (v. intervallo), il passaggio fra le tonalità costruite su intervalli di quinta ascendente si caratterizza per l’aggiunta progressiva di un’alterazione nella scala. Questo meccanismo si chiama CIRCOLO DELLE QUINTE, ed è così schematizzabile:

Come possiamo notare, la progressione per quinte ascendenti (partendo da do: sol, re, la, mi, si, fa#, do#, re#, la#, mi#, si#=do) determina la successione di 12 tonalità differenti: do, sol, re, la, mi, si, fa#, ... ciascuna posta una quinta sopra la precedente e caratterizzate dall’aggiunta progressiva di un #, fino a si#, che è tonalità omologa di do (cioè composta dagli stessi suoni, ma chiamati in modo differente). Guardando il circolo delle quinte, si noterà inoltre che la concatenazione di 12 tonalità si realizza anche attraverso l’inserimento progressivo di bemolli. In questo caso, però, si procede da do per quinte discendenti (partendo da do: fa, sib, mib, lab, reb, solb, dob,

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fab, sibb, mibb, labb, rebb=do). L’aggiunta di b nella progressione di tonalità si arresta ugualmente a 12, e tutte le tonalità costruite sono omologhe rispetto a quelle costruite aggiungendo diesis. L’insieme delle tonalità così delineate costituisce le 12 tonalità di modo maggiore del sistema tonale. Allo stesso modo è possibile costruire attraverso il circolo delle quinte la successione delle 12 tonalità di modo minore, ricordando che ogni tonalità maggiore ha una relativa minore che ha per tonica la nota posta una terza minore sotto la tonica della tonalità maggiore.

Nella scrittura musicale la tonalità è indicata graficamente in partitura dal numero di alterazioni (diesis o bemolli) segnalate all’inizio del pentagramma, dopo la chiave musicale. La prassi prevede che si impieghino le tonalità che hanno un massimo di sette diesis e sette bemolle, questo per facilità di scrittura musicale (cioè per evitare le doppie alterazioni). Le tonalità minori hanno la stessa gamma di suoni in comune con le tonalità maggiori, dunque sono indicate in armatura di chiave con le stesse alterazioni. Ad esempio, come nessuna alterazione in armatura di chiave segnala tanto la tonalità di do maggiore che di la minore, così un fa diesis in armatura di chiave segnala tanto la tonalità di sol maggiore che di mi minore, e così via, secondo il seguente schema:

Gerarchia di Funzioni delle Triadi

All’interno di ciascuna tonalità si individuano quattro tipologie di triadi:

triade maggiore: una terza maggiore e una terza minore

triade minore: una terza minore e una terza maggiore

triade diminuita: due terze minore

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triade eccedente: due terze maggiori

La tipologia di triade su ogni grado della scala presenta gradi di maggiore o minore affinità con le altre triadi. Nella scala maggiore, in particolare, sono dette principali le triadi maggiori di: tonica (I grado) dominante (V grado) e sottodominante (IV grado), mentre sono secondarie le triadi minori di sopratonica (II grado), di mediante (III grado) e di sopradominante (VI grado). Infine è diminuita la triade sulla sensibile della scala (VII grado). I rapporti fra le triadi si configurano come rapporti di tensione-distensione armonica, che si inquadrano nel meccanismo della cadenza e della sua preparazione, come specificato più avanti. Nelle tonalità minori, però, c’è maggiore difficoltà ad assegnare alle triadi un’univoca funzione tonale. Ciò dipende dalla mancanza nella scala minore naturale della funzione di sensibile sul VII grado e dunque dalla mancata attribuzione di tensione cadenzale. Per ovviare a questo inconveniente, sono introdotte alterazioni sul VII grado (scala minore armonica) o sul VI e VII grado ascendente (scala minore melodica), come specificato alla voce scala.

La Cadenza

La cadenza è una successione armonica che dà un senso di ‘risoluzione’ alla frase musicale. Nella sua forma detta ‘perfetta’ consiste nel passaggio dall’accordo di dominante, l’accordo costruito sul V grado della scala, all’accordo di tonica. L’accordo di dominante è indispensabile per la determinazione della tonalità di una composizione, perché la sua sonorità prefigura appunto un ritorno sull’accordo di tonica, cioè ‘tende’ alla tonica. Ciò accade in quanto l’accordo di dominante contiene due suoni essenziali all’identificazione della struttura tonale: la dominante e la sensibile della scala. Nel caso della tonalità di do maggiore l’accordo sul V grado è la triade sol-si-re. La nota dominante (il sol, quinto grado della scala di do), essendo ad intervallo di quinta dalla tonica è sommamente consonante con essa, dunque si ‘armonizza’ con la tonica, mentre la sensibile (il si, settimo grado della scala di do), essendo ad intervallo di semitono dalla tonica tende fortemente a ‘risolvere’ sulla tonica. La triade costruita sul quinto grado della scala risolve, si ‘chiarisce’, al momento in cui ad essa segue l’accordo di tonica. Tale risoluzione è la cadenza perfetta (V-I):

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Questo basilare passaggio accordale (tonica-dominante-tonica) costituisce il percorso essenziale e minimo dell’armonia tonale, che garantisce acusticamente una successione di riposo-tensione-riposo.

Attorno a questo nucleo ruotano altri accordi e altre note, che arricchiscono il potenziale espressivo della musica. In particolare, il quarto grado della scala (il fa, nella scala di do) costruisce l’accordo di sottodominante (fa-la-do). Questo accordo spesso precede l’accordo di dominante, e dunque la cadenza. Anch’esso è formato da note estremamente significative: contiene la tonica della scala (do), la sottodominante (fa) e la sopra-dominante (la) che, come la nota modale (terzo grado), individua il modo della scala. Altre tipologie di cadenze oltre quella perfetta sono comunemente impiegate nella musica tonale. La cadenza plagale è il passaggio accordale sottodominante-tonica (IV-I), molto impiegato nella musica liturgica, specialmente nel modo minore.

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La cadenza evitata è il passaggio dominante-sopradominante (V-VI), che, come ben avvertibile all’udito, non ‘risolve’, ma lascia il discorso armonico sospeso:

il massimo effetto di sospensione e brusca interruzione si ha tuttavia con la cadenza interrotta, cioè con un arresto armonico sull’accordo di dominante.

Accordi di più Suoni, Accordi Alterati e Dissonanze

Mentre la triade è data dalla sovrapposizione di due terze, gli accordi con quattro note (tetriadi) sono dati dalla sovrapposizione di tre terze, e prendono il nome di accordo di settima, perché la quarta nota è ad intervallo di settima dalla fondamentale; analogamente, gli accordi di cinque note (pentiadi) sono accordi di nona , poiché il rapporto intervallare fra fondamentale e quinta nota dell’accordo è di nona. La particolarità di tali accordi sta nell’implicare una dissonanza fra la nota fondamentale dell’accordo e la quarta o quinta nota. Fra questi accordi il più frequentemente impiegato è l’accordo di settima di dominante. Nella tonalità di do maggiore: sol-si-re-fa.

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Altre tipologie di accordo prevedono l’alterazione cromatica di suoni, che, provocando una dissonanza, deve essere risolta sull’accordo successivo innalzando o abbassando di mezzo tono (risoluzione per grado congiunto). Fra queste tipologie di accordo, che nella musica tonale hanno per lo più funzione coloristica e dinamica, risulta assai usata la sesta napoletana (v. glossario), che si forma sulla sottodominante (IV grado) del modo minore usando la sesta minore invece che la quinta come terza nota dell’accordo. La sesta napoletana ‘risolve’ sulla dominante della tonalità (e dunque spesso prepara la cadenza perfetta).

La Modulazione

L’accorgimento tecnico più interessante della musica tonale che garantisce varietà al discorso musicale è la modulazione, cioè il passaggio all’interno di uno stesso brano da una tonalità all’altra. Questo espediente consente infatti al compositore di muoversi nella gamma dei suoni con estrema libertà, arricchendo la sua ‘tavolozza’ armonica e melodica di infinite sfumature, e tuttavia rimanendo ancorato al principio unitario del ‘ritorno’ alla tonalità di riferimento. Il principio della modulazione si basa sull’affinità fra due tonalità, quella di partenza e quella di arrivo, affinità determinata dal numero di accordi che esse hanno in comune. Ad esempio, la tonalità di do maggiore ha numerosi accordi in comune con la tonalità di sol maggiore, come sopra specificato. Le due tonalità si chiamano vicine e, sfruttando uno di questi accordi come ‘ponte’, è possibile modulare dall’una all’altra, e l’avvenuta modulazione sarà affermata da una cadenza nella nuova tonalità. Questo procedimento si dice modulazione diatonica.

Un esempio di modulazione a tonalità vicine si può facilmente individuare nelle concatenazioni armoniche degli accordi arpeggiati (in cui le note sono suonate in successione) che attraversano tutto il Primo Preludio, in do maggiore, del primo volume del Clavicembalo ben temperato di Bach. Qui ogni accordo è ripetuto due volte all’interno di ciascuna battuta; alla successione di 15 battute corrisponde quindi una successione di 15 diversi accordi arpeggiati i quali delineano tre modulazioni: da do a sol, da sol a re (in realtà un passaggio modulante) e infine da re a do (tonalità che resta affermata fino alla battuta 19). Nello schema qui proposto è segnalato il numero della battuta e il grado dell’accordo nella rispettiva tonalità, senza tenere

1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15

do I II V I VI do II VII I

sol II V I IV II V I

re IV VII I

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conto dei rivolti (cioè della disposizione delle note) nei quali gli accordi si presentano. La prima modulazione avviene alla battuta 5, (nella quale l’accordo la-do-mi, sesto grado di do maggiore, è considerato anche II grado di sol maggiore), la seconda alla batt. 11 (dove l’accordo sol-si-re, primo grado di sol è considerato IV grado di re minore) e la terza alla batt. 13 (dove l’accordo re-fa-la, I grado di re minore è considerato II grado di do maggiore).

Come si può osservare dalla partitura, l’avvenuta modulazione è confermata dalla presenza delle note alterate specifiche delle tonalità di approdo: alla battuta 6 il fa# (sensibile di sol maggiore), alla battuta 12 il do#, sensibile di re minore. L’accordo della batt. 12, formato dalle note do#-mi-sol-sib, è una settima diminuita(v. intervallo) che tiene alta la tensione modulante: il passaggio repentino al do maggiore, dove è subito posto un altro accordo di settima diminuita (batt. 14), placa la tensione solo dopo che sarà avvenuta una cadenza perfetta, poche battute più avanti (qui non riprodotte).

Altri tipi di modulazione prevedono salti improvvisi da un accordo in una tonalità ad un altro in una nuova tonalità (tali modulazioni implicano che almeno una nota

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dell’accordo modulante sia comune alle due tonalità, e sono spesso accompagnate da una alterazione cromatica); un’altra tipologia di modulazione sfrutta le note enarmoniche (che hanno nome diverso ma identica altezza, come fa diesis e sol bemolle) per introdurre la nuova tonalità. Un ulteriore metodo per passare a tonalità lontane è l’impiego della progressione modulante, cioè un passaggio costruito come successione di cadenze in tonalità diverse, fino a raggiungere la tonalità desiderata.

Il Basso Continuo o Numerato

Un metodo di notazione sviluppato in età barocca per indicare l’armonia base di una linea melodica è il basso continuo, o numerato. Questo sistema è abbastanza simile a quello oggi impiegato per indicare il ‘giro’ di accordi nelle partiture della musica leggera che riportano la sola linea del canto. Si tratta dell’indicazione di un numero posto sopra la nota segnalata in chiave (generalmente in chiave di basso) che indica l’intervallo formato dalla nota stessa con quella da inserire nell’accordo (3=terza; 4=quarta; 7=settima), evitando di cifrare le note complementari dell’accordo stesso. Questo sistema consente all’accompagnatore di improvvisare negli abbellimenti e nelle ornamentazioni, pur mantenendosi ligio all’ossatura armonica indicata dal basso e dalla cifratura.

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ARMONIA MUSICALE Molti dimenticano che la tecnologia musicale offre strumenti per manipolare le informazioni musicali costituenti uno dei linguaggi più complessi che l’uomo è riuscito a formulare. Come ogni linguaggio anche quello musicale si basa sulla correlazione tra semantica (significato) e sintassi (regole). Approfitto della richiesta di alcuni lettori del blog per iniziare da oggi la scrittura di alcuni articoli dedicati ad argomenti musicali di carattere teorico. Sicuramente esistono trattati più esaurienti in materia, ben conosciuti a chi studia musica e pertanto consiglio a chi volesse approfondire lo studio di dare un’occhiata all’elenco di libri che collocherò a conclusione di questo iter. Buona lettura e ben vengano suggerimenti e critiche. La Musica è un’arte che deriva dalla successione ritmica dei suoni, della melodia e della loro combinazione simultanea. Sia che questi suoni giungano al nostro orecchio successivamente o simultaneamente, vengono a trovarsi tra loro in determinati rapporti. Gli elementi costitutivi della musica pertanto sono la melodia, il ritmo, l’armonia. Per melodia si intende la successione di più suoni di differente altezza e durata. Il ritmo è determinato dal rapporto di tempo intercorrente tra i vari suoni percepiti successivamente dal nostro orecchio. L’Armonia è la scienza e l’arte che studia la genesi e la concatenazione degli accordi. La melodia e l’armonia hanno un’origine comune, le stesse tendenze e la stessa importanza. Unendo simultaneamente i suoni di cui è formata una melodia si possono formare successioni armoniche e dalla disposizione successiva e simmetrica dei suoni che compongono gli accordi si può ricavare una melodia.

