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Le proporzioni dimenticate

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Leoncilli chiedeva un disegno astratto, scabro e se vo-gliamo “antigrazioso”, come amava dire ricordandoCarrà, ma ricco di suggestioni architettoniche, di possibilità spaziali e fantastiche, un disegno che privilegiasse lo studio delle piante, poiché soprattutto in queste ultime è possibile scorgere la matrice dellospazio e intuire lo svolgimento tridimensionale dell’idea costruttiva immaginata.

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Le proporzioni dimenticate Leoncilli e la necessità dell’inattuale

Bruno Mario Broccolo

Editore

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Prefazione

Un ricordo di Gian Carlo Leoncilli Massi di Andrea Ricci

Le proporzioni: un campo di definizione

Le proporzioni nell’architettura: limiti e presupposti

Excursus storico

Interludio

Digressione

Palazzo Melloni, Yale Center di Cristiano Cossu

Conclusione: il senso delle proporzioni

Figure

Bibliografia ragionata

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Bruno Mario BroccoloLe proporzioni dimenticate Leoncilli e la necessità dell’inattuale

Testi Bruno Mario BroccoloCristiano Cossu Andrea Ricci

FotografieBruno Mario BroccoloL’autore si dichiara disponibile a regolare eventuali spettanze per quelle immagini di cui non sia stato possibile reperire la fonte.

Progetto graficoMario Brunetti, Emaki

StampaNuova Eliografica snc - Spoleto

© 2007

ISBN 978-88-87648-55-3

SOMMARIOIl volume è frutto della ricerca svolta presso il Dipartimento di Progettazione dell'Architettura dell'Università degli Studi di Firenze, e beneficia per la pubblicazione di un contributo a caricodei fondi di ricerca di Ateneo.

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Obiettivo principale di questo lavoro è dimostrare chelo studio delle proporzioni, in architettura, è ancoraimportante e significativo. È un libro destinato in primabattuta agli studenti ed in subordine a chi vuole avvici-narsi al tema della geometria e dell’armonia in archi-tettura. L’occasione delle proporzioni si è rivelata utilepoi per accennare ad altri concetti di una teoria del-l’architettura, qui appena abbozzata, che ha alimenta-to in questi ultimi 15 anni i corsi del Prof. LeoncilliMassi. Non è una teoria architettonica sistematica,esaustiva e fondata. A tratti è più una critica dell’archi-tettura attuale che non un’elencazione di proposizionicollegate. Ma poiché ritengo che chi critica lo faccia invirtù di un’idea da contrapporre (per quanto vaga possaancora essere) ad un’altra, considero la critica già uninizio, un embrione di una teoria. Questi concetti sono,ad esempio la composizione, il rilievo, la decorazione,la storia dell’architettura. È quindi un libro orientato,che crede in una certa idea dell’architettura e non inun’altra. Non è un testo di “storia dell’architettura”, né un librosulla storia dell’idea di proporzione: per questi vi sonotesti incomparabilmente migliori del mio. È un testonato dalla collazione ed integrazione di una serie dilezioni che ho tenuto presso la Facoltà di Architetturadi Firenze in qualità di docente incaricato. I passaggistorici sono limitati ad alcune figure o momenti, cheritengo particolarmente importanti. Vi sono delle lacu-ne (Bramante) e interi periodi (il barocco, la polemicasensibilisti-puristi dei francesi, per esempio), che nonsono affatto trattati: saranno forse occasione per unaltro lavoro. Non vi è quindi una continuità cronologicaassoluta e lineare, nello sviluppo del testo, anche se isingoli passaggi sono in ordine di tempo. Vi sono duepassaggi brevissimi: uno su Milizia e un altro su Ridolfi.Il primo mi sembra un po’ l’anello di congiunzione trail modo di proporzionare classico e quello metrico dellarivoluzione francese. Il secondo è anch’esso un perso-naggio che chiude un’epoca (per l’architetto), e neapre un’altra. Credo che chi vorrà studiare più nel det-taglio le proporzioni come aspetto singolare della sto-ria dell’architettura potrà approfondire il proprio inte-resse tra i documenti indicati in bibliografia. Quest’ul-tima rappresenta un campione significativo degli scrit-ti sull’argomento. Si va dai testiesoterici a quelli divul-

gativi, da quelli tecnici a quelli “estetici”. Ritengo cheessa possa aiutare nella scelta dei testi, soprattutto glistudenti o chi si avvicina per la prima volta a questotema. E se lo avrà fatto, uno degli obiettivi maggiori diquesto testo sarà raggiunto.Non è un testo “annegato” nel misticismo del numero.È un testo di riflessione sull’architettura con alcuneleggerissime flessioni alla matematica, alla geometria,all’ordine, all’armonia. Non vengono richieste partico-lari cognizioni matematiche: è un testo che vuole rima-nere nel campo dell’architettura e parlare a futuriarchitetti o architetti.Ho evitato di fare un testo eminentemente “compilati-vo”, che fosse la collazione di altri testi, ed ho toltoquanto più possibile le citazioni. È un testo nato “pervia di togliere” e forse anche la forma dei periodi nerisente, diventando in alcuni punti rapsodica.Poiché questo lavoro nasce su suggerimento del profes-sore Leoncilli, che mi incitò nel 1996 ad iniziare questaricerca, e poiché siamo stati tutti suoi “mozzi” (cosìcome affettuosamente ci chiamava), vi è uno scritto diAndrea Ricci che non è altro se non un ricordo di Leon-cilli stesso. Vi è poi un saggio di Cristiano Cossu(“mozzo” anch’egli, ovviamente), su Louis Kahn.

Nel merito del testo: in apertura viene chiesto di conve-nire su un “campo di definizione” del significato del ter-mine proporzione in seno all’architettura.In secondo luogo vengono chiariti i limiti e le precauzio-ni da adottare nello studio delle proporzioni.Il terzo capitolo è un breve excursus storico, focalizzatosu alcuni personaggi e momenti che ritengo principali.Il quarto capitolo è destinato ad un approfondimentotematico: uno scambio di lettere tra Severini e DeFayet, critico d’arte.Vi è un interludio composto da immagini e foto fuoritesto, che vogliono appunto idealmente fornire l’occa-sione di una pausa al lettore. La pausa costituisce evi-dentemente anche una cornice di riferimenti culturalientro cui poter divagare.L’ultimo capitolo cerca di motivare in maniera più siste-matica l’importanza delle proporzioni per lo studentearchitetto. Tutte le traduzioni, se non indicato diversamente, sonomie.

PREFAZIONE

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Se oggi frequento intellettualmente i ter-ritori di quella disciplina che prende ilnome di composizione architettonica,“tema difficile, impossibile, forse inesi-stente, inutile, ma magico, meravi-glioso”1, il merito - o la colpa - è intera-mente di Gian Carlo Leoncilli Massi. Conlui mi sono laureato, allo IUAV di Venezia,all’inizio degli Anni Novanta, e con lui ho cominciatoad insegnare, a Firenze, in qualità di ricercatore. Dietro la sua figura maieutica ho sempre intravisto unalunghissima e foscoliana catena di “historie”, mai sol-tanto un’individualità chiusa in sé stessa: sentirlo par-lare dell’insegnamento dell’architettura ha significato,per me, ascoltare lunghi racconti su quanto a sua voltaaveva appreso da Mario Ridolfi, Carlo Scarpa, IgnazioGardella, o condiviso con docenti e colleghi qualiLuciano Semerani, Aldo Rossi, Guido Canella o CarloAymonino. Dopo la sua recente e prematura scomparsa cerco dinon dimenticare, nel mio lavoro didattico, quei princi-pi e quelle suggestioni immaginifiche che hanno segna-to profondamente la mia immaginazione di architetto.Diventato ordinario di composizione architettonicanella Venezia degli Anni Ottanta, e poi chiamato atenere i suoi corsi a Firenze, Leoncilli ha sviluppato,lungo quarant’anni di attività universitaria, una specia-le maniera di essere didatta, incarnata da un uomo dipensiero diverso sia dall’artista romantico che dal tec-nico-costruttore, e fortemente connessa all’idealesenza tempo dell’architetto classico, di profonda cultu-ra umanistica e musicale. Se dovessi immaginare un

architetto che contemperasse queste doti,da Leoncilli tanto ricercate soprattuttonegli studenti, penserei a qualcuno capacedi tenere insieme l’inventiva concreta diMario Ridolfi con la sapienza speculativa diLeon Battista Alberti, il potere di organiz-zare e studiare l’oggetto “idea” tipico diPaul Valéry con la potenza immaginativa di

Louis Kahn; o forse ricorderei l’amato Palladio, defini-to come quello spartiacque dopo il quale la “formadello spazio” iniziò a perdersi nei mille frantumi delmondo moderno. Nell’università (o “a scuola”, comepreferiva dire), sia pur fra contraddizioni mille volteanalizzate e talvolta al limite dell’utopia, Leoncilli hacostantemente cercato di forgiare esattamente questarara figura di architetto: egli si riteneva, e desideravaessere, un architetto classico, e su questa base impre-scindibile insegnava. I suoi corsi si caratterizzavano per il ruolo decisivoattribuito alla preparazione teorico-intellettuale,necessario presupposto per l’apprendimento della com-posizione. Sosteneva che non fosse vincolante il saper“disegnare bene”, ma che fosse indispensabile, al con-trario, aver acquisito un bagaglio culturale ampio, nonnozionistico, come quello che sempre ha creduto di tro-vare, in particolare, negli studenti provenienti dal liceoclassico. I suoi corsi accademici avevano inizio con lapresentazione di un programma sviluppato in forma dipiccolo saggio, in cui erano puntualmente illustrati icriteri teorici fondativi, e a seguire gli specifici temioggetto di esercitazione e le modalità di svolgimentodell’esame. In coda al testo l’immancabile bibliografia,

Un ricordo di Gian Carlo Leoncilli MassiAndrea Ricci

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Un ricordo di Gian Carlo Leoncilli Massi

un fenomeno compositivo esuberante che riusciva aintravedere in ogni opera, in ogni atto formativo, sinoa farne una vera ossessione. Tutto era ricondotto alcomporre, e di ogni tema architettonico, di ogni spazioo soggetto possibile, era instancabilmente ricercato “ilgrado di composizione che esso comporta” (Aristotele).Come in una sfida intellettuale, proponeva a noi stu-denti e collaboratori temi da sviluppare, “ossi di sep-pia” coi quali attivare il processo formativo, e così“giocando” insegnava, così stimolandoci trasmettevaun sapere mai del tutto suo ma generale, vasto, atem-porale. La convinzione che architettura e musica fosse-ro, come scriveva Valéry, “monumenti di un altromondo”, e che abitassero “questo” senza imitarne ildivenire delle forme contingenti, ma solo la strutturaarmonica nascosta, orientava l’intero percorso didatti-co verso la comprensione della dialettica fra essere edivenire, fra forme contingenti e mutabili e idee o figu-re eterne, delle quali le variazioni di volta in volta riaf-fermavano, attraverso “gusci” sensibili diversi, la par-ticolarissima esistenza empirea.Tutto questo lo esprimeva disegnando, e nell’ambitodella sua didattica il disegno, “meccanismo del pensie-ro”, era certamente la dimensione prioritaria. Durantele lunghe “revisioni” d’esame e di tesi di laurea, tantodidattiche quanto spassose per il folto pubblico che sitratteneva a gustarle, il momento in cui l’allievo pre-sentava i primi abbozzi del progetto rivelava particolar-mente il suo atteggiamento di insegnante. Durante l’a-nalisi dei fogli e degli album disegnati, il soggetto dellaquestione era sempre l’idea di spazio, il tema, la figu-ra che lo studente era chiamato a trovare, indagare,variare e appunto comporre come tema della “poesia”architettonica ritenuta più adatta al luogo, al finecostruttivo e alle esigenze funzionali da soddisfare.Leoncilli chiedeva un disegno astratto, scabro e sevogliamo “antigrazioso”, come amava dire ricordandoCarrà, ma ricco di suggestioni architettoniche, di possi-bilità spaziali e fantastiche, un disegno che privilegias-se lo studio delle piante, poiché soprattutto in questeultime è possibile scorgere la matrice dello spazio eintuire lo svolgimento tridimensionale dell’ideacostruttiva immaginata. Ai geometri e agli studenti pro-venienti dagli istituti artistici imponeva bonarie edivertenti “punizioni” fingendo di porli un gradino al disotto di coloro che giungevano dall’amatissimo e mitiz-

zato liceo classico, i quali non sempre erano abili neldisegno e presentavano pagine piene di dotte citazionida Alberti e Vitruvio affiancate da pochi e scarni schiz-zi. Nei primi anni di insegnamento fiorentino, talmenteforte fu l’impatto con la nuova realtà didattica, per lui“veneziano” da diciotto anni, che scelse di organizzareil proprio corso di composizione assegnando esclusiva-mente il compito del ridisegno a mano delle architettu-re brunelleschiane di Santo Spirito, della Rotonda degliAngeli, di San Lorenzo. Fu un’immersione in una realtàdel tutto particolare: gli studenti parevano soffrire diuna strana schizofrenia architettonica, che li portava aconoscere le grandi architetture dell’umanesimo edella Firenze antica, architetture che pure avevanodavanti ai loro occhi, solo da un punto di vista storico-nozionistico, mentre al momento dell’ideazione pro-gettuale questa preziosa eredità era come dimenticata,ignorata, e lasciava il posto a malintesi e superficialispunti tratti dal “contemporaneo”. Fu un impopolareripartire dai fondamenti, limitando fortemente ciò chenegli ultimi anni chiamava “libido aedificandi”, natu-ralmente posseduta dagli studenti, in favore di unragionamento rigoroso, schematico, “imposto” da unmaestro e collocato nel percorso didattico comemomento obbligato per l’apprendimento dei rudimentidel comporre. Molti fuggirono, non tutti apprezzarono,ma in quegli anni si posero le basi per una didatticatotalmente diversa, che avrebbe prodotto i suoi fruttinel tempo ed era ritenuta l’unica possibile in quell’am-biente fiorentino dimentico delle proprie radici.È attraverso il concetto di spazio, tuttavia, che Leoncil-li ha maggiormente contribuito alla costruzione di unadidattica originale, soprattutto in ambito fiorentino.Lamentandosi, negli ultimi anni, che neppure la Gar-zantina di architettura riportasse più la voce “spazio”,ne proponeva una spiegazione - “antichissima, quindinovissima”, avrebbe detto citando De Chirico - cheritengo fra le più originali nel panorama teorico con-temporaneo. Anche in questo caso, la sua capacità di architetto com-positore veniva come traslata nella dimensione dellostudio teorico, per cercare di agganciarsi ad un filonedi pensiero dalle origini assai remote. Elaborava evariava i concetti costruendo con sagacia il suo edificioanalogico, e ragionando con i pensieri dei grandicostruttori della nostra storia. “Spazio” era per lui quel

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Le proporzioni dimenticate. Leoncilli e la necessità dell’inattuale.

completa del temuto appunto circa gli ulteriori testi“ad personam” che sarebbero stati indicati dalladocenza in relazione al tema progettuale indagato daciascuno. Ciò che di quelle lezioni più sorprendeva lo studente,oltre all’impossibilità di passare inosservati, e quindialla certezza di essere stimolati, “inquisiti”, mai lascia-ti in pace nell’ombra, era soprattutto l’insistenza sulconcetto di composizione, l’onnipresente “leggenda”del comporre che struttura il pensiero creativo tanto inarchitettura quanto in musica, pittura, letteratura. L’i-dea di composizione delineata era quella di una sottilee millenaria abilità formatrice, giocata su temi tradi-zionali, urbani, di tipo “collettivo” ma anche, talvolta,su inneschi casuali - trovati come gli enigmatici ossi diseppia raccolti da Socrate nell’Eupalino di Paul Valéry -sui quali poi esercitarsi, come in una sfida, per trarnecomunque un’opera, una composizione. Saper compor-re significava per lui, sulla traccia profonda degli studiveneziani, sviluppare una capacità intellettuale, emanuale, di inanellare molteplici variazioni su un temastabilito e retoricamente “inventato”, cioè ritrovato,estratto dal serbatoio fecondo della storia dello spaziocostruito e immaginato. La più grande delle soddisfa-zioni era per lui il riconoscere, negli schizzi e nei dise-gni di uno studente, la traccia di un’idea compresa, diun cammino iniziato, di una concatenazione di evolu-zioni spaziali che seguivano lo spunto, sempre prezioso,fornito agli inizi del lavoro. La sua maieutica si invera-va proprio in questo, nel tentativo di trasmettere nonla perfezione dell’opera finita e compiutamente confe-zionata, ma il procedimento, l’esercizio compositivoche conduce all’opera, esattamente “come capitava aMozart o a Bach, ai quali il Principe dava il titolo, iltema musicale su cui costruire la composizione; o comecapitava a tanti poeti: il tema della poesia non eraun’invenzione del poeta, sua era l’abilità compositi-va”2. L’allievo era quindi sollecitato a praticare unasalutare terapia di apprendimento, che relativizzavaradicalmente il suo “io” ideativo a favore di una tradi-zione “esterna”, già esistente, secolare, che stava fuoridi lui e lo precedeva, e che era presentata come unorizzonte ben più significativo di qualsiasi momenta-neo soddisfacimento delle proprie attitudini formali.Rispetto allo spettacolo dell’architettura, Leoncilliimponeva agli studenti di passare dal ruolo di spettato-

ri a quello di autori, registi, addetti alle macchine die-tro le quinte, insomma a porsi nel ruolo di chi fa e guar-da allo scopo di imparare a fare, organizzare, progetta-re, comporre. Questa sorta di delocalizzazione del nucleo inventivoiniziale, spostato dal singolo allievo alla grande tradi-zione compositiva plasmata dall’ingegno dei vari Kahno Terragni, Alberti o Ridolfi, Schinkel, Brunelleschi emolti altri ancora, consentiva di attuare un vero e pro-prio esercizio di composizione, cui lo studente avrebbedovuto attenersi rigorosamente e senza preoccuparsi inmaniera esclusiva dell’esito finale - o progetto - dellaserie di variazioni costituenti l’esercizio stesso. Compi-to principe dello studente era dimostrare di sapervariare il tema dato, di saperlo indagare nei suoi mol-teplici aspetti, di saperlo anche abbandonare e modifi-care, ove questo fosse stato necessario, per motivi con-testuali, funzionali, o inerenti il difficile e raffinatorapporto fra “dimensione e figurazione”. Fra gli esempi più frequentemente adottati per spiega-re i processi caratterizzanti la composizione architetto-nica vi erano quelli presi in prestito dalla musica. Gran-de passione di una vita, forse più profondamente radi-cata nel suo animo rispetto alla stessa pratica dell’ar-chitettura, così vincolata dalle contingenze, la musicaillustra compiutamente ciò che in composizione puòessere solo mostrato con l’esempio, come nel caso diquel concetto cardine che è il variare. Riferendosi oraall’architettura, ora al comporre musicale, Leoncilliindividuava fantastiche “Variazioni Goldberg” in quellevicende progettuali che avevamo sempre visto soltantosub specie storico-filologica: Palladio che rileva - giàcomponendo - le terme romane, e con quelle ideecostruisce il veneziano Redentore; Ridolfi che dise-gnando la sua Casa Lina, delicata e immaginifica, ripor-ta alla luce le piante centrali tardoantiche; Terragniche ricostruisce il “suo” San Pietro in Montorio, o il“suo” Palazzo Strozzi, nello spazio marmoreo e diafanodella Casa del Fascio a Como; o lui stesso, nei tanti pro-getti “manifesto” che era solito comporre per la didat-tica e i concorsi.Rispetto alla circolarità delle variazioni, fatte di unaciclicità non immemore della struttura naturale delmondo, ciò che permaneva era l’idea: in questo Leon-cilli era platonico, o platonico quel tanto che bastava asostanziare teoricamente la ricchezza architettonica di

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Un ricordo di Gian Carlo Leoncilli Massi

bilico fra i maestri italiani - Rogers e Samonà, ma ancheil Saverio Muratori protagonista di infuocate assembleepolemiche - e i grandi miti del Movimento Moderno,all’epoca ancora molto influenti. Roma fu palcoscenicoper un’architettura totalmente e contemporaneamentepresente a sé stessa, in cui antico, moderno e contem-poraneo si mescolavano e manifestavano anche grazieai leggendari talenti grafici di quel periodo (fra i qualiLeoncilli si collocava come “prospettivaro” di successo,in perenne sfida con Franco Purini o Sandro Anselmi), ei tanti altri che studiavano, abitavano e occupavano, inmolti sensi, Valle Giulia. In quel contesto effervescentesi sviluppavano l’abilità manuale nel disegno dell’archi-tettura, le sfide grafico-pittoriche fra Ridolfi e Libera,i disegni mirabolanti di Maurizio Sacripanti o quelliincredibili, vergati “a due mani”, del vecchio e burbe-ro ingegnere Vincenzo Fasolo, che fu anche Preside diValle Giulia e docente di Storia e Stili dell’architettura.È forse proprio da Fasolo che Leoncilli ha tratto lacaratteristica ossessione per le “pezze d’appoggio”:strati multipli di carta da spolvero che impazientemen-te saturavamo di grafite, nei quali piante, prospetti,sezioni, spaccati, assonometrie e prospettive illustrava-no ogni immaginabile variante architettonica, ma chenon di rado lui trovava insoddisfacenti e sorridendo,guardandoci dritto negli occhi, lanciava in aria, o inqualche caso pieghettava metodicamente a moduli ditre-per-tre centimetri per poi restituirli al legittimoproprietario.Laureatosi a Roma con Ludovico Quaroni, Leoncilli giun-ge a Venezia dopo qualche anno di professione e assi-stentato, e qui incontra una delle facoltà di architettu-ra più importanti d’Europa, e alcuni dei docenti cheorienteranno decisamente il suo pensiero di architettomaturo. L’insegnare a Venezia portò Leoncilli a contatto con unmondo intellettuale aperto, raffinato e ricco di conta-minazioni geografiche, filosofiche, artistiche, che cor-revano principalmente lungo i canali di relazioni stori-che consolidate: quelle con Vienna e l’Austria (la finisAustriae della Secessione viennese), con Karl Kraus eAdolf Loos, con la Germania e la Berlino della cortinadi ferro, e poi con Schinkel, architetto fra i più studia-ti e amati. Un certo imprinting viennese contraddistin-guerà sempre i suoi progetti, attraverso suggestionifigurative e decorative che lasciavano trasparire un

marcato interesse per il rivestimento, per la sua arti-colazione in parti diverse e gerarchizzate, per l’uso dielementi scultorei, pittorici e coloristici, e una raffina-ta eleganza nel disegno dei prospetti, delle giunzioni,dei dettagli. Otto Wagner, “maestro della pianta”, saràper lui l’esempio forse più rappresentativo di un mododi intendere l’architettura davvero “totale”, in cui afronte di una composizione immaginata, ogni elemen-to della costruzione trovava il suo aptus locus in unospazio che “classicamente” conferiva, ad ogni singolaparte, una sistemazione adeguata e relazionata altutto. I suoi studi sulle opere wagneriane della Post-parkasse e della Landerbank, parzialmente pubblicatinel testo che gli valse la cattedra in composizionearchitettonica3, mostrano un’indagine meticolosa sulconcetto della “profondità del piano”, con il qualetentava di riagganciarsi ad una tradizione plurisecola-re che da Leon Battista Alberti e Raffaello era giunta aSchinkel, Wagner, o anche agli scritti di Erwin Panofsky.Il poter misurare, intuire, cogliere e vedere già nelpiano la compiutezza della dimensione spaziale erauno dei grandi “segreti” che gli architetti classici sitramandavano da sempre. Saper vedere indirettamen-te lo spazio senza necessitare di nominarlo, ma soltan-to enunciandone il principio generatore, cioè il piano,fu per Leoncilli una condizione di ricerca intellettualeche lo accompagnò tutta la vita, e che sarà sempreaffinata e verificata in progetti e lezioni, ribadita e divolta in volta sostanziata attraverso un’incessante atti-vità di studio. In quegli anni la fiducia nel processocompositivo e nelle sue modalità concettuali fu enor-me, onnicomprensiva, in un gioco di fortunate corri-spondenze fra un insieme di colleghi di elevatissimocalibro, una città ricca di opportunità e di storia, e lasua personale condizione di maturità anagrafica eintellettuale. Al mio approdo a Venezia ho dunqueconosciuto un docente di architettura nel suo periododi massimo splendore, quando aveva ormai enorme-mente sviluppato, con la mano e con la mente, quelleabilità che ha sempre ha cercato di trasmettere ai suoistudenti, cioè la capacità di progettare e comporresulla base di un apparato concettuale e teorico in con-tinua elaborazione, la manualità immediata e freschis-sima di chi sa mostrare a sé stesso e agli altri i propripensieri figurati, e quella carica ideologica, stempera-tasi nel corso degli anni e se vogliamo ingenuamente

