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UNIVERSITA’ Mediterranea di REGGIO CALABRIA Facoltà di Ingegneria-Dipartimento di Meccanica e Materiali LEZIONI DI MECCANICA DEI MATERIALI 2^ versione non definitiva Novembre 2010 Michele Buonsanti Dipartimento di Meccanica e Materiali Via Graziella, loc. Feo di Vito, 89060, Reggio Calabria, Italy [email protected] ATTENZIONE L’uso di questo materiale è riservato agli studenti del corso di Meccanica dei Materiali per l’anno accademico 2010/11. Usi impropri saranno perseguibili per vie legali Anno Accademico 2010-2011

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UNIVERSITA’ Mediterranea di REGGIO CALABRIA

Facoltà di Ingegneria-Dipartimento di Meccanica e Materiali

LEZIONI DI

MECCANICA DEI MATERIALI

2^ versione non definitiva

Novembre 2010

Michele Buonsanti

Dipartimento di Meccanica e Materiali

Via Graziella, loc. Feo di Vito, 89060, Reggio Calabria, Italy

[email protected]

ATTENZIONE L’uso di questo materiale è riservato agli studenti del corso di Meccanica dei Materiali per l’anno accademico 2010/11. Usi impropri saranno perseguibili per vie legali

Anno Accademico 2010-2011

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Michele Buonsanti Corso di Meccanica dei Materiali a. a. 2010-2011

Indice provvisorio Capitolo 1. Preliminari e fondamenti

1.1. Richiami di analisi vettoriale e tensoriale………………………………………………….

1.1.2 Richiami di teoria delle funzioni ed analisi funzionale……………………………………

1.1.3 Richiami di calcolo variazionale…………………………………………………………..

1.2. Problemi di campo …………………………………………………………………………

1.2.1 Equazioni differenziali alle derivate parziali………………………………………………

1.2.2 Elementi di Meccanica del continuo………………………………………………………

1.3.1 Stato di sforzo………………………………………………………………………………

1.3.2 Stato di deformazione……………………………………………………………………..

1.3.3 Legame elastico lineare………………………………………………................................

1.4 Aspetti atomistici della teoria dell’elasticità……………………………………………….

1.4.1 Solidi cristallini…………………………………………………………………………….

Capitolo 2. Meccanica dei materiali

2.1 Assiomi in meccanica dei materiali……………………………………………………..

2.2 Materiali semplici………………………………………………………………………..

2.3 Materiali con rango elastico……………………………………………………………..

2.4 Materiali con memoria evanescente…………………………………………………….

Capitolo 3. Elasticità lineare

3.1 Assunzioni costitutive……………………………………………

3.1.1 Costanti elastiche per il solido isotropo……………………………

3.1.2 Relazioni tra costanti elastiche e costanti di Lamè………………………

3.1.3 Ortotropia - Anisotropia…………………………………………………

3.1.4 Teoremi di risposta per i materiali isotropi……………………………

3.2 Formulazione generale del problema dell’ equilibrio elastico……………………

3.2.1 Equivalenza tra formulazione differenziale e integrale………………………

3.2.2 Soluzioni del problema elastico: Beltrami, Navier………………………

3.2.3 Metodi di rappresentazione della soluzione…………………………………

3.4 Formulazione energetica…………………………

3.4.1 Metodi variazionali………………………. ……………

3.5 Formulazione astratta del problema di equilibrio………

3.6 Preliminari alla teoria debole ……………………

3.7 Ambientamento del problema di equilibrio in spazi di Sobolev………………

Capitolo 4. Elasticità non lineare

4.1 Cinematica delle deformazioni finite……………………

4.2 Bilancio delle forze ed equazioni del moto…………………

4.3 Aspetti energetici……………………………………………………

4.4 Simmetrie materiali………………………………………

4.5 Materiale isotropo iperelastico……………………………………

4.6 Equazione costitutiva per il materiale di Blatz-Ko………………………

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4.7 Vincoli interni……………………………………………………

4.8 Funzione di Rivlin-Saunders……………………………………

4.9 Materiale di Mooney-Rivlin…………………………

4.10 Materiale neo-Hookean………………………………

4.11 Plausibilità statica ed unicità della soluzione……………………………

4.12 Elasticità variazionale……………………………………………………

4.13 Energie policonvesse…………………………………….

4.14 Materiali non reagenti a trazione………………………………………………………………

Capitolo 5. Stati Anelastici

5.1 Stati di plasticità……………………………………………

5.2 Equilibrio elasto-plastico………………………………………

5.3 Principi di estremo………………………………………………

5.4 Collasso plastico e teoremi dell’analisi limite………………………

5.5 Termo-elasticità………………………………………………………

5.6 Visco-elasticità………………………………………………………

Capitolo 6. Transizioni di fase solido-solido

6.1 Introduzione…………………………………………………

6.2 Teoria del continuo per solidi cristallini………………………………

6.3 Posizione del problema di minimo…………………………………

6.4 Solidi bifase………………………………………………

6.5 La barra di Ericksen…………………………………………

6.6 Configurazioni di equilibrio…………………………………

6.7 Metastabilità e barriere energetiche…………………………………

Capitolo 7. Micromeccanica dei materiali

7.1 Introduzione………………………………………

7.2 Compatibilità cinematica……………………………

7.3 Il modello di Ball & James………………………………

7.4 Soluzioni in termini di microstrutture…………………………………

7.5 Modello di Eringen: cinematica, stress, equazioni costitutive…………………

7.6 Teoria atomistica e meccanica molecolare………………………………………

Capitolo 8. Meccanica della frattura e danneggiamento

8.1 Concentrazioni di tensioni…………………………………………

8.2 Problema di Griffith…………………………………………………

8.3 Soluzioni nel caso piano…………………………………

8.4 Modello di Griffith e di Barenblatt………………………………

8.5 Modello di Del Piero & Truskinovsky…………………………

8.6 Modello di Kachanov…………………………………… Questi appunti sono in corso di revisione e completamento. Sarà possibile trovare errori e/o omissioni per i quali è gradita la segnalazione degli stessi.

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Capitolo1: Preliminari e fondamenti 1.1 Richiami di analisi vettoriale e tensoriale

Sia E lo spazio euclideo, i cui elementi sono punti, e sia V lo spazio vettoriale associato, i

cui elementi sono vettori: dati u, v vettori, si definisce con u v il prodotto scalare,con

uv il prodotto vettoriale e con 6u6 il modulo del vettore. Scelto un sistema di riferimento

ortonormale segue la relazione tra punti e vettori: xi = (x – 0)ei , ui = u ei .

Def.1: Una applicazione lineare : V V di uno spazio vettoriale in se stesso

costituisce un endomorfismo, cioè è tale che u = v con u, v V.

L’insieme, di tutte le trasformazioni lineari è indicato con Lin e costituisce lo spazio dei

tensori del secondo ordine. Lin è spazio vettoriale su con le operazioni di somma e

moltiplicazione.

Def. 2: Il tensore nullo 0 è tale che per ogni v V, 0v = 0; il tensore identità I è tale che

per ogni v V , Iv = v.

Def. 3: Si definisce prodotto tensoriale o diade u≈v il tensore che assegna ad ogni vettore

aV il vettore (u≈v)a = (va)u.

Def. 4: Si definisce traccia, della diade u≈v, l’operatore lineare dello spazio Lin tale da

soddisfare la relazione: tr(u≈v) = u v con u, v V.

Dalle proprietà per le diadi si deriva il concetto di traccia, per un tensore , come lo

scalare tr = tr[( ei)≈ ei] = eiei = ii . Il valore numerico della traccia di un tensore

del secondo ordine è invariante rispetto al riferimento prescelto ed ha le seguenti

proprietà:

i- tr (+)=tr + tr

ii- tr() = tr

iii-tr()=tr()

iv-tr T = tr

Lin.

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Def. 5: Il prodotto interno tra due tensori o prodotto scalare in Lin è definito come:

= tr ( T ).

Def. 6: Un tensore è definito simmetrico se = T; viceversa è definito emisimmetrico

se T= -. L’insieme dei tensori simmetrici è definito con Sym, mentre l’insieme dei

tensori emisimmetrici è definito con Skw. Entrambi sono sottospazi di Lin e, per essi, vale

il teorema della decomposizione additiva: Lin = Sym Skw.

Segue che ogni tensore ammette una decomposizione additiva unica: Sym = ½ ( + T) ,

Skw = ½ ( T). Esiste, altresì, una corrispondenza biunivoca tra tensori emisimmetrici

e vettori e tale corrispondenza associa a qualsiasi tensore Skw un unico vettore v V

tale che v = u v.

Def. 7: Un tensore è detto deviatorico, Dev , se tr = 0, ed un tensore è detto

sferico, Sph, se =Ι.

Un qualsiasi tensore Lin, può essere decomposto nella somma di due tensori +

che, nel caso tridimensionale, si specializzano in = - 1/3 tr ( )Ι ; =1/3(tr)Ι.

Def. 8: Un tensore Lin è detto invertibile se esiste il tensore -1 tale che -1 = Ι.

Def. 9: Un tensore è detto ortogonale, œ Orth, quando conserva il prodotto interno:

T = -1, equivalentemente: T = T = I.

Il tensore rappresenta una trasformazione che conserva inalterati gli angoli fra due

vettori qualsiasi: uÿv = uÿTv = uÿv ovvero, mantiene inalterate le lunghezze dei

vettori intese come il valore della loro norma. Una logica conseguenza delle proprietà di

consente di affermare che: det = det I = 1 quindi, det = . L’insieme dei tensori

ortogonali, il cui determinante è eguale ad 1, viene definito come l’ insieme delle

rotazioni e viene indicato con Orth+.

Infine, enunciamo il seguente teorema detto della decomposizione polare.

Teorema: Sia œLin con det > 0, allora esistono due tensori ,œSym+ ed un tensore

œOrth+ tali che: = = , denominate rispettivamente, decomposizione polare

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destra e sinistra del tensore . Inoltre, tali decomposizioni sono uniche ed i tensori ,

sono dedotti come: =( T )1/2 , =( T )1/2.

1.1.2 Richiami di teoria delle funzioni ed analisi funzionale

Def.10: Sia : AØ una funzione a valori reali: (A) è limitata superiormente (al

contrario inferiormente) se M (x) < M A.

Def.11: Sia : AØ una funzione a valori reali: C.N.S. perché la funzione ammetta max

(min) è: x°A(x) (x°) xA; max (x) = max (A).

Def.12: Sia :AØ una funzione a valori reali: se Aa,b la funzione necessariamente

ammette max (min).

Def.13: L’insieme costituito da tutte le applicazioni AØ è uno spazio vettoriale reale.

Def.14: Dico successione l’applicazione a: NØ [nØan , {an}nN].

Def.15: {an} è convergente se e solo se max - min lim di {an} sono convergenti.

limn {an} = max limn {an} = min limn {an}

Def.16: {an}n è una successione di Cauchy se: Nan - am< n, m .

Segue che ogni successione di Cauchy è necessariamente limitata.

Def. 17: C.N.S. perché {an} sia convergente, è che {an} sia di Cauchy.

Def.18: Sia E un insieme, ove è definita una distanza d: E x E Ø . La coppia (E, d)

definisce uno spazio metrico.

Def. 19: A E è aperto quando è intorno di ogni suo punto ovvero:xA I(x°, r) A.

Def.20: Topologia su E significa associarexE una famiglia di intorni J(x) E.

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La transizione da spazio metrico a spazio topologico generalizza il problema poiché si

possono generalizzare le topologie della retta (Cantor), sostituendo ai punti funzioni di

una determinata classe. Ad esempio l’analisi funzionale è studiata, in parte, in spazi

topologici astratti estendendone le proprietà essenziali della retta. Alla base del passaggio

dalla nozione di spazio metrico a quella più generale di spazio topologico sta la

osservazione che molte delle definizioni e dei risultati dell’analisi dipendono non tanto

dalla distanza quanto dalla più generale nozione di intorno di un punto. Negli spazi

metrici gli intorni sono le sfere, quindi x°X si possono assegnare dei sottoinsiemi (detti

intorni di x°)e definire, in seguito, gli aperti e i chiusi, le funzioni continue etc.., in breve

la topologia.

Def.20: Uno spazio metrico E è completo se ogni successione di Cauchy è convergente.

Def.21: Uno spazio metrico E è compatto se annE ar convergente.

Def.22: Sia K(X, Y) l’insieme delle funzioni limitate di X in Y, allora K è uno spazio

metrico con distanza d (f,g) = supxX (dy (f(x), g(x)).

Def. 23: Sia uno spazio topologico. Una funzione : Ø* dicesi semicontinua

inferiormente se y l’insieme y = { x: (x) > y} è aperto. In particolare * è

l’insieme { + }, ovvero la funzione può assumere anche il valore +.

Def.24: Sia uno spazio topologico. Si dice che la funzione : Ø* è semicontinua

inferiormente (per successioni) se per ogni successione vk convergente a v si ha:

(v) lim inf (vk)

Teorema: Sia * e sia una funzione s.c.i. per successioni. Supposto che esiste una

successione minimizzante xk , convergente ad un punto x°*, allora ha minimo in

(x°) in infatti, si ha:

inf (x°) lim inf kØ (xk) = inf

conseguentemente, < (x°) = inf.

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Gli spazi topologici sono troppo generali perché abbiano proprietà strutturali tali da

renderli utilizzabili facilmente nelle applicazioni. A volte, anche gli spazi metrici possono

essere troppo vasti per questo, buoni risultati si ottengono gli spazi vettoriali normati.

Def. 25: Dicesi spazio vettoriale V un insieme non vuoto in cui sono definite le operazioni

di somma, sottrazione, e prodotto per uno scalare.

Def.26: Sia V uno spazio vettoriale, allora l’applicazione n: X è una norma per V

n(x)= x se: i) n(x) e n(x) = 0 se x = 0; ii) n(x) = n(x); iii) n(x + y) n(x) + n(y).

Def.27: La coppia (X, •) si definisce spazio normato.

Analogamente, come per gli insiemi reali, si può definire una distanza d(x1, x2) = x1-x2 in

modo che uno spazio normato è uno spazio metrico.

Def.28: Uno spazio normato e completo si chiama spazio di Banach.

Def.29: Chiamasi spazio di Hilbert uno spazio con p.s. normato e completo.

Def.30: Supposto data una classe C* di funzioni y(x). Se y(x)C* J [y(x)] , allora

su C* è definito il funzionale J(); la classe C* prende il nome di dominio del funzionale.

Def.31: Un funzionale J [y(x)] è lineare se c = cost. J [cy(x)] = cJ [y(x)], ed inoltre :

J [y1(x) + y2(x)] = J [y1(x)] + J [y2(x)].

Def.31: Un funzionale J [y(x)] ha un punto estremale quando raggiunge un max (min)

sulla curva y = y°(x) quando i valori del funzionale su ogni curva vicina a y= y°(x) non

superano J [y°(x)] cioè: J = J [y(x)] - J [y°(x)]

1.1.3 Richiami di calcolo variazionale

Si consideri la funzione f (x, y, y’ ) con derivate parziali continue rispetto a tutti gli

argomenti comprese quelle del secondo ordine. Tra tutte le funzioni y(x) aventi derivata

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continua e soddisfacenti le condizioni al bordo: y(a) = A e y(b) = B. Il problema posto è

quello di trovare quella funzione che ricavi l’estremo debole al funzionale:

J [y(x)] = a-b f (x, y, y’ ) dx

In altre parole il problema elementare del calcolo delle variazioni consiste nella ricerca

dell’estremo debole di un funzionale della forma cui sopra, sull’insieme di tutte le curve

lisce congiungenti due punti dati, (a, A) e (b, B).

Teorema: Sia J [y(x)] = a-b f (x, y, y’) dx un funzionale definito nella classe delle funzioni

y = y(x) aventi derivata prima continua e soddisfacenti le condizioni al bordo. Condizione

necessaria e sufficiente affinché il funzionale abbia un estremo sulla funzione y(x) è che

questa soddisfi l’equazione di Eulero:

f,y – dfy’ /dx = 0

Le curve integrali della equazione di Eulero si chiamano stremali. Il problema ai limiti

non sempre ha soluzione e se una soluzione esiste essa può non essere unica.

1.2 Problemi di campo

I processi fisici più disparati, nel cui novero rientrano fenomeni studiati in idrodinamica,

elasticità, elettrodinamica, trasmissione del calore etc., sono essenzialmente questioni

della fisica-matematica. Nella larga cerchia di questioni che la fisica matematica tratta,

soffermeremo le nostre attenzioni sui problemi che conducono ad equazioni differenziali

alle derivate parziali.

1.2.1 Equazioni differenziali alle derivate parziali (PDE)

Una PDE stabilisce una relazione tra una funzione, incognita, di più variabili e le sue

derivate parziali ovvero come nella forma:

u = u(x,y) (1.1)

F (x, y, u, ux uy, uxx, uyy) = 0

Distinguiamo l’ordine di una PDE in funzione del grado di derivazione cui la funzione si

presenta:

ux – kuy = 0 (1° ordine) (1.2)

uxx – uy = 0 (2° ordine)

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Inoltre, affermiamo che una PDE è lineare se è di 1° grado rispetto all’esponente:

ux = kuy (lineare)

ux = kuy2 (non lineare) (1.3)

Infine, riguardo l’omogeneità:

ux + uyy = 0 (omogenea)

uxx – uy = F(x) (non omogenea) (1.4)

In generale, è possibile avere infinite soluzioni per un problema retto da un sistema di

PDE. In ordine ad individuare una singola funzione, che rappresenta la soluzione del

problema fisico in esame, è necessario imporre alcune condizioni specifiche dedotte dalla

fisica del problema. Queste condizioni (che consentono di definire il problema come “ben

posto”) sono le condizioni al contorno e le condizioni iniziali. Riguardo le condizioni al

bordo sono distinte tre classiche condizioni:

-condizione di Dirichlet u = g x ,

-condizione di Neumann un = h x (1.5)

-condizione mista u + un = k x

dove g, h, k, sono prescritte funzioni sulla frontiera del corpo.

Nel caso delle condizioni iniziali, esse devono essere tali da soddisfare le equazioni che

descrivono il processo fisico, quando questi è iniziato. Ad esempio, introdotto l’operatore

di Laplace 2 , venga considerata l’equazione che regola la trasmissione del calore in un

solido:

2 T = c Tt x (1.6)

Le condizioni al bordo che governano il problema possono essere poste nella forma:

T (x,y,t) = T1* (x,y) x1

Tn(x,y,t) = T2*( x,y) x2 (1.7)

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Mentre, le condizioni iniziali possono essere poste nella forma:

T (x,y,0) = To x (1.8)

L’insieme delle condizioni a bordo e delle condizioni iniziali con i coefficienti delle

funzioni, oltre qualsiasi termine disomogeneo della PDE, costituiscono i dati del

problema da descrivere. Questi, è detto essere “ben posto,” nel senso di Hadamard, se la

soluzione dipende con continuità dai dati ovvero, in generale, se a piccole variazioni dei

dati corrispondono piccole variazioni della soluzione. Il problema è definito “ben posto”

se:

-la soluzione esiste

-la soluzione è unica

-la soluzione dipende con continuità dai dati

Viceversa il problema è detto essere “mal posto”.

Riprendiamo, nel considerare i precedenti sulla classificazione delle PDE, soffermando

l’attenzione su quelle del 2° ordine al fine di individuare una caratterizzazione generale

ed identificare un metodo di soluzione attribuendo a priori particolari proprietà della

soluzione.

Consideriamo la forma generale di una PDE del 2° ordine in due variabili indipendenti:

A(x,y)uxx + 2B(x,y)uxy + C(x,y)uyy + D(x,y)ux + E(x,y)uy + F(x,y)u=G(x,y) (1.9)

La più conveniente forma di classificazione, è nel restringere l’attenzione sui coefficienti

A, B, C, dei termini al secondo ordine caratterizzando l’equazione in funzione del relativo

valore di questi coefficienti. Posto A, B, C costanti e tali che:

Auxx + 2Buxy + Cuyy + (termini ordine inferiore) = 0 (1.10)

la classificazione può essere posta dall’identificazione del discriminante [B 2 - 4AC ] ed,

in particolare, del segno del discriminante:

B2 - 4AC < 0 PDE del tipo ellittico

B2 - 4AC = 0 PDE del tipo parabolico (1.11)

B2 - 4AC > 0 PDE del tipo iperbolico

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Questa classificazione consente di poter individuare, per diversi fenomeni fisici, quella

che è la natura della PDE ed, in particolare, poter ricorrere a particolari strategie di

soluzioni.

-Equazioni di tipo ellittico: nello studio dei processi stazionari di natura fisica più

disparati le equazioni più comuni sono del tipo ellittico e la più frequente è l’equazione di

Laplace 2u = 0. La funzione u si dice armonica nel dominio se è continua nello stesso

insieme alle sue derivate fino al secondo ordine e verifica l’equazione di Laplace.

-Equazioni di tipo parabolico: sono la tipologia di equazioni che governa i processi di

conduzione di calore e di diffusione. L’equazione elementare di tipo parabolico uxx – uy =

0 si chiama usualmente equazione della conduzione termica.

-Equazioni di tipo iperbolico: sono le equazioni che descrivono i problemi fisici legati a

fenomeni vibratori. L’equazione elementare di questa tipologia è uxx – uyy = 0 e prende il

nome di equazione delle vibrazioni di una corda. Tutti i fenomeni fisici che si

caratterizzano con onde supportano equazioni di tipo iperbolico.

1.3 Elementi di meccanica del continuo

Di seguito, si richiamano alcuni fondamenti della meccanica dei corpi continui, riportati

come richiamo logico agli argomenti in seguito sviluppati. Si rimanda ai classici testi

della disciplina, allorquando si vogliano rivedere concetti più approfonditi.

Def.32. : Per un corpo continuo , definiamo punto materiale o particella materiale, una

porzione infinitesimale di volume del continuo.

Un continuo è una distribuzione continua della materia; l’aspetto matematico di questa

definizione significa sostanzialmente assumere campi con funzioni continue, o quasi

continue, ( anche a tratti in entrambi i casi). Ricercando una definizione più precisa,

consideriamo un corpo ed una classe di funzioni g: n con le proprietà:

- g è invertibile

- g () è una regione regolare

- g1, g2 g la funzione g1 g2 è di classe C1 ()

Consideriamo ora una funzione [g μ ] ön avente le proprietà:

- è positiva, (g, ) 0 g, x

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- dipende con continuità dal volume

- è additiva

Possiamo concludere, affermando che un corpo continuo è una terna ( , g, , ) ove gli

elementi possiedono le proprietà sopraelencate. Il limite:

(g, x) = lim g (B) g (x) (g,) / vol g ( ) (1.12)

è definito come la densità di massa del corpo continuo. Una proprietà del continuo è

costituita dalla distribuzione della massa. E’ assunto che una qualsiasi parte ° della

configurazione del corpo , possieda una massa m(°) che dipenda solo dalla parte

presa in esame, mentre è indifferente sia dalla configurazione occupata, sia da un

cambiamento di osservatore. ° resta associato lo scalare m() con la proprietà che

se il volume tende a zero, allora la massa tende a zero, ovvero la massa è assolutamente

continua rispetto al volume. Esiste quindi una funzione (g, x) detta densità di massa tale

che:

= Û (g, x) d (1.13)

L’indipendenza della configurazione consente di formulare il principio di conservazione

della massa, ovvero la massa è costante nel tempo.

(d / dt ) = d/dt Û (g, x) d (1.14)

Enunciamo ora il principio della quantità di moto.

P (t ) = Û Vi d (1.15)

La velocità di variazione nel tempo della quantità di moto, di una porzione arbitraria della

configurazione, è eguale alla risultante delle forze che agiscono sulla porzione

considerata.

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ÛTij,j + fi – vi d = 0 (1.16)

Riferito al moto rispetto ad un punto, il principio del momento della quantità di moto

afferma:

Ûx v d = (1.17)

La velocità di variazione nel tempo del momento polare, relativo a qualsiasi posizione e

rispetto a qualsiasi punto, è eguale al momento risultante delle forze agenti.

1.3.1 Stato di sforzo

Attraverso il principio delle sezioni di Eulero, definito il vettore tensione t(x, n) relativo

alla giacitura di normale n e al punto x, il 1° teorema di Cauchy assicura che la

dipendenza di t da n è lineare, ovvero esiste un campo tensoriale T tale che:

t = n ti = ij nj (1.18)

Le componenti ad indici uguale ii rappresentano la tensione normale sulla giacitura

normale ad xi , mentre quelle ad indici diversi ij rappresentano la tensione tangenziale

sulla giacitura normale a xi, diretta nel verso di xj.

Definite le forze di volume f x e le forze sulla superficie libera s2, le equazioni

di equilibrio di Cauchy stabiliscono che:

div + f = 0 () = T () s = n () (1.19)

Diciamo che è campo di tensione staticamente ammissibile allorquando verifica le

equazioni di Cauchy. Diremo inoltre che uno stato di tensione è detto ammissibile se è di

classe C1 su *.

1.3.2 Stato di deformazione

Sia una regione di 3 (regione occupata dal corpo elastico) e sia x il generico punto di

. Sia u: 33 la funzione spostamento, che x associa lo spostamento u(x). Sia

inoltre * l’insieme di punti di e della sua frontiera.

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Def.33 : diremo che u è uno spostamento ammissibile se:

- è invertibile

- è di classe C1(), cioè continuo e differenziabile su *.

Per ogni spostamento ammissibile allora, il gradiente u esiste ed è continuo x.

Nella teoria lineare ( o infinitesima) dell’elasticità si suppone che il gradiente dello

spostamento sia infinitesimo:

u 1 (1.20)

Def. 34: Si definisce tensore della deformazione la matrice costituita dalla parte

simmetrica del gradiente dello spostamento:

ij = ½ (ui,j + uj,i ) (1.21)

Il nome tensore della deformazione è dovuto al fatto che caratterizza localmente la

deformazione. Infatti, le componenti ii relative alla diagonale principale rappresentano

gli allungamenti relativi di elementi disposti inizialmente parallelamente agli assi xi ,

mentre le componenti ij rappresentano la metà della variazione d’angolo fra due

elementi inizialmente disposti lungo gli assi ortogonali xi, xj .

1.3.3 Legame costitutivo elastico lineare

Per un materiale elastico lineare ed isotropo sussiste la seguente relazione sforzo-

deformazione (legge costitutiva del materiale elastico lineare)

= in componenti ij = ijrs rs (1.22)

L’ultima relazione non è altro che la più generale relazione lineare tra ij ed ij. Il tensore

del 4° ordine , è definito anche come la matrice delle costanti elastiche che caratterizza

il materiale. Se il corpo è fatto dello stesso materiale, allora le ijrs sono indipendenti da x

(corpo omogeneo), altrimenti esiste una dipendenza (corpo non omogeneo). In

conseguenza delle simmetrie di ed , il tensore è un tensore simmetrico che possiede

proprietà di simmetria, in particolare: le simmetrie minori ijrs = jirs, ijrs = ijsr, le

simmetrie maggiori = T ed in ultimo le simmetrie elastiche.