L’armonia viene ripartita in 3 generi: diatonica, cromatica, enarmonica. L’armonia diatonica si basa sui modi maggiore e minore e studia gli accordi consonanti e tutti quelli dissonanti di 3, 4, 5, 6, 7 suoni. L’armonia cromatica si occupa delle alterazioni di uno o più suoni negli accordi diatonici. L’armonia enarmonica si occupa del vario aspetto sotto il quale può essere considerato uno stesso suono o uno stesso accordo. In altri termini è la sostituzione di un accordo mediante un altro omofono ma non omologo, cioè avente gli stessi suoni

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ma non lo stesso nome. Tale sostituzione cambiando l’essenza dell’accordo produce risoluzioni impreviste che portano in tonalità lontane da quella di partenza. L’elemento base dell’armonia è l’intervallo che rappresenta la distanza tra due suoni. Nel nostro sistema temperato l’ottava giusta è divisa in 12 parti uguali chiamati semitoni che possono essere di due specie:

§ semitono cromatico, quello che passa tra due suoni aventi lo stesso nome

§ semitono diatonico, quello che passa tra due suoni aventi nome differente

L’unione di due semitoni di diversa specie (uno cromatico e l’altro diatonico o viceversa) forma il tono.

Gli intervalli possono essere di due specie:

1. intervallo melodico: i due suoni vengono emessi in successione 2. intervallo armonico: i due suoni vengono emessi contemporaneamente

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L’intervallo è costituito da suoni tratti dalla scala. La scala è una successione di suoni procedenti per grado congiunto i quali si trovano in determinati rapporti di distanza con un suono base che serve come punto di partenza e che viene denominato tonica. I suoni costituenti la scala vengono chiamati gradi della scala. La scala può essere di due specie: § scala diatonica: si ha quando la scala procede per toni e semitoni che si alternano

secondo un ordine prestabilito. La scala diatonica può essere maggiore o minore.

§ Scala cromatica: si ha quando la scala procede per soli semitoni, sia diatonici che cromatici e può svolgersi sia in senso ascendente che discendente.

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La scala cromatica può salire o scendere sia per diesis che per bemolli indifferentemente.

I sette suoni della scala diatonica sono chiamati gradi della scala e generalmente vengono indicati con i numeri romani. Essi sono: tonica, sopratonica, mediante (o nota caratteristica), sottodominante, dominante, sopradominante, sensibile.

Si parla di sensibile quando la distanza tra il settimo grado e la tonica è pari ad un semitono. Quando tale distanza è un tono il VII grado viene chiamato VII grado minore. A seconda del differente criterio con il quale vengono considerati, gli intervalli possono distinguersi in diatonici, cromatici, consonanti, dissonanti, enarmonici. Gli intervalli diatonici sono quelli formati da due suoni appartenenti a una scala diatonica la cui tonica è rappresentata dal più basso dei due suoni che formano l’intervallo.

Gli intervalli cromatici sono quelli formati da due suoni di cui quello inferiore viene considerato come tonica di una scala diatonica e quello superiore, non rientrando fra i suoni di quella scala perché alterato, viene considerato come se facesse parte di una scala cromatica.

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Il nome di un intervallo è diviso in due parti: terza maggiore. La prima parte si trova contando il numero di note costituenti l’intervallo (do-mi è una terza per via delle note do-re-mi) mentre la seconda parte è determinata mediante un confronto con la scala maggiore formata a partire dalla nota più grave costituente l’intervallo. A seconda della distanza calcolata soltanto in gradi, l’intervallo viene denominato di seconda, terza, quarta, quinta, sesta, settima, ottava.

Se l’ampiezza di un intervallo non supera l’ottava l’intervallo viene definito semplicemente in caso contrario composto. Gli intervalli consonanti sono quelli che danno l’idea di riposo producendo un’impressione di suoni che stanno bene insieme e che riescono gradevoli all’orecchio. Gli intervalli consonanti sono: § unisono § terza maggiore § terza minore § quarta giusta § quinta giusta § sesta maggiore § sesta minore § ottava

Gli intervalli dissonanti sono quelli che danno l’idea di movimento. Sono tutti quelli non compresi tra i consonanti: § seconda § settima (di qualsiasi specie) § intervalli aumentati § intervalli diminuiti

La cosiddetta risoluzione di un intervallo dissonante consiste nel passare da un intervallo dissonante ad un altro intervallo consonante.

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Gli Intervalli enarmonici sono quelli che pur differendo tra loro per il diverso nome con il quale vengono chiamati i suoni che li compongono costituiscono in realtà gli stessi suoni.

Il rivolto di un intervallo consiste nell’invertire l’ordine dei suoni che lo compongono. Indicando gli intervalli compresi nell’ottava con una serie di numeri (da 1 a 8) e il rispettivo rivolto con un’altra serie di numeri inversa (da 8 a 1), sovrapponendo le due serie avremo che la somma dell’intervallo e del rispettivo rivolto darà sempre il numero 9.

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Nell’intervallo rivoltato oltre che cambiare il numero dei gradi intermedi cambia anche il numero dei toni e dei semitoni e quindi anche il nome.

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• Gli intervalli maggiori rivoltati diventano minori e viceversa. • Gli intervalli eccedenti rivoltati diventano diminuiti e viceversa. • Gli intervalli giusti rivoltati rimangono tali.

Per effetto del sistema temperato avviene spesso che suonando al pianoforte due intervalli diversi sulla carta essi risultano uguali: per esempio la seconda eccedente e la terza minore. In questi casi si dice che un intervallo è l’equivalente armonico dell’altro. Anche le singole note possono essere equivalenti enarmonici (Fa# e Solb) come anche le tonalità (RebM e Do#M). L’accordo è la combinazione di due o più intervalli armonici. Ognuno dei suoni di cui è formato prende il nome di parte. Il nome più basso prende il nome di nota fondamentale o basso fondamentale. Nel caso dei rivolti, quando la nota fondamentale si trova in una delle parti superiori piuttosto che in quella più grave, la nota che è nel basso è chiamata nota del basso. Se l’accordo è allo stato fondamentale la nota del basso e la fondamentale dell’accordo sono costituite dalla stessa nota. Gli accordi si distinguono in varie categorie a seconda del criterio con il quale vengono considerati ovvero relativamente al numero di suoni che li compongono oppure alla specie degli intervalli di cui sono formati. A seconda del numero di suoni di cui sono composti si possono avere accordi di 3, 4, 5, 6, 7 suoni. Nell’armonia tonale e modale l’accordo è generato dalla sovrapposizione di terze successive su una nota base; le terze possono essere al massimo sei.

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A seconda della specie degli intervalli di cui sono composti gli accordi si distinguono in diatonici, cromatici, consonanti, dissonanti.

Gli accordi diatonici sono quelli formati di tutti intervalli diatonici.

Gli accordi cromatici sono quelli formati di uno o più intervalli cromatici.

Gli accordi consonanti sono quelli formati di tutti gli intervalli consonanti.

Gli accordi dissonanti sono quelli formati di uno o più intervalli dissonanti.

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TONALITÀ

Nella musica popolare (popular music) e “di consumo”, e in quella che usiamo chiamare musica classica (includendovi una fetta sostanziale della musica barocca e romantica), ogni brano è composto in base al sistema tonale, cioè a partire da un sistema di regole compositive centrate sulla relazione gerarchica fra le altezze delle note di una scala musicale diatonica rispetto alla tonica della scala stessa, che funge da nota fondamentale e centro di convergenza di quel particolare brano. In questo senso, in realtà, dovremmo dire che è “tonale” non solo la musica propriamente tonale, ma ogni composizione che ruota intorno ad un suono principale di riferimento, da cui si origina una scala o un sistema organizzato di suoni, quali i modi ecclesiastici e medievali, i raga indiani o i maqam arabi (Modalità). D’altro canto, nella tradizione musicale occidentale, l’aggettivo “tonale” è spesso utilizzato in contrapposizione con “modale” e “atonale” stabilendo così una netta (e fin troppo schematica) divisione storica tra la musica pre-tonale (fino al 1600), tonale (dal 1600 al 1900) e post-tonale. Tale distinzione concepisce il sistema tonale come un tronco principale nell’evoluzione del linguaggio musicale e gli attribuisce un valore normativo rispetto a quanto lo precede e gli succede. Il sistema tonale è basato su due modi (o generi di scale), maggiore e minore che, con le rispettive caratteristiche musicali ed espressive e la valorizzazione dei molteplici rapporti armonici tra le note della scala, mettono in atto una complessa rete di relazioni lineari e polifoniche in cui la melodia sfrutta il potenziale di tensione o di appagamento offerto da ogni singola nota, ma in contemporanea interagisce con il potenziale di tensione o di appagamento offerto dal contesto armonico, ossia dalla successione di accordi che la sottende. Lo sviluppo storico dell’armonia tonale nel suo rapporto con l’evoluzione della prassi compositiva è sinteticamente inquadrato alla voce armonia, mentre qui sono delineati il concetto di tonalità nelle sue basilari strutture (l’accordo, la distinzione fra tonalità di modo maggiore e minore, la costruzione delle tonalità) e le tecniche fondamentali per la conduzione dell’armonia tonale (relazione funzionale fra gli accordi, cadenza e modulazione). Accordi e triadi L’accordo è un insieme di almeno tre note suonate contemporaneamente. L’accordo di tre note, o triade, è il primo fondamento della musica tonale poiché assume un significato specifico e individuale all’interno della scala diatonica di riferimento. Come ricordato alla voce intervallo, l’intervallo di quinta giusta è un intervallo ’perfetto’ e naturale. Se i due suoni che lo formano sono eseguiti in contemporanea, però, la sonorità risultante risulta ‘vuota’ per la nostra sensibilità musicale, come potremmo facilmente sperimentare suonando al pianoforte una successione di quinte parallele,

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così estranea al gusto tonale che è tassativamente vietata dalle regole dell’armonia (naturalmente ciò vale come principio, la cui validità è garantita dalla possibilità dell’eccezione). La diade (due suoni simultanei) di quinta manca infatti di un costituente essenziale della musica tonale: l’intervallo di terza. L’introduzione di una nota intermedia collocata ad intervallo di terza da entrambi i suoni della diade, rende completa armonicamente la sonorità risultante: nel caso dell’esempio seguente la triade do-mi-sol è formata da una terza maggiore (do-mi) ed una terza minore (mi-sol); mentre gli estremi della triade (do-sol) sono ad intervallo di quinta giusta, come specificato alla voce intervallo. L’accordo fondamentale in un contesto musicale tonale è la triade che si costruisce sulla nota generatrice della scala. Per semplicità ci riferiamo alla scala di do maggiore, per cui la triade maggiore costruita sulla fondamentale è l’esempio canonico dell’accordo perfetto maggiore. Nella tonalità minore la triade di tonica è invece una triade minore, cioè formata da una terza minore più una terza maggiore; nella tonalità di do minore, ad esempio, la triade minore di tonica è do-mib-sol, che è un accordo perfetto minore:

Le due triadi sono composte dalla tonica della scala (do), dalla modale della scala (mi per la scala maggiore, mib per la scala minore) e dalla nota detta dominante (sol). L’accordo si legge partendo dalla nota più bassa alla più alta: do-mi-sol. Procedendo di grado in grado lungo la scala diatonica, è possibile costruire una successione di triadi: tale successione definisce sette diversi accordi, uno per ciascun grado della scala (nell’immagine che segue si è aggiunto l’accordo di tonica all’ottava superiore), che, impiegati secondo le regole dell’armonia, costituiscono la dimensione ‘verticale’ della musica tonale. Comporre un brano nella tonalità di do maggiore significa impiegare le note della scala di do maggiore e gli accordi costruibili su di esse in modo coerente.

triadi di: --tonica--sopratonica--modale--sottodominante--dominante--sopradominante--sensibile--tonica--

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La successione di triadi che definisce la tonalità di do maggiore può essere trasportata su qualsiasi altro grado della scala cromatica, cioè della gamma dei suoni. Ad esempio, le triadi rappresentate nella figura seguente riproducono la stessa successione di triadi della scala di do maggiore, partendo però dalla nota sol, ma affinché ciò avvenga è stato necessario alterare, in questo caso diesizzare, il fa. La successione è relativa alla tonalità di sol maggiore:

Tonalità di modo maggiore e minore

Dal punto di vista dell’armonia musicale tonale si distinguono due modalità, cioè due tipologie di scale diatoniche: maggiore e minore. Ogni scala maggiore ha una relativa minore collocata ad un intervallo di terza minore discendente dalla tonica; cioè: gli stessi suoni usati per la scala maggiore costruiscono anche una scala minore che inizia 2 toni + 1 semitono sotto la tonica (v. intervallo). La scala maggiore si differenzia dalla minore solo per la posizione di tre gradi, il terzo, il sesto e il settimo, rispetto alla tonica della scala, come specificato alla voce scala. La relativa minore della tonalità di do maggiore è dunque la tonalità di la minore (la nota la è a distanza di una terza minore nella successione discendente do-si-la), anch’essa, come la tonalità di do maggiore, non prevede alterazioni (diesis o bemolli). Il seguente schema indica la successione di triadi nella tonalità di la minore:

Poiché i suoni del sistema temperato sono 12, altrettante sono le scale maggiori e altrettante le minori. Conseguentemente, il panorama delle tonalità risulta essere di 24: 12 maggiori e 12 minori, la cui determinazione è data da un numero crescente di note alterate (cioè diesizzate o bemollizzate) da introdurre per generare la scala, secondo una successione chiamata circolo delle quinte, come specificato più avanti). Le alterazioni corrispondono ovviamente alle note diesis o bemolle della scala musicale impiegata, e poiché gli stessi suoni entrano a far parte tanto di una scala maggiore che della relativa minore, solo l’andamento del brano permetterà di capire quale delle due tonalità è impiegata. In relazione all’impiego delle tonalità minori, occorre specificare che per creare l’effetto di risoluzione nella cadenza dominante-tonica (come più avanti specificato) è necessario alterare di un semitono la sensibile della scala. Infatti, nella

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scala minore naturale (v. scala) la distanza sensibile-tonica è di un tono intero, cosa che annulla l’effetto di tensione nell’impiego dell’accordo di dominante.