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collante magico, alchemico, che eleva ad una condizio-ne di armonia tutti i diversi e contraddittori elementidell’edificio, che conferisce unità al molteplice fisico eimmateriale dell’opera, e che alleggerisce quest’ultimadel peso della materia trasfigurandola in “pura forma”.Senza spazio vi erano solo la bruta tettonica, l’“archi-tettura dell’oggetto”, il design a scala (metrica)umana, o una fraintesa “leggerezza”, tutta materica,riguardante più i chilogrammi che lo spazio stesso.Ciascun concetto proposto era tuttavia come un ser-pente che si morde la coda, e un attimo dopo ci inter-rogava su quando, al contrario, si verificasse la condi-zione della sola tettonica, di un edificio-oggetto privo,in modo apparentemente assurdo, di spazio. In queimomenti si rivelava una delle sue più efficaci dotimaieutiche: l’uso del paradosso come strumento cono-scitivo. Non temendo alcuno “scoglio” concettuale,Leoncilli insisteva a trattenere l’attenzione degli stu-denti proprio sul concetto sfumato e complesso di “spa-zio”, traendone lezioni e revisioni quantomai produtti-ve per chi ascoltava. L’additare quella meta, posta suuna vetta altissima e quasi irraggiungibile, e soprattut-to la fermezza nel sottolineare che quella stessa metadistava anni luce dai disegni che pur con soddisfattaconvinzione avevamo aperto davanti a lui, provocava innoi un moto di stizza, un sommo smarrimento. “Non c’èspazio! Solo cemento! Solo tettonica! Arrivederci adomattina con pianta, prospetto e sezione!”Tentavamo di colmare quella distanza disegnando sinoallo sfinimento, vincendo di volta in volta la frustrazio-ne con la certezza di essere più vicini alla meta, diavere ormai quasi afferrato quell’idea - idea di spazio -che credevamo di aver chiaramente riconosciuto neisuoi schizzi. Una scalata faticosa ma decisamenteistruttiva: se ciò che insegui è criptico, enigmatico,allora non puoi costruire le tue tappe di avvicinamentoattraverso la pura sommatoria ciò che già conosci, madevi sforzarti di agguantare nuovi e ignoti elementi cheti aiutino nel raggiungimento dell’obiettivo. Fuor dimetafora, la logica inizialmente paradossale dell’indi-care un obiettivo progettuale di difficile e non scienti-fica definizione teorica, mostrato unicamente attraver-so pochi schizzi, (il tema, spaziale, del Principe di cuiparlava Semerani), trasferiva sullo studente la non esi-gua responsabilità dell’apprendimento: a lui l’“abilitàcompositiva”, la capacità di intraprendere lo svolgi-

mento del tema, e la necessità “obbligata” di trarrefrutto dai contributi forniti dalla docenza nei diversimomenti della didattica.Ciò costringeva, molto semplicemente, a disegnarparecchio. Soluzioni diverse, schizzi, innumerevolivariazioni, continui cambi di scala nelle rappresenta-zioni e negli approfondimenti, tutto confluiva simulta-neamente in fogli densi di appunti, testi, disegni,immagini, riferimenti. Chi abbia studiato e lavorato conlui ricorda soprattutto questo: per ragionare sullo spa-zio occorreva disegnare, e per disegnare occorrevaavere in mente l’idea ricercata, in un incessante andi-rivieni fra il livello del discorso, dell’astrazione e dellaconcettualizzazione, e quello concreto, materiale, delriportare sulla carta quanto intuito - meglio se conmatite “36H”, come ironicamente era solito suggerire -sino ad una soddisfacente approssimazione. “Dar forma all’idea”: questo era il compito di quell’ar-chitetto compositore che si sforzava di formare a scuo-la. Ma chi era, in sostanza, questo architetto? Era il pro-fessionista-tecnico uscito dall’École Polytechnique d’il-luministica memoria, aggiornato alla realtà didatticamilanese, torinese o barese? Era forse il progettista tut-tofare, il regista in grado di governare, dall’alto di uncosiddetto sapere interdisciplinare, tutte le operazionidi una sempre più estesa attività di progettazione(architettonica, urbana, integrale, ambientale, paesag-gistica, dell’arredo e del design)? O ancora l’architettojunior dello sventurato triennio “mordi e fuggi”, inau-gurato nei suoi ultimi anni di insegnamento?Per tratteggiare questa figura “altra” di architetto èforse utile compiere un piccolo viaggio fra le città cheLeoncilli ha conosciuto e nelle quali ha insegnato.Intorno al “centro” della sua Spoleto, stella fissa chelungo l’intero arco della sua vita ha custodito la suacasa, il luogo al quale far ritorno dopo ogni difficoltà eogni piccola vittoria acquisita, si dispongono in succes-sione cronologica tre scuole di architettura, identifica-bili, nel ricordo, con le tre città in cui si trovano: dap-prima Roma, poi Venezia e infine Firenze.Roma - come è facile arguire dai racconti tante volteascoltati - fu il luogo del primo innamoramento perl’architettura, che come ogni amore nato nella “cittàeterna” degli Anni Sessanta fu potente, eccessivo, esu-berante, impastato di politica, ideologia, contestazionedei padri e delle madri di un’architettura italiana in

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Un ricordo di Gian Carlo Leoncilli Massi

zione architettonica. Quell’esperienza, che io vissi inqualità di dottorando, mostrò in maniera chiara edesplicita quali fossero i fondamenti del suo pensiero. Ilcomplesso programma di studi, intitolato “Le figuredel comporre”, si calò perfettamente nella realtàlocale assumendo come protagonisti imprescindibilidel percorso teorico proposto Leon Battista Alberti,l’Umanesimo toscano, e soprattutto Firenze, centrodelle esercitazioni progettuali e analitiche.6 La diver-sità della composizione dalla progettazione, il ruolooperativo della teoria, lostrumento compositivodella “figura”, il rapportofra “norma e licenza”,l’uso compositivo, cioè for-mativo e non filologico,della storia della città edel paesaggio italiano,sono solo alcuni dei temipiù salienti di quel pro-gramma. Prima dell’impre-vista e inaspettata conclu-sione di quella feliceparentesi, vi fu anche iltempo di far partecipare ilDipartimento di Progetta-zione della facoltà fioren-tina alla Triennale di Mila-no, ove furono presentateuna serie di sintetiche ipo-tesi progettuali redatte

secondo la logica compositiva delle “figure” applicataalla Firenze storica.Un progressivo isolamento all’interno della facoltà,dovuto a motivazioni che in questa sede non sarebbeutile indagare, spostò definitivamente il centro del suointeresse verso la pura ricerca teorica, che giungerà aduna sintesi complessa e stratificata nel suo ultimo libroLa leggenda del comporre.7

In un’intervista apparsa in un noto testo di GiancarloDotto, alla domanda su come si fosse trovato a Firenze,

e su quali relazioni avessestabilito, Carmelo Benerispose: “Nessuna relazio-ne. Firenze è invivibile”. EFirenze, città per eccellen-za del “genio” creativo, futale anche per Gian CarloLeoncilli Massi, che vi inse-gnò per circa vent’anni,portando brillantementealla laurea un numero sele-zionato di studenti, eimmeritatamente passandoa me il compito della didat-tica, della ricerca, dellacontinuità operativa eintellettuale di quel piccologruppo di persone che osti-natamente e orgogliosa-mente chiamava “la miascuola”.

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Le proporzioni dimenticate. Leoncilli e la necessità dell’inattuale.

“politica”, che portava a pensare di poter concreta-mente influire, attraverso il proprio operato, sullacittà e sul mondo.Fu proprio allo IUAV che Leoncilli focalizzò con chiarez-za, stimolato anche dal personale impatto con quelgigante della storiografia italiana di architettura che fuManfredo Tafuri, una particolare concezione del rap-porto fra il comporre e la storia del costruire. Pochi anni fa Ignasi de Solà-Morales scriveva: “Nellasocietà di massa prodotta dal capitalismo, lo sviluppodell’architettura come elaborazione di un linguaggioculturale è, secondo Tafuri, un’attività residuale. Soloun numero ridotto di maniaci di questa forma produtti-va obsoleta continuano con insistenza a coltivarla: illoro peso nella società è ormai minimo, il loro ambitodi sopravvivenza appartiene sostanzialmente alla sferaprivata e il loro destino è di scomparire. (...) È beneavvertire che la sua opera è contro gli architetti e laloro cultura, cioè contro la maggior parte delle pubbli-cazioni, delle riviste, dei congressi, delle scuole diarchitettura”4. Quello di Tafuri fu un progetto criticoche ambiva a negare ogni possibilità di stabilire un“orizzonte di senso” valoriale specifico rispetto all’e-stetica dell’architettura. A fronte dei grandi motoridella storia moderna, in particolare l’economia nellasua espressione capitalista, il problema “sensibile”,estetico, della forma dello spazio e della sua tradizio-nale genealogia storica, che per molti, e Leoncilli fraquesti, era il problema decisivo, assumeva nei testitafuriani il carattere di una pericolosa illusione “inef-fettuale”, destinata ad essere travolta dalle forze cherealmente determinavano l’evolversi del mondo con-temporaneo. Sulla Biennale organizzata da Aldo Rossinel 1985, che prevedeva diversi luoghi di intervento eriflessione ponendo a concorso, tra gli altri, il Pontedell’Accademia, Rialto e Palazzo Venier dei Leoni, Tafu-ri sparò “ad alzo zero”, scagliandosi apertamente con-tro un discreto numero di progettisti che attraversol’architettura aveva osato “parlare”: “Il risultato diquella che nelle intenzioni doveva essere una “festadell’architettura” è una sorta di banchetto intorno aduna città trattata come cadavere. Prevale infatti lacaricatura, un’irrisione (involontaria?) non solo nei con-fronti del contesto, ma anche in quelli della stessaarchitettura: lo dimostrano i progetti di AlessandroMendini e Alessandro Guerriero, di Roberto Pirzio Biro-

li, di Giancarlo Leoncilli per il Ponte dell’Accademia(...)”5. Quello stesso progetto per il Ponte che AldoRossi aveva entusiasticamente elogiato, Tafuri relegavaa caricatura, a saccheggio di una città morente o addi-rittura già morta.Quando si diffuse la notizia della morte per malattia diManfredo Tafuri, Leoncilli era già giunto a Firenze datempo. Il programma della giornata prevedeva due oredi lezione. Entrato in aula esordì dicendosi profonda-mente amareggiato, e aggiunse: “sento il dovere dicommemorare Manfredo Tafuri, malgrado sia parados-sale che debba essere proprio io a farlo”. Non ho maidimenticato quella frase, che considero ancora adessoun manifesto della vita didattica fiorentina di Leoncil-li: quel “sentirsi in dovere” è stato per me una grandelezione, la manifestazione di una legge morale profon-damente radicata nel suo essere.Alla fine degli Anni Ottanta, nella città di Dante, di Bru-nelleschi e Alberti, Leoncilli immaginava di portare adefinitiva maturazione il suo percorso di architetto edocente di composizione. Avvicinatosi alla sua Spoleto,che rimaneva e rimase per sempre il centro sicuro delsuo operare, giunse nel capoluogo toscano avendo nellatesta e nel cuore i grandi personaggi dell’Umanesimofiorentino, quegli artisti e quei pensatori che hanno for-mato la nostra coscienza estetica e l’hanno integrataarmoniosamente con il pensiero e la speculazione filo-sofica. In questa città Leoncilli perde la fitta rete direlazioni didattiche che supportavano la sua ricerca aVenezia, e si trova a dover insegnare a studenti moltodiversi da quelli dello IUAV, senza riuscire a innescarel’analogo di quel coordinamento fra docenti al qualeera abituato. Come già accennato, l’impostazione didattica dei suoiprimi corsi fu tesa a esperire un’idea di composizionearchitettonica teoricamente fondata, che facesse sere-no appello alla continuità storica del mestiere cui già sierano ispirati Ernesto Nathan Rogers e molti suoi colle-ghi veneziani. Data l’importanza enorme che la tradi-zione aveva avuto nel determinare la forma della cittàfiorentina, credeva che una simile strategia operativapotesse trovare naturale ascolto anche in questo nuovocontesto; ma così non fu.La possibilità di un discorso corale sul tema del com-porre si concretizzò solo parzialmente, in occasionedella sua nomina a Direttore del Dottorato in composi-

1 G. C. LEONCILLI MASSI, La Composizione. Commentari, Marsilio Editore, Venezia 1985, p. 11.2 L. SEMERANI, in AA.VV, Composizione progettazione costruzione, a cura di E. Bordogna, Laterza, Roma-Bari 1999, p. 72-73.3 G. C. LEONCILLI MASSI, op. cit..4 I. DE SOLÀ-MORALES, Decifrare l’architettura. “Inscripciones” del XX secolo, Allemandi, Torino 2001, pp. 139-140.5 M. TAFURI, Storia dell’architettura italiana. 1944-1985, Einaudi, Torino 1986, p. 229.6 G. C. LEONCILLI MASSI, L’”Etrusco” torna a scrivere, Alinea, Firenze 1996. In questo testo sono presenti estratti significativi del Programmae documenti redatti durante l’esperienza del Dottorato. Un’esposizione dei contenuti del Dottorato è deducibile anche dal testo F. FABBRIZZI

- A. RICCI - D. SPOLETINI, Architettura. “Lineamenta” e “structura”, Alinea, Firenze 1994.7 G. C. LEONCILLI MASSI, La leggenda del comporre, Alinea, Firenze 2002.

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La filosofia, l’arte del costruire e il senso comunehanno contribuito a dotare il termine “proporzione” diuna certa polisemia. Non sarà inutile quindi conveniresu alcuni significati, in modo da evitare equivoci1. Ledefinizioni che seguono sono necessarie, oltre che perchiarezza di esposizione, anche per contestualizzare iltermine, poiché lo stesso ha assunto, nel corso deisecoli, ora un significato ora un altro. In architettura possiamo dunque parlare legittimamen-te di:Proporzione come rapporto tra misure semplici Proporzione come uguaglianza di due rapporti Proporzione come serie numericaProporzione come tracciato regolatore Proporzione come tracciato costruttore Proporzione come modulo-oggettoProporzione come analogia formale

A fronte di quest’articolazione ritengo tuttavia che lecognizioni necessarie, in geometria e in matematica,siano alla portata di chiunque2. Ipotizzo che cicloidi,cissoidi ed iperboloidi siano argomenti di riflessionematematica ma non elementi essenziali per la costru-zione dell’architettura. Non risulta cioè che questi entigeometrici complessi siano alla base della concezionearchitettonica, o almeno in una fase concezionalerazionale, verbalizzata: semmai intervengono nellafase successiva, ovvero in quella della giustificazionedella creazione. Esaminiamo le 7 accezioni una ad una.Non sempre, come vedremo meglio in seguito, le pro-porzioni hanno un diretto referente formale. A volteesse sono uno strumento concettuale, una teoria, un’i-dea. Altre volte esse sono compresenti in un’unicaopera, nello stesso tempo o in tempi diversi.

a) Proporzione come rapporto tra misure semplici (1,2, 3, 4)Il primo significato che si riconosce alle proporzioni èquello pitagorico, e cioè quello dell’armonia musicaledell’Universo, ma probabilmente il significato matema-tico di proporzione fu elaborato, prima che dai Greci,dagli Assiri e dagli Egizi. È evidente che alla base delleloro costruzioni vi sia una profonda intelligenza di tiponumerico e geometrico. Tra l'altro, e così fissiamo subi-to un concetto fondamentale, matematica e geometriasaranno di fatto sinonimi fino alla modernità. Tra le duenon si dà nessuna distinzione finché fa ancora partedelle conoscenze tecniche il calcolare attraverso lageometria, e cioè fino all'arrivo dei calcolatori. [Figg.1, 2, 3, 4, 5, 6] La Fig. 2 consente di calcolare il qua-drato di un binomio, mentre le figure 5 e 6 illustranocome calcolare le radici quadrate dei primi numeriinteri. Non solo le piramidi, ma anche le loro rappresentazio-ni antropomorfiche ne sono una prova; il corpo umanoviene raffigurato in una griglia quadrata di vari moduli(18, 21 e 1/4 o 22 che siano): il “Canone”. E viene‘costruito’ con questi. Una volta stabilito il formatodella statua, gli artisti potevano dividersi il lavoro ericomporlo ad operazione finita: è fin troppo famosol’aneddoto degli scultori Teleghes e Teodoros per citar-lo ancora una volta. È noto che a Pitagora viene attribuita la scoperta deirapporti matematici che regolano i suoni. Pitagorariuscì cioè a legare tra di loro l'aritmetica e la musicaattraverso il numero. Fu una grandissima scoperta,destinata ad accompagnare il pensiero occidentale perdiversi secoli3. Il fascino esercitato da questi rapportisemplici (1:2, 1:3, 1:4, 2:3, 3:4) fu enorme.

LE PROPORZIONI: UN CAMPO DI DEFINIZIONE

1 La sistemazione di queste definizioni ha un grande debito verso Eugenio Battisti. Rispetto al suo saggio Un tentativo di analisi strutturale delPalladio tramite le teorie musicali del Cinquecento e l’impiego di figure rettoriche, in “Bollettino Centro Internazionale Studi Andrea Palladio” n.XV, 1973, pp. 211-232, mi permetto di dissentire, con umiltà e rispetto, sull’accezione “D”, laddove suggerisce un’interpretazione del terminemolto seducente, ma che a mio avviso rientra in tutt’altro settore: quello della composizione. Creare uno spazio ed un tempo artificiali, suddivi-dere il continuo, fornire pause, istituire ritmi, sono infatti operazioni che possono eseguirsi usando il proporzionamento, ma non sono, ipso facto,proporzioni. 2 Per un’opinione probabilmente diversa si veda ad esempio: Sala, N., Cappellato, G., Viaggio matematico nell’arte e nell’architettura,Presentazione di Mario Botta, Franco Angeli, Milano 20033 Cfr. La “Grande Teoria” di Tatarkiewick, in: Tatarkiewick, Storia di sei idee, Aesthetica, Palermo 1993

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Le proporzioni: un campo di definizione

trano in quest’accezione le griglie: penso in particolarmodo allo sviluppo ad quadratum e ad triangulum.Vediamoli più da vicino.Un primo tracciato regolatore che possiamo immagina-re è costituito da una successione di quadrati in mutuarotazione di 45°. Nel Medioevo veniva indicato con svi-luppo ad quadratum. Può essere usato, ovviamente, siain pianta che in alzato. Torneremo a parlare di questo procedimento nellasezione riservata alle proporzioni come sistema dimisura. [Fig. 11]Un altro tracciato è quello costituito dal cosiddetto svi-luppo ad triangulum. È famosa l’immagine del traccia-to ipotizzato per il Duomo di Milano. [Fig. 47]Infine, ecco due tracciati ancora basati sul quadrato:√2 e Ø.Come si può vedere, il rettangolo è costruito a partiredal quadrato. Una volta costruito questo, i due lati delrettangolo sono in rapporto di 1: √2, che sembra esse-re uno rapporti più gradevoli all’occhio umano per unrettangolo. [Fig. 7]Ecco un’altra costruzione basata sul quadrato: Ø. L’ab-biamo già incontrato sopra. È il famoso numero aureo.I lati del quadrato e del rettangolo sono questa volta inrapporto di 1: 1.618. [Fig. 8] Vi sono ovviamente altri tracciati e schemi, tra i quali viè tutto un sistema investigato da Robert Krier che sifonda su analogie stellari, piuttosto complesse7. [Fig. 9]Vorrei però soffermarmi un attimo sulle Figg. 10 e 12. Laprima illustra il procedimento necessario per tracciareuna voluta ionica: ancora meglio: una delle due spiralinecessarie per il listello della spirale. Infatti quest’ulti-ma è composta da due spirali, parallele solo per un trat-to e poi convergenti fino ad assottigliarsi finemente nel-l’occhio centrale. La figura 12 illustra invece il traccia-to regolatore della Postparkasse di Wagner, così beneillustrato da Leoncilli Massi (Leoncilli Massi, 1985), cheserve appunto ad or(di)nare la facciata, ma è anche unmodo per dividere una stessa lunghezza (il lato del qua-drato), una volta in 4 parti ed una volta in 5.

e) Proporzione come tracciato costruttore.Il quinto significato è simile a quello precedente, ma

attiene solo alla pratica costruttiva. Si sfruttano lecostruzioni geometriche ai fini del calcolo, soprattuttoin vista della stabilità degli elementi. Era necessarionell’antichità per dimensionare e posizionare alcunielementi costruttivi. Penso per esempio al modo dideterminare lo spessore dei piedritti degli archi finoalla scoperta e alla matematizzazione del nocciolo cen-trale d’inerzia. [Fig. 13]Torniamo al quadrato e ad una sua piccola variazione:il quadrato inscritto in un altro quadrato. [Fig 11]Il quadrato inscritto ha una superficie pari alla metà diquello più grande. Sembra che tale procedimento fosseusato appunto come sistema di calcolo nell’antichitàper ottenere un chiostro con un’area dimezzata rispet-to ai corpi di fabbrica che lo delimitavano (Cfr. Villardde Honnecourt). [Fig. 14]Un altro celeberrimo esempio è il triangolo isiaco. Nonsolo questo triangolo ha i lati in successione naturale:3, 4, 5, ma la sua area è uguale a 6. Inoltre l’angolo trai cateti è retto. Viene usato ancora oggi, appunto, pertracciare un angolo retto sul terreno. [Fig. 1] Infine,uno sguardo alla Fig. 4: un modo basato su pochissimecostanti geometriche per trovare i centri degli archiche formano una volta a campate disuguali.

f) Proporzione come modulo-oggetto: il piede, la ratapars.Il sesto significato è quello del modulo-quantità, laparte, il piede. L’opera intera deve essere “commodu-lata” (è Vitruvio a parlare) ad una “rata pars”, che pos-siamo far corrispondere al semidiametro della colonnaall’imoscapo. [Fig. 48] La symmetria vitruviana (stessometro, stessa misura), è basata su questa commodula-rità. Il modulo-oggetto riassume in sé sia il tracciatoregolatore sia quello costruttore. Forse questa è la sedepiù opportuna per introdurre una prima distinzione trasymmetria ed euritmia. La prima indica una corrispon-denza metrica, misurabile. La seconda attiene solo arapporti qualitativi tra gli elementi (buon ritmo).Nel tempo quest’accezione di modulo-oggetto è stataripresa sia dagli architetti rinascimentali (pensiamoper esempio a Brunelleschi ed al suo modulo, o a Mili-zia), sia da quelli più vicini a noi.

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Le proporzioni dimenticate. Leoncilli e la necessità dell’inattuale.