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1.4 Aspetti atomistici nella teoria dell’elasticità.

Le deformazioni elastiche in un materiale cristallino possono essere prodotte non solo

dall’azione di forze esterne, ma anche generate da difetti della struttura interna. Tali sono

le dislocazioni (difetti di linea) che influenzano necessariamente le proprietà elastiche del

materiale. Lo studio delle proprietà delle dislocazioni appartiene alla fisica, mentre per

quanto riguarda gli aspetti d’interesse del corso saranno riguardati gli aspetti

macroscopici del fenomeno che interessano le teoria dell’elasticità. In genere le

dislocazioni sono rappresentanti di deformazioni permanenti subiti dal materiale a seguito

di forze sufficientemente grandi e tali da generare spostamenti di una parte del reticolo

rispetto all’altra secondo piani di scorrimento. Le dislocazioni, insieme agli altri difetti

presenti (impurezze, vacanze, imperfezioni interstiziali, ovvero difetti puntuali) alla scala

di struttura atomica sono argomenti di estremo interesse, poiché tutti elementi che

contribuiscono alla determinazione della resistenza del materiale alla scala macroscopica.

(a) (b)

Fig. 1. Imperfezione per inserzione di un piano di atomi extra (a) - Tipologia delle dislocazioni (b) [Sadd]

Gli effetti delle dislocazioni si traducono nella generazione di stress e spostamenti locali

vicini alla difetto. Riguardo il campo di stress, lo stesso esibisce singolarità, ma con

unico e ben preciso valore mentre, lo spostamento è finito con molteplicità di valori. La

discontinuità dello spostamento può essere misurata valutando le proprietà del contorno C

chiuso che della dislocazione. Il valore così determinato prende il nome di vettore di

Burgers bi dedotto come l’integrale:

bi = C dui = C (∂ui ∕∂xj ) dxj (1.23)

In merito alla determinazione dei campi di stress e spostamento attorno alle possibili

dislocazioni, si considera un modello piano elastico idealizzato. Il problema così

formulato è risolto utilizzando il metodo della variabile complessa.

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1.4.1 Solidi cristallini

La descrizione dei reticoli nei materiali cristallini si rappresenta attraverso il classico

reticolo di Bravais definito in 3 come l’insieme:

(O, 1 2 3) { x œ 3 : x = Si ni i + O} (1.24)

Come dimostrato da Ericksen due insiemi di vettori reticolari (1 , 2 , 3) e ( 1 , 2, 3)

generano un reticolo di Bravais se e solo se esiste una trasformazione lineare a

coefficienti interi ij con det [ij ] = 1 tale che

i = Si ij i (1.25 )

Se gli atomi di cui è composto il reticolo sono tutti uguali, è ragionevole supporre anche

l’esistenza di un’energia libera dipendente dal reticolo e dalla temperatura .

= * (1 , 2 , 3 , ) (1.26)

Si dimostra, altresì, che quest’energia soddisfa le proprietà d’indifferenza materiale e

simmetria.

Attraverso la regola di Cauchy-Born è possibile transitare dalla teoria reticolare alla teoria

del continuo, secondo cui è possibile collegare la cinematica del reticolo con le

deformazioni omogenee, macroscopiche, del cristallo visto come un continuo. Posta,

quindi una deformazione del cristallo di gradiente F, si può scrivere la relazione che

descriva la deformazione del reticolo come fi = Fi e quindi, con la regola di Cauchy

Born passare dall’energia del reticolo a quella del continuo W = (F , ), che continua ad

avere la dipendenza dalla energia libera di reticolo . Anche la W(,) così definita rispetta

le proprietà di indifferenza e simmetria. Al successivo capitolo 7 “ Micromeccanica dei

materiali” saranno affrontati gli aspetti relativi ai modelli ed alle metodologie di calcolo

per tali sistemi.

Referenze bibliografiche

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[DP]1 G. Del Piero, (1976)Lezioni di Complementi di Scienza delle Costruzioni, Facoltà di Ingegneria Catania

[DP]2 G. Del Piero, (1981) Lezioni di Meccanica del Continuo, CISM, Udine

[G]1 M.E. Gurtin, (1981) An introduction to Continuum Mechanics, Academic Press, N.Y..

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[H] P. Haupt, (2002) Continuum Mechanics and Theory of Materials, 2nd Edition, Springer-Verlag, Berlin

[KP] D. Kondepudi, I. Prigogine, (1999) Modern Termodynamics, Wiley, N.Y.

[PA] P. Podio Guidugli, F.Andreussi,(1978) Elementi di Meccanica del Continuo ed Elasticità, E.T.S., Pisa, 1978

[Se] A.P.S. Selvadurai,(2000) Partial Differential Equation in Mechanics,. Springer, N.Y.

[S] M. Šilhavý, (1997) The Mechanics and Thermodynamics of Continuous Media, Springer-Verlag, Berlin

[TS ] A. Tichonov, A. Samarskij, Equazioni della fisica Matematica, MIR 1981

[T] C. Truesdell, The Rational Thermodynamic, 2nd edition, Springer-Verlag, N.Y., 1984

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Capitolo 2: Meccanica dei materiali 2.1. Assiomi in meccanica dei materiali

Le equazioni costitutive tengono in conto che i corpi continui possono essere costituiti da

materiali diversi. Come nella geometria, una volta formulate le leggi generali ci si rivolge

allo studio di particolari classi di figure, così in meccanica dei continui si rivolge allo

studio di classi di materiali, ognuna delle quali, contraddistinta da particolari assunti

costitutivi. Da un punto di vista, la precisazione della classe , configurazioni possibili,

insita nella definizione di corpo continuo, può riguardarsi come ipotesi costitutiva. Essa

suddivide i corpi continui nelle classi dei corpi rigidi, deformabili, incomprimibili ecc. In

una classificazione di tipo formale, una suddivisione dei corpi continui in sottoclassi

avviene introducendo una ulteriore struttura sul corpo continuo , giungendo alla

nozione di corpo costituito da un certo materiale o corpo materiale. Si consideri ora una

coppia ( y*, T*) dove y* è un moto di e T* è un campo di tensioni simmetrici di classe

C1 definito sulla traiettoria di y*. Per ogni punto (y, t) della traiettoria, T* associa il

tensore T = T*(y,t). La coppia così definita prende il nome di processo dinamico per e

specificare la natura del materiale costituente il corpo significa specificare l’insieme dei

processi dinamici ammissibili. A qualunque classe di processi dinamici ammissibili è

richiesto osservare i seguenti principi generali:

∏ Principio di determinismo dello stress. Si afferma che il valore attuale della tensione è

determinato dalla storia passata del moto. Analiticamente significa postulare l’esistenza

di una funzione tale che:

T* (, t) = (yt) (2.1)

∏ Principio di azione locale. In ogni punto xo la tensione è determinata dalla

restrizione della storia passata del moto all’intorno di xo. In formula:

x(yt) = T*(y*(x,t), t) (2.2)

Ove è il funzionale di risposta del materiale valevole x. La relazione prende anche

il nome di equazione costitutiva del materiale.

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∏ Assioma di indifferenza delle equazioni costitutive. In altre parole per ogni insieme di

tensori ortogonali Q(t) dovrà essere rispetta la condizione:

Q(t) x(y* t) QT (t) = x ( Q( y*)t ) (2.3)

2.2 Materiali semplici

Si definisce materiale semplice, un materiale per il quale la tensione nel punto x è

determinata dalla storia del gradiente di deformazione.

T (t) = (Ft ) (2.4)

La classe dei materiali semplici è abbastanza vasta da contenere, in sostanza, tutti i

materiali studiati. L’espressione sopra indicata obbedisce automaticamente ai principi di

determinismo ed azione locale mentre il principio di indifferenza materiale comporta le

seguenti relazioni:

Q(t) (F t) QT (t) = ( Qt F t ) (2.5)

Applicando il teorema della decomposizione polare F t = R tU t per Q t ª( RT )t si ottiene:

(F t) = R (t) (U t) RT (t) (2.6)

T (t ) = R (t) (U t) RT (t)

L’ultima equazione è la forma ridotta dell’equazione costitutiva dei materiali semplici.

Essa tiene conto, automaticamente, delle restrizioni imposte dal principio di indifferenza

materiale. Inoltre, essa mostra che nella determinazione del campo tensionale, non

interviene la storia passata dell’intero gradiente della deformazione F ma solo quella di

U, mentre la rotazione interviene solo con il suo valore attuale. In altre parole, il materiale

semplice non ha memoria delle rotazioni passate.

Così come la naturale dipendenza di T da x è quella di farlo dipendere dai gradienti

successivi di y in x, così la più naturale dipendenza della storia è quella attraverso le

derivate temporali successive, calcolate all’istante attuale t. S’introduce in tal modo una

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sottoclasse dei materiali semplici, ovvero quella dei materiali di tipo differenziale, la cui

equazione costitutiva prende la forma:

T (t) = g(F(t), F’(t), F’’(t)…..Fn(t)) (2.7)

dove g(,) è la funzione di risposta definita sulle (n+1)uple di tensori del 2° ordine. Si

osservi che, rispetto ai materiali semplici il funzionale di risposta è sostituito dalla

funzione g. In particolare un materiale differenziale d’ordine 1 nella forma:

T(t) = g (F(t), F’(t)) (2.8)

è detto viscoso, mentre un materiale di ordine zero:

T(t) = g (F(t)) (2.9)

è un materiale elastico. Un’altra importante sottoclasse dei materiali semplici è quella dei

materiali di tipo incrementale. Essi sono caratterizzati dal fatto che ogni processo

dinamico, del tipo ammissibile, soddisfa un’equazione differenziale della forma:

T p(t) = h (T p-1(t),…T’(t), T(t) ; F(t), F’(t),…Fn(t)) (2.10)

Una delle maggiori difficoltà incontrate nello sviluppo della teoria dei materiali semplici

è quella della formulazione di una coerente teoria della plasticità. Le ricerche condotte in

questa direzione hanno portato alla definizione di una classe di materiali semplici, i

materiali con rango elastico, le cui proprietà sono idonee a descrivere, con sufficiente

attendibilità, quello che comunemente si intende per comportamento elasto-plastico dei

materiali.

2.3 Materiali con rango elastico

Si definisce materiale con rango elastico un materiale semplice per il quale ad ogni storia

della deformazione F t è possibile associare in insieme (F t ) con le seguenti proprietà:

∏ (F t ) è una regione regolare dello spazio dei tensori del secondo ordine Lin+

(determinante positivo)

∏ F t $t > 0 tale che i valori di F t compresi in ( 0, t )Õ * (F t )

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∏ La regione associata alle continuazioni di F t contenute in * (F t ) è (F t )

∏ Per le continuazioni F q di F t * (F t ), la tensione T dipende solo dal valore attuale

F q (0) della storia continuata.

(F t ) è la regione elastica associata a F t, le continuazioni contenute in * (F t ) sono le

continuazioni elastiche di F t mentre, quelle in cui i valori concernenti, gli instanti

successivi a t sono esterni a (F t ), rappresentano le continuazioni anelastiche. L’ultima

proprietà afferma che ad ogni storia Ft si associa una funzione gFt, definita su * (F t ) a

valori tensoriali tale che la 2.11 definisca la funzione di risposta del materiale in (F t ):

T = gFt (F) (2.11)

Considerando variazioni della storia della deformazione si può porre:

T (t) = “ gFt (F (t)) F (t) + gFt (F(t)) (2.12)

Dove, si evidenzia che T (t) è espresso dalla somma di una parte lineare in F(t) e di

una parte dipendente dalla variazione della funzione di risposta. Si può quindi porre:

gFt (F (t)) = 0 per continuazioni elastiche (2.13)

gFt (F (t)) 0 per continuazioni anelastiche

Detti (Ft) e (Ft) i gradienti di gFt e di gFt in (F(t)) la tensione prende la forma

T (t) = (F t) F (t) per continuazioni elastiche (2.14)

T(t) = (F t) F (t) per continuazioni anelastiche

Di questo tipo, sono le equazioni fenomenologiche della plasticità, vale a dire quelle dei

materiali elasto-plastici incrementali.

2.4 Materiali con memoria evanescente

Nella definizione di materiale semplice si è assunto che la tensione è determinata dalla

storia passata del gradiente di deformazione. Tuttavia, è molto difficile ammettere, anche

in sola linea di principio, che sia possibile conoscere l’intera storia passata di F. Per porre

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rimedio a questa difficoltà si introduce il principio della memoria evanescente il quale

afferma, in sostanza che, agli effetti della determinazione di T, le deformazioni subite nel

passato sono di tanto minore importanza quanto più sono lontane nel tempo. Per definire

meglio questo concetto, data una storia di deformazione F si definisce storia costante e

perturbazione associata a F le storie F° e F*t così definite:

F°(s) = Ft(0) , F*t(s) = Ft(s) – Ft(0) , s[0, ¶) (2.15)

e diciamo tensione residua associate a F° la tensione T°

T° (t) = (F°) (2.16)

Ovvero, la tensione che si manifesta nel materiale assoggettato alla storia costante F°. In

altri termini T° è la tensione che si manifesta nel materiale che non si deforma da un

tempo infinito. Ovviamente cessa la dipendenza dal tempo e quindi T°(t) = T° = cost..

Ritornando ad una generica storia F t poniamo la tensione nella forma:

T (t) = (F°) + (F *t) (2.17)

Ponendo che (0) = 0 per F*t = 0 si ha:

(F°) = (F°) = T° (2.18)

quindi, la tensione si può scrivere come:

T(t) = T° + (F *t) (2.19)

Una conseguenza del principio della memoria evanescente è tale che eseguendo una

singola perturbazione, nell’intorno di un istante t assegnato, man mano che essa si

allontana nel passato, la sua misura tende a zero e quindi la tensione T tende alla tensione

residua T°. Questo effetto è detto rilassamento della tensione, o comunemente scarico di

tensione (es. tipico nei problemi di precompressione nelle strutture in c.a.).

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Fig. 2. Classi di comportamento per diverse risposte di materiali [Haupt]

Referenze bibliografiche

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[DP]2 G. Del Piero,(1981) Lezioni di Meccanica del Continuo, CISM, Udine.

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[PG] P. Podio- Guidugli,(1994) Dodici Lezioni su Argomenti Costitutivi in Elasticità Lineare, CNR-GNFM, Roma

[PA] P. Podio Guidugli, F. Andreussi,(1978) Elementi di Meccanica del Continuo ed Elasticità, E.T.S., Pisa

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Capitolo 3: Elasticità lineare 3.1 Assunzioni costitutive in elasticità lineare.

In precedenza, (vedi Cap. 1) trattando alcune nozioni fondamentali della meccanica dei

corpi continui, abbiamo definito la relazione che lega i campi di sforzo e deformazione

attraverso il tensore elastico , caratterizzato da alcune importanti proprietà di simmetria,

quali la simmetria maggiore e la simmetria elastica, come di seguito illustrate.

-Simmetria Maggiore. La simmetria maggiore impone che il tensore ∈Sym, ovvero che

T , in componenti ijrs = rsij . Illustriamo il significato fisico, per tale proprietà, ed a

tal fine ipotizziamo di operare nello spazio del tensore della deformazione , imponendo

una curva la cui equazione è funzione del parametro t : (t) con t0<t<t1 . Questa

ultima rappresenta una successione continua di deformazioni impresse al corpo. Il lavoro

di deformazione vale:

W() =!t (t) ÿd /dt (3.1)

Sostituendo la relazione costitutiva si ha :

W() = !t (t) ÿd/dt (3.2)

Sviluppando l’integrando si ottiene:

d/dt (ÿ ) d/dt ÿ + ÿd/dt (3.3)

se il tensore è simmetrico allora (ÿ) (ÿ ) ( ÿ), quindi i termini al 2°

membro della 3.3 coincidono e di conseguenza:

d/dt (ÿ ) 2 ÿ d/dt (3.4)

quindi, la 3.2 diventa:

W() = !t ½ ((t)ÿ = ½ [ ÿ]t1- to (3.5)

Posto: (t0) = 0, in definitiva si ottiene:

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W() = ½ (ÿ) (3.6)

Segue che se il tensore elastico verifica le proprietà della simmetria maggiore, il lavoro

di deformazione è funzione solo degli estremi della curva (t) e non dell’effettivo

percorso. Significa quindi che W è funzione potenziale per e la W = W() prende il

nome di densità di energia potenziale elastica (poiché è riferita ad un generico intorno)

dipendendo esclusivamente dalle proprietà costitutive del materiale. Inoltre, si osserva

chiaramente che la W rappresenta l’applicazione W: SymØ definendo così il funzionale

per la densità dell’ energia di deformazione.

-Simmetrie elastiche. Un’altra proprietà del tensore elastico è quella della simmetria

elastica. Supposto di applicare, ad un corpo continuo, uno stato di deformazione tale che

l’unica componente non nulla sia la 11 = 1. Lo stato di tensione derivante sarà

conseguentemente ij = ij11 . Se lo stato di deformazione varia, in modo che lo stato di

deformazione sia espresso dall’unica componente diversa da zero 22 = 1, lo stato di

tensione derivante sarà ij = ij22. Se viene verificata l’eguaglianza ij11 = ij22 , allora si

può affermare che il materiale possiede proprietà di simmetria elastica.

Teorema: Sia œSym e œOrth, posto * = T allora si ha:

-*œSym

-, * hanno le stesse componenti principali

-se n è direzione principale di , Tn è direzione principale per *

Dimostrazione: svolgiamo il trasposto di *

*T = (T)T = TT = T = * (3.7)

quindi *œSym. Per la seconda ipotesi deve essere n = n ed anche *n* = *n*.

Sostituendo l’espressione di * e moltiplicando a sinistra per T e si ha:

TTn* *Tn* (3.8)

ricordando le proprietà dei tensori ortogonali si ottiene:

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Tn* *Tn* (3.9)

L’ ultima relazione afferma che Tn* è una direzione principale di e * una

componente principale. Restano così dimostrate contemporaneamente la seconda e la

terza ipotesi. In questo caso i campi ed * possono essere interpretati come la stessa

deformazione ruotata di due quantità diverse. Se ora, determiniamo lo stato di tensione

per i due campi di deformazione, ricaveremo, rispettivamente, e * essendo altresì

possibile che sia verificata o meno la relazione:

* = T (3.10)

Nel caso affermativo diremo che, al ruotare della deformazione è ruotata anche la

tensione della stessa quantità, quindi il materiale ha manifestato certe proprietà di

simmetria definite come simmetrie elastiche. In termini di deformazione la 3.10 si può

porre anche nella forma:

* = ()T o anche (T) = ()T (3.11)

la restrizione 3.11 può valere per certi tensori ortogonali , e per altri non valere. Da ciò

ha origine il concetto di Gruppo di Isotropia caratterizzato dal tensore .

Def. Un materiale si dice isotropo se il suo gruppo di isotropia è costituito da tutti i

tensori ortogonali che verificano la restrizione 3.11.

Infine, riguardiamo un’ulteriore restrizione sul tensore elastico nel caso lineare.

Def. Un materiale elastico lineare è isotropo se per ogni tensore ortogonale vale la

seguente equazione costitutiva (equazione di Lamè):

ij = 2 ij + ∑r rr ij (3.12)

che in forma assoluta diventa:

2 I I (3.13)

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dove , sono le costanti di Lamè.

3.1.1 Costanti elastiche per il solido isotropo

Negli aspetti computazionali le costanti elastiche che vengono utilizzate sono diverse da

quelle presenti nella equazione di Lamè, ma in relazione con le stesse. Queste costanti

sono così definite:

Modulo di elasticità longitudinale (Young): è il rapporto tra la trazione

(compressione) che viene applicata ad un elemento unitario e l’allungamento che

lo stesso subisce. In formula:

E 11 / 11 (3.14)

Modulo di elasticità tangenziale: E’ il rapporto tra lo sforzo di taglio che si

applica ad un elemento unitario e lo scorrimento che esso subisce. In formula:

G 12 /12 (3.15)

Coefficiente di elasticità trasversale (Poisson). E’ il rapporto tra la contrazione

trasversale e l’allungamento longitudinale nel caso della trazione semplice

(oppure l’accorciamento nel caso della compressione). In formula:

22 11 (3.16)

3.1.2 Relazione tra moduli elastici e coefficienti di Lamè

Nella definizione dei moduli E, G, è stata considerata la tensione come variabile

indipendente. Viceversa, nella equazione di Lamè è invece la deformazione ad assumere

tale ruolo. Per determinare la relazione tra i moduli elastici e le costanti di Lamè,

determiniamo, prima, l’inversa della equazione di Lamè. Per fare ciò si moltiplicano

entrambi i membri della 3.13 per il tensore identico I ottenendo:

I 2 I I3 I(2 3) (3.17)

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ricavando in tal modo il primo invariante del tensore :

I I /(2 3) (3.18)

sostituendo nella 3.13 si ha:

2 I I /(2 3) (3.19)

quindi, si ricava dalla forma inversa della 3.19:

½ ( ) ] (3.20)

Consideriamo ora uno stato mono-assiale di tensione ove l’unica componente diversa da

zero è la 11 . Applicando la 3.20, per componenti, trovasi:

11 ½ 11 ( )11 ] (3.21)

sviluppando entro parentesi:

11 ½ ( ) (3.22)

semplificando si ottiene:

11 ( ) (3.23)

Analogamente per le altre componenti normali del tensore della deformazione si ha:

22 33 ½ [ ( )] (3.24)

è evidente che per le componenti di scorrimento risulta:

12 13 23 0 (3.25)

29

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E’ possibile, ora, determinare la relazione tra i moduli e le costanti di Lamè. Nel caso del

modulo elastico longitudinale si ha:

E ( )/( ) ( )/( ) (3.26)

mentre nel caso del coefficiente di Poisson:

22 11 ½ [ ( )] [ ( )/ ] () (3.27)

Riguardo il coefficiente di elasticità tangenziale G , supponiamo ora agente uno sforzo di

taglio puro sull’elemento unitario piano. L’applicazione dell’equazione di Lamè

invertita trova:

12 (3.28)

Per le altre componenti si ha: 11 22 33 13 23 0. Segue la determinazione del

valore di G :

G 12 /12 ( ) (3.29)

3.1.3 Ortotropia - Anisotropia

Con riguardo alle simmetrie materiali si è precedentemente enunciato il concetto di

gruppo di isotropia , come l’insieme dei Orth tali che Sym valga la restrizione

sul tensore degli sforzi. Per verificare questa ultima è sufficiente verificare che sia

effettivamente un gruppo, ovvero:

(3.30)

,

ne consegue la seguente:

30

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Def.: Un materiale è isotropo se il gruppo di simmetria Orth. Viceversa è anisotropo

se il gruppo di simmetria Orth.

Nelle applicazioni alla scienza dei materiali, sono infiniti i numeri di sottogruppi del

gruppo ortogonale ma, dodici di loro sono tali da descrivere, in maniera esaustiva, il reale

comportamento anisotropo dei materiali.

In particolare i primi 11 sottogruppi di Orth, denotati come ij corrispondono alle già

note 32 classi di cristalli. Coleman & Noll hanno formulato una lista dei generatori per

ciascuno di questi sottogruppi partendo da una base ortonormale {k,l,m } e da un tensore

ortogonale e, corrispondente alla rotazione dell’angolo , rispetto all’asse, nella

direzione e. Il dodicesimo sottogruppo consente la seguente definizione:

Def. : Un materiale è definito trasversalmente isotropo, rispetto ad una generica direzione

m, quando è costituito dal gruppo , generatore unitario, e dalla rotazione m, con 0

. La isotropia trasversale caratterizza i materiali compositi del tipo laminati.

Def.: Un materiale è definito ortotropo quando il suo gruppo di simmetria ij contiene la

riflessione di tre piani mutuamente ortogonali.

3.1.4. Teoremi di risposta per i materiali isotropi.

Teorema: Si assuma un materiale elastico lineare e isotropo, allora:

-la risposta per un’uniforme dilatazione è una uniforme pressione.

Significa che esiste una costante positiva k, chiamata modulo di compressione, tale che:

[ ] = 3k (3.31)

-la risposta per un semplice scorrimento è un puro taglio. Allora, per ogni m,n versori

ortogonali, esiste una costante , detta modulo di taglio, tale che:

[sym(mn)] = 2sym(mn) (3.32)

31

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-se tr = 0 allora:

°= ° (3.33)

Teorema: Si assuma un materiale elastico lineare isotropo con la restrizione 2k.

Allora la trasformazione lineare ha solo due valori caratteristici, k e 2, tali che lo

spazio che caratterizza 3k è l’insieme di tutti i tensori della forma .

Viceversa lo spazio caratteristico corrispondente a è l’insieme di tutti i tensori∈ Sym a

traccia nulla (°).

Def.: Per un materiale isotropo, se e allora, Sym:

tr (3.34)

segue che il tensore elastico è invertibile ed il suo tensore inverso -1 è ammesso

dalla relazione:

tr Sym (3.35)

Come immediata conseguenza, assunta una base ortonormale {ei}i=1,2,3, , si consideri uno

stato tensionale , di puro taglio. Il corrispondente campo di deformazione ha la forma:

(3.36)

0000000

0000000

dove il valore delle componenti ij sarà pari a ().

Analogamente, nel caso di uniforme pressione si ha:

p (3.37)

100010001

000000

il valore assunto dalle componenti ij sarà eguale a kp, con k ⅔ (+).

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Infine nel caso della trazione pura si ha:

(3.38)

00000000

3

2

1

000000

rammentando le espressioni del modulo di elasticità longitudinale E ++, e

del modulo di elasticità trasversale + si avrà:1E, E .

Infine, considerando l’inversa della equazione di Lamè:

+tr (3.39)

segue la considerazione che quando un solido elastico è stirato, la sua lunghezza aumenta,

mentre il suo volume decresce quando soggetto a pressione. Infine per uno sforzo di

taglio positivo una analoga deformazione di puro scorrimento si manifesta. Inoltre, uno

sforzo di pura trazione comporta una contrazione nella direzione perpendicolare alla

direzione dello stesso.

Tutto ciò comporterà le seguenti restrizioni sulle costanti elastiche:

E ; ; k ; (3.40)

3.2 Formulazione generale del problema dell’equilibrio elastico

Un solido sotto l’azione di forze e/o distorsioni si deforma e le sue reazioni di vincolo

devono costituire un sistema equilibrato con le forze esterne. L’equilibrio si realizza nella

sua configurazione deformata (incognita) e le equazioni di equilibrio contengono le

dimensioni geometriche del corpo deformato, oppure i dati iniziali ed i parametri che

caratterizzano la deformazione. Determinare la configurazione finale significa risolvere il

problema dell’equilibrio elastico, ovvero determinare, in ogni punto del corpo, lo

spostamento, la tensione e la deformazione una volta assegnata la geometria del corpo, i

vincoli e le sollecitazioni agenti. La linearizzazione della deformazione consente di

semplificare il problema potendo scrivere l’equilibrio sulla configurazione indeformata.

