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Dott.ssa Rossella Dell’Orco 1 L’emersione dei conflitti armati interni a livello internazionale: profili problematici e strumenti a tutela delle vittime a cura della Dott.ssa Rossella Dell’Orco Docente di diritto costituzionale, diritto per l’immigrazione, economia politica in corsi a finanziamento pubblico. Collaboratrice c/o studio legale P. Lamanuzzi (Bisceglie –BA) in materia di diritto civile e previdenziale e c/o studio legale M. Ingravalle (Bisceglie – BA) in materia di diritto amministrativo. per info e contatti: e-mail [email protected] Premessa La fine della guerra fredda aveva recato seco l’ingannevole chimera che la minaccia di rivolgimenti bellici fosse destinata a divenire una remota eventualità nello scenario internazionale: la stridente realtà palesata dagli echi recenti delle vicende che hanno flagellato Jugoslavia, Somalia e Ruanda ha dato prova che la guerra, lungi dall’essere una rimembranza del passato, ha meramente mutato i suoi tratti distintivi, assumendone ulteriori inquietanti, che impongono una risposta energica e concertata della comunità internazionale. Invero, agli scontri tra eserciti nazionali sono subentrati i conflitti armati interni che, sia pur privi di evidenti ripercussioni geopolitiche, scrivono una nuova pagina nella storia della violenza bellica, che narra di azioni militari nel cui ambito i civili non sono vittime accidentali ma ineluttabili, bensì bersagli mirati di miserabili interventi preordinati all’acquisizione del controllo etnico-territoriale. Siffatto fenomeno può avere multiformi matrici: dal venir meno dell’equilibrio bipolare instaurato nel corso della guerra fredda, all’ambizione e al particolarismo di alcuni soggetti che, nell’ambito di società instabili, sono in grado di innescare rivolgimenti bellici, pur in assenza di qualsivoglia ingerenza esterna. Altre volte è il figlio degenere del nazionalismo estremista che si pone quale negazione violenta avverso i processi di globalizzazione; può essere il veicolo adoperato da un popolo che preme per l’affermazione di diritti essenziali denegati da regimi dispotici, che ignorano i basilari precetti democratici. Qualunque ne sia la causa, unica è la costante: delitti di ferocia inaudita e sofferenze su larga scala, per lungo tempo sottratti al vaglio critico della comunità internazionale giacché saldamente trincerati nelle “mura domestiche” statuali. Appare doveroso, allora, identificare le forme di tutela che la comunità internazionale ha progressivamente posto a presidio dei fondamentali diritti delle vittime dei conflitti armati interni, resesi imprescindibili laddove si consideri che l e incontrovertibili violazioni di credi largamente condivisi dalla comunità interstatale, unite alla loro propensione a minare la sicurezza internazionale (mercè il pericolo di estensione transfrontaliera), ha gradualmente mutato il profilo intrinseco della guerra civile: da fenomeno originariamente avulso all’ordinamento internazionale, relegato nel cono d’ombra della domestic jurisdiction, a fattispecie al centro di un imponente sforzo di regolamentazione, estesosi in direzioni insperate. Tale impegno sinergico, è avanzato con risolutezza, sia pur lungo un sentiero irto di ostacoli, verso un’effettiva garanzia di efficacia delle forme di salvaguardia , portando gradualmente all’emersione, sul piano internazionale , delle problematiche connesse e, coerentemente, all’arretramento della soglia del dominio riservato. Si trattava, in estrema sintesi, di minare alcuni dei dogmi che per secoli hanno caratterizzato il sistema delle relazioni interstatali: l’estensione della sovranità statuale nonché il difetto di soggettività degli individui rei di violazioni gravi de l diritto internazionale. Non è arduo realizzare quali e quante riluttanze abbia incontrato un mutamento di prospettiva di siffatta portata che, attualmente, consente di avvalersi di strumenti e azioni ripartibili secondo tre distinti stadi temporali (ante, in itinere e post conflitto interno), corrispondenti ad altrettanti progressi conseguiti nella materia in esame: dall’adozione di un apparato normativo volto ad assicurare alle vittime civili un minimum inderogabile di trattamento umanitario , meglio noto come Diritto

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Dott.ssa Rossella Dell’Orco 1

L’emersione dei conflitti armati interni a livello internazionale:

profili problematici e strumenti a tutela delle vittime

a cura della Dott.ssa Rossella Dell’Orco Docente di diritto costituzionale, diritto per l’immigrazione, economia politica in corsi a

finanziamento pubblico. Collaboratrice c/o studio legale P. Lamanuzzi (Bisceglie –BA) in materia di diritto civile e

previdenziale e c/o studio legale M. Ingravalle (Bisceglie – BA) in materia di diritto amministrativo. per info e contatti: e-mail [email protected]

Premessa La fine della guerra fredda aveva recato seco l’ingannevole chimera che la minaccia di rivolgimenti bellici fosse destinata a divenire una remota eventualità nello scenario internazionale: la stridente realtà palesata dagli echi recenti delle vicende che hanno flagellato Jugoslavia, Somalia e Ruanda ha dato prova che la guerra, lungi dall’essere una rimembranza del passato, ha meramente mutato i suoi tratti distintivi, assumendone ulteriori inquietanti, che impongono una risposta energica e concertata della comunità internazionale. Invero, agli scontri tra eserciti nazionali sono subentrati i conflitti armati interni che, sia pur privi di evidenti ripercussioni geopolitiche, scrivono una nuova pagina nella storia della violenza bellica, che narra di azioni militari nel cui ambito i civili non sono vittime accidentali ma ineluttabili, bensì bersagli mirati di miserabili interventi preordinati all’acquisizione del controllo etnico-territoriale . Siffatto fenomeno può avere multiformi matrici: dal venir meno dell’equilibrio bipolare instaurato nel corso della guerra fredda, all’ambizione e al particolarismo di alcuni soggetti che, nell’ambito di società instabili, sono in grado di innescare rivolgimenti bellici, pur in assenza di qualsivoglia ingerenza esterna. Altre volte è il figlio degenere del nazionalismo estremista che si pone quale negazione violenta avverso i processi di globalizzazione; può essere il veicolo adoperato da un popolo che preme per l’affermazione di diritti essenziali denegati da regimi dispotici, che ignorano i basilari precetti democratici. Qualunque ne sia la causa, unica è la costante: delitti di ferocia inaudita e sofferenze su larga scala, per lungo tempo sottratti al vaglio critico della comunità internazionale giacché saldamente trincerati nelle “mura domestiche” statuali. Appare doveroso, allora, identificare le forme di tutela che la comunità internazionale ha progressivamente posto a presidio dei fondamentali diritti delle vittime dei conflitti armati interni, resesi imprescindibili laddove si consideri che le incontrovertibili violazioni di credi largamente condivisi dalla comunità interstatale, unite alla loro propensione a minare la sicurezza internazionale (mercè il pericolo di estensione transfrontaliera), ha gradualmente mutato il profilo intrinseco della guerra civile : da fenomeno originariamente avulso all’ordinamento internazionale, relegato nel cono d’ombra della domestic jurisdiction, a fattispecie al centro di un imponente sforzo di regolamentazione, estesosi in direzioni insperate. Tale impegno sinergico, è avanzato con risolutezza, sia pur lungo un sentiero irto di ostacoli, verso un’effettiva garanzia di efficacia delle forme di salvaguardia , portando gradualmente all’emersione, sul piano internazionale , delle problematiche connesse e, coerentemente, all’arretramento della soglia del dominio riservato. Si trattava, in estrema sintesi, di minare alcuni dei dogmi che per secoli hanno caratterizzato il sistema delle relazioni interstatali: l’estensione della sovranità statuale nonché il difetto di soggettività degli individui rei di violazioni gravi de l diritto internazionale. Non è arduo realizzare quali e quante riluttanze abbia incontrato un mutamento di prospettiva di siffatta portata che, attualmente, consente di avvalersi di strumenti e azioni ripartibili secondo tre distinti stadi temporali (ante, in itinere e post conflitto interno), corrispondenti ad altrettanti progressi conseguiti nella materia in esame: dall’adozione di un apparato normativo volto ad assicurare alle vittime civili un minimum inderogabile di trattamento umanitario , meglio noto come Diritto

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Internazionale Umanitario, alla possibilità di intraprendere azioni coercitive ad opera dell’intera comunità internazionale all’interno di Paesi in cui sia in corso un conflitto interno, sino all’istituzione di giurisdizioni sopranazionali in grado di deferire alla giustizia i responsabili, diretti o mediati, di violazioni delle norme umanitarie in rivolgimenti a carattere locale , sopravanzando la tutt’altro che remota, indolenza degli Stati.

Sezione I I conflitti armati interni: l’evoluzione concettuale

1. I conflitti armati interni e la domestic jurisdiction Al fine di inquadrare puntualmente i confini delle tematiche oggetto del presente studio, interessa, pregiudizialmente , delineare l’esatta accezione della locuzione “conflitti armati interni” (o non internazionali). Rientrano tradizionalmente nella prima tipologia quelli che vedono contrapporsi le forze armate di due Stati, cui si assommano, secondo il disposto del I Protocollo Aggiuntivo alle Convenzioni di Ginevra dell’8 giugno 1977, le guerre di liberazione nazionale. La seconda ingloba i conflitti che si sviluppano entro i confini statuali, tra forze regolari e gruppi armati organizzati ovvero tra gruppi armati dissidenti che si fronteggiano l’un l’altro. Di fatto, tale demarcazione non può che considerarsi labile, in presenza di situazioni non rapportabili univocamente all’una o all’altra categoria precostituita, laddove si consideri “che una guerra interstatale non si differenzia necessariamente da un conflitto interno nella misura in cui, in un caso come nell’altro, le peculiarità si presentino oltremodo similari: operazioni militari recanti vittime e feriti sia tra i combattenti che tra i civili, prigionieri, sofferenze e distruzioni di portata inaudita1”. Tuttavia, l’ammissione di tale ripartizione , quanto meno preliminarmente a fini metodologici, non è un vano esercizio orator io, dacché, storicamente, il grado di tutela accordato agli individui protetti (intendendosi per tali coloro che non partecipano direttamente o non seguitano a prendere parte attiva più alle ostilità), si è rivelato, a lungo, intimamente correlato alla qualificazione giuridica delle ostilità, pur se le tendenze evolutive in materia incedono indubitabilmente verso l’appianamento di ogni discriminazione passibile di legittimare “garanzie affievolite” per le vittime dei conflitti locali. In effetti, i tentativ i tesi ad affrontare le tematiche in esame sono risalenti nel tempo, pur se dapprima circoscritti alla salvaguardia delle vittime dei conflitti interstatali: come si dirà nel prosieguo, il primo e più eloquente riconoscimento sul piano normativo internazionale di pari dignità alle vittime di quelli interni è segnato dall’adozione dell’art. 3 comune alle quattro Convenzioni di Ginevra del 19492. L’interesse della comunità internazionale, in relazione ai conflitti interni, era, sino a quel momento, rivolto precipuamente “alla regolamentazione dei diritti e doveri degli Stati terzi nei confronti del governo legittimo nel cui territorio fosse divampata un’insurrezione”3, stante l’intangibilità della sovranità statale che non tollerava alcuna ingerenza esogena in relazione al trattamento dei sudditi, salvo espressa richiesta di intervento formulata dal governo legittimo medesimo. La ragione di tale noncuranza va rinvenuta nella estensione dell’ idea stessa di sovranità statale che, essendo intesa, sino al XIX° sec., quale potestà di gestire incondizionatamente sia il territorio sia le comunità umane ivi stanziate, implicava l’esplicarsi del potere di governo in qualsivoglia direzione, anche eventualmente vessatoria e lesiva dei diritti umani. A presidio di simili prerogative, il diritto internazionale poneva il principio di non ingerenza di Stati terzi negli affari interni alieni, cui, dunque, era fatto espresso divieto di assumere contegni suscettibili di frapporsi fra Stato, territorio e sudditi, tali da osteggia re il libero dispiegarsi della sovranità; ragione

1 La labilità di netti criteri di demarcazione è posta in luce da R. Abi-Saab: ”Comme toute tentative de classification de faits sociaux, cette distinction se heurte cependant a des situation qui ne laissent pas facilement enfermer dans catégories précises, et les limites en demeurent toujours floues. En effet, qu’il s’agisse de la limite supérieure, c’est-à-dire de la distinction entre le conflit interne et le conflit international, ou de la limite inférieure, à savoir la distinction entre le conflit armé non international et les troubles internes, il existe des zones d’ambiguïtés qui donnent lieu à des interprétations divergentes, que l’on se place du point de vue du droit humanitaire et de la protection la plus étendue des victimes, ou point de vue des intérêts de l’Etat concerné par un conflit interne ». R. ABI-SAAB, Droit humanitaire et conflits internes, Paris, 1986 2 Le convenzioni di Ginevra del 12 agosto 1949 sono quattro, relative, rispettivamente al “Miglioramento delle condizioni dei feriti e dei malati delle forze armate in campagna (I Convenzione); al “Miglioramento delle condizioni dei feriti, dei malati e dei naufraghi delle forze armate sul mare” (II Convenzione); al “Trattamento dei prigionieri di guerra” (III Convenzione) e alla “Protezione delle persone civili in tempo di guerra” (IV convenzione). 3 N. Ronzitti, Diritto internazionale dei conflitti armati, 1998, Torino