I Greci erano capaci di una costruzione geometrica chedava luogo a tre segmenti le cui lunghezze erano equi-valenti alle corde che oggi chiameremmo "do", "mi", "la"(Bodei, 1995)4. Era così possibile tradurre l’intelligibilenel dominio del sensibile. Platone arrivò, nel Timeo, a dare ai numeri 1, 2, 3, unavalenza "sacra", schematizzandoli in una sorta di pira-mide, chiamata poi lambda (perché simile al caratteregreco). Eccola:

12 3

4 98 27

È basata sui quadrati e sui cubi dei numeri 1, 2 e 3.Infatti, 2 elevato al quadrato dà 4, ed elevato al cubodà 8. Lo stesso discorso vale per il numero 3: 3 al qua-drato dà 9, e 3 al cubo dà 27.Ancora, veniva riconosciuto come sacro (o comunquemagico), il triangolo di lati 3, 4, 5. Oltre alla semplici-tà della serie dei suoi lati, la sua area è uguale a 6. Lotroveremo ancora nella sezione dedicata ai tracciati“costruttori”. [Fig. 1]

b) Proporzione come uguaglianza di due rapporti(es.: 3:4=6:8)Il secondo significato costituisce già un piccolo slitta-mento rispetto al punto precedente. Infatti il primo silimita a godere di un rapporto semplice tra due entità.Ma in senso proprio, la proporzione è analoghia (Aristo-tele): l’uguaglianza di due rapporti, e quindi presuppo-ne almeno 3 entità diverse, se non 4. È proprio Palla-dio, nel suo trattato, probabilmente guidato da Trissi-no, a formulare la distinzione tra rapporto e proporzio-ne.Tuttavia questo concetto di proporzione rimane moltolegato alla sua correttezza matematica. In architettu-ra, vedremo che furono solo due (probabilmente), gliarchitetti in grado di comporre secondo questo proce-dimento: Alberti e Palladio. Alberti divide le aree (superfici) in tre categorie: corte,medie e lunghe, cercando sempre un’interrelazione tra

un’area corta ed una media, tra una media ed unalunga. Siamo quindi nel campo delle variazioni e delleiterazioni di gnomoni.Il rapporto è tra due aree e non più tra due numeri olinee. Maria Karvouni lo spiega nel suo saggio, all’inter-no del catalogo pubblicato in occasione della mostra suLeon Battista Alberti, tenuta a Mantova nel 1994. Palladio si differenzia dall’Alberti anche per una rinun-cia alla consonanza dei rapporti semplici, per arrivarea dei rapporti poco musicali, come 5:12, 28:43, ecc. Ilche si spiega, almeno parzialmente, con il fatto chePalladio usasse rapporti musicali e che la teoria musica-le all’epoca avesse accettato come armonici alcuni rap-porti prima non tollerati.

c) Proporzione come serie numerica: la serie di Fibo-nacciIl terzo significato è costituito dalle serie numeriche.Una serie numerica è una lista di numeri (es: 1, 3, 5, 7,...), la cui ragione (in senso matematico), è facilmenteindividuabile. La ragione è il rapporto tra due terminiadiacenti5. La più conosciuta è probabilmente la seriedetta del Fibonacci: 1, 2, 3, 5, 8, 13, 21, 34, 55, 89 …La ragione tende a 1,618: Ø, il Numero d’Oro. Il proble-ma della Sezione Aurea è stato posto per la prima voltada Euclide in più passi dei suoi Elementi, definendolomedia ed estrema ragione di un segmento. La sua for-mulazione numerica ha una corrispondenza geometricache vedremo nella sezione dedicata ai tracciati regola-tori. [Fig. 24]Il rapporto tra due grandezze che porta al numero1.618 è stato definito da Pacioli come Divina Proportio-ne. Esso sembra in effetti riunire in sé tante proprietà(il solo Pacioli ne conta 13 nel suo testo), e matemati-camente è in effetti una sorta di numero magico6.

d) Proporzione come tracciato regolatore.Il quarto significato è quello riconducibile ai tracciatiregolatori. I tracciati regolatori sono sistemi pretta-mente geometrici destinati ad ordinare la composizio-ne, sia di un’opera d’arte che di un’architettura. Rien-

4 La costruzione è molto semplice e dà luogo al triangolo rettangolo 3-4-5. Infatti, la lunghezza delle corde delle note “do”, “mi”, “la”, stanno nelrapporto di 5:4:3.5 Le serie numeriche sono infinite (non sono un matematico: il termine “infinite” va preso nell’accezione più comune) e ne esistono molte difamose.6 Cfr. Mario Livio, La sezione aurea. Storia di un numero e di un mistero che dura da tremila anni, Traduzione di Stefano Galli, 7 Rob Krier, Architectural Composition, Academy, London 1988

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LE PROPORZIONI NELL’ARCHITETTURA: LIMITI E PRESUPPOSTI

“Il compasso, nelle mani del dotto, non si ribella” R. Witttkower

g) Proporzione come analogia formale: la geometriacomplessa.Recentemente si è sviluppata un’architettura che faricorso a tecnologie modernissime, sia in fase di dise-gno (di concezione), che di realizzazione, per approda-re a risultati formali alquanto originali. Mi sia consenti-to, per ora e per semplicità, di chiamarla “decostrutti-vista”. È una generalizzazione brutale: serve solo aclassificare in un’unica categoria gli aspetti formali diarchitetture di Gehry, Eisenman, Fuksas, Hadid, ecc.

La geometria che è chiamata in gioco è quella del caos,la geometria non euclidea, ed anche la geometria frat-tale.Ormai si tende a parlare di proporzioni o di matemati-ca in architettura anche in casi in cui la matematica èpiuttosto complessa (cicloidi, cissoidi, concoidi, para-boloidi, ecc.), e quindi non proprio alla portata di tutti.La figura 15 rappresenta il frattale denominato “Curvadi Koch” che, come è facile indovinare, si basa un algo-ritmo ricorsivo.

Quando ci si accinge a studiare un’opera sotto il profi-lo delle proporzioni, ci si imbatte subito in un bivio,definito per intersezione dall’opera stessa e dalla cono-scenza che ne abbiamo. Ci sono due possibilità.Nella prima noi sappiamo quale è stato il principio geo-metrico che ha guidato l'opera. Comprenderlo, ripren-derlo, ripercorrerne lo sviluppo, il suo complicarsi, ilsuo risolversi in forme ben determinate è senz'altroutile. È il caso del prospetto della Villa Stein a Garchesdi Le Corbusier o della Casa del Fascio di Terragni, peresempio. La ricerca va poi ulteriormente raffinata,sempre in questo ambito, differenziando fra tracciatiregolatori usati solo in alcune fasi (i singoli prospetti: lafacciata principale della Villa Stein a Garches), e quel-li usati per l’intera costruzione (il tempietto del Bra-mante a Roma). [Fig. 16]Nella seconda possibilità noi non sappiamo con certez-za attraverso quale schema e quale principio l'opera èstata compiuta, e proiettiamo su di essa delle interpre-tazioni geometriche che spesso sono fuorvianti perchéfrutto di nostre elucubrazioni e idiosincrasie. Poiché,come dice Wittkower, "Il compasso, nella mano deldotto, non si ribella"8 , non è difficile applicare a delleopere (con tutto il margine d'errore che essi accumula-

no nella fase di riproduzione), i tracciati regolatori piùimpensabili9. Si vedano (un esempio per tutti), gliimpraticabili tracciati riportati da Krier, nella scia diMoessel, per l’impaginato delle chiese gotiche10. [Fig. 9]"Il povero, vecchio Partenone (è sempre Wittkower aparlare), è stato ricostruito in base alla sezione aurea,alla radice di cinque, alla radice di due, ai numeri sem-plici, ai moduli delle colonne, tenendo conto delle cor-rezioni ottiche e non. È stato vivisezionato, analizzato,smontato...”. È del tutto evidente invece che un’operapuò essere stata pensata e costruita con uno o due diquesti schemi, ma non con tutti contemporaneamente.Spesso le “interpretazioni” sono compiute su fotografie(nemmeno riproiettate in piano), con le delle scale divisualizzazioni impensabili per un serio esercizio erme-neutico. Infine, in alcuni casi più complessi, nel qualesi è persa la riconoscibilità originaria dell’opera, siapplicano dei tracciati a delle costruzioni che sono ilfrutto della sedimentazione secolare di aggiunte, rimo-zioni, pentimenti, ecc.11

Occorre dunque in questo caso una particolare serietàed onestà intellettuale.Nella stessa direzione cautelativa è da intendere que-sto passo del Summerson: “Molte pretenziose inesattez-

8 Rudolf Wittkower, Principi architettonici nell’età dell’Umanesimo, Einaudi, Torino 1994, p. 1239 Si veda per esempio il saggio di Jean Guillaume Désaccord parfait. Ordres et mesures dans la chapelle des Pazzi, in “Annali d’architettura”, n. 2,1990, pp. 9-23, dove si demoliscono alcuni miti della Cappella Pazzi. Dal 1867 al 1977 si sono avute più di 17 letture proporzionali della cappella,alcune delle quali incompatibili tra loro. E basate tutte sul rilievo di Stegmann e Geymüller, al quale è accordato ormai un errore di 45 cm.10 Robert Krier, Architectural Composition, Academy, London 198811 È lo stesso errore epistemologico che guida la redazione di piani regolatori che vogliono, una volta per tutte, fissare il disegno di una città, atempo indeterminato, o che fanno sì che nelle operazioni di restauro si immagini spesso un edificio unitario nella sua concezione e realizzazione,quando unitario non è, né nella concezione, né nella realizzazione.

Le proporzioni: un campo di definizione

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Le proporzioni dimenticate. Leoncilli e la necessità dell’inattuale. Le proporzioni: un campo di definizione

ze sono state scritte sulla proporzione e non intendosoffermarmici. Il concetto rinascimentale è molto sem-plice. Scopo della proporzione è di ottenere l’armoniaattraverso una struttura: un’armonia resa intelligibilemediante l’uso manifesto di uno o più ordini come com-ponente dominate, oppure soltanto mediante l’uso didimensioni che implicano la replica di semplici rappor-ti. Questo è sufficiente per consentirci di proseguire.”(Summerson, p. 5)Le sette accezioni prodotte prima non suddividonoovviamente il tema delle proporzioni in compartimentistagni. Direi piuttosto che possono costituire una grigliadi lettura “trasversale” rispetto all’opera architettonica.

Assi epistemologici.Perché si sono usate le proporzioni nella storia dell’ar-chitettura? Perché hanno avuto così ampia diffusione? Ecome è possibile, di conseguenza, studiarle?Credo che sia possibile indicare due assi epistemologiciprincipali attraverso i quali esaminare l’uso e la fre-quenza delle proporzioni nella storia dell’architettura.Il primo è quello fondato su criteri “estetici”. Il secondo asse è quello delle necessità costruttive.

A) "Grazie ai numeri tutto diventa bello."La citazione è di Pitagora, ma è lecito presumere cheessa riassuma in sé tutta una cultura basata sul nume-ro, sulla geometria, sulla matematica. Queste materiesono il fronte più avanzato di un’attività speculativaintensissima, che trova una corrispondenza forse solonell’elaborazione di dottrine filosofiche e politiche dialtissimo livello.La produzione intellettuale di questi autentici “mostri”del pensiero è impressionante: penso per esempio aPitagora, Euclide, Talete, Anassimandro, e ovviamentea Platone ed Aristotele.È in Grecia che trovano formulazione esatta i concettidi euritmia e di simmetria, ribaditi poi da Vitruvio (conqualche difficoltà), nel suo trattato12.

Nel corso dei secoli queste teorie si sono ibridate anche

con la religione, con la teologia, con la numerologia,con il misticismo, con l’esoterismo. Non dimentichiamoche nell’architettura “classica”, calcolare, costruire ecomporre si fondevano in un unico atto, nel logos geo-metrico. Ricordiamo per esempio la figura della tetrak-tis, costituita da sei punti formanti un triangolo equila-tero e la densità dei concetti che rappresenta: i priminumeri naturali, il triangolo equilatero, i rapporti tra inumeri semplici, ecc.Nella cultura greca prima e latina poi le proporzionisono il legante tra spazio, matematica, musica, cosmo-logia e probabilmente molto altro13.Si pensi dunque allo choc che può aver creato lo scopri-re che la diagonale del quadrato era incommensurabilecon il suo lato. Si dice che un adepto della setta di Pita-gora sia stato ucciso perché aveva divulgato il famosis-simo teorema (il quadrato costruito sull’ipotenusa èuguale alla somma dei quadrati costruiti sui cateti). Le teorie poste dai greci hanno esercitato il loro fasci-no fino ai nostri giorni, passando anche attraverso lerielaborazioni medievali, tese ad un misticismo estre-mo. Anche nella modernità, infatti, queste teoriehanno costituito terreno su cui si sono confrontategrandi intelligenze. Ricordo la polemica, a mo’ didigressione, tra Le Corbusier e Gino Severini14.O si legga, tra tanti, questo passo di George Santayana:“In altri casi la simmetria ci attrae per il fascino delriconoscimento e del ritmo. Quando l’occhio corre aduna facciata e trova gli oggetti che lo attraggono adintervalli uguali, sorge un’attesa nella mente, comequando si attende una nota inevitabile o una parolanecessaria, e se ciò non avviene si verifica una forteemozione. Questa emozione, quando è causata dall’ap-parizione enfatica di un oggetto interessante, producel’effetto del pittoresco; ma quando avviene senza alcu-na compensazione, ci dà la sensazione della deformitàe dell’imperfezione – difetto questo che la simmetriaevita. […] Non è un fascino avventizio; ma nel suo con-tinuo passare sull’oggetto, l’occhio trova sempre lastessa risposta, la stessa adeguatezza; e il processostesso della percezione diventa piacevole in virtù del-

l’attitudine stessa dell’oggetto ad essere percepito.Grazie a questa fusione, le parti formano un solo ogget-to, la cui unità e semplicità si fondano sul ritmo e lacorrispondenza dei suoi elementi. […] L’occhio non è ingrado di abbracciarle in un colpo solo, e non riceve lasensazione di riposo dell’equilibrio degli estremi, tantoche la somiglianza meccanica delle sezioni, osservate insuccessione, dà l’impressione di un’insensata povertàdi risorse. La simmetria perde dunque il suo valorequando, a causa della grandezza dell’oggetto, non puòcontribuire all’unità della nostra percezione. La sintesiche essa procura deve essere istantanea15.”

B) Necessità costruttive. Il secondo asse è quello delle necessità costruttive. Ineffetti si tende sempre a “sorvolare” infatti su quali fos-sero le “condizioni al contorno” nel momento in cui sicostruivano il Partenone o la Cattedrale di Nôtre Dame.Ma se non si conoscono le tecniche costruttive medieva-li, si ignorerà di certo perché il triangolo equilateroavesse una così ampia diffusione, per esempio16. [Figg.4, 17, 18, 22, 23] Molte di quelle semplici figure geome-triche hanno la loro giu-stificazione proprio nellasemplicità dell’uso enella loro potenza ordi-natrice e di controlloformale [Figg. 49 - 53].Elaborare poi teoriemistiche ed esoteriche agiustificazione della suafrequenza diventa quasiun esercizio accademi-co, se non una banalità.

A maggior sostegno di questo fatto si consideri inoltreche geometria e calcolo (anche calcolo strutturale)erano la stessa cosa (o quasi) fino all’avvento di vonNeumann17. Le proporzioni godono inoltre della pro-prietà di potersi svincolare dalle contingenti unità dimisura locali, astrarsi dal piede romano o dal bracciofiorentino: le proporzioni come strumento di rilievo e diprogettazione “internazionale”, diremmo oggi.Alcune regole di proporzionamento venivano pubblica-te proprio per consentire agli architetti meno versatinella professione di poter produrre, con ragionevolecertezza, delle opere comunque soddisfacenti. Le teo-rie estetiche, la “sprezzatura” di cui parlava LeoncilliMassi, la grande cultura architettonica, trovano qui illoro risvolto prosaico.

Non sempre è facile districare queste linee interpreta-tive, nella stessa opera. Anzi, non credo che esistaun’opera “pura”. Spesso, a ragioni eminentementecostruttive si è giustapposta una teoria teologica, ealtrettanto spesso questa ha acquistato più forza dellaprima. Tracciati nati per ragioni eminentemente esteti-

che si sono rivelati otti-mi tracciati “costrutto-ri”, e così via. Fabbri-che complesse, conce-pite e iniziate in basead uno schema geome-trico sono state abban-donate e magari ripresecon tutt’altro schema eteoria. Penso come casoeclatante al Duomo diSiena.

12 Per l’ampiezza del termine si veda per esempio anche questo passo di Quintiliano: “Anche i movimenti del corpo composti e armoniosi, ciò chei greci definiscono euritmia, sono indispensabili e non possono essere attinti se non dalla musica …” (Quintiliano, 2001, p. 135)13 Cfr. La “Grande Teoria” di Tatarkiewick, in Storia di sei idee, Aesthetica, Palermo 199314 Sia consentito il rinvio alle pagg. 58-59 e alle note ivi presenti, in La leggenda del comporre, di Leoncilli Massi, dove meglio è chiarita la gran-dezza di Severini rispetto a molti epigoni del moderno.

15 Cfr. George Santayana, Il senso della bellezza, Aesthetica, Palermo 1997, pp. 89-9116 Cfr. Roland Bechmann, Le radici delle cattedrali. L’architettura gotica espressione delle condizioni dell’ambiente, Marietti, Casale Monferrato1984 17 Cfr Salvatore Di Pasquale, L’arte del costruire. Tra conoscenza e scienza, Marsilio, Venezia 1996 e Alberto Pratelli, Il disegno di architettura. Trechiese del bolognese, CHARTA, Milano 1995

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L'AntichitàSembra che la geometria sia nata per ragioni prati-che18. Erodoto afferma che fosse stata la necessità diristabilire i confini dopo le inondazioni del Nilo a spin-gere gli uomini a teorizzare: a geometrizzare. La rettanon era altro che l’astrazione di una corda tesa. Nellacorda convivono il metro di paragone e la lunghezzadella cosa da misurare. Ritengo quindi in tutta umiltà,contrariamente a Bodei (Bodei, 1995), che la successio-ne suono-spazio vada invertita e che prima si elaborò ilconcetto spaziale e poi quello musicale. Armonia esimettria si applicherebbero quindi a mondi diversi, apratiche diverse. La simmetria è dunque una commisu-razione numerica e presuppone una modularità tra leparti, dove non vi siano resti inferiori all’unità. “Sim-metrico è ciò che è misurato dalla stessa misura”, diceAristotele. E dunque è possibile una distinzione tralinee e superfici. Platone parla infatti di “linee nonsimmetriche” per la loro lunghezza, ma “simmetriche”per quanto riguarda le superfici che possono formare.L’armonia sarebbe nata in ambito musicale, definendooriginariamente l’intervallo tra i suoni, e poi la conso-nanza degli accordi. Simmetria ed euritmia si appliche-rebbero invece all’ambito spaziale. Lo choc culturaleprodotto dall’incommensurabilità di alcuni enti (latodel quadrato e sua diagonale, per esempio), fu succes-sivo anche alla teorizzazione del numero, associati aglielementi geometrici. Lato e diagonale avevano sempreconvissuto “pacificamente” e la loro incommensurabili-tà (o meglio: asimmetricità, come avrebbe detto Ari-stotele), esplose quando si trattò di definire una corre-

lazione razionale, divisoria: speculativa. L’incommen-surabilità ha cioè bisogno, a mio avviso, di essere dimo-strata attraverso un procedimento matematico, senza ilquale permane come velata da un’evidenza visiva, chela nasconde ai più.Questa scoperta fu così pericolosa che all'inizio se nevietò la divulgazione: l'incommensurabilità di alcunioggetti evocava lo spettro di una ricaduta nell'informe,nell'illimitato: l’apeiron. Questo problema, che non erapiù solo matematico, come si può intuire, fu risoltomagistralmente da Pitagora proprio attraverso quel"banalissimo" teorema che tutti apprendiamo alle ele-mentari. La grandezza fu proprio nella potenza delladimostrazione. Non solo fu risolto il problema dellacommensurabilità tra numeri irrazionali, ma ciò avven-ne attraverso la moltiplicazione di numeri incommensu-rabili tra loro. Vorrei ricordare Aristotele, non perché interessato alleproprietà mistiche dei numeri, anzi, ma per due con-cetti fondamentali nello sviluppo dell'estetica. Il primoè quello di ordine, che egli identifica con la più appro-priata disposizione delle parti. A questo concetto diordine egli affiancò anche la moderazione, che fino adallora era stato applicato alla morale, e non alla bellez-za. È l'essenza di quella che diverrà la mediocritas cice-roniana e poi albertiana.L'altro concetto è quello di limitazione (horisménon). Ilconcetto di limitazione permea invero tutta la culturagreca: si pensi al tempio di Delfi e alle sue iscrizioni: “Ilpiù giusto è il più bello”, “Osserva il limite”, “Odia lahybris”, “Nulla in eccesso”. Soltanto oggetti di dimen-

EXCURSUS STORICO

18 Cfr. Paolo Zellini, Gnomone, Adelphi, Milano 1999

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manifestarsi anche in colori presi in sé (negando quindiil valore dato alla composizione), e che la simmetriapuò essere il metro di paragone della bellezza dellesole cose materiali, ma non di quelle spirituali. La bel-lezza non è più quindi un rapporto tra le parti, ma unaqualità delle cose, prese singolarmente. “Tutti, per cosìdire, affermano che la bellezza visibile consiste in unasimmetria delle parti, le une rispetto alle altre e all’in-sieme, […] la bellezza consisterebbe nella loro simme-tria e nella loro misura; […] i bei colori, come la lucedel sole, sarebbero privi di bellezza, perché sono sem-plici e non traggono al loro bellezza dalla simmetriadelle parti” (Enneadi, I 6, I 21-33 e 3, 35)

VitruvioNell’indagare il tema delle proporzioni in Vitruvio miaffiderò al De Architectura nella versione di CarloAmati, curata da Gabriele Morolli22. In effetti il tratta-to vitruviano non è così lineare come potrebbe sembra-re: le difficoltà terminologiche già evidenziate dall’Al-berti e affrontate anche in un saggio da Gioseffi (Gio-seffi, 1976) non sono state ancora del tutto risolte,mentre invece potrebbero apportare un notevole con-tributo di chiarezza nel rapporto tra Vitruvio e la cultu-ra greca.In Vitruvio lo studio delle proporzioni deriva dallo stu-dio della più bella macchina che la natura abbia maicomposto: l'Uomo. L'immagine sintetica di questo con-cetto è il famosissimo homo ad circinum et ad quadra-tum, che dunque, detto di passaggio, non è invenzioneleonardesca. Non si può comunque non convenire conMorolli quando dice che la rete di rapporti proporziona-li che si riscontrano nel corpo umano si vogliono,appunto, riscontrare23.I numeri che più ricorrono in Vitruvio sono il sei, il diecie il sedici24. Il sei perché l'uomo è alto sei piedi, il dieciperché ha dieci dita e il sedici perché è la somma didieci più sei. Trova luogo anche una sezione aurea piut-tosto approssimata, derivante dal rapporto tra sedici edieci, piuttosto che dalla costruzione geometrica. Il prag-matico spirito romano poteva tranquillamente tollerarequest’approssimazione, così come quella che assimilava

la diagonale del quadrato di lato 5 al numero 7.Trovo molto interessante la distinzione che Morolli fatra le sei categorie di cui consta l'architettura vitruvia-na: la ordinatio (il tracciamento dei singoli membridella fabbrica), la dispositio (la rappresentazione),l'euritmia (l'armonia), la symmetria (la commensurabi-lità), il decor (il decoro), la distributio (l'amministra-zione del cantiere), anche se permane qualche perples-sità, soprattutto per quel che riguarda proportio esymmetria: egli difatti approfondisce la questione piùavanti. Si potrebbe anche avanzare un'altra ipotesi per ciò checoncerne la differenza tra i due termini, che tra l'altroMorolli stesso suggerisce a pag. 24, quando parla di un"iter creativo" relativo ad una fabbrica privata.La proportio, più che essere una categoria affine aquelle presentate prima, a me pare essere uno deiprimi atti ideativi del processo progettuale, e cioè unatto di "messa in scala", di pertinenza di misure. Nellostesso tempo un atto di verifica, di corrispondenza, chein ciò riesce ad integrare la commodularità tra le parti.Se è vero che i singoli componenti del tempio eranoconcepiti in base ad un modulo comune, il difficile nonera appunto il realizzare questi elementi, ma l’inte-grarli in una costruzione spaziale coerente. Vitruvio èun architetto: sa che l'idea di un edificio sorge nellamente con delle dimensioni che possono sì variare, maall'interno di certi limiti di oscillazione. Il primo attoideativo, o uno dei primi, è fissare una scala, un campodi misure, di operatività: di costruttività. Nessun archi-tetto, per tagliar corto, immagina un ponte25 lungo1000 metri, ma lo fa entro una fascia dimensionale che,anche se inconscia ed imprecisa, è più "naturale".Esemplificando: un conto è, fissato il tipo di tempio chesi vuole costruire, farlo su una lunghezza del fronte di30 metri e un altro è farlo per un fronte di 90. Un altroancora è realizzare, fissata la dimensione del fronte, untempio tetrastilo picnostilo (a quattro colonne con unintervallo stretto tra di esse) ed un altro è, sempresulla stessa dimensione, un esastilo picnostilo monotri-glifico (a sei colonne con un solo triglifo tra colonna ecolonna). "Tutto varia colle dimensioni..." dice Fedro a

sioni limitate possono essere facilmente afferrate dallosguardo e quindi procurare diletto. Nella Poetica egliusa addirittura un termine particolare, l'eusynopton,per indicare ciò che può essere facilmente afferratodalla vista, ribadendo ancora una volta, se ce ne fossestato bisogno, l'importanza dell'unità nell'opera d'ar-te.19 Non ci può essere limitazione senza misurazione.Ecco perché è ancora Aritotele ad insistere su questoconcetto nella Metafisica: “Il rapporto, la misura dellegrandezze spaziali è fondato sulla divisibilità dellegrandezze stesse. Tale divisibilità fa sì che fissataun’unità di misura, ad ogni grandezza spaziale si possafar corrispondere un numero. Anzi si possa sostituiread essa nella considerazione delle sue proporzioni, ilnumero e la misura.” Bisogna cogliere lo sforzo diastrazione che è necessario per sostituire allo spaziofisico la sua misura, in un mondo dove l’architetturaera ancora basata sul modulo come quantità, comevero e proprio oggetto.Vitruvio riferisce che Pitagora avesse mostrato la possi-bilità della costruzione di un angolo retto senza farricorso a strumenti, e quindi senza fare errori. Probabil-mente è il triangolo "3-4-5", conosciuto anche dai nostrigeometri. Un triangolo che abbia per lati queste misurecontiene un angolo retto: è sufficiente quindi prendereil doppio-decametro, bloccarlo sui 12 metri (3+4+5), fis-sare una prima linea ed un punto a 3 metri e un altro a7 metri per ottenere il triangolo retto. [Fig. 1] L’altra proprietà che probabilmente deve aver colpitogli antichi e che effettivamente mantiene un certofascino anche oggi è che l’area di questo triangolo èuguale a 6. Sappiamo tuttavia che già almeno 1000 anniprima di Pitagora i babilonesi conoscevano delle ternedi numeri esprimibili così: a2+b2=c2 (es.: 32+42=52).Per quanto riguarda la figura umana presso i greci, sap-piamo che Policleto aveva elaborato un canone, manulla ci resta dei suoi scritti: dobbiamo "limitarci" quin-di alla statuaria e al resoconto di storici antichi. I maggiori studiosi concordano nel vedere il "Doriforo"come l'esemplificazione del suo "canone", basato, sem-bra, sui rapporti matematici in ragione di Ø (phi),

riscontrabili nel corpo umano. [Fig. 20] Introduciamoqui il numero aureo Ø, che comunque riprenderemo piùdettagliatamente in seguito. Il problema è stato postoda Euclide, per quanto ne sappiamo, in questi termini:come posso dividere una retta in due parti in modo cheil rettangolo costruito con la retta stessa e la parte piùcorta sia uguale al quadrato costruito sulla parte rima-nente?20

È evidente infatti che vi possono essere infiniti modi didividere in due una lunghezza data, ma solo una puòsoddisfare quelle condizioni poste. Tornando ai canoni, non dobbiamo confondere quelloegizio e quello greco. Il primo, come già accennatoprima, era rigido e immutabile. D'altra parte sarebbedifficile immaginare come prodotto di una stessa cultu-ra estetica le piramidi da una parte e una statuaria pla-stica, come sarà invece la greca classica, dall’altra. Ilcanone greco era molto più vitale e dinamico di quelloegizio. Policleto avrebbe inteso, in questo senso, fissa-re le misure di una persona normale, ma lasciando libe-ro lo scultore di variarle caso per caso. I greci nonavrebbero mai accettato un canone che non tenesseconto del punto di vista soggettivo: ecco perché le cor-rezioni ottiche non solo erano tollerate, ma facevanoparte integrante di quest'antropometria.Questo collegamento tra unità, bellezza, visione,viene ribadita anche da Leon Battista, nel De Re Aedi-ficatoria:“Se l’altezza delle pareti è esagerata, si faranno aderi-re ad esse delle cornici, o vi si dipingeranno delle lineedivisorie, onde a determinati livelli tale altezza vengascompartita. Se invece una parte è troppo estesa in lun-ghezza, si erigeranno dalla sommità alla base dellecolonne, non troppo vicine tra loro, bensì piuttostodistanti. In questo modo lo sguardo potrà fermarsi eriposarsi, quasi offrendoglisi dei luoghi di sosta oveposarsi ed essere così meno infastidito dalla vastità del-l’ambiente.”La critica ad una concezione della bellezza, ancora pro-fondamente pitagorico-platonica21, arriva con Plotino,in età tardoantica. Egli afferma che la bellezza può

19 Il concetto di eusynopton richiama alla mente la definizione di simmetria che dà Pascal nei suoi Pensieri: “Simmetria è ciò che si coglie in un solcolpo d’occhio”. Nonostante l’evidenza della frase, ritengo tuttavia che Pascal alludesse qui al “cogliere” tutto intellettuale, e non alla meraampiezza del cono visivo: cogliere nel senso di comprendere. 20 Il modo di porre il problema ha la sua importanza, non solo dal punto di vista della storia della cultura, ma anche per definire il problema. 21 “[…] trovandosi tutte le cose nel disordine, il dio introdusse in ciascuna in rapporto a essa stessa, e nelle une in rapporto alle altre, delle simme-trie. E queste erano quanto fosse possibile, e in tutte le cose che potevano comportare rapporti regolari e comuni misure.” (Platone, Timeo, 69b)

22 Morolli, G., (a cura di), L'architettura di Vitruvio. Una guida illustrata, I, Alinea, Firenze23 Sarà proprio un pittore interessato all'uomo, Dürer, a renderlo evidente, con un trattato sulle proporzioni umane, dove la tesi principale è chenon esistono proporzioni universali, ma queste si diversificano in funzione del sesso, per esempio, e poi delle età, e così via. 24 Ouaknin, M.A., I misteri dei numeri, Atalante, Bologna 200525 L’esempio del ponte non è casuale. Tornerà infatti a proposito di Palladio e di Galileo.