La definizione delle 24 tonalità

Come è stato sopra specificato, le scale musicali diatoniche sono all’origine del sistema di accordi che definisce il contesto tonale, in quanto su ogni grado della scala è costruita una triade che si pone in specifica relazione con le altri triadi della scala, e la sequenza risultante di accordi è trasportabile su qualsiasi grado della gamma dei suoni: scegliendo infatti una nuova scala diatonica, è possibile costruire la stessa sequenza di triadi a partire dalla tonica della nuova scala. Le triadi così organizzate assumeranno nella nuova scala le stesse denominazioni; in tal modo, ad esempio, l’accordo sol-si-re che nella tonalità di do maggiore è triade di dominante (V grado), nella tonalità di sol maggiore è triade di tonica (I grado), mentre nella tonalità di re maggiore è triade di sottodominante (IV grado), come possiamo vedere nell’esempio (si tenga presente lo stesso accordo nelle scale di do maggiore e sol maggiore sopra schematizzate):

Il principio per cui tonalità diverse condividono alcuni accordi è alla base del meccanismo della modulazione, come specificato più avanti. Gli esempi sopra proposti di successioni di triadi in tonalità di do, di sol e di re possono essere utili per evidenziare come le tre tonalità di differiscano per l’impiego di alcuni suoni della gamma. Ad esempio, la tonalità di do presenta tutti i suoni allo stato naturale, senza alterazioni, mentre la tonalità di sol maggiore, basata sulla scala di sol maggiore, necessita della presenza del fa# come grado sensibile e come suono di ogni accordo che contiene tale grado. La tonalità di re maggiore, a sua volta, differisce dalla tonalità di sol maggiore per l’aggiunta di un’ulteriore nota alterata nella scala (il do#). Poiché fra do (tonica della tonalità di do maggiore) e sol (tonica della tonalità di sol maggiore), e tra sol e re (tonica della tonalità di re maggiore) c’è la distanza di un intervallo di quinta giusta ascendente (v. intervallo), il passaggio fra le tonalità costruite su intervalli di quinta ascendente si caratterizza per l’aggiunta progressiva di un’alterazione nella scala. Questo meccanismo si chiama CIRCOLO DELLE QUINTE, ed è così schematizzabile:

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Come possiamo notare, la progressione per quinte ascendenti (partendo da do: sol, re, la, mi, si, fa#, do#, re#, la#, mi#, si#=do) determina la successione di 12 tonalità differenti: do, sol, re, la, mi, si, fa#, ... ciascuna posta una quinta sopra la precedente e caratterizzate dall’aggiunta progressiva di un #, fino a si#, che è tonalità omologa di do (cioè composta dagli stessi suoni, ma chiamati in modo differente). Guardando il circolo delle quinte, si noterà inoltre che la concatenazione di 12 tonalità si realizza anche attraverso l’inserimento progressivo di bemolli. In questo caso, però, si procede da do per quinte discendenti (partendo da do: fa, sib, mib, lab, reb, solb, dob, fab, sibb, mibb, labb, rebb=do). L’aggiunta di b nella progressione di tonalità si arresta ugualmente a 12, e tutte le tonalità costruite sono omologhe rispetto a quelle costruite aggiungendo diesis. L’insieme delle tonalità così delineate costituisce le 12 tonalità di modo maggiore del sistema tonale. Allo stesso modo è possibile costruire attraverso il circolo delle quinte la successione delle 12 tonalità di modo minore, ricordando che ogni tonalità maggiore ha una relativa minore che ha per tonica la nota posta una terza minore sotto la tonica della tonalità maggiore. Nella scrittura musicale la tonalità è indicata graficamente in partitura dal numero di alterazioni (diesis o bemolli) segnalate all’inizio del pentagramma, dopo la chiave musicale. La prassi prevede che si impieghino le tonalità che hanno un massimo di sette diesis e sette bemolle, questo per facilità di scrittura musicale (cioè per evitare le doppie alterazioni). Le tonalità minori hanno la stessa gamma di suoni in comune con le tonalità maggiori, dunque sono indicate in armatura di chiave con le stesse alterazioni. Ad esempio, come nessuna alterazione in armatura di chiave segnala tanto la tonalità di do maggiore che di la minore, così un fa diesis in armatura di chiave segnala tanto la tonalità di sol maggiore che di mi minore, e così via, secondo il seguente schema:

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Gerarchia di funzioni delle triadi All’interno di ciascuna tonalità si individuano quattro tipologie di triadi:

• triade maggiore: una terza maggiore e una terza minore • triade minore: una terza minore e una terza maggiore • triade diminuita: due terze minori • triade eccedente: due terze maggiori

La tipologia di triade su ogni grado della scala presenta gradi di maggiore o minore affinità con le altre triadi. Nella scala maggiore, in particolare, sono dette principali le triadi maggiori di: tonica (I grado) dominante (V grado) e sottodominante (IV grado), mentre sono secondarie le triadi minori di sopratonica (II grado), di mediante (III grado) e di sopradominante (VI grado). Infine è diminuita la triade sulla sensibile della scala (VII grado). I rapporti fra le triadi si configurano come rapporti di tensione-distensione armonica, che si inquadrano nel meccanismo della cadenza e della sua preparazione, come specificato più avanti. Nelle tonalità minori, però, c’è maggiore difficoltà ad assegnare alle triadi un’univoca funzione tonale. Ciò dipende dalla mancanza nella scala minore naturale della funzione di sensibile sul VII grado e dunque dalla mancata attribuzione di tensione cadenzale. Per ovviare a questo inconveniente, sono introdotte alterazioni sul VII grado (scala minore armonica) o sul VI e VII grado ascendente (scala minore melodica), come specificato alla voce scala. La cadenza La cadenza è una successione armonica che dà un senso di ‘risoluzione’ alla frase musicale. Nella sua forma detta ‘perfetta’ consiste nel passaggio dall’accordo di dominante, l’accordo costruito sul V grado della scala, all’accordo di tonica. L’accordo di dominante è indispensabile per la determinazione della tonalità di una composizione,

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perché la sua sonorità prefigura appunto un ritorno sull’accordo di tonica, cioè ‘tende’ alla tonica. Ciò accade in quanto l’accordo di dominante contiene due suoni essenziali all’identificazione della struttura tonale: la dominante e la sensibile della scala. Nel caso della tonalità di do maggiore l’accordo sul V grado è la triade sol-si-re. La nota dominante (il sol, quinto grado della scala di do), essendo ad intervallo di quinta dalla tonica è sommamente consonante con essa, dunque si ‘armonizza’ con la tonica, mentre la sensibile (il si, settimo grado della scala di do), essendo ad intervallo di semitono dalla tonica tende fortemente a ‘risolvere’ sulla tonica. La triade costruita sul quinto grado della scala risolve, si ‘chiarisce’, al momento in cui ad essa segue l’accordo di tonica. Tale risoluzione è la cadenza perfetta (V-I):

Questo basilare passaggio accordale (tonica-dominante-tonica) costituisce il percorso essenziale e minimo dell’armonia tonale, che garantisce acusticamente una successione di riposo-tensione-riposo.

Attorno a questo nucleo ruotano altri accordi e altre note, che arricchiscono il potenziale espressivo della musica. In particolare, il quarto grado della scala (il fa, nella scala di do) costruisce l’accordo di sottodominante (fa-la-do). Questo accordo spesso precede l’accordo di dominante, e dunque la cadenza. Anch’esso è formato da note estremamente significative: contiene la tonica della scala (do), la sottodominante (fa) e la sopra-dominante (la) che, come la nota modale (terzo grado), individua il modo della scala. Altre tipologie di cadenze oltre quella perfetta sono comunemente impiegate nella musica tonale. La cadenza plagale è il passaggio accordale sottodominante-tonica (IV-I), molto impiegato nella musica liturgica, specialmente nel modo minore.

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La cadenza evitata è il passaggio dominante-sopradominante (V-VI), che, come ben avvertibile all’udito, non ‘risolve’, ma lascia il discorso armonico sospeso:

il massimo effetto di sospensione e brusca interruzione si ha tuttavia con la cadenza interrotta, cioè con un arresto armonico sull’accordo di dominante. Accordi di più suoni, accordi alterati e dissonanze Mentre la triade è data dalla sovrapposizione di due terze, gli accordi con quattro note (tetriadi) sono dati dalla sovrapposizione di tre terze, e prendono il nome di accordo di settima, perché la quarta nota è ad intervallo di settima dalla fondamentale; analogamente, gli accordi di cinque note (pentiadi) sono accordi di nona , poiché il rapporto intervallare fra fondamentale e quinta nota dell’accordo è di nona. La particolarità di tali accordi sta nell’implicare una dissonanza fra la nota fondamentale dell’accordo e la quarta o quinta nota. Fra questi accordi il più frequentemente impiegato è l’accordo di settima di dominante. Nella tonalità di do maggiore: sol-si-re-fa. Altre tipologie di accordo prevedono l’alterazione cromatica di suoni, che, provocando una dissonanza, deve essere risolta sull’accordo successivo innalzando o abbassando di mezzo tono (risoluzione per grado congiunto). Fra queste tipologie di accordo, che

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nella musica tonale hanno per lo più funzione coloristica e dinamica, risulta assai usata la sesta napoletana (v. glossario), che si forma sulla sottodominante (IV grado) del modo minore usando la sesta minore invece che la quinta come terza nota dell’accordo. La sesta napoletana ‘risolve’ sulla dominante della tonalità (e dunque spesso prepara la cadenza perfetta). La modulazione L’accorgimento tecnico più interessante della musica tonale che garantisce varietà al discorso musicale è la modulazione, cioè il passaggio all’interno di uno stesso brano da una tonalità all’altra. Questo espediente consente infatti al compositore di muoversi nella gamma dei suoni con estrema libertà, arricchendo la sua ‘tavolozza’ armonica e melodica di infinite sfumature, e tuttavia rimanendo ancorato al principio unitario del ‘ritorno’ alla tonalità di riferimento. Il principio della modulazione si basa sull’affinità fra due tonalità, quella di partenza e quella di arrivo, affinità determinata dal numero di accordi che esse hanno in comune. Ad esempio, la tonalità di do maggiore ha numerosi accordi in comune con la tonalità di sol maggiore, come sopra specificato. Le due tonalità si chiamano vicine e, sfruttando uno di questi accordi come ‘ponte’, è possibile modulare dall’una all’altra, e l’avvenuta modulazione sarà affermata da una cadenza nella nuova tonalità. Questo procedimento si dice modulazione diatonica. Un esempio di modulazione a tonalità vicine si può facilmente individuare nelle concatenazioni armoniche degli accordi arpeggiati (in cui le note sono suonate in successione) che attraversano tutto il Primo Preludio, in do maggiore, del primo volume del Clavicembalo ben temperato di Bach. Qui ogni accordo è ripetuto due volte all’interno di ciascuna battuta; alla successione di 15 battute corrisponde quindi una successione di 15 diversi accordi arpeggiati i quali delineano tre modulazioni: da do a sol, da sol a re (in realtà un passaggio modulante) e infine da re a do (tonalità che resta affermata fino alla battuta 19). Nello schema qui proposto è segnalato il numero della battuta e il grado dell’accordo nella rispettiva tonalità, senza tenere conto dei rivolti (cioè della disposizione delle note) nei quali gli accordi si presentano. La prima modulazione avviene alla battuta 5, (nella quale l’accordo la-do-mi, sesto grado di do maggiore, è considerato anche II grado di sol maggiore), la seconda alla batt. 11 (dove l’accordo sol-si-re, primo grado di sol è considerato IV grado di re minore) e la terza alla batt. 13 (dove l’accordo re-fa-la, I grado di re minore è considerato II grado di do maggiore).