Analiticamente parlando, si ha un certo numero di equazioni di campo con le relative

condizioni al contorno. Sono però pochi i casi in cui le soluzioni classiche possono

applicarsi e quindi determinare soluzioni in forma chiusa. Le condizioni al bordo,

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connesse con la forma del corpo, costituiscono un serio ostacolo all’applicazione delle

classiche soluzioni integrali. Si ovvia a ciò discretizzando il corpo, ovvero dividendo il

dominio in tanti sottodomini, ponendo variabili indipendenti gli spostamenti oppure gli

sforzi in corrispondenza dei nodi. Le superfici della frontiera sono supposte

sufficientemente regolari, tranne che al più qualche insieme di misura nulla. Le PDE che

governano il problema sono approssimate mediante un sistema di equazioni algebriche

con un numero finito di incognite e, per ogni elemento, la soluzione del problema

consiste nel determinare la relazione, in ogni nodo, tra forza e spostamento.

-Posizione del problema : Si consideri, un corpo continuo , omogeneo costituito da

materiale elastico lineare ed isotropo, nella sua configurazione di riferimento , e siano

assegnati:

-la densità x

-il materiale ovvero il tensore = (x) su dotato delle simmetrie minori

-i vincoli ovvero la funzione u = u*(x) in 1

-il campo di forze esterne f e s2

Sono da determinare:

-il campo di spostamenti e le tensioni in ogni punto del corpo, ovvero i campi:

u = u (x)

= (x) (3.41)

tali che siano soddisfatte contemporaneamente le relazioni:

Equilibrio div + f = 0 in (3.42)

n = s in 2

Costitutive = in (3.43)

Congruenza = ½ (u + uT) in (3.44)

Vincolo u = u* in 1 (3.45)

Il problema così formulato si definisce “ problema misto dell’elastostatica ”.

Nel caso che sulla frontiera siano assegnate le forze si definisce il “problema nelle forze”

viceversa, si definisce il “problema agli spostamenti” se questi ultimi sono assegnati al

bordo.

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Sotto opportune ipotesi di regolarità sui dati, le equazioni cui sopra possono essere scritte

tutte in termini di forze oppure tutte in termini di spostamenti confermando così la

classificazione mista del problema.

3.2.1 Equivalenza tra formulazione differenziale e formulazione integrale.

-Formulazione differenziale

In questo caso le equazioni che reggono il problema sono esprimibili come segue:

div + f = 0 () = u () (3.46)

s = n (2) u = u* (1)

Le incognite risultano, lo stato di tensione ed il campo di spostamenti u. E’ possibile

eliminare sostituendolo con la relazione costitutiva:

div (u) + f = 0 ()

u = u* (1) (3.47)

s =(u) n (2)

e, conseguentemente, caratterizzare il problema in termini di solo spostamenti. Questa

posizione comporta la necessità di costatare se il problema è ben posto, ovvero se la

soluzione esiste, è unica, dipende con continuità dai dati. Prima di dimostrare tale

proprietà diamo alcune importanti definizioni:

-spostamento virtuale: data una configurazione , si definisce spostamento virtuale una

funzione v definita su tale che v soddisfi le ipotesi di linearità e regolarità.

-spostamento congruente: nella parte vincolata della frontiera sia v = v°(x) l’equazione

del vincolo. Diciamo, allora, che lo spostamento virtuale v è congruente con il vincolo v°

se rispetta lo stesso:

v(x) = v°(x) x1 (3.48)

-tensioni equilibrate: un campo di tensioni è equilibrato con le forze esterne se sono

verificate le equazioni di Cauchy.

Dimostriamo ora il seguente:

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Teorema: sia v uno spostamento virtuale congruente con il vincolo v° 1 e sia un

campo equilibrato con le forze esterne. Allora vale l’equazione dei lavori virtuali.

Dimostrazione: si consideri la prima equazione di equilibrio alla traslazione di Cauchy

e la si moltiplichi scalarmente per il campo di spostamenti v.

div v + f v (3.49)

scrivendo per componenti:

( j ij,j + fi ) v (3.50)

il prodotto scalare, a meno di fi , vale:

j xj (ij vi) = j (ij,j vi + v,i ij) (3.51)

esprimendo rispetto al termine della divergenza:

j (ij,j vi ) = j xj (ij vi) v,i ij (3.52)

ed applicando una trasformazione di Gauss-Green al 1° membro della parte a destra si

trova:

j ij nj vi j vi,j ij (3.53)

In notazione assoluta si ha:

div v = n v v (3.54 )

ritornando alla 3.49 e compattando si ha:

v = s v + f v (3.55)

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la 3.55 rappresenta l’equazione dei lavori virtuali a meno degli spostamenti di vincolo.

Sarà valevole anche il teorema inverso, ovvero se esiste l’equazione dei lavori virtuali

allora il campo di tensioni è equilibrato con le forze esterne.

Affermiamo che l’ELV è dedotta in conformità a due ipotesi: il sistema forze-tensioni è

equilibrato (staticamente ammissibile) ed il sistema spostamenti-deformazioni è

congruente (cinematicamente ammissibile). E’ necessario, però, ricordare che l’ELV è

una relazione astratta, infatti, il lavoro virtuale è diverso dal lavoro effettivo (lavoro

effettivo = ½ lavoro virtuale). In particolare nell’ELV i campi e v possono anche essere

diversi dal reale, basta che soddisfino le condizioni di ammissibilità inoltre, non è messa

in conto la natura del materiale.

Questa relazione resta in ogni modo un potente strumento di calcolo perché note due

condizioni la terza è automaticamente verificata. Vediamo ora alcune estensioni

dell’equazione dei lavori virtuali.

Principio delle forze virtuali. A partire da una configurazione deformata e congruente

conferiamo una variazione al campo delle tensioni tale da avere ancora un sistema

staticamente equilibrato:

(ij + ij),j + fi = 0 () (3.56)

(ij + ij) ni = si ()

la variazione del campo di tensioni comporta la generazioni di reazioni si tale da

soddisfare le equazioni ai limiti:

ij ni = si (1) (3.57)

inoltre, è nulla la variazione delle forze di volume fi = 0, sarà ij,j = 0 , inoltre è anche

si = 0 sulla parte di frontiera libera. In definitiva si può scrivere:

fi = 0 ()

si = 0 (2) (3.58)

si 0 (1)

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applicando l’ELV al 3.58 si ottiene:

∂ si vi = ij Eij (3.59)

Questa ultima espressione rappresenta l’equazione delle forze virtuali o anche principio

dei lavori virtuali complementare. Vediamo ora il duale:

Principio degli spostamenti virtuali. Partendo da una configurazione deformata,

equilibrata e congruente si conferisca una variazione al campo di spostamenti congruenti

v in modo che le variazioni costituiscano un campo cinematicamente ammissibile. In tal

caso sarà v = 0 sulla frontiera vincolata e le variazioni del campo deformativo

corrispondenti risulteranno:

ij = ½ (v i,j + v j,i ) (3.60)

il campo di spostamenti fornisce un sistema congruente:

v = 0 (1)

v 0 (2) (3.61)

v 0 ()

applicando l’ ELV alla 3.61 si trova:

fi vi + ∂ si vi = ij ij (3.62)

che costituisce l’equazione degli spostamenti virtuali. A questo punto è possibile

enunciare, per il problema dell’equilibrio elastico la relativa:

-Formulazione integrale.

Sia data l’ELV nella sua forma generale:

v d = 1 s v d1 + 2 n v d2 + f v d (3.63)

la 3.63 afferma che, per ogni spostamento congruente v corrisponde un campo di tensioni

equilibrato con le forze esterne.

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Sia il campo u la soluzione del problema per i dati f, s, u e sia:

= u (3.64)

ma, dalla formulazione differenziale, u è equilibrato con f, s e quindi vale l’ELV con

la sostituzione di u al posto di :

uvd = 1 s v d1 + 2 (u) n v d2 + f v d (3.65)

Viceversa se vale la relazione 3.65, per ogni spostamento congruente con il vincolo, per

l’ELV , u deve essere equilibrato con le forze esterne f, s, cioè saranno valevoli le

equazioni di Cachy

div (u) + f = 0 ()

u = u° (1) (3.66)

s =(u) n (2)

quindi, u è soluzione del problema di equilibrio in termini di spostamento.

Si dimostra così l’equivalenza tra la formulazione differenziale e la formulazione

integrale intesa come il seguente enunciato del problema dell’equilibrio elastico:

determinare una funzione u definita su tale che

-v congruente con il vincolo valga l’ELV

- u = u° sulla parte vincolata 1

Dalla soluzione del problema d’equilibrio scaturiscono alcune proprietà generali che sono

fondamentali nella trattazione delle teorie strutturali. Tra queste dimostreremo le più

importanti.

Teorema di unicità ( Principio di Kirchoff ). Siano dati, la configurazione , , u, f, s;

sia definito positivo, ovvero > 0, Sym+. Allora la soluzione esiste ed è unica

a meno di spostamenti rigidi.

Dimostrazione: si imponga che esistano due soluzioni, u’ e u” relative agli stessi dati.

Scrivendo l’ELV con spostamenti di vincolo nulli si ha:

u’ v d = 2 s v d2 + f v d (3.67)

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analogamente per la seconda soluzione:

u” v d = 2 s v d2 + f v d (3.68)

sottraendo membro a membro si trova:

(u’- u” ) v d = 0 (3.69)

il campo di spostamenti differenza (u’- u” ) è un campo che si annulla sul vincolo, quindi

u’ = u” = u°, la loro differenza è nulla:

(u’- u” ) (u’- u” ) = 0 (3.70)

ma, per la seconda simmetria minore di è possibile scrivere:

( ’ ” ) (’ ” ) = 0 (3.71)

ma, deve essere, dalla definizione di positività , > 0 per cui è u’ = u” a meno di

spostamenti rigidi.

Teorema (Clapeyron). Sia u soluzione per i dati , , , u, f, s. Sia = T, u° = 0.

Allora il lavoro virtuale delle forze esterne per gli spostamenti vale il doppio della

energia potenziale elastica.

Dim. Basta scrivere l’ELV con u al posto di v:

u v = 2 s u d2 + f u d (3.72)

ma, per definizione di energia potenziale elastica:

W() = ½ = ½ u v (3.73)

e quindi, in definitiva:

2 s u d2 + f u d = 2W() (3.74)

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giova, altresì, osservare che l’ipotesi di simmetria di serve solo a dare a W() il

significato di energia di deformazione.

3.2.2 Soluzione dell’equilibrio elastico isotropo.

Cercheremo ora di formulare in modo completo il problema dell’ equilibrio per un solido

elastico omogeneo ed isotropo, cioè determinare lo stato tensione deformazione quando

siano assegnate forze sul volume e forze sulla superficie libera.

Il problema è fondato sulle equazioni di congruenza e di vincolo, sulle equazioni di

equilibrio e sulle relazioni costitutive.

E’ già noto che la caratterizzazione generale lineare è di tipo misto ovvero, sia nelle forze

che negli spostamenti come dati sul bordo. In casi particolari, può accadere che i dati

assegnati siano omogenei, riducendosi solamente ad una tipologia, ovvero le forze oppure

gli spostamenti. In tal modo ci si riduce a considerare due distinti problemi, potendo così,

esprimere le equazioni tutte in termini omogenei.

-Soluzione del problema in termini di spostamenti (Navier).

Si consideri l’equazione di Lamè, omogeneizzata in termini di spostamento; si ottiene, in

notazione indiciale:

ij ui,j uj,i k uk,k ij (3.75)

Sostituendo la 3.75 nella prima equazione di equilibrio di Cauchy:

ui,ji uj,ii k uk,ki ij fj (3.76)

Tenendo in conto il Kronecker- ed introducendo l’operatore di Laplace 2uj uj,ii si

ottiene:

2uj ui,ij fj (3.77)

L’equazione sul bordo assume la forma:

[ui,j uj,i kuk,k ij]ni sj

(3.78)

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ui,j uj,i ni kuk,k ni sj

Le 3.78 rappresentano la formulazione completa del problema elastico isotropo in termini

di spostamento. La prima stesura delle stesse fu dovuta a Navier che le pubblicò nel 1827.

Presa ora la forma 3.77 si derivi, rispetto alla variabile xj , le tre parti che compongono

l’equazione:

2uj,j ui,ijj fj,j (3.79)

Sommando rispetto all’indice j:

22ui,i fj,j (3.80)

Nella ipotesi di forze sul volume costanti, il secondo membro della 3.80 si annulla

facendo discendere la importante proprietà che la derivata della funzione spostamento

risulti una funzione armonica, cioè verifichi l’equazione di Laplace:

2ui,i (3.81)

sul volume, mentre sul bordo risulti continua con le sue derivate prime e seconde.

Il rispetto di queste ultime assunzioni sono tali da consentire la soluzione del problema

elastico isotropo così formulato. Parimenti alla formulazione in termini di spostamento, è

possibile formulare una duale formulazione in termini di tensione, ricavando la nota

equazione dovuta a Beltrami & Mitchell. (1892-1900).

(1 + 2 ij ij I,ij (3.82)

3.2.3 Metodi di risoluzione.

Numerosi tentativi sono stati compiuti per costruire soluzioni delle equazioni di Navier,

utilizzando opportune scelte di funzioni. Il punto di partenza per i metodi risolutivi può

essere costituito dal teorema di reciprocità di Betti, connesso con i metodi classici della

teoria del potenziale attraverso l’adattamento del metodo delle singolarità al problema.

Numerose e distinte tecniche matematiche sono utilizzate per risolvere le equazioni di

campo in teoria dell’elasticità, in forma analitica, in forma approssimata ed in forma

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numerica. Tra le più utilizzate si evidenziano: il metodo delle serie di potenza, il metodo

di Fourier, il metodo della variabile complessa in merito alle soluzioni in forma chiusa. Il

metodo di Ritz rappresenta un classico metodo di soluzione approssimata, mentre il

metodo delle differenze finite (FDM), il metodo degli elementi finiti (FEM) ed il metodo

degli elementi di contorno (BEM) rappresentano i più comuni metodi numerici.

-Metodo dei potenziali dello spostamento (Helmholtz)

Richiamando il teorema di Helmholtz, richiamando l’operatore nabla ( xj) si ha che,

qualsiasi campo vettoriale continuo può essere espresso come somma del gradiente di un

potenziale scalare, più il rotore di un potenziale vettoriale:

u = (3.83)

dove è un potenziale scalare e un potenziale vettoriale. Nella decomposizione 3.83 il

termine grad ha la restrizione rot = 0 (parte lamellare o irrotazionale), mentre la parte rot

ha la restrizione div = 0, (solenoidale). La generica dilatazione volumetrica ed il

generico vettore rotazione possono essere messi in relazione con i potenziali prima

definiti:

kk ,kk ; ½ i,kk (3.84)

Utilizzando la decomposizione 3.83, dalla equazione di Navier si trova:

f (3.85)

assunte le precedenti restrizioni su div e rot, nel caso di forze di volume f = 0 si ha:

; (3.86)

trovando, che entrambe le funzioni potenziali sono bi-armoniche.

Ulteriori esemplificazioni per la soluzione della equazione di Navier possono, altresì,

essere sviluppate in applicazione ai metodi del potenziale, come ad esempio:

Metodo del potenziale di deformazione di Lamè.

In questo caso, supposto le forze di volume nulle si consideri la restrizione:

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costante ; (3.87)

Poiché si cerca una soluzione semplice, è possibile scegliere la costante pari a zero e

quindi avere il potenziale come armonico. Allora è possibile scrivere:

ui ,i (3.88)

La funzione è definita come il potenziale di deformazione di Lamè. Il campo di sforzo e

deformazione sono quindi ammessi dalle semplici relazioni:

ij ,ij ; = ,ij (3.89)

Segue che qualsiasi funzione armonica può essere utilizzata con il potenziale di Lamè.

Nel caso piano la 3.89 si specializza, per componenti, nella forma:

xx x

2

1 ; yy =

y

2

1 : xy =

yx

2

1 (3.90)

xx x ; yy y ; xy xy

Nell’approccio duale (problema in termini di forze) la soluzione è data dalla equazione di

Beltrami-Mitchell, ed in merito allo sviluppo di una soluzione, in tale caso, l’uso delle

funzioni di sforzo è ampiamente utilizzato come, ad esempio la funzione di Airy, nel caso

piano, o la funzione di Prandtl nel caso della torsione.

3.4 Formulazione energetica

Lo stato di deformazione e lo stato di tensione si fondano sulle ipotesi di continuità del

corpo e sulle conseguenze implicite. Nessuna ipotesi è fatta sulle qualità fisiche del

corpo, cioè sulle correlazioni esistenti tra le particelle materiali. La necessità di un

legame tra le componenti di deformazione e di tensione, è marcatamente evidente,

constata la necessità di scrivere delle relazioni capaci di descrivere la fisica rispetto a cui

l’elemento materiale si deforma per effetto delle tensioni applicate. Consideriamo la

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risposta di uno stato elastico ideale per il quale si prevede l’esistenza di uno stato naturale

prefissato a partire dal quale il solido possa deformarsi sotto l’azione delle forze,

ritornando allo stato originario quando cessa l’azione delle forze. L’energia spesa nella

deformazione viene così integralmente restituita poiché il comportamento è tipico delle

trasformazioni reversibili. Si ammette l’esistenza di una funzione di stato dipendente solo

dagli estremi della trasformazione, e non dal percorso seguito, in modo che le proprietà

meccaniche, dello stato elastico, possono essere caratterizzate da un singolo scalare W,

detto densità di energia potenziale elastica, funzione soltanto delle grandezze

determinanti la configurazione prescelta, allo stato naturale, nonché dalle grandezze

determinate dalla deformazione. Si dimostra che il lavoro virtuale delle forze esterne,

applicate per un generico spostamento, corrisponde al lavoro virtuale interno, cioè

nell’intorno di un punto generico soggetto ad una deformazione virtuale ij , le

componenti di tensione compiono il lavoro elementare ij ij . Assumendo, quindi, come

componenti virtuali della deformazione proprio le variazione infinitesime dij dello stato

di deformazione effettivo, il conseguente incremento di lavoro per unità di volume sarà

espresso dal prodotto ij ij . L’ammessa esistenza della funzione potenziale permette di

affermare che l’incremento del lavoro compiuto deve rappresentare il differenziale totale:

dW = ij dij (3.91)

Dalla quale, per indipendenza dei differenziali parziali, si trovano le relazioni tra tensione

e deformazione:

ij = dW / dij (3.92)

considerando il prodotto:

d(ij ij) = ij dij + ij dij (3.93)

anche il termine ij dij ,differenza di due differenziali, deve risultare il differenziale di

una funzione Wc(ij) definita come energia potenziale elastica complementare:

dWc = ij dij (3.94)

conseguentemente:

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ij = dWc / dij (3.95)

Le energie restano sempre definite a meno di una costante arbitraria, ovvero è definita

sempre una differenza (W – W*). La W* è l’energia latente, ovvero il valore dell’ energia

potenziale elastica allo stato naturale. Nel caso elastico isotropo la W è indipendente

dalla rotazione del riferimento (cioè gode del principio di indifferenza materiale) e quindi

varia adeguandosi alla variazione delle ij .

Def.: Un materiale si definisce iper-elastico se esiste una funzione energia di

deformazione W (ij) che ammettendo un potenziale della deformazione caratterizza il

legame nella forma più stretta.

Sia data una terna di funzioni ( v, , ) tali da soddisfare le seguenti espressioni:

ij = ½ (ui,j + uj,i )

ij = ijrs rs (3.96)

u = u*

definito il funzionale:

(v, , ) = W (ij ) fi vi + ∂ si vi (3.97)

come somma dell’energia di deformazione del campo e dei lavori esterni cambiati di

segno. Se il tensore elastico gode della simmetria maggiore ed è definito positivo, il

principio di minimo afferma che, se la terna di funzioni ( v, , ) è soluzione del

problema allora è:

(v° , ° , ° ) (v, , ) (3.98)

La 3.98 vale per ogni stato (v, , ), definito nella classe degli spostamenti

cinematicamente ammissibili. In altri termini il principio della minima energia potenziale

stabilisce che la differenza tra l’energia di deformazione e il lavoro delle forze esterne

assume, in corrispondenza della soluzione, il valore più piccolo.

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3.4.1 Principi variazionali.

L’esistenza della funzione densità di “potenziale elastico” W (ij ) permette di definire

l’energia potenziale per l’intero solido.

U = W (ij ) (3.99)

Definito anche come il lavoro di deformazione compiuto dalle tensioni.

Questo lavoro si produce a spese di un lavoro esterno fatto dalle forze di volume f e dalle

forze di superficie s:

L = fi vi + ∂si vi (3.100)

se le forze esterne sono considerate conservative, ovvero derivabili da funzioni potenziali

tali che

fi = F / ui si = S / ui (3.101)

allora, è possibile introdurre il potenziale dell’intero sistema di forze e definire il

potenziale totale, come differenza tra il lavoro immagazzinato nel solido, sotto forma di

energia elastica U, ed il lavoro esterno speso nella deformazione stessa., cambiato di

segno, L = .

= + U (3.102)

= W (ij ) fi vi ∂ si vi (3.103)

Assegnate le forze esterne, il potenziale totale dipende dai campi di deformazione e di

spostamento, che a loro volta sono funzioni delle coordinate xk. Sotto questa dipendenza

il potenziale viene così a rappresentare il funzionale totale dell’energia definito nella

classe delle funzioni ij(xk ), ui(xk).

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Delimitiamo ora la classe delle funzioni ove si voglia esaminare il comportamento del

funzionale , al fine di restringere la valutazione solo sulle funzioni *ij, u*i che

verificano le equazioni di congruenza e le equazioni di vincolo:

*ij = ½( u*i,j + u*j,i ) () (3.104)

u*i = u*i ()

Le relazioni cui sopra, costituiscono il dominio di definizione del funzionale che

risulta, in questo caso, definito nell’insieme delle funzioni cinematicamente ammissibili.

Poniamo ora il problema di ricercare la stazionarietà del funzionale , nel dominio così

definito, ovvero nulla la sua variazione prima in dipendenza di certe particolari variazioni

geometricamente ammissibili *ij, , u*

*ij = ½( u*i,j + u*j,i ) () (3.105)

u*i = 0 (1)

Senza alterazioni sostanziali, possiamo introdurre un nuovo funzionale, ottenuto

sottraendo la parte di lavoro esterno che le forze di superficie si compiono sulla parte

vincolata.

J (*ij, u*i ) = W(*ij ) fi vi d 2 si vi d2 (3.106)

svolgendo la variazione prima della 3.90:

J = * *ij d - fi ui d - 2 si ui d2 = 0 (3.107)

Questa equazione (per particolari validità del campo di spostamenti) può essere vista

come una particolare forma del teorema degli spostamenti virtuali, purché le componenti

del tensore ij verifichino le equazioni di Cauchy. Si può, quindi, affermare che:

“nella classe delle funzioni cinematicamente ammissibili il funzionale J (*ij, u*i )

risulta stazionario in corrispondenza di una soluzione equilibrata”.

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Se ripetiamo le stesse considerazioni partendo dal concetto di energia potenziale

complementare, allora sarà possibile definire un nuovo funzionale K (ij , si ) il cui

dominio è la classe delle funzioni staticamente ammissibili. Imponendo la variazione

prima si dimostra che:

“nella classe delle funzioni staticamente ammissibili il funzionale K (ij , si ) è

stazionario in presenza di una soluzione cinematicamente ammissibile”.

Nel caso in cui il legame tensione deformazione è derivabile da una funzione potenziale

elastica, è possibile ottenere una condizione sufficiente per l’esistenza di un estremo

effettivo del funzionale considerato (questo è un classico problema nel calcolo delle

variazioni). Scriviamo il funzionale J nella forma:

J (*ij, u*i ) = ½ *ij *ij d fi vi d 2 si vi d2 (3.108)

e parimenti il funzionale K nella forma:

K ( Tij , si ) = ½ ij ij d + 1 si vi d1 (3.109)

svolgendo la differenza tra i due funzionali:

J – K = ½ (*ij *ij + ij ij) fi vi d 2 si vi d2 1 si v*i d1 (3.110)

Posto che le ij e le fi sono equilibrate, nel senso di Cauchy, il lavoro esterno degli ultimi

tre integrali risulta:

L = ij,j vi d 2 ij nj vi d2 1ij nj v*i d1 (3.111)

Applicando una trasformazione di Gauss si ottiene:

L = ij,j vi – ( ij vi ),j (3.112)

semplificando:

L = ij *ij (3.113)

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tornando alla relazione generale e sostituendo si ha:

J – K = ½ ( *ij *ij + ij ij 2 ij ij ) (3.114)

che in virtù delle relazioni di reciprocità si può porre nella forma:

J – K = ½ ( *ij ij ) (*ij ij ) (3.115)

l’integrando è una forma quadratica definita positiva, quindi sarà:

J (*ij, u*i ) - K ( ij , si ) 0 (3.116)

salvo l’eguaglianza dei termini, per cui si può porre:

min J = max K (3.117)

Il funzionale J assume, minimo effettivo alla presenza di una soluzione equilibrata. Il

funzionale K assume minimo effettivo in corrispondenza di una soluzione congruente.

Questi due principi di estremo sono abbastanza diversi dagli ordinari problemi di min-

max ed implicano delicate questioni dipendenti dalla scelta della classe delle funzioni

ammissibili. Accertata l’esistenza di un estremo effettivo, per un dato funzionale es. K

(f(xi)), il problema variazionale viene trasformato in un problema di estremo ordinario

esprimendo la classe delle funzioni ammissibili f(xi) mediante una serie di successioni

parziali.

fn (xi) = ∑m cm (xi) (3.118)

Nella 3.118 le funzioni argomento devono verificare la condizione di ammissibilità

imposte alle funzioni della classe nella quale si cerca l’estremo del funzionale, mentre i

coefficienti cm sono indeterminati. Con questa posizione al funzionale del problema

originario è sostituito un ordinario problema di estremo nella forma Km (cm) poiché le

funzioni argomento risultano specificate. La condizione di derivabilità Km /cm

permetterà di individuare i coefficienti e in seguito la successione parziale fn (xi).