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Le proporzioni dimenticate. Leoncilli e la necessità dell’inattuale. Excurcus storico

Il Medioevo"La musica è la scienza del misurare correttamentesecondo un ritmo." (S. Agostino)

Il periodo in esame abbraccia un lasso di tempo che vadal 313 d.C. al 1492, anche se il XV° secolo appartienegià ad un'altra epoca, almeno per quanto riguarda l’Ita-lia centrale. Inizia quindi con l'editto di Costantino econ l'affermarsi della religione cristiana. Con quest'ulti-ma si sviluppa anche un'estetica cristiana, nonostante idiversi punti di vista tra Oriente e Occidente. Il periodo di tempo considerato è talmente ampio chedal punto di vista architettonico sarebbe possibile iso-lare diversi stili: bizantino, armeno, carolingio, ottonia-no, romanico, gotico e per ognuno di essi località geo-grafiche dove si è sviluppato più e meglio, fino allamaturità, e dove invece è stato appena un episodio spo-radico. Si impone, anche per l’economia del discorsoche andiamo facendo, una semplificazione e una ridu-zione di tale complessità. Ciò significa ricondurre iltutto ad una distinzione, per quanto ci riguarda, sulletecniche costruttive e sugli spazi costruiti, ignorandoper ora l’apparato decorativo superficiale. Il che con-duce a raffrontare il metodo prevalentemente romani-co di costruire, basato sulla pietra e sul legno, sullamassa e generalmente sugli archi a tutto sesto (anchese il romanico conosceva l’arco a sesto acuto), e quel-lo gotico, basato essenzialmente sulla pietra, sulloslancio verticale e prevalentemente sull’arco ogivale.Non dico ovviamente nulla di nuovo se ribadisco che ilgotico si è sviluppato e affermato di più, e coerente-mente, nel nord dell’Europa, per una serie di ragioniche qui non è il caso di analizzare, ma che hanno la loroimportanza27. Straordinaria appare la capacità del goti-co di servirsi di pochi mezzi con estrema efficacia e diimpostare “a rovescio” il problema dell’intersezionedelle volte, evitando così difficilissimi problema di geo-metria descrittiva e di stereotomia. Si tratta cioè didefinire prima la curva dell’intersezione, e poi dicostruire le volte. Questa linea d’intersezione è sotto-lineata dai costoloni, che sono un vero e proprio ele-mento compositivo, poiché spesso non assolvono a nes-suna funzione strutturale e servono essenzialmente arisolvere esteticamente il giunto tra l’intersezione di

due volte. Gli archi a sesto acuto impostati sui lati dellacampata, sono spesso costruiti secondo lo stesso arco dicerchio, e quindi con la stessa curvatura, modificandosolo al posizione del centro stesso. Le due curve si toc-cano quindi in chiave, e l’arco a sesto acuto è la logicaconseguenza del procedimento. [Figg. 4, 17, 18] Il pro-blema, in questi casi, è trovare il centro O degli archi.Quest’ultimo si posiziona con alcuni passaggi geometri-ci che non è il caso di illustrare qui, ma che credo sipossano comprendere dalle immagini. Il tratto più affa-scinante è che questi passaggi sono tutti realizzati conle misure di quella figura e con pochi archi di cerchio.Entrambi gli stili (romanico e gotico), hanno fatto dellageometria e delle proporzioni sia uno strumento di con-trollo e di verifica che un assioma estetico più o menovincolante. Tuttavia non sempre viene mantenuta unarigida maglia di allineamenti: moltissimi esempi pre-sentano delle irregolarità, non si sa se intenzionali omeno, all’interno di un’impostazione senza dubbioregolare28.La scultura gioca un ruolo importante nella fattura fina-le dell'edificio: sculture, fregi, capitelli lavorati costi-tuiscono spesso l’apparato ornamentale più significati-vo delle chiese del periodo. Tuttavia, tutte le sculturesono subordinate all'impianto architettonico, cosicchéle figure si distorcono, abbandonando di fatto le realiproporzioni. Si vedano i Taccuini di Villard de Honne-court, (anche se egli è già oltre il romanico), dove leforme geometriche sono applicate all'uomo e agli ani-mali, formando configurazioni altamente astratte, sim-boliche. Riconoscere nelle stelle o nei pentagoni diquesti autori degli uomini o degli animali non è possibi-le se non facendo ricorso ad un codice di lettura cheforse abbiamo perduto. Bisogna cogliere qui la differenza tra i due modi, quel-lo greco-romano, e questo, medievale, di collegarestrettamente la geometria all'uomo. Il primo parte dal-l'uomo, e da questo cerca di dedurre rapporti il più pos-sibile precisi e sottili. Il secondo applica e sovrapponeall’uomo, con un movimento rigido, delle forme geo-metriche, alle piante e agli animali. Il processo di ridu-zione a forme semplici, a rapporti geometrici, è porta-to qui all'estremo dell'intelligibilità.Non sembra che fino al 1400 siano venuti alla luce trat-

Socrate nell'Eupalino. Tra l’altro la consacrazione deltempio incide già notevolmente nella scelta dell’ordineda adottare: un conto è dedicare il tempio a Vesta, unaltro a Giove.È vero che il tempio greco nasce come per gemmazio-ne da un modulo quantità, e che quindi non fa altro cheaumentare e complicare la sua intelaiatura di rapporti,ma non credo che Vitruvio sovverta questo modo, quan-to piuttosto che lo integri in un processo leggermentepiù complesso di scomposizione e ri-composizione. Dovendo comporre all'interno di una data dimensione,egli divide questa dimensione per un certo numerointero (la rata pars) e questo diventa il modulo quanti-tativo, numerico, su cui si innesta il modulo oggetto(l'embater). Con questo modulo egli può ricostruire iltempio, essendo sicuro che “i conti”, alla fine, tornino. Si consideri come tra l'altro le correzioni ottiche appor-tate agli edifici facciano "saltare" la symmetria comeesatta commodularità, ma non le proporzioni. Al propo-sito credo di poter portare a sostegno della mia tesianche la discussione sugli "scamilli impares": al centrodel basamento del tempio le colonne sono più cortedelle altre. Il fatto che lo siano di poco non impedisceche la vera "simmetria", la commensurabilità sia sacri-ficata, ma che sia fatta salva la “proportio”26.In una concezione tutta intellettuale, le differenze,anche minime, da una norma assunta come costitutiva,non possono essere accettate. Le "tolleranze", gli erro-ri, appartengono alla sfera dell'esecuzione, e non aquella della concezione dell'opera d'arte. Lo scarto trala scala ottica e la scala costruttivo-geometrica, di cuii greci si erano subito resi conto, era recuperato daquelle correzioni che Vitruvio chiama, con un terminenon privo di fascino, temperaturae.Vorrei segnalare un apporto significativo dato da vander Laan (Laan, 1996), monaco benedettino, architet-to, per ciò che concerne i concetti di simmetria edeuritmia presso i Greci e Vitruvio.

“Dobbiamo fare una chiara distinzione tra due modidi misurare, che i greci definivano con nomi diversi,'euritmia' e 'simmetria', il cui significato ci è statotramandato da Vitruvio. L'euritmia definisce sia leparti dell'edificio sia l'edificio nel suo insieme, rap-

portando l'altezza alla larghezza e la larghezza allalunghezza. Dal canto suo, la simmetria riguarda irapporti tra le parti e l'insieme, così come le partistesse.Nel caso dei triliti di Stonehenge, considerati comeinsiemi primari composti di parti, i due modi di com-porre misure sono chiaramente distinguibili. Ciascunadelle tre pietre ha un'altezza una larghezza e una lun-ghezza le cui proporzioni reciproche determinano laforma della pietra. Inoltre, le altezze della pietra oriz-zontale e di quelle verticali sono proporzionali all'al-tezza totale del trilite, mentre la larghezza di ognipietra verticale è proporzionata alla larghezza totale.Nel primo caso si ha l'euritmia, che è una corrisponden-za formale, mentre nel secondo caso la simmetria, cheè una corrispondenza dimensionale.Perciò l'euritmia indica le proporzioni tra differentimisure d'una singola cosa e la simmetria proporzionitra misure corrispondenti di cose differenti. Inoltre, iltrilite (in quanto insieme) ha una propria euritmia ediviene a sua volta una parte della simmetria di uninsieme più grande - la demarcazione della cella - cheè, una volta di più una parte dell'intero monumento. Laforma definitiva dell'insieme deriva così da una pro-gressione di euritmie, alternate a simmetrie, che ini-ziamo con l'euritmia della parte più piccola e fornisco-no con quella dell'insieme più grande.Partendo da un blocco cubico, che avendo i lati diuguali dimensioni, è privo di euritmia, la forma gia-cente si sviluppa diminuendone l'altezza e simulta-neamente aumentandone la lunghezza e la larghezza,mentre la forma in posizione verticale si trasforma inmodo contrario. Per far sì che il volume resti invaria-to, l'altezza deve cambiare secondo due intervallidella scala di misure, rispetto alle due dimensioniorizzontali. La scala di misure permette di costruirecinque forme distinte, che derivano in successione dauna lastra orizzontale a una in posizione verticale,con il blocco quadrato in posizione intermedia cheesprime la posizione seduta. Quando tali forme ven-gono poste l'una vicino all'altra, si ha tra di esse unnuovo rapporto, una sorta di super euritmia, per laquale i greci usarono il termine thematismos: disposi-zione ordinata di forme differenti.” [Fig. 21]

26 Questa è tuttavia una mia personalissima lettura, messa in dubbio da questo apparentemente anodino passaggio di Quintiliano: “Ma tutto ciò esigeun acuto discernimento, specialmente quando si tratta dell’analogia: termine greco tradotto recentemente in latino con “proporzione”. La suaessenza consiste nel riportare un caso dubbio a ciò che è simile e che non solleva alcuna discussione e nel provare l’incerto con il certo” (Quintiliano,2001, p. 89)

27 Rimando al libro di Bechmann (Bechmann,1984), per una visione d’insieme del gotico.28 La cosa rimane per me misteriosa e affascinante: perché una cultura architettonica capace di creare assoluti capolavori e quindi assolutamentein grado di dominare la geometria si concede il “lusso” di ciò che oggi non possiamo classificare che come errori?

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Le proporzioni dimenticate. Leoncilli e la necessità dell’inattuale. Excurcus storico

cedente è uno spazio teologico: teocentrico. Dio èveramente il centro dell’Universo: è il Creatore, laProvvidenza, il Giudice. I migliori filosofi sono tutti oquasi tutti da annoverare tra le fila dei religiosi: Spa-zio, Cosmo e Dio coincidono.L’infinito è un concetto pressocché impensabile e se èpensabile lo è solo come attributo di Dio. L’uomo havalore come strumento di Dio. È un mondo pieno di sim-boli, di codici.Guardiamo lo spazio architettonico e a come non siaoggetto teoretico. Quello che conta sono i corpi, non lospazio. Pensiamo alla città medievale, ed alla sua lon-tananza con le tavole della città ideale di Berlino.Se facciamo un parallelo con la pittura, ci rendiamoconto che le figure affollano spesso il quadro. Da unpunto di vista dimensionale oggi diremmo che sonosproporzionate. Spesso sono organizzate secondo sche-mi geometrici, e altrettanto spesso secondo schemi ico-nografici. Le figure appaiono rigide, bloccate, pocoespressive: sono eventi religiosi raccontati (le bibbieper i poveri) con chiari intenti pedagogici. Spesso nonvi è paesaggio, non vi è scena. Le persone sono dispo-ste su un fondo (oro per il gotico, di vari colori sumosaico). Quel poco di scena che vi è non è né propor-zionata né costruita secondo una prospettiva regolare.Non vi è spazio vuoto: tutto è riempito e le figure devo-no tutte entrare nel quadro, nella scena, magari anchedeformandosi. Lo spazio vive a spese dei personaggi.L’antichità classica è dimenticata. Dimenticata, proba-bilmente, con il suo paganesimo. Secoli di incuria e didepredazione hanno ridotto il fasto delle costruzionigreche e romane a rovine: il Colosseo è una cava di tra-vertino a cielo aperto. Roma è diventata una piccolacittà basata su un’economia agricola. Il papato stessoha preferito emigrare (per qualche tempo). Anche lacultura tecnica è andata persa. I templi, i palazzi, nonforniscono nessuna indicazione alla tecnologia trecen-tesca. Tra l’altro la trasformazione fisica del territorio(l’edilizia, soprattutto), è lasciata in mano alle mae-stranze, dove forse spicca qualche capomastro di valo-re, ma dove il talento individuale rimane imbrigliato inuna visione collettiva. Le grandi costruzioni, sulla scor-ta di quelle antiche, sono possibili solo a fronte di unacommittenza capace di altrettanta capacità finanzia-

ria. E tale committenza non vi è più: bisognerà aspet-tare l’emancipazione delle corporazioni e delle signorieper tornare ad avere delle committenze che possanocompetere con i modelli dell’antichità. In ambito archi-tettonico l’antichità è dunque un mondo muto.Il problema del rilievo architettonico non si pone, perdiverse ragioni.Primo, ammesso che il passato possa essere visto come“tesauro” da cui attingere, come già detto, non vi sonointelligenze tali da poter carpire eventuali insegnamen-ti. La cultura antica non fornisce nessuno spunto perchéle maestranze sono incapaci di “leggere” la raffinatez-za formale greca e l’arditezza tecnologica romana.Secondo, non vi è il problema della manutenzione deifabbricati antichi: nessuno ha le possibilità finanziarieper permettersi tali operazioni e anche teoricamente ilproblema verrà posto in maniera chiara solo da LeonBattista Alberti.Terzo, vi è il problema della trasmissione. La carta e lastampa non sono stati ancora inventati e la pergamenanon è il supporto migliore per le operazioni di rilievo.Quarto, non sembra vi siano ancora le capacità tecni-che di rappresentazione adeguate per dei rilievi funzio-nali. Il rilievo è ancora lontano dall’essere un disegnoortogonale in scala.Un primo accenno di rilievo architettonico correttocomincia ad esservi nei paesi del Nord intorno al1200

31. Tuttavia questo tipo di conoscenza sembra poi

arrestarsi. Lo ritroviamo invece con tutto il suo vigoreteorico, in Italia, con l’Alberti.Chiudiamo questo paragrafo con un cenno brevissimo aNicolò Cusano, noto soprattutto per il motto “coinci-dentia oppositorum”, che è uno dei personaggi che siemancipa in anticipo dalla concezione aristotelica dellospazio.“Il rifiuto di una gerarchia di valori spaziali è la logicaconclusione di un principio più generale che Cusanopresenta nella sua Docta ignorantia: a chiunque, inqualsiasi parte dei cieli, sembrerà di essere il centrodell’universo. Questa affermazione, nella misura in cuivi è implicata la simmetria sferica dello spazio, è evi-dentemente una rudimentale formulazione del cosid-detto «principio cosmologico» della scienza moderna.”(Jammer, 1966, p. 77)

tati di particolare importanza sull’argomento propor-zioni, o forse sono andati persi. Probabilmente sono esi-stiti dei piccoli manuali specifici, di condotta operati-va, dedicati ad un argomento particolare. Un esempiopuò essere quello che Borsi (Borsi, 1966) riporta inappendice ai suoi appunti sulle proporzioni. Un altropuò essere il più noto Taccuino di Villard de Honne-court.

Con il medioevo nasce un termine nuovo: compositio,che si riferisce alla bellezza formale della struttura.Esso viene usato in origine soprattutto per l'architettu-ra, prima di essere connotato come locuzione essen-zialmente musicale. Si assisterà, per quanto riguardal'architettura ecclesiastica, ad un conflitto tra compo-sitio e venustas, tra chi accetterà solo la bellezza datadalla struttura della chiesa e chi invece vorrà ornare lechiese stesse. Nessuno nega più tuttavia che la bellez-za di un edificio debba dipendere dalla geometria."Nella discussione, che ha luogo nel 1398, gli architettisostengono che nel definire le strutture di un edificio“non c'è posto per la scienza geometrica; la scienzapura è una cosa, l'arte è un'altra” (“scientia geometriaenon debet il iis locum habere et pura scientia est unumet ars est aliud”). Ma l'architetto Mignot, fatto venireda Parigi, la pensa diversamente: “Ars sine scientianihil est”: l'arte senza scienza non è niente. In questadiscussione, gli Italiani rappresentano già la posizionedel Rinascimento, mentre il Francese sostiene la conce-zione tipica del medioevo, per cui innanzi tutto l'arte sifonda sulla scienza e in secondo luogo, questa scienzaè matematica." (Tatarkiewicz, 1979, vol. II, p. 186 ) L'architetto è un grand géometricien et expert en chif-fres (Tatarkiewicz, ivi). Egli innalza i suoi edifici basan-dosi su griglie e leggi geometriche, dimensionando inquesto modo sia la pianta che le sezioni. I procedimen-ti più conosciuti sono due: lo sviluppo ad quadratum equello ad triangulum. Lo sviluppo ad quadratum èmolto semplice, almeno nella sua rappresentazione,poiché non è altro che uno sviluppo di quadrati succes-sivi, l’uno dentro l’altro, ruotati di 45°, che lega e defi-nisce la costruzione nelle sue parti più importanti29.Analogo è lo sviluppo ad triangulum, dove ad ordinare

la composizione non sono più i quadrati ma i triangoliequilateri o isosceli. Quest’ultimo trova una plausibilegiustificazione, più che nelle teorie mistiche e cabali-stiche, nel fatto che fosse particolarmente facile daostruire, in special modo quello equilatero, bastandouna misura a definirlo. Questi due modi di procederecontinuarono a sopravvivere anche in età moderna ecostituirono una base di calcolo per i costruttori deltempo; base che fu messa in dubbio solo con Galileo,che dimostrò l'importanza del fattore dimensionale ascapito di quello proporzionale30.