1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 do I II V I VI do

II VII I

sol II V I IV II V I

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re IV VII I

Come si può osservare dalla partitura, l’avvenuta modulazione è confermata dalla presenza delle note alterate specifiche delle tonalità di approdo: alla battuta 6 il fa# (sensibile di sol maggiore), alla battuta 12 il do#, sensibile di re minore. L’accordo della batt. 12, formato dalle note do#-mi-sol-sib, è una settima diminuita che tiene alta la tensione modulante: il passaggio repentino al do maggiore, dove è subito posto un altro accordo di settima diminuita (batt. 14), placa la tensione solo dopo che sarà avvenuta una cadenza perfetta, poche battute più avanti (qui non riprodotte). Altri tipi di modulazione prevedono salti improvvisi da un accordo in una tonalità ad un altro in una nuova tonalità (tali modulazioni implicano che almeno una nota dell’accordo modulante sia comune alle due tonalità, e sono spesso accompagnate da una alterazione cromatica); un’altra tipologia di modulazione sfrutta le note enarmoniche (che hanno nome diverso ma identica altezza, come fa diesis e sol

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bemolle) per introdurre la nuova tonalità. Un ulteriore metodo per passare a tonalità lontane è l’impiego della progressione modulante, cioè un passaggio costruito come successione di cadenze in tonalità diverse, fino a raggiungere la tonalità desiderata. Il basso continuo o numerato Un metodo di notazione sviluppato in età barocca per indicare l’armonia base di una linea melodica è il basso continuo, o numerato. Questo sistema è abbastanza simile a quello oggi impiegato per indicare il ‘giro’ di accordi nelle partiture della musica leggera che riportano la sola linea del canto. Si tratta dell’indicazione di un numero posto sopra la nota segnalata in chiave (generalmente in chiave di basso) che indica l’intervallo formato dalla nota stessa con quella da inserire nell’accordo (3=terza; 4=quarta; 7=settima), evitando di cifrare le note complementari dell’accordo stesso. Questo sistema consente all’accompagnatore di improvvisare negli abbellimenti e nelle ornamentazioni, pur mantenendosi ligio all’ossatura armonica indicata dal basso e dalla cifratura.

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INTERVALLO

Il primo e fondamentale elemento musicale determinato dalle qualità relative all’altezza dei suoni è l’intervallo. Gli intervalli sono i costituenti elementari e la materia prima di ogni composizione musicale, in quanto definiscono la reciproca relazione fra due note della scala o del modo impiegato in quella composizione.

Intervallo

I suoni si differenziano l’un l’altro in altezza, cioè sulla base della differenza di acutezza o gravità, come specificato alla voce suono. La differenza in altezza fra due suoni si chiama intervallo, e l’intervallo determina quindi il percorso, ascendente oppure discendente, da compiere per passare dall’uno all’altro suono. Nella musica occidentale, fin dall’età medievale, ogni modo, scala e accordo (v. tonalità) sono definiti dagli intervalli che intercorrono fra i loro suoni consecutivi.

La definizione dell’intervallo come distanza fra due note ha un significato assoluto: sul pianoforte, per esempio, la distanza do-mi è sempre una terza maggiore, in qualunque punto della tastiera si scelga di suonarla. Gli intervalli fondamentali, punto di riferimento del moderno linguaggio musicale sono due: l’unisono e l’ottava.

Unisono

Come dice il nome, unisono è l’uguaglianza in altezza fra due suoni: propriamente parlando, esso non è un intervallo, poiché le frequenze dei due suoni sono identiche. Supponiamo che due voci femminili intonino una nota della medesima altezza, ad esempio il suono la3 a 440Hz di frequenza. Le due voci intonano in unisono, cioè emettono lo stesso suono:

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Ottava

Anche l’intervallo di ottava è relativo alla distanza fra due suoni uguali, di cui però uno è più grave e l’altro più acuto, cioè prodotto da vibrazioni di frequenza doppia. Supponiamo che un uomo cerchi di intonare la stessa nota prima intonata dalle due voci femminili: probabilmente non ci riuscirà, risultando il suono troppo acuto per una voce maschile, mentre la stessa nota gli risulterà agevole all’ottava inferiore. Egli intonerà dunque il la2, pari ad una frequenza di 220hz. Ogni suono ha quindi una frequenza doppia rispetto al medesimo suono all’ottava inferiore (la3=440hz; la2=220hz) mentre la sua frequenza sarà la metà della frequenza dello stesso suono all’ottava superiore (la4=880hz).

La2 a 220 Hz.....

La3 a 440 Hz.....

La4 a 880 Hz.....

Nella cultura musicale occidentale l’intervallo fra due suoni di cui uno ha frequenza doppia dell’altro si chiama intervallo di ottava. Questo stesso intervallo nell’antichità veniva chiamato diapason (naturalmente da non confondere con l’omonimo strumento per l’accordatura. Diapason significa infatti in greco ‘per mezzo di tutte le corde’ (dia-pason, sottinteso chordon), e vuol dire che gli estremi dell’intervallo, il suono base e quello ‘doppio’, racchiudono tutti gli altri suoni di altezza intermedia. Potenzialmente vi sono numerosi suoni di altezza intermedia fra un suono e il suo ’doppio’, ma la teoria musicale occidentale e l’evoluzione della prassi compositiva hanno colmato la distanza con una successione di sette suoni per cui il ’doppio’ rispetto a quello di partenza è l’ottavo suono della successione. Questa successione di sette suoni è la scala musicale diatonica, che nella disposizione più conosciuta

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corrisponde alla sequenza delle note do, re, mi, fa, sol, la, si, do (i tasti bianchi della tastiera che intercorrono fra un do e il do successivo).

Gli Intervalli nella Scala Diatonica

Questa panoramica degli intervalli musicali impiegati nel sistema musicale occidentale si basa sulla individuazione di ciascuna tipologia di intervallo all’interno di un’ottava di riferimento (do3 - do4). Come è messo a fuoco alla voce scala, la successione di sette suoni che copre l’intervallo di ottava (do3 - do4, nel nostro esempio) compone la scala diatonica corrispondente ai tasti bianchi della tastiera sotto raffigurata. Le note che individuano i sette suoni sono: do - re - mi - fa- sol - la - si - (do4).

Il Semitono e il Tono

Prima di definire le varie tipologie di intervallo è opportuno introdurre l’intervallo di semitono e di tono, a partire dai quali sono computati gli altri intervalli musicali. La barra colorata nella figura precedente, riprodotta anche nella figura che segue, indica gli intervalli di semitono compresi all’interno di una ottava, e corrispondenti ai tasti che intercorrono fra gli estremi della stessa ottava do3-do4 (ma lo stesso vale per qualsiasi altra ottava). La distanza di ottava è coperta sempre da 12 semitoni (12 tasti), e il semitono è l’intervallo più piccolo che distanzia un suono dal successivo e dal precedente. La distanza di un semitono è la differenza più piccola in altezza chiaramente avvertibile al nostro udito. Molte altre culture musicali e repertori di canto popolare impiegano intervalli inferiori al semitono, che però il sistema temperato (usato per l’accordatura degli strumenti di tradizione occidentale) non contempla. Questa è la successione di semitoni, con relativa nomenclatura, nella scala

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diatonica do-re-mi-fa-sol-la-si-do, ricordando che il simbolo # (diesis) innalza la nota di 1 semitono, mentre il simbolo b (bemolle) la abbassa di 1 semitono, così che do# equivale in altezza a reb, re# a mib e così via:

Osservando la barra dei semitoni, notiamo che l’intervallo che separa le note contigue della scala diatonica non è sempre identico. Fra do e re c’è infatti la distanza di 2 semitoni, cioè di un tono (nella tastiera le due note sono infatti separate dal tasto nero, che corrisponde alla nota do#/reb), mentre fra mi e fa c’è la distanza di 1 semitono (non essendoci un tasto nero fra i due). La successione di intervalli nella scala diatonica è dunque: tono, tono, semitono, tono, tono, tono, semitono = 12 semitoni.

Occorre specificare che gli intervalli sono ascendenti se la prima nota è più bassa della seconda, discendenti se la prima nota è più alta; e che due intervalli sono complementari se sommati insieme equivalgono all’intervallo di ottava. Inoltre, per dare il nome agli intervalli si immagina di percorrere la distanza che, all’interno della scala, ne separa gli estremi, e si contano le note che vi sono contenute più gli estremi stessi. Ad esempio do-sol è intervallo di quinta (infatti contiene le note do-re-mi-fa-sol) ascendente, mentre do-sol discendente è una quarta (do-si-la-sol); questi due intervalli sono complementari:

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Il prospetto complessivo degli intervalli costruiti sulla scala diatonica nell’ambito di una ottava è rappresentato nel seguente schema. Gli intervalli sono di seconda, terza, quarta, quinta, sesta e settima che si dividono in cinque tipologie: giusti, maggiori, minori, aumentati e diminuiti. Gli intervalli superiori all’ottava si identificano continuando a contare in progressione. Per esempio, poiché: do3 - re3 è una seconda maggiore, do3 - re4 è una ottava più una seconda maggiore, cioè una nona maggiore. Analogamente, do3 - mi4 è una decima maggiore, e così via.

Intervalli Minori

Ottava

La distanza di ottava giusta, come sopra specificato, copre tutta la gamma dei suoni: due suoni che distano in altezza 12 semitoni l’uno dall’altro sono quindi fra loro in intervallo di ottava. Questa stessa distanza, riferita alla scala diatonica, è di 5 toni + 2 semitoni. L’intervallo di ottava è un mero raddoppio della voce, come specificato sopra, in quanto i due suoni sono identici, anche se collocati ad un diverso registro. Nella musica occidentale l’intervallo di ottava è stato insieme alla quinta e alla quarta giuste il primo intervallo impiegato in successioni parallele per le prime forme di canto polifonico. Ottave, quinte e quarte sono considerati intervalli perfetti o, nel linguaggio musicale corrente, giusti in virtù della loro determinazione matematica, come specificato più avanti. L’intervallo di ottava è universalmente impiegato nella musica, non solo nel raddoppio del suono degli strumenti e della voce, ma anche per la sua efficacia espressiva. Nel Trovatore di Verdi, ad esempio, Leonora e Manrico, innamorati, cantano in ottava intonando testi diversi nel terzetto “Un istante almen/Del superbo” contrapponendo la loro voce ‘unisona’ alla voce del Conte di Luna, loro antagonista.

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Quarta

L’intervallo di quarta giusta si compone di 2 toni + 1 semitono. Quarta e quinta sono intervalli complementari, in quanto, sommati, danno l’ottava. La quarta giusta è tra gli intervalli più popolari della musica. Tante famose melodie iniziano con un intervallo di quarta ascendente nel contesto della musica tonale, perché evoca in maniera esplicita la cadenza dominante-tonica, dunque è uno slancio che approda al suo naturale punto di riposo. Molti inni nazionali e canti di lotta iniziano con l’incitamento di una quarta. Ma la quarta può anche invitare a procedere col grave passo di una marcia, come ad esempio nella Marcia funebre della Terza Sinfonia (Eroica) di Beethoven. La quarta ascendente più famosa della letteratura musicale è quella che dà l’attacco alla Marcia Trionfale dell’Aida di Verdi.

Quinta

L’intervallo di quinta giusta si compone di 3 toni + 1 semitono. L’intervallo di quinta costituisce la distanza fra i due estremi degli accordi maggiori e minori. Suonata simultaneamente crea un senso di vuoto e incertezza tonale, come ad esempio nell’ultimo, desolato Lied Der Leiermann (Il suonatore di organetto) della raccolta Winterreise (Viaggio d’inverno) di Schubert: la quinta alla mano sinistra del pianoforte – le note la e mi suonate in simultanea – fanno da sfondo a tutto il brano e ricordano l’uso popolare delle quinte di bordone.

Intervalli Maggiori e Minori

Terza

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L’intervallo di terza maggiore si compone di 2 toni, mentre quello di terza minore è dato da 1 tono + 1 semitono. La terza maggiore o minore definisce il modo della tonalità. La terza è infatti l’intervallo fondamentale nella costruzione degli accordi: la terza maggiore e la terza minore, messe una sopra l’altra in modo da realizzare una quinta giusta, formano l’accordo perfetto maggiore, mentre la terza minore più la terza maggiore formano l’accordo perfetto minore. L’intervallo di terza è il più piccolo salto melodico, ed è un approdo naturale della voce; la sua forza espressiva può essere colta, ad esempio, ascoltando il secondo tema del secondo movimento della Sinfonia Incompiuta di Schubert: una stupenda melodia del clarinetto, esempio eloquente, anche per il corredo armonico che Schubert le fornisce, della dolcezza posseduta dalle terze (quattro in successione, di cui la prima, minore, dà il modo). I due più famosi intervalli discendenti di terza, la prima maggiore la seconda minore, sono quelli che aprono la Quinta Sinfonia di Beethoven.

Sesta

L’intervallo di sesta maggiore si compone di 4 toni + 1 semitono, mentre quello di sesta minore è dato da 4 toni. Terze e seste sono intervalli complementari, perché una terza più una sesta portano all’intervallo di ottava. L’intervallo di sesta è l’intervallo più ampio che sia privo di un carattere di tensione. Per la sua cantabilità espansiva la sesta maggiore ascendente si ritrova in molti passi operistici, anche di impronta espressiva completamente diversa. E’, fra i tanti esempi possibili, l’intervallo di apertura del celebre coro “Libiam nei lieti calici”, della Traviata di Verdi, mentre Mozart, nelle Nozze di Figaro, lo impiega abilmente nell’aria “Contessa perdono” per sottolineare la riconciliazione che riunisce i i personaggi nel finale. Un’apertura melodica con intervallo di sesta minore è invece nel celeberrimo “Lacrimosa” del Requiem di Mozart.