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per cui “il principio di non intervento risultava leso ogniqualvolta uno Stato mirasse ad ottenere, il più delle volte minacciando di ricorrere all’uso della forza armata o impiegando tale forza, un determinato comportamento da un altro Stato non fondato su alcun titolo giuridico”4. Tale asserto si traduceva altresì nell’interdizione di prestare qualsivoglia supporto ai ribelli5. Nell’ipotesi di guerra civile, quindi, il governo al potere godeva della facoltà di soffocare l’insurrezione avvalendosi dei metodi ritenuti più opportuni in ossequio al diritto interno, essendo il diritto internazionale bellico deputato a regolare esclusivamente i casi di conflitti interstatali. Ciò nondimeno, la frequenza dei conflitti interni, manifestatasi a partire dal XIX° secolo 6, persuase la dottrina classica ad interessarsi con maggiore sollecitudine al fenomeno, sino a delineare una prima definizione di guerra civile che consentisse di coglierne i tratti distintivi rispetto ad un conflitto interstatale e di ripartirla in fasi susseguenti, sì da individuare la disciplina applicabile a ciascuna di esse. Così, si ritenne di ravvisare una guerra civile allorché un gruppo di sudditi avesse intrapreso una contestazione armata contro l’autorità di governo, con l’intento di sovvertire il regime al potere o di costituire, su un lembo del territorio , una nuova entità statale . Si inglobarono in questa categoria sia i conflitti tra colonie e madrepatria , sia quelli sorti in Stati federali, posto che, nell’un caso come nell’altro, gli oppositori al governo legittimo (colonie e membri della federazione) difettavano di soggettività internazionale 7. Quanto al frazionamento in fasi distinte, si scelse di ancorarlo all’inevitabile crescendo delle ostilità: la prima, rapportabile all’inizio del conflitto, era contrassegnata dalla circostanza che i ribelli, ancora privi di forza e stabilità tali da consentire loro di destabilizzare il potere del governo e di acquisire uno status internazionalmente rilevante, venivano considerati alla stregua di criminali perseguibili secondo il diritto interno, senza alcuna ingerenza da parte di Stati terzi. Siffatto orientamento è ribadito dall’art. 2 della Risoluzione adottata nel settembre 1900 dall’Institut de Droit International secondo cui “1. Toute tierce Puissance, en paix avec une nation indépendante, est tenue de ne pas entraver les mesures que cette nation prend pour le rétablissement de sa tranquillité intérieur. 2. Elle est astreinte à ne fournir aux insurgés ni armes, ni munitions, ni effets militaires, ni subsides”. E’ interessante notare che nell’incedere de lavori propedeutici all’adozione di tale disposizione, quest’ultima venne reputata da alcuni delegati quale veicolo che si prestava ad avallare le pratiche “di certi governi che hanno eletto il massacro dei loro sudditi a principio della loro amministrazione”8. Qualora l’osservazione avesse goduto di benevolo accoglimento, sia pure a livello di dichiarazione di principio, la tutela delle vittime dei conflitti armati interni avrebbe beneficiato di un embrionale ma certamente significativo riconoscimento, eppure, temendo ripercussioni sull’estensione della sovranità, si volle piuttosto non aprire alcuna breccia suscettibile di assentire qualsivoglia forma di intervento ad opera di Stati Terzi legittimata da intenti umanitari. L’emersione della guerra civile sul piano internazionale , possibile solo in una fase avanzata delle ostilità, era segnata dall’attribuzione della soggettività internazionale ai ribelli, per effetto del c.d. “riconoscimento di belligeranza”, lecitamente effettuabile sia dal governo contestato, sia da Stati terzi. Nella prima ipotesi assumeva le fattezze di un atto unilaterale discrezionale 9, che restava tale quand’anche gli scontri avessero assunto intensità tale da non lasciare spazio alcuno a perplessità circa l’esistenza di una guerra civile a tutti gli effetti. D’altra parte, esso poteva ben prescindere dalle prerogative possedute dal partito ribelle, nonché conseguire sia ad una esplicita determinazione, sia a facta concludentia: nella prima ipotesi per mezzo di una proclamazione ufficiale di guerra; nella seconda, tramite una serie di atti inequivocabilmente

4 V.GRADO, Guerre civili e terzi Stati, Padova, 1998. 5 La risoluzione adottata nel settembre 1900 dall’Institut de Droit International “Droit e devoirs des Puissances éntragères, au cas de mouvement insurrectionnel, envers les gouvernements établis et reconnus, qui sont aux prises avec l’insurrection” compendia l’orietamento classico relativo al principio di non ingerenza. Sulla medesima linea si pose la Convenzione dell’Avana del 1928, conclusa tra i paesi dell’America Latina. 6 Un esempio noto è la guerra di secessione americana (1861-1865) e le varie lotte di indipendenza che contrapposero colonie americane e le potenze coloniali ( colonie dell’america latina contro Spagna 1810-1824 e colonie americane contro Inghilterra, 1774-1783). 7 V. GRADO, Guerre civili e terzi Stati, op cit. 8 R. ABI-SAAB, Droit humanitaire et conflits internes, Paris, 1986. 9 La tesi riportata nel testo è quella accolta dalla dottrina maggioritaria. Altra parte minoritaria riteneva che il riconoscimento di belligeranza dovesse avere carattere obbligatorio in presenza di criteri oggettivi tra cui il controllo di una parte del territorio o il rispetto del diritto di guerra da parte delle forze ribelli. V. A.S. CALOGEROPOULOS-STRATIS, Droit humanitaire et droits de l’homme. La protection de la personne en période de conflit armé, 1980, Institut Universitaire de Hautes Etudes Internationales.

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Di grande interesse, ai fini della protezione delle vittime sia militari che civili dei conflitti interni è il ruolo assunto dalla Croce Rossa sin dalla sua costituzione (1863), diretto a “placare le sofferenze senza distinzione di nazionalità, sesso, razza, religione, condizione sociale o appartenenza politica” (H. Dunant): tuttavia ha dovuto scontrarsi con l’ostilità di autorità statali che concepivano gli interventi umanitari di tale organismo, le cui finalità sono esclusivamente filantropiche e prive di qualsivoglia connotazione politica, quale atto di indebita ingerenza negli affari interni16. 3. I conflitti armati non internazionali ai sensi dell’articolo 3 comune alle Convenzioni di Ginevra del 1949 L’articolo 3 comune alle quattro Convenzioni di Ginevra non adopera la locuzione “guerra civile”, ma si esprime in termini di “conflitto armato che non presenta carattere internazionale che si svolge nel territorio di un’Alta Parte contraente ”, senza tuttavia né fornire una definizione di una simile espressione, né precisare la soglia minima delle ostilità implicanti la mise en œuvre dei precetti racchiusi nella disposizione in esame. Il rilevato mutamento terminologico non è affatto casuale, ma frutto di una rigorosa opzione maturata in seno alla Conferenza Diplomatica del 1949, mirante ad eludere l’eventualità che l’applicazione dei principi umanitari ginevrini fosse circoscritta ai soli casi di guerra in senso formale 17. L’espressione “conflitto armato” ha il pregio di consentire l’estensione del diritto umanitario anche a uno stato di fatto, desumibile da criteri materiali (quale l’impiego delle armi) prescindenti da qualsivoglia qualificazione giuridica formale 18: ciò implica che, nell’eventualità di conflitti interni, i principi umanitari esigeranno rispetto “dal momento che una lotta armata all’interno di uno Stato prende forme tali da cessare di essere un semplice affare di mantenimento dell’ordine”19. Malgrado la sua rilevanza giuridica, una definizione dell’esatta portata dell’espressione in esame difetta: carenza ancora più avvertita laddove si consideri che l’individuazione di criteri utili ad orientare gli interpreti è resa decisamente ardua dall’assenza di organismi che, nelle multiformi situazioni, possano fungere da arbitri (ruolo che la Croce Rossa ha preferito evitare onde non compromettere l’imparzialità della sua azione) o di procedure autonome di constatazione20. L’annosa quaestio non sfuggì alla Conferenza Diplomatica del 1949, allorquando certuni delegati nazionali prospettarono l’adozione di parametri diretti a delimitare i casi in cui si fosse lecito parlare di conflitto armato privo del carattere internazionale, ma, nel testo definitivamente approvato, non ve ne è alcuna traccia. Una simile lacuna è imputabile , verosimilmente, al fatto che l’articolo 3 ha visto la luce dopo laboriosi negoziati, per cui non può che essere un testo di compromesso, suscettibile di multiformi esegesi tali da consentire a ciascuno di recepire interpretazioni che non attentino ai propri interessi. L’elaborazione dottrinale di parametri esplicativi si giustifica nell’ottica di prestare il doveroso soccorso alle vittime di conflitti interni21 meno nettamente caratterizzati, arginando la tendenza degli Stati di attrarli nel dominio riservato.

16 A tal fine meritano menzione i lavori della IXª Conferenza internazionale della Croce Rossa (Washington, 1918), durante la quale il problema della salvaguardia delle vittime di guerre civili fu oggetto di un progetto di convenzione (Progetto Clark) che, pur se non venne discusso, aveva il pregio di stabilire che la Croce Rossa avrebbe prestato soccorso sia al governo legittimo che ai ribelli, anche per mezzo di società straniere, nel caso in cui la Società nazionale non fosse in grado di svolgere la sua missione. Nel corso della Xª Conferenza (Ginevra, 1921), il problema venne affrontato in alcune risoluzioni che disciplinavano la procedura attraverso cui sarebbe stato possibile organizzare i soccorsi a favore delle parti in lotta (Richiesta della società Nazionale della CR del Paese coinvolto nella guerra civile indirizzata al CICR; consenso del governo, organizzazione delle attività di soccorso con l’ausilio delle Società straniere). 17 Il diritto internazionale classico distingueva in modo preciso lo stato di pace da quello di guerra, utilizzando, nell’uno come nell’altro caso, complessi normativi differenti. Il passaggio dal primo al secondo era subordinato ad un atto di volontà unilaterale che permetteva di qualificare la situazione come guerra in senso formale. Nel caso di guerra internazionale, tale atto assumeva generalmente sia “ la forma di una dichiarazione di guerra motivata, sia quella di un ultimatum con dichiarazione di guerra condizionata” (art 1, III conv. dell’Aja del 1907 sull’apertura delle ostilità).Nel caso di guerra civile, si identificava nel riconoscimento di belligeranza; situazioni intermedie tra lo stato di guerra e quello di pace non erano giuridicamente concepibili. 18 Quindi anche senza che vi sia stata, a seconda dei casi, dichiarazione di guerra o riconoscimento di belligeranza. Conviene anticipare che l’art. 3 segna una innegabile rivoluzione anche da questo ulteriore profilo, poiché l’applicazione del diritto internazionale umanitario in caso di conflitti interni non è più ancorabile alla soggettività di entrambe le parti (che, d’altra parte, gli insorti ben difficilmente riuscivano ad ottenere) bensì ad una situazione di mero fatto. 19 A.S. CALOGEROPULOS-STRATIS, Droit Humanitaire et droits de l’homme ; la protection de la personne en période de conflit armé,1980, Ginevra. 20 R. MAESTRI, Appunti di diritto internazionale umanitario. 21 L’espressione va intesa come equivalente a quella di “conflitti armati non internazionali”.

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Alcuni sono desumibili dai vari emendamenti discussi dalla Conferenza Diplomatica e si pongono quale utile strumento, seppur privo di qualsivoglia carattere vincolante, di discernimento tra autentico conflitto armato non internazionale e mero atto di banditismo. Più in dettaglio, si ritenne configurabile un tale conflitto purché:

1. “La parte ribellatasi al governo legittimo possieda una forza militare organizzata, un’autorità responsabile dei suoi atti che agisca su un territorio determinato e che sia in possesso dei mezzi per rispettare e far rispettare le Convenzioni.

2. Il governo legittimo sia obbligato a far appello alle forze armate regolari per combattere gli insorti organizzati militarmente e in possesso di una parte del territorio.

3. a. Il governo legale abbia riconosciuto la qualità di belligeranti agli insorti o b. abbia rivendicato per sé la qualità di be lligerante o c. abbia riconosciuto agli insorti la qualità di belligeranti ai soli fini dell’applicazione delle presenti Convenzioni o d. lo scontro sia stato considerato dal Consiglio di Sicurezza o dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite come costituente una minaccia alla pace internazionale, una rottura della pace o un atto di aggressione.

4. a. Gli insorti abbiano un regime presentante le caratteristiche di uno Stato, b. le autorità civili degli insorti esercitino il potere di fatto sulla popolazione di una frazione determinata del territorio nazionale; c. le forze armate siano rispondano agli ordini di una autorità organizzata e siano pronte a conformarsi alle leggi e costumi di guerra; d. le autorità civili degli insorti accettino di essere obbligate dalle disposizioni delle Convenzioni” 22.

La medesima problematica emergeva, altresì, nel corso dei lavori della Commissione di Esperti convocata dal CICR nel 1962, incaricata di affrontare la questione della delimitazione del campo di applicazione dell’articolo 3 ancorandola a criteri il più oggettivi possibile 23, con l’intento di sottrarla all’arbitrio degli Stati. La Commissione ritenne che “l’esistenza di un conflitto armato non internazionale ai sensi dell’art. 3, non può essere negata se l’azione ostile diretta contro un governo legale, presenti un carattere collettivo e un minimo di organizzazione”. Alla luce di quanto innanzi, appare evidente che i criteri di classificazione proposti, si sostanzino nell’accertamento del grado di effettività raggiunto dal partito ribelle, canone che permette di comprendere se la lotta insorta nei confini di una struttura sovrana sia confinata nel suo dominio riservato o abbia assunto rilievo internazionale ai fini dell’art. 3 (cosa che accade se i ribelli esercitino stabilmente un effettivo potere di governo su parte del territorio e della sua popolazione). Nella prima ipotesi, è lecito opinare di fatti insurrezionali rientranti nella domestic jurisdiction nei confronti dei quali il governo è libero di esercitare la sua azione punitiva ma, stando alle interpretazioni evolutive dell’art. 3, pur sempre alla luce delle garanzie minime ivi previste. 4. I conflitti armati non internazionali ai sensi del II Protocollo aggiuntivo del 1977 relativo alla “Protezione delle vittime dei conflitti armati non internazionali” Il II Protocollo aggiuntivo alle Convenzioni di Ginevra, adottato l’8 giugno 1977, finalizzato ad estendere la tutela accordabile alle vittime dei conflitti armati non internazionali, pone, all’articolo 1, una definizione atta a superare le incertezze interpretative sorte in passato. Tale disposizione prevede che il Protocollo si applichi a tutti i conflitti armati non rientranti nell’articolo 1 del I Protocollo aggiuntivo “che si svolgono sul territorio di un’ Alta Parte contraente fra le sue forze armate e forze armate dissidenti o gruppi armati organizzati che, sotto la condotta di un comando responsabile, esercitano, su una parte del suo territorio, un controllo tale da permettere loro di condurre operazioni militari continue e concertate, di applicare il presente Protocollo ”24. Non si applica, invece, “alle situazioni di tensioni interne, di disordini interni come le sommosse, gli atti isolati e sporadici di violenza ed altri atti analoghi che non sono considerati conflitti armati”.

22 Il testo citato è tratto dal Commentario alle Convenzioni di Ginevra e ai Protocolli Aggiuntivi, reperibile in www.icrc.org. 23 V. i lavori della Commission d’Expertes sur “La question de l’aide aux victimes des conflits internes”, 1962 in www.icrc.org . Per una visione generale ma sintetica, v. R. ABI - SAAB, Droit Humanitaire et conflits internes, 1986. 24 Articolo 1 , par 1, II Protocollo aggiuntivo relativo alla protezione delle vittime dei conflitti armati non internazio nali. Traduzione in P. VERRI, Diritto per la pace e diritto nella guerra, 1980, Roma.