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Il principio di minimo per l’energia potenziale ha importanza poiché dà luogo a notevoli

applicazioni fondamentali per le tecniche di ricerca delle soluzioni approssimate. Ad

esempio consideriamo la successione:

v = 1v1 + 2v2 +……. ∑ i i vi (3.119)

con v campi di spostamento ammissibili su e i tali da minimizzare il funzionale

energia. Con questa posizione l’ espressione dell’energia diventa:

W() = ½ ∏ = ½ [ ∑ k i k ()k ] = ½∑ ik ik i k (3.120)

Nell’ipotesi di un problema nelle forze il resto dell’elv diventa:

f ( ∑ i i vi ) + ∂ s ( ∑ i i vi ) = ∑i bi i (3.121)

Quindi, la scelta approssimata trasforma il funzionale di partenza nella funzione:

g (1…..n) = ½ ∑ ik ik i k - bi i (3.122)

Se ik è la matrice di rigidezza ed il tensore elastico è simmetrico e definito positivo,

dall’ultima espressione consegue che g attinge valore minimo nel vettore di componenti

i se e solo se tale vettore è soluzione dell’equazione matriciale:

[ ] [ ] = [ b ] (3.123)

Il problema viene dunque ricondotto alla risoluzione di una equazione matriciale la cui

soluzione consente di precisare il campo di spostamento che meglio approssima in senso

energetico la soluzione. La matrice è comunemente definita matrice di rigidezza. E’

abbastanza chiaro che, per i metodi di approssimazione è decisiva la scelta dei campi di

spostamento vi. (esempio funzioni test nel metodo degli elementi finiti).

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3.5 Formulazione astratta dei problemi di equilibrio

I classici problemi della teoria dell’elasticità conducono alla formulazione di problemi

con valori al bordo governati da classiche PDE. Con l’aumentare delle variabili, le

difficoltà di soluzione aumentano (es. è molto facile costruire la deformata per una

mensola nel caso 1D, mentre diviene complicato costruire l’analoga nel caso 3D.) Una

importante comune caratteristica delle equazioni di campo, con le rispettive b.c., è la loro

linearità, consentendo così, tale proprietà, le generalizzazione delle proprietà dell’algebra

lineare. Questo aspetto è particolarizzato nella teoria degli spazi lineari che è essa stessa

una generalizzazione dell’analisi vettoriale in 3D. Un sistema di equazioni lineari può

essere interpretato come una trasformazione lineare tra vettori in uno spazio euclideo n-

D. (le funzioni possono essere viste come vettori ad infinite componenti e un problema. al

bordo è una trasformazione lineare tra vettori in uno spazio euclideo a dimensione

infinita.)

Risolvere un problema al bordo, usualmente consiste in due steps.

1- Stabilire l’esistenza della soluzione

2- Costruire la soluzione

Per lo step 1, l’esistenza nel senso stretto deve rispondere a tre questioni: la prima circa

la compatibilità dei dati del problema. La seconda, riguardo l’unicità della soluzione

rispetto la sufficienza dei dati. La terza, circa la stabilità della soluzione che si configura

come dipendenza continua dai dati.

Riguardo lo step 2, la costruzione della soluzione deve condurre ad una esplicita

rappresentazione oppure, in forma alternativa, ad una approssimazione. Le varie teorie

sulla esistenza e/o tecniche di approssimazione non possono essere facilmente applicate

ai problemi espressi in forma differenziale ma, solo quando il problema è trattato nella

sua forma integrale. In tal caso, in letteratura è usuale parlare di formulazione debole del

problema. Esistono tre fondamentali ragioni per giustificare l’applicazione della teoria

debole.

1- Esistenza ed analisi quantitative possono essere eseguite per un’intera classe di problemi

lineari invece di problemi particolari. (equazioni delle travi sono differenti da quelle 3D

ma nella forma debole i corrispondenti problemi hanno la stessa logica e struttura

formale) Ancora, il problema può essere trattato nella forma debole qualunque sono le

condizioni al bordo.

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2- Sostituire PDE con equazioni integrali è più in armonia con l’idea della meccanica che

usualmente impone condizioni conservative, non singolari ma in porzioni finite di

materia.

3- La presenza di singolarità geometriche, o nelle forze, esclude frequentemente

l’applicazione diretta delle PDE. Questa difficoltà è usualmente superata considerando le

singolarità come limiti di convenienti configurazioni regolari ( oppure distribuzioni di

carichi.).

Nel contesto della teoria debole non è necessario rimuovere singolarità. La formulazione

debole è un’estensione della teoria classica, anche se la stessa può non essere una

soluzione classica. L’importante questione della connessione tra due tipi di soluzione è la

condizione di regolarità sui dati per assicurare soluzioni sufficientemente regolari. Questo

è un classico problema di regolarizzazione.

Riprendiamo la caratterizzazione integrale della soluzione del problema di equilibrio per

un corpo elastico.

ijrs ur,s vi,j = fi vi + ∂ si vi "vi congruente (3.124)

Questa può essere scritta nella seguente forma che costituisce la caratterizzazione

generalizzata dei problemi di equilibrio.

uÿ v = fÿ v + ∂ sÿ v "v (3.125)

dove:

W = regione di n occupata dal corpo (n = 1,2,3)

= frontiera di suddivisa nella parte vincolata 1 e nella parte libera 2.

v: *p = campo degli spostamenti generalizzati.

f: p , s: 2p campi delle forze esterne generalizzate.

:Cm()C°() operatore differenziale lineare di ordine m che "v associa la

caratteristica di deformazione: =v.

: C°() C°() operatore algebrico lineare che ad ogni caratteristica di deformazione

associa la tensione = .

Applicando Gauss-Green al primo membro della formulazione generalizzata e sostituendo

nella forma generale, si trova la forma differenziale del problema elastico.

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*u = f () (3.126)

u = 0 (1)

u = s (2)

Le ipotesi classiche di regolarità sono quelle che danno significato al problema

differenziale cui sopra. Precisamente f, s sono supposte continue (anche a tratti) su e

; è supposto sufficientemente regolare purché la normale esterna sia continua su .

Poiché * e sono operatori differenziali di ordine m, ne segue che la soluzione u è di

classe C2m(), mentre le deformazioni e le tensioni ad essa associate sono di classe Cm.

In generale queste ipotesi sono troppe restrittive per coprire tutti i casi di interesse (es.

escludono presenza di forze e coppie concentrate, corpi a forma irregolari, disomogeneità

del materiale). Un considerevole allargamento delle ipotesi, si ha passando alla forma

integrale, infatti affinché la forma abbia senso basta che f, s posseggano certe proprietà

di integrabilità. Questo conferma che la forma integrale è la più adatta allo studio della

buona formulazione, vale a dire allo studio delle proprietà generali della soluzione

(esistenza, unicità, dipendenza continua). Inoltre, tale caratterizzazione è in grado di

fornire metodi sistematici di risoluzione numerica dei problemi d’equilibrio.

3.6 Preliminari alla teoria debole

Def. . Funzionale continuo su uno spazio vettoriale : sia e sia u. Diciamo

che è continuo in u se " e "v = (,v) (u+v)- (u) , ricordando

inoltre l’equivalenza tra continuità e limitatezza.

Def.- Forma bilineare, forma bilineare continua. Siano e spazi vettoriali. Una

funzione : è una forma bilineare su se è lineare in entrambi gli

argomenti ovvero i funzionali ( ,v) ( ,u) sono lineari su e . Se inoltre sono

continui diciamo che è una forma bilineare continua su .

Def.-Dico Spazio Duale * dello spazio l’insieme dei funzionali lineari e continui (è

immediato verificare che il duale è uno spazio vettoriale)

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Riprendiamo la formulazione integrale generalizzata o formulazione debole del problema

di equilibrio. Dati W, f, s, , , , determinare un u tale che:

uÿv = fÿv + ∂ sÿv "v (3.127)

Osserviamo che il primo membro è una forma bilineare a: dipendente da W, , e

che il secondo membro è un funzionale lineare ℓ : dipendente da f, s. Il problema di

equilibrio può essere enunciato nella forma compatta: dati su un funzionale lineare ℓ e

una forma bilineare a, determinare u tale che

a (u, v) = ℓ (v) (3.128)

Appare naturale caratterizzare come l’insieme degli spostamenti congruenti con i

vincoli rispetto ai quali a è continuo, ed assegnare il dato ℓ nello spazio duale *. E’

questo l’annunciato allargamento delle ipotesi di regolarità riguardanti, gli spostamenti

congruenti ed i dati, operato passando dalla formulazione differenziale a quella integrale.

Ad esempio, per la trave caricata assialmente si ha:

ℓ Au’v’ = ℓ qv + [Nv] "v (3.129)

supposto A limitata in (0, ℓ):

A(x) § m "x(0, ℓ) (3.130)

Si verifica subito che a è continua se u e v sono dotate di derivate prima di quadrato

sommabile, cioè se gli integrali:

ℓ u’ 2 ; ℓ v’ 2 (3.131)

sono finiti. Infatti si ha:

a(u,v) = ℓ A u’ v’ § mℓ |u’ v’| § ½ ℓ u’ 2 + v’ 2 (3.132)

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conseguentemente, a è limitata, quindi continua.

Def.- Spazio (W). Sia W una regione limitata di n, e sia uno spazio vettoriale.

Diciamo (W) l’insieme delle funzioni : n continue, con le derivate di tutti gli

ordini e che assumono valori diversi da zero solo in regioni strettamente contenute in W.

Def.- Distribuzione: un funzionale lineare e continuo su (W) e spazio delle distribuzioni

* (W) lo spazio duale di (W.

Ad esempio se n = 1 e = considero la funzione q = q(x) “carico distribuito” su (0, L).

Associamo il funzionale q*= q*(u) “ lavoro compiuto da q per lo spostamento u”: q*(u)

= ℓ q(x)u(x)dx. Supponiamo q(x) § m "x(0, L). q* è ovviamente lineare ed è continuo

su (0,L). Infatti, se u(0,L) è continua su [0, L] è quindi limitata. Segue

ℓ q(x)u(x) § m ℓ |u(x)| dx < +¶ (3.133)

di conseguenza, il funzionale q* è una distribuzione di *(W).

Def.- Distribuzione associata: data la funzione : W limitata. Diciamo distribuzione

associata a la distribuzione * così definita:

* = ℓ (x) u(x)dx "u (W) (3.134)

Def.- Derivata distribuzionale: Data la funzione *(W), definiamo come derivata

distribuzionale di rispetto a xi (i = 1,2,..n), la distribuzione , i che "u (W) associa

l’elemento:

,i (u,i) (3.135)

Riguardo il concetto fisico di distribuzione, si osserva che la stessa, pur non essendo una

funzione, può pensarsi come una successioni di funzioni.

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Def.- Spazi con prodotto scalare: sia uno spazio vettoriale e sia a una forma bilineare

continua su . Affermiamo che la forma a è simmetrica se:

a(u, v) = a(v, u) "u,v (3.136)

positiva se a(u, u)>0, infine che è un prodotto scalare se è simmetrica e positiva.

Def.- Dicesi spazio con prodotto scalare uno spazio vettoriale su cui è assegnato un

prodotto scalare. Ne segue che uno spazio con p.s. è una coppia (, a) dove è uno

spazio vettoriale ed a un prodotto scalare. Ad esempio, variando a è possibile costruire

diversi prodotti scalari:

a(u, v) = W ui(x)vi(x) dx (3.137a)

a(u, v) = W [ui(x)vi(x)+u’i(x)v’i(x)]dx (3.138b)

Def. -. Nello spazio con prodotto scalare (, a) dicesi norma di u il numero:

7 u 7 = a (u, u)1/2 (3.139)

e distanza tra u e v il numero: 7 u-v 7.

Def. - Funzionale lineare e forma bilineare continui su spazi con p.s.. Sia (, a) uno

spazio con p.s. e siano ℓ e b un funzionale lineare e una forma bilineare. Diciamo ℓ e b

continui su (, a) se $ m,m* tali che:

ℓ(v) § m 7 v 7 , b(u, v) § m*7 u 7 7 v 7 "u,v (3.140)

Il viceversa non è sempre vero poiché dipende dalla norma associata al prodotto scalare.

Def.- Sia ℓ un funzionale lineare e continuo su (, a). Definiamo norma di ℓ il numero:

8 ℓ 8 sup v-(0) ℓ(v) / 7 v 7 (3.141)

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Def.- Sia (, a) uno spazio con prodotto scalare e sia {vn} una successione di elementi di

. Dicesi che {vn} converge in media, o in norma a v se:

limnض 7 vn- v 7 = 0 (3.142)

Si osservi che il concetto di convergenza riguarda la norma, quindi il prodotto scalare a.

Negli spazi a dimensione finita questo non è importante poiché è dimostrabile che

successioni convergenti in una norma convergono in qualsiasi altra. Negli spazi a

dimensione infinita questo può anche non succedere.

Def.- Dicesi che {un}Õ è una successione di Cauchy in (, a) se " positivo esiste un

indice N tale che:

m, n > N 7um un 7 (3.143)

Tutte le successioni convergenti in media sono di Cauchy.

Def.- Dicesi che (, a) è uno spazio con prodotto scalare completo oppure uno spazio di

Hilbert se tutte le successioni di Cauchy convergono in media a elementi di . Dicesi

completamento di (, a), lo spazio di Hilbert ottenuto aggiungendo a gli elementi

limite di tutte le successioni di Cauchy.

3.7 Ambientamento del problema di equilibrio in spazi di Sobolev.

Def.- Dicesi che una funzione u: nØ p è di quadrato sommabile su W Õ n se:

W uÿ u +¶ (3.144)

Def.- Dicesi m(W) l’insieme delle funzioni di quadrato sommabile su W, insieme con le

loro derivate di ordine § m , dotate del prodotto scalare:

(u, v)m ≡ÛW uÿv + uÿv + 2uÿ2v + ….muÿmv (3.145)

Gli spazi m(W) si chiamano spazi di Sobolev e la norma:

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7u7m ≡ [(u,u)m]1/2 (3.146)

norma di Sobolev per u.

Le derivate sono intese nel senso distribuzionale, ed in particolare °(W) è l’insieme

delle funzioni di q.s. su W, dotate del prodotto scalare:

°(W) u = v 7 u-v 7o = 0 0 =W (u-v)ÿ(u-v) = W p (ui –vi)2 (3.147)

cioè, due elementi di °(W) coincidono quando l’ultimo integrale è nullo. Poiché ciò

avviene quando u e v coincidono quasi ovunque in W ( tranne che su insiemi di misura

nulla); ne segue che gli elementi di °, ed in generale di m , anziché singole funzioni

sono classi di funzioni che differiscono tra loro su insiemi di misura nulla.

Enunciamo ora, senza dimostrazione, alcune proprietà degli spazi m.

Teorema (Meyers & S.): m(W) è il completamento di Cm(W) rispetto alla norma 7 ÿ, ÿ 7m..

Quindi m(W) è uno spazio di Hilbert a dimensione infinita. Il teorema dimostra che C

[0, z ] è completato dalla norma 7ÿ,ÿ70 aggiungendo tutte le funzioni di quadrato

sommabile. Ne consegue che, ogni funzione di quadrato sommabile può essere

approssimata in 7ÿ,ÿ70 da una successione di funzioni continue che, per il teorema di

Weierstrass, possono essere approssimate da funzioni polinomiali. Conseguentemente,

anche le funzioni di quadrato sommabile possono approssimarsi come funzioni

polinomiali. Si consideri la formulazione debole: determinare in un opportuno spazio una

funzione u tale che

a(u, v) = ℓ(v) (3.148)

Osserviamo, che per alcune limitazioni sulla regolarità del dato ℓ e della soluzione u

dovrà essere: a , ℓ continue su per ℓ* duale di .

Si dimostra che a è continua nel completamento (W) dello spazio Cm(W) degli

spostamenti ammissibili. Segue che è possibile ambientare la forma debole in m(W)

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che è caratterizzato come spazio degli spostamenti generalizzati. Detto m(W) lo

spazio degli spostamenti congruenti generalizzato, ovvero lo spazio delle soluzioni, il

duale* è detto spazio dei dati ℓ*.

Esempio: Si consideri una trave a mensola soggetta a carico distribuito assiale oltre un

carico concentrato di trazione in estremità. Le equazioni che governano il problema

diventano:

Au’’ = -q in (0, L)

u = 0 in 0 (vincolo)

Au’ = p in L

In questo caso è m = 1 =uC1[0, L]: u = 0 in L= 0, =u1(0, L) : u = 0 in L = 0

e la formulazione debole assume la forma

ℓ A u’ v’ = ℓ qv + pv(L) v (3.149)

Referenze bibliografiche

[B] R. Baldacci,(1970) Scienza delle Costruzioni, vol. 1, UTET, Torino

[Be] J.F. Bell, (1973) The Experimental Foundations of Solid Mechanics, Handbuch der Physik, vol. VIa/1,

Springer-Verlag, Berlin..

[C] P.G. Ciarlet,(1993) Mathematical Elasticity, vol. 1, North Holland, Amsterdam

[DP]1 G. Del Piero,(1976) Lezioni di Complementi di Scienza delle Costruzioni, Università diCatania

[DO] I. Doghri,(2000) Mechanics of Deformable Solids, Springer, Berlin.

[PG] P. Podio- Guidugli,(1994) Dodici Lezioni su Argomenti Costitutivi in Elasticità Lineare,CNR-GNFM,Roma

[TN] C. Truesdell, W. Noll, (1965). The Non-Linear Field Theories of Mechanics, Handbuch der Physik, vol. III/3,

Springer-Verlag, Berlin

[TT] C. Truesdell, R. Toupin,(1960) The Classical Field Theories, Handbuch der Physik, vol. III/1, Springer-Verlag,

Berlin

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Capitolo 4: Elasticità non lineare

4.1. Cinematica delle deformazioni finite.

Si consideri un corpo continuo nella sua configurazione iniziale di riferimento W. Al

tempo t la configurazione corrente è il dominio Wt e la relazione del moto è posta nella

forma:

x = (X, t) (4.1)

ove la è una mappa one-to-one regolare, che XW ØWt . Se la mappa rappresenta la

funzione deformazione, allora è possibile definire il gradiente della stessa come:

F = i / xj (4.2)

Una deformazione pura è un a deformazione omogenea il cui gradiente è positivo, quindi

FLin+ consente di ammettere la validità del teorema della decomposizione polare con

la posizione R≡Q, FLin+ ROrthØ F = RU = VR con U,V positivi.

Nella ricerca di una opportuna grandezza che compendi i caratteri della deformazione

appare chiaro che la F, e le opportune funzioni collegate, ne posseggano i requisiti.

Definiamo il tensore delle deformazioni finite

D = ½ (FTF – I) (4.3)

dove I rappresenta il tensore della deformazione identica.

Ricordando la decomposizione di F come somma di I + H, questo ultimo gradiente dello

spostamento, sostituendo nella ultima si ha:

D = ½ [ H + HT + HTH] (4.4)

e ricordando la definizione, per la parte pura del gradiente dello spostamento, E = ½

(H+HT) si trova

D = E + ½ HTH (4.5)

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Una ulteriore specificazione, riguardo la buona misura della deformazione, si ha

richiamando il teorema della decomposizione polare

F = RU = VR (4.6)

Se sviluppo il prodotto FT F sia a destra che a sinistra si ha:

FTF = UT RT R U = C (4.7)

F FT = V R RT VT = B

Dove C e B prendono, rispettivamente, il nome di tensore destro e sinistro di Cauchy-

Green e definiscono una opportuna misura della deformazione. U e V rappresentano la

parte pura della deformazione “stretch”. Le componenti di C assumono significato fisico

in un riferimento cartesiano di base , ove le Cii rappresentano i quadrati dei rapporti di

allungamento nelle direzioni degli assi coordinati, mentre i termini ad indici diversi stano

in relazione sia con i gradienti di allungamento che con le variazioni di angolo. Nella

realtà è abbastanza complicato determinare direttamente C e B e quindi si ricorre alla

posizione

U2 = C , V2 = B (4.8)

U e V hanno gli stessi autovalori ma non identici autovettori, ovvero le direzioni

principali di U e V differiscono solo per una rotazione rigida.

Richiamando, per un istante, la relazione che lega la trasformazione di volume ed area del

corpo materiale si ha:

da = JFdA , dv = JdV (4.9)

dove J ≡ det F, rappresenta il rateo della configurazione deformata rispetto alla

configurazione iniziale. Se J = 1 allora, la deformazione è definita isocora e per ragioni

fisiche det F appartiene all’intervallo dei valori ( 0, ). Il rateo di variazione, rispetto al

tempo, della deformazione è descritto dal tensore gradiente di velocità:

L = F’F-1 (4.10)

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La parte simmetrica D e antisimmetrica W di L sono conosciute, rispettivamente, come

tensore di stretching e tensore di spin.

4.2. Bilancio delle forze ed equazioni del moto

Dal principio di Eulero è definito il vettore tensione t ed attraverso il 1° teorema di

Cauchy la dipendenza dalla normale n uscente dal bordo, t = Tn. Le equazioni di bilancio

che governano il problema sono

div T + b = (= accelerazione) (4.11)

T = TT

Lo sforzo di Cauchy caratterizza la distribuzione delle forze di contatto, per unità di area,

in Wt , ma ciò è spesso un inconveniente, in meccanica dei solidi poiché la configurazione

deformata, generalmente non è consentita a priori. A soluzione di tale fatto è introdotto il

tensore di Piola-Kirchhoff Tk onde poter definire le forze di contatto nella configurazione

iniziale. I tensori di Cauchy e P.K., sono legati dalla relazione:

Tk = J TF-T (4.12)

Detta la normale nel riferimento iniziale si trova la relazione che lega il vettore tensione

alla normale :

tk = Tk (4.13)

e le conseguenti equazioni di bilancio diventano:

div Tk + bk = (4.14)

TkFT = FTkT

Lo “engineering stress Tk “, per come abitualmente definito in letteratura, è generalmente

non simmetrico. In definitiva le deformazioni e le azioni che si producono su un corpo

continuo sono state fin qui esplicate separatamente, senza specificare alcuna caratteristica

sullo specifico materiale che caratterizza il continuo. Per ogni specifica classe di materiali

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le relazioni tra F, il suo rateo F’ e lo stress T o Tk sono definite attraverso specifiche

equazioni costitutive per come meglio descritto nel successivo paragrafo.

4.3 Aspetti energetici

Per un materiale “elastico” (lo stress dipende solo dallo stato di deformazione attuale) si

ha una legge costitutiva del tipo:

T = (E) (4.15)

Ove la funzione (ÿ) è definita come:

(ÿ) : Sym 3 Sym 3 (4.16)

Un solido iperelastico è un materiale la cui energia potenziale elastica è derivata dalla

equazione differenziale del bilancio energetico

W’(ÿ , t ) = tr (TK F’ T ) ≡ Tk F’ (4.17)

fornendo la seguente espressione della funzione energia di deformazione:

W (ÿ , t) = W (F( ÿ, t) , ÿ ) (4.18)

Con opportuna combinazione delle due ultime espressioni si ottiene:

[Tk – (W /F) ]ÿF’ = 0 (4.19)

che vale per ogni F’. Segue, l’ equazione costitutiva per un solido iperelastico (detto

anche materiale iperelastico di Green)

Tk = W(F) / F (4.20)

Ricordando la relazione tra i tensori di Piola-Kirchoff e Cauchy si ottiene l’analoga legge

rispetto allo stress di Cauchy:

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T = J-1 [ W(F) / F] FT (4.21)

Vediamo ora alcune proprietà della relazione costitutiva; consideriamo un moto che porti

dalla configurazione W alla configurazione Wt con una legge del tipo

x œ Wt xt = c (t) + Q(t) x (4.22)

ove c(t) è una funzione a valori reali e Qœ Orth. Parimenti, in termini di gradiente della

deformazione è possibile scrivere:

Ft = Q F (4.23)

Analogamente i tensori deformazione di Cauchy-Green si trasformano nella forma:

Ct = C e Bt = QBQT (4.24)

mentre il principio di indifferenza materiale (Truesdell & Noll) richiede:

W (Ft) = W (Q F) = W (F) (4.25)

che deve valere per ogni tensore Q e F. Applicando il teorema della decomposizione

polare con Q = RT è possibile porre W in funzione di U 2 = C e scrivere:

W (F) = W (C) = W (U) (4.26)

Conseguentemente, per ogni cambio del sistema di riferimento, è possibile affermare che

la funzione energia di deformazione, nel caso iperelastico, è indifferente solo quando

assume la forma ridotta sopra espressa. Volendo specificare la forma ridotta in funzione

degli stress si ha:

Tk = 2F[W(C) / C] (4.27)

T = 2J-1 F[(W(C) / C) ]FT

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4.4. Simmetrie materiali

Si ipotizzi l’applicazione di due diverse condizioni di carico su di un solido composto

da materiale iperelastico, la cui risposta deformativa è eguale, nel modulo, ma diversa

nella direzione. Questo significa che i gradienti di deformazione saranno rapportati per

com’è noto:

F* = QF (4.28)

in questo caso, dal teorema della decomposizione polare, si ottiene:

C* = F*TF* = QTFTFQ = QTCQ (4.29)

e quindi, l’energia della risposta “ ruotata”:

W(F*) = W(QT CQ) (4.30)

Nel caso che le energie delle due deformazioni sono le stesse è possibile affermare che la

rotazione, o meglio il tensore ortogonale Q, che verifica la relazione 4.30, definisce una

trasformazione di simmetria materiale. E’ facile osservare che tutti i Q che verificano

quanto sopra formano un sottogruppo g del gruppo dei tensori ortogonali. Il gruppo g

è propriamente definito gruppo di simmetria materiale (Gurtin, 1972) o formalmente

gruppo di isotropia (Truesdell & Noll, 1965). Il gruppo di simmetria ha quindi

dipendenza dalla configurazione di riferimento e le sue variazioni devono sempre essere

riferite ad una condizione iniziale. Ad esempio lo stato naturale (configurazione

indistorta), ove la deformazione è assente, viene ad essere caratterizzata dalla condizione

F = 1 e può essere scelto come riferimento iniziale. Viceversa, se un materiale nel suo

stato naturale, non presenta simmetria allora è g = 1 e il materiale è definito triclino. Se

il materiale presenta assi di simmetria nella configurazione naturale, allora il suo gruppo

di simmetria è g = {Q: QH = ≤ H , direzione H}. In tal caso il materiale è definito

trasversalmente isotropo. In finale se g ≡ allora, qualsiasi direzione dello stato naturale

è un asse di simmetria materiale. Questa proprietà consente di definire isotropo il

materiale.

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4.5. Materiale isotropo iperelastico

Nel caso di materiale isotropo ed iperelastico QOrth., con la posizione QªRT , si

ottiene la necessaria condizione:

W(C) = W(B) (4.31)

La regola, cui sopra, stabilisce che per ammesse deformazioni la funzione energia di

deformazione ha lo stesso valore quando C o B siano usati come variabile indipendente.