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Seconda

L’intervallo di seconda maggiore è di 1 tono, mentre quello di seconda minore ha l’ampiezza di 1 semitono. L’intervallo di seconda è il minimo movimento melodico possibile in quanto lega due note vicine nella scala, e per questo è l’intervallo più frequente nella maggioranza delle melodie. Il celeberrimo Inno alla gioia della Nona Sinfonia di Beethoven è uno degli esempi più efficaci di impiego di intervalli di seconda. Di tutt’altro tenore, invece, è lo stillicidio della seconda, minore e maggiore, che in molti esempi del repertorio musicale barocco offre l’immagine del sospiro e del singhiozzo, come superbamente espresso nell’Aria “Blute nur” (Sanguina mio cuore) dalla Passione secondo Matteo di Bach.

Settima

L’intervallo di settima maggiore è di 5 toni + 1 semitono, mentre quello di settima minore ha l’ampiezza di 5 toni. Settime e seconde sono intervalli complementari.

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L’intervallo di settima, il più ampio degli intervalli contenuti entro l’ottava, è carico di tensione: dissonante e difficile da intonare, nella musica tonale appare raramente al principio di una melodia; è infatti una dissonanza che deve essere risolta, facendola seguire da una consonanza. Una settima maggiore ascendente, ad esempio, apre l’aria “O terra addio” con cui si chiude l’Aida. Nel caso della settima maggiore ascendente, poiché le manca solo un semitono per raggiungere l’ottava, la sua tensione si placa salendo di un semitono. La settima minore ascendente, invece, ha soltanto un semitono in più della sesta maggiore, e la sua tensione si risolve più spontaneamente scendendo di un semitono. In molta musica del Novecento la settima, come gli altri intervalli più dissonanti (seconda minore e tritono) si emancipa, affrancandosi dall’obbligo della risoluzione.

Intervalli Aumentati e Diminuiti

Se agli intervalli giusti – quarta quinta e ottava – e a quelli maggiori o minori si aggiunge (o si toglie) un semitono diventano eccedenti (o diminuiti). Fra questi intervalli, due risultano particolarmente significativi nel contesto della musica occidentale:

Quarta eccedente o tritono.

Questo intervallo copre 3 toni esatti: per questo è anche chiamato tritono, e nei trattati musicali “diabolus in musica”. Ha infatti una sonorità aspra e di difficile intonazione. La sua fama di ’intervallo maledetto’ lo ha reso adatto a suggerire contesti demonici, soprattutto nella musica dell’Ottocento. Nella musica del Novecento l’intervallo di quarta eccedente ha perso questa connotazione infernale e ne sono state esaltate

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alcune sue specifiche proprietà, fra cui quella di dividere l’ottava in due parti esattamente uguali (è l’unico intervallo che coincide con la propria inversione). Trattandosi di un intervallo in cui compare un numero intero di toni, il tritono è comune nella scala esatonale: ad esempio nella sequenza do–re–mi–fa#–sol#–la#–do tutte le quarte sono quarte eccedenti. Nella musica di Debussy il tritono compare con frequenza straordinaria, fra i tritoni più famosi, quello del celebre attacco del Prélude à l’Après-midi d’un Faune, riempito dall’arabesco del flauto.

Settima diminuita

Un caso particolare di settima è la settima diminuita, intervallo che contiene 4 toni +1 semitono, come la sesta maggiore, ma, impiegato nel contesto della musica tonale soprattutto come intervallo discendente, risulta un fondamentale ingrediente espressivo per segnalare eventi improvvisi, personaggi sinistri, situazioni di pathos, sorpresa, ansia, terrore. La settima diminuita si costruisce per sovrapposizione di tre terze minori: considerando la gamma dei 12 suoni, è possibile costruire solo 3 accordi differenti di settima diminuita. Ciascuno è comune a 4 tonalità (naturalmente tenendo presente i rivolti e i suoni omologhi). L’accordo di quattro suoni che ne scaturisce è dunque estremamente versatile, ed è ampiamente utilizzato nella modulazione verso tonalità lontane.

Rapporti Matematici degli Intervalli Come è stato sopra sottolineato, l’intervallo di ottava implica un rapporto di frequenza doppio fra i due suoni che compongono l’intervallo. Lo stesso rapporto si verifica facendo vibrare una corda, e poi facendone vibrare la metà esatta. Se il suono della corda che vibra liberamente ha, per ipotesi, 100 vibrazioni al secondo (100 hz), il suono dell’ottava superiore sarà di 200 vibrazioni al secondo (200 hz), e corrisponderà al suono della medesima corda trattenuta alla metà. Questo principio matematico basilare per la determinazione dell’ottava è presente in tutte le culture musicali, ma la prima indagine sistematica sulle proprietà matematiche dei suoni di cui abbiamo testimonianza si deve a Pitagora di Samo (VI-V secolo a.C.), al quale è attribuita l’invenzione del monocordo, uno strumento ad una sola corda con un

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ponticello regolabile in modo da dividere la corda in parti proporzionali, così da poter studiare più agevolmente i rapporti matematici intercorrenti fra suoni di altezza diversa. Nella figura qui riprodotta il principio del monocordo (divisione della corda in parti proporzionali) è applicato al grado di tensione di più corde di identica lunghezza, tese su una cassa di risonanza. Secondo i pitagorici, infatti, gli stessi rapporti matematici che si individuano nella determinazione delle altezze tramite divisione proporzionale della corda si dovrebbero ritrovare anche se corde uguali vengono tese con pesi differenti che rispettano le stesse proporzioni. Questi ‘esperimenti’ di matematica musicale furono ripresi e discussi in numerose trattati antichi e e medievali. L’illustrazione che segue è tratta dal frontespizio del trattato Theorica musice di Franchino Gaffurio (1480). I numeri che rappresentano i vari pesi definiscono i rapporti matematici semplici che intercorrono fra alcuni intervalli:

Se i pesi delle corde sono: 4 -- 6 -- 8 -- 9 -- 12 -- 16, avremo (dopo aver ridotto ai minimi termini le proporzioni) la seguente determinazione matematica degli intervalli ascendenti di:

ottava (diapason) = 1:2 (= 4:8, 6:12, 8:16)

quinta (diapente) = 2:3 (= 4:6, 8:12)

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quarta (diatessaron) = 3:4 (= 6:8)

tono (epogdoos) = 8:9 (che è anche la differenza fra 2:3 e 3:4; infatti: (2:3) : (3:4) = 8:9)

I pitagorici determinarono col sistema proporzionale anche il rapporto matematico di altri intervalli musicali oltre l’ottava (che chiamavano diapason): sono gli intervalli giusti, o perfetti, sopra esaminati, di quarta e di quinta e la loro differenza, il tono (ricordiamo che il sistema temperato moderno altera l’intonazione naturale di tutti gli intervalli, ad eccezione di quello di ottava, che resta nel rapporto doppio).

Oggi sappiamo che il suono della quinta coincide col terzo armonico: è dunque anch’esso, come l’ottava, un intervallo naturale. Anche gli intervalli di terza e sesta maggiore e minore furono determinati attraverso proporzioni matematiche, ma non essendo in rapporto sesquialtero (cioè tali che il numeratore e il denominatore si differenzino per una unità) non erano computabili fra le consonanze. Ottava, quinta, quarta, tono sono intervalli che si ritrovano in moltissime culture musicali. Si potrebbe dire che sono naturali punti di riferimento per la voce umana e per la costruzione e accordatura degli strumenti musicali. Averne determinato i valori matematici costituì dunque una scoperta fondamentale per la nascita della scienza acustica, che da allora fino alla rivoluzione scientifica galileiana, nel 1600, fu considerata una scienza matematica (mentre oggi l’acustica è una branca della fisica). Una particolarità da segnalare rispetto all’esperimento dei pesi: Vincenzo Galilei, padre di Galileo, musicista e teorico musicale, lo discusse nel suo Discorso sopra la musica antica et la moderna (1581), dimostrando che i rapporti fra i pesi dovrebbero essere quadrati rispetto ai rapporti delle lunghezze delle corde; affinché due corde uguali producano l’ottava è dunque necessario quadruplicare, e non raddoppiare, il peso di tensione dell’una rispetto all’altra.

Consonanze e Dissonanze

I termini consonanza e dissonanza rimandano alle qualità acustiche suscitate dall’incontro di due suoni di diversa altezza, siano essi in successione, come negli intervalli, siano essi in simultanea, come negli accordi. Le sensazioni di gradevolezza e consonanza o sgradevolezza cioè dissonanza fra suoni in realtà non dipendono dall’altezza in sé dei suoni, ma anche dai timbri, dalle dinamiche e soprattutto dalla natura della composizione, cioè dal sistema musicale di riferimento, dall’epoca e dalla circostanza nelle quali si colloca ogni creazione musicale. Insomma, consonanza e dissonanza sono parametri di giudizio storicamente determinatisi e profondamente diversi nelle varie epoche, culture e generi musicali. Come è stato sopra richiamato, la tradizione teorica pitagorica reputava consonanti solo gli intervalli giusti, in forza della loro determinazione matematico-proporzionale. Questo

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ha fatto sì che nella cultura occidentale la prassi nell’impiego delle combinazioni di suoni fosse subordinata (almeno nella musica colta, trasmessa per iscritto) ad un apparato teorico di riferimento. In età medievale, con lo sviluppo della polifonia, anche gli intervalli di terza e sesta cominciarono ad essere ritenuti consonanti, benché in modo ’imperfetto’. Fu solo alla metà del Cinquecento che l’imperfezione si emancipò, grazie alle teorie armoniche di Gioseffo Zarlino, il quale elaborò il principio del senario: tutti gli intervalli consonanti sono espressi attraverso proporzioni matematiche semplici, determinate dai primi sei numeri naturali: 1, 2, 3, 4, 5, 6. Fu dunque possibile annoverare fra le consonanze anche la terza maggiore (4/5), la terza minore (5/6), la sesta maggiore (3/5) e la sesta minore (5/8, il numero 8 sarebbe ’potenzialmente’ contenuto nel senario, secondo Zarlino). Il senario zarliniano è alla base della costruzione della scala naturale, impiegata nella teoria musicale fino all’affermarsi del sistema del temperamento equabile, ed il suo principio di sovrapposizione delle note per terze, fondamento delle aggregazioni accordali, fu il principio cardine dell’elaborazione teorica dell’armonia tonale.

Nell’Ottocento lo studio degli armonici ad opera del fisico Helmholtz portò al superamento della matematica delle consonanze e alla determinazione fisica della consonanza come fenomeno dovuto al numero di battimenti (le interferenze di onde sonore fra suoni di frequenza diversa) fra i suoni di un intervallo ed i rispettivi armonici. Questa fu una teoria ampiamente discussa, soprattutto per la sua incapacità di giustificare la consonanza all’interno del sistema temperato, dove tutti gli intervalli ad eccezione delle ottave sono alterati rispetto all’intonazione naturale, ma non per questo risultano sgradevoli. Nel linguaggio dell’armonia tonale sono consonanti gli intervalli giusti, le terze e le seste, mentre restano dissonanti le seconde e le settime e tutti gli intervalli alterati e diminuiti (e, di conseguenza, tutti gli accordi che contengono tali intervalli). Naturalmente, questo principio non è valido nella musica atonale e nella musica seriale nelle quali il concetto di consonanza, così come l’aggregazione per terze degli accordi, non ha significato strutturale.

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LA NASCITA DELLA NOTAZIONE RITMICA

Il ritmo musicale iniziò ad essere misurato in base a definiti valori temporali a partire dalla metà del secolo XII, e per un genere particolare di musica, nato dallo sviluppo del canto gregoriano: la musica polifonica liturgica. Gli enormi spazi delle cattedrali gotiche, costruite proprio a partire da quel secolo nell’Europa occidentale, furono il ricettacolo di una musica che si ampliava in tutte le dimensioni, tra le quali, specie nelle occasioni solenni, anche la ’dimensione verticale’. La dimensione verticale della musica è ciò che oggi definiamo polifonia, e consiste nella possibilità di intrecciare linee melodiche diverse secondo una logica armonica, cioè in modo tale che il risultato non sia un caos di voci, ma un insieme significativo musicalmente. La necessità di organizzare due o più linee melodiche in contemporanea implicò la necessità di elaborare un sistema che regolasse i ritmi di ciascuna in modo che potessero essere misurati secondo un parametro comune di riferimento, per permettere il loro reciproco ed esatto intreccio. Il ritmo, dunque, si svincolò dal suo stretto legame con la parola cantata per divenire elemento di coesione e organizzazione della costruzione polifonica.

Il nostro attuale sistema di notazione ritmica nacque e si sviluppò a partire da questa necessità, e, sviluppandosi, arricchì enormemente le possibilità creative della musica. Il primo compositore occidentale di cui abbiamo notizia fu proprio un maestro della Cattedrale di Notre Dame di Parigi, il Maestro Leonino, ricordato per la sua perizia nel comporre organa, i primi canti polifonici in notazione, che impiegavano un sistema particolare di notazione ritmica, chiamata modale e basata sulla combinazione fra le principali tipologie di metri classici e i valori musicali allora in uso (la longa e la brevis). Si aprì dunque, in sviluppi successivi e consolidandosi agli inizi del secolo XIV, la vastissima stagione della musica mensurata, la musica basata su un ritmo costruito a partire da valori multipli e sottomultipli di una data unità di tempo. Tali valori erano rappresentati dalla forma delle note, dalla presenza di aste e di code sulle aste. La misura di tempo era invece stabilita all’inizio del pentagramma attraverso una serie di simboli come il punto, il cerchio, il semicerchio: in sostanza, è il sistema attuale di rappresentazione ritmico/temporale della musica.