È necessario illustrare la differenza tra la "quadratura"antica, poi ripresa operativamente nel Rinascimento, equella medievale. Quadratus, ma meglio ancora tetra-gonos, si riferisce a quantità, superfici o volumi, com-posti di quattro parti, corrispondenti a due a due.Quando pensiamo a quadratus riferendoci alle statue,dobbiamo pensare a statue nelle quali le parti del corporisultano composte da più quadranti che si rispondonoa due a due, secondo un chiasmo, e formando ciò che ilatini chiamavano aequilibrium.Altro concetto fondamentale è l’associazione strettache si viene a porre tra luce e spazio, ma su questolascio la parola a Max Jammer: “Quest’apoteosi dellaluce divenne una caratteristica fondamentale del tardoneoplatonismo e del misticismo medioevale. Anche lapiù moderna filosofia naturale del Medio Evo, sebbeneancora antropomorfica a causa della gerarchia di valo-ri inseriti nella natura, accettò la luce come la più“nobile” entità del mondo. Plotino diede l’esempioclassificando la luce come la cosa più alta che esistes-se. Attraverso i suoi vari gradi ed emanazioni di macro-cosmo formò un’unità coerente ed organica. La luce èil mezzo mediante cui l’ordine universale viene mante-nuto. Nella sua più pura realtà la luce è divinità. Secon-do San Bonaventura, Dio è “spiritualis lux in omni modaactualitate”. Le teorie che identificano lo spazio con laluce sotto l’influenza del neoplatonismo e del mistici-smo religioso hanno perciò un carattere essenzialmen-te teologico.” (Jammer, 1966, p. 41)Lo spazio (ma a questo punto direi il mondo), che iltardo Trecento eredita dall’elaborazione filosofica pre-

29 Anche se alcuni indicano con lo sviluppo ad quadratum il semplice accostamento di due o più quadrati, che formano quindi, nei casi più comples-si, delle griglie.30 Una casa di 10 m. di altezza non può avere le stesse proporzioni di una di 100, tanto per banalizzare l'assunto. Rimando comunque al testo di DiPasquale (Di Pasquale, 1996) per un’analisi precisa del problema. 31 James S. Ackerman, Architettura e disegno. La rappresentazione da Vitruvio a Gehry, Electa, Milano 2003, pp. 29 e seguenti

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irrazionali diffusi nella teoria della proporzione rinasci-mentale. È indicativo tuttavia che l'Alberti, nel suotrattato, illustri la costruzione di alcuni poligoni rego-lari escludendo il pentagono, il cui apotema (il raggiodel cerchio inscritto) è incommensurabile con i lati,essendo in rapporto aureo. Alberti e Palladio faranno uso di queste proporzioni,anche se in maniera diversa. Il dato comune è che que-sti rapporti, o proporzioni, sono basati su quantità com-mensurabili e su numeri piccoli. Il motivo dei numeripiccoli ritengo possa spiegarsi con il fatto che la menteumana percepisce e conosce "per differenze". Il rappor-to di 2 a 3 è percepibile: si "sente" la differenza tra ildue e il tre, mentre la differenza tra 18 e 19 non è piùavvertibile. Probabilmente il rapporto di 8 a 9 è l'ulti-mo che possa percepirsi con chiarezza e corrispondemusicalmente ad un tono. Ritengo che l’Umanesimo compia un salto straordinariorispetto alla cultura precedente facendo propri dueconcetti radicali: uno, che l’infinito è possibile; due,che l’uomo può essere messo legittimamente al centrodel mondo. Tutto nasce con una rinnovata fiducia nell’uomo e nellesue potenzialità. L’uomo è al centro della scena e agi-sce. Le sue produzioni intellettuali (l’arte) diventanovalori da difendere e da valorizzare. Il mondo viene inqualche modo de-teologizzato.La percezione della possibilità di uno spazio nuovoporta ad una nuova rappresentazione dello spazio. È lateorizzazione e concettualizzazione di uno spazionuovo che porta alla prospettiva.È il rapporto dell’uomo con l’universo che porta allanuova spazialità. L’Umanesimo postula l'esistenza diuna forma umana perfetta, di una proporzione perfet-ta, calcolabile quindi matematicamente. Alcune diqueste proporzioni, dette naturali, vengono riscontratenel corpo umano, ed a queste proporzioni ci si deveattenere, anche nell'architettura.Lo spazio non è più nemico dei corpi, ma è correlato aquesti. Spazi e corpi sono ora legati in un sistema direlazioni reso intelleggibile dalle proporzioni. Lo spazio

non è più quello ottico-percettivo, ma un’infinità inatto.“[…] Nonostante l’afflato mistico, questa concezionedello spazio è già quella che più tardi verrà razionaliz-zata da Cartesio e formalizzata nella teoria kantia-na.”35

La scoperta dell’infinito da una parte e la necessità diricondurre tutto al corpo umano pone una difficoltà inpiù alle teorie umanistiche. Come coniugare la resextensa con l’uomo? Anche qui mi sembra di poter rin-tracciare nelle proporzioni uno degli strumenti concet-tuali più forti. Nell’Umanesimo tutto diventa rapporto,proporzione, armonia.36Le proporzioni sono il legantetra uno spazio illimitato e la finitezza (ma anche la per-fezione) umana. L’uomo, infatti, è ad immagine di Dio.Le proporzioni sono l’unico modo per rendere finitol’infinito e per renderlo misurabile, intelleggibile.“Quelle cose, dunque, che sono finite, circoscritte erappresentate con figure, possono anche essere com-prese dalla mente” (Harmonices Mundi Liber V, Keple-ro)37

Intorno al 1400 avviene un fatto importantissimo, unacesura epistemologica: l’architettura passa da discipli-na costruttiva ad oggetto teoretico, speculativo. Conl’Umanesimo l’architettura si affranca e diventa arteliberale: l’emancipazione avviene attraverso il calcolo,la musica, le proporzioni. L’artefice di punta sembraessere Brunelleschi, sebbene la sistemazione teoricacompleta sia data dall’Alberti. L’architettura c’era anche prima del 1400, è ovvio. Ma,a parte Vitruvio (che comunque compila un manuale),non risulta che l’architettura fosse stata oggetto di unateoria, prima di allora. Degli antichi testi di cui parlaVitruvio possiamo purtroppo solo fantasticare. I manua-li e le conoscenze che si tramandano oralmente sonovolte al fare, al buon fare. Le poche nozioni estetichesono ricondotte anch’esse nell’alveo della buona prati-ca costruttiva.Che cosa fanno invece Brunelleschi e poi Alberti?Pongono una distanza: qui c’è l’architettura, oggetto

L'Umanesimo"La convinzione che l'Architettura sia scienza, e che cia-scuna parte, all'interno come all'esterno, debba inte-grarsi in un unico e identico sistema di rapporti mate-matici può essere definito l'assioma fondamentale degliarchitetti rinascimentali." (Wittkower, 1994, p. 101)32

Nell'Italia pre-rinascimentale si assiste ad un rinnovatointeresse per i concetti di ordine e misura. Molti intel-lettuali si mettono con dedizione a studiare le proprie-tà dei numeri e della geometria. L'armonia geometricadel mondo diventa un concetto fondamentale. La pro-porzione e la matematica prendono in definitiva ilposto della luce, della claritas, del medioevo comemanifestazione divina. La conoscenza per mezzo deisensi è imperfetta, ed ecco perché si va alla ricerca deiprincìpi, delle armonie, di ciò che deve governare l'U-niverso in maniera semplice e potente allo stessotempo. La distanza (ancora tutto retaggio di un Plato-ne letto a proprio uso e consumo), tra la verità mate-matica-geometrica e la falsità dei sensi, dell'arte, dellapittura, viene colmata proprio matematizzando la rap-presentazione. Il Quattrocento non rinnega il contribu-to dei sensi rispetto alla conoscenza intellettuale, malo pone in una posizione diversa da quella che avevadurante il Medioevo. Occorre uno sforzo di consapevo-lezza storica per comprendere il grande salto fatto dal-l’Umanesimo e dal primo Rinascimento italiano.Forse noi diamo per scontato di aver sempre vissuto inquesto spazio, che abbiamo sempre pensato lo spaziocosì come è pensato adesso, che se ne è data sempre lastessa rappresentazione. Non è così. Lo spazio trecen-tesco è diverso dal nostro. E diversa, diversissima è larappresentazione che se ne dà.33 “Noi oggi interpretia-mo la visione come un processo attivo in cui il cervello,nella sua ricerca di conoscenza del mondo visivo, operauna scelta tra tutti i dati disponibili e, confrontando

l’informazione selezionata con i ricordi immagazzinati,genera l’immagine visiva, con un procedimento moltosimile a quello messo in atto da un artista. […]Proprio a partire da questa scoperta (anche se non soloda essa) e dalla serie di riflessioni che ne sono scaturi-te, siamo giunti all’idea che la visione è una ricercasostanzialmente attiva dei dati essenziali.” [Zeki,2003]Lo spazio prospettico presuppone uno spazio omoge-neo, che abbia le stesse proprietà in tutti i punti, cosache lo spazio medievale, ancora tutto gerarchizzato esensistico, non poteva fare. La prospettiva brunelle-schiana-albertiana non è l'unica possibile, né sembrafosse l'unica conosciuta nel Quattrocento, tuttavia è lapiù lineare. Essa non è la risultanza esatta della nostravisione, quanto piuttosto una costruzione scientifica.Non interessa il rapporto tra la cosa vista e l'occhio, matra la rappresentazione della cosa vista e l'occhio. Per gli umanisti la bellezza è un bene, e dipende dallagiusta disposizione e dalla proporzione. Le arti figurati-ve sono tra le più nobili attività dell'uomo, sebbene lapoesia resti ancora in posizione privilegiata. Ovviamen-te le arti e la poesia sono rette da principii e da rego-le. L'imitazione, fondamento dell'arte, non viene piùintesa come imitazione della natura, ma come imitazio-ne di modelli antichi, già a loro volta frutto di una idea-lizzazione e tipizzazione della natura.Pacioli scopre le proprietà del numero d'oro: Ø34. Nelsuo libro la chiama De Divina Proportione. È il numeroche scaturisce dal rapporto tra un segmento e una suaparte rimanente. La formulazione matematica forse piùsemplice è questa:i:x=x:(x-i), dove i è il segmento intero, x una sua partemaggiore. Pacioli descrive tredici effetti (oggi le chia-meremmo proprietà) di questa proporzione. [Fig. 24]Per quanto ne sappiamo, √2 e Ø sono gli unici numeri

32 Si noti come questa citazione sia un po’ in controtendenza rispetto a quanto riportato da Tatarkiewicz poco prima.33 Non ho le competenze per fare qui una disamina completa del concetto di spazio dal mondo greco ad ora, né rientra tra gli obiettivi di questoscritto. Rinvio ai testi di Max Jammer, di Bettini, di Panofsky e di Wittkower per gli approfondimenti del caso: Bettini, S., Lo spazio architettonicoda Roma a Bisanzio, Dedalo, Bari 1978Jammer, M., Storia del concetto di spazio, con una premessa di Albert Einstein, Feltrinelli, Milano 1966Panofsky, E., La prospettiva come "forma simbolica" e altri scritti, Feltrinelli, Milano 1993- , Idea. Contributo alla storia dell’estetica, La Nuova Italia, Scandicci 1952Wittkower, R., Idea e immagine. Studi sul Rinascimento italiano, tr. it. Giulio Einaudi, Torino 1992Contiene, rivisto ed ampliato, il famoso saggio The changing concept of proportion pubblicato con il titolo di Il mutevole concetto di proporzione,- , Principii architettonici nell'età dell'Umanesimo, Einaudi, Torino 199434 Fu chiamato sectio aurea solo in seguito, da Leonardo.

35 Erwin Panofsky, La prospettiva come “forma simbolica”e altri scritti, a cura di Guido D. Neri, con una nota di Marisa Dalai, Feltrinelli, Milano1993, p. 7136 Si veda, oltre a tutti gli autori già citati, Michael Baxandall, Pittura ed esperienze sociali nell’Italia del Quattrocento, a cura di Maria Pia ePiergiorgio Dragone, Giulio Einaudi, Torino 2001, p. 9137 Si confronti il passo citato con questo: “Io chiamo “geometriche” le figure che son tracce dei moti che possiamo esprimere con poche paro-le”, in Paul Valéry, Eupalino o l’architetto, Edizione Biblioteca dell’Immagine, Pordenone 1988, p.39

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tracciato è regolatore o costruttivo: non si danno altrepossibilità. Brunelleschi introduce nel cantiere unmodulo unico, valido per la struttura, per la forma eper i dettagli. Questa è una grande innovazione tecno-logica, rispetto al cantiere medievale. Quindi possiamoscartare quei tracciati che non soddisfano né un crite-rio né l’altro. Guardiamo (uno tra tanti), questo sche-ma [Fig. 25] che dovrebbe illustrare le proporzioni di S.Lorenzo. La linea verticale sulla destra non segna nes-sun punto importante lungo tutto l’alzato. Gli archi dimisura 1 nascono a filo di un muro o di una parasta e siritrovano a cadere poi nell’interasse della parasta mag-giore. Sulla sinistra, in verticale, gli archi di misura 1partono da sotto l’architrave dell’ordine minore e col-limano un punto sopra l’architrave dell’ordine maggio-re. Tutta la critica parla di rapporti di radice di due,sezione aurea e quant’altro, ma di fatto noi vediamodei rapporti piuttosto semplici, e a volte dei rapportiche non sono musicali, che non sono armonici nelle sueopere.Con Brunelleschi la misura rinascimentale è simbolodella fiducia nell'Uomo e supera in ciò quella medieva-le, mistica ed indefinita allo stesso tempo. Brunelleschiopera con pochi elementi linguistici (colonne, archi,architravi) e modulando il tutto attraverso la bicromiapietra-intonaco. Le modanature colorate servono spes-so, all’interno di una costruzione spaziale, a simulareun’altra struttura, tutta simbolica, ma coerente (cfr.Trachtenberg, 1996). Potremmo parlare di una sorta diillusionismo strutturale per poterlo contrapporre aquello visivo del Bramante a San Satiro. La realtà, fattadi materia, si trasfigura nell'idea. Ecco l'importanzadella tecnica, che riduce ogni tensione, ogni gravità,che permette, infine, come dice Leoncilli Massi, diricondursi al piano. Come rappresentare lo spazio (laprofondità) in maniera chiara? Su due dimensioni. Lospazio vuoto diventa uguale a quello costruito, integra-to tramite rapporti matematici. È il nesso delle cose, illoro ordine, la valenza che possono conseguire in que-sto ordine, e non la materialità, che conta. Lo spaziobrunelleschiano è omogeneo: si è depurato da tutte leinterferenze psicologiche e mistiche di cui lo spaziomedievale ancora risentiva in maniera troppo intensa.

Il suo spazio è isotropico, ed è proprio questa isotropiache gli consente di rappresentare, con esattezza, laterza dimensione sul piano della piramide visiva. Rap-presentare lo spazio su due dimensioni è possibile invari modi, ma solo la costruzione legittima della pro-spettiva permette di farlo con esattezza: lo spaziocostruito e quello rappresentato tornano ad esserelegati da un’unica misura.La perizia geometrica di Brunelleschi appare in tuttaevidenza nell’escamotage elaborato per tracciare ilsesto della Cupola40 così come l’intelaiatura di S. Spiri-to o di S. Lorenzo.Occorre distinguere tra proporzionamento brunelle-schiano e albertiano-palladiano.Se possiamo azzardare un’ipotesi, il modo brunelle-schiano è molto “strutturale”, e la sua griglia si basaprobabilmente sugli interassi degli elementi che com-pongono la sua rete. Quello albertiano-palladiano, piùinteressato alle masse murarie, ritengo si basi sullemisure nette dell’ambiente, sulla successione diambienti, alla maniera romana41. Guardiamo per esem-pio questo disegno attribuito da Howard Burns a LeonBattista Alberti.[Fig. 26]Da un rapido esame delle sue opere è chiara la predile-zione di Brunelleschi per l’arco a tutto sesto. Perchénon l’arco a sesto acuto? Occorre ribadire anche in que-sto caso la domanda, a prescindere dalle sue implica-zioni storiche o semantiche. Perché il tutto sesto? Per-ché il tutto sesto misura. Il cerchio misura in alzato edin pianta. L’arco a tutto sesto è quindi un compasso.L’arco a tutto sesto consente di ricostruire mentalmen-te lo spazio. L’arco a tutto sesto ha la funzione chehanno le scacchiere nei pavimenti dei dipinti coevi. Sepensiamo che San Lorenzo era prevista (si suppone),con volta a botte42, ci rendiamo conto che l’effetto ditutta questa macchina fatta di perfette relazioni mate-matiche avrebbe dovuto essere maestoso. In Brunelleschi tutto è connesso, ha un “medio” propor-zionale. Quali sono gli elementi che Brunelleschi usaper creare lo spazio? Gli elementi fisici sono ovviamen-te le colonne, i muri, le cupole, i fregi. Ma questi ele-menti vivono solo in virtù dei rapporti che intrattengo-no tra di essi. Lo strumento concettuale è ancora la

destinato anche alla speculazione intellettuale; lì, l’e-dilizia. Lo strumento principe è il disegno, che governala costruzione ed il cantiere.Questo disegno astratto, sintetico, permette di fare lecose a distanza, alla giusta distanza, permette di ritrar-re la realtà, di replicarla (la Tavoletta del Battistero).La prospettiva appare come supremo paradosso: èoggettiva perché riesce a ricreare un reale talmentevero da ingannare (la tavoletta del Battistero), e, allostesso tempo, è soggettiva, perché necessita di unpunto di vista, di un uomo, quindi.Con il disegno in prospettiva non solo disegno lo spazio,ma le dimensioni dei corpi.“Nel sistema prospettico si ottiene la possibilità di con-trollare razionalmente lo spazio: ad esempio dalla dimi-nuzione della dimensione è possibile dedurre la distan-za, un punto può rappresentare il punto di incontro didue rette all’infinito, in altre parole rappresentare l’in-finito in modo finito. La conseguenza più importante efondamentale è che la realtà non è più un inventario dicose, ma un sistema di relazioni; tutto visto (conosciu-to) per rapporti proporzionali; la conoscenza avviene“per comparatione” (Alberti)”38

Riporto questo denso passo di Fanelli per due motivi. Ilprimo è che coglie nel giusto quando dice che la pro-spettiva permette di passare dall’infinito al finito. Ilpunto di fuga rappresenta infatti la padronanza, tuttaconcettuale, dell’infinito.Il secondo è tuttavia per suggerire un rovesciamento:non è a causa della prospettiva che la realtà non è piùun elenco di cose aventi valore in sé, ma il contrario:poiché la realtà non è più un elenco di cose, che dun-que si può rappresentare come sistema di relazioni, dirapporti39. Rapporti collocati precisamente nello spa-zio, ma anche nel tempo.“Con Giotto, il processo è compiuto e se ne apre unaltro di portata rivoluzionaria. La scena indica chiara-mente un “altrove” spazio-temporale rimarcato dallapresenza di un paesaggio che rinvia ad altro dal “qui”,mentre i personaggi non si attardano ad osservarci,assorti nello svolgimento del dramma. L’evento poiappartiene al remoto, perché rimanda ad un tempodiverso dall’“ora”. Prende avvio una stagione nellaquale la creatura si fa creatore di spazi e di tempi, e

cimenta la propria perizia in una serrata competizionecon la natura: più riesco ad esserle simile, più è confer-mata la mia potenza creativa. Attraverso le arti possocostruire e percorrere tutti i mondi, anche quelli scom-parsi o immaginari.” (Torsello, p. 65)Alberti è il primo ad usare il termine composizione, perindicare una sistemazione armonica di vari elementi neldipinto, e desume il termine dalla critica letteraria edal termine compositio.Il piano figurativo è lo strumento che consente la nar-razione nello spazio e nel tempo e la prospettiva linea-re è la tecnica che consente di ottenere questo control-lo assoluto.

BrunelleschiNegli anni a ridosso del 1400 Brunelleschi, Donatello epoi Alberti vanno a Roma. Ma perché? A fare che? Ladomanda non deve sembrare retorica. Occorre proiet-tarsi nel 1400 e chiedersi il senso di questo viaggio, diquesto Grossreise anticipatore.A recuperare le grandi idee architettoniche, il sensodelle idee architettoniche, il tema, il soggetto princi-pale: lo spazio. A recuperare la capacità e la genialitàcostruttiva e tecnologica.Per quanto ne so, Brunelleschi è il primo ad andare aRoma e il primo a fare del rilievo dell’antico uno stru-mento di conoscenza. È il primo a porsi davanti almonumento con delle domande. Con lui credo possadirsi nasca il rilievo critico, selettivo, come dirò megliopiù avanti.Brunelleschi torna da Roma con dei temi spaziali straor-dinari, con una conoscenza tecnica superiore (dimolto), ai suoi possibili concorrenti, con (probabilmen-te) l’idea di un modulo che renda tecnologicamentesuperiore il cantiere, con gli elementi sintattici per unlinguaggio architettonico nuovo. È in grado di padro-neggiare tecniche di rappresentazione innovative, èdottissimo in matematica. Tutto è pronto per i suoiexploits.Purtroppo nulla di fondamentale abbiamo su un suocontributo teorico. Le uniche analisi che possiamo faresono quelle sulle sue opere: occorre quindi la cautelache ricordavamo in apertura. Possiamo tuttavia affer-mare con ragionevole certezza che in Brunelleschi il

38 Giovanni Fanelli, Firenze architettura e città, Mandragora, Firenze 2002, p. 16639 Si veda, in questo senso, anche Pierre Francastel, in Lo spazio figurativo dal Rinascimento al cubismo.

40 Così come descritto da Massimo Scolari in una scheda del catalogo sul Rinascimento (Millon e Magnago Lampugnani, 1994).41 Guardiamo per esempio questo disegno attribuito da Howard Burns a Leon Battista Alberti, che riprendo più tardi nel paragrafo dedicatoall’Alberti.42 San Lorenzo. 393 - 1993. L’architettura. Le vicende della fabbrica. Alinea, Firenze 1993, a cura di Gabriele Morolli e Pietro Ruschi

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era servita per elevare l'architettura, attraverso ilnumero, al rango di arte liberale. Era servita per dareagli architetti un fondamento teorico a quella che finoad allora era considerata arte meccanica, cioè inferio-re. Anche nel caso dell’Alberti vorrei ribadire l’accor-tezza che occorre nell’applicare alla sua architettura.Riporto qui [Fig. 32] l’immagine del Tempio Malatestia-no di Rimini preso dalla copertina di una famosa mono-grafia. Il quadrato maggiore, di base, in realtà non èmolto significativo riguardo agli allineamenti verticali:non definisce il filo netto interno degli archi laterali,non dice nulla rispetto agli oculi. Il ribaltamento dellamisura rimanente tra il quadrato centrale e la parte disinistra, sulla sinistra, non collima nessun punto signifi-cativo (è abbondantemente al di sotto del capitellosulla parete). Sempre sulla sinistra, l’arco che raddop-pia la misura sottostante, collima la prima fascia del-l’architrave, mentre quello sotto si ferma alla sommitàdel capitello. Si legga, in parallelo, questo passo dell’Alberti, nel DeRe Aedificatoria:“Se l’altezza delle pareti è esagerata, si faranno aderi-re ad esse delle cornici, o vi si dipingeranno delle lineedivisorie, onde a determinati livelli tale altezza vengascompartita. Se invece una parte è troppo estesa in lun-ghezza, si erigeranno dalla sommità alla base dellecolonne, non troppo vicine tra loro, bensì piuttostodistanti. In questo modo lo sguardo potrà fermarsi eriposarsi, quasi offrendoglisi dei luoghi di sosta oveposarsi ed essere così meno infastidito dalla vastità del-l’ambiente.” (Libro Decimo, Cap. XVII)Come si vede, l’Alberti è distante dall’uomo intransi-gente e eccessivamente rigoroso e freddo che se ne puòavere. Si veda questa ricostruzione del San Sebastiano[Fig. 33] o quelle del S. Andrea a Mantova per capire (enon poteva essere altrimenti), la completezza dell’Al-berti.Non è questa la sede per evidenziare la portata deltrattato albertiano e la sua radicale alterità rispetto aquello vitruviano: basta ricordare qui che il trattato èscritto in latino ed è privo di figure. Il trattato albertia-no è allora un testo compositivo per antonomasia: nes-suna figura, nessun ricettario: solo principi. Il “Pensaiet congettai” albertiano risuona lungo tutte le pagine.Il resto, il risultato formale attiene all’architettocostruttore, alle contingenze della singola opera, allacommittenza. Bisogna operare una distinzione tra Bru-

nelleschi ed Alberti. Anche Alberti va a Roma e misurae rileva tutti i maggiori monumenti che possono inse-gnargli qualcosa. Ma mentre Donatello torna con unrepertorio formale, Brunelleschi con la conoscenza tec-nica ed intima di quel repertorio, è Alberti che tornacon una riflessione più profonda sull’architettura roma-na come culmine di un processo culturale. Con Albertinasce il rilievo poetico. Brunelleschi non si pone il pro-blema culturale del rapporto con Roma: tutto è risoltonella meravigliosa capacità tecnica e nella modularità,ma certo ha ragione Giorgio Grassi a dire che nulla è piùlontano da Roma che le colonne slanciate di San Loren-zo. Santo Spirito è lontano da Roma, così come PalazzoPitti.

PalladioLa storiografia colloca Palladio nel Rinascimento, anchese non è affatto una classificazione anodina, perché seè indubbia la sua passione per l’antichità e la sua “ten-sione” classica nelle più riuscite composizioni, è altret-tanto indubbio che, specialmente nell’ultimo periododella sua attività, si prenda talmente tante licenze dalpunto di vista stilistico da meritarsi delle aspre criticheda parte di Milizia. [Fig. 34]Secondo Wittkower, la concezione palladiana della pro-porzione, come quella di tutti gli architetti rinascimen-tali, si basa sulla commensurabilità dei rapporti. Palla-dio usa sempre le tre proporzioni già menzionate prima(aritmetica, geometrica, armonica). Attraverso questeproporzioni egli dimensiona gli ambienti anche in alza-to. La novità del Palladio sta nel fatto che egli usa que-sti rapporti per integrare un intero edificio e non per lesingole stanze [Figg. 35, 36] o facciate come si ritienesi facesse in precedenza. Usa le proporzioni vedendolecome ‘dense’, cioè come potenzialmente ottenibiliattraverso altri rapporti secondari. Esempio 16:27 (chenon è in sé un bel rapporto) = 16:24 + 24:27, e cioè 2:3+ 3:4. I rapporti vanno visti in sequenza di due, tre,quattro e non presi singolarmente. Non solo questo è unmodo di pensare “musicale”, alla quale interessaappunto il rapporto che si stabilisce tra note susseguen-ti, ma è una caratteristica tutta palladiana quella dicomporre spazi in successione, probabilmente frutto diuna lettura attenta delle antichità romane.Ricordiamo, sempre sulla scia del Wittkower, che Palla-dio usò anche rapporti assai strani, tipo 6:7 e 28:43.Possiamo però trovare delle giustificazioni a questi rap-

proporzione: unico strumento capace di istituire rela-zioni comprensibili. Lo strumento rappresentativo è,ancora una volta, il disegno nel piano. Solo il disegnonel piano figurativo consente di misurare e proporzio-nare.

AlbertiPer parlare delle proporzioni in Alberti dobbiamo fareun inciso su come egli intendesse probabilmente ilnumero, e cioè come forma. Alberti si riallaccia a tuttala cultura greca del numero come gnomone. [Fig. 27]Già dai tempi di Pitagora i numeri erano chiamati qua-drati, poligonali, triangolari secondo la forma che defi-nivano. Il termine latino "numerus" traduceva sia "arith-mos" (numero) che "rithmos" (forma, modello).I numeri preferiti dall'Alberti, nel solco della tradizioneplatonica, sono il sei e il dieci, che tra l'altro contengo-no anche i propri addendi (1, 2, 3) e (1, 2, 3, 4), e nelcaso del sei, anche i propri divisori. Inoltre il sei, l'esa-gono, è una figura bellissima in quanto il raggio del cer-chio che lo circoscrive è uguale al lato dell'esagonostesso. L'innovazione dell'Alberti rispetto a Vitruvio è che unrapporto semplice viene visto come coesistenza di piùrapporti, di altri rapporti, ma sempre secondo interval-li musicali. Per esempio, il rapporto di 4:9 può esserevisto come espressione di due rapporti: 4:9 = 4:6 più6:9.La sesquialtera (uno e un mezzo) è una serie numericain cui il numero seguente è dato dalla somma del pre-cedente con la metà dello stesso (4, 6, 9, 13.5...). Lasesquitertia (uno e un terzo) è data dalla serie in cui unnumero e il precedente differiscono per un terzo (9, 12,16, 21.33...). Dalla combinazione di una sesquialtera edi una sesquitertia derivano le duple (2, 3, 4, 6, 8, 12,16...), che tra l'altro hanno anche il pregio di essereformate da numeri interi.Non tutti i rapporti numerici danno luogo ad accordimusicali. Alcuni rapporti darebbero luogo a quelle cheoggi chiameremmo "dissonanze".L'altra grande idea dell'Alberti è di istituire i rapportinon tra i lati, ma tra le aree (piani) di un ambiente.L'Alberti distingue tre tipi di piante (areae): piccole(areae corte: 1:1, 2:3, 3:4), medie (areae medie:1:2,4:9, 9;16) e grandi (areae lunghe: 1:3, 3:8, 1:4). [Figg.28, 29, 30] Le aree di queste piante nascono concet-tualmente tutte dal quadrato: l'unisono.