Generalmente B, C sono distinti tensori o meglio hanno gli stessi autovalori ma diversi

autovettori. Considerando gli invarianti di entrambi, è possibile affermare che l’energia di

deformazione deve essere una funzione isotropa a valori scalari dei soli invarianti:

W (C) = W(B) = W (I1 , I2 , I3 ) (4.32)

ove nello specifico:

I1 = tr B , I2 = ½ [I12 – tr (B2)] , I3 = det B (4.33)

Allora, ponendo l’eguaglianza C = QT CQ per ogni Q, si può affermare che un materiale

iperelastico è isotropo se e solo se la sua funzione energia ha la rappresentazione cui

sopra quando relativo ad uno stato indistorto. L’equazione costitutiva per tale tipo di

materiale sarà della forma:

TK = 2F ( W/ C ) = 2(W/B)F , T = 2J-1 (W /B)B (4.34)

L’ultima è espressa interamente in termini di B, mentre la prima sviluppa rotazioni rigide

locali. Conseguentemente l’ultima è considerata più conveniente ai fini computazionali

inoltre, inserendo la posizione iniziale si ottengono le seguenti due forme che

costituiscono l’equazione costitutiva generale per un solido iperelastico ed isotropo:

T = 0 I + 1 B + 2 B2 (4.35)

ed anche utilizzando il teorema di Hamilton Caley:

T = 0 I + 1 B + -1 B-1 (4.36)

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i coefficienti scalari:

i = i (I1 , I2 , I3 ) , j = j ( I1 , I2 , I3 ) i = 0,1,2 j = 0,1,-1 (4.37)

sono definiti funzioni di risposta elastica ( o materiale) e sono determinati in termini della

funzione energia di deformazione:

0 = 0 – I2 2 = (2 / I31/2 ) [I2 W / I2 + I3 W / I3] (4.38)

1 = 1 + I12 = (2 / I31/2 ) W / I1

-1 = I32 = -(2 / I31/2 ) W / I2

Conseguentemente in una configurazione di riferimento indistorta, sarà B = 1 e, non

risulterà necessario che lo stress si annulli. Uno stato indistorto per un materiale isotropo

è al più idrostatico:

T0 = ( 0 + 1 + -1 ) I (4.39)

Una configurazione indistorta in cui T0 = 0 è definita stato naturale o stress-free:

( 0 + 1 + -1 ) = 0 (4.40)

Molti problemi possono essere approfonditi senza ulteriore specificazioni sulla funzione

di risposta desiderata. Viceversa, quando ciò non è possibile, si ricorre a modelli aventi

fondamento attraverso sperimentazione e la determinazione della funzione di risposta per

speciali tipi di materiale è uno dei principali problemi in meccanica sperimentale.

4.6. Equazione costitutiva per il materiale di Blatz-Ko

Spesso vengono utilizzati cambiamenti sugli invarianti attraverso l’uso di altri insiemi di

invarianti indipendenti. Ad esempio con la posizione:

J1 ª I1 = tr B , J2 ª I2 / I3 = tr B-1, J3 = I31/2 = det F (4.41)

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In questo caso la funzione energia di deformazione può essere scritta come un’altra

funzione:

W = W (J1 , J2 , J3 ) (4.42)

Sostituendo le ultime due espressioni, nelle relazioni delle costanti , trovansi le funzioni

di risposte elastiche per l’energia:

0 = W / J3 (4.43)

1 = (2 / I3 ) W / J1

-1 = -(2 / I3 ) W / J2

Se consideriamo una speciale classe di materiali per i quali la funzione di riposta è

dipendente solo da J3 si può scrivere:

0 = W ( J3 ), 1 = / J3 , -1 = - / J3 (4.44)

Potendo dimostrare, inoltre, che + = 0 (modulo di taglio nella configurazione

naturale) è possibile porre la posizione:

ª 0 f , ª 0 (1 – f ) (4.45)

e quindi scrivere l’equazione costitutiva per questa speciale classe di materiali come

T = W (J3) I + ( 0 f /J3) B – [ 0(1 – f )/ J3 ]B-1 (4.46)

tutti i materiali che soddisfano l’ ultima equazione costitutiva prendono il nome di

materiali di Blatz-Ko, per i quali la funzione di risposta elastica dipende solo

dall’invariante J3.

4.7 Vincoli interni

Un vincolo interno è una restrizione sulle deformazioni permesse. In particolar modo un

vincolo interno semplice è una restrizione del tipo:

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(F) = 0 (4.47)

esempi di vincoli interni semplici sono l’incomprimibilità:

det F = 1 (4.48)

l’inestensibilità nella direzione materiale e:

7 Fe 7 = 6 e 6 (4.49)

e la rigidità:

7 Fe 7 = 6 e 6 e (4.50)

ove la precedente eguaglianza è estesa ad ogni vettore e.

Il principio di indifferenza materiale richiede che FLin+ , QOrt.:

(QF) = (F) (4.51)

dal teorema della decomposizione polare, scelto QT = R si trova la forma ridotta:

(U) = 0 (4.52)

e ponendo (U) = : (U2) = (C ) si ha la forma equivalente:

(C ) = 0 (4.53)

Con la presenza di un vincolo sulla deformazione farà corrispondere una parziale

indeterminazione del tensore di Cauchy. La parte indeterminata di T è la reazione del

vincolo interno; per esempio nel caso di rigidità T è completamente indeterminato. La

specificazione della parte indeterminata di T fa parte della definizione di vincolo.

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L’ipotesi che comunemente si fa è quella di vincolo interno liscio. A questo proposito si

considera l’espressione della potenza virtuale delle forze interne all’istante t :

T (t ) Ft’(t ) (4.54)

Ricordando che il secondo termine è il gradiente di velocità di L (t ) e, per la simmetria

del tensore di Cauchy, solo la parte simmetrica D interviene nel prodotto scalare, la

potenza virtuale si scrive come:

T (t ) D(t ) (4.55)

L’ipotesi del vincolo interno liscio consiste nell’assumere che la parte indeterminata dello

stress sia ortogonale alla velocità di deformazione D permesse dal vincolo. Pertanto

l’equazione costitutiva del materiale internamente vincolato, nella forma ridotta è del

tipo:

T (t) = - p (t ) F(t ) ( C(t ) FT (t ) + (Ft ) (4.56)

dove p è un moltiplicatore scalare e (Ft ) è una storia che rispetta il vincolo.

Nel caso del materiale incomprimibile è (C ) = det C – 1 e quindi occorre calcolare le

derivate del determinante ottenendo:

(det C ) = ( det C ) C-T (4.57)

Per la simmetria di C e per il vincolo d’incomprimibilità, det C = 1, la equazione

costitutiva diventa:

T* (t ) = - p (t ) I + (Ft ) (4.58)

Cioè, nel caso incomprimibile T è determinato a meno di una pressione idrostatica. In

presenza di tale vincolo si ottengono le seguenti equazioni costitutive:

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T = - p I + (B) B + (B) B2 (solido elastico incomprimibile)

T = - p I (fluido elastico incomprimibile) (4.59)

T = - p I + (D) D + (D) D2 (fluido viscoso incomprimibile)

La dipendenza dei coefficienti , dalla densità di massa cessa perché nel caso

incomprimibile è = 0 in ogni configurazione. La dipendenza, nella prima, è dai due

invarianti di B, mentre nella terza dipendono dagli invarianti secondo e terzo di D.

Un vincolo interno unilatero è una restrizione sulla deformazione del tipo (F ) 0. Un

esempio è dato dal materiale locking (Prager), la cui equazione costitutiva nel caso

mono-dimensionale è del tipo:

= per < 0 (4.60)

= (0 ,+ ) per > 0

estendo al caso tridimensionale si ottiene:

T* (t ) = - p (t ) I + (Ut) (4.61)

con la condizione aggiuntiva:

p (t ) = 0 det F > (4.62)

p (t ) 0 det F =

4.8 Funzione di Rivlin Saunders

Gomme naturali, elastomeri e tessuti biologici sono importanti esempi di materiali reali

che possono essere modellati come incompressibili isotropi ed iperelastici. Sono molte le

ipotesi costitutive supportate da esperimenti proposte in letteratura riguardo i materiali ad

inizio elencati, ma il primo esperimento di Rivlin e Saunders e le conseguenti

considerazioni sono state le basi per numerosi successivi lavori sulla elasticità finita. La

generale equazione costitutiva (nella forma dedotta da teorema di Hamilton Caley) è stata

usata per caratterizzare campi di deformazioni dovuti a tensione, compressione e taglio.

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Gli esperimenti svolti da Rivlin e Saunders consistettero nella applicazione di risultati

teorici a prove sperimentali al fine di determinare la funzione di risposta per le gomme

naturali. Riprendendo la forma costitutiva generale, prima riportata, si può porre:

(1 / I2 ) + (-1 / I1 ) = 0 (4.63)

Omettendo, per semplicità, alcuni passaggi si può scrivere la 4.63 come:

W (I1 , I2) = /2 ( I1 3) + g (I2 3) (4.64)

dove g(0) = 0.

4.9 Materiale di Mooney Rivlin

Estendo i risultati della esperienza di Rivlin e Saunders al materiale di Mooney-Rivlin,

con l’aggiunta di alcune posizioni, si ha:

W (I1 , I2) = /2 ( I1 3) + /2 (I2 3) (4.65)

con la conseguente equazione costitutiva:

T = - p I + 0 f B 0 (1f ) B-1 (4.66)

4.9 Materiale neo-Hookeano

Analogamente, nel caso del materiale neo-hookeano, si trova l’equazione costitutiva:

T = - p I + 0 B (4.67)

che può essere riadattata ai tessuti biologici:

T = - p I + 0 f Be(I -3) (4.68)

4.11. Plausibilità statica ed unicità della soluzione.

Illustriamo, ora, alcuni esempi atti a dimostrare che in elasticità finita ‘ l’ unicità delle

soluzioni” non è assolutamente una regola, né la continuità dell’applicazione dato Ø

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soluzione e quindi, và tralasciata l’idea di trovare una soluzione alla Hadamard. Vale

sempre la riflessione su quanto affermato da W. Noll (1971)” What is a well posed

problem in finite elasticity ? “. Introduciamo il problema con una serie di considerazioni

fisiche: immaginiamo un corpo, soggetto ad una condizione di carico morto al bordo e

trascuriamo le forze di volume (quindi div T= 0 ). Si osserva, e si dimostra, che in

entrambi i possibili casi (trazione o compressione) è facile individuare soluzioni non

omogenee. Ancora, su un’esperienza di Armani & Noll consideriamo l’eversione di una

calotta emisferica. Si osserva che, in funzione della perturbazione (piccola), tutte le

possibili forme possono essere stabili. Una congettura possibile, al fine di dare una

spiegazione plausibile può essere:

- calotta non convessa; convesso Ø unicità

- calotta sottile; (rapporto tra spessore/ raggio, grande)Ø unicità

Infine una compressione su un cilindro cavo genera fenomeni di “barrelling”, viceversa

se la sezione del cilindro è piena, sono presenti fenomeni di buckling. Sotto un punto i

vista costitutivo, in accordo con quanto espresso da Podio-Guidugli [PG ] si consideri il

funzionale:

(E) = W (E(u) + U (x, E(x)) (4.77)

ove la W non è necessariamente quadratica nella misura di deformazione, come nel caso

linearizzato, e U (,) è il lavoro delle forze esterne. Il classico problema variazionale

consiste nel descrivere l’insieme:

{u (E) = min + b.c.} (4.78)

l’utilizzo dei metodi variazionali impongono alcune ipotesi minimi sulle applicazioni

costitutive W e U oltre che su . Nel caso mono-dimensionale si prenda una uC1(0,1) e

si assuma W di Carathèodory in [0,1] ]0, +[ , ovvero misurabile e continua.

Considerata una perturbazione ØW(u + v) ove vC10 (0,1) funzione test, allora

condizioni necessarie e sufficienti per l’esistenza di soluzioni u sono:

W(u + v) = 0 = 0 W(u + v) = 0 0 (4.79)

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Per dare una risposta corretta al problema vanno poste due questioni:

- in quale spazio si cerca la soluzione

- quali restrizioni su W derivanti dalla presunzione che esistano i minimi

Per rispondere alla seconda questione esploriamo le implicazioni costitutive sulla

eventuale regolarità dei minimi. Si consideri l’equazione di Eulero-Lagrange per il

funzionale della energia totale:

v test , [2 WE(x, E) + 2 U(x, u)] v = 0 (4.80)

Con la dovuta attenzione si può osservare che nella equazione cui sopra appaiono tre

grandezze presenti nella formulazione del problema di equilibrio in via variazionale, cioè

la densità di energia elastica, lo stress ed il tensore elastico. Nella ipotesi che la regolarità

richiesta esista è dimostrabile che le ipotesi di comportamento su ciascuna di esse si

riflettono in corrispondenti ipotesi sulle altre due secondo lo schema: convessità di W

monotonia di T positività di . I metodi diretti del calcolo delle variazioni, a tal punto,

pongono due questioni:

-esistono minimi del funzionale considerato?

-se esistono, soddisfano l’equazione di E.L. ?

e, in aggiunta per i nostri scopi:

-quali sono gli aspetti costitutivi che hanno rilievo per dare una risposta alle precedenti ?

Una prima risposta, dietro semplici considerazioni, consente di affermare il rapporto

regolarità dei minimi stretta monotonia dello sforzo, mentre una ulteriore semplice

considerazione comporta regolarità dei minimi non negatività di . Segue la seguente:

Proposizione: Sia WC1 e sia nullo il potenziale dei carichi esterni e sia in (0,1) u(1) = u0.

1- se le soluzioni dell’equazione di E.L. sono di classe C1 allora W è convessa nel senso

stretto.

2- se WC2 e se esistono minimi di classe C1 u0 , segue W convessa.

La convessità, come ipotesi qualitativa su W, è dunque dettata da esigenze analitiche

anche se si può considerare, per certi aspetti, una ipotesi costitutiva. Questo ultimo

concetto necessità un confronto con ragioni di plausibilità fisica onde avere conferma

delle ipotesi quantitative su W .

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4.12. Elasticità variazionale

In elasticità tridimensionale il formato variazionale, oltre ad essere suggerito da ragioni

termodinamiche di principio, fornisce un notevole supporto di procedure e metodi. Il

nostro scopo è quello di formulare una classe di problemi di equilibrio elastico come

problemi di minimo per un funzionale energia, ponendo l’attenzione su enunciati a priori

di natura costitutiva, caratterizzanti il modello, che hanno rilievo ai fini della buona

posizione del problema. Per semplicità, inoltre, è supposto nullo il potenziale dei carichi.

In elasticità non lineare la ricerca di configurazioni di equilibrio, stabili per un corpo

continuo, omogeneo ed iperelastico e soggetto a condizioni sul bordo, corrisponde alla

ricerca dei minimi per il funzionale:

(u) = W (F) (4.81)

dove 3 è la regione di occupata nella configurazione di riferimento, u: Ø3 è la

generica deformazione. Il problema di minimo si ambienta nello spazio di Sobolev:

= {u 1,p(, 3) + u rispetta le b.c. } (4.82)

pertanto la W (F) può assumere la forma di mappa +3x3Ø3 dove +

3x3 è l’insieme dei

tensori su 3 a determinante positivo.

L’ipotesi di convessità della funzione W, assieme ad opportune condizioni di crescita,

garantisce la esistenza di soluzioni del problema di minimo. Purtroppo, in elasticità non

lineare la ipotesi di convessità per W è fisicamente inaccettabile ed il teorema che segue

rappresenta la dimostrazione per tale enunciato:

Teorema (Ciarlet): Si assuma che la funzione densità di energia di deformazione sia

differenziabile sul suo dominio, soddisfi la proprietà di indifferenza materiale e sia

convessa. Allora:

-la proprietà di indifferenza materiale è incompatibile con la proprietà

limdetFØ0 W(F) = (4.83)

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-per ogni deformazione di gradiente F, gli autovalori i del tensore di Cauchy T(F)

soddisfano le disuguaglianze:

1 + 2 0 , 2 + 3 0 , 1 + 3 0 (4.84)

Il teorema stabilisce due conseguenze fisicamente non accettabili, della proprietà di

convessità: la prima è in contrasto con la natura fisica che per annullare un volume

occorre spendere un’energia infinita. La seconda esclude stati tensionali che non

soddisfano le disuguaglianze, come ad esempio la compressione idrostatica. Infatti, presa

una compressione uniforme di gradiente F =kI, k(0,1), questa dovrebbe essere

accompagnata da sforzi di trazione T(kI) = (k)I con (k) > 0. Conseguentemente la

ipotesi di convessità và scartata o meglio qualificata (PPG). La soluzione al problema fin

qui illustrato, pervenne attraverso l’intuizione di J. Ball (1977), il quale introdusse la

funzione energia di deformazione policonvessa. Più specificatamente egli propose che

una funzione W : F Ø definita su un arbitrario sottoinsieme M +3x3 è poli-convessa

se esiste una funzione convessa W*(x, ÿ) = W*(x, F, cof F, det F) tale che:

W(F) = W*( F, cof F, det F) FM (4.85)

dove cof F=(detF)F-T.

Per i nostri scopi, la definizione cui sopra si specializza nella forma: una funzione energia

di deformazione W: ä+3x3Ø è policonvessa se x esiste una funzione convessa

W*(x, ÿ) : 3 ä3 ä ]0, + [ Ø (4.86)

tale che:

W(F) = W*( x, F, cof F, det F) F3 (4.87)

4.13. Energie policonvesse

Sia F3 e siano i (i = 1, 2, 3) 0 gli autovalori del tensore simmetrico e definito

positivo FTF. Gli scalari:

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i = i ½ (i = 1, 2, 3) (4.88)

sono detti valori singolari o deformazioni principali. Un materiale iperelastico omogeneo

è isotropo se la sua densità di energia di deformazione gode della proprietà QOrt. ,

F+3x3

W (FQ) = W(F) (4.89)

Un noto teorema di rappresentazione (Ciarlet 4.4-1) afferma che W soddisfa la proprietà

di obiettività e di isotropia solo se esiste una funzione w: (+)3Ø+ tale che:

W(F) = w (1 , 2 , 3) (4.90)

Applicare tale formulazione ai materiali isotropi significa derivare forme, analiticamente

agevoli, per la densità dell’ energia di deformazione relativa alle varie tipologie di

materiali precedentemente definiti:

-Materiale neo-hookeano

Derivata dalla teoria cinetica delle gomme, Treolar ritenne idonea, per elastomeri

incomprimibili, la seguente forma per W:

W (F) = a( 7 F 72 – 3) (4.91)

dove a > 0 è un parametro che dipende dalla catena molecolare dell’elastomero.

Nel caso comprimibile la forma diventa:

W (F) = a( 7 F 72 – 3) + (det F) (4.92)

-Materiale di Mooney-Rivlin

Nel 1940 Mooney propone per l’energia di deformazione di gomme incomprimibili la

forma:

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W (F) = a( 7 F 72 – 3) + b( 7cof F 72 – 3) (4.93)

con a, b > 0. Nel caso comprimibile si ha:

W (F) = a( 7 F 72 – 3) + b( 7cof F 72 – 3) + (det F) (4.94)

Entrambe le forme di energia sono poli-convesse ma non convesse a causa dei termini

che dipendono da cof F e da det F.

-Materiale di Ogden

Una parziale e raffinata modifica ai modelli precedenti fu proposta da Ogden nella forma

W(F) = i ai (i ii ) + j bj( i (ij)

j + det (F) (4.95)

Con ai > 0, i > 1, 1 i M, bj 0, 1 j N, 1, :( 0, + )Ø convessa.

Il modello a sei parametri è in buon accordo con i risultati sperimentali fino a

deformazione del 600%. La forma di Ogden definisce una energia poli-convessa ma non

convessa.

-Materiale di St. Venant – Kirchhoff

Per tali materiali la densità di energia ha la forma

W(F) = (tr E)2 + trE2 , E = ½ (FT F – I) (4.96)

dove , sono costanti.

4.14 Materiali non reagenti a trazione

In questo paragrafo è intenzione illustrare alcune questioni concernenti l’equilibrio di

corpi solidi che non sopportano azioni di trazione (es. materiali lapidei, mattoni, malte,

legno, etc..). La ragione della trattazione è insita nel fatto che tali tipi di materiale

costituiscono complesse strutture di interesse storico-ingegneristico quali, ad esempio,

strutture monumentali, murature semplici o composte e comunque strutture molto

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retrodatate, che rappresentano il patrimonio culturale del paese e la cui precarietà statica,

spesse volte, è motivo di intervento riparatore.

Def.: Un materiale non reagente a trazione è un materiale in cui lo stress di Cauchy ha la

restrizione:

Sym (4.97)

ovvero lo sforzo è vincolato ad assumere valori tali da essere semi-definito negativo.

Inoltre si assume che il tensore della deformazione, linearizzata, possa decomporsi nella

somma di una parte elastica ed in una parte anelastica:

e (4.98)

La relazione costitutiva tra lo sforzo e la parte elastica è del tipo:

e (4.99)

Infine si assume che la parte anelastica della deformazione obbedisce alle assunzioni di

normalità:

( * Sym (4.100)

Le equazioni 4.97/98/99/100 definiscono una materiale non reagente a trazione o, come

correntemente definito in letteratura, “ a masonry-like material ”.

In letteratura è usuale definire come il tensore di frattura, poiché esso è relativo alle

parti del corpo ove le fratture enucleano. Alternativamente è possibile definire come

materiale NRT linearizzato il sistema:

1 (4.101)

Sym

Sym+

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Le condizioni 4.101 sono equivalenti alla disuguaglianza variazionale lineare:

(4.102)

dove:

= Lin

il problema 4.102 ammette soluzione unica Sym quando è un insieme convesso e

è definito positivo. In tal caso la 4.102 è la caratterizzazione variazionale della funzione

di risposta * Sym Sym * che può essere riguardata come l’approssimazione

della funzione di risposta ristretta al caso linearizzato.

Considerando un solido NRT con una configurazione regolare , soggetto a forze sul

volume f e sulla superficie laterale s, è facile prevedere che il comportamento, in termini

di equilibrio è sostanzialmente differente rispetto al caso elastico lineare dei normali

continui. Infatti per i materiali NRT è possibile determinare a priori, senza risolvere le

equazioni di equilibrio, alcune superfici interne ove lo stress si annulla. Allora ciascuno

di questi sottocorpi può essere riguardato come un corpo separato, in equilibrio rispetto ai

carichi assegnati e forze di trazioni nulle sulla superficie. In questo modo la risposta del

solido NRT può essere sostanzialmente distinta tra una parte autoequilibrata, ed una

parte non interagente. Dualmente anche il campo di spostamento non forma un campo

continuo su tutta la configurazione. In altre parole una discontinua, ovvero frattura, si

manifesta sulla/e parte/i . Questo fatto, di fondamentale importanza per i solidi NRT,

manifesta che per la formulazione delle equazioni di equilibrio bisogna tenere in conto la

presenza di fratture. Da un punto di vista analitico il tensore della deformazione assume,

secondo la decomposizione di Lebesgue, la particolare forma:

u ijau ij

su (4.103)

la 4.103 vista sotto la decomposizione di Lebesgue manifesta una somma di una parte

assolutamente continua a, con una singolare misura s.

In una forma più generale, attesa una configurazione di un solido NRT, , avente finito

perimetro e frontiera regolare, siano k i sottoinsiemi di con le seguenti proprietà:

-ogni k è un insieme aperto con finito perimetro e regolare bordo

-tutti gli k sono disgiunti

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-l’insieme:

k = 1n k (4.104)

è l’insieme di misura zero costituito da un numero finito di superfici regolare. Allora è

possibile definire k come la configurazione fratturata dal corpo. L’equazione:

u u div u n u (4.105)

è definita come formula generalizzata di Gauss-Green per la configurazione fratturata ed

assume essenziale importanza per la formulazione debole del problema di equilibrio.

Sostanzialmente un materiale NRT rispetta due tipi di restrizione:

-restrizione cinematica: la discontinuità del campo di spostamento può essere solo di tipo

normale e non positiva. Poiché una discontinuità di tale tipo corrisponde alla apertura di

fratture si ottiene l’assenza di discontinuità tangenziali e di compenetrazioni.

-restrizioni sul campo di stress: le superfici di frattura sono a stress nullo ma non a

spostamento nullo.

L’ultima restrizione rappresenta una similare condizione di complementarietà tra reazione

e campo di spostamento già nota come condizione di contatto unilatero di Signorini.

Referenze bibliografiche

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[Be] J.F. Bell, (1973) The Experimental Foundations of Solid Mechanics, Handbuch der Physik, vol. VIa/1,

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[C] P.G. Ciarlet,(1993) Mathematical Elasticity, vol. 1, North Holland, Amsterdam

[DO] I. Doghri, (2000) Mechanics of Deformable Solids, Springer, Berlin

[H] P. Haupt,(2002) Continuum Mechanics and Theory of Materials, 2nd Edition, Springer-Verlag, Berlin

[PG] P. Podio- Guidugli,(1994) Dodici Lezioni su Argomenti Costitutivi in Elasticità Lineare, CNR-GNFM, Roma

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[S] M.Šilhavý,(1997) The Mechanics and Thermodynamics of Continuous Media, Springer-Verlag, Berlin

[T] C.Truesdell,(1984) The Rational Thermodynamic, 2nd edition, Springer-Verlag, N.Y.