Valori di durata e nomi delle note e delle pause

Il sistema moderno di notazione ritmica prevede l’impiego di valori la cui durata relativa è fissata in modo univoco secondo sottomultipli di 2 (ma non è stato sempre così: nell’età medievale i valori perfetti di durata erano ternari, su base 3, in ragione della perfezione trinitaria). I valori sono organizzati in maniera fissa, che si avvale di simboli chiamati note (discendenti dagli antichi neumi) alle quali è abbinato un nome ed una durata relativa secondo lo schema seguente:

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Questa è l’ossatura che fissa in maniera inequivocabile il rapporto tempo/ritmo. Stabilito infatti un valore assoluto di durata per una nota, ad esempio una semibreve (4/4) dura quattro secondi, tutte le altre note, in forza del loro valore relativo, dovranno durare: due secondi la minima (in quanto vale 2/4, la metà del valore della semibreve), un secondo la semiminima (poiché vale 1/4 del valore della semibreve), mezzo secondo la croma (che vale 1/8 del valore della semibreve) e così via. Lo stesso principio vale anche per i valori di durata delle pause. La pausa è infatti il silenzio della musica, il momento in cui il suono si arresta nel fluire del tempo musicale ed esprimendo così un respiro, un’esitazione, la dinamica ritmica o la naturale conclusione di un brano. Dunque, anche la pausa deve essere misurata secondo lo stesso principio di misurazione di durata delle note.

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Oltre questi valori di durata di base, altri segni sono usati per rappresentare valori diversi. il punto di valore è un simbolo che, collocato a seguito della nota o della pausa, la aumenta di metà del suo valore, mentre la legatura di valore è una linea arcuata che lega due o più note della stessa altezza, in modo che l’unico suono risultante abbia il valore della loro somma. Ulteriore simbolo di valore è la corona, che permette all’esecutore di aumentare a piacere il suono cui si riferisce la corona. Questo simbolo in genere si trova alla fine del brano.

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Indicazioni di tempo

Come è stato segnalato alla voce tempo, il metro misura lo scorrere del tempo secondo una precisa periodicità. Quindi per avere un metro è necessario che, a intervalli regolari, una delle pulsazioni possegga un accento che la distingua dalle altre. Nel caso di un metro binario, si ha un accento ogni due pulsazioni. Nel caso di un metro ternario, un accento ogni tre pulsazioni. La battuta è l’unità metrica compresa fra due battiti accentati, e nei due casi conterrà rispettivamente due e tre pulsazioni, la prima delle quali accentata. La battuta è segnalata utilizzando stanghette verticali. Il brano finisce con una doppia stanghetta.

Nello schema seguente la misura di 4/4, indicata dopo il segno di chiave, determina la somma di valori da inserire in ciascuna battuta. In questo caso, ogni battuta è riempita con note dello stesso valore, alle quali corrisponde la rispettiva pausa. La frazione 4/4 indica quattro pulsazioni della durata di 1/4 ciascuna, ma tale valore complessivo si ottiene in musica utilizzando qualsivoglia fra i valori di durata delle note e delle pause:

Abbiamo osservato al paragrafo precedente che la nota musicale è il luogo che rappresenta graficamente il ritmo, mentre il pentagramma è il luogo che rappresenta non solo l’altezza della nota, ma anche il tempo musicale. La frazione posta all’inizio del pentagramma, subito dopo il segno di chiave, indica infatti i due fondamentali elementi temporali. Il numeratore indica se il battito, chiamato anche tactus, si presenta in gruppi ternari o binari (2, 3 o multipli dei due numeri). Il principio è che il

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primo battito è sempre accentato, ha un accento forte, mentre gli altri battiti hanno accenti più deboli. Il denominatore della frazione indica invece l’unità di misura, il valore / nota di un battito. Ad esempio: il tempo di 2/4, binario, è il tempo in cui in ogni battuta vengono scanditi due battiti di un quarto ciascuno, il primo battito con accento forte, il secondo battito con accento debole; il tempo di 3/4, ternario, è quello in cui la battuta racchiude tre battiti da un quarto ciascuno, con accenti forte, debole, debole, il tempo di 4/4 (indicato con il simbolo C), binario, prevede quattro battiti con accenti forte, debole, mezzo forte, debole:

Lo stesso principio si applica a tutti gli altri tempi, con denominatore in mezzi, ottavi, sedicesimi, etc. Occorre inoltre considerare che nelle misure ternarie l’unità di misura è suddivisa in gruppi di tre battiti di uguale valore. Gli esempi fin qui fatti si riferiscono a misure semplici, nelle quali l’unità di base (nell’esempio precedente il quarto) è suddivisa in modo binario. Nella musica sono però impiegate anche misure complesse, sia binarie che ternarie. Tali misure implicano che le note siano raggruppate per suddivisioni ternarie. Ad esempio, prendendo l’ottava come unità di misura, il tempo 3/8 è misura ternaria semplice, mentre 6/8 è una misura binaria composta, perché ogni battito racchiude tre ottavi. Per ottenere una divisione ternaria è utilizzato il punto, che, come ricordato, aumenta la nota di metà del suo valore. In sintesi, le misure binarie semplici hanno al numeratore 2 o 4, le ternarie semplici 3, le binarie composte 6 o 12, le ternarie composte 9. Nello schema seguente, partendo

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dalla ternaria semplice 3/8, sono indicate la binaria composta 6/8, la ternaria composta 9/8 e la binaria composta 12/8:

La scelta di un tempo binario o ternario, semplice o composto, indirizza la dinamica e la ritmica di un brano, ma vi sono numerose altre possibilità di variazione offerte dalla notazione musicale per creare effetti ternari in ritmo binario e viceversa. Le più frequentemente impiegate prevedono l’impiego di raggruppamenti di note, come ad esempio le terzine o le sestine, che rendono ternaria una divisione binaria di tempo:

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Altri espedienti che sono comunemente usati nella musica per alimentare il dialogo fra ritmo e tempo consistono nella sincope che dà rilievo a battiti non accentati privando di accento quelli forti, e nel contrattempo, prodotto dall’esecuzione di note accentate in tempo debole, mentre il battere è contraddistinto da pause.

La ricerca espressiva messa in atto nella musica, ed in particolare nella musica colta del Novecento, ha condotto, come ricordato alla voce tempo, all’elaborazione di costruzioni ritmiche e metriche enormemente complesse, giocate sulla irregolarità degli accenti e la sovrapposizione o giustapposizione di metri diversi. Queste particolari elaborazioni sono chiamate poliritmia. Un esempio magistrale in tal senso è il balletto la Sagra della Primavera, capolavoro del compositore russo Igor Stravinsky, nel quale il ritmo è elaborato con audacia e con varietà di tecniche inedite su tutti i piani del discorso musicale. L’assetto ritmico della Sagra è determinante non soltanto come motore, pulsione interna e scansione esterna del tempo, ma anche come veicolo di elaborazione tematica attraverso ingegnosi stratagemmi di ripetizione e variazione, sincronizzazione e sfasamenti, regolarità e irregolarità della battuta, spostamento di accenti ecc., nonché come elemento caratterizzante delle singole scene e delle loro distinte atmosfere.

Indicazioni di velocità

Fra le indicazioni che rientrano nella dinamica dei tempi e delle misure vi sono anche una serie di elementi segnalati all’inizio del brano. Anzitutto l’indicazione di metronomo. Il metronomo è uno strumento meccanico che fu brevettato a Parigi nel 1816 dal costruttore tedesco J. N. Mälzel. Esso permette di scandire il battito impostando un valore temporale assoluto per l’unità di misura del tempo: ovvero, se la frazione indica 4/4, l’indicazione di metronomo fornirà la durata temporale della nota da 1/4 (ad esempio 60 o 100 o 40 note del valore di un quarto al minuto). Non tutti i compositori, però, si servirono e si servono dell’indicazione di metronomo: spesso troviamo in apertura di brano una didascalia, di solito in italiano, che suggerisce la velocità e insieme il carattere del brano, elemento che l’indicazione metronomica non può rivelare. E’ molto comune, inoltre, trovare didascalie in partitura anche nel corso della composizione, ogni volta che il compositore (o in taluni casi l’editore o revisore della partitura) vuole indicare con maggiore efficacia e puntualità un cambiamento di tempo, di espressione, di carattere, di ritmo. Questi segni, interpretati dalla personale sensibilità dell’esecutore, sono costituenti di ciò che generalmente si chiama agogica musicale.

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LA SEMIOGRAFIA MUSICALE

Per definizione il termine semiografia (dal greco sìmêion = segno e graphía = scrittura) viene usato per indicare un tipo di scrittura costituita da segni abbreviati e convenzionali, intendendo la parola segno nella sua accezione semiologica così come viene definita da Ferdinand de Saussure, ovvero: “Segno = rapporto tra significante (immagine acustica del suono che viene riprodotto) e significato (il concetto che si esprime)”. In musica, per semiografia si intende quella parte della teoria musicale che si occupa dei segni e dei simboli utilizzati per mettere su carta ciò che viene suonato. Si occupa dunque di trasformare suoni e ritmiche in note e pause che trovano collocazione nel cosiddetto spartito o partitura. Il sistema dei segni convenzionali utilizzati nell’ambito della notazione classica viene così diviso in sezioni: · Notazione delle altezze tramite il pentagramma, i tagli addizionali, le chiavi, le alterazioni; · Notazione delle durate mediante le forme delle stesse note, i segni di prolungamento quali le legature di valore, il punto di valore, il punto coronato, i gruppi irregolari, i segni di legato, staccato etc.; · Notazioni di tempo, di movimento, di intensità, di timbro, abbreviazioni e abbellimenti indicati con segni numerici o alfabetici all’inizio e durante la composizione. Tutto ciò assume un senso logico, preordinato e assoluto fino agli inizi del Novecento, momento a partire dal quale lo sviluppo ulteriore della composizione, l’avvento delle macchine per fare musica e la loro conseguente evoluzione, portano i compositori alla necessità di nuove forme grafiche per esprimere quanto accade nelle proprie opere. È in questo momento che la semiografia musicale perde il proprio carattere istituzionale per assurgere a forma creativa essa stessa. Ogni autore decide, sceglie accuratamente e utilizza un proprio sistema di segni, che può variare di volta in volta in base a quanto si desidera comunicare visivamente rispetto a ciò che si è creato. Questo nuovo modo di scrivere musica diviene inoltre espressione di una trasmissione di informazioni molto più personale e intima, in quanto diretta estrinsecazione di ciò che l’artista desidera rendere noto e comprensibile rispetto alla

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propria idea compositiva, anche ai fini di un’esecuzione dei propri lavori da parte di strumentisti; tutto risulta così unico e vario, anche se a volte di difficile interpretazione, e dà una piena dimensione dell’assoluta indipendenza di ogni singolo atto creativo appartenente al corpus delle opere di un artista, ma anche rispetto a composizioni di altri musicisti. Ed è proprio da queste nuove necessità grafico/espressive, che si rivelano importanti al fine di rendere visibile e comprensibile l’idea artistica, che prende vita un nuovo modo di intendere la scrittura musicale, che diviene ora non soltanto semplice annotazione di quanto in un brano avviene, ma anche elemento fondamentale per un ascolto corretto di quanto composto. Nasce in questa ottica la cosiddetta partitura d’ascolto, che potremmo definire come una vera e propria guida su carta a sostegno di quanto realizzato acusticamente, utile soprattutto nella misura in cui facilita la comprensione del procedere temporale e delle dinamiche di flussi di suoni realizzati con l’ausilio dell’elettronica, ai quali è difficile dare collocazione entro un tradizionale foglio di carta pentagrammata. La partitura d’ascolto diviene così ulteriore strumento comunicativo, rappresentativo di quanto viene eseguito, di quanto si vuole far percepire, di quanto non si può esprimere con i soli mezzi tradizionali, di quanto necessiti di qualcosa di più di un mero sistema di segni e codici prestabiliti che rendano visibili note, pause, dinamiche e indicazioni temporali, e in tal senso essa rappresenta un elemento estremamente importante nell’evoluzione artistica contemporanea. Tuttavia il concetto di nuova semiografia, sebbene innovativo e personale, arricchito di elementi unici e forme rappresentative sempre diverse, non si distacca però dalla semiografia musicale classica in un aspetto grafico sostanziale, ovvero il suo carattere bidimensionale. Per bidimensionalità si intende l’attinenza di un qualsiasi oggetto, segno o immagine al campo di due dimensioni spaziali: la larghezza e la lunghezza (in matematica x e y). Solitamente viene specificata con l’abbreviazione 2D, con il significato di due dimensioni. Caratteristica di un elemento bidimensionale è l’assenza, nella sua rappresentazione, della terza dimensione, ovvero la profondità. Di conseguenza un oggetto bidimensionale si sviluppa e viene rappresentato unicamente su superfici piane. Esempi di rappresentazioni 2D sono le fotografie, le stampe, i quadri classici in cui manca il senso prospettico e così via. A questo modo rappresentativo, al giorno d’oggi, grazie all’ausilio di macchinari sempre più sofisticati, si contrappone la tridimensionalità, che indica un oggetto, segno o immagine che si sviluppa nell’ambito di tre dimensioni spaziali: larghezza, lunghezza e profondità (in matematica x, y e z). Il suo acronimo è 3D e sta a significare letteralmente tre dimensioni. Questa abbreviazione viene spesso utilizzata come specifica qualitativa (vedi ad esempio i termini computer grafica 3D, video 3D, cinema 3D, occhiali 3D, suono 3D etc.). Ciò che comunemente si ottiene grazie alla rappresentazione 3D, è la riproduzione prospettica, ovvero dotata di profondità, di immagini, suoni e in

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generale di ogni esperienza sensibile, il cui fine è tendenzialmente quello di creare sensazioni di realtà o quantomeno realisticità nell’approccio nei confronti di quanto viene riprodotto. Questo percorso delle arti grafiche verso una nuova dimensione descrittiva porta alla conseguente necessità di evoluzione della rappresentazione del segno stesso, che richiede l’adeguamento alle nuove tecnologie e ai nuovi linguaggi artistici, tra i quali emergono in particolare la Computer Grafica e la Computer Animation, che oggi prendono il posto, o sarebbe meglio dire affiancano, pur non rinnegandole, tutte quelle tecniche di scrittura e di immagine che consentivano alla carta stampata o manoscritta l’assoluto primato sulla comunicatività.