Le aree sono una delle sei categorie costitutive dellares aedificatoria. Le altre cinque sono: l'ambiente, lasuddivisione, il muro, la copertura, l'apertura. Le areemedie sono consonanze delle aree corte; le aree lunghesono consonanze delle aree medie e quindi delle areecorte. Le aree corte sono armoniche in sé, e cioè sonocostituite da rapporti musicali. [Fig. 28] I rapporti trale aree sono rapporti armonici, anche quando il rappor-to tra i lati non è tale. Questa generazione di rapportie di consonanze tra aree permetteva ad Alberti di pro-porzionare anche la terza dimensione. [Fig. 31] Esistepoi una serie prediletta da Leon Battista Alberti, che dàluogo ad una successione di numeri interi, e che si basasull’alternanza di una sesquialtera con una sesquitertia(1/2 e 1/3).Infatti, la sesquialtera (uno e un mezzo) è una serienumerica in cui il numero seguente è dato dalla sommadel precedente con la metà dello stesso (4, 6, 9,13.5...). La sesquitertia (uno e un terzo) è data dallaserie in cui un numero e il precedente differiscono perun terzo (9, 12, 16, 21.33...). Dalla combinazione diuna sesquialtera e di una sesquitertia derivano le duple(2, 3, 4, 6, 8, 12, 16...), formate da numeri interi.Alberti indica anche un altro modo di dimensionare gliambienti, basato sulla geometria, sulle radici e sullepotenze, e quindi con quantità incommensurabili.Rimando comunque al saggio di Maria Karvouni, pubbli-cato nel catalogo della mostra dedicata ad Alberti,tenuta a Mantova nel 1994, per l'esposizione analiticadel procedimento. Non si deve però pensare ad unAlberti come ad un intransigente. Vero è, infatti, cheegli non nega affatto la possibilità di ricorrere a delle"correzioni" ottiche laddove ne se senta la necessità,anche se queste sono calcolate, sebbene con un certomargine di elasticità. Valga per tutti questo passo: “Learee quadrilatere esigono una diversa altezza dellepareti, secondoché siano coperte a volta ovvero a tra-vature; inoltre negli edifici più grandi occorre regolarsidiversamente che in quelli di piccole dimensioni, poi-ché non è identica in questi e in quelli la proporzionedelle distanze tra il centro dei raggi visivi e il limitedell’altezza visibile.” (Libro Nono, Cap. III)Deve essere chiaro comunque che gli architetti nonvolevano, sic et simpliciter, tradurre la musica in archi-tettura. Certo, anche Alberti è convinto che gli stessinumeri che danno piacere all'orecchio possano dar pia-cere alla vista, tuttavia va considerato anche la musica

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zionato col precedente: “Questa divisione consiste neldividere, per esempio, una colonna in 4 parti uguali, edassegnarne una al cornicione. Si divide poi il cornicio-ne, per esempio, in 12 altre parti uguali, 4 delle qualisi danno all'architrave, 3 al fregio e 5 alla cornice; ecosì in appresso suddividendo finché si trovano le piùpiccole parti.” (Milizia, 1847, p. 37)46

Il perché di questo modo di calcolare è spiegato dallostesso Milizia: è più facile lavorare con gli operai, nonsempre si hanno i moduli in un edificio, è più facileadattare il tutto ad eventuali correzioni "ottiche" e cosìvia. Questo modo di procedere non è nuovo, e Miliziastesso raccomanda, ove possibile, di usare i due proce-dimenti insieme, operando con il modulo laddove visono degli ordini architettonici, e con la divisione perparti altrove.“La simmetria è una proporzionata quantità di misurache le parti devono avere fra loro, e col tutto. Che unportone, per esempio, abbia la sua altezza proporziona-ta alla sua larghezza e che queste dimensioni sieno pro-porzionate alla grandezza di tutto l'edifizio, questo èquello che forma la simmetria. Dunque la simmetria valelo stesso che la proporzione.” (Milizia, 1847, p. 107)Milizia comincia così il suo ragionamento sulla simme-tria e le proporzioni, e cioè con una definizione alquan-to "circolare". È avvertibile già uno slittamento delsenso di simmetria rispetto a Vitruvio, laddove per que-sto la simmetria era la corrispondenza tra misure corri-spondenti di parti diverse. I rapporti tra le dimensionidel portone sono per Vitruvio euritmia, e non simme-tria.Tuttavia queste proporzioni non garantiscono un'archi-tettura gradevole: “Un edifizio sarà dunque ben pro-porzionato se l'occhio ne comprenderà senza pena tuttele parti, se le impressioni su quest'organo non sarannodiffuse, e se formeranno, per così dire, un accordod'impressione.” (Milizia, 1847, p. 108)Ecco dunque introdotto l'effetto che queste proporzio-ni hanno su di noi. Milizia è allora un purista, ma soloper quanto riguarda l'articolazione sintattica del lin-guaggio classico dell'architettura, e non in toto. Eglidedica non poco spazio al problema della visione e del-l'ottica applicato alle proporzioni. È molto attentoall'impressione che l'architettura ha su di noi, colliman-do con ciò una posizione che sarà strettamente elabo-

rata dagli Illuministi. Milizia afferma che l'occhio non èuno strumento di grande finezza, e che se variassimo dipoco le misure perfette di un edificio, non ce ne accor-geremmo, e che la bellezza (seguendo Perrault) dipen-de dall'abitudine, e non da una ragione intrinseca delleproporzioni.L'euritmia è per Milizia corrispondente alla nostra sim-metria speculare, mutando anche qui il significato e ladefinizione che ne dava Vitruvio. Essa, secondo Milizia,ci piace perché ci fa scoprire subito il tutto nell'ogget-to, risparmiandoci la fatica di un'astratta concettualiz-zazione. Se però vi è bisogno di euritmia, vi è anche divarietà, poiché altrimenti si muore di noia. Questo nonsignifica confusione e capriccio. Gli ornamenti devonoessere disposti con chiarezza, e le cose variate devonoessere comprensibili, in modo che si possano guardarecon diletto.Milizia a me appare come punto di passaggio tra Palla-dio e la modernità della rivoluzione francese.

Le CorbusierStudiare le proporzioni in Le Corbusier significa essen-zialmente riferirsi al suo "Modulor". Il Modulor è allostesso tempo un sistema di misura, un tracciato regola-tore, un modulo. Il termine deriva da "module" (modu-lo) e "section d'or" (sezione aurea).È un sistema di proporzionamento basato sull'uomo esulle proprietà del rapporto aureo.Il problema della sezione aurea è stato posto da Eucli-de nel modo cui ho accennato prima, tuttavia può esse-re posto anche così: se ho una certa lunghezza e la divi-do in due parti, ne ottengo, facendo un piccolo sforzod’astrazione, tre: l'originaria, e due parti probabilmen-te diverse. Che rapporti possono nascere tra queste tredimensioni? Vi è un solo caso possibile, per esempio, incui le due parti derivate siano uguali: in tutti gli altricasi saranno diverse. Il passo successivo, molto fecon-do, è: posso fare in modo di dividere la mia lunghezzain due parti disuguali, in modo che la lunghezza origi-naria (O) stia alla parte più grande (P1) come questaparte sta alla più piccola (P2)? In termini matematici, Euclide voleva ottenere lo stes-so risultato da queste due divisioni:1) O/P1 2) P1/P2.

porti particolari. Il primo è che dobbiamo ricondurrel'opera del Palladio all'interno di un secolo nel quale lateoria musicale si era andata fortemente sviluppando,fino ad includere rapporti, come la sesta maggiore(3:5), la terza minore (5:6), la terza maggiore (4:5), lasesta minore (5:8), la decima maggiore (2:5), la decimaminore (5:12), l'undecima (3:8), ed altre ancora, chel'armonia pitagorica aveva fin lì escluso. Concatenaregli ambienti gli uni agli altri portava a rapporti di que-sto tipo, che non erano forse proporzionali in sé, mache nascevano per necessità logica dal sistema di gem-mazione.Palladio tendeva ad integrare proporzionalmente l'inte-ro edificio, e quindi a vincolarlo in una rigida griglia dirapporti tutti in relazione tra essi. “Ma le stanze gran-di con le mediocri, e queste con le picciole deono esse-re in maniera compartite, che (come ho detto altrove)una parte della fabbrica corrisponda all’altra, e cosìtutto il corpo dell’edificio habbia in se una certa con-venienza di membri, che lo renda tutto bello, e gratio-so” (Libro II, cap. 2) Infine, se si tiene fede al suo modo di proporzionare, sideve notare che le medie tra due termini non dannonecessariamente un terzo termine proporzionale. Peresempio 45 e 30, forniscono come media geometrica36.74. Ora, il rapporto tra 30 e 36.74 non ha senso, dalpunto di vista musicale. A fianco di questi rapporti noncanonici, compare l'uso di rapporti incommensurabilisolo nel caso della diagonale del quadrato.È possibile che per ottenere una regolarità generaledell'insieme egli possa aver sacrificato qualcosa della"musicalità" interna. Se si sommano questi vincoli alla"cifra" del Palladio, e cioè quella di una composizionetripartita, ordinata su un asse centrale di simmetria, cisi rende conto che qualche "dissonanza" è inevitabile.Sappiamo inoltre che alcune esigenze costruttive e diadattamento urbano gli hanno imposto delle misure nonproporzionali43.Finora abbiamo parlato prevalentemente degli interni,ma questi, ovviamente si riflettono nel disegno dellefacciate esterne. Palladio subordina i prospetti laterali

a quello centrale, privilegiando la vista frontale dell'e-dificio ed una ipnotica simmetria bilaterale.La tecnica del disegno ortogonale consente anche unacerta “ambiguità del segno” che stimola la creatività. Èpossibile immaginare cioè diverse variazioni su un unicotema “di fondo”, allontanando o avvicinando le partilaterali di un edificio rispetto ad una parte frontalepresa come inamovibile.Penso alla preferenza palladiana per il piano (vera epropria idiosincrasia) nel disegno, sia in fase di rilievoche in quella di nuova concezione. L’oggetto è descrit-to attraverso viste piane, attraverso una sequenza e, avolte, anche attraverso una compenetrazione simulta-nea di pianta e alzato44. [Figg. 30, 30.1]Ritengo che nella storiografia del Palladio venga datascarsa importanza alla sua formazione giovanile di lapi-cida, mentre da questa potrebbero venire momenti dilettura rilevanti. È una mia opinione del tutto persona-le, ma la sua formazione manuale potrebbe aver contri-buito a sviluppare la sua grande sensibilità alla luce, aidettagli, alle modanature45.

Milizia“Una fabbrica semplice, che non abbia altro merito che quello delle giuste proporzioni, farà sem-pre un bell'effetto, basterà a sé stessa, e sarà mirabi-le anco senza ornati: come una statua nuda, come il Torso di Belvedere. ... Senza l'intelligenza e senza l'uso delle proporzioni non si può mai essere architetto.” Francesco Milizia

Seguendo la tradizione ereditata dai Greci, il moduloche deve servire a proporzionare gli edifici è uguale alsemidiametro della colonna all'imoscapo. Questo dia-metro si può dividere ancora in trenta parti (minuti)atti a dimensionare le più piccole parti dell'edificio.Viene in realtà prevista anche la divisione in trentaseimoduli perché può evitare le frazioni più a lungo.Vi è però un altro modo di dimensionare, che il Miliziachiama "divisione per parti uguali" e che è una succes-siva divisione di elementi, in modo che l'uno sia propor-

43 Non si vuole qui riprendere la polemica del Palladio trattatista contro il Palladio architetto, ma gli esempi proposti nei suoi libri si riferiscono adedifici decontestualizzati, liberi di espandersi e di “risuonare” liberamente nello spazio, cosa del tutto legittima, visto l’intento didattico dell’ope-ra.44 Credo che sia il primo ad usare tale tecnica rappresentativa, ma mi piacerebbe avere il conforto di studiosi più versati di me nella materia. Inquesto senso la mia è più una tifoseria di parte che una curiosità filologica.45 Si veda per esempio il tracciato del capitello corinzio (Lemerle, 1994), tacendo tra l’altro l’aneddoto raccontato da Inigo Jones. Si dice inoltreche Carlo Scarpa abbia preso il suo motivo dei due cerchi concatenati nel guardare i due capitelli di Palazzo Chiericati. 46 Ma questo procedimento scardina a mio avviso la commensurabilità tra le varie parti dell’edificio.

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appoggio capaci di riunire sicurezza e diversità: da unaparte, l'orecchio umano - l'udito umano (e non quello deilupi, dei leoni o dei cani). Dall'altra parte, i numeri, cioèla matematica (le sue combinazioni), che è figliaanch'essa dell'Universo." (Le Corbusier, 1974, pp. 15-16)In questo passo sono da notare due cose importanti. Ilprimo è che tutto viene riportato all'uomo e alle suenecessità, concetto che tornerà più volte nel Modulor.La geometria è vista quindi sempre a servizio dellefacoltà umane, e non dominatrice e sovrumana.Il secondo è che è sentita la necessità di ridurre adalcuni elementi definiti (un codice) il continuum dell'e-sperienza dello spazio."Il tracciato regolatore non introduce idee poetiche oliriche; non ispira in alcun modo il tema; non è creato-re; è equilibratore." (ivi, p. 32)Questa è a mio avviso una delle frasi più cristalline esincere sui tracciati regolatori, che mette tra l'altro lageometria nella giusta prospettiva rispetto al problemadella composizione. Purtroppo, come avviene spesso inLe Corbusier, la stessa frase è contraddetta da questa:“La scelta di un tracciato regolatore è uno dei momen-ti decisivi dell’ispirazione, è una delle operazioni fon-damentali dell’architettura.”50 Il concetto tornerà piùvolte nello scritto, e in particolare quando lui rispondeai suoi collaboratori circa la bruttezza di cose concepi-te con l'aiuto del Modulor. "Il Modulor è uno strumento di lavoro per coloro che

creano (che compongono: progettisti o disegnatori) enon per coloro che eseguono (muratori, carpentieri,meccanici, ecc.)."Nulla da eccepire su questa frase, se non che è in pale-se contraddizione con le intenzioni di partenza: "...unreticolo di proporzioni tracciato sul muro o appoggiatoal muro, fatto di strisce di ferro saldate, che sarà laregola del cantiere, la norma che offrirà una serie didifferenti combinazioni e proporzioni; il muratore, ilcarpentiere, il fabbro vi sceglieranno in ogni istante lemisure del loro lavoro e le cose fatte, anche se diversee differenziate, saranno testimonianza di armonia.Questo è il mio sogno." (p. 35)Ma sappiamo ormai che Le Corbusier aveva una capaci-tà straordinaria di auto-promozione, almeno pari allasua capacità creativa51.

TerragniTerragni non ha lasciato niente di simile all'opera teori-ca di Le Corbusier. È indubbio tuttavia che spesso faces-se ricorso alla geometria per le sue composizioni. Terra-gni meriterebbe ben altra attenzione, sia per le opere insé, sia per la loro importanza nell’ambito delle propor-zioni. Proprio per questo ho deciso invece di ridurre iltutto ad un singolo episodio (secondario), rinviando latrattazione sistematica ad un futuro testo monografico.L’opera più famosa di Terragni è senza dubbio la Casadel Fascio a Como [Figg. 41, 42, 43], ma qui vorrei sof-fermarmi prima su un episodio minore: il monumento aSarfatti [Figg. 44, 45]. La versione finale del monumen-to è sì in scala 1:50, ma le quote non sono espresse infrazioni o decimali, ma in misure intere (1 m, 2 m,ecc.), in modo che tutto il monumento si possa ridurre"anche del 20%" (è lo stesso Terragni a dirlo), senza chei suoi rapporti cambino. Per la storia, questa possibilitàdi riduzione delle misure si impone a Terragni per ragio-ni di spesa, ma ciò non cambia la sostanza. Entro unacerta fascia di dimensioni, l'idea di Terragni è validacomunque: l'oggetto pensato intesse una serie di rela-zioni e di proporzioni in sé che lo liberano dall'averealtri vincoli esterni. Esso deve bastare a sé stesso, vive-re di propria luce. Questa è la bellezza ma anche il peri-colo del disegno in proporzione: ad un certo punto sipuò dimenticare una scala di misure assolute, sopra osotto alle quali non si può andare, pena la perdita del-l'effetto che si voleva creare. Non si deve confondere oassimilare, come avvertiva Leoncilli, figurazione edimensione. Aggiungeva Terragni: "Che l'osservatoreentri o non entri nel concetto allegorico del monumen-to è per me cosa di importanza non definitiva; l'impor-tante è che egli si senta ‘commosso’ dall'armonia delleproporzioni, dall'imponenza delle masse, dall'equilibra-to rapporto di luci ed ombre sui volumi". (ivi, p. 67) Siconfronti questo passo con il Fedro di Valéry. SebbeneTerragni sviluppi in molti progetti un discorso carico digeometria, sarebbe vano cercare nelle sue opere un'in-tegrazione di tutti gli spazi (alla Palladio, per intender-ci) in modo geometrico. Il progetto più carico di riferi-menti geometrici, ma anche simbolici, è sicuramente ilDanteum di Roma. Sono cambiati i temi progettuali esoprattutto è cambiato il significato di armonia. Nel suo

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Se ciò è possibile, posso istituire questa uguaglianza:O:P1 = P1:P2 e risolverla come un’equazione di 2°grado in P1 o P2. Infatti O*P2 = P1*P1. Facendo unaverifica con un segmento lungo un'unità, ottengo trelunghezze: 1 (quello di partenza), 0.618 e 0.382 e cioè(1-0.618). La verifica è questa:1/ 0.618 = 1.618 0.618 / 0.382 = 1.618 Il Modulor è basato su due serie in ragione di Ø: quellarossa e quella blu. La dimensione di partenza per larossa è 183 cm: l'altezza del bell'uomo inglese deiromanzi gialli, alto sei piedi (six foot detective), men-tre per la blu è di 226 cm, (l'uomo di prima con la manoalzata). 183:1.618 = 113 e 226:2 = 113. [Fig. 40]Le due serie sono interrelate, poiché 113 è uguale a 70+ 43, i due termini contigui a 113. L'ombelico, a quota113, può essere visto anche come il luogo dove si incon-trano due serie: una che parte dai piedi e va crescendoverso l'alto; un'altra che parte dal braccio alzato e vadecrescendo verso i piedi. I termini della serie blu siottengono raddoppiando i corrispondenti della serierossa. E questo al fine di ottenere una varietà di misu-re. La serie blu collima infatti solo pochi punti: il brac-cio alzato, l'ombelico, il ginocchio e così via, sempre "indiminuendo". Occorreva introdurre più flessibilità e LeCorbusier l'ha fatto immettendo nel diagramma un'altra"elica" (una serie) che parte da una quota diversa, chequindi collima altri punti del corpo umano. Ma questainversione è voluta, nel senso che in realtà le due seriesono costruite discendendo dai due punti fissati prima:183 e 226. Per verificarlo basta partire con la serie diFibonacci nella sua formulazione classica (0, 1, 2, 3, 5,8, 13, … ), per rendersi conto che nessun punto corri-sponde a quelli individuati dal Modulor. [Fig. 39]"Le sue prime case manifestano una nuova concezionedell'architettura, espressione dello spirito di un'epoca.Tracciati regolatori ne illuminano le facciate (solo lefacciate)."47

Questa citazione, tratta dal suo Modulor permette di

fare un confronto tra il modo di servirsi della geometriadell'Alberti e del Palladio da una parte e di Le Corbu-sier dall'altra. Laddove questi riescono ad integrare e a"concertare" le misure in pianta e in alzato, Le Corbu-sier le applica generalmente solo su alcuni elementi.Colin Rowe dice pressappoco la stessa cosa: “A la Mal-contenta, la géométrie se répand dans les volumesintérieurs de l’edifice tout entier, tandis qu’à Garcheselle ne semble résider que dans la masse globale de l’é-difice et dans la disposition des éléments porteurs.”(Rowe, 2000, p. 17) [Alla Malcontenta la geometria sisparge nei volumi interni dell’edificio tutto, mentre aGarches sembra risiedere solo nella massa globale del-l’edificio e nella disposizione degli elementi portanti.]L'unico esempio di spazio integrato che riporta nelModulor è quello per un piccolo ufficio (il suo, in Rue deSèvres) che misura 226 x 259 x 226 cm. Anche se lepiante dell'Unité sono larghe 366 cm e alte 226 cmresta difficile vedere l'alloggio diverso da una qualun-que sezione estrusa, da un generico parallelepipedo,poiché sono molto profonde: resta difficile vederlo"armonico" (almeno nel senso albertiano o palladianodel termine). La rete di rapporti si è talmente compli-cata ed ingigantita che se ne è persa la intelligibilità.Anche se l'Unité fosse stata concepita alla maniera delPalladio, e cioè integrando polifonicamente gli ambien-ti tra loro, il risultato non è più comprensibile.Il Modulor come sistema di coordinazione modulare èfallito. A questo riguardo non c'è molto da aggiungererispetto a quanto hanno già detto Arnheim48 ed altricritici49. Dal punto di vista teorico mi sembra che cisiano invece ancora dei punti interessanti da recupera-re e contestualizzare."Come sezionare la continuità del fenomeno sonoro?Come tagliare questo suono secondo una regola accetta-bile da tutti, ma soprattutto efficace, cioè capace diflessibilità, diversità, sfumature e ricchezza e, allo stes-so tempo, semplice, maneggevole e accessibile?Pitagora risolse la questione prendendo due punti di

47 Le Corbusier, Il Modulor. Saggio su una misura armonica a scala umana universalmente applicabile all’architettura e alla meccanica, GabrieleMazzotta, Milano 48 Rudolf Arnheim, La dinamica della forma architettonica, Milano, Feltrinelli, 1981; Il potere del centro. Psicologia della composizione nelle artivisive, Torino, Einaudi, 1984.49 “Alla base di questo tipo di controllo vi è il convincimento che in architettura l’armonia delle parti può essere salvaguardata soltanto se la forma dellestanze, le aperture nei muri e, anzi, tutti gli elementi di un edificio sono conformi a certi rapporti, costantemente connessi con tutti gli altri rapporti del-l’edificio stesso. Dubito molto fino a che punto sistemi razionali di tal genere producano risultati che occhio e mente possano consapevolmente percepi-re. Ho l’impressione che l’essenza di questi sistemi risieda semplicemente nel fatto che coloro che ne usano (e sono per lo più i loro autori) ne hanno biso-gno: vi sono, cioè, persone dalla mente fertile ed inventiva in sommo grado, che non possono fare a meno della dura ed inesorabile disciplina di similisistemi per correggere e insieme stimolare la fantasia. E il destino di tali sistemi sembra, tutto sommato, confermare quanto ho detto: essi raramentesopravvivono ai loro autori e a chi li usa, mentre chi viene dopo, se provvisto di fertile ingegno, se ne inventa un altro suo proprio.” (Summerson, p. 65)

50 Verso una architettura, a cura di Pierluigi Cerri e Pierluigi Nicolin, Longanesi, Milano 1984, p. 5751 Cfr. Alain de Botton, Architettura e felicità, Guanda, Parma 2006