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Capitolo 5: Stati Anelastici 5.1 Stati di plasticità

Per la trattazione del fenomeno, per semplicità, omettiamo alcuni fenomeni quali,

scorrimento viscoso, effetti termici, fenomeni a scala microscopica, isteresi, effetto

Bauschinger. Sotto tali ipotesi ammettiamo che il superamento del limite elastico

(snervamento) per il materiale dipenda solo dallo stato di tensione e dallo stato di

deformazione plastica. Si definisce così una funzione di più variabili detta funzione di

snervamento (ij , ijP) configurata come l’equivalente della prova monoassiale. Per

ogni combinazione dello stato di tensione si ha nella transizione elastica-plastica:

(ij , ijP) = 0 (5.1)

la 5.1 è definita anche condizione di plasticità o criterio di snervamento. Il legame

costitutivo è difficile da caratterizzare in quanto dipendente dalla storia del materiale e

dalla storia del carico. Per semplificare la relazione ammettiamo che la 5.1 abbia

dipendenza dalla deformazione plastica attraverso un solo parametro:

(ij ) = (ijP) (5.2)

La 5.2 ha un preciso significato geometrico nello spazio delle tensioni principali ove le

stesse possono essere riguardate come coordinate di un punto tensione (I , II , III )

cui la condizione di plasticità impone di trovarsi sulla superficie (ij ) = , che assume il

nome di superficie di snervamento (comunque convessa). Riguardo il parametro questi

viene assunto funzione del lavoro di deformazione plastica:

(ij ) = (W P) (5.3)

con

W P = ij dijP

con l’integrale esteso all’effettivo percorso. Qualora il comportamento del materiale

(come nel caso metallico) si assuma perfettamente plastico la condizione di plasticità si

pone nella forma:

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(ij ) = 0 (5.4)

Nel caso isotropo la funzione ha dipendenza dallo stato di tensione solo attraverso gli

invarianti:

( I1, I2, I3) = 0 (5.5)

ricordando che la parte idrostatica non comporta deformazioni plastiche apprezzabili si

può porre, la 5.5., in termini di parte deviatorica:

( I2, I3) = 0 (5.6)

5.2 Problema dell’equilibrio elastico-plastico

Si consideri la configurazione nella fase elasto-plastica e siano assegnate le forze di

volume f , le forze di superficie s, oltre al campo di spostamenti sulla frontiera vincolata

1. Considerando il processo di deformazione attraverso incrementi differenziali, per

ogni variazione di tempo, andranno verificate le seguenti espressioni formulate in termini

di derivate rispetto al tempo:

dij = ½( dui,j +d uj,i ) () (5.7)

dui = dui* (1)

div d + df = 0 ()

ds = d n (2)

La formulazione completa del problema di equilibrio elastoplastico richiede la presa in

considerazione oltre che delle (5.7) , della condizione di plasticità e dei legami costitutivi

tipo elastico ed elasto-plastico, per come espresso dalla 5.8, ove a = 0 nella fase elastica e

a = 1 nella fase plastica:

dEij = ( ijhk + a ÿ ( / ij ) ( / hk ) (5.8)

5.3 Principi di estremo

Analogamente al caso elastico, è possibile formulare il problema di equilibrio, per un

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solido in regime elasto-plastico, secondo una metodologia variazionale. Formalmente il

problema è analogo al caso elastico lineare, salvo a differenziare tensioni e deformazioni

assegnando loro carattere di velocità di tensione e di deformazione. Conseguentemente è

possibile definire: a) una distribuzione d delle velocità di deformazione sarà definita

cinematicamente ammissibile se dedotta da velocità di spostamento du tali che:

dij = ½( dui,j +d uj,i ) () (5.9)

dui = dui* (1)

a tale distribuzione corrisponderanno delle velocità di tensione dij non necessariamente

equilibrate. Conseguentemente l’espressione del teorema degli spostamenti virtuali ( in

termini di velocità), scritta per variazioni congruenti, può essere posta come l’equazione

variazionale per la stazionarietà del funzionale:

J (di , dui ) = ½ dij dij - dfi d vi d - dsi dvi d (5.10)

b) analogamente una distribuzione delle velocità di tensione è staticamente ammissibile

se soddisfa le relazioni:

div (u) + f = 0 () (5.11)

s =(u) n (2)

nel caso di plasticità perfetta:

(ij ) 0 (5.12)

Applicando il teorema delle velocità delle forze virtuali, per le variazioni del campo di

velocità delle tensioni, si trova la condizione di stazionarietà per il funzionale:

K ( dij , dsi ) = - ½ dij dij + dsi dvi d2 (5.13)

Come nel caso elastico, per la ricerca di un estremo, fatta la differenza tra i due funzionali

si trova:

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minJ = max K (5.14)

con J = K solo per la soluzione effettiva.

5.4 Collasso plastico. Teoremi dell’analisi limite

Nello stato perfettamente plastico non sono possibili stati di tensione rappresentabili

all’esterno della superficie di snervamento. Nel caso in cui è (ij ) = 0 la deformazione

plastica procede indefinita senza necessità di incrementi di tensione e conseguentemente

parleremo di collasso plastico, affermando che la particolare distribuzione del carico

costituisce un sistema limite di carico, mentre la corrispondente velocità di deformazione

rappresenta un meccanismo di collasso.

Siano fi e si un sistema di forze agenti sulla configurazione e si proceda ad un aumento

graduale delle stesse attraverso un parametro “ m “ detto coefficiente di sicurezza,

allorquando i prodotti mfi ed msi rappresentano un sistema limite di carico, mentre la

corrispondente distribuzione delle velocità di deformazione è un meccanismo di collasso

d = dP. Le corrispondenti tensioni risulteranno in equilibrio con m*fi , m*si attraverso

m* “moltiplicatore cinematicamente ammissibile” associato alle dij. Analogamente T°ij

è staticamente ammissibile per il collasso qualora il suo punto rappresentativo è interno o

appartiene alla superficie (ij ) = 0 . Le d°ij non verificheranno le equazioni di

congruenza mentre le d°ij saranno equilibrate con m°fi , m°si dove m° è il moltiplicatore

staticamente ammissibile associato alle d°ij . Lo stato finale non lascia prevedere una

distribuzione unica delle tensioni, quindi prese due distribuzioni di tensione d1, d2

associate allo stesso meccanismo di collasso dP , la loro differenza deve risultare

autoequilibrata e l’equazione dei lavori virtuali diventa:

( d 1 - d 2 ) dP d = 0 (5.15)

Se s1 , s2 sono i punti rappresentativi sulla superficie di snervamento, essendo questa

ultima convessa l’angolo s1 s2 ^ n sarà minore di 90° per cui il prodotto scalare:

( d 1 - d2 ) d P 0 (5.16)

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Ma questo è in contrasto con l’equazione dei lavori virtuali e considerando che P 0

dovrà essere necessariamente d 1 = d 2 , cioè l’unicità della soluzione nel meccanismo

di collasso effettivo. Vediamo ora di determinare le limitazioni inferiori e superiori per il

coefficiente di sicurezza m. Si consideri un sistema cinematicamente ammissibile dui ,

dij e un sistema di forze equilibrato. Posto dij coincidente con dP , l’elv. in termini di

differenze diventa:

(m°fi - m*fi ) , (m°si - m°si) , (°ij – *ij ) (5.17)

( m° - m* ) ( dfi d vi d + dsi dvi d = (°ij – *ij ) dij (5.18)

Essendo coincidenti le due velocità deformazione plastica, il punto * dovrà trovarsi

sulla superficie (ij) = 0 , mentre il punto ° sarà interno o al più sulla frontiera. Il

piano tangente al punto * lascia ° da una parte, per cui l’angolo °* n(pij ) è

minore di 90°, quindi:

(°ij – *ij ) dij ¥ 0 (5.19)

conseguentemente

( m° - m* ) ¥ 0 (5.20)

Ovvero la differenza tra i moltiplicatori è sempre positiva salvo il caso per m° = m*,

significando che allorquando siamo in presenza dell’unica soluzione, che risulta

contemporaneamente cinematicamente e staticamente ammissibile (soluzione effettiva),

ritroviamo il ben noto risultato della teoria variazionale elastoplastica:

min m° = max m* (5.21)

Dalla 5.21, nel caso di solido perfettamente plastico, conseguono le validità dei seguenti

due teoremi:

Teorema 1: la totalità dei moltiplicatori cinematicamente ammissibili m* ha come

estremo inferiore il coefficiente di sicurezza m del sistema di forze applicate.

Teorema 2: la totalità dei moltiplicatori staticamente ammissibili m° ha come estremo

superiore il coefficiente di sicurezza m del sistema di forze applicate.

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La disuguaglianza ( m° - m* ) ¥ 0 sussiste purché la quantità, velocità del lavoro virtuale,

che le forze effettive compierebbero, in corrispondenza delle velocità virtuali dvi del

meccanismo, sia:

d ° = si dvi d + fi d vi d > 0 (5.22)

I due teoremi del collasso plastico costituiscono i fondamenti dell’analisi limite anche se,

presentando la limitazione di non fornire alcun criterio riguardo la deformazione plastica

locale, comportano un serio inconveniente, poiché la deformazione del solido potrebbe

raggiungere valori inaccettabili allo approssimarsi del limite di collasso.

Figura 18. Rappresentazioni della superficie di snervamento [B]

Figura 19. Collasso plastico [B]

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5.5 Termoelasticità

La termoelasticità è un notevole esempio di stato anelastico che viene rappresentato dalla

presenza di una energia termica interagente con il mezzo continuo attraverso la

deformazione del corpo. Supponiamo che la deformazione del solido dipenda dalla

tensione e dalla temperatura; si osserva, nel caso isotropo, che una variazione di

temperatura , a partire da un valore iniziale °, comporta una variazione delle sole

componenti di deformazione:

ij = ij (5.23)

dove è il coefficiente di dilatazione termica, mente l’apice nelle Eij rappresenta la

dipendenza esclusiva dalla temperatura. Richiamiamo l’inversa della equazione di Lamè:

ij = 1/2[ ij ij (iii / )] (5.24)

Lo stato di deformazione effettivo è dato dalla composizione additiva:

ij = ij + E

ij = ij +1/2[ ij ij (iii / )] (5.25)

Le componenti di tensione assumono la forma:

ij = ij + ij (IE ) (5.26)

dove = (). Le (23) e (24) restano determinate dalla semplice decomposizione

della deformazione in una parte elastica ed in una parte termica. Altre relazioni si hanno,

considerando il rilassamento delle fluttuazioni di temperatura nel solido la cui presenza è

dovuta alla influenza della deformazione sulla temperatura stessa. Definiamo ( , ij)

energia interna e (, ij) l’entropia del solido, riferite entrambe all’unità di volume.

Fatta la posizione * = ° + , dalla termodinamica segue:

d *d = Tij dij (5.27)

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Derivando rispetto a *, ij , raggruppando e semplificando si ottiene la variazione di

entropia per il solido:

d = (cv /°) d IE (5.28)

La 5.28 è una relazione per la temperatura ma, per una completezza del problema,

bisogna introdurre una altra relazione per . Sia:

i = (5.29)

la legge di Fourier per la conduzione del calore, ove i sono le componenti del vettore

flusso di calore e il coefficiente di conduttività termica . Considerata l’entropia :

i,i = ° d /dt (5.30)

l’equazione di Fourier diventa:

° d = “dt (5.31)

fatta la posizione = °e confrontando con la (26) si trova:

“ = cv IE (5.32)

le relazioni 28 e 32 consentono la formulazione completa per l’analisi dei problemi di

termoelasticità nel caso di interazione temperatura deformazione elastica. La 32 prende il

nome di relazione di Duhamel e le derivate sono intese nel senso temporale. Nel caso di

calore fornito da sorgente esterna è lecito trascurare l’ultimo termine del secondo membro

mentre, assolutamente viene messo in conto quando la variazione di temperatura è dovuta

alla deformazione del solido.

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5.6 Viscoelasticità

Questi stati sono tipici di alcuni materiali che posseggono caratteristiche sia dei solidi

elastici sia dei fluidi viscosi. Due classiche esperienze sono alla base della descrizione dei

fenomeni viscoelastici, in particolare il fenomeno del creep, ove dietro l’applicazione di

una forza, in un tempo unitario, la deformazione cresce nel tempo fermo restando

costante il valore della forza. Duale esperienza è quella del rilassamento dove, applicata

una deformazione istantanea si riscontra un andamento della forza decrescente

gradualmente tendendo ad un limite finito quando il tempo tende ad infinito. Il legame

costitutivo per un materiale visco-elastico può porsi nella forma:

T = F (t) (5.33)

t

Ove la è una funzione tensoriale di tutta la storia della deformazione. Il principio di

indifferenza consente di scrivere:

Q(t) T (t) QT (t) = Q(t) F (t) Q() (5.34)

t

introducendo la funzione tensoriale ¡ C() data:

¿ C() = U-1 U ( ) U-1 (t ) (5.35)

t

Si ottiene la completa caratterizzazione costitutiva del materiale viscoelastico lineare:

( t ) = F (t ) ¿ C() F T(t ) (5.36)

Il comportamento fisico di un materiale visco-elastico è modellato facendo ricorso ai due

stati ideali, solido e liquido, nel rapporto tensione-deformazione. Nel caso isotropo

elastico si ottiene:

ij = 2 ij+ ij r rr (5.37)

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Nel caso viscoso lineare subentra la velocità di deformazione :

ij = 2 dij + ij r drr (5.38)

Dove è il coefficiente di viscosità e la viscosità volumetrica. Le 5.37, 5.38 sono note

anche come relazioni di Newton. Vediamo ora due classici casi di comportamento:

-caso dell’elasticità ritardata

Se lo stato di deformazione, nella interazione elastico viscosa, è determinato dalla prima è

possibile sovrapporre la risposta in termini di tensione:

ij = eij + vij (5.39)

Sostituendo le 5.35 e 5.36 nella 5.37 si ha la relazione di risposta visco-elastica:

ij = 2 ij + 2 d + ij ( r rr + r drr ) (5.40)

ricorrendo alla decomposizione tensoriale:

= S + D con SSph, e DDev (5.41)

è possibile decomporre la risposta visco- elastica nella parte sferica (ove e sono

rispettivamente modulo di bulk e la viscosità di volume) ed in quella deviatorica:

Sij = 3 r rr + 3 r drr (5.42)

Dij = 2 ij + 2 dij (5.43)

Nella ingegneria pratica questo aspetto è riguardato come fenomeno di creep e la figura

che segue ne rappresenta il comportamento (caso a):

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Figura 35. Risposta di un materiale visco-elastico. Creep (a). Rilassamento (b)

- caso dello scorrimento viscoso

Se nella interazione tra la fase elastica e la fase viscosa lo stato di tensione è determinato

dalla fase elastica è possibile porre:

dij = deij + dv

ij (5.44)

decomponendo per parti Sph e Dev:

dij = dijS / 2 + ij / 2

(5.45)

IE = dij / 3 + ij / 3

e scrivere nel caso di tensione costante (dij = 0, ij = °ij ) :

ij (t) = (°ij t / 2) + °ij (5.46)

Introduciamo ora, a causa della complessità analitica nella teoria viscoelastica, degli

operatori che hanno relazione tra le componenti deviatoriche di sforzo e deformazione:

ij = 2ij (5.47)

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dove , sono operatori differenziali lineari:

= ao +a1 d/dt + a2 d 2/dt2 +…..am d m/dtm (5.48)

= bo +b1 d/dt + b2 d 2/dt2 +…..bm d m/dtm

con am , bm combinazioni delle costanti elastiche. Sommando alla 5.47 la parte isotropa, si

ottiene la relazione generale per un materiale in stato viscoelastico lineare comprimibile:

ij = 2ij + ( 2/3) IE (5.49)

posto il termine in parentesi pari a , si trova la legge costitutiva del materiale:

ij = 2ij + IE (5.50)

integrando attraverso l’utilizzo della trasformata di Laplace si trova:

ij = 2t (t) ij() d ij t (t )IE() d (5.51)

la 5.51 rappresenta l’equazione di Boltzmann per lo stato viscoelastico, dove , sono

funzioni di memoria per la tensione. Lo stato tensionale, funzione del tempo t, all’istante t

è espresso dagli integrali, estesi a tutto l’intervallo di tempo [0, t), nei quali compaiono i

valori istantanei applicati all’intervallo (, d). Le funzioni , possono essere

introdotte come postulati nella definizione di materiali con memoria. Il problema dello

equilibrio per il caso viscoelastico si basa formalmente come l’analogo elastico. Bisogna

determinare un campo di tensione ij (xk, t) ed un campo di deformazione ij(xk, t) relativi

ad un corpo con la sua configurazione W con frontiera ∑W, composta da una parte

libera e da una parte vincolata. Le forze agenti sono di volume fi e superficie si. Nel caso

quasi statico, trascurando le forze di inerzia si ha:

ij,j + fi = 0 (5.52)

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ij = ½ (ui,j + uj,i)

uj = uj*(xk, t)

ij nj = si (xk, t)

ij = 2ij + IE

Nel caso elastico la soluzione dipende dalla configurazione istantanea e dai valori

assegnati sul bordo, mentre nel caso viscoelastico è influenzata dalla intera storia del

processo. Il procedimento più rapido per calcolare la soluzione è fondato sull’utilizzo

delle trasformate di Laplace che trasformano il problema iniziale in un problema elastico

delle variabili trasformate.

5.6.1 Modelli viscoelastici

Per descrivere i comportamenti di un materiale visco-elastico “semplice” si usano due

modelli di base che usano rispettivamente, la legge di Hooke e la legge di Newton.

Figura.. Modelli visco-elastici

Per come raffigurato essi sono costituiti da una molla elastica avente un modulo di

elasticità longitudinale E e da un pistone di viscosità . I modi di combinare i due

elementi di base sono due: combinazione parallela (Voigth o Kelvin) e combinazione in

serie (Maxwell).

Modello di Voight.

La forza agente si ripartisce secondo l’equazione: e v , che sviluppata ha la forma:

E d dt (5.53)

La 5.53 è l’equazione differenziale del modello. In una prova di creep con tensione

costante ° l’integrazione dà:

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t (E) exp t (5.54)

in cui E è definito tempo di ritardo. Il modello di Voight non è invece in grado di

giustificare il rilassamento, infatti l’equazione del modello diventa °E il che è molto

lontano dalla realtà.

Modello di Maxwell

E’ il modello serie dove, per semplicità, si assume che il modello abbia sezione e

lunghezza unitaria. Sotto la sollecitazione il sistema subisce un allungamento che è la

somma degli allungamenti della molla e del pistone: e v:

d dt d edt + d vdt E d dt (5.55)

In un processo di rilassamento ( cost.) l’equazione del modello diventa:

E d dt = 0 (5.56)

integrando:

t ° exp t

dove E è il tempo di rilassamento, mentre ° è la tensione iniziale.

Referenze bibliografiche

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Capitolo6:Transizioni di fase solido-solido 6.1. Introduzione

Aspetti sperimentali riguardo la struttura molecolare di leghe a natura cristallina hanno

sollecitato enormi interesse negli studiosi di materiali, sia da un punto di visto meccanico

che da un punto di vista chimico-fisico. Ad esempio focalizzando l’attenzione sul

repentino cambio di reticolo nella trasformazione austenite-martensite appare molto

interessante l’enigmatico (Khachaturyan) cambio nel ratio assiale- tetragonale della

diffusione martensitica in acciai al carbonio. La trasformazione martensitica è osservata

oltre che nei metalli e leghe metalliche, anche nei materiali ceramici nonché nei sistemi

bilogici. Da un punto di vista puramente termodinamico la rappresentazione delle

isoterme di van der Waals Fig. 1(a) rappresenta l’energia libera di un corpo, nel rapporto

pressione volume. Qualora esista interazione, tra le isoterme vengono a formarsi delle

fasi. Due fasi separate da un confine netto possono coesistere su un segmento di isoterma

solo se la temperatura è inferiore ad una certa temperatura critica TC:

Figura 1 Isoterme di Van der Waals (a). Regola delle aree eguali di Maxwell (b) [Pr]

Le condizioni termodinamiche per la coesistenza di due fasi diverse sono semplicemente

le condizioni di equilibrio dei due sistemi, a contatto termico, diffusivo e meccanico. Si

ha quindi, rispettivamente, il seguente bilancio tra le temperature T, le pressioni P ed i

potenziali chimici :

TL TG , PL = PG , L = G (6.1)

Per volumi inferiori a VB esiste solo la fase liquida mentre per volumi superiori a VC è

presente solo la fase gassosa. Lungo la linea B-C il sistema è un miscuglio omogeneo in

cui le due fasi coesistono. Al fine di determinare i valori dell’intervallo della coesistenza

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di fasi andrà imposta la condizione lungo VB - VC : (T, P)L = (T, P)G che viene

verificata dalla isoterma che rende eguali le aree soprastanti e sottostanti come in fig.1(b).

Questo modello termodinamico è stata la base per una estensione concettuale al campo

dei solidi ed in particolare alle trasformazioni solido-solido. In particolare, durante la

trasformazione martensitica, che avviene senza diffusione, (trasformazione del primo

tipo) la struttura reticolare del materiale cambia in modo discontinuo ad una certa

temperatura. Una sorprendente successiva scoperta avvenne per opera di Adolf Martens

(1890) il quale osservo un re-arrangiamento del materiale sotto forma di microstruttura

ordinata e orientata. Resta da precisare che la trasformazione martensitica degli acciai non

è reversibile mentre quella delle leghe a memoria di forma è reversibile.

5.2 Teoria del continuo e solidi cristallini

Molte delle leghe che manifestano trasformazioni di fase solido-solido, in particolare le

martensitiche, sono soluzioni solide in reticoli cubici a corpo centrato oppure cubico a

facce centrate. La descrizione dei reticoli si utilizza il classico reticolo di Bravais definito

in 3 come l’insieme

(O, 1 2 3) { x œ 3 : x = Si ni i + O} (6.2)

Come dimostrato da Ericksen due insiemi di vettori reticolari (1 , 2 , 3) e ( 1 , 2, 3)

generano un reticolo di Bravais se e solo se esiste una trasformazione lineare a

coefficienti interi ij con det [ij ] = 1 tale che

i = Si ij i (6.3)

Se gli atomi di cui è composto il reticolo sono tutti uguali, è ragionevole supporre

l’esistenza di una energia libera dipendente dal reticolo e dalla temperatura .

= * (1 , 2 , 3 , ) (6.4)

Si dimostra, altresì, che quest’energia soddisfa le proprietà di indifferenza materiale e

simmetria. Nella trasformazione martensitica il reticolo subisce una variazione repentina

di forma in corrispondenza di una soglia critica di temperatura c , quindi assumendo che

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i vettori dipendano dal reticolo i = i() , la trasformazione di fase si modella

considerando le i funzioni discontinue nel punto = c e posto

ia (c ) = limc+ i() (6.5)

im (c ) = limc- i()

Per i =1, 2, 3 si assume l’esistenza di una trasformazione lineare non singolare U1 tale che

im

(c) = U1 ia(c) (6.7)

U1 è chiamato tensore di Bain e caratterizza completamente la trasformazione.

Osservazioni sperimentali indicano il reticolo della austenite stabile a temperature

superiori alla c , mentre quello della martensite è stabile a temperature inferiori. Si può

quindi assumere:

(ia) è punto di minimo assoluto di * per > c

(im) è punto di minimo assoluto di * per < c

(ia), (i

m) sono entrambi punti di minimo assoluto di * per = c

Attraverso la regola di Cauchy-Born è possibile transitare dalla teoria reticolare alla teoria

del continuo, secondo cui è possibile collegare la cinematica del reticolo con le

deformazioni omogenee macroscopiche del cristallo visto come un continuo. Posta,

quindi una deformazione del cristallo di gradiente F si può scrivere la relazione che

descriva la deformazione del reticolo come fi = Fi e quindi con la regola di Cauchy

Born passare dall’energia del reticolo a quella del continuo W = (F , ) che continua ad

avere la dipendenza dalla energia libera di reticolo . Anche la W(,) così definita rispetta

le proprietà di indifferenza e simmetria ed attraverso semplici considerazioni possiamo

porre le seguenti condizioni di equilibrio: F = I rappresenta la fase austenitica, F = U1 la

fase martensitica, inoltre W eredita da le proprietà di minimo prima elencate.

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Figura 2. Schema di una trasformazione martensitica: (a) austenite, (b)(c) varianti della martensite, (d)

rearrangiamento coerente di alcune varianti della martensite [Bh]

5.3. Posizione del problema di minimo

Si consideri un cristallo che occupi una configurazione di riferimento 3 con

aperto e limitato e regolare. Sia f : Ø una deformazione del cristallo e si consideri

una densità di energia di deformazione che soddisfi le proprietà di minimo in funzione dei

valori della temperatura, per come visto precedentemente. In particolare W (F) 0 ,W(F)

F ove è l’insieme: SO(3)U1…. SO(3)UN .

Si assume inoltre che W soddisfi le ipotesi:

i-(coercività) p 2, q > p (p-1), c1 ,c2 > 0, c3 tali che

W (F) c1 6F6p + c2 6cof F6q + c3 (6.8)

ii- W(F) = + se det F 0 (6.9)

Il problema di minimo, in assenza di forze di volume e di superficie corrisponde alla

posizione:

(f ) = ! W(f (x))dx (6.10)

ambientato nello spazio delle deformazioni ammissibili 1,p. Si assume inoltre:

inf (f ) = 0 con f 1,p (6.11)

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Da un punto di vista fisico, per temperature inferiori a quella di trasformazione le

soluzioni del problema di minimo si interpretano come le configurazioni di equilibrio nel

fenomeno della self-accomodation. Nella figura 3 sono rappresentati gli andamenti dei

pozzi di energia nel caso delle tre varianti di una trasformazione martensitica.

Figura 3. Andamento dei pozzi di energia per le 3 varianti di una trasformazione martensitica [Bh]

Una completa rappresentazione dei punti di minimo per W si ottiene considerando il

numero N di possibili di varianti della martensite. Introdotto il termine SO(3), spazio

delle rotazioni in 3, le proprietà di minimo per W si possono assumere come segue

SO(3) è il luogo dei punti di minimo per > c

SO(3)U1…. SO(3)UN è il luogo dei punti di minimo per < c

SO(3)SO(3)U1…. SO(3)UN è il luogo dei punti di minimo per = c

6.4 Solidi bifase

L’applicazione dei concetti tipici della trasformazioni di fase solido-solido alla meccanica

dei materiali nasce nel 1975 attraverso un lavoro di J.L. Ericksen pubblicato su Journal of

Elasticity. In esso Ericksen affronta il problema dell’equilibrio di una barra soggetta a

trazione, ipotizzando una energia di deformazione non convessa per come riportato nella

figura 4a. Questa proprietà dell’energia comporta una curva tensione deformazione non

monotona come rappresentato nella figura 4b:

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Fig. 4. Densità di energia di deformazione (a) e curva stress-strain (b) [DP]3

Il modello di Ericksen ha consentito l’apertura di nuovi canali di ricerca poiché ha

permesso di modellare nel contesto della elasticità finita fenomeni tipicamente non

elastici quali la plasticità, la frattura l’isteresi. Osservando la curva 4b i rami ascendenti

possono essere considerati come fasi diverse coesistenti all’interno dello stesso materiale.

Questa presenza implica che sottoponendo il materiale ad un ciclo di carico e scarico il

diagramma presenta un ciclo di isteresi come in figura 5.

Fig. 5. Ciclo di isteresi nel diagramma tensione-deformazione di un solido bifase (a) e regola delle aree uguali

per la retta di Maxwell (b). [DP]3

Questo ha notevoli implicazioni pratiche, infatti è individuabile nei materiali a memoria

di forma un comportamento eguale, noto spesso come superelasticità.