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Emerge con evidenza che i conflitti armati non internazionali ai sensi del II Protocollo mostrano una soglia delle ostilità particolarmente elevata, ovvero “una intensità tale da poter essere equiparati ad uno scontro tra due eserciti convenzionali”25. Conseguenza di una simile opzione è il restringimento delle situazioni tutelate, frutto di un compromesso maturato in sede di lavori preparatori, per cui una estensione della protezione sostanziale 26 si era rivelata possibile previo innalzamento della soglia di applicazione materiale dello strumento giuridico in esame. L’introduzione nella definizione di criteri limitanti risponde ad una simile logica, concorrendo all’applicabilità dei dettami del II Protocollo solo ai conflitti non internazionali di elevata intensità, la cui valutazione è scevra da ogni apporto soggettivo, bensì ancorata a puntuali parametri, la cui concretizzazione implica la non opinabile operatività delle disposizioni convenzionali. La caratterizzazione dei conflitti armati non internazionali attraverso l’enumerazione di una serie di parametri oggettivi è altresì funzionale , d’altra parte, all’intento di ridurre l’ambito di apprezzamento lasciato ai governi, in modo che, sulla scorta dell’esperienza relativa all’articolo 327, laddove si realizzino, le autorità non dispongano della facoltà di negare l’esistenza di una guerra e sottrarsi, per tale via, agli obblighi umanitari assunti pattiziamente. Si tratta, dunque, di conflitti in cui lo statuto giuridico delle parti è profondamente diverso: governo legittimo che agisce sulla base delle sua sovranità e insorti. 5. Le relazioni tra l’articolo 3 comune e il II Protocollo in rapporto al campo di applicazione materiale Il legame intercorrente tra l’articolo 3 e il II Protocollo Aggiuntivo è chiarito nello stesso articolo 1 di quest’ultimo, a norma del quale il secondo “sviluppa e completa l’articolo 3 comune alle Convenzioni di Ginevra del 12 agosto 1949 senza modificarne le condizioni attuali di applicazione…” Considerando che il II Protocollo prevede un avanzamento della sua soglia di applicazione materiale rispetto all’art. 3, stante l’adozione di criteri di definizione restrittivi, la simultanea vigenza di entrambe le disposizioni consente di tutelare le vittime dei conflitti interni secondo una scala crescente di intensità, senza che le situazioni meno caratterizzate rispetto a quelle previste dall’art. 1 del II Protocollo restino prive di considerazione. Dunque, l’articolo 3 comune ha un campo di applicazione sensibilmente esteso: nelle ipotesi in cui le condizioni per la messa in opera del II Protocollo si realizzino (conflitti interni di alta intensità), le disposizioni in esame si applicheranno simultaneamente; nel caso di conflitti di bassa intensità, non rispondenti ai canoni di cui all’art. 1 del II Protocollo, opererà unicamente l’art.3. Non bisogna tralasciare neppure che i principi contenuti in questa disposizione sono considerati diritto internazionale consuetudinario, per cui nel caso di conflitti interni sorti nell’ambito di uno Stato non parte né delle Convenzioni di Ginevra, né dei Protocolli, essi saranno ugualmente operativi. Quanto al campo di applicazione materiale , la maggiore ampiezza dell’articolo 3 è dimostrata altesì dal fatto che il II Protocollo Aggiuntivo opera solo quando si fronteggino governi destabilizzati e insorti, non anche quando il conflitto riguardi due o più fazioni (ipotesi compresa, invece, nella prima disposizione). Questo dualismo porta alla luce diversi livelli di applicazione del dir itto internazionale umanitario a seconda della gravità delle ostilità che coinvolgono uno Stato: essi vanno dal livello dei disturbi interni e delle tensioni cui le norme appena esaminate non sono formalmente applicabili a quello dei conflitti interni di forte intensità compresi nell’ambito del II Protocollo, senza tralasciare quelli di bassa intensità (art.3). La complessità del sistema delineato “presenta il vantaggio di fornire una garanzia contro ogni forma di regressione della protezione conferita già da lungo tempo mediante l’art. 3”28.

25 N RONZITTI, Diritto internazionale dei conflitti armati, 1998, Torino. 26 Il che avrebbe comportato una ulteriore compressione degli affari rientranti nel dominio riservato degli Stati: da qui la necessità di applicare il II Protocollo “ogni qualvolta l’autorità di uno Stato sia contestata da un gruppo di sudditi, ma soltanto nel caso vi sia un movimento ribelle dotato di un alto grado di effettività.” V. GRADO, op. cit.. 27 La cui applicabilità era stata più volte negata proprio non riconoscendo l’esistenza di un conflitto interno a causa della mancanza di una definizione oggettiva. 28 Cit. in Commentaires Protocole Additionnel aux Conventions de Genève du 12 août 1949 relatif à la protection des victimes des conflits armés non internationaux, 8 ju in 1977.

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Sezione II

Strumenti di tutela: i profili di una problematica evoluzione

1. Le forme di tutela preventiva: il D.I.U. 1. 1. Definizione ed evoluzione del diritto internazionale umanitario La contromisura sostanziale alle nefandezze connesse alla violenza bellica è fornita dal diritto internazionale umanitario (DIU) che, secondo la definizione adottata dal Comitato Internazionale della Croce Rossa (CICR) consta di quel “complesso di norme, di origine convenzionale o consuetudinaria, destinate specificatamente a porre un rimedio ai problemi umanitari sorti direttamente a causa dei conflitti, internazionali e non; norme che restringono, per ragioni umanitarie, il diritto delle parti in conflitto di utilizzare metodi e mezzi di guerra a loro scelta, o norme che proteggono le persone e i beni che possono essere colpiti dal conflitto”29. Esso, indi, costituisce una parte speciale del diritto internazionale, volta “a costituire una dimensione giuridica della guerra”, introducendo al suo interno il diritto, che, malgrado possa apparire “un elemento antitetico all’idea stessa di violenza bellica”30, risponde al fine di limitarne l’impatto sugli individui”. Assume, per tale via, la fisionomia di un corpus normativo volto alla salvaguardia delle vittime di guerra, intendendosi per tali sia coloro che non prendono parte alle ostilità (popolazioni disarmate), sia coloro che non vi prendono più parte (militari che hanno deposto le armi per ferite, prigionia, ecc.), che accetta pragmaticamente la guerra senza prendere posizione sulla questione della sua legalità: non si occupa delle sue cause o delle origini né stabilisce quali delle parti belligeranti abbia ragione o torto, ma riguarda solo il metodo con cui essa viene combattuta. Il modus procedendi adoperato è quello di imporre una serie di limiti, gradualmente ampliati, alla violenza bellica operando su due distinti piani: compressione della facoltà di scelta dei mezzi e metodi di guerra, predisposizione di una serie di norme a tutela di quanti sono suscettibili di esse lesi dal conflitto (le c.d. persone protette). La feconda produzione di disposizioni convenzionali, che ha dato seguito tangibile a tali obiettivi, non deve far trascurare che l’essenza del diritto internazionale umanitario si rinviene in un ristretto nucleo di principi fondamentali che la Corte Internazionale di Giustizia ha definito “principi generali del diritto umanitario”31che, in quanto tali, costituiscono il minimum inderogabile di tutela che il diritto riconosce alle vittime dei conflitti armati.

Secondo Hans-Peter Gasser, consigliere giuridico presso il CICR, sono riconducibili ai seguenti: 1. “Le persone che non partecipano, o non partecipano più alle ostilità, devono essere rispettate,

protette e trattate con umanità. Esse devono ricevere le cure necessarie, senza alcuna discriminazione”.

2. “I combattenti catturati e le altre persone private della libertà devono essere trattate con umanità. Esse devono essere protette da tutti gli atti di violenza, in particolare contro la tortura. Se vengono avviati dei procedimenti giudiziari nei loro confronti, devono beneficiare delle garanzie fondamentali di una procedura regolare”.

3. “Le parti di un conflitto armato non hanno un diritto illimitato di scelta di mezzi e metodi di guerra. E’ vietato infliggere sofferenze inutili”.

4. “Al fine di risparmiare la popolazione civile, le forze armate devono in ogni circostanza operare una distinzione tra la popolazione e i beni civili da una parte; gli obiettivi militari dall’altra. Né la popolazione civile in quanto tale, né dei civili o dei beni civili possono essere l’oggetto di attacchi militari” 32.

Se è vero che i principi generali riguardano ogni tipo di conflitto, è altrettanto innegabile che due diversi sistemi di norme regolano da una parte i conflitti aventi carattere internazionale e dall’altra i conflitti che ne sono privi: quelli ascrivibili al primo tipo sono disciplinati, dal punto di vista della tutela delle vittime, dalle quattro Convenzioni di Ginevra del 1949 e dal I Protocollo aggiuntivo del

29 R. MAESTRI, Appunti di Diritto Internazionale Umanitario, 1994. 30 E. GREPPI, Diritto Internazionale Umanitario dei conflitti armati e diritti umani: profili di una convergenza, in LCI 1996, pag. 473,474. 31 Nel caso “operazioni militari e paramilitari in e contro il Nicaragua”. 32 H.P. GASSER, Il diritto internazionale umanitario e la protezione delle vittime della guerra, documento CICR in www.cri.it.

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197733; quelli non internazionali, invece, trovano la loro disciplina umanitaria nell’art. 334 comune alle Convenzioni ginevrine e nel II Protocollo aggiuntivo. L’estensione dei principi umanitari alle guerre civili dà origine, sebbene le condizioni per l’operatività di essi si realizzino in un numero elevato di rivolgimenti interni, ad una serie di difficoltà generate dalla riluttanza dei governi legittimi a riconoscere che l’insurrezione in atto all’interno del loro territorio abbia assunto le proporzioni di un conflitto armato. Il carattere spesso composito di essi contribuisce ad avvalorare questo indirizzo. La ragione di un simile atteggiamento è dovuta alla constatazione che è certamente più vantaggioso dichiarare la natura sui generis (qualificando gli scontri come operazioni di polizia) del conflitto interno al fine di “conservare le mani libere nella repressione della rivolta attraverso i mezzi ritenuti più appropriati”35. La storia recente offre numerosi esempi di rifiuto dei governi ad ammettere l’operatività dell’art. 3: si pensi al caso del Nicaragua36, El Salvador e Afghanistan. Malgrado ciò è proprio in simili evenienze che il valore persuasivo di uno strumento giuridico largamente accreditato dalla comunità internazionale, come lo sono le Convenzioni di Ginevra e il II Protocollo, esplica tutta la sua forza intrinseca al fine di rendere più efficace la protezione delle vittime di una guerra civile. Infatti, sebbene tale problema ponga una delicata questione di bilanciamento tra sovranità statale e principi umanitari37, semplici considerazioni utilitaristiche potrebbero esortare uno Stato a uniformarsi ad uno strumento che ha formalmente accettato nei confronti della comunità internazionale e che potrebbe assoggettare condotte non consone a censure non certo prive di ripercussioni. 1.2. Attuazione e obblighi degli Stati in caso di conflitto armato interno Uno dei nodi più problematici sollevati dal DIU concerne la sua attuazione, atteso che la comunità internazionale non dispone di un sistema accentrato di garanzia che la possa assicurare. E’ dunque necessario confidare nella collaborazione degli Stati e delle Organizzazioni Internazionali governative (ONU) e non (CICR). Le difficoltà si acuiscono nel caso di conflitti interni poiché i procedimenti di messa in opera previsti, intendendosi per tali sia le procedure di controllo e di repressione delle eventuali violazioni, si riferiscono quasi esclusivamente ai conflitti armati internazionali38. In linea generale, la mise en œuvre del complesso normativo in esame, essendo costituito da norme consuetudinarie e pattizie, poggia sul rispetto da parte degli Stati dei due principi fondamentali a presidio del diritto internazionale nel suo complesso: pacta sunt servanda e consuetudo est servanda. Di conseguenza, essi sono tenuti ad adottare tutte quelle misure preventive, di controllo e repressive che si rendano necessarie in conformità degli obblighi derivanti dalle norme umanitarie. Tra i provvedimenti preventivi più efficaci, adottabili da ciascuno Stato al fine di una effettiva attuazione del diritto internazionale umanitario, oltre alle disposizioni legislative di inglobamento della legislazione umanitaria nel diritto interno, si inquadra la divulgazione ad ampio raggio di tali norme. Ciò, del resto, è oggetto di un obbligo preciso, palesato non solo nelle Convenzioni di Ginevra e dal I Protocollo Aggiuntivo, ma anche dal II Protocollo39. A tal fine è indispensabili che esse siano rese intelligibili sia per chi sarà chiamato ad attuarle , attraverso una adeguata opera di formazione delle forze armate, che possa avvalersi di consoni

33 In aderenza a quanto disposto dal I Protocollo, le guerre di liberazione nazionale devono essere trattate come conflitti internazionali. 34 Articolo, questo, che ha il pregio di vincolare non solo i governi ma anche gli insorti, senza tuttavia conferire loro uno statuto speciale. 35 R. ABI-SAAB, Droit humanitaire et conflites internes, 1986, Pedone. 36 Nonostante abbia consentito l’intervento del Comitato internazionale della Croce rossa, il governo del Nicaragua non ha riconosciuto l’esistenza di un conflitto interno ai sensi dell’art. 3 delle convenzioni di Ginevra del 1949. Nel caso del Salvador,l’applicazione del diritto umanitario è stata riconosciuta, sia pure implicitamente, dalle parti in conflitto su sollecitazione dell’Assemblea generale delle N.U., le quali hanno creato una missione per verificare la situazione dei diritti dell’uomo in Salvador (1991, ONUSAL). 37 L’espansione dei principi umanitari ha come effetto “collaterale” la compressione della potestà punitiva dello Stato che è una delle espressioni della Sovranit à. Il rispetto delle norme umanitarie, infatti, non consente allo Stato di avvalersi di tutti quegli strumenti repressivi incompatibili con gli obblighi assunti. 38 Per tali conflitti, le convenzioni di Ginevra prevedono, tra l’altro, il meccanismo delle Potenze Protettici (Protecting Power): trattasi di uno Stato neutrale che, previo consenso delle parti in conflitto e dello Stato stesso, assume il compito di controllare l’applicazione del diritto umanitario. Ancora si possono citare le procedure di inchiesta, le cui modalità vanno concordate tra le parti interessate, allo scopo di accertare pretese violazioni delle Convenzioni (Art. 52 I Conv.). 39 Art. 47 I Convenzione, art. 48 II Convenzione, art. 127 III Convenzione, art 144 IV Convenzione, art. 83 , Diffusione, art. 87, Doveri dei comandanti, I Protocollo aggiuntivo, art. 19, Diffusione, II Protocollo aggiuntivo. Quest’ultima norma dispone, molto semplicemente che “Il presente Protocollo sarà diffuso il più largamente possibile”.