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modo di procedere, spesso su carta millimetrata, siintravvedono i maggiori "personaggi": quadrati, rettan-goli o sezioni a "C" che si intersecano, che slittano, chesi sottraggono gli uni agli altri: si avverte una tensioneche la composizione "tripartita" di Palladio non potevaesperire. Un'altra differenza è data dal fatto che men-tre Palladio, e con lui gran parte degli architetti delRinascimento, accorda una preferenza netta al prospet-to frontale, Terragni tende a far "girare" l'osservatoreintorno al suo edificio per comprenderlo. Palladio sioffre ad una lettura istantanea che permette subito ungiudizio, Terragni, invece, attraverso un gioco "sapiente"di asimmetrie, invita ad una ricostruzione tutta intellet-tuale dell'opera. Negando la predominanza di un sololato, egli carica necessariamente gli altri di un valoreche altrimenti non avrebbero potuto ottenere e mante-nere. L'intelaiatura di diseguali pieni e vuoti, non sotto-posta al vincolo di un ordine architettonico classico(con tutto il corredo di cornici e decorazioni che ciòavrebbe comportato), gli consente di collegare una fac-ciata (un piano) all'altra, ma senza obbligarlo ad unritmo omogeneo. Il che vuol dire anche che ogni faccia-ta può essere vista come piano a sé. Lo spazio di Terra-gni sembra essere costituito allora per piani, per com-posizione di piani, senza tuttavia "esplodere" come nelneoplasticismo olandese né rarefarsi come in Mies vander Rohe. "Tornando alla Casa del fascio, che io considero unadelle architetture più belle di Terragni e forse in asso-luto una delle più belle architetture italiane di quelperiodo, credo che si possa riconoscere in essa unodei caratteri che a mio avviso contraddistingue ilmovimento moderno italiano: il carattere della classi-cità, intesa non come riferimento mimetico ad undeterminato periodo storico, rinascimentale od altro,ma una classicità intesa in senso atemporale, come lavolontà di creare un ordine, una misura, una modula-zione che rendano le forme architettoniche chiara-mente percepibili alla luce del sole e coerenti traloro, cioè parti di una stessa unità." (Giuseppe Terra-gni, 1996, p. 8)

RidolfiNon si comprende la geometria in Ridolfi se non si sa quan-to fosse grande la sua perizia tecnico-costruttiva. Il misti-cismo della sezione aurea, della diagonale del quadrato ele serie di Fibonacci sono certamente estranee alla suapoetica, tuttavia egli, nei suoi ultimi progetti in particolar

modo (il ciclo delle Marmore), è virtuosisticamente padro-ne delle forme geometriche più difficili. Ridolfi tendenonostante ciò a "corrompere" le sue forme poligonali, adar loro un po’ di "vita", poiché probabilmente, chiusenella loro perfezione, gli sarebbero sembrate troppoastratte. Da quadrati, pentagoni, decagoni, sporgono allo-ra bellissimi corpi cilindrici ad ospitare una scala di rac-cordo o di servizio. Le pareti esterne si animano, sembra-no respirare. Se l'esempio più famoso è l'hotel a Setteba-gni, questa vibrazione è avvertibile in quasi tutti i proget-ti: Casa Lina, il "Bidone" a Terni, Casa Ottaviani. Ridolfiriporta la geometria all'Uomo, non iscrivendo questo incerchi e quadrati, quanto piegando le forme meno investi-gate da altri ad accettare la vita umana, le sue necessità.Non lo interessa, né fa propria, in virtù di una Baukunstoramai nel sangue, la scissione tra disegno e materia. Nonesistono in lui due tempi diversi, come ancora l'Albertiteorizzava, ovvero quello del disegno e quello della con-cretizzazione: la forma nasce in quanto materia, realtàcostruita, pietra, legno, mattone, e non come risultato diuna speculazione astratta. La geometria non è per luimetafisica, ma misura. Il tetto è a misura d'uomo, il tavo-lo è a misura d'uomo, e così le finestre, le porte... La geo-metria, in Ridolfi, non è gioco solipsistico, ma costruttivi-tà. Delle sue volte in cemento armato faccia a vista, dellesue scale elicoidali, degli aggetti a sezione variabile, biso-gna trovare le sezioni in vera grandezza, spiegarle: illu-strare come si intersecano due piani inclinati, come sidevono “armare”. Torna in mente l'Eupalino di Valéry: "Nell'eseguire nulla ètrascurabile..." [Fig. 46] La geometria è in conclusionestrumento conoscitivo e operativo del mestiere dell'archi-tetto. Storicamente, Ridolfi è l'ultimo architetto a potertenere tra le mani un corpus vastissimo di conoscenzefinalizzate all'architettura. Egli appare, fatte le debiteproporzioni, come un ultimo enciclopedista, ultimodiscendente di una progenie iniziata con Diderot e D'Alem-bert. Il Manuale dell'architetto nella versione del 1942 èun'Enciclopédie: dopo si assisterà ad un'esplosione di tec-niche, tecnologie e materiali. Dopo Ridolfi a me pare cheveramente il corpus disciplinare dell’architetto si disinte-gri in professioni ed in prodotti sempre più specializzati,ed è forse proprio l’abbondanza produttiva (di manufatti,di materiali, di oggetti), che spinge ad una iper-specializ-zazione: per il singolo architetto è impossibile dominaretutto. Da questo momento l’architetto è costretto a ricol-locarsi rispetto ad un processo costruttivo non più lineare,ma complesso e ricorsivo.

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Immagini tratte dal libro Adolfo Natalini. Disegni 1976-2001

Disegno di Gian Carlo Leoncilli Massi, 2006

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SeveriniSeverini merita un posto particolare nella lista dei per-sonaggi che in questo secolo hanno studiato le propor-zioni. Il primo dato che vorrei porre in rilievo è che iltesto di Severini Du Cubisme au Classicisme, pubblica-to nel 1921, è precedente ai libri di Ghyka e, ancora piùinteressante, ai libri di Le Corbusier. Il fatto sarebbeper sé insignificante se non si facesse sempre risalire alrusso la primogenitura dello studio delle proporzioni.L’altro punto da evidenziare è la grande attualità dellasua polemica contro l’anarchia artistica dei primi annidel XX° secolo. Non solo perché il suo tempo è il nostrotempo, come dice Elena Pontiggia (Pontiggia, 1997),nel saggio che accompagna la nuova traduzione deltesto di Severini, ma perché la sua reazione alle avan-guardie ci indica quali possano essere alcuni punti fissia cui far riferimento: Vitruvio, Alberti, Piero dellaFrancesca, Dürer…Traduco uno stralcio dell’epistolario tra Severini e DeFayet prima e tra Severini e Le Corbusier poi, chehanno una forte consonanza con i temi trattati. (Paci-ni, 1972)

Dalla “Lettera di Gino Severini a Léonce Rosenberg (II)” Risposta a Rosenberg quando non ha più voluto fare ilmio libro teorico, che mi aveva proposto (12-7-1920).“[…] Poiché, malgrado pretendiate il contrario, sieteun “epicureo” e non un “pitagorico”, caro amico mio;un pitagorico dovrebbe sapere almeno che cosa sia unrapporto, o una proporzione, o le proprietà di un trian-golo, e voi non lo sapete, nonostante che nel corsodelle nostre conversazioni io mi sia dato abbastanzapena di spiegarvelo.Per provare un’emozione estetica e non solamente sen-soriale e riflessa davanti ad un’opera d’arte, e perpoterla giudicare “esteticamente” bisogna conoscerequalcuna delle basi costruttive che in tutti i tempi sonoservite a costruire i quadri o i templi.” (p. 145)Bellissimo passaggio, dove viene ribadita la differenzatra emozione estetica ed emozione sensoriale, laddovela prima necessita di una conoscenza tutta intellettualedelle regole e dello stato dell’arte, mentre la seconda sipone ad un diverso livello di lettura. Infine, impossibile

non soffermarsi sul fatto che allo stesso modo in cui sicostruiscono templi si costruiscano quadri.

I libri di estetica, di De Fayet*“È una delle caratteristiche della nostra epoca partire in quarta su un piccolo dato giusto e gonfiarlo fino al sofisma” G. Severini

Dal Cubismo al Classicismo, estetica del compasso e delnumero. Libro deludente per coloro che difendono lalogica e la ragione.Compilazione: Ch. Henry, Choisy, Vitruvio, Durer, Sant’I-vo di Alveidra, Biblioteca Chacornac, Jean Cousin, ecc.Del meglio e del peggio che bene prova l’estrema con-fusione delle idee attuali; ecco un artista che va versola scienza, che la scienza inghiotte e da cui esce solocome un neo-rinascente del peggior Rinascimento. Ed èuna dolorosa necessità dire: la scienza così interpretataè forse una cosa peggiore che la fede nella sensibilitàpura: si fa Mondrian, non si può fare Rousseau… Ovun-que lo stesso errore dei Vignola, questo stesso gustodella speculazione matematica he fece gli Arabi cosìgrandi e Vignola così piccolo; è che gli Arabi sapevanofar coincidere le volontà sensibili con le ingegnose com-binazioni numeriche, raddoppiando così il piacere delsenso con il piacere dello spirito. Vignola si accontentadella ingegnosità delle combinazioni numeriche. IlSignor Severini dimentica con Vignola che la geometriaè una cosa dello spirito e che tutti i suoi dati non hannonecessariamente un valore sensibile, dunque plastico. Siarriva ad una metafisica del numero che è cieca e peri-colosa come tutte le mistiche. Diffidiamo dello spiritoDurer, Vignola, Lentz, ecc… Leggiamo in certe pagineche tale e talaltra combinazione, tale o talaltro angolo,dà piacere o diletto e già ci sarebbe molto da dire (vedil’Estratto di Promemoir: Estetica e Purismo, di Ozenfante Jeanneret, in questo numero, pagina 1704) e non pos-siamo credere ad un’estetica basata sul piacere, - il pia-cere essendo questione di giudizio personale; acconten-tiamoci di parlare di emozione.Il Signor Severini dimentica anche che tutti i metodi diproporzione di cui vorrebbe vedere generalizzato l’im-piego in pittura e che derivano dai triangoli o dalle

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nizza, con ragione, Severini”. Accidenti, dove aveteletto che mi permetto di preconizzare una cosa cosìstraordinaria? Certamente non nel mio libro, vi sfido afarlo. Superfici a tre dimensioni? Il poco di geometriache conosco, Signore, mi impedisce di dire una simile…chiamiamola inesattezza…! Ho detto semplicementeche la tela è una superficie piana, sulla quale, attra-verso i mezzi della geometria, possiamo rappresentaredei corpi a tre dimensioni. (Ma non pretendo di averdetto qualcosa di nuovo, sapete!).Potrei dimostrarvi qui che, essendo il piano della telaa due dimensioni, le divisioni delle linee fatte su que-sto piano, secondo certi rapporti d’armonia, hanno unvalore assoluto, ma questo mi porterebbe troppo lon-tano.Infine, ecco, di tutta la vostra critica risulta che me nevolete per questo libro, per quale ragione, lo ignoro.Non sono piaciuto a voi e ai vostri amici nell’indicarealcune regole geometriche come basi certe per costrui-re? Ho avuto quest’audacia, Signore, perché giusta-mente, da molto, si parlava molto di numero, di disci-plina, di geometria, senza mai precisare, con una pru-denza che rassomiglia molto alla “fifa” intensa. Sola-mente Ozenfant et Jeanneret, dopo molti articoli neiquali hanno lasciato sperare in delle precisioni costrut-tive, hanno avuto il coraggio di enunciare una leggebasata sul “luogo geometrico dell’angolo retto” dicen-do che “il tracciato di un triangolo equilatero determi-na sugli assi due luoghi dell’angolo retto”.Ma guardate un po’ la sfortuna, proprio quest’enuncia-to non ha alcun senso, né per coloro che conoscono lageometria, né per coloro che non la conoscono. Peravere un senso, ci si sarebbe dovuti esprimere in tuttialtri termini, soprattutto si dovrebbero aver avute leidee chiare su questa parte elementare della geome-tria. Comunque, poiché promettono altre precisazioni,aspettiamo.Ma, nel frattempo, mi compiaccio di constatare che nelmio libro non abbiate potuto trovare alcun errore sulgenere di quelle che constato qui.Una cosa di cui sono certo, inoltre, è che alcuna basecostruttiva seria può essere stabilita senza la geome-tria e il numero. Ho ancora l’audacia di pensare, Signo-re, che questo modo di vedere non ha niente di misti-co. Tutto il mio libro non è, del resto, che un espostoquasi esclusivamente tecnico.

Risposta di Monsieur de FayetSeverini non ha apprezzato la mia critica del suo libro.Ho detto: “Ecco un artista che va verso la scienza e chela scienza inghiotte” e “facciamo della geometria unacultura dello spirito, un correttore degli errori dellasensibilità eccessiva, ma non rimpiazziamo il mistici-smo della sensibilità con quello della sezione aurea odl triangolo”.Ho avuto torto di dare importanza alla piccola opera diSeverini, opera naïf di un uomo di quarant’anni, chescopre, con sorpresa e meraviglia, la geometriadescrittiva e la prospettiva elementare, e che procla-ma, annunciando la sua scoperta, che apporta la sal-vezza negli ateliers. Il suo libro tratta in molti puntidell’educazione elementare di un artista, ma chi dice“elementare” non pretende trattare del problemagrave dei destini della pittura attuale. C’è una primaambiguità nel libro di Severini: è destinato ai bambini?Se sì, è incompleto; è destinato agli adulti? Se sì, èsuperfluo.Potrei riprodurre la sua tavola 19 del suo libro o “L’artedi far camminare una sedia sul soffitto attraverso i sem-plici mezzi della geometria descrittiva”. Ecco piuttostola tavola 21 dove una povera gentile dama subisce unospaventevole ed puerile massacro, sezioni, rotazioni etorsioni. Qui Severini fa un compito personale ed è unapura divagazione da maestro di disegno. Coloro chehanno studiato seriamente a sedici anni la geometriadescrittiva e la prospettiva (e convengo con Severini chemolti pittori non l’hanno fatto) sanno com’è pericolosotrattare attraverso sezioni oblique dei prismi nettamen-te caratterizzati, come i paraboloidi, gli ellissoidi,ecc…, e di trovarne le curve di inviluppo, i contorniapparenti o le intersezioni. Ora, Severini ci propone lamessa in prospettiva della figura umana, la quale com-porta solo forme di una geometria praticamente inde-terminata, con delle numerose sezioni che, in seguito arotazioni e prospettive, devono rendergli il profilo rigo-roso della figura vista di tre quarti. Si può semplicemen-te obiettare a Severini che questo è praticamenteimpossibile e si può sfidarlo a realizzarlo. È pur vero chela sua immagine è fatta per sbalordire i novizi.Altrove, Severini tenta delle ipotesi temerarie diarmonia lineare, basate sulle leggi fisiche del suono.Nessuna delle considerazioni di Severini ha a che vede-re con l’estetica. Che l’artista coltivi pure il suo cer-

sezioni di linee non possono avere valore esatto checome metodo di divisione di superfici piane e che ogniquadro (che sono superfici a tre dimensioni, come pre-conizza con ragione il Signor Severini), deve necessaria-mente giustificare attraverso la sensibilità dell’impiegodei suoi metodi.A che pro, dopo ciò, queste pagine vendicative sull’usodel goniometro il cui impiego caverebbe l’arte da quel-la che egli crede essere la decadenza attuale…Dà ragione alle elucubrazioni di Lièvre (vedi l’Amoredell’Arte).Non esageriamo, e l’Esprit Nouveau, che difende l’e-stetica sperimentale, intende precisare ciò che inten-de così: è prima di tutto la ricerca delle proprietà sen-sibili costanti delle forme e dei colori e la ricerca delleproprietà del vocabolario plastico. Ma attenzione. Chenon sia questione di “piacere” o di “bellezza”; sarebbericominciare gli errori di questi “voti al piacere” sutale o talaltra divisione di linea (Fechner e C.).In tutto ciò che dice Severini vi sono delle intenzionimolto buone di costruzione, di logica, di analisi, mauno spiacevole spirito mistico. Facciamo della geome-tria una cultura dello spirito, correttore degli scartidella sensibilità eccessiva, ma non rimpiazziamo ilmisticismo della sensibilità con quello della sezioneaurea o del triangolo.Fatte queste restrizioni, diciamo che si troverà unadocumentazione interessante sui metodi grafici degliEgiziani, dei Greci, dei Goti; ma Choisy, che li studiòqualche ventina di anni fa e che molti tra noi: Gris,Raynal, Lipchitz, Gleizes, Ozenfant e Jeanneret, ecc…frequentano da molto tempo non sono mai caduti nellamistica… non più di Fidia o di Villard de Honnecour. Igrandi costruttori dell’antichità e del medioevo si ser-vivano dei tracciati regolatori come di un comodomezzo di regolazione, salvo lasciare poi la sensibilitàcorreggere i loro dettati. Non si perdevano nell’estasidelle virtù della sezione aurea, dell’arcano numerico,o di tale e talaltro decimale di goniometro….Siamo d’accordo con Severini quando scrive: “È una delle caratteristiche della nostra epoca partirein quarta su un piccolo dato giusto e gonfiarlo fino alsofisma”.E anche con Newton quando dice:Fisica, non fidarti della metafisica.* Questa recensione è pubblicata in L’Esprit Nouveau n. 15

Lettera di Severini a M. De Fayet De Fayet ha ricevuto la seguente cortese lettera:Essendo lontano da Parigi, è solo in questi ultimi gior-ni che mi è pervenuto L’Esprit Nouveau n. 15, nel qualeho letto l’articolo che avete consacrato al mio libro:“Dal Cubismo al Classicismo”.Il modo in cui cominciate l’articolo mostra abbastanzabene il partito preso e il vostro a priori, per classificar-vi in quella categoria di persone alla quale alludo allafine del mio libro e che non mi interessano. Tuttavia,mi faccio carico di rilevare certe frasi che avete scrit-to per obbedire al mio esclusivo amore per la precisio-ne. Comincio in ordine:Cito, è vero, più volte Ch. Henry, ma non ho preso aprestito da Choisy che qualche disegno d’architettura(quello che altri hanno fatto nell’Esprit Nouveau, comedite voi stesso), non ho nominato che incidentalmenteVitruvio, Sant’Ivo, Jean Cousin, Albert Durer lo citosoprattutto come un precursore di Monge, che è incon-testabile e quanto alla Biblioteca Chacornac non vedocosa abbia a vedere in tutto questo; non ne faccio men-zione, non avendo d’altra parte l’onore di conoscerlache di nome.È tutta qui la redazione del mio libro? L’avete lettomale, Signore, e glielo dimostrerò subito.Ma mi permetta prima di tutto di sbalordirmi del fattoche definiate “il peggior Rinascimento” quello di Masa-cio, Paolo Uccello, Signorelli, Andrea del Castagno,ecc. a cui mi riallaccio! Caspita, avete gusti difficili! Eil buon Rinascimento sarebbe quello di Tiziano, Tinto-retto, Tiepolo, ecc.? Ad ogni modo, su questo puntosiete libero.Ma dove non siete libero affatto, è quando dite chedimentico che la geometria “è cosa dello spirito”. Viricordo, Signore, che in tutto il mio libro non faccioche insistere sulla necessità di applicare, per costrui-re, la geometria mezzo dello spirito, opponendolaalle “geometrizzazioni” cubiste, mezzi sensoriali edempirici; inoltre, ripeto spesso che affido alla geo-metria un ruolo puramente costruttivo, un ruolo dimezzo e non di scopo, che prova che non ho dimenti-cato niente e che gli riconosco il valore che deveavere. In seguito, mi addossate un’enormità che prova lavostra ignoranza in geometria; dite: la superficie di unquadro “è una superficie a tre dimensioni, come preco-

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messa in prospettiva della figura umana”. Non ho maidetto o proposto questo. Convenite che quando si parladi geometria (e sarebbe da augurarsi che ogni volta chesi parla di cose interessanti sia lo stesso) bisognaimpiegare il termine giusto, senza quello non ci si puòpiù comprendere. Dunque non propongo di mettere inprospettiva il corpo umano, ma di rappresentarloattraverso il “mezzo” delle proiezioni ortogonali. Ètutt’altra cosa. In effetti se rappresenta, per esempio,un cubo, con le proiezioni ortogonali, i lati non fuggo-no al punto di vista, sono paralleli; è il contrario conl’uso della prospettiva. Inoltre, voi dite che l’applica-zione di queste regole è praticamente impossibile, enello stesso tempo riproducete (senza la mia autoriz-zazione, faccio notare) un disegno nel quale un bustodi donna è visto di profilo e di faccia, e si sintetizzarigorosamente, attraverso una rotazione di 25°, in unaposa di tre quarti. È vero che la riproduzione del miodisegno è così piccola, che ci si può rendere conto amalapena dell’operazione; tuttavia ce se ne rendeconto lo stesso, soprattutto se si conosce un po’ di geo-metria descrittiva.Così come il disegno in questione dimostra per una pic-cola parte del corpo, questo è possibile per tutto ilcorpo. E credetemi, senza il bisogno di massacrarealcunché, ma semplicemente rinchiudendo in unaforma geometrica la parte del corpo che si vuole rap-presentare, come è stato sempre fatto. Non dico chequesto è facile e semplice, né che si può in questomodo rappresentare dei movimenti alla Watteau o allaFragonard; non ci si può permettere che delle rotazio-ni e delle leggere inclinazioni. I Greci se ne sono accon-tentati, noi possiamo fare altrettanto.La vostra sfida cade da sola e in più, avrà forse inseguito l’occasione di vedere operazioni di questogenere, e più complete.Per ciò che riguarda le “ipotesi temerarie” di armonialineare, basate sulle leggi fisiche del suono, approfon-dite un po’ ciò che Charles Henry dice sul ritmo evedrete che, se potevano essere meglio enunciate, nonsono fuori dall’estetica, come afferma, anzi, al contra-rio. Come vedete, ho dovuto constatare ancora unavolta che siete inesatto nel vostro modo di esprimervi,affrettato nella vostra conclusione, e sia detto senzarancore, ingiusto e leggero nel vostro giudizio. Perchémi parlate sempre come se nel mio libro avessi attri-

buito a questi “mezzi” geometrici un ruolo esclusivo,disprezzando la sensibilità dell’artista e il talento? Seavete letto questo libro, avete visto certamente chespesso ripeto che “non bisogna attribuire a questimezzi un ruolo che non hanno, e soprattutto non biso-gna considerarli come un obiettivo” (p. 62). In un altropassaggio (p. 114) dico “Tutta la sensibilità del pittore,tutto l’amore che ha per il suo soggetto, il suo tempe-ramento, tutte le sue qualità, in una parola, sarannomesse sulla bilancia in questo momento” ecc.Se un imbecille qualunque m’avesse rimproverato dinon parlare in termini più espliciti del talento, dellasensibilità, ecc., non mi sarei meravigliato; ma che voidell’Esprit Nouveau, che avete pubblicato le interes-santi ricerche di Charles Henry (segnalate da me dal1915), che avete tanto parlato di geometria ecc:,veniate a rimproverarmi ciò che difendevate poco fa, èsbalorditivo. Se potete per un attimo, astrarvi dalleragioni di ordine materiale, ecc., che l’hanno forsefatto prendere questa attitudine, dovete constatareche ho ragione di mostrarmi indignato e sorpreso.Non so, Signore, se siete giovane o maturo o vecchio,e poco mi importa se avete 40 anni o meno o più, maspero che siate giovane, poiché allora la maturità e l’e-voluzione verso la quale va vi permetteranno di megliogiudicare l’apporto di questo piccolo libro, il quale,modesto che sia, contiene dei mezzi che permettono dicomporre un quadro in maniera irreprensibile. Pochipittori possono dire altrettanto.E ora, Signore, dite ciò che vi aggraderà o assolutamen-te niente, l’incidente è chiuso e vi invio i miei saluti.GINO SEVERINI

Gino Severini: Risposta a Ozenfant e Jeanneret“Signori, Le precisazioni che apportate nella vostrarisposta (Espr. Nou. N° 17) confermano la mia opinio-ne: il vostro enunciato non ha alcun senso. In alcuntrattato di geometria, né in nessuno che conosca lageometria, ho trovato o sentito quest’espressione: “illuogo di un angolo” e ancora meno “il luogo di un ango-lo retto”. Il meno che si possa dire è che vi esprimetescorrettamente e, sapete, in geometria bisogna avereun linguaggio preciso, altrimenti non c’è modo di esse-re compresi.D’altra parte il luogo geometrico di un angolo retto edi un angolo qualsiasi non è un punto, come mostrate

vello con la matematica, è una disciplina dove ha tuttoda guadagnarci, ma la matematica non è affatto unacandida e mistica credulità nel valore del goniometroo del compasso.Convenite, Severini, che finora ho spes-so predicato la necessità del lavoro simultaneo dell’i-stinto e della ragione, ma non ho mai smesso di ricor-dare che Ingres, che conosceva la prospettiva, scriveva:“Colui che si affida al compasso, si affida ad un’om-bra”. C’è la geometria degli algebrici che conduce allaboratorio, e c’è la geometria del plastico che condu-ce alla cimasa. Quest’ultima agisce direttamente suinostri sensi e ci è sensibile nel quadro solo se ha colpi-to i nostri sensi (verità di la Palice). Quanto alla geo-metria descrittiva e alla prospettiva, ben sapete anchevoi che sono sempre state delle grandi antagoniste delpittore che, conoscendole a fondo, sapeva deviarne ilfalso rigore teorico per ottenere, con la sensazionedello spazio, delle combinazioni plastiche.Per ciò che concerne il lapsus che rilevate nella mianotizia: “Un quadro è una superficie a tre dimensioni”,fatemi l’onore di credere che so abbastanza di geome-tria per aver voluto scrivere “è uno spazio (virtuale) atre dimensioni”.De Fayet. Parigi, giugno 1922

Risposta dei Sigg. Ozenfant e Jeanneret“Signor Severini, nella vostra lettera dichiarate che il“luogo dell’angolo retto” non ha alcun senso. Ora, nonsi tratta di geometria elementare ma di ottica; si trat-ta di fissare gli occhi dello spettatore su dei “puntistrategici della tela”. Nella tela formato figura siinscrivono un triangolo equilatero avente il lato gran-de della tela come base e un secondo triangolo equila-tero avente il lato piccolo della tela come base. Questidue triangoli si incontrano sull’asse orizzontale dellatela formando degli angoli retti. Quest’incontro è unnodo di linee rigorosamente determinato dal formatodel quadro (i suoi assi, i suoi quattro angoli). Le incli-nazioni delle oblique di questo tracciato sono utilianche per comporre poiché procedono dagli angolidella tela. Il “luogo dell’angolo retto” è un tracciatoregolatore, niente di più. Ce ne possono essere altri.Abbiamo impiegato inoltre, qui, la “media proporzio-nale” dei lati della tela, che dà buone divisioni.”