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STRUMENTI O TIMBRO

Il timbro è quella particolare qualità del suono che permette di distinguere due suoni con uguale ampiezza e altezza. Il timbro rappresenta quell'attributo della sensazione uditiva che consente all'ascoltatore di identificare la fonte sonora, rendendola distinguibile da ogni altra.

Ambito musicale

Come abbiamo detto, qualsiasi suono è generato da un oggetto (strumento) posto all'interno di un corpo elastico (aria) che viene messo in qualche modo in vibrazione. Semplice. Ma le relazioni che intercorrono tra l'oggetto che genera un suono, le caratteristiche fisiche dell'onda sonora generata (altezza, intensità e timbro) e la percezione multisensoriale di entrambe sono estremamente complesse e abbracciano diversi ambiti di studio (psicoacustica, antropologia culturale, neuroscienze, etc.). Per questo motivo una trattazione esaustiva dell'argomento in questa pagina sarebbe impossibile e fuori luogo, soffermiamoci dunque solo su semplici spunti di riflessione legati al pensiero musicale e alle sue possibili implicazioni nella pratica compositiva.

Cominciamo con un esempio: osserviamo un percussionista con un tamburo e una bacchetta. Nel momento in cui la bacchetta colpisce la pelle dello strumento viene prodotto un suono. Il nostro cervello dopo aver osservato (percezione visiva) una o più volte il gesto che genera quel determinato suono e aver ascoltato (percezione auditiva ) il suono prodotto da quel determinato gesto crea una connessione tra i due sensi, includendo nella nostra memoria esperienziale queste nuove informazioni. Con il passare degli anni ed il moltiplicarsi delle esperienze visivo/auditive, nel nostro cervello si crea un immenso database di suoni correlati a oggetti e a gesti che ci permette di immaginare quel determinato tamburo ogni qualvolta ne sentiamo il suono corrispondente, anche attraverso una registrazione, in assenza di uno stimolo visivo.

E' presto detto che ciò vale anche nel caso inverso, ovvero nel momento in cui osserviamo quel tamburo possiamo richiamare alla memoria e "pensare" il suono (o i suoni) che può produrre, così come hanno fatto (quasi) tutti i compositori che non avevano a disposizione campionatori o registratori nell'atto di comporre un brano per uno o più strumenti, e ancor più nell' orchestrare amalgama di timbri più o meno omogenei.

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J.Brahms - Sinfonia n°4 Op.98

Nel corso della stratificazione culturale propria della tradizione occidentale il processo appena descritto (assieme ad altre importanti concause) ha favorito l'astrazione del pensiero musicale quando organizzato in un linguaggio. In questo caso, un suono rappresenta se stesso anche simbolicamente e non l'oggetto che lo ha prodotto, svincolandolo dall'esistere solo ad un livello esperienziale/percettivo. Osserviamo due esempi di suono organizzato che potrebbero sembrare agli antipodi:

- la musica per tastiera di J.S.Bach. Secondo la consuetudine del tempo, l'autore adotta l'indicazione generica "fur Klavier" (per tastiera) nello specificare in partitura la destinazione strumentale di alcune composizioni come le Sei Suites Inglesi BWV 807 o la Fantasia cromatica in Re minore BWV 903

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J.S.Bach - Fantasia cromatica in Re minore BWV 903

relegando in questo modo il parametro timbrico e la correlazione suono-strumento ad un ruolo secondario se non del tutto ininfluente rispetto al messaggio trasmesso che è dato unicamente dall'organizzazione nel tempo di altezze e intensità secondo la sintassi di un linguaggio astratto condiviso (musica modale/tonale, mensuralismo ritmico).

- la musica acusmatica che è un tipo di musica elettroacustica dove suoni registrati, elaborati o generati da computer sono fissati su un supporto e diffusi in concerto da uno o più altoparlanti. La caratteristica fondante l'estetica che sta alla base di questa forma d'arte risiede proprio nel principio di non riconoscibilità della sorgente sonora.

Bernard Parmegiani - Espèces d'espaces

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"...rumore acusmatico si dice di un suono che si ascolta senza scoprirne le cause. Ebbene, questa è la definizione stessa dell'oggetto sonoro, questo elemento di base della musica concreta, musica la più generale che sia, di cui la testa sarebbe vicino al cielo e i cui piedi toccherebbero il regno dei morti..." (Jérome Peignot)

Partendo da questa idea i suoni impiegati in queste composizioni vengono generalmente organizzati nel tempo attraverso un linguaggio (spesso soggettivo, poco condiviso o creato solo per il brano specifico) i cui elementi sintattici principali sono i parametri morfologici del suono stesso e dove non c'è un oggetto/strumento che produce suono ma un oggetto sonoro che è suono.

La percezione di questa particolarità è rafforzata dal fatto che i brani sono generalmente diffusi in concerto da orchestre di altoparlanti (acusmonium) che, sebbene possano essere pensati come enormi strumenti musicali con proprie caratteristiche timbriche, nei confronti dei suoni diffusi assumono una valenza neutra (imprimono le loro caratteristiche su qualsiasi tipo di suono diffuso) e anche l'eventuale presenza di un esecutore alla consolle per l'interpretazione della diffusione multicanale è visivamente minimizzata collocandolo in mezzo al pubblico, non sul palcoscenico.

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Nelle tendenze più recenti della musica d'arte inoltre si è sviluppata una corrente musicale che segue il percorso poetico iniziato tra gli altri da Helmut Lachenmann e che persegue la creazione di una musica acusmatica strumentale dove il timbro storicizzato di strumenti acustici appartenenti alla tradizione musicale occidentale viene snaturato in oggetto sonoro destoricizzato non attraverso l'impiego di mezzi elettroacustici (sia per quanto riguarda l'elaborazione del suono, sia la sua diffusione) ma di tecniche strumentali aumentate. In questi casi l'oggetto/strumento diventa anche idealmente un oggetto musicale.

H.Lachenmann – Pression

Infine possiamo incontrare ulteriori implicazioni musicali e possibili interessanti sviluppi di quanto appena esposto nei brani di musica mista ovvero che prevede

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l'impiego sia di strumenti acustici che elettroacustici, dove il suono generato dai primi sul palcoscenico viene trasformato in tempo reale dalla strumentazione elettroacustica, mixato con suoni preregistrati su supporto, oppure fatto percepire come proveniente da un altro punto nello spazio attraverso sistemi di diffusione multicanale.

Affronteremo nel dettaglio la specificità di queste problematiche nella terza sezione di questo sito (Dinamiche Umane) proprio perché strettamente correlate all'interazione uomo macchina.

Oltre alle tipologie riguardanti il rapporto timbro/suono/sorgente sonora appena esposte tutte strettamente legate al mondo musicale inteso nell'accezione più tradizionale di concerto/performance si apre ai nostri giorni una vastissima casistica di applicazioni del suono in luoghi specifici sotto forma di paesaggio sonoro. In ogni luogo, in ogni spazio è infatti possibile individuare una precisa sonorità urbana che lo contraddistingue. Ogni luogo è caratterizzato da un campo sonoro scomponibile in diverse categorie e componenti: gli sfondi che comprendono condizioni sonore stabili e caratterizzano spazi passanti o di grande dimensione; le sequenze di fenomeni compositi associati ad attività reiterate come mercati, scuole o al tipo di circolazione (mono o multimodale); gli avvenimenti-segnale che comprendono le fonti sonore puntuali ed emergenti (campane, sirene). Il campo sonoro urbano si può considerare inoltre suddiviso in tre componenti che creano fenomeni composti: le fonti sonore, variabili in relazione ai caratteri morfologici e funzionali dello spazio costruito; gli spazi di diffusione, intesi come luoghi di propagazione del suono; la percezione del luogo, che riguarda l’assegnazione di significati allo spazio costruito. Questo trinomio definisce il concetto di forma sonora urbana. Le forme sonore urbane sono il risultato di componenti involontarie, di azioni e di interventi, di forme e di materiali. Modificando e rendendo in qualche modo volontarie queste componenti sonore possiamo cambiare la percezione di un luogo e degli oggetti o attività umane in esso contenute. Diviene chiaro ora come la relazione tra oggetto (strumento), gesto (azione) e correlazione timbrica diventi fondamentale in un'operazione di sound art.

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Bill Fontana - Silent Echoes Sunny Evening

Ambito fisico acustico

Il timbro dei suoni naturali è influenzato da moltissimi parametri variabili come ad esempio le caratteristiche fisiche dei materiali con cui è costruito uno strumento o dell'oggetto che ha prodotto un determinato suono e dal modo in cui è messo in vibrazione. Tutti questi parametri concorrono a formare una rappresentazione fisica del timbro di quel suono ovvero la sua forma d'onda, che descrive come varia nel tempo la pressione atmosferica (o il voltaggio di un segnale) nel produrre quel determinato suono. Nella figura sottostante sono illustrate tre diverse forme d'onda, la prima rappresenta un suono puro, la seconda un suono complesso periodico mentre la terza suono complesso aperiodico.

Suono puro

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Suono complesso periodico

Suono complesso aperiodico

Gli elementi principali che contribuiscono alla caratterizzazione delle forme d'onda sono due:

- nel dominio della frequenza le componenti spettrali - nel dominio del tempo l'inviluppo spettrale

Osserviamoli nel dettaglio:

Componenti spettrali o spettri sonori. I suoni presenti in natura non producono mai suoni puri (onde sinusoidali perfette) come quelli illustrati nelle figure osservate fino a questo punto ma sono caratterizzati da forme d'onda molto differenti tra loro e dunque da suoni complessi. Un suono complesso è il risultato della sovrapposizione (somma) di più suoni puri con frequenza, ampiezza e fase differenti.

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Per chiarire ulteriormente possiamo pensare uno spettro sonoro come un accordo musicale le cui singole note sono eseguite da suoni sinusoidali (un singolo suono puro per ogni nota) che l'orecchio umano non percepisce come un accordo formato da più note ma come un singolo suono con un determinato timbro:

Ogni suono puro che concorre a formare uno spettro complesso può essere chiamato suono armonico o parziale. La differenza terminologica tra queste due definizioni è sottile e implica la conoscenza del tipo di spettro a cui si riferisce. Fondamentalmente gli spettri sonori possono essere suddivisi in due grandi famiglie la cui differenziazione è data dai rapporti frequenziali intercorrenti tra le componenti pure che li formano:

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- Spettri armonici. Le frequenze dei parziali seguono rapporti formati da numeri interi: 1:1 1:2 1:3 1:5 ...

In questo caso i parziali possono essere chiamati anche armonici dove il suono (usualmente) più grave che corrisponde al rapporto 1:1 è chiamato fondamentale ed è quello che generalmente caratterizza l'altezza percepita di quel suono complesso, mentre i parziali successivi sono chiamati primo armonico, secondo armonico, e via dicendo fino idealmente a infinito.

In questo caso, stabilita la frequenza fondamentale in Hertz per ricavare le frequenze degli armonici basterà moltiplicarla per i numeri interi ottenendo una serie armonica:

La forma d'onda di questi suoni può essere solamente periodica, ricordando infine che il timbro è caratterizzato anche dalla presenza o meno di alcuni armonici e dalle loro differenti ampiezze e fasi.

- Spettri inarmonici

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Le frequenze dei parziali non seguono alcun rapporto particolare, o meglio non sono in rapporto con un suono fondamentale che in questo caso spesso è assente: 4:2 12:8 1:3.6 5.2:1.3 ...

La forma d'onda di questi suoni può essere sia periodica che aperiodica.

A questo punto possiamo affermare che tutti i suoni possibili sono composti da spettri compresi in un range che idealmente va dal suono più puro (la singola sinusoide) al suono più complesso (il rumore bianco) le cui caratteristiche oscillano tra suoni inarmonici, suoni quasi armonici e suoni armonici.