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programmi di istruzione militare40, sia per la popolazione civile: nessuna efficacia potrebbe essere assennatamente riconosciuta al DIU se chi è tenuto a rispettarlo non lo conoscesse e chi subisce delle violazioni a diritti da esso preservati non fosse conscio di aver subito un illecito. Assume, per tale via, la fisionomia di strumento di tutela preventiva, sia pur sussidiario, in grado di limitare l’ impatto della violenza bellica laddove il divieto dell’uso della forza nelle relazioni internazionali sia leso. A livello di legislazione interna, fondamentale è la regolamentazione penale. In realtà, il sistema di Ginevra pone l’obbligo esplicito di adottare misure legislative atte a sanzionare penalmente 41, secondo i criteri di giurisdizione universale, chi si fosse macchiato di “infrazioni gravi” 42 solo con riferimento ai conflitti internazionali: una analoga normativa non è rinvenibile, né d’altra parte, si fa cenno ad infrazioni gravi nell’art. 3 delle Convenzioni di Ginevra o nel II Protocollo. Ciò nondimeno, sia l’art. 3 che l’art. 4 II Protocollo 43 vietano anch’essi una serie di condotte non dissimili da quelle costituenti “grave infrazione” delle Convenzioni: la dottrina maggioritaria, tuttavia, seguita a sostenere che, non essendo possibile ragionare di infrazioni gravi nei conflitti interni, non sarebbe configurabile un obbligo di repressione in capo agli Stati, ma, al più, una semplice facoltà. Questo, d’altra parte, non li esonera dall’occuparsi della inibizione penale della violazione di tali norme poiché, come osserva Benvenuti, “Le disposizioni degli artt. 50, 51, 130, 147 comuni alle Convenzioni di Ginevra affermano anche che ogni Parte contraente prenderà i provvedimenti necessari per far cessare gli atti contrari alle disposizioni delle stesse, che non siano infrazioni gravi: tali altre infrazioni sono, oltre alle infrazioni non gravi dei conflitti internazionali, anche quelle che si realizzano nei conflitti interni”44. Adottando una simile interpretazione, le citate misure potranno ben constare di provvedimenti aventi natura penale , in considerazione della gravità dei reati di cui si tratta. Tra l’altro, essa è coerente con le tendenze evolutive che si muovono nella direzione di una progressiva attenuazione della distinzione tra conflitti internazionali ed interni, soprattutto in rapporto alla tutela delle vittime. 1. 3. Il diritto internazionale umanitario dei conflitti armati non internazionali. L’art. 3 comune alle Convenzioni di Ginevra del 1949 L’art. 3, ha un duplice merito: da un lato conferisce rilevanza internazionale alle problematiche connesse alla salvaguardia delle vittime delle guerre civili, dall’altro concretizza forme di tutela tangibili, attraverso una serie di disposizioni che costituiscono il nucleo minimo umanitario cui le parti (intendendosi per tali sia il governo legittimo che gli insorti) hanno l’obbligo di attenersi. Le predette garanzie si estrinsecano essenzialmente nel divieto di attentati contro la vita e l’integrità corporale, di cattura di ostaggi, di oltraggi alla dignità personale (tra cui si collocano i trattamenti disumani e degradanti) nonché di condanne ed esecuzioni irrogate senza previo giudizio di un tribunale regolarmente costituito. Oltre ad avere indiscutibile valore morale, dal punto di vista giuridico la disposizione de qua rappresenta un significativo avanzamento rispetto alla situazione preesistente, poiché trattasi della

40 Tra gli strumenti funzionali a questi scopi vi sono i manuali militari “consistenti in pubblicazioni del ministero della difesa contenenti regole per i membri delle forze armate. Di regola essi non sono fonte di diritto, neppure a livello interno, ma traducono a livello nazionale il linguaggio di convenzioni internazionali di difficile interpretazione”, inoltre “interpretano il diritto bellico alla luce delle riserve apposte dallo Stato o delle dichiarazioni interpretative al momento della firma o della ratifica”. Cit. N. RONZITTI, Diritto internazionale dei conflitti armati. 41 V art. 49 I convenzione di Ginevra, a norma del quale “ Le Alte Parti contraenti si impegnano a prendere ogni misura legislativa necessaria per stabilire sanzioni penali adeguate da applicarsi alle persone che abbiano commesso o dato ordine di commettere, una delle infrazioni gravi alla presente convenzione precisate nell’articolo seguente. Ogni Parte contraente avrà l’obbligo di ricercare le persone imputate di aver commesso, o di aver dato l’ordine di commettere, una di dette infrazioni gravi e dovrà, qualunque sia la loro nazionalità deferirle ai propri tribunali. Essa potrà pure, se preferisce secondo le norme previste dalla propria legislazione, consegnarle, per essere giudicate, ad un'altra Parte contraente interessata al procedimento, purchè questa Parte possa far valere contro dette persone prove sufficienti”. Trattasi di un articolo comune che ha riscontro negli art. 50,129, 146 rispettivamente della II, III e IV Convenzione. 42 Le infrazioni gravi sono indicate negli artt. 50, 51, 130, 147 comuni alle quattro Convenzioni di Ginevra, nonché negli artt. 11 e 85 del I Protocollo. A titolo esemplificativo si possono menzionare la tortura e i trattamenti inumani, il fatto di provocare intenzionalmente gravi sofferenze ecc… 43 L’art. 3, ad esempio vieta, in caso di conflitto armato che non presenti carattere internazionale, i trattamenti crudeli, la tortura, i trattamenti degradanti ecc. L’art. 4 II Protocollo relativo alle Garanzie Fondamentali vieta anch’esso “l’omicidio…,così come i trattamenti crudeli quali la tortura i trattamenti umilianti e degradanti…” 44 P. BENVENUTI, Il ritardo della legislazione italiana nell’adeguamento al diritto internazionale umanitario, con particolare riferimento alla disciplina dei conflitti armati non internazionali, in Crimini di guerra e giurisdizioni nazionali.

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prima norma internazionale che affronta la questione inerente alla tutela delle vittime di un conflitto armato interno: essa mira ad assicurare un trattamento umano “senza alcuna distinzione di carattere sfavorevole basata sulla razza, il colore, la religione o il credo, il sesso, la nascita o il censo o altro criterio analogo” nel caso in cui esso divampi nel territorio di una delle Parti contraenti. Stante la difficoltà obiettiva di individuare tutte le azioni tali da integrare il “trattamento umano”, la disposizione enumera una serie di atti incompatibili con una simile esigenza ed, in quanto tali, assolutamente interdetti in “ogni tempo e luogo”, senza possibilità alcuna di fare appello a circostanze che possano in qualsiasi modo giustificarne il compimento.

Più in dettaglio, la norma prevede che siano assolutamente interedette, nei confronti delle “persone che non partecipano più alle ostilità, compresi i membri delle forze armate che abbiano deposto le armi e le persone messe fuori combattimento da malattia, ferita, detenzione o qualsiasi altra causa…”:

a. Le violenze contro la vita e l’integrità corporale, specialmente l’assassinio in tutte le sue forme, le mutilazioni, i trattamenti crudeli, le torture e i supplizi;

b. La cattura di ostaggi; c. Gli oltraggi alla dignità personale, specialmente i trattamenti umilianti e degradanti; d. Le condanne pronunciate e le esecuzioni compiute senza previo giudizio di un tribunale

regolarmente costituito, che offra le garanzie giudiziarie riconosciute indispensabili dai popoli civili”.

La casistica sub a) e c) inibisce la commissione di atti particolarmente esecrabili, che, tuttavia, non godono di caratterizzazione particolarmente accurata : si tratta di una scelta condivisibile laddove si rifletta che una maggiore meticolosità nella loro enumerazione avrebbe avuto ripercussioni sfavorevoli in ordine alla eventualità di estendere il minimo umanitario garantito ad ipotesi non previste o prevedibili all’epoca della stesura della norma, posto che “più un elenco vuole essere preciso e completo, più assume un carattere limitato.”45 E’ stato così possibile ritenere vietati, ai sensi delle disposizioni in esame, le violenze sessuali praticate per motivi etnici e gli esperimenti biologici. Le ipotesi sub b) e d) interdicono pratiche diffuse nel corso di conflitti, accomunate dalla circostanza che tendono a punire di un crimine che si pretende di prevenire o reprimere, persone innocenti o delle quali non sia stata accertata regolarmente la responsabilità. In particolare, il divieto di condanne senza un regolare processo assistito dalle indispensabili garanzie giudiziarie, lascia inalterata la potestà statuale di perseguire e condannare, purché ciò avvenga in conformità alla legge e con le garanzie atte a ridurre al minimo la possibilità di errori giudiziari. Il 1° comma del par. 2, art. 3, che integra e completa il par. 1, è specificatamente dedicato alla tutela dei feriti e dei malati: esso stabilisce sinteticamente che “saranno raccolti e curati”. Si tratta di un imperativo atto a tutelare anche i ribelli, senza alcuna discriminante, che, ancora una volta, resiste ad ogni restrizione. Il medesimo paragrafo, oltre a porre le basi legali per l’azione della Croce Rossa nel corso di conflitti interni, si segnala altresì per la previsione, espressamente codificata, di accordi speciali da stipularsi tra le Parti46 in conflitto, che, nell’ottica di una più efficace protezione delle vittime, mettano in vigore integralmente o parzialmente le disposizioni delle Convenzioni di Ginevra. Trattasi di una scelta particolarmente felice poiché consente di estendere la tutela che l’articolo 3 garantisce in misura minima, senza far ricorso a lunghi negoziati tra le parti ma, più semplicemente, riferendosi alle convenzioni stesse. L’operatività di tale comma potrebbe essere inficiata dal timore che il governo legale, tramite tali accordi, possa compiere un atto valutabile , sia pure involontariamente, alla stregua di un riconoscimento implicito ai ribelli: ad evitare una simile evenienza, l’ultimo comma dell’art. 3 prevede che “l’applicazione delle disposizioni che precedono (dunque dell’intero articolo 3) non avrà effetto sullo statuto giuridico delle Parti in conflitto”: il mero fatto di applicare la norma in esame, non costituisce di per sé riconoscimento di qualsiasi potere alla parte avversa e non limita in nessuna maniera il diritto del governo legale di reprimere una ribellione con tutti i mezzi consentiti dalle leggi interne, compreso l’uso delle armi; non lede il diritto di giudicare, condannare gli avversari conformemente alla sua legge, per i loro crimini. Simmetricamente, beneficiare di un’estensione della

45 Commentaires Article 3, in www.icrc.org. 46 La norma si esprime in termini di “Parti”: ciò implica che essa vincola anche gli insorti, per “il solo fatto che la Parte stessa esista e che un conflitto armato la opponga all’altra”, anche se tecnicamente non possono essere considerati firmatari.

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protezione minima non conferisce alla parte avversa alcun diritto a fruire di una copertura speciale o alcuna immunità. L’art. 3, come tutte le convenzioni del resto, riguarda l’ individuo e il trattamento fisico dovuto in quanto essere umano, senza riguardo alle ulteriori peculiarità che possiede e senza effetto sul trattamento giuridico-politico che può valergli la sua condotta. In ultimo giova ricordare che la disposizione esaminata, pur essendo inserita in delle convenzioni internazionali, è considerata norma consuetudinaria con l’avallo della Corte Internazionale di Giustizia, secondo la quale i principi umanitari contenuti nell’art. 3 sono parte del diritto internazionale consuetudinario come si evince dal fatto che “ article 3 common to all four Geneva Convention of 12 August 1949 defines certain rules to be applied in the armed conflicts of non- international character. There is no doubt that, in the event of international armed conflicts, these rules also constitute a minimum yardstick, in addition to the more elaborate rules which are also apply to international conflicts, and they are rules which, in the Court’s opinion, reflect what the Court in 1949 called elementary consideration of humanity”47. Ne consegue che troverà applicazione anche nell’ipotesi in cui un conflitto interno divampi nel territorio di uno Stato non vincolato dalle quattro Convenzioni di Ginevra, in omaggio al principio consuetudo est servanda. 1.4. Il II Protocollo Aggiuntivo relativo alla “Protezione delle vittime dei conflitti armati non internazionali” Il processo di emersione di un conflitto interno sul piano internazionale, lungi dall’arrestarsi, ha segnato un ulteriore traguardo, posto che nel rivoluzionario solco tracciato dall’art. 3 si pone altresì il II Protocollo aggiuntivo del 197748 alle Convenzioni ginevrine, intitolato integralmente alla quaestio de qua, venuto alla luce a seguito degli sforzi profusi dal CICR, al termine della Conferenza Diplomatica per la riaffermazione e lo sviluppo del diritto internazionale umanitario applicabile ai conflitti armati49. La protezione da esso prevista è rivolta, a norma dell’art. 2, “a tutte le persone colpite da un conflitto armato” ai sensi del già citato articolo 1: possono intendersi tali sia coloro che non prendono parte alle ostilità o hanno cessato di prendervi parte, sia coloro che sono tenuti a conformarsi alle regole di comportamento sancite nel testo nei confronti dell’avversario e della popolazione civile. In entrambi i casi riguardano tutti coloro che risiedono nel Paese in cui divampi il conflitto, prescindendo dalla loro nazionalità o dalla porzione di territorio coinvolta nelle ostilità. Quanto al campo di applicazione temporale, entrerà in vigore non appena si realizzino le condizioni previste nell’art. 1, fino a che proseguano i combattimenti attivi, al termine dei quali, tuttavia, continueranno ad applicarsi le disposizioni a tutela delle persone in condizione di privazione o restrizione della libertà ( si tratta dell’art. 5 e dell’art. 6) per una causa connessa al conflitto, fino a che tale situazione perduri. Il trattamento umano da riservare a tutti coloro che “non partecipano direttamente o non partecipano più alle ostilità, siano esse private o non della libertà” (art. 4) è sancito agli articoli 4, 5 e 6 che costituiscono il II titolo, diretto ad evitare gli abusi di potere e i trattamenti inumani, di cui potrebbero essere vittima a causa dell’operato delle autorità civili o militari: si tratta di regole basilari, che si applicano indistintamente e che completano la protezione già prevista dall’art. 3 comune, del quale condividono l’ispirazione filantropica. Più in particolare, l’art. 4, dapprima sancisce il diritto al rispetto della persona, da intendersi come comprensivo dei diritti della personalità “cioè di quelli che sono indissolubilmente legati alla persona umana”50, dell’onore, delle convinzioni e pratiche religiose; successivamente elenca una serie non esaustiva di atti assolutamente proibiti, i quali, anche se il testo non ne fa menzione, non possono essere attuati neppure per rappresaglia, come del resto accade per l’art. 3, in cui, parimenti, tale riferimento manca: ciononostante, qualsiasi comportamento che integri una delle fattispecie assolutamente interdette, qualunque sia la ragione che né è alla base, resta da intendersi vietato.