6.5 La barra di Ericksen

Si consideri una barra di lunghezza iniziale l e si supponga di imprimere,attraverso una

prova, un allungamento tale che la lunghezza finale sia l + l. Si ponga u come lo

spostamento che consente di passare dalla configurazione iniziale a quella deformata e sia

u’ la derivata dello spostamento coincidente con la deformazione E. L’energia elastica

della trasformazione, quadratica, vale:

b d

w

b d

(a (b)

u'

(a)

a d u'

m

(b)

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W (u ) = ½ E 2l (6.12)

dove rappresenta il modulo elastico del materiale. La deformazione E è omogenea, cioè

costante in tutta la trave. Le condizioni al bordo possono essere messe nella forma:

u (l ) – u (0) = l l (6.13)

che corrisponde ad avere assegnata la lunghezza finale. L’ultima può essere iscritta nella

forma:

u (l ) – u (0) = l E(x) = l (6.14)

ottenendo la relazione E = . Rispetto al caso classico, si vuole considerare una densità di

energia di deformazione non convessa per come rappresentato in figura 1(a). Il problema

che si pone è dato si determini una funzione u’(x)= E che renda minima l’energia di

deformazione:

(E ) = l W( u’(x))dx (6.15)

Posta una densità di energia non convessa andrà considerata una deformazione E(x)

variabile da punto a punto, quindi la condizione da rispettare sul bordo diventa

l E(x) = l (6.16)

Il problema diventa: minimizzare (E) nel rispetto delle condizioni al bordo. A tal fine

non è necessario esprimere la densità di energia analiticamente, ma basterà definirla per

mezzo di proprietà generali. Dalla figura 1(a) si possono dedurre alcune importanti

proprietà della curva rappresentativa della densità di energia.

i- esiste una sola retta tangente alla curva in due punti (a , d)

ii- la curva ha due punti di flesso individuati in b , c

Essendo la derivata della densità di energia pari alla tensione = Wu la curva stress-strain

presenta un massimo ed un minimo in corrispondenza dei punti di flesso della curva

W(E). Ancora sulla curva (E) è possibile individuare univocamente due punti a , d in

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corrispondenza dei quali il valore della tensione rende le aree eguali per come riportato in

figura 2(b). Detta m la pendenza della retta tangente in a-d , il rispetto della regola di

Maxwell impone la verifica della seguente eguaglianza

m (d – a) = W(d) – W(a) = WE (E )dE (6.17)

.

cioè l’area sottesa dalla curva (E ) nell’intervallo [a , d] deve essere eguale all’area del

rettangolo delimitato da a , b e m.

6.6 Configurazioni di equilibrio

Stabilite così le proprietà generali che caratterizzano la densità di energia non convessa si

ricavano, adesso, le condizioni sulla deformazione affinché l’energia sia minima.

Si prende un opportuno intorno di E e si consideri una soluzione del tipo E + tale che

(E+ ) (E ) 0 (6.18)

questa espressione può essere messa in forma integrale:

!l [W(E(x) + (x)) W(E(x)dx 0 (6.19)

sviluppando l’integrando in serie di Taylor, si rammenta che la (x) deve soddisfare le

condizioni: i- !l (x) = 0, ii- 6(x) 6 < x .

La prima relazione deriva dalla circostanza che la funzione E + deve soddisfare la

condizione al bordo, mentre la seconda consente di trascurare i termini di ordine

superiore. La condizione si può scrivere

!l WE (E(x) (x)) dx 0 (6.20)

che deve essere sempre soddisfatta, anche quando cambia il segno di , pertanto vale solo

con il segno di eguaglianza. Affiche la nuova condizione sia soddisfatta, ad integrale

nullo, dovrà essere:

WE (E (x)) = cost. (6.21)

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Ovvero la tensione deve essere costante in ogni punto della barra. Se allo sviluppo in

serie precedente si aggiunge il termine del secondo ordine, si ottiene la relazione di

stabilità:

WEE (E(x)) 0 (6.22)

Le ultime due relazioni rispettivamente individuano tutte le configurazioni di equilibrio e

quelle di equilibrio stabile. Con il rispetto delle condizioni di stabilità appare evidente

l’esclusione di tutte le E presenti nel ramo discendente. Riassumendo ad ogni assegnato

corrisponde una soluzione monofase, infatti, corrisponde il rispetto della condizione di

equilibrio ma non necessariamente di stabilità poiché possono esistere punti a derivata

negativa. Occorre a questo punto considerare la possibilità di una soluzione bifase.

Per esempio se il livello della tensione è pari alla tensione di Maxwell m si può

assumere che nella barra esista un intervallo (0, l ) in cui la deformazione è E = a, ed

una parte, nell’intervallo (l , l ) in cui la deformazione sia E = d. Il coefficiente (0, l) è

determinato dalla condizione al bordo:

!l (E(x)dx = l = l a + (1) l d (6.23)

da cui:

= ( d ) / (d a) (6.24)

noti a, d, che sono caratteristici del materiale, e dato si può ricavare mirando quindi a

una soluzione bifase tale da coprire tutti i punti dell’intervallo [a, d]. Il problema diviene

più complicato poiché si possono avere soluzioni bifasi anche dove si avevano soluzioni

monofase. Occorre dunque studiare la stabilità della soluzione bifase e valutare se, fuori

dell’intervallo [b, c], la soluzione bifase conviene o meno, in termini energetici, rispetto a

quella monofase. Si prenda un valore di tensione diverso dalla tensione di Maxwell,

rispetto al quale corrispondono due valori di deformazione E1 , E2 , in tal modo esisterà

sempre una soluzione bifase cui corrisponderà un altro valore di . Si potranno avere n

soluzioni bifase, una per ogni livello di tensione, e fra queste sarà considerata la più

conveniente, per poi confrontarla con la soluzione monofase. Se preso il diagramma della

tensione consideriamo un intervallo compreso tra il valore max ed il valore minimo, è

possibile associare, entro l’intervallo, una soluzione bifase mentre al di fuori

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dell’intervallo esistono solo soluzioni monofase. Omettendo alcuni passaggi si può porre

l’energia bifase nella forma:

(u) = l [(E2 - )/(E2 E1 )]W(E1 )+[(E1 - ) / (E2 E1)] W(E2) (6.25)

che è funzione della tensione, essendo le deformazioni E2 , E1 corrispondenti al livello di

tensione considerato. Minimizzando l’ultima espressione si ottiene la soluzione bifase:

=[ W(E2) W(E1)] / E2 E1 (6.26)

che coincide con la espressione della tensione di Maxwell, quindi sono possibili soluzioni

monofase solo nel tratto 0-a per indicato nella fig.6, mentre la totalità della curva di

figura 6 rappresenta il luogo dei minimi globali.

m

a d

Figura 6. Ramo della soluzione monofase (0 -a) e curva dei minimi globali [DP]3

Tutte le soluzioni bifasi con tensione diversa da quella di Maxwell, nonché le soluzioni

monofase rimaste fuori corrispondono a minimi locali. Al crescere di , vedi figura 7, si

percorre il ramo iniziale OP. Arrivati in P la curva presenta una biforcazione, da una parte

la retta di Maxwell della soluzione bifase, dall’altra il tratto PQ della soluzione monofase.

Supposto che la soluzione monofase sia un minimo locale, appare naturale chiedersi la

via che il materiale sceglie oltre il punto P, ovvero se quella del minimo locale o quella

della soluzione bifase. Nei fatti questa è una domanda quasi senza risposta ed un esempio

concreto, forse, ne chiarirà la difficoltà. Preso il legame tensione deformazione di un

acciaio in corrispondenza dello snervamento, come nella fig. 7, una spiegazione del picco

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di tensione che in genere precede lo snervamento potrebbe essere che il materiale

inizialmente vada verso il percorso dei minimi locali, ma, poi ad un determinato punto,

ricade in quella dei minimi globali.

Figura 7. Curva tensione deformazione per un acciaio.

Riguardo il problema della determinazione dei minimi locali, nasce la questione di poter

definire con precisione l’intorno ovvero scegliere una misura della distanza tra funzioni.

Nei fatti si tratta di scegliere una norma tra funzioni e, com’è possibile dimostrare,

secondo la norma scelta la soluzione monofase può essere o no un minimo locale. Al fine

della presente trattazione, quest’ultimo aspetto non è approfondito analiticamente,

preferendo sviluppare una caratterizzazione fisica per risposta alla questione.

6.7 Metastabilità e barriere energetiche

Se la soluzione monofase corrisponde ad un minimo locale dell’energia, oppure no,

dipende in definitiva dalla definizione che si sceglie per la distanza tra funzioni. Ad

esempio, se prendo la norma del sup la perturbazione deve comunque essere molto

piccola ed anche eventuali discontinuità devono essere altrettanto piccole. Viceversa se

prendo la norma integrale sono ammesse discontinuità molto grandi e quindi bisognerà

ammettere che il corpo si possa rompere ovvero, entrare nel mondo della meccanica della

frattura. Un postulato fondamentale in meccanica della frattura (Griffith 1920) afferma

che i materiali per rompersi hanno bisogno di una certa quantità di energia detta energia

di frattura. Questa affermazione significa che bisognerà aggiungere, all’energia di

deformazione un successivo termine. Il concetto dell’energia di frattura può essere

utilizzato anche per spiegare il picco presente nel diagramma tensione-deformazione per

come illustrato nella fig. 7 e relativo ad una prova mono-assiale. Al punto P il materiale

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può scegliere il ramo stabile, minimo globale, quanto il tratto PQ che prende il nome di

tratto metastabile. Se vale il concetto che il materiale per andare sul ramo stabile possa

rompersi e che è necessaria una energia di frattura, allora il materia percorrerà il tratto

metastabile individuando così configurazioni metastabili. Questo significa che per uno

stesso valore di vi sono configurazioni più favorevoli in termini di energia, ma non

raggiungibili poiché è come se fosse presente una barriera energetica che è proprio il

valore dell’energia da spendere per assumere la configurazione. Questo consente di

individuare l’importanza dei minimi locali perché essi forniscono le indicazioni sul

percorso che il materiale sceglie nel punto di biforcazione. Nel caso di fig. 7 il materiale

sceglie la parte alta della curva, anziché il tratto orizzontale, perché non riesce a superare

la barriera energetica. Arrivando al culmine, non trovando il ramo stabile ricade

necessariamente nel tratto orizzontale. Per una più precisa risposta del materiale bisogna

entrare nella sua caratterizzazione microstrutturale poiché la risposta del materiale può

dipendere da ragioni che sono al di fuori dell’osservazione macroscopica.

Conseguentemente, una analisi più dettagliata della risposta materiale necessita di

considerazioni sulla scala microscopica. In una soluzione bifase una parte della barra

assume una certa deformazione, esempio E 1 = a , mentre la rimanente parte assume la

deformazione E2 = d. Un problema che sorge è quello relativo alla percentuali delle fasi e

alla loro distribuzione (due fasi possono avere la stesa percentuale ma diversa

distribuzione). Nel caso di barra costituita da lega metallica, le due fasi a e d saranno

distribuite in forma non omogenea e distanziate con interasse molto ristretto. Solo la via

sperimentale può consentire di rendere visibili le migliaia di interfacce presenti nello

spazio di qualche centimetro.

Per tenere conto del numero di interfacce e del loro modo di formarsi si fa riferimento al

lavoro prodotto da Cahn & Hilliard (1958), due metallurgisti americani che per primi

individuarono il problema in sistemi ad energia libera. Da un punto di vista analitico la

considerazione delle interfacce modifica il funzionale dell’energia con l’aggiunta di un

termine di ordine superiore nel quadrato della derivata seconda

(E) = l W( E(x))dx + u”2(x)dx (6.27)

dove è un numero positivo “ costante del materiale” ed u”2 è un termine di rigidezza

flessionale. L’effetto del termine aggiuntivo, nel caso mono-dimensionale, è riportato in

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figura 8 dove in (a) è raffigurato l’andamento della soluzione bifase senza il termine u”2

mentre in (b) si osserva l’andamento mettendo in conto il termine aggiuntivo. La presenza

di u”2 ha l’effetto di far scomparire la discontinuità nella deformazione, infatti dove è

presente il salto, u” vale infinito. Ciò implica che una configurazione con una

discontinuità non può essere un minimo poiché la sua energia tende ad infinito. Quindi

non si hanno deformazioni con interfaccia netta, tra le fasi, ma la discontinuità viene

sostituita da un tratto a forte pendenza cioè, la superficie di separazione tra le fasi è una

superficie unica di cambiamento molto veloce.

Figura 8. Soluzione bifase senza u”2 (a) e con u”2 (b)

La presenza di un tratto a forte pendenza esclude valori minimi per l’energia e, quindi, si

può concludere che la presenza del termine aggiuntivo penalizza la formazione di

interfacce. Un affinamento a questo modello è dovuto a Truskinovsky che introdusse un

ulteriore termine u2(x) nel funzionale dell’energia

(E) = l W( E(x))dx + u”2(x)dx + u2(x) (6.28)

In questo funzionale un alto valore di produce una u convessa e quindi una u’

monotona, mentre con un elevato valore di la soluzione presenta oscillazioni che nello

schema del modello possono essere assimilate a delle interfacce. Conseguentemente

dosando opportunamente i valori e il modello è in grado di riprodurre un qualsiasi

numero di interfacce. Il limite del modello di Truskinovsky è l’utilizzabilità solo al caso

di problemi ad una dimensione, poiché l’estensione a più dimensioni comporterebbe

difficoltà insormontabili.

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Capitolo 7: Micromeccanica dei materiali 7.1 Introduzione

Un importante aspetto pratico derivato dall’assunto di non convessità della densità di

energia di deformazione è individuabile dalla possibilità di modellare alcune risposte

microstrutturali che sono la base della coesistenza di miscele fini di fasi in solidi a natura

cristallina. Il fondamentale lavoro per questa tematica è dovuto a Ball & James (1992) i

quali, utilizzando il contesto della elasticità finita riuscirono a modellare le transizioni

martensitiche, in particolare le transizioni da reticoli FCC (austenite) a reticoli TFC

(martensite). Questa base teorica e sperimentale ha consentito nel seguito degli studi uno

sviluppo di ulteriori modelli per altre leghe metalliche ed infine anche per leghe tipo

sma. Ad esempio per la lega InTl , detta c la temperatura critica, quando è < c si può

osservare come stabile una martensite, nella forma di una miscela fine di due varianti a

simmetria tetragonale. Generalmente questo tipo di miscela prende il nome di twin ed è

costituita da alternanze di fasi o varianti. In generale gli studiosi di cristallografia

svolgono considerazioni più sulla cinematica della trasformazione interessandosi poco o

nulla della formazione delle microstrutture. Invece, entro il contesto della elasticità

lineare basando la modellazione sulla minimizzazione del funzionale dell’energia si

ottengono proficui risultati in accordo alle risultanze sperimentali. In questo capitolo

tratteremo alcune considerazioni riguardo aspetti cinematica di base, che risultano

fondamentali al fine di comprendere la particolarità deformativa risultante dalla

trasformazione. In seguito sarà discusso il modello di Ball & James con le sue

caratterizzazioni di equilibrio, per poi sviluppare la soluzione del problema in termini di

microstrutture.

7.2 Compatibilità cinematica.

In questo paragrafo riguardiamo un aspetto fondamentalmente atipico per l’analisi della

deformazione. Si consideri una deformazione per come riportato nella figura 9

Figura 9. Condizioni di compatibilità cinematica [Bh]

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Si può osservare che, in generale il corpo non subisce la deformazione in maniera

omogenea ovvero, la parte superiore del corpo 1 è deformata in modo completamente

diverso dalla parte inferiore 2. Tuttavia il corpo rimane integro, significa che siamo alla

presenza di deformazioni non omogenee, concetto che per la prima volta entra a far parte

delle nostre valutazioni. Notiamo ancora che la linea netta, di normale n , di separazione

tra le due parti cambia pur risultando non spezzata dopo la deformazione. Questo è un

classico esempio di deformazione continua ma non nel suo gradiente. In particolare il

gradiente di deformazione subisce un salto in coincidenza dell’interfaccia tra le due parti

del corpo. Questo tipo di deformazione gioca un importante ruolo nello studio delle

trasformazioni martensitiche poiché, nei fatti descrive interfacce coerenti che soddisfano

la condizione di invarianza di Hadamard. Sorge spontanea la domanda:” se la

deformazione è continua, può il salto del gradiente di deformazione essere arbitrario? “.

Riguardando la figura 9 è facile convincersi che la risposta è negativa. Poiché il corpo è

integro, dopo la deformazione, allora l’interfaccia che separa le due fasi deve sostenere la

stessa deformazione sia che vista da una parte che dall’altra. In altre parole le due parti

devono contenere un piano invariante. Se rammentiamo che una variazione di superficie è

esprimibile attraverso (cof F)n e che la deformazione è supposta continua, allora questa

quantità deve rimanere invariata quando è attraversata l’interfaccia. Supposto che la

deformazione di fig. 9 sia omogenea a tratti ovvero.

f = F(x) + c x1 (7.1)

f = G(x) + d x2

dove c, d sono vettori costanti, F, G matrici costanti e 1 2 distinte parti di . Ancora,

se f è continua segue la necessità che F, G soddisfino la condizione:

(cof F) n = (cof G) n (7.2)

E’ possibile dimostrare che l’espressione (2) è equivalente alla richiesta che i tensori F,G

soddisfino la condizione:

F G = b n b,n (7.3)

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Inoltre, è necessario che l’interfaccia tra le due regioni sia piana e di normale n. Questa

condizione è nota in letteratura come condizione di salto di Hadamard o anche

condizione di compatibilità cinematica. Terminiamo, dimostrando che questa è in esatto

una condizione di invarianza piana. Consideriamo un qualsiasi vettore v giacente sulla

interfaccia, chiaramente è v n = 0, applicando la condizione di Hadamard

Fv Gv = (bn)v = b(vn) = 0 quindi Fv = Gv (7.4)

Se raffrontiamo queste ultime considerazioni, in rapporto a quanto accade nella

trasformazione martensitica con le due varianti, si deduce che le proprietà del lemma di

Hadamard potranno essere rapportate integralmente. Al fine di rendere più comprensibile

l’applicazione di tale lemma si richiamano le proprietà delle superfici in movimento, che

sono tipiche dei corpi soggetti a transizione di fase, oppure a onde di shock. In tali casi è

individuabile all’interno dei corpi una regione materiale dove alcune quantità fisiche

cambiano rapidamente nello spazio e nel tempo. Per la descrizione di questi processi

entro le teorie fenomenologiche sono correntemente proposti campi con salti discontinui

su singole superfici. Iniziamo la trattazione con la descrizione di una superficie variabile

nel tempo, rispetto la configurazione di riferimento. Si prenda un intervallo di tempo

compreso tra i valori [t1 t2 ] e sia W Õ 3 una configurazione aperta e limitata di con

frontiera ∑W regolare. Si considerino i sottoinsiemi di

W0(t) = (x, t) W xW0(t)

(7.5)

W1(t) = (x, t) W xW1(t)

dove W0(t) rappresenta l’insieme dei punti di che al tempo t appartengono alla porzione

in cui è “f (x) = F° e W1(t) la parte in cui è “f (x) = F1. Inoltre, W0(t), W1(t) rispettano le

condizioni :

W0(t)… W1(t) = «

(7.6)

W0(t) » W1(t) = W(t)

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Definiamo interfaccia, l’insieme G(t) come una regione regolare tra due differenti fasi

aventi gradiente diverso:

G(t) = (x, t) W xG(t)

(7.7)

G(t) = W0(t)… W1(t)

Il salto ed il valor medio del gradiente di deformazione sono espressi dalle relazioni:

[F] = F° – F1 ; F = ½ ( F° + F1) (7.8)

In tal modo se f e g sono campi di funzioni continue a tratti definite entrambe su G(t),

allora quasi ovunque sull’interfaccia sarà:

[fg] = [f ] g + f [g] (7.9)

Proposizione 6.1. (Lemma di Hadamard ) sia f un campo differenziabile continuo a tratti

e a valori scalari; allora esiste una funzione continua ,a valori scalari, tale che

[ “f ] = n (7.10)

la (10) è una condizione di compatibilità cinematica. La quantità è definita

amplificatore del salto nella derivata di f. Estendendo il lemma a quantità vettoriali si

ritrova la (4)

[F] = b n (7.11)

la quantità b analogamente al caso precedente prende il nome di amplificatore del salto.

Rientrando nell’argomento in corso, la figura 10 raffigura la condizione tra due varianti

di una trasformazione martensitica. Appare evidente,ora, la possibilità di caratterizzare il

problema di equilibrio utilizzando, anche, le proprietà prima espresse.

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Figura 10. Deformazione con due varianti. Twin in martensite (a).Schematica rappresentazione di twin. (b)

[Bh]

Commentando ulteriormente la figura 10 deduciamo che la trasformazione trae origine da

un campo di deformazioni che possiede 2 pozzi di energia e conseguentemente sviluppa

due varianti, I, J della martensite. Ne consegue che la condizione di compatibilità

cinematica è scritta come.

Q1 UI Q2 UJ = b n "b, n (7.12)

Ove le rotazioni Q1 , Q2 sono nei fatti a valori costanti. La (7.12), in letteratura, prende il

nome di twinning equation per il fatto di avere la seguente interpretazione fisica. Un twin

è un difetto planare in un cristallo che possiede le seguenti proprietà:

i)il reticolo di una faccia si può ottenere per semplice scorrimento del reticolo dell’altra.

ii) il reticolo di una faccia può inoltre essere ottenuto da una rotazione di un reticolo

sull’altro.

7.3 Il modello di Ball & James

Vogliamo ora considerare i modelli che descrivono transizioni di fase nei solidi piani e

tridimensionali. Sia la regione dello spazio tridimensionale occupata dal corpo nella

sua configurazione di riferimento e sia f la funzione deformazione agente descritta

attraverso il proprio gradiente F. Vale il teorema della decomposizione polare F = RU =

VR con le classiche assunzioni che FLin+ , ROrt e USym+, inoltre la densità di

energia rispetti il principio di indifferenza Q =RT e si assuma una natura policonvessa

tipica delle trasformazioni austenite-martensite. La configurazione di base è assunta

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coincidente con la fase austenitica, quindi Uaust = I, mente la deformazione che porta alla

fase martensitica può essere messa nella forma

(Umart)i = ei ei + (I ei ei ) (7.13)

posto i = 1, la (13) descrive la trasformazione di un cubo unitario, in un parallelepipedo,

con gli spigoli paralleli al riferimento ej , con lunghezza rispettivamente in direzione e1 ,

nelle direzioni e2 , e3. Com’è noto al variare di i si ottengono le tre varianti della

martensite supposte ad eguale energia e si assume che il minimo della fase austenitica

insieme al minimo delle tre varianti martensitiche siano minimi locali. Viceversa il

minimo globale apparterrà ad una delle due fasi. Caratterizziamo le configurazioni di

equilibrio, per il solido, quando questi possiede diverse parti con diverse fasi.

Consideriamo una configurazione 3 e sia G una superficie che divide il corpo in due

sottoinsiemi 0 e 1 Si consideri una deformazione f su il cui gradiente F assuma

valori costanti F0 in 0 e F1 in 1. Sulla superficie G consideriamo due punti x0 , x e si

sviluppi la funzione deformazione f

f(x) = f(x0 ) + F(x0 )(x x0 ) + o(x x0) (7.14)

Passando al limite per x x0 imponiamo che la proiezione del vettore (x x0) sul piano

tangente a in x0 , possegga sempre la stessa direzione m, quindi

limx – x°0 [f (x) f(x0 ) ] / x – x0 = F(x0 )m (7.15)

x e x0 , valevole per entrambe le regioni 0 , 1. La condizione di continuità per la f

obbliga alla validità dell’eguaglianza sia per F(x0) = F0 , che per F(x0 ) = F1. Fatta la

differenza dei due gradienti si trova mx°

(F0 F1)m = 0 (7.16)

Detto n la normale all’interfaccia in x0 si consideri un qualsiasi vettore b decomposto

nella sua parte normale e tangenziale. Dalla (16) si ha:

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(F0 F1)b = ( b n) (F0 F1)n (7.17)

e con la posizione a = (F0 F1) si ottiene

(F0 F1)b = (b n)a = (an)b (7.18)

e per l’arbitrarietà di a

F0 F1 = a n (7.19)

La (7.19) è la condizione geometrica di compatibilità di Hadamard ed è la condizione

necessaria affinché sia possibile una deformazione bifase in cui il gradiente assuma solo

due valori F0 , F1 . Utilizzando la decomposizione polare la (20) assume la forma

R0 U0 R1 U1 = a n (7.20)

In [DP]3 viene sviluppata in maniera dettagliata la configurazione di equilibrio per due

abbinamenti di fasi (austenite ed una variante di martensite, due varianti di martensite). In

questa trattazione non tratteremo siffatte configurazioni ma, continueremo a riferirci

sempre al lavoro di Del Piero in [DP]3 che dimostra, per via esemplificativa, alcuni

risultati della importante teoria di Ball & James [BJ]2 sulle miscele fini di fasi. Nella

proposizione che segue si ritroverà la condizione (20) oltre a due successive proprietà che

trovano conforto nell’aspetto reale osservato attraverso la micrografia ottica. La funzione

caratteristica per un insieme , è la funzione definita come.

(x) = 1 per x (7.21)

(x) = 0 per x

Proposizione. Sia un aperto, connesso e limitato di 3 e siano 0 1 due regioni

complementari di , disgiunti e sia la loro interfaccia di separazione. Siano F0, F1Lin+

e sia f una deformazione il cui gradiente assume valori costanti F0 in 0 e F1 in 1. Segue

(i) esistono un vettore a ed un versore n tali che F0 F1 = a n

(ii) è un insieme di superfici parallele e piane di normale n

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(iii) f è del tipo f(x) = c + F1x + (x) a, fi (x) = ci + j F1

ij xj + (x) ai

dove c è un vettore e una funzione scalare tale che (x) = F° (x) n dove F° è la

funzione caratteristica di 0.

Dimostriamo la (ii). Sia x, dalla (i) e dalla (17) segue che mx°

(n m) a = 0 (7.22)

Allora n è la normale a in x° e poiché x° è arbitrario, n è la normale a x.

Per la (iii) commentiamo solo il risultato della dimostrazione fatta in [DP]3. Detto e il

versore di ( x – x0), differenziando rispetto e si ritrova la (x) = F° (x) n.

(x)e = F° (x) ne (7.23)

Una deformazione globale come la (7.23) è mostrata nella figura 11. Essa descrive la

transizione della fase austenitica all’insieme delle due fasi martensitiche. Si notino le

bande diagonali, tipiche dell’ alternanza dei gradienti nelle due fasi martensitiche. Nella

figura 12 immagine da microscopio atomico per la stessa deformazione su lega CuNiAl.

Figura 11.Interfaccia austenite –martensite (a). Deformazioni a banda per le varianti martensitiche (b) [Bh]

Figura 12. Immagine AFM della superficie dopo transizione in CuAlNi. [Bh]

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7.4 Soluzione in termini microstrutture

Per semplicità si consideri, inizialmente, un modello monodimensionali, es. una barra

sottoposta ad una semplice deformazione longitudinale [Bh]. La configurazione di

riferimento è l’intervallo mono-dimensionale ove il generico punto x(0, 1) e il gradiente

della deformazione y (x) vale

f = dy /dx (7.24)

Assumiamo una densità di energia (f ) = (f 2 1)2 per come raffigurato nella sottostante

figura 13

Figura 13. Densità di energia nel caso monodimensionale [Bh]

La è non convessa e caratterizzata da due pozzi di energia f = 1 e f = 1. L’energia

totale è ammessa da una forma del tipo

(y) = 0-1 (f ) + y(x)2 = 0-1 (f 2 1)2 + y(x)2 (7.25)

Si vuole minimizzare l’energia (7.25) rispetto a tutte le deformazioni continue e notiamo

altresì, che il più piccolo valore che può raggiungere l’energia è pari a zero. Di

conseguenza vogliamo trovare una deformazione che consente di raggiungere il valore

zero all’energia di deformazione. Questo significa che entrambi i termini dell’integrale

(7.25) devono essere pari a zero. In altro modo bisogna trovare una deformazione y che

soddisfa la condizione.

dy(x)/dx = f (x) = 1 e y = 0 (7.26)

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ma se y = 0 quasi ovunque è f (x) = dy(x)/dx = 0 violando la prima richiesta della (7.24).