Tutto quello che abbiamo appena osservato si basa su un teorema enunciato dal fisico francese J.Fourier nei primi anni dell'800 che recita:

Qualunque segnale periodico può essere scomposto nella somma di un eventuale termine costante e di segni sinusoidali, dei quali il primo, avente lo stesso periodo e quindi la stessa frequenza del segnale considerato, si chiama prima armonica o fondamentale, e gli altri, aventi periodi sottomultipli e quindi frequenze multiple, si chiamano armoniche superiori.

- Inviluppo spettrale o transitori

Le tipologie di spettri sonori che abbiamo appena descritto si riferiscono a fotografie istantanee di un suono. Il fatto è che il suono è un’entità "vivente" che comincia dal silenzio, segue una parabola ben delineata e scandita in diverse fasi temporali e infine torna al silenzio. Possiamo schematizzare il susseguirsi di queste fasi nel modo seguente:

- un attacco (Attack) che corrisponde a come il suono viene generato dal silenzio.

- una fase di sostegno (Sustain) nella quale generalmente il contenuto spettrale si stabilizza.

- una fase di decadimento (Release) che corrisponde al modo in cui il suono torna al silenzio.

Queste tre fasi principali costituiscono quello che viene definito l'inviluppo d'ampiezza di un suono. Nella figura sottostante sono illustrati gli inviluppi di ampiezza caratteristici di alcuni strumenti musicali:

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Durante queste fasi il contenuto spettrale del suono emesso non è costante ma varia nel tempo e dunque il timbro di uno strumento è determinato dall'evoluzione del contenuto spettrale del suono nel tempo. Ogni singolo parziale segue un proprio inviluppo d'ampiezza, che sovrapposto agli inviluppi degli altri parziali forma l'inviluppo spettrale di un suono. Ad esempio lo spettro del suono di un pianoforte è molto più vicino al rumore bianco al suo attacco (nei primi millisecondi) quando il martelletto colpisce le corde, si stabilizza in uno spettro armonico ricco dato dalle caratteristiche fisiche del corpo dello strumento nella fase di sostegno per poi rarefarsi vero pochi suoni puri di risonanza quasi-armonici nella fase di rilascio.

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DINAMICA O AMPIEZZA

L’intensità di un suono descrive l’ampiezza delle variazioni dell’onda sonora e fornisce una misura dell’energia da essa trasportata. In termini musicali è data dal rapporto tra i suoni più deboli e quelli più forti che caratterizzano la dinamica di un brano.

Misure e simboli musicali

• dinamica, espressa in simboli musicali. In questo caso i valori sono quasi sempre relativi al contesto musicale, ovvero un "forte" in una Sonata per violino barocca non ha la stessa intensità di un "forte" dato agli ottoni in un Poema Sinfonico di R.Strauss. E' questo un concetto che si avvicina alla misurazione fisica "relativa" in decibels che osserveremo tra poco, ma che ha in se anche una valenza soggettiva e un aspetto intuitivo/interpretativo che va ben oltre alla semplice misura dell'intensità di una forma d'onda.

• key velocity, espressa in valori numerici tra 0 e 127. Anche se questa unità di misura assume un aspetto di codifica "musicale" è, a differenza della precedente espressa in valori assoluti. Un suono con una key velociy di 127 sarà sempre "il più forte possibile e avrà sempre la stessa intensità indipendentemente dal contesto musicale.

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Misure e simboli fisici

La dinamica di un suono in fisica si definisce con il termine ampiezza. Questo termine può infatti essere usato sia riferito a un'onda sonora (ambito delle variazioni di pressione), sia ad un segnale audio analogico (ambito del voltaggio) sia ad un segnale audio digitale (valori dei campioni). Se prendiamo in considerazione l'aspetto fisico acustico e non la percezione umana questo parametro è indipendente dalla frequenza come possiamo osservare nella figura seguente che illustra la rappresentazione di tre suoni aventi la stessa frequenza ma ampiezze differenti:

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Per convenzione l'ampiezza di un segnale audio è compresa tra +/- 1.0.

Il termine ampiezza è però troppo generico e per evitare confusione dobbiamo aggiungere un aggettivo per distinguere tra due differenti modalità di misurazione:

• ampiezza istantanea.

Questo tipo di ampiezza è semplicemente la misura del valore di energia in un preciso istante del tempo, ovvero nella rappresentazione dei segnali su un piano cartesiano, il valore misurato sull'asse delle ordinate (y) in un preciso punto sull'asse delle ascisse (x). Come esempio possiamo pensare a un segnale audio digitale che è descritto da una successione di numeri corrispondenti alle ampiezze istantanee dei singoli campioni (entreremo nel dettaglio più avanti).

...1.0 0.75 0.5 0.25 0.0 -0.25 -0.5 -0.75 -1.0 -0.75 ...

Oppure per quanto riguarda segnali non discreti (come le variazioni di pressione atmosferica o i segnali audio analogici) corrisponde alla misurazione di un singolo valore in un preciso istante di tempo (nella figura seguente il valore di un singolo puntino rosso).

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Ampiezza assoluta

Questo tipo di ampiezza invece non prende in considerazione il singolo valore in un determinato istante, ma l'insieme dei valori di un segnale in un tempo finito e la misurazione può essere effettuata in due modi:

o ampiezza di picco ovvero il valore assoluto di energia più alto tra quelli compresi in un tempo finito o in termini musicali il suono più forte di un brano o di una parte di esso. Se osserviamo l'immagine sottostante il punto che più si discosta dallo 0 sia in positivo che in negativo (in questo caso il valore a onset 0.1 è l'ampiezza di picco di questo segnale e corrisponde a 1.5).

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RMS (Root Mean Square o valore efficace) ovvero una particolare media dei valori di energia tra quelli compresi in un tempo finito. Vediamo come calcolarlo prendendo come esempio i valori delle ampiezze istantanee del segnale rappresentato nell'ultima figura:

0.0 1.5 1.0 0.4 0.6 0.0 -0.4 -0.2 -1.0 -1.5 0.0

Per prima cosa calcoliamo il quadrato (Square) di ogni singolo valore:

0.0 2.25 1.0 0.16 0.36 0.0 0.16 0.04 1.0 2.25 0.0

Poi calcoliamo ora la media matematica (Mean) di questa sequenza numerica (osserviamo che il quadrato dei numeri negativi li ha trasformati in positivi):

0.65636363636364

Infine calcoliamo la radice quadrata (square Root) del valore ottenuto per "annullare" l'elevazione al quadrato effettuata nel primo passo:

RMS = 0.81016272215132

In Super Collider:

[0.0,1.5,1.0,0.4,0.6,0.0,-0.4,-0.2,-1.0,-1.5,0.0]. squared.mean.sqrt;

• La principale differenza tra ampiezza di picco e RMS sta nel fatto che la prima è un valore univoco indipendente dall'andamento del segnale mentre la seconda è strettamente legata alle caratteristiche morfologiche del segnale come illustrato nell'immagine seguente:

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Dopo aver osservato le differenze tra ampiezza assoluta e ampiezza relativa possiamo ora soffermarci sulle unità di misura impiegate per misurare le variazioni d'ampiezza o meglio i rapporti che intercorrono tra suoni con intensità differenti. Questo parametro è anche comunemente chiamato volume o fattore di amplificazione. Per meglio comprendere possiamo pensare che nell'ambito elettroacustico tutti i generatori (o trasformatori) di segnali audio producono come output segnali con ampiezza di picco uguale a 1.0, i cui valori di ampiezza istantanea oscillano dunque tra +/- 1.0.

Segnale analogico

Segnale digitale

Se prendiamo ad esempio tutti i valori delle ampiezze istantanee di un segnale digitale e li moltiplichiamo per 1.0 otterremo lo stesso segnale, ma se li

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moltiplichiamo per 0.5 otterremo un segnale con la stessa frequenza ma con l'ampiezza dimezzata, mentre se li moltiplichiamo per 0.0 otterremo un segnale corrispondente al silenzio. Le figure seguenti illustrano dei fattori di moltiplicazione che variano nel tempo e che generano dunque crescenti e/o diminuendi.

Per quanto riguarda questi fattori di moltiplicazione che regolano i rapporti in un ambito (range) dinamico ci sono principalmente tre diverse unità di misura:

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• ampiezza lineare.

Unità di misura assoluta espressa in valori numerici compresi tra 0.0 e 1.0, dove 0.0 corrisponde al silenzio, 1.0 al suono più forte e 0.5 alla esatta metà del segnale. Questa unità di misura è la più semplice ma anche la più lontana dalla percezione umana riguardo i cambiamenti di intensità dei suoni. Infatti quando uno strumentista esegue un crescendo o un diminuendo con uno strumento acustico, istintivamente li organizza seguendo una curva logaritmica o esponenziale per rafforzarne l'efficacia musicale. Lo stesso dicasi per acceleranti e ritardanti.

• ampiezza quartica.

Unità di misura assoluta espressa in valori numerici compresi tra 0.0 e 1.0, dove 0.0 corrisponde al silenzio, 1.0 al suono più forte ma 0.5 non è la metà esatta del segnale in quanto segue una curva esponenziale così come possiamo osservare nella figura precedente. E' l'unità di misura più vicina alla percezione umana. Per ottenere i valori corretti dei fattori di moltiplicazione basta elevare l'ampiezza lineare alla quarta potenza. Essendo compresi tra 0.0 e 1.0 l'ambito (range) rimane lo stesso.

valore^4

Dove "valore" significa il valore dell'ampiezza lineare (sempre tra 0.0 e 1.0) da convertire.

In Super Collider la sintassi è semplice:

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0.5.pow(4);

• decibels (dB).

Unità di misura relativa espressa in valori numerici compresi tra 0.0 e -infinito (o +infinito a seconda del tipo di misurazione), dove 0.0 corrisponde al segnale inalterato, -infinito al silenzio e -6.02 ca. alla metà del segnale. Questa è l'unità di misura più utilizzata nell'ambito elettroacustico perché meglio si adatta alle caratteristiche implicite di una catena elettroacustica, dove il suono, sotto forma di corrente elettrica (variazioni di tensione alternata), entra ed esce da diversi dispositivi (devices) collegati tra loro attraverso cavi.

In questa situazione abbiamo bisogno di misurare ed eventualmente modificare l'ampiezza del segnale sia all' ingresso di un dispositivo, sia all'uscita dello stesso. Ecco che si rende necessaria un'unità di misura relativa a questo rapporto e non in termini assoluti. Se diciamo "questo suono misura 0 dB" non stiamo dando alcuna informazione riguardo alla sua effettiva intensità, in quanto 0 dB significa che l'ampiezza di un segnale (suono) che entra in un dispositivo è uguale a quella che esce. Questo vuole dire mettere in relazione due valori, non misurarne uno in termini assoluti. Facciamo un esempio musicale. Posso dire correttamente: "tra il suono più piano di una chitarra acustica non amplificata e quello più forte ci sono 24 dB" ma anche: "tra il suono più piano e il suono più forte di un trombone tenor-basso ci sono 24 dB". In questo caso i livelli di pressione sonora dei due strumenti sono molto diversi ma il rapporto che intercorre all' interno del loro range dinamico è lo stesso.

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Vediamo infine come convertire i fattori di moltiplicazione espressi in ampiezza lineare (tra 0.0 e 1.0) in dB. La formula, semplificando è la seguente:

20*log[10](valore)

Dove "valore" significa il valore dell'ampiezza lineare (sempre tra 0.0 e 1.0) da convertire. In Super Collider la sintassi è semplice:

20*log10(0.5); 0.5.ampdb; -6.02.dbamp;

Così come la misurazione quartica dell'ampiezza, anche i dB seguono una curva non lineare per avvicinarsi il più possibile alla sensazione uditiva umana relativa ai cambiamenti di ampiezza.

Phon o livello di sensazione sonora

Fino ad ora abbiamo affermato che frequenza e ampiezza in ambito fisico/acustico sono due parametri indipendenti e abbiamo visto come possiamo misurarli anche in ambito elettroacustico. Ma nel momento in cui il suono giunge all'orecchio le cose si complicano, infatti il sistema uditivo umano non è formato soltanto dall'orecchio: il modo in cui le informazioni trasmesse dal nervo acustico vengono elaborate dal cervello è, in una certa misura, addirittura più importante delle informazioni stesse.

Chi non ha sperimentato l'esperienza di non sentire un suono che in quel momento non interessava?

Basterebbe questo semplice fatto a provare come le informazioni acustiche vengano filtrate, selezionate, modificate dal cervello. E la percezione dell'intensità dei suoni cambia in relazione alla frequenza legando di fatto i due parametri. Nella figura sottostante è illustrato il diagramma di Fletcher e Munson, che rappresenta la sensibilità dell'orecchio alle diverse frequenze e per diverse pressioni sonore. Sull'asse verticale sono presenti le pressioni sonore in dB mentre sull'asse orizzontale le frequenze in scala logaritmica. Le curve, chiamate curve di uguale livello sonoro o isofone, dicono quale pressione sonora è necessaria, alle diverse frequenze, per dare la medesima impressione di intensità. L'unità di misura è il phon che rappresenta dunque l'udibilità soggettiva dell'orecchio umano, che in determinati casi, non coincide con la differenza oggettiva che due suoni hanno tra loro.

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