47 La sentenza da cui è tratto il testo è quella relativa al caso “attività militari e paramilitari in e contro il Nicaragua” del 1986. T. MEERON, Human rights in internal strife: their international protection, 1987. 48 Si tratta del II Protocollo aggiuntivo alle convenzioni di Ginevra del 1949, relativo alla “Protezione delle vittime dei conflitti armati non internazionali”. 49 I lavori della Conferenza si sono protratti dal 1974 al 1977: al termine sono venuti alla luce il I Protocollo aggiuntivo teso ad estendere la protezione internazionale anche alle vittime di conflitti legati ai processi di autodeterminazione dei popoli e il II Protocollo, in esame, relativo alle vittime dei conflitti armati interni. 50 Commentario, articolo 4, in www.icrc.org.

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Quanto agli atti proibiti, trattasi: a) Delle “violenze contro la vita, la salute, il benessere fisico o psichico delle persone, in

particolare l’omicidio, così come i trattamenti crudeli come la tortura, le mutilazioni o ogni genere di pena corporale”.

La portata dell’interdizione è sensibilmente ampliata rispetto a quella prevista dall’articolo 3 comune, che si limita a menzionare le violenze contro la vita e l’integrità corporale; inoltre il riferimento a determinati atti deve intendersi quale mera esemplificazione, come si evince dall’uso dell’espressione “in particolare”.

b) Delle “pene collettive”. L’espressione va intesa nella sua accezione più ampia, sì da inglobare non solo le sanzioni giudizia rie, ma anche quelle di diversa tipologia come la confisca di beni di intere famiglie.

c) Della “cattura di ostaggi”. E’ una interdizione già presente nell’art. 3 comune, in relazione alla quale è opportuno chiarire che gli ostaggi sono coloro i quali si trovano in potere di una delle parti in conflitto o di individui che agiscano per conto di essa, i quali risponderanno della loro integrità.

d) Degli “atti di terrorismo”. La previsione generica è funzionale allo scopo di proibire accanto agli atti diretti contro le persone, anche quelli contro istallazioni di ogni genere che potrebbero provocare, seppur accidentalmente, delle vittime.

e) Degli “oltraggi alla dignità della persona, specialmente i trattamenti umilianti e degradanti, lo stupro, la prostituzione forzata e qualsiasi offesa al pudore.”

La norma riafferma quanto previsto dall’art. 3 comune, par. 1, lett. c, ma, al contempo, ne allarga la portata facendo espressa menzione di comportamenti attinenti alla sfera sessuale: ciò consente di punire atti particolarmente odiosi, tra cui lo stupro etnico, frequenti nei conflitti non internazionali odierni.

f) Della “schiavitù e la tratta degli schiavi sotto qualsiasi forma”. Si tratta di una disposizione che vieta anche le forme meno evidenti tra cui la compravendita della moglie, la schiavitù per debiti o il lavoro dei bambini51.

g) Del “saccheggio”. La norma impedisce sia quello commesso da singoli individui, sia quello organizzato: a tal proposito, non è possibile ordinarlo né, tanto meno, autorizzarlo. Riguarda, inoltre ogni categoria di beni, pubblici o privati.

h) Della “minaccia di commettere gli atti suddetti”. La disposizione consente di rafforzare notevolmente la portata delle interdizioni sin qui esaminate, vietando non solo comportamenti attivi, ma anche la semplice minaccia degli stessi. In ultimo, non va taciuto che l’art. 4, par. 1, inibisce di ordinare che “non vi siano sopravvissuti”: trattasi di una norma fondamentale poiché, oltre a proteggere i combattenti, condiziona l’applicabilità di tutte le restanti disposizioni del Protocollo: è evidente che le garanzie ivi previste non avrebbero alcun senso laddove la lotta fosse condotta in ossequio a ordini di sterminio. Altre garanzie supplementari sono riservate, dall’art. 5, alle persone private della libertà “per motivi connessi con il conflitto armato, siano esse internate o detenute”52: si tratta di norme volte ad assicurare decorose condizioni di detenzione, che si sommano alle garanzie fondamentali previste dall’art. 4, in considerazione della peculiarità della situazione in cui versano. A compimento del Titolo II, relativo al trattamento umano nei conflitti armati non internazionali, l’art. 6 prevede una serie di garanzie giudiziarie nell’evenienza di “azione penale o condanne per reati connessi con il conflitto” che, pur se non intaccano il diritto delle autorità di procedere a giudicare e condannare i responsabili di reati legati alle ostilità, evitano il ricorso alla giustizia sommaria. Più in dettaglio, il par. 2 prevede che “ Nessuna condanna sarà pronunciata e nessuna pena sarà eseguita nei confronti di una persona riconosciuta colpevole di un reato, se non in virtù di una sentenza pronunciata da un tribunale che offra garanzie di indipendenza e imparzialità…” segue una lista esemplificativa di garanzie universalmente riconosciute 53.

51 Per una migliore comprensione delle varie forme di schiavitù interdette, occorre far riferimento alla convenzione del 1956 sul tema che rafforza e integra la precedente convenzione del 1926. 52 Dunque, perché le disposizioni in esame si applichino, è necessario un legame tra il conflitto e la privazione della libertà, per cui i detenuti di diritto comune non possono avvalersi di tale disposizione. V. Commentary…op.cit.in www.icrc.org. 53 Art. 6, par 2: “Nessuna condanna sarà pronunciata…..In particolare:

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La norma sviluppa e completa l’art. 3 comune, par. 1, lett. d), tuttavia essa non fa riferimento ad un “tribunale regolarmente costituito”: la differenza terminologica è dovuta alla circostanza che, se il giudizio fosse incardinato davanti ad un tribunale degli insorti, sarebbe difficile ritenerlo “regolarmente costituito” ai sensi della legge nazionale. Resta ferma la necessità che l’organo giudicante offra garanzia di imparzia lità e indipendenza. Anche nel II Protocollo, similmente che nelle Convenzioni di Ginevra, una particolare tutela è prescritta a favore dei feriti malati e naufraghi, come testimonia il Titolo III: essi, sia che abbiano preso parte alle ostilità, sia che vi fossero estranei, hanno il diritto ad essere raccolti e protetti ed essere trattati con umanità dalla parte che li ha in suo potere, qualunque essa sia. Hanno, altresì, il diritto ad essere curati senza “alcuna distinzione fondata su criteri diversi da quelli sanitari” (art. 7, par. 2) e in tempi brevi in relazione alle circostanze. Quanto alla popolazione civile, il IV titolo permette di proteggerla ampiamente dagli effetti del conflitto accogliendo il principio di immunità delle persone che non partecipano direttamente alle ostilità, considerato consuetudinario. Essa, infatti, è tutelata attraverso il divieto di attacchi e di minacce di violenza “il cui scopo principale sia diffondere il terrore” (art. 13) nonché dal divieto di “usare come metodo di guerra, far soffrire la fame alle persone civili” 54. Le previsioni a tutela dei civili sono integrate, inoltre, dal divieto di attaccare, anche nel caso in cui costituiscano obiettivi militari, istallazioni “che racchiudono forze pericolose, cioè dighe di protezione o ritenuta e le centrali nucleari per la produzione di energia elettrica, se tali attacchi possono provocare la liberazione di dette forze e causare, di conseguenza, gravi perdite alla popolazione civile” (art. 15). E’ inoltre interdetto il trasferimento forzato, salvo nel caso in cui sia necessario per ragioni di sicurezza o “militari imperiose”: in tal caso, tuttavia, la parte che lo dispone incorre nell’obbligo di predisporre le misure possibili per garantire “condizioni soddisfacenti di alloggio, di salubrità, d’igiene, di sicurezza e di alimentazione” (art 17). A conclusione del titolo IV, è prevista la possibilità di azioni di soccorso ad opera di organizzazioni quali le organizzazioni della Croce Rossa o della stessa popolazione civile che potrà, spontaneamente, adoperarsi per raccogliere e curare i feriti, malati e naufraghi. (art. 18, par. 1).55 Dunque, appare evidente che il II Protocollo, estendendo notevolmente la portata dell’articolo 3 comune, si inserisce nel percorso atto a riconoscere pari dignità alle vittime di un conflitto armato interno rispetto a quelle di conflitti interstatali: non va taciuto, infatti, che gran parte delle disposizioni esaminate trovano un precedente nelle norme contenute nelle Convenzioni di Ginevra dedicate alla protezione delle vittime dei conflitti internazionali.

a) Le norme di procedura disporranno che l’imputato deve essere informato senza indugio dei particolari del reato a lui addebitato, e

gli assicureranno, prima e durante il processo, tutti i diritti e i mezzi necessari alla sua difesa. b) Nessuno potrà essere condannato per un reato se non in base ad una responsabilità penale individuale. (principio della

responsabilità penale individuale c) Nessuno potrà essere condannato per azioni o omissioni che, secondo la legge, non costituivano reato al momento della loro

commissione. Non potrà, del pari, essere irrogata alcuna pena più grave di quella che era applicabile al momento della commissione del reato. Se, dopo la commissione del reato, la legge prevede l’applicazione di una pena più lieve, il reo dovrà beneficiarne. (si tratta del principio Nullum crimen sine lege, nulla poena sine lege, ossia del principio di irretroattività della legge penale).

d) Ogni persona accusata di un reato si presumerà innocente fino a che la sua colpevolezza non sia stata legalmente stabilita.(principio della presunzione di inoocenza)

e) Ogni persona accusata di un reato avrà il diritto ad essere giudicata in sua presenza f) Nessuno potrà essere costretto a testimoniare contro se stesso o a confessarsi colpevole.

Par. 3: “Ogni persona condannata sarà informata, al momento della condanna, del suo diritto a ricorrere per via giudiziaria o altra via, nonché dei termini per esercitare il diritto”. Par. 4 : “ La pena di morte non sarà irrogata contro le persone che al momento del reato avevamo meno di 18 anni, e non sarà eseguita nei confronti delle donne incinte e di madri di fanciulli in tenera età.”: dunque le autorità saranno libere di comminarla in base alle leggi interne, tranne che nei casi visti. Par. 5: “ Al termine delle ostilità, le autorità al potere procureranno di concedere la più òarga amnistia possibile alle persone che avessero preso parte al conflitto armato o che fossero private della libertà per motivi connessi al conflitto, siano esse internate o detenute.” 54 art. 14. Esso prosegue stabilendo che “di conseguenza è vietato attaccare, distruggere, asportare o mettere fuori uso, con tale scopo, beni indispensabili alla sopravvivenza della popolazione civile, quali le derrate alimentari e le zone agricole che producono i raccolti, il bestiame, le istallazioni e le riserve di acqua potabile, e le opere di irrigazione”. 55 Il par 2 dispone che “quando la popolazione civile soffre di privazioni eccessive per mancanza di approvvigionamenti essenziali alla sua sopravvivenza, come i viveri e i rifornimenti sanitari, saranno intraprese, con il consenso dell’Alta Parte contraente, azioni di soccorso in favore della popolazione civile, di carattere esclusivamente umanitario e imparziale e svolte senza nessuna distinzione di carattere sfavorevole”. La norma da fondamento giuridico all’azione di organizzazioni filantropiche come la Croce Rossa.

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2. La tutela in itinere 2.1. Le carenze del D.I.U. e l’internazionalizzazione del conflitto interno La comunità internazionale, ha dunque optato per la predisposizione di strumenti convenzionali largamente condivisi, il cui fondamento volontaristico consente di garantire, almeno in via di principio, l’osservanza dei precetti codificati, atteso che la salvaguardia delle vittime dei conflitti interni implica la compressione del dominio riservato, tradizionalmente inglobante il trattamento dei sudditi. Ciò nondimeno, i recenti sviluppi delle crisi in Jugoslavia, Ruanda e Somalia hanno mostrato i limiti intrinseci di siffatte misure: le massicce violazioni dei diritti umani fondamentali, perpetrate nel corso di essi, rendono inevitabile interrogarsi sulle ragioni per cui il corpus normativo elaborato a Ginevra “troppo spesso non abbia indirizzato correttamente gli uomini e i loro governanti, ma al più abbia costituito, a posteriori, un mero parametro di valutazione della grave illiceità della loro condotta” (P. Benvenuti) Le tendenze evolutive della materia conducono, d’altra parte, all’emersione di ulteriori strumenti atti a garantire maggiore effettività alle operazioni di contenimento delle emergenze umanitarie , che non sono esclusiva prerogativa degli strumenti offerti dal diritto internazionale umanitario ma altresì dell’attività svolta da organismi internazionali (ONU e Organizzazioni Regionali), dal C.I.C.R. e, particolarmente, dai Tribunali Internazionali ad hoc, volti a punire i responsabili delle gravi violazioni del diritto umanitario vigente in contesti bellici a carattere locale. Le osservazioni che precedono hanno fornito un rinvigorito impulso verso un nuovo passo in direzione dell’allineamento delle forme di tutela dirette alle vittime di qualsivoglia conflitto. In altri termini, le cruente violazioni dei precetti umanitari perpetrate in dispregio della normativa internazionale consuetudinaria e non, hanno palesato la necessità di interpretare estensivamente il concetto di sicurezza internazionale , ponendosi quale fattore di internazionalizzazione del conflitto interno, sì da rendere lecita una reazione dell’intera comunità internazionale. Di qui la ineluttabile ulteriore erosione del concetto di sovranità, ritenuto insufficiente a porre un governo che resti inerme o addirittura consenta tali crimini al di fuori di ogni censura e, correlativamente, la necessità di individuare puntualmente i soggetti legittimati ad intervenire all’interno di uno Stato in cui si realizzino, nel contesto di una guerra civile, massicce violazioni dei fondamentali precetti umanitari. In diversi termini, la nozione di sovranità, come tradizionalmente intesa, non è più baluardo legittimante pratiche inumane al solo scopo di controllare i conflitti interni, né può dispensare lo Stato da responsabilità internazionale per violazione di obblighi erga omnes che, piuttosto, dà ampiamente ragione della legittimità di reazioni della comunità internazionale. Tali considerazioni sono il fulcro di un significativo mutamento che caratterizza il recente sistema delle relazioni internazionali che investe il discusso profilo della responsabilità statuale sul piano internazionale . Occorre rammentare che, in conformità ad un princip io di diritto internazionale pacificamente accolto, ogni condotta che violi obblighi internazionali genera responsabilità dello Stato agente: secondo la dottrina classica, essa implica il sorgere di un nuovo rapporto obbligatorio tra Stato leso e Stato agente in virtù del quale , a fronte del diritto del primo di esigere le opportune forme di riparazione, si pone l’obbligo del secondo di riparare. Parrebbe, ad un primo esame, che nell’evenienza di conflitto armato interno, laddove si assista alle più turpi violazioni dei diritti umani, la cui tutela sia codificata sul piano internazionale oltre ché interno, non ci sia spiraglio alcuno per configurare la responsabilità internazionale di uno Stato le cui condotte non varchino le frontiere nazionali. Corollario : la vittima dell’illecito, ogniqualvolta sia un cittadino dello Stato reo della violazione, resterebbe privo di tutela poiché non sarebbe individuabile uno Stato leso in grado di esigere una riparazione. In realtà, i principi e la prassi seguiti dalla comunità internazionale consentono di superare tale formalismo ritagliando, nel più vasto ambito dei fatti illeciti internazionali implicanti pari responsabilità, “un gruppo di illeciti che, a causa dell’importanza dell’obbligo violato e della gravità della violazione, comportano conseguenze più severe di quelle derivanti da tutti gli altri illeciti: si tratta dei c.d. crimini internazionali”. Essi sono reputati in grado di ledere gli interessi della comunità internazionale globalmente intesa, tanto da generare responsabilità astraendo dall’esistenza di un danno nei confronti di uno Stato esattamente identificabile: si profilano, tra l’altro, in caso di gravi violazioni di obblighi internazionali