Gino Severini: Risposta a Ozenfant e Jeanneret de’L’Esprit Nouveau52

Nella lettera che vi ho spedito da Viareggio ho com-messo l’errore di mettermi al vostro livello. Ecco chenella risposta che pubblicate nel n. 17 de’ L’E.N. scen-dete ancora più in basso. Non vi seguirò, questa volta.Peggio per voi se vi esprimete con un furore così disor-dinato…In effetti mi tirate dei colpi in maniera così cieca chesolo uno ha potuto raggiungermi. Confesso che uno deivostri colpi è arrivato, ma mi ha sfiorato e d’altronde,non mi ha prodotto che un lieve graffio. Giudicate voistesso: dice: “C’è una prima ambiguità nel libro diSeverini; è dedicato ai bambini? Se sì, è incompleto; èdedicato agli adulti? Se sì, è superfluo”.Qui siete ad un passo dalla verità, e onestamente loriconosco. Ho detto: ad un passo dalla verità, poiché ilvero errore è questo: il mio libro è dedicato a volte,non ai bambini, ma agli artisti che non hanno alcunacultura geometrica e matematica, e a volte a coloroche hanno una cultura al di sopra della media. Ha dun-que il difetto di essere allo stesso tempo troppo ele-mentare e troppo elevato. Ma ho le mie circostanzeattenuanti: so (e anche voi me lo concedete) che lamaggior parte degli artisti di oggi, e anche delle per-sone con una cultura sopra la media ignorano o hannodimenticato le regole elementari della geometria(guardate Ozenfant e Jeanneret, che visibilmentehanno dimenticato ciò che è un “luogo geometrico”);allora, volendo far comprendere l’uso dei rapporti edelle proporzioni, che sono alla base del mio metodocostruttivo e ritmico, ho dovuto cominciare con lo spie-gare cosa sia un rapporto e una proporzione. Avessi evi-tato queste dimostrazioni, il libro avrebbe avuto piùunità. Se avessi emesso la temeraria affermazione diaver scritto un’opera perfetta, voi avreste avuto ragio-ne a rimproverarmi questo errore con la violenza chevi mette. Ho, del resto, altre circostanze attenuantiche trovo inutile rivelare, delle circostanze che miimpedirono di occuparmi a fondo a fondo della redazio-ne di questo libro e che tutti i miei amici conoscono.PassonsAvendo lealmente segnato un punto a suo vantaggio, lechiederei, adesso: Perché dice: “Severini ci propone la

52 In realtà questa lettera è destinata ancora a De Fayet. C’è probabilmente un errore nell’attribuzione. [N.d.T.]

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Le proporzioni dimenticate. Leoncilli e la necessità dell’inattuale.

Lo Yale Center for British Art, originariamente intitola-to, in omaggio al suo mecenate, Paul Mellon Center forBritish Art and British Studies, è una delle più note estudiate opere di Louis Kahn. Obiettivo di questo scrit-to è quello di appuntare qualche riflessione su uno deitanti disegni di studio prodotti da Kahn nella fase diideazione del progetto, disegni pubblicati, fra l’altro,in un bel testo di Patricia Cummings Loud dedicato aimusei del maestro. In particolare ci soffermeremo suuno schizzo, datato 1970, in cui è raffigurato il frontenord del Mellon Center, quello rivolto alla strada prin-cipale, Chapel Street, con i due corpi di fabbrica acco-stati e le enormi travi adarco ribassato che dise-gnano il partito architet-tonico. Sotto, una scrittavergata a mano, daicaratteri tipicamentekahniani, per noi imma-ginifica forse più deldisegno stesso: PalazzoMelloni.Quale più suadentemadeleine di questa èpossibile escogitare perun architetto ancora nonlobotomizzato dai pixel?Quale migliore innescoper risvegliare energie mnemoniche poietiche latenti(si spera!) nella nostra mente? Palazzo Melloni è una terapia per sfuggire allo stordi-mento indotto dalle troppe immagini e dalle troppeparole di ogni giorno, per staccarsi un momento dalmonitor e ritornare a credere all’impossibile credibilevichiano, alla bella menzogna della poesia dantesca,alle ombre di De Chirico. Con quelle due parole in ita-liano Kahn ci offre, indirettamente, come facendocil’occhiolino o sorridendo a occhi bassi, una lezione digrande semplicità, spogliata da ogni cripticismo e daitoni demiurgici con i quali era solito velare e protegge-

re i suoi scritti e le sue lezioni, ma al contempo nonimmediata e attuabile come una ricetta. Il Mellon Center è una delle più emozionanti e intellet-tualmente feconde variazioni architettoniche sul tema,di genealogia secolare, del palazzo urbano. L’idea spa-ziale del blocco compatto multipiano, spesso rivestitoda un paramento architettonico fortemente gerarchiz-zato, con una corte interna e spazi di cristallina defini-zione volumetrica, viene adottata e nuovamente stu-diata da Kahn per rispondere alle esigenze funzionali erappresentative della collezione di arte inglese di PaulMellon, bisognosa di un museo e di laboratori, uffici,

sale riunioni e audito-rium. Sin dall’inizio, Kahnindividua la “mossa”compositiva che conno-terà tutto l’iter di pro-getto e infine la costru-zione realizzata, acco-stando due “palazzi” acorte, l’uno adiacenteall’altro, per ricavarneun unico edificio. Que-sta decisione aggancial’apertura del processoideativo (la pianta adoppia corte) alla tradi-

zione consolidata del palazzo urbano, e in particolare aquella variante con due corti accostate visibile nell’O-spedale milanese del Filarete, nell’Altes Museum diSchinkel e in infiniti edifici, noti o anonimi, distribuitia Roma come a Firenze, a Milano come a Parigi o Lon-dra. Ogni idea di spazio architettonico è inevitabilmen-te, anche, uno schema distributivo, una relazione traparti, e probabilmente il doppio blocco a corte consen-tiva a Kahn una flessibilità organizzativa appropriataalla complessità delle richieste funzionali della com-mittenza. Ecco perchè, nel progetto kahniano, l’idearimane inalterata dall’inizio alla fine, mentre mutano

nel vostro tracciato, ma tutti i punti equidistanti deidue lati di quest’angolo, e cioè la sua bisettrice inter-na e anche la sua bisettrice esterna, essendo questa labisettrice dell’angolo supplementare.Sempre in rapporto al tracciato che pubblicate notoinoltre che il punto che definite “luogo geometrico” (eche tra parentesi potrebbe essere determinato piùsemplicemente con l’orizzontale tracciata nel mezzodella tela, e per la verticale elevata dalla base su unquarto della lunghezza), noto dunque che questo puntonon si trova nemmeno sulla bisettrice di un angoloretto, ma di un angolo di 60°.Una volta constatata la scorrettezza del vostro enun-

ciato, e cioè dopo aver inquadrato la questione alpunto di della geometria elementare, che ha la suaimportanza, visto che vi fate riferimento, se la consi-dero sotto il punto di vista dell’ottica, dietro la qualesembrate rifugiarvi, vi risponderò che a mio avviso, esecondo l’avviso di tutti quelli che conoscono le leggidell’ottica che rivendicate, i “luoghi strategici” in unatela di 1 m non possono essere gli stessi che in un edi-ficio di 20 o 30 metri. Si avete scoperto una nuova geo-metria che giustifichi il vostro linguaggio, e dellenuove leggi dell’ottica, a nome di tutti i pittori vi sup-plico di enunciarli, ma chiaramente, almeno.Vogliate accettare …

PALAZZO MELLONI, YALE CENTERCristiano Cossu

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Palazzo Melloni, Yale Center

nia con il palazzo e il suo status espressivo. Nella pos-sente corte del Bargello, ad esempio, la scala si svilup-pa costeggiando una delle pareti perimetrali, mentre inaltri casi, come nei palazzi rinascimentali, il corposcala è frequentemente incastonato dentro uno spaziocorrispondente ad una stanza, aperto sul portico dellacorte. In esempi di carattere monumentale, come ilPalazzo Reale di Napoli, il “corpo scala” è uno spazioimmenso come una basilica, e assume su di sè le dimen-sioni, le forme e la solennità di un protagonista assolu-to, che introduce all’edificio con un acuto stordente,intenso, mentre la lucelo inonda generosamen-te incanalandosi tra ivetri della loggia supe-riore.Perdersi in un palazzorisulta dunque impossi-bile, a meno che non sitratti del fiorentinoPalazzo Vecchio: qui,dentro la scorza arnol-fiana di pietraforte,costituita dal grandeblocco merlato e daquello più piccolo dellatorre - modello in scalaridotta del blocco princi-pale - Vasari ricavò un incredibile incastro di stanze,sale, studioli e logge, doppie pareti e sequenze meravi-gliose di spazi, integrando nuovo e vecchio e dando vitaad un vero puzzle spaziale in cui è persino piacevolesmarrirsi. Eppure, in colui che vuole conoscerlo e visitarlo, qual-che dubbio il palazzo lo induce. Pensando ad esempio aPalazzo Rucellai, o allo stesso Palazzo Vecchio, è spon-taneo chiedersi se il partito architettonico esterno e glispazi interni siano frutto di una medesima concezione.In definitiva si percepisce, in non pochi casi, e spesso acausa di mutazioni indotte dall’uso e dai lunghi tempidi costruzione e vita di questi edifici, una sorta di scis-sione fra l’abito lapideo che riveste il corpo di fabbricae la configurazione interna. In tal senso, l’architetturadei palazzi ricorda, qualche volta, quella delle chieseantiche ma rimodellate all’interno, che essendo stateriadattate al gusto delle epoche successive appaiono

barocche dentro e romaniche fuori... Questo discorsova tuttavia calibrato in relazione ad un’altra decisivacaratteristica del palazzo urbano, che può isolarsi comefigura a tutto tondo, oppure inserirsi entro quinte edi-lizie più ampie. Essendo libero su tre lati, PalazzoStrozzi è una sorta di “Colosseo quadrato”, come ilPalazzo della Civiltà Italiana all’Eur, mentre il menzio-nato Palazzo Rucellai è “solo” una facciata, perfetto“stiacciato” in pietraforte di elegantissime proporzionialbertiane. La Casa del Fascio a Como è un modernoPalazzo Strozzi in telai di cemento, tamponature into-

nacate, e ancora logge esale armoniose. Di con-seguenza, la sensazionedi sorpresa da cui siamocolti quando visitiamoun palazzo urbano è sen-z’altro accentuata se lasoglia che attraversiamoè niente più che unafacciata, un sempliceschermo che tuttaviaintroduce in un mondocomplesso e del tuttoinaspettato; all’oppo-sto, l’emozione sarà digran lunga meno intensase ben prima di entrare,

dallo spazio circostante, avremo potuto cogliere lo svi-luppo dell’edificio nelle sue tre dimensioni. In ogni caso, ruolo e funzione del rivestimento esternosono anche quelli di “rilegare” e tenere insieme spazidiversi, racchiudere in un unico manto cellule e volumioriginariamente differenti, definendo un guscio ched’un colpo rinnova il volto con cui la costruzione si pre-senta nello scenario urbano. Nelle nostre città, similicasi di accorpamento sono assai numerosi, e suggerisco-no, tra l’altro, un certo grado di indipendenza fra“abito” e “corpo”.Individuati i temi architettonici che il palazzo urbanopropone, o meglio alcuni dei più importanti, possiamoindagare su come Kahn li abbia interpretati, quali abbiaadottato, e quali altri abbia trascurato o del tutto igno-rato.Variare significa, innanzitutto, produrre qualcosa dinuovo partendo da ciò che già esiste. Ma la particolari-

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intorno ad essa le forme con le quali tentare di affer-rarla e farla apparire.Prima di osservare le soluzioni con cui Kahn sperimen-ta, nel caso specifico, il tema del palazzo urbano, cer-chiamo di stabilire quali sono gli elementi compositividi base di cui egli poteva disporre per sviluppare le pro-prie variazioni.La pianta di un palazzo, cellula urbana per eccellenza,è analoga a quella di una città antica: un tessuto con-tinuo animato, quando necessario, dei punti notevoliche su quello risaltano. La trama di base del tessuto ècostituita dal nucleodella “stanza”, o sala.Questo spazio, vera sca-tola di luce disposta fraparete esterna e corteinterna, varia e si tra-sforma assumendo confi-gurazioni tra le piùdiverse per ruolo eimportanza, a secondache debba essere unsemplice spazio di servi-zio, uno studiolo per ilcommittente, un saloneaffacciato sul CanalGrande, o debba magariaprirsi come loggia d’an-golo sulle muraglie diPalazzo Vecchio. L’unaaccanto all’altra, lestanze danno vita al tessuto continuo e tridimensionaledel palazzo, così come le case danno forma e immagi-ne a quello della città. Almeno una volta per ognipalazzo, una stanza-casa diventa “cattedrale” o“palazzo”, assume cioè le sembianze di elemento note-vole della trama, facendosi solista nel coro. Nasconocosì alcune delle più belle stanze che conosciamo: lasala del Palazzo di Parte Guelfa a Firenze, la sala diDonatello al Bargello, certe sale da ballo di Schinkel, ola sala riunioni nella Casa del Fascio di Terragni, cosìcome alcune splendide sale nei palazzi di Hans Kollhoffa Berlino. Ciascuna di esse è illuminata da finestre,coperta con sistemi lignei o voltata, pavimentata sem-plicemente o con superfici preziose, e soprattuttodotata di un’indole spaziale della massima chiarezza,

evidenziata con mezzi sempre uguali e standardizzati.Una stanza di un palazzo non deve stupire con elemen-ti inconsueti, ma piuttosto offrire uno spazio adeguatoalla celebrazione dei riti sociali più importanti, farsicornice appropriata per eventi molto più significatividell’architettura che li ospita, e in definitiva deve ser-vire e non essere servita da coloro che la usano. Perquesto, eccelso costruttore di stanze fu Mies, che con-ferì alle sue “aule” e alle sue sale una sovrana calmaiconica e spaziale, facendo veramente spazio per gliatti, i movimenti e i pensieri sociali dei suoi commit-

tenti. E accanto a lui,non possiamo dimentica-re i tanti illustri scono-sciuti che costruironopalazzi nelle maggioricittà d’Europa o anchein piccoli paesi comequelli del Salento, dovelungo strade dalle pro-porzioni decorose spessosi affacciano piccoli edi-fici, magari di soli due otre piani, di una sempli-cità spaziale disarmanteeppure sconvolgenti perl’armonia dell’organiz-zazione interna. Qui, inuna stanza di pochimetri quadrati, stru-menti semplici come le

proporzioni, una bella volta a stella, una finestra da cuipenetra il chiarore di una luce unica, possono farci cre-dere, a volte, di essere in un’aula enorme e vastissi-ma.Ma come si giunge a questi gioielli incastonati in ognipalazzo? Come percorriamo questo “cubo magico”apparentemente così semplice? Superato l’androned’ingresso siamo accolti da una corte scoperta,anch’essa stanza fra le stanze e luogo ordinatore ditutto il complesso. Dalla corte comprendiamo comeorientarci, e tutto ci è chiaro quando di fronte a noi siaprono le rampe di una scala, che a volte è uno scalo-ne monumentale di forte impatto scenografico, essostesso spazio esaltante per forma e caratteristiche, avolte è qualcosa di più sobrio, ma pur sempre in armo-

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posto come una cerniera fra i due vuoti quadrangolaridelle corti, e destinato ad essere chiaramente percepi-to da entrambi gli ingressi all’edificio: quello principa-le sulla Chapel Street, e quello secondario su HighStreet. Tale scalone rappresenta, a tutti gli effetti, unodei più classici elementi del palazzo urbano, l’ennesi-mo frutto di quella lunga tradizione approdata allaScuola delle Beaux-Arts e tanto cara a Kahn sin daglianni della sua prima formazione. Fra i più suggestivi spazi interni di questa prima soluzio-ne, va sicuramente ricordata la galleria espositivaall’ultimo piano. Essa riprende le proporzioni planime-triche della campata del Kimbell Museum, un parallele-pipedo lungo e stretto voltato a botte, ma si caratteriz-za per la copertura ad arco ribassato disposta sulla lun-ghezza, e non in trasversale. Gli schizzi kahniani sem-brano proprio raffigurare le arcate di un ponte sotto cuisia stato allestito un museo, ma questa possente strut-tura fu una delle cause che portarono la severa e pre-paratissima committenza a sollecitare un insieme dimodifiche, costringendo il progettista a impostare unaseconda soluzione. La critica rivolta a Kahn riguardavaproprio il pericolo di una sproporzione fra questa gran-de arcata e l’immagine complessiva del museo, comese la forza iconica dell’edificio potesse divenire pre-ponderante rispetto al significato dell’istituzione: un“problema” quantomai familiare e ricorrente - per for-tuna, diciamo noi - nell’architettura kahniana. L’input di una committenza di alto livello - comunqueinteressata a rappresentare sé stessa attraverso un’ar-chitettura di qualità - favorì lo svilupparsi del processoprogettuale in una direzione addirittura migliore. Kahnimpostò l’edificio con forme diverse, ma secondo ideespaziali simili e forse identiche. Fermo il principio deidue grossi blocchi edilizi accostati, ciascuno con la suacorte interna, l’idea strutturale con cui prima eranorisolti i volumi perimetrali si traduce ora in un sistematrilitico di telai cementizi che configurano una sorta diportale. Sul Chapel Street i due “palazzi” affiancatipropongono una grande parete intelaiata, articolata inpiani e fondata su quattro pilastri posti alle due estre-mità. Ciò che prima era un ponte ad arcate sovrappo-ste (arcate disegnate dal rivestimento, con solai oriz-zontali e “volta” di coronamento), assume ora le vestidi una enorme trave-parete poggiata su piedritti,lasciando nuovamente al piano terra un ampio varco

libero per le vetrine dei negozi e per gli accessi. In pro-fondità, questa parete torna ad essere una doppia elunga “manica”, che ispessendosi mediante un appro-priato sistema di telai strutturali, ospita gli spazi piùampi e a maggior sviluppo longitudinale. Kahn nonrinuncia, pertanto, alla complessiva gerarchia spazialeimpostata nel primo progetto, ma ne trova una diffe-rente disposizione mutando il genere e la specie deglielementi costitutivi. Il “tessuto” delle stanze che stan-no intorno alle corti viene gestito, ancora una volta,per mezzo di impegnativi schemi strutturali, generato-ri di grandi spazi liberamente allestibili ad ogni piano.Tale scelta lascia nuovamente emergere lo schema ini-ziale, una pianta in cui le due corti sono fiancheggiateda lunghi edifici, che prolungandosi appena oltre i limi-ti di queste si affacciano sui lati minori come “torri”,sostegni di un “vuoto” aperto sulla città come il loggia-to di Palazzo Piccolomini a Pienza: su High Street, laprima corte è separata dallo spazio esterno solo daipiani vetrati delle “cross hall”, veri e propri ponti dicollegamento fra i due lati principali del complesso; suYork Street, dalla parte opposta, Kahn immagina inve-ce la seconda corte come sistema di terrazze digradan-ti verso lo spazio pubblico.Forse, l’idea più feconda di questa seconda soluzione èl’ampio scalone centrale. Soluzione eccezionale, degnadella fantasia spaziale di Piranesi o della teatralitàarchitettonica dei Bibbiena, esso opera da vettore dimovimento verticale tangente il “piano” di separazionefra i due grandi blocchi, piano che così risulta eviden-ziato e prende corpo come vero e proprio tema archi-tettonico. Qui, gli assi ordinatori della struttura, signi-ficativamente, si sdoppiano, quasi a voler rendereancora più chiara la logica che sottende l’intera com-posizione. Questa “lobby” è un aereo complesso di telaicementizi e rampe curvilinee, entro il quale trovanospazio anche le due torri degli ascensori. Superato l’in-gresso da Chapel Street, chi percorre il lungo andronegiunge nella “central hall” (disposta “sotto” la paretedivisoria virtuale cui abbiamo accennato), per poi tro-varsi in posizione perfettamente baricentrica: alla suasinistra si apre il “portale” dello scalone - dove i dueascensori fiancheggiano il varco d’ingresso al sistemasimmetrico di rampe - mentre alla sua destra è colloca-to l’accesso all’auditorium; in seconda battuta, sonopoi raggiungibili i negozi e gli spazi minori. Possiamo

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tà più intima e preziosa di questo esercizio sta nellacapacità, richiesta a colui che lo pratica, di mostrarenel risultato del procedimento l’opera originale, la tra-sformazione variata e ancora l’originale, così come faGlenn Gould suonando le Variazioni Goldberg. Una spe-cie di espansione per cerchi concentrici che dà vita adecine di frutti nuovi, e infine si chiude nel punto dipartenza saldando vecchio e nuovo in armonica com-presenza. In sostanza, a chi si prefigge di variare untema architettonico è richiesto di riconoscere l’ideache struttura le opere prese a modello, e di produrne lavariazione senza che l’idea stessa venga sminuita,negata o fraintesa, ma anzi risulti ancor più chiara eleggibile proprio per mezzo del “nuovo relativo”costruito.E questo fa Louis Kahn. Studiare il Mellon Center diven-ta dunque un’occasione per riapprendere cosa sia unpalazzo urbano; per ritrovare, di quell’idea di spazio,alcuni elementi cardinali; per riflettere nuovamente,infine, sull’idea di tipo architettonico e su cosa essasignifichi nell’ambito della composizione architettonica.Per il Mellon Center Kahn fornisce tre soluzioni signifi-cative, ciascuna corredata da molteplici sottovarianti.L’area a disposizione è un rettangolo allungato con trefronti rivolti allo spazio pubblico: uno dei lati maggiorifronteggia Chapel Street, importante arteria che pochimetri più avanti, sul lato opposto, lambisce un’altracelebre costruzione kahniana, l’Art Gallery della YaleUniversity; i due lati corti si affacciano su High Street eYork Street; il secondo dei due fronti a maggior svilup-po, a sud, si volge verso un’area interna contigua adaltri lotti. Su York Street, l’edificio si confronta con laCalvary Baptist Church, presso la quale Kahn avrebbedovuto costruire, successivamente, una biblioteca d’ar-te connessa al Mellon. Di conseguenza, unici prospetticompletamente “a vista” risultano quello lungo la viaprincipale e quello corto su High Street.Come spesso succede, la prima proposta tratteggiata èdi forte suggestione fantastica, contrassegnata daun’invenzione spaziale che determina il carattere e ilvolto di tutto l’edificio. Kahn circoscrive gli invasi qua-drangolari delle due corti con una sorta di lunga “mani-ca” simile alle ariose campate del Kimbell Museum:all’unico elemento disposto sul lato minore (HighStreet) si aggiungono i due elementi allineati su ciascu-no dei due fronti maggiori, a sottolineare l’articolarsi in

due blocchi dello spazio interno. Ne risulta una piantain cui un recinto esterno - costituito da volumi lunghi estretti nei quali una enorme trave Vierendeel copre laluce fra quattro sostegni puntiformi angolari - inglobagli spazi a corte e quattro torri destinate alle scale diservizio.Considerato il modulo che Kahn adotterà nella versionefinale del progetto, pari ad un quadrato di sei metri dilato, i lati lunghi definiscono una campata che si puòvalutare di circa 25-30 metri: un’arcata da ponte a for-mare la “parete” del Palazzo Melloni. Ciascuna di que-ste campate rettangolari allungate sembra essere costi-tuita dai quattro piedritti posti alle estremità, dai solaiorizzontali che articolano lo spazio interno, e dallatrave Vierendeel a profilo ribassato posta in copertura.Kahn pare ricordarsi delle grandi invenzioni strutturalidell’architettura romana, e immagina un edificio comeassemblaggio di edifici. Ognuna di queste “pareti” èinfatti essa stessa un “palazzo” per dimensioni, porta-ta figurativa, organizzazione planimetrica e gerarchiain elevato: basamento a destinazione commerciale,successione di piani intermedi, e infine galleria a pian-ta libera all’ultimo livello, coronata dalla grande volta.Cinque di questi “palazzi” dalla pelle di granito circon-dano le corti, mentre incastrate alle loro estremitàemergono quattro torri-scala in acciaio, poste a segna-re le facciate dei lati corti come sovradimensionatecolonne