Concludiamo che non è possibile trovare una funzione ove entrambe le condizioni

richieste dalla (7.25) siano rispettate simultaneamente e, conseguentemente possiamo dire

che non esiste una deformazione y con (y) = 0. E’ possibile però, andare prossimi al

valore zero ovvero, nei fatti, si può trovare una successione di deformazioni continue tipo

y n, n =1, 2, 3, che possieda piccoli valori di energia e tendente a zero, per n tendente

a infinito.

Figura 14. Successioni di deformazioni minimizzanti l’energia totale [Bh]

La successione può essere costruita facendo assumere al primo termine della (7.25) il

valore zero, ovvero:

y1 = x se 0 < x < ½

(7.27)

y1 = 1-x se ½ < x < 1

per come raffigurato nella figura 14. L’energia associata alla deformazione y1 vale

(y) = 0-1/2 x2 + 1/2-1 (1 – x)2 = 1/12 (7.28)

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Questa deformazione rispetta la condizione (26) anche se il valore della energia non è

proprio zero. Tuttavia possiamo ridurre il valore della deformazione, preservando la

pendenza creando una successione di deformazioni che prevede “due tetti”, per come

mostrato nella figura 14. Con tale tipo di approccio è possibile definire un n tale che la

deformazione y n sia rappresentata da un andamento con “ n tetti “ conservanti lo slope

della y1. Analiticamente

y n = x se 0 < x < 1/2n

(7.29)

y n = 1/n x se 1/2n x < 2/2n

periodicamente estesa all’intervallo (0, 1). Resta banale determinare l’energia totale:

(yn )=n 0-1/2n x2 +n1/2n-2/2n(1/n – x)2= 1/12n2 (7.30)

nonché è deducibile immediatamente che lim n (yn ) = 0.

Consideriamo, ora, un’estensione del problema nel caso a due dimensioni. Sia un corpo

cristallino bidimensionale soggetto ad una deformazione y fuori piano. In particolare è

un quadrato di lato L: {(x1 , x2) : 0 < x1 < L, 0 < x2 < L} e la deformazione è una funzione

scalare delle due variabili y (x1 , x2). Il gradiente della deformazione assume la forma:

F = y = {y /x1 , y/x2 } = {F1, F2} (7.31)

Si assuma che la densità di energia di deformazione (F) = (F1 , F2) abbia l’espressione

(32) la cui rappresentazione nel piano è riportata in figura 15:

(F) = ( F12 2 + F2

2 (7.32)

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Figura 15. Densità di energia policonvessa nel caso bidimensionale [Bh]

Osserviamo che questa energia ha due pozzi: il primo in F ={1,0}, l’altro in F ={-1,0}.

Imponiamo la condizione al bordo, in particolare, y = 0 in e proviamo a cercare la

deformazione y che minimizza l’energia totale.

miny=06 (y ) dove (y) = ! (y(x1 , x2 )) dx1 , dx2 (7.33)

Il problema nel caso bi-dimensionale è similare al precedente mono-dimensionale. In

questo caso, come prima, non troviamo deformazioni che ammettono valori nulli per

l’energia. Tuttavia, possiamo sempre costruire una successione di deformazioni, tendenti

a zero energia, che rappresentano, nella realtà, una miscela sempre più fine delle varianti.

Come fatto nel caso mono-dimensionale si inizi con la deformazione i cui gradienti siano

{-1,0} e {1,0}. Ammesso un intero n e si divida in 2n strisce e costruiamo una

deformazione zn i cui gradienti si alternano tra zn = {1,0} e zn = {-1,0}. Ognuna di

queste deformazioni ha energia zero ma, è tale da non soddisfare le condizioni al

contorno, per come rappresentato in figura 16.

Figura 16. Successione di deformazioni a gradiente alternato.

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Per ottenere questa condizione raccordiamo la cuspide con la regione triangolare anteriore

e posteriore, al fine di ricavare una deformazione y n con il rispetto delle condizioni al

bordo. Dal momento che i gradienti, in queste regioni triangolari, non appartengono ai

pozzi, le deformazioni non hanno energia zero. Notiamo allora che non appena n diviene

grande, le altezze delle cuspidi della deformazione divengono piccole. E’ possibile ora

calcolare l’energia di queste deformazioni:

(y) = !ós (0, 1)dx1dx2 +!ıs (0, 1)dx1dx2 +!r (0, ≤1)dx1dx2 (7.34)

(0, 1) μ (area triangolo superiore) μ n° triangoli superiori + (0, 1) μ (area triangolo

inferiore )μ( n° triangoli inferiori )

= 2 μ L2 /4n2 μ n + 2 μ L2 /4n2

μ n + 0 = L2 / n (7.35)

Figura 17. Successioni di deformazioni minimizzanti l’energia totale in 2D.

Appare estremamente facile verificare che lim n (y n) = 0. La considerazione finale

che è possibile svolgere è la seguente: il materiale quando è sottoposto a condizioni sul

bordo omogenee, tipo campi deformativi a valore nullo (y = 0), preferisce attuare un re-

arrangiamento che preveda una miscela sempre più fine delle due varianti martensitiche.

7.5 Modello di Eringen.

In preparazione

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7.6 Teoria Atomistica e dinamica molecolare.

In preparazione

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Capitolo 8: Meccanica del danneggiamento e della frattura. 8.1 Concentrazioni di tensione

Figura 20. Modello di lastra. (a) Condizioni di simmetria. (b) Andamento dello stress. [DT]

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L’elasticità piana consente di fornire soluzioni approssimate a reali problemi

tridimensionali, consentendo la comprensione di importanti fenomeni fisici utili ai fini

della realizzazione. Nel caso meccanico i componenti hanno, di solito, forma complessa e

risultano soggetti a condizioni di carico semplice. In particolare la regolarità geometrica

del solido è profondamente influenzata dalla presenza di fori, variazioni della sezione,

scanalature ed altre modifiche di regolarità necessarie alla funzionalità del pezzo.

Si consideri una lastra rettangolare simmetricamente caricata, con una pressione uniforme

o , avente una foratura centrale, per come riportato in figura 20(a). Considerata la

simmetria strutturale, di carico e geometrica è possibile considerarne esattamente la metà,

per come riportato in figura 20(b) ed imporre l’equilibrio (secondo l’asse x

o(2l)(2h) = 2Ûh ÛR-l x (y, z) dydz (8.1)

ove: 2l = larghezza della lastra; 2h = spessore; R = raggio del foro. Nella ipotesi di stato

piano ( h á l ) si ha:

o(2l)(2h) = 2hä2 ÛR-l x (y) dy (8.2)

o l = ÛR-l x (y) dy (8.2.a)

Introdotta la tensione media

= 1/ (l – R) ÛR-l x (y) dy (8.3)

= 1/ 1-(R/l ) o (8.4)

La (4) evidenzia come al crescere di R cresce la o , infatti vi è sempre meno materiale

che contribuisce a sopportare gli sforzi dovuti al carico;al limite per R0 , = o

ovvero la tensione media coincide con il valore puntuale,ovvero x= o= . Si potrebbe

pensare che il valore di risulti sufficiente accurato per le verifiche di resistenza ma,

viceversa, risolvendo il problema in forma chiusa (Kirsc) si trova che la x ha, in

prossimità del foro una brusca impennata, mentre è pressoché costante sul bordo, per

come in figura 20(c). Questo significa che il solido reagisce all’asportazione di materia

chiamando a collaborare soprattutto le parti in prossimità del foro e lasciando quasi

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disinteressate le parti lontane dal difetto. Questo fenomeno è indicato come

concentrazione della tensione e la sua importanza è direttamente legata alla presenza, in

zone ristrette, soggette a valori elevati di tensione e/o deformazione.

8.2 Problema di Griffith

L’approfondimento delle problematiche legate al fenomeno della concentrazione delle

tensioni ha aperto la strada ad una particolare branca della resistenza dei materiali detta

meccanica della frattura. Consideriamo il problema di figura 21

Figura 21. Modello meccanico per il problema di Griffith [DT]

Si consideri il modello di lastra, con foro, per come riportato nella figura 21. Riguardo la

geometria la lastra, di forma rettangolare, ha spessore unitario (molto inferiore rispetto le

altre dimensioni) e contiene un foro di forma ellittica, simmetrico, con i semiassi a,b

paralleli ai lati del rettangolo. Si supponga a à b , ma molto inferiore alla dimensione del

rettangolo parallela al semiasse. In altro modo ellisse schiacciata e lontano dai bordi della

lastra. Si fissi un riferimento cartesiano x,y con riferimento dell’origine coincidente con il

centro della ellisse. Infine valga il concetto di lastra a dimensione infinita (trascuratezza

delle condizioni al bordo). Riguardo le azioni esterne si ipotizzi, agente sui lati paralleli

all’asse x una tensione uniforme di trazione o diretta lungo y in grado di deformare la

lastra di una quantità prefissata. Il materiale è supposto elastico lineare omogeneo ed

isotropo in ogni suo punto. Osservando la figura 21 possiamo affermare che nel punto A,

si ha un valore della tensione y molto superiore rispetto alla media della sezione B-B’.

Consideriamo ora una lastra del tutto identica ma, nella quale il semiasse maggiore della

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ellisse risulta variato di a e confrontiamo le due lastre alle quali è imposto lo stesso

allungamento alle estremità. Possiamo affermare che:

-la seconda lastra è più cedevole della prima quindi sarà sufficiente una tensione inferiore

per ottenere lo stesso allungamento.

-poiché l’allungamento delle due lastre è lo stesso, ma la pressione applicata è superiore

nella prima se ne deduce che questo ultimo solido contiene più energia elastica. Griffith

ipotizzò che la presenza di tensioni elevate all’apice dell’ellisse fosse in grado di rompere

il materiale allungando, in tal modo, il semiasse da a a+a. Consideriamo allora una

lastra rettangolare di spessore unitario soggetta a trazione monoassiale o e dopo bloccata

agli estremi. L’energia elastica, in assenza di foro, risulta

1 = ( 02 / 2E ) A (8.5)

ove A è l’area del rettangolo della lastra. Griffith valutò il rilascio di energia associato

alla creazione di un difetto ellittico schiacciato con semiasse maggiore pari ad a in

ragione di

( 02 / E ) a2 (8.6)

e quindi la lastra contenente il difetto ha immagazzinato l’energia

= ( 02 / 2E ) (A 2a2) (8.7)

Quindi alla variazione di ampiezza, del semiasse a, si accompagna una variazione di

energia elastica

= (d / da)a = 2a ( 02 / E ) a (8.8)

Griffith ipotizzo il segno meno poiché presume che l’energia fosse liberata dalla lastra ed

ancora che alle nuove superfici dell’ellisse fosse connessa una energia superficiale

come quella dei liquidi, valutata come

= 4a (8.9)

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essendo l’energia superficiale specifica, relativa alla superficie unitaria del difetto. Allo

accrescimento del difetto si accompagna un assorbimento pari 4a. Se il sistema è

chiuso, non vi sono scambi di energia con l’esterno, dovrà essere + = 0 e quindi

con semplici passaggi si ha:

02 = IC E / a (8.10)

dove il termine IC = 2 è definito critical energy release rate . La (10) con le relative

considerazioni sul termine IC consente di rispondere ai seguenti quesiti:

-data la semiampiezza a del difetto, determinare la tensione critica cr.

-data la tensione o agente, determinare il max del semiasse dell’ellisse.

le risultanze, rispettivamente, offrono le seguenti relazioni:

cr = (2 E / a) 1/2 ; acr = 2E / o2 (8.11)

Da tali risposte si evince che quanto più grande è a tanto più diminuisce (cr )

I punti più salienti della teoria di Griffith sono sostanzialmente individuabili in:

(i) la presenza nel corpo di una quantità di energia elastica disponibile per sopperire gli

effetti dissipativi che si accompagnano alla lacerazione del materiale.

(ii) la presenza di concentrazione delle tensioni che possono innescare la propagazione.

In un corpo integro, ideale, anche un elevato contenuto energetico non si rivela pericoloso

poiché non esistono difetti, nei pressi dei quali si ha concentrazione di tensione.

L’inglese Inglis determinò il valore della tensione al semiasse maggiore, in rapporto alla

tensione applicata all’esterno trovando, la semplice espressione, quando l’ellisse è

disposto con s.asse maggiore ortogonale alla direzione di o

max / o = 1 + (a / b)2 (8.12)

Il passo successivo è il considerare nella lastra, l’ellisse ridotta ad un segmento di

ampiezza 2a ovvero una discontinuità che matematicamente può essere assimilato ad una

fessura. Questo è il concretizzarsi del problema di Irwin (o line crack) che concepì come

un problema elastico applicato ad lastra ove è presente una fessura. Nella realtà il difetto,

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di tal consistenza viola la teoria dell’elasticità lineare (es. al limite del rapporto b/a la

tensione tenderebbe ad infinito). Vi è ancora una altra limitazione che riguarda la risposta

del materiale, essenzialmente elasto-plastica, con la conseguente ri-distribuzione delle

tensioni opposta alla concentrazione (diminuzione degli effetti).

8.3 Soluzioni nel caso piano

La soluzione in forma chiusa non è assolutamente un percorso facile in quanto andrà

scelta una opportuna classe di funzioni biarmoniche, con altrettante condizioni ai limiti.

Si deve a Westergaard una forma di funzione bi-armonica soddisfacente il problema.

F(x, y) = x 1(x, y) + y 2(x, y) + 3(x, y) (8.14)

Ove le i sono funzioni armoniche che soddisfano l’equazione di Laplace 2i = 0. In

questi procedimenti è possibili e conveniente utilizzare le rappresentazioni in forma

complessa, in particolare funzioni analitiche di variabile complessa (la f (z) della forma

complessa z = x + iy, derivabile xA del piano complesso si dice analitica in A ovvero

olomorfa in A, poiché ha derivata unica indipendente dalla direzione di A). Ai fini di sola

caratterizzazione informativa, consideriamo la lastra con difetto riportata in figura 22(a) e

proponiamoci di studiare l’andamento delle tensioni in prossimità dell’apice del difetto.

(a) (b)

Figura 22. Modello di Westergaard (a). Parametri geometrici della cuspide (b).

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Considerando la figura 22(a) atteso che il modo ipotizzato per l’apertura della fessura è

del tipo modo I (opening mode), le componenti di sforzo associato diventano

x = ReI y ImI’

y = ReI +y ImI’ (8.15)

xy = y ReI’

Ove la I (z) è la stress-function di Westergaard, comunemente utilizzata per risolvere i

problemi di frattura nei solidi tridimensionali. Il pedice I rappresenta il modo di apertura

della fessura. In meccanica della frattura sono identificabili i seguenti modi:

Figura 23. Modi di apertura per una fessura

Il campo tensionale generato dalle (15) è senz’altro equilibrato e congruente; per la

individuazione della (z) resta da scegliere una classe di funzioni che soddisfano le

condizioni ai limiti ai bordi della fessura oltre che sulla frontiera esterna. In riferimento

alla figura 22(b), sul bordo della fessura sarà y = 0, xy = 0 quindi si potrà scegliere

(z) = (z) / (z2 a2 )1/2 (8.16)

Dove la (z) è analitica e monodroma. Detti , parametri reali si può scrivere sempre

in riferimento alla 22(b):

(z) = i ( /) Re(z) = 0 (8.17)

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Focalizzando l’attenzione all’apice della fessura (y = 0, x = a) procedendo con opportuno

cambiamento di variabile, = z a , la funzione analitica diventa

= f ()/ (8.18)

In prossimità dell’apice, cioè , la f () assumerà un valore reale e quasi costante

lim f () = I / 2 (8.19)

quindi

() I / (8.20)

KI è denominato S.I.F. stress intensity factor ed è l’unico parametro che misura l’intensità

del campo tensionale e può essere determinato in base alle condizioni ai limiti. Resta però

da annotare che avvicinandosi all’apice della fessura le tensioni aumentano tendendo a

per r 0. Questo rappresenta una soluzione elastica, in realtà il comportamento è

anelastico, e di conseguenza all’apice della fessura il regime delle tensioni varia. In

termini di componenti di tensione si trova

x = (I / r ) cos/2 ( 1 sen/2 sen3/2) y (8.21)

xy = (I / r ) cos/2 (sen/2 sen3/2) (8.22)

ove KI può essere ricavato da:

I = lim 2 () = o a (8.23)

Il criterio dominante in meccanica della frattura è quello di stabilire un modo semplice,

che consente di stabilire le potenzialità di propagazione della fessura. L’idea di Irwin,

legata alla tensione, si affianca alla valutazione del KI che caratterizza completamente il

campo tensionale all’apice della fessura e per il quale la propagazione si innesca per la

eguaglianza KI = KIC. Conseguentemente valgono le seguenti disuguaglianze:

KI < KIC equilibrio stabile

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KI = KIC equilibrio indifferente (8.24)

KI > KIC equilibrio instabile

A valle delle posizioni (24) è possibile rivedere alcune definizioni precedentemente

discusse quali, la determinazione della tensione critica in funzione della semiampiezza

del difetto a. Si ha

cr = IC / a (8.25)

ma è anche

cr = EIC /a (8.26)

quindi

IC = IC / E (8.27)

che lega lo stress intensity factor KIC al rilascio dell’energia critica IC. Il valore di KIC

resta determinato in funzione della geometria del foro e delle condizioni di carico. La

figura che segue ne contiene alcuni esempi.

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Figura 25. Fattori di intensificazione degli sforzi

8.4 Modelli di Griffith e di Barenblatt

Si consideri una barra sottoposta a trazione e si indichi con l’allungamento della barra

come indicato nella figura 26(a). Lo stesso allungamento della barra può, però, essere

ottenuto separando fisicamente la barra per lo stesso valore , per come in figura 26(b).

(a) (b)

Figura 26. Barra in trazione (a). Barra con frattura e separazione (b)

Da un punto di vista energetico, caso quadratico avremo, rispettivamente, nel caso (a) una

energia pari W = ½ k2 , e nel caso (b) pari a W = 0. Ciò significa che la configurazione

di equilibrio è quella con il corpo rotto.

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(a) (b)

Figura 27. Energia (a) e tensione (b) per una barra soggetta a frattura.

Secondo la teoria di Griffith l’energia di deformazione segue un andamento quadratico e

la energia necessaria per fratturare la barra ha un valore costante pari a . Nella fig.27(a)

questo valore è in corrispondenza dell’allungamento critico c. Per < c il minimo della

energia corrisponde alla barra deformata, mentre per > c il minimo coincide con la

barra fratturata. Al manifestarsi della frattura la tensione vale

c = kc (8.28)

esprimendo in funzione di

= 1/2kc2 (8.29)

si trova

c = k (8.30)

ovvero

c k (8.31)

La (31), per come osservato dallo stesso Griffith, rappresenta una stima per difetto della

tensione di frattura. Questo semplice modello consente di comprendere perché non è

possibile confrontare le configurazioni di cui alla figura 26(a),(b) poiché per la frattura è

necessaria una certa quantità di energia.Un ulteriore affinamento al modello di Griffith

avvenne per opera di Barenblatt (1959) il quale invece di considerare una energia di

frattura costante ipotizzò una gradualità della frattura, quindi unna diminuzione della

tensione al crescere dell’apertura. Figura 28(a),(b)

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Figura 28. Modello della frattura coesiva (a). Andamento delle forze di richiamo (b)

Conseguentemente si possono derivare gli aspetti costitutivi di cui alla figura seguente:

Figura 29. Duplicità della legge costitutiva

Naturalmente ad una tensione di frattura decrescente corrisponde una energia di frattura

concava secondo il diagramma di figura 30:

Figura 30. Energia di frattura e tensione secondo il modello di Barenblatt

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Secondo la teoria di Barenblatt, l’energia viene spesa in maniera graduale e la tensione

si annulla quando la curva diventa parallela all’asse a. Mettendo in conto la possibilità di

formazione di una frattura il modello della barra si modifica introducendo una

discontinuità nello spostamento u, oltre che sulla deformazione u’= E . Assumendo una

densità di energia quadratica

W(E ) = ½ k E 2 (8.32)

La curva , è lineare e l’energia totale risulta

(u) = Ûl ½ k E 2 dx + (a) (8.33)

dove (a) rappresenta l’energia che si accumula nella frattura, funzione della apertura

della fessura a , in altre parole la discontinuità dello spostamento u. La condizione

sull’allungamento totale si può scrivere come:

Ûl E dx + a = l (8.34)

Poiché, in questo caso, la curva , è lineare, quindi monotona, non esiste la possibilità

di fasi diverse e ciò vuol dire E = cost.. Le (33) e (34) si modificano di conseguenza in:

(u) = l ½ k E 2 dx + (a) (8.35)

lE + a = l (8.36)

Le configurazioni di equilibrio si hanno minimizzando la (35) con il vincolo (36)

Sostituendo nella (35) la (36) in termini di E, si ottiene l’espressione dell’energia da

minimizzare

(u) = ½ kl ( a/l )2 + (a) (8.37)

funzione dell’unica variabile scalare a. Ponendo a zero la derivata prima:

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k( a/l ) + ’(a) = 0 (8.38)

dove il termine k( a/l ) è la tensione nella barra mentre ’(a) è la tensione nella

frattura. La condizione di equilibrio impone, quindi, l’eguaglianza tra la tensione nella

barra e quella della frattura. La condizione sulla derivata seconda impone

k / l + ’’(a) 0 (8.39)

e lega una quantità positiva k / l ad una negativa ’’(a), perché la curva è concava. Al

crescere della lunghezza l , il rapporto k / l diminuisce, ovvero diminuisce la stabilità per

cui l rappresenta un fattore di scala. Questi fattori sono estremamente importanti in

meccanica della frattura poiché dimostrano che a parità di forma un corpo più grande è

molto più fragile di un corpo più piccolo come si vede in figura 31

Figura 31. Transizione duttile fragile ed effetto di scala

Resta da precisare che, equilibrio e stabilità dei modelli fin ora trattati, sono riferiti al

caso con una sola frattura n = 1. Per n = 0 si ha u’= e a = 0. Vogliamo ora trattare il

confronto tra la soluzione con frattura e la soluzione senza frattura. Si consideri il grafico

di figura 32 ove l’allungamento è dato in funzione della deformazione E . Nel caso n =

0 la retta è inclinata di 45°.

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Figura 32. Curva - E per barra con / senza frattura

Dimostriamo, per prima cosa, che se E > ’(a) / k le soluzioni n = 0 e n = 1 sono

instabili. Per questo fine consideriamo, oltre la prima configurazione, una seconda

frattura di ampiezza e confrontiamo l’energia delle due configurazioni. Affinché la

configurazione di frattura sia stabile, la sua energia deve essere minore della

configurazione con due fratture, cioè:

½ l k E 2 + (a) ½ kl (E /l )2 + (a) + () (8.40)

semplificando:

l k E (/l) ½ kl (2/l2 ) + () (8.41)

se è molto piccolo rispetto l il primo termine del secondo membro si può trascurare e

sviluppando ()= (0) +’(0) = ’(0) si può porre (u’= E), ku’ (0) e trovare la

condizione:

u’ ((0) / k (8.42)

Superare questo limite, significa che la soluzione per n = 1 non conviene più in termini

energetici e si aprono nuove fratture. Nello stesso caso n = 1 la condizione di equilibrio

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impone l’eguaglianza tra la tensione della barra e quella nella frattura. Sviluppando con

semplici posizioni si ottiene la condizione

= E +( ’-1 (k E ))/ l (8.43)

dove si può osservare che, per n = 1, la è data dalla somma di due termini, ove il primo

coincide con la retta di figura 32, mentre il secondo dipende da l e dall’inverso della

derivata di . L’andamento di questa funzione inversa è riportato nella figura 33

Figura 33. Andamento della funzione ’ per n = 1

Per tracciare, quindi la curva u’, nel caso n = 1, bisognerà sommare il diagramma di

figura 32 con quello di figura 33 diviso per l.

(a) (b)

Figura 34. Curve -u (a) e - (b) per la barra con / senza frattura

Dalla osservazione della curva 34(b) si osserva che i rami stabili sono quelli con

pendenza decrescente. Posto una l molto grande (curva 2) si ha il diagramma alla

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Truskinovsky [Tr]. Riguardo l’analisi di stabilità si può osservare che la curva 1 è

inizialmente quella dei minimi assoluti, mentre successivamente lo diventerà la curva 2.

Lo scambio dei minimi si avrà in corrispondenza di quel valore di che rende eguali le

due aree tratteggiate. Il sistema salterà più avanti o più indietro a seconda della sua

capacità di superare le barriere di energia che incontra. E’ interessante notare che non è

possibile prevedere il momento in cui comincia la frattura ma, partendo da una frattura

esistente si riesce a studiarne la sua evoluzione anche se l’innesco per l’ evoluzione stessa

manca. Esiste un punto di biforcazione dell’equilibrio dal quale il sistema salta da una

configurazione all’altra più stabile. La frattura, quindi, come biforcazione dell’equilibrio

è un modello più sofisticato, poiché fornisce la localizzazione della deformazione nella

sezione in cui si ha la discontinuità. Quando si apre una frattura la tensione diminuisce,

ma anche la deformazione diminuisce poiché, nella barra come corpo elastico, la

deformazione deve cedere spazio alla discontinuità.

8.5 Modello di Del Piero & Truskinovsky:

In preparazione

8.6 Modello di Kachanov:

In preparazione

Referenze bibliografiche

[Be] J.F. Bell,(1973) The Experimental Foundations of Solid Mechanics, Handbuch der Physik, vol. VIa/1,

Springer-Verlag

[Ca] A. Carpinteri,(1992) Meccanica dei Materiali e della Frattura, Pitagora, Bologna, 1992

[DP]3 G. Del Piero (2002), Modelli di comportamento dei materiali, comunicazioni riservate.

[DT] A. Di Tommaso(1993), Scienza delle Costruzioni, vol.2, Patron Ed., Bologna

[DO] I. Doghri ,(2000), Mechanics of Deformable Solids, Springer, Berlin

[N] A. Nadai (1950), Theory of Flow and Fracture of Solids, McGraw-Hill, N.Y.

[R] D. Royalance, (1996), Mechanics of Materials, Wiley, N.Y.

[Tr] L. Truskinovsky, (1996), Fracture as a phase transition, in: Contemporary research in the mechanics and

mathematics of materials, R. C. Batra & M. F. Beatty Eds., CIMNE, Barcellona