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essenziali al fine del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale e della salvaguardia dell’essere umano. Alla stregua di tali precetti, sono preclusi, anche nel contesto di conflitti interni, gli atti di genocidio, di discriminazione razziale nonché le violazioni dei diritti dell’uomo essenziali, purché massicce e su larga scala che, dunque, sono attualmente ascrivibili alla categoria degli obblighi erga omnes, il cui regime giuridico si caratterizza per il fatto che “in caso di una loro violazione, ciascuno Stato operante per conto della stessa Comunità è potenzialmente legittimato ad agire al fine di tutelare tali interessi”, poiché posti a presidio degli interessi della Comunità internazionale globalmente intesa. La definizione di crimini internazionali trae seco un ampliamento della legittimazione a reagire all’illecito, che opera da un lato scardinando “l’impostazione contrattualistica o bilateralistica, tradizionale del diritto internazionale”56, dall’altro legittimando gli Stati terzi, non danneggiati direttamente, ad intervenire per ottenerne la cessazione, anche nel caso in cui non valichi i confini statali. Perché una reazione sia possibile e legittima, conditio sine qua non è l’evenienza che lo Stato su cui incombe l’obbligo di riparazione, sia da considerarsi effettivamente responsabile: in altri termini, elemento imprescindibile ai fini della morfologia della responsabilità internazionale è l’esistenza di una condotta illecita attribuibile allo Stato, purché essa consista in un “wrongful act” identificabile allorché “conduct consisting of an action or omission: a. is attributable to a State under international law, and B. constitutes a beach of an international obbligation of the State”.57 Posto che ogni Stato opera mediante individui, il discrimen tra condotte ad esso riferibili e condotte alle quali è estraneo è rappresentato dalla possibilità di prospettare un “rapporto organico” tra lo Stato stesso e l’individuo agente: per cui il primo risponde di illecito internazionale a fronte di condotte illecite, attive o omissive, di coloro che rivestono la qualifica di suoi organi e abbiano agito in tale veste58, a prescindere dal grado o dalle funzioni ricoperte o dall’aver compiuto azioni al di là delle istruzioni ricevute o oltre i limiti della propria competenza59. Al contrario, per gli illeciti internazionali commessi dagli appartenenti ai movimenti insurrezionali, costoro risponderanno di norma uti singuli o, nell’ipotesi in cui plasmino una nuova entità statale, quest’ultima. Ne discende che la vicenda conflittuale sorta nell’ambito di uno Stato, qualora accompagnata da massicce e generalizzate violazioni dei diritti umani si “internazionalizza”, posto che la salvaguardia della persona umana è interesse essenziale dell’intera Comunità Internazionale. Conseguenza necessitata, è la compressione, rectius, il ridimensionamento delle materie riservate all’esclusiva statuale e del correlato “principio di non intervento”: tutti gli Stati governeranno le comunità umane stanziate sul proprio territorio nella maniera ritenuta più opportuna, in ossequio ai diritti fondamentali degli individui, anche nell’ipotesi di conflitti interni. In caso contrario “il governo al potere non può più rivendicare la questione come facente ancora parte del ristretto ambito dei propri affari interni, dovendo, di conseguenza, rispondere della mancata osservanza dei limiti ad esso imposti dagli obblighi indicati nei confronti, almeno in principio e potenzialmente,di tutti gli Stati membri della Comunità internazionale”60: conseguentemente lo Stato si espone a sanzioni che mirano a colpirne la posizione in seno alla comunità interstatale (interruzioni

56 C. FOCARELLI, Le contromisure pacifiche collettive e la nozione di obblighi erga omnes, in RDI 1993. 57 Art. 2 del Progetto di articoli sulla responsabilità dello Stato del 2001. 58 Conferma si trae dall’art. 4 del Progetto sulla responsabilità degli Stati più volte citato, secondo cui è attribuibile allo Stato “il comportamento di qualsiasi organo dello Stato che abbia tale qualità secondo il diritto interno dello Stato medesimo”. Ciò implica che lo Stato risponde dell’illecito internazionale non solo degli organi del potere centrale (legislativo, giudiziario o amministrativo), ma anche di quello commesso da organi degli enti pubblici territoriali. Va, tuttavia, chiarito che in tal caso i crimini restano attribuibili agli individui che li hanno commessi, con la conseguenza che il diritto internazionale consente la repressione senza aver riguardo alla qualifica ufficiale ricoperta ma, nello stesso tempo, lo Stato risponde dell’illecito internazionale commesso da un suo organo. Per questa tesi v. V. GIGLIO, Terrorismo e crimini internazionali, in Indice Penale, 1993. 59 Ne sono un esempio gli illeciti commessi da organi di polizia nell’esercizio delle proprie funzioni, ma oltre i limiti della propria competenza, come accade nel caso di assassinii, catture in territori di altri Stati.ecc. Secondo L’art. 7 del precitato Progetto, sono comunque attribuibili allo Stato. 60 V. GRADO, op cit, pag 361.A conferma di quanto sostenuto, giova richiamare una serie di documenti internazionali tesi ad affermare il principio dell’esclusione della tutela dei diritti umani dal novero delle materie rientranti nel dominio riservato come la risoluzione adottata dall’Istitut de Droit International il 13 settembre 1989, secondo cui “lo stato che viola l’obbligo di rispettare i diritti umani non può sottrarsi alla sua responsabilità internazionale pretendendo che questo settore rientri essenzialmente nella sua competenza nazionale”; La Dichiarazione di Vienna del 1993, adottata in esito alla Conferenza ONU sui diritti dell’uomo, secondo cui la protezione dei diritti dell’uomo rappresenta “un interesse legittimo della Comunità internazionale” e la dichiarazione del Vertice di Helsinki del 1992, adottata nel corso dei lavori della Conferenza per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa, secondo cui “gli impegni assunti nell’ambito della protezione umana…non rientrano esclusivamente negli affari interni dello Stato interessato”.U. LENZA,op. cit., pag. 13.

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delle relazioni economiche e diplomatiche con gli altri Paesi o, nei casi più gravi, interventi armati), comminate normalmente dal Consiglio di Sicurezza delle NU, come sarà approfondito in seguito. La constatazione che le problematiche inerenti alla tutela dei diritti umani sfuggono dal novero delle questioni rientranti nella competenza domestica61degli Stati, mercé le numerose convenzioni internazionali e norme consuetudinarie vigenti in materia, trae con sé la necessità di stabilire quali siano i soggetti legittimati ad intervenire all’interno di uno Stato in cui si realizzino, nel contesto di una guerra civile, massicce violazioni dei basilari precetti umanitari. Tuttavia l’articolo 3 del II Protocollo addizionale alle Convenzioni di Ginevra del 1949, relativo alla protezione delle vittime dei conflitti armati non internazionali, dispone che:

“1. nessuna disposizione del presente protocollo potrà essere invocata per attentare alla sovranità di uno Stato o alla responsabilità del governo di mantenere o ristabilire l’ordine pubblico nello Stato, o di difendere l’unità nazionale e l’integrità territoriale con tutti i mezzi legittimi.

2. Nessuna disposizione del presente protocollo potrà essere invocata per giustificare un intervento, diretto o indiretto, quale che sia la ragione, in un conflitto armato o negli affari interni o sereni dell’Alta parte contraente sul cui territorio avviene detto conflitto”: in questi casi le azioni di soccorso dovranno essere espletate con il consenso del governo legittimo del Paese in cui divampa il conflitto”62. Va precisato che, specialmente nell’ambito dei rivolgimenti interni, sovente non è identificabile un’autorità in grado di esprimere un simile consenso, a causa del collasso degli apparati governativi: emblematico è il caso del Ruanda in cui la spartizione del territorio tra i c.d. “signori della guerra” non rendeva possibile l’individuazione degli organi interni competenti ad autorizzare le azioni umanitarie. Degno di nota anche quello somalo caratterizzato proprio dall’assenza di un governo effettivo. Nella stessa crisi jugoslava, ad azioni intraprese con il benestare di tutte le parti coinvolte negli scontri si affiancano altre condotte al di fuori di esso63. Nel caso in cui l’assenso difetti, la prassi in materia di intervento umanitario mostra che gli Stati terzi hanno condotto tali operazioni sia singolarmente che collettivamente, con o senza autorizzazione formale del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Le misure coercitive adottabili mostrano ampio raggio d’azione, implicante o meno l’uso della forza armata: nel primo caso, che realizza l’ipotesi dell’intervento umanitario 64, nei limiti temporali e materiali di quanto sia necessario per proteggere i cittadini dello Stato nel cui territorio si manifesti l’emergenza umanitaria 65, anche se gran parte della dottrina è orientata ad escludere che in simili casi sia lecito impiegare la forza. 2.2. L’azione delle Nazioni Unite e gli interventi unilaterali La Carta della Nazioni Unite, prevede, nel VII capitolo, la possibilità di ricorrere al sistema di sicurezza collettiva, implicante una serie di poteri e competenze attribuiti al Consiglio di Sicurezza, esclusivamente nel caso in cui accerti “l’esistenza di una minaccia della pace, di una rottura della pace o di un atto di aggressione” (art. 39)66.

61 Tale concetto, secondo la prevalente dottrina, è elastico poiché comprende tutte quelle materie che non sono oggetto di regolamentazione internazionale. B. CONFORTI, Le Nazioni Unite, Padova, 1996, pag.135. 62 L’articolo 18, par. 2 del II protocollo dispone che “Quando la popolazione civile soffre di privazioni eccessive per mancanza di approvvigionamenti essenziali alla sopravvivenza, come viveri e rifornimenti sanitari, saranno interprese, con il consenso dell’Alta Parte contraente, azioni di soccorso in favore della popolazione civile, di carattere esclusivamente umanitario e imparziale e svolte senza alcuna distinzione di carattere sfavorevole” Dunque, l’assistenza umanitaria non può essere accordata senza il consenso dello stato coinvolto in una guerra civile che potrà, dunque, negare l’accesso alle vittime. 63 La mancanza di consenso non è determinante per qualificare come intervento una determinata operazione ma nel caso in cui venga prestato, permette di evitare i problemi circa la legittimità di una interferenza esterna in un Paese in cui sia in corso una guerra civile. 64 Secondo la dottrina prevalente, l’intervento umanitario si realizza quando uno Stato o un gruppo di Stati, utilizza la forza armata o minaccia di utilizzarla per evitare il protrarsi di gravi violazioni dei diritti umani commesse all’interno di uno Stato, senza il consenso del governo al potere. V. Grado, op cit, pag. 302. Una definizione aderente a questa tesi è fornita da E. Stowell “ humanitarian intervention may be definied as the reliance upon force for the justifiable purpose of protecting the inhabitants of another State from treatment which is so arbitrary and persistently abusive as to exceed the limits of that authority within which the sovereign is presumed to act with reason and justice.” In E. STOWELL, Intervention in International law, Washington D.C., 1921. In senso lato, l’intervento si realizza ogniqualvolta uno Stato o Organizzazione internazionale chiede ad uno Stato di compiere un atto che, senza costrizione, non avrebbe compiuto o di non compiere atti che, senza coazione, avrebbe compiuto: dunque, secondo tale posizione, l’intervento può anche non implicare il ricorso o la minaccia di ricorrere alla forza armata (si pensi alle sanzioni economiche), purché si esplichi per mezzo di misure idonee a condizionare la sovranità dello Stato. In DAVID, Porteé et limite du principe de non-intervention, in Revue Belge de Droit International, 1990. 65 L’intervento umanitario non può spingersi sino a determinare un mutamento di regime ma deve essere funzionale allo scopo di migliorare la condizione di coloro che, in caso di guerra civile, siano vittime di violazioni dei più elementari diritti umani. 66 Il Consiglio di Sicurezza è l’organo delle nazioni unite deputato in maniera esclusiva ad accertare l’esistenza di una minaccia della pace, violazione della stessa o atto di aggressione e a decidere le sanzioni idonee al ripristino o mantenimento della pace e sicurezza internazionale. Ad esso gli Stati membri riconoscono il potere di agire in loro nome nell’attuazione di tali obiettivi. (art. 24, par.1, Carta ONU)

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I successivi articoli 41 e 42 della Carta forniscono un elenco non esaustivo di misure non implicanti o, viceversa, implicanti l’uso della forza. Più in particolare, l’articolo 41 annovera tra le misure non implicanti l’uso della forza armata “l’interruzione totale o parziale delle relazioni economiche e delle comunicazioni ferroviarie, marittime, aeree, postali, telegrafiche radio ed altre, e la rottura delle relazioni diplomatiche”, mentre l’art. 42 stabilisce che “se il Consiglio di Sicurezza ritiene che le misure previste dall’articolo 41 siano inadeguate, può intraprendere, con forze aeree, navali o terrestri, ogni azione che sia necessaria per mantenere o ristabilire la pace internazionale. Tale azione può comprendere dimostrazioni, blocchi ed altre operazioni mediante forze aeree, navali o terrestri di membri delle Nazioni Unite”. In tal caso si tratta delle “azioni coercitive” condotte dal Consiglio di Sicurezza avvalendosi di contingenti militari forniti o dagli Stati membri in conformità di accordi, che sino ad ora non sono stati ancora stipulati67, o da Organizzazioni regionali. A compimento del quadro illustrato, va rammentato che ai sensi dell’art. 40, il Consiglio di Sicurezza può altresì adottare misure provvisorie, tra cui il cessate il fuoco, al fine di evitare l’aggravarsi della situazione suscettibili di compromettere la pace e la sicurezza internazionale. Tra i presupposti oggettivi che consentono l’operatività del sistema di sicurezza collettiva, dunque, vi è “la minaccia della pace”, un concetto la cui indeterminatezza ha consentito al Consiglio di Sicurezza di adottare i provvedimenti appena enumerati anche nel contesto di conflitti interni, laddove siano caratterizzati da violazioni su larga scala di diritti umani fondamentali. Dunque, esso ha ritenuto che infrazioni di questo tipo integrino l’ipotesi in esame, individuando un legame di causa – effetto tra la crisi umanitaria interna e l’instabilità esterna68, per cui non sembra più necessario, ai fini dell’intervento delle Nazioni Unite il pericolo di espansione transfrontaliera del conflitto interno, ma è sufficiente che esso generi conseguenze che abbiano ripercussioni anche indirette sulla pace e la sicurezza internazionale. Tra queste si pone proprio la necessità di tutelare l’individuo da massicce violazioni di diritti umani, che gioca il ruolo di fattore di internazionalizzazione del conflitto interno, tale da sottrarlo alla sfera del dominio riservato per renderlo oggetto di intervento da parte della comunità internazionale, sia pure attraverso, ma non solo, il sistema di sicurezza collettiva. Quanto asserito è supportato da quella dottrina secondo cui la connessione tra la salvaguardia dei diritti umani e il mantenimento della pace è ravvisabile nell’articolo 1, par 3 della Carta delle Nazioni Unite. In base a tale disposizione, infatti, il mantenimento della pace sarebbe perseguibile attraverso il divieto dell’uso della forza unito alla tutela dei diritti umani, costituendo, essi, una potenziale ragione di inquietudine all’interno di uno Stato e nelle relazioni internazionali69. Resta fermo che il Consiglio non gode di una discrezionalità assoluta nel qualificare una situazione, sia pure caratterizzata da inadempienze di diritti umani, come minaccia per la pace ma potrà censurare, tramite misure coercitive, il comportamento di uno Stato che si macchi di simili atti solo laddove ciò corrisponda all’orientamento della maggioranza degli Stati membri, stante l’articolo 24 della Carta a norma del quale ”I Membri conferiscono al Consiglio di Sicurezza la responsabilità principale del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale”, per cui sarebbe inconcepibile che esso operi contraddicendo l’orientamento dei suoi componenti70. Si realizza in tali circostanze l’ipotesi dell’intervento umanitario, “inteso dalla prevalente dottrina come impiego della forza armata (o la minaccia di tale uso) da parte di uno o più Stati allo scopo di porre rimedio a gravi violazioni dei diritti umani commesse all’interno di uno Stato in assenza del consenso del governo al potere”71. Va ribadito, però, che emergenza umanitaria -minaccia della pace non è un binomio necessario: in altri termini, non sempre una emergenza umanitaria comporta l’esistenza di minaccia per la pace.

67 Art. 43 Carta Onu. 68 Dunque, perché il Consiglio di Sicurezza agisca in base al capitolo VII in conflitti interni non è sufficiente l’esistenza di massicce violazioni dei diritti umani ma è necessario che esse siano ritenute atte a realizzare una minaccia per la pace. 69 In questo senso VILLANI, Emergenza umanitaria e mantenimento della pace, in Giano, Pace ambiente e problemi globali, 1996. 70 B. CONFORTI, Le Nazioni Unite, Padova, 1996.Sulla discrezionalità del Consiglio di sicurezza nel qualificare i casi in cui sia ravvisabile una minaccia della pace si è sviluppato un ampio dibattito in dottrina: alcuni autori sostengono che sia possibile parlare di minaccia della pace in relazione ai conflitti interni solo laddove vi sia la possibilità di ripercussioni a livello internazionale a causa del coinvolgimento di Stati terzi e, invero, un simile orientamento è stato seguito dallo stesso Consiglio di sicurezza nel periodo della guerra fredda Si vedano in questo senso le risoluzioni adottate nei confronti del Libano (ris.436/6 ottobre 1978) e del Congo (ris.161/ 21 febbraio 1961). V. MAGNANI, L’adozione di misure coercitive a tutela dei diritti umani nella prassi del Consiglio di sicurezza, in Comunicazioni e Studi, 1977. 71 V. GRADO, op. cit..

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Invero, le risoluzioni con cui il Consiglio di Sicurezza ha stabilito di intervenire per fronteggiare una crisi di questo tipo all’interno di uno Stato, in cui sia in corso una guerra civile, sottolineano la eccezionalità della situazione, quasi a voler escludere che essa possa consentire l’automatica identificazione con la minaccia della pace. Su divergenti posizioni si pone altra parte della dottrina secondo cui, nonostante nelle recenti risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, le gravi violazioni dei diritti umani siano affiancate da ulteriori elementi in grado di costituire una minaccia per la pace, come la difficoltà a fornire l’assistenza umanitaria che comporti sofferenze immani alla popolazione o l’esigenza di ristabilire un regime democratico violentemente rovesciato, possono, anche singolarmente e non solo in congiunzione tra loro, essere idonee a costituire una minaccia per la pace72. L’emersione a livello di rilevanza internazionale delle situazioni conflittuali accompagnate da gravi violazioni dei diritti dell’uomo trova una importante riprova nella attuale prassi del Consiglio di Sicurezza che conviene analizzare al fine di comprendere quali siano le azioni concrete adottate al fine di proteggere la vittime dei conflitti armati interni. Abitualmente , gli interventi umanitari, che realizzano forme di tutela a favore delle vittime che potremmo definire in itinere, poiché esplicatesi nel corso delle ostilità, sono attuati con la copertura formale delle Nazioni Unite, estinsecantesi in un preventivo atto autorizzativo a favore di coalizioni di Stati, atto a consentire l’uso della forza, finalizzata ad ottenere la cessazione delle violazioni ai danni delle vittime. Ingerenze di tal fatta sono ipotizzabili rapportandosi ai poteri attribuiti al consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite dal Cap.VII della Carta, nella veste di garante della sicurezza e della pace internazionale. La prassi, tuttavia, rivela l’esistenza di ipotesi in cui, pur difettando una simile autorizzazione, gli Stati hanno ritenuto parimenti di avvalersi dell’intervento umanitario dando vita ai c.d. “interventi unilaterali”, che hanno fomentato un ampio dibattito dottrinale , tutt’ora non pervenuto a orientamenti univoci, circa la liceità degli stessi, alla luce dell’art. 2, par. 4 della Carta ONU, che pone un divieto espresso dell’uso della forza nelle relazioni internazionali. Da quanto sin qui esposto emerge chiaramente che la tutela delle popolazioni vittime di conflitti armati interni che versino in situazione di grave emergenza umanitaria si è concretizzata sia attraverso interventi coercitivi riconducibili alle Nazioni Unite 73, sia per mezzo interventi parimenti coercitivi ma a carattere unilaterale. Essi implicano una varietà di azioni che vanno da quelle meno invasive, come l’assistenza armata ai convogli e al personale umanitario e la distribuzione degli aiuti alimentari e medici, a quelle che limitano in maniera più o meno evidente il potere di governo dello Stato sovrano, come è accaduto con la creazione delle no fly zones o delle zone di sicurezza; sino ad arrivare all’ipotesi estrema e non condivisibile di attacchi missilistici ed aerei che, pur avendo finalità benevole, causano, per loro natura, ulteriori sofferenze alle popolazioni già provate da conflitti interni. Parte della dottrina sostiene che denominatore comune di tutte le operazioni esaminate è che l’intervento umanitario a favore delle vittime delle guerre civili sia un ammissibile strumento di tutela, purché esso si limiti esclusivamente a rimediare alle gravi violazioni dei diritti umani e del DIU, senza alterare l’assetto interno dello Stato in cui esso si esplica74. L’intervento umanitario in conflitti interni, dunque, come mostra la prassi esaminata, può essere una risposta sia a dirette violazioni dei diritti umani fondamentali, sia all’impedimento di fornire assistenza umanitaria (in questo caso si realizza l’ipotesi della violazione del diritto internazionale umanitario) ad opera di uno o molteplici Stati, agenti singolarmente, come coalizione temporanea o, ancora, come parte di una organizzazione internazionale. Non va dimenticato che, accanto alle misure coercitive, la Comunità internazionale può reagire alle problematiche in esame attraverso l’adozione di contromisure non implicanti l’uso della forza armata (si tratta delle c.d. contromisure pacifiche collettive) tra cui rimostranze diplomatiche, sanzioni economiche: tra queste emerge l’embargo75 sulle armi e sugli equipaggiamenti militari.

72 Per il primo orientamento v. VILLANI, Emergenza umanitaria, per il secondo LATTANZI, assistenza umanitaria . 73 Le nazioni Unite hanno autorizzato l’uso della forza a tutela delle vittime dei conflitti armati interni o disponendo l’accompagnamento armato dei soccorsi ad opera di forze poste sotto il comando del Consiglio di Sicurezza, sia autorizzando l’intervento di Stati Membri. 74 Per cui terminata l’emergenza umanitaria, i contingenti militari dovrebbero abbandonare il territorio dello Stato in cui sono intervenuti. La tutela delle vittime tramite interventi unilaterali di umanità è dunque possibile tramite operazioni limitate sia nell’oggetto che nella durata. V. U. LEANZA, op cit,. 75 L’embargo può riguardare altre merci ma non prodotti alimentari di prima necessità e medicinali: si tratta della c.d. eccezione umanitaria alle sanzioni, in L. GIANFORMAGGIO, Intervento alla conferenza “Diritti Umani e guerra ”, Ferrara, 26 maggio 1999, in www.studiperlapace.it.

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Una simile misura, che si inquadra tra quelle non implicanti l’uso della forza previste dall’articolo 41 della Carta delle N.U., è stata adottata nei confronti della Federazione jugoslava, della Somalia e del Ruanda76con lo scopo di prevenire una intensificazione delle ostilità e l’aggravarsi della precaria situazione umanitaria in cui versavano le popolazioni a causa degli scontri. Tali provvedimenti, tuttavia, si traducono in uno strumento di tutela indiretta a favore delle vittime, poiché atti a effettuare unicamente pressione sul governo incriminato di violazioni di diritti umani o di precetti umanitari senza interventi mirati. 3. La tutela ex post: impunità e giurisdizioni internazionali I molteplici conflitti armati interni, che tuttavia seguitano a turbare lo scenario internazionale, uniti alle ulteriori violazioni gravi e sistematiche dei diritti fondamentali (si pensi allo stupro etnico) consumate nel corso di essi, esortano a riflettere sull’inefficacia del diritto umanitario, sulle motivazioni per cui crimini efferati come il genocidio o quelli contro l’umanità, lungi dallo svanire, sono un machiavellico portato delle attuali operazioni belliche. Una risposta attendibile può essere rinvenuta nell’impunità di cui usualmente godono gli autori materia li di simili efferatezze. Tale constatazione rende opportuno inquadrare, altresì, la posizione dell’individuo, reo di violazioni dei fondamentali precetti a tutela della persona umana, nell’ordinamento internazionale. La problematica prospettata è stata protagonista di una svolta eloquente, eco dei postulati affermati negli Statuti del Tribunale Militare Internazionale di Norimberga e del Tribunale Internazionale per l’Estremo Oriente, in omaggio ai quali, per la prima volta una giurisdizione non nazionale ha ravvisato la responsabilità penale internazionale dell’individuo per le più gravi violazioni del diritto umanitario perpetrate nel corso del Secondo Conflitto Mondiale, finanche qualora la condotta non sia espressamente censurata dalle norme interne o sia conforme ad ordini superiori. Nel corso del giudizio, invero, si sostenne che “i crimini contro le leggi internazionali sono commessi non da entità astratte, bensì da individui, per cui solo punendo coloro che compiono tali crimini le norme internazionali possono essere rinforzate”77. Un simile postulato implica che “in nessun caso la natura collettiva di un conflitto può porre i responsabili di atti criminali al di fuori di ogni diritto, di ogni giudizio e di ogni sanzione”78. Dunque, con una svolta la cui portata sarebbe stata amplissima per i posteri, come si vedrà nel prosieguo, la responsabilità per la violazione del diritto internazionale ricadeva non più sullo Stato, bensì sulla persona fisica agente. Il percorso verso il radicamento di un assioma di tal fatta in seno alla comunità internazionale ha incontrato le resistenze di quegli autori che ritengono operabile una precisa distinzione tra il diritto internazionale e il diritto interno. Il primo sarebbe applicabile solo agli Stati, il secondo riferibile agli individui, con l’ovvia conseguenza che, limitatamente laddove uno Stato abbia non solo accettato una norma internazionale ma l’abbia altresì inglobata nel proprio ordinamento, essa sarà in grado di disciplinare il comportamento dei singoli, i quali, dunque, restano soggetti pur sempre al diritto interno. Al contrario, qualora il medesimo Stato, non avesse provveduto a recepire nel proprio ordinamento le norme che sanciscono i crimini internazionali, il reo cittadino beneficerebbe dell’impunità, poiché non configurabile nei suoi riguardi qualunque forma di responsabilità diversa da quella che potrebbe derivare dall’applicazione di norme domestiche. Una simile esegesi sembra trovare suffragio negli orientamenti più recenti, che, al fine demarcare la soggettività internazionale , fanno riferimento agli Stati e alle organizzazioni internazionali dotate di organi per il perseguimento di interessi comuni agli Stati che ne fanno parte (ONU, Unione Europea).

76 Rispettivamente con le risoluzioni n. 713 del 1991, 733 del 1992 e n. 918 del 1994. Misure di questo tipo possono essere adottate anche senza una preventiva autorizzazione del Consiglio di Sicurezza, per determinazione unilaterale: un esempio è dato dall’embargo commerciale adottato degli Stati Uniti contro l’Uganda per scoraggiare ulteriori violazioni dei diritti umani all’interno del Paese. L’adozione di misure diplomatiche o economiche in risposta a gravi violazioni dei diritti umani commesse all’interno di uno Stato è stata ribadita dall’Institut de Droit International con risoluzione del 13 settembre 1989, intitolata “ La protection des Droit de l’homme et le principe de non-intervention dans les affaires intérieures des Etats”. 77Y DINSTEIN, Human rights in armed conflicts: International humanitarian norms, in T. Meeron, “human rights in international law, vol II, Oxford, 1984. Ciò nondimeno”…questi importanti elementi non escludono tuttavia la parzialità "intrinseca" dei due Tribunali: si trattava infatti di Tribunali imposti dagli Alleati alle due nazioni sconfitte, operanti sotto la spinta di un pesante condizionamento politico, quello esercitato dai vincitori sui vinti. I due organismi erano solo limitatamente internazionali, in quanto rappresentativi di una parte minoritaria, anche se politicamente predominante, della comunità internazionale”, I. ANGIUS, Aspettando il Tribunale internazionale. 78 Intervento dell’On. Dini presso la Conferenza organizzata da “non c’è pace senza giustizia”, 11 giugno 1998, in www.esteri.it.

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Le tesi meno restrittive vi inglobano anche i movimenti di liberazione nazionale che riescano a controllare una parte del territorio (Governo insurrezionale) e i microstati, ma non l’individuo al quale, dunque, non viene attribuita la personalità giuridica internazionale. Ulteriore avallo si trae dalla prassi seguita, in alcuni casi, da Stati che, non solo non hanno recepito le norme in esame, ma hanno emanato disposizioni tali da rendere gli atti costituenti crimini di guerra perfettamente leciti alla stregua della legislazione statale: il caso più emblematico è offerto dai azioni nefande commesse nel corso della Seconda guerra mondiale, i cui responsabili agivano in aderenza alle norme interne 79. Malgrado ciò , nel corso del processo di Norimberga, tale circostanza venne superata negando che il principio di legalità “nullum crimen sine lege” fosse stato scalfito, poiché le norme applicate corrispondevano al senso comune di ciò che risponde al giusto. In particolare, il Tribunale affermò che nell’ipotesi di conflitto tra norme statali palesemente contrarie a valori umanitari e norme internazionale garanti dei medesimi, l’individuo è tenuto a trasgredire le prime. Venne, pertanto, dato risalto al dolo soggettivo originato da lla consapevolezza dell’illiceità della condotta da parte degli accusati. Se è vero che a Norimberga si posero le basi per una riconsiderazione della posizione degli individui nell’ordinamento internazionale, resta il fatto che essi non possono essere considerati come aventi, in tale ambito, personalità giuridica80. Tuttavia, come autorevolmente sostenuto, la responsabilità degli individui per crimini, pur essendo eccezionale, è la risposta alla necessità di apprestare la massima garanzia a quelle norme che sono reputate di importanza fondamentale per la comunità sopranazionale, se non addirittura condizionanti la sua stessa vita81. La vigenza di un simile principio, oltre a rispondere a considerazioni etiche, che implicano la necessità di combattere l’impunità di coloro che si macchiano di gravi violazioni dei diritti umani, è confermata dall’istituzione di un sistema di giustizia penale internazionale 82con il compito di processare proprio tali individui. In un simile contesto trova posto non già la soggettività internazionale dell’individuo tout court, bensì il più limitato principio de lla responsabilità penale individuale per crimini internazionali e la susseguente la creazione di giurisdizioni penali parimenti internazionali, atte a superare l’inerzia degli Stati: testimonianza che l’effettività della norma umanitaria poggia non solo sulla prevenzione, postulante un’adeguata legislazione interna atta a consentirne l’interiorizzazione a livello individuale e collettivo, bensì sulla repressione dell’impunità mercè l’applicazione della norma secondaria. Testimonianza di un percorso evolutivo di tale portata, è la storica sentenza del 2 ottobre 1995, resa dal tribunale per la ex- Jugoslavia nel caso Dusko Tadic , secondo cui ”le violazioni di elementari regole di diritto umanitario, non importa se commesse in occasione di un conflitto armato internazionale o interno, comportano la responsabilità penale dell’individuo cui sia imputabile la commissione di tali violazioni”, con questo ribadendo energicamente che la tutela delle vittime di conflitti interni trova effettivo riconoscimento qualora i responsabili siano puniti uti singuli. La forme di tutela enunciate trovano ulteriore vigore posto che, accanto alla responsabilità dell’individuo materialmente responsabile, è riconosciuta finanche quella dei superiori che hanno emanato l’ordine o, in ogni caso, non hanno impedito la commissione del crimine. L’istituzione dei tribunali internazionali per la ex Jugoslavia e il Ruanda (tribunali ah hoc), dunque, si giustifica in funzione dell’assolvimento di un compito ben preciso: muover causa ed eventualmente punire, secondo i principi che governano il processo penale , gli individui responsabili di crimini particolarmente gravi, nel contesto dei conflitti che hanno flagellato entrambi i Paesi. 79 Ad esempio L'ordine di creare i campi era incontestabilmente legale: esso era fondato su una disposizione d'urgenza della costituzione di Weimar e fu firmato da Hindenburg in base all'articolo 48, comma 2, della costituzione di Weimar . 80 Secondo G. Barile, la soggettività internazionale della persona umana “riguarda solo quella posizione di soggezione a dover essere che gli vieta determinati comportamenti e che formano la risultante della rete di obblighi e diritti statali”.G. BARILE, Obligationes erga omnes e individui nel diritto internazionale umanitario, in RDI, 1985. 81 G. CARELLA, La responsabilità dello Stato …, op cit . 82 Tale sistema è costituito essenzialmente dai Tribunali ad hoc per l’ex- Jugoslavia e per il Ruanda e la costituenda Corte internazionale penale con competenza estesa ai crimini di guerra, contro l’umanità, genocidio e, solo per l’ultimo organismo considerato, il crimine di aggressione. Prima dell’istituzione di tali tribunali,non erano previste procedure e sanzioni penali rivolte a far valere la responsabilità personale degli autori di atti considerati criminali: quando un organismo internazionale di controllo accertava che le autorità di uno stato non avevano provveduto in un determinato caso ad attuare il diritto internazionale dei diritti umani, emettevano la propria sentenza o la propria decisione nei confronti dello Stato, fissando talvolta i termini per un risarcimento al cittadino vittima di quell'inadempienza lasciando, quindi, allo Stato stesso il compito di punire i responsabili dei comportamenti censurati. La responsabilità penale individuale è però limitata alle fattispecie in esame.

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Il significato pieno di questa innovazione nel panorama del dir itto internazionale si coglie solo laddove si collochi, correttamente, la loro costituzione nel quadro del processo di allargamento e rafforzamento delle procedure internazionali di attuazione dei diritti umani. Peraltro, essa era gia codificata da numerosi strumenti convenzionali che contemplano peculiari procedure atte a reprimerne la violazione, che consentono di adire tribunali: i provvedimenti di tali organismi, tuttavia, si rivolgono allo Stato inadempiente, il quale, se condannato, soggiace all’obbligo di punire gli effettivi responsabili dei comportamenti censurati. L’autorevolezza dei tribunali ad hoc, viceversa, si rinviene nella circostanza che essi consentono di valutare la responsabilità individuale degli autori dei reati in via immediata. La necessità di istituire i tribunali internazionali è correlata, inoltre, alla circostanza che le giurisdizioni nazionali operano in presenza dei cosiddetti criteri di collegamento, tra cui quello territoriale, che guarda al luogo in cui è avvenuto il fatto costituente reato o quello di cittadinanza della vittima e del presunto colpevole i quali frequentemente comportano sovrapposizioni di differenti giurisdizioni domestiche, favorendo l’impunità dei colpevoli. In caso di reati particolarmente efferati, tra cui i crimini contro la pace, di guerra e contro l’umanità, si ritiene, invece, che essendo essi tali “da turbare la coscienza dell’individuo medio siano collegati con qualsiasi comunità territoriale” che ben potrà procedere alla condanna del colpevole anche in assenza di qualsivoglia criterio di collegamento, in aderenza al principio di universalità della giurisdizione penale. In realtà, in queste ipotesi, per il diritto consuetudinario, lo Stato può ma non deve punire, può ma non deve concedere l’estradizione dell’individuo allo Stato che intenda punirlo; per cui numerose convenzioni internazionali, proprio al fine di garantire la celebrazione dei processi e superare l’impunità dei colpevoli, quale mezzo più efficace per un’effettiva tutela delle vittime di crimini particolarmente efferati, hanno sancito il principio aut dedere aut judicare, in base al quale ciascun tribunale degli Stati parte delle predette convenzioni ha una duplice alternativa: o processare l’individuo sospettato o estradarlo verso un paese disposto a farlo. Occorre ricordare, tuttavia, le Nazioni Unite hanno da tempo provveduto a dotarsi di un organo giurisdizionale proprio: la Corte internazionale di giustizia, abilitata a risolvere, però, le sole controversie tra Stati, alla quale ciascun governo potrebbe denunciare un altro per genocidio, crimini di guerra o contro la pace. D’altra parte, solo un numero esiguo di Stati ha accettato la sua giurisdizione, da qui il proposito di superare una simile inerzia tramite un atto d’imperio che imponesse all’intera comunità internazionale l’autorità de i tribunali ad hoc, che, in omaggio a tali considerazioni, sono stati istituiti con risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, nell’ambito dei poteri che gli sono attribuiti dal Capitolo VII della Carta ONU, al fine della salvaguardia e del ristabilimento della pace e della sicurezza internazionale: la portata innovativa di tale determinazione è lampante, posto che, per la prima volta si è data attuazione all’intento di ristabilire la pace internazionale non più solo con azioni collettive implicanti l’uso della forza, ma anche con l’ausilio di tribunali in grado di combattere l’impunità di coloro che si macchino di gravi violazioni del diritto internazionale umanitario a danno delle popolazioni civili. Se l’esigenza di apprestare una tutela effettiva alle vittime di violazioni del diritto internazionale umanitario per mezzo di meccanismi repressivi ha ottenuto un considerevole riconoscimento tramite l’istituzione dei tribunali penali internazionali ad hoc, è parimenti vero, tuttavia, che essi non consentono di eludere rilievi critici in grado di mettere in luce i limiti che ne caratterizzano l’operato. Preliminarmente, va rilevato che essi sono stati costituiti in situazioni di grave alla rme umanitario, il che giustifica l’adozione di una risoluzione del Consiglio di Sicurezza anziché di un trattato internazionale. Nondimeno, perché il principio secondo cui la lotta all’impunità è un tramite indispensabile al ristabilimento della pace e della sicurezza internazionale non venga sminuito (come è accaduto istituendo i tribunali ad hoc solo per i crimini commessi in Jugoslavia e Ruanda, pur in presenza di altri casi che, caratterizzati da simili presupposti, necessitavano di simili misure, come in Afghanistan, Cecenia…), sarebbe auspicabile superare la logica dell’emergenza, affidandosi ad un organo permanente in grado di intervenire prontamente in ogni circostanza. Il rilievo appena esposto consente di mettere in luce ulteriori limiti connaturati all’azione di organi giurisdizionali ad hoc: in primo luogo, la limitata competenza spazio-temporale: sia il Tribunale per la

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ex Jugoslavia che per il Ruanda hanno cognizione limitata unicamente ai crimini commessi nel corso dei combattimenti che hanno sconvolto il territorio di entrambi i Paesi. Infine, essi hanno il limite di nascere quando i fatti da giudicare sono già avvenuti o in corso di svolgimento come è accaduto nella ex Jugoslavia. In altri termini, danno vita ad un sistema di giustizia a posteriori che non consente al principio del giudice precostituito di operare correttamente, poiché la responsabilità penale individuale presuppone non solo una norma antecedente al fatto commesso che lo consideri illecito, ma anche un giudice, astrattamente individuabile, abilitato a darvi seguito nel caso concreto. Nonostante tali carenze intrinseche, i tribunali ad hoc costituiscono un precedente che ha rinvigorito gli sforzi per giungere alla costituzione di una Corte Penale Internazionale Permanente la cui istituzione è destinata ad assolvere il gravoso compito, espresso nel Preambolo dello suo Statuto, di perseguire “i delitti più gravi che toccano la comunità internazionale nel suo complesso” superando l’impunità e le tentazioni, che essa implica, di cedere alla vendetta avvertita da coloro che sono stati vittima di crimini efferati. La creazione di un organismo giurisdizionale internazionale permanente consente, più di ogni altra cosa, di superare i limiti testé citati: non più, dunque una limitata competenza spazio-temporale né interventi che, proprio perché legati all’emergenza, rischiano di essere meno ponderati, ma una istituzione permanente e concordata tra gli Stati membri che, acconsentendo volontariamente ad una limitazione di sovranità, beneficia delle condizioni per una più efficace cooperazione degli Stati stessi nella prospettiva di tutela delle vittime di crimini internazionali. Si realizza, in tal modo, una forma di tutela delle vittime ex post, atta a far valere in via immediata la responsabilità di coloro che, violando i precetti del diritto internazionale umanitario, abbiano compiuto reati particolarmente gravi anche nel contesto di una guerra civile (a tal proposito va sottolineato che la competenza per materia delle giurisdizioni sopranazionali menzionate riguarda il genocidio, i crimini contro l’umanità e i crimini di guerra), superando così ogni distinzione tipologica tra conflitti e contribuendo all’allineamento della protezione assicurata alle vittime di qualsiasi operazione bellica. Non va dimenticata, inoltre, l’azione svolta da organizzazioni con vocazione umanitaria (prima fra tutte la Croce Rossa) che operano sia nel corso dei conflitti interni tramite operazioni di soccorso sul campo, sia per mezzo di interventi successivi alle ostilità che si realizzano per mezzo di azioni dirette a provvedere alle conseguenze a lungo termine dei conflitti stessi. La graduale abolizione delle discriminazioni tra vittime di conflitti internazionali e non, se pure non ancora compiutamente attuata, rende indubitabile che, se una discriminazione tra tipologie di ostilità potrebbe essere plausibile, sia pure con le dovute riserve, sul piano politico-istituziona le, non lo è certamente nell’ottica di chi ne subisce le nefandezze: ”pour une persone civile, il importe peu que le conflict soit de caractère international o non international. Elle ne se préoccupe pas de savoir si la mine sur la quelle elle pose le pied a été en place par ses compatriotes ou l’armée d’un autre Etat, si elle a été bombardeé par l’artillerie ou l’aviation “amie” ou “enemie”. Elle est cepedant en droit de se demander pourquoi les parties à un conflit dans propre pays utilisent des mèthodes et des moyens de guerre qui sont bannis dans un conflit international” (Pfanner). Ciò che importa realmente domandarsi è se la differente qualificazione formale delle ostilità possa essere motivo sufficiente a legittimare più intense sofferenze. “non abbiamo bisogno di altre guerre civili e poi…cosa c’è di tanto civile in una guerra?” (da “Civil war” by G’n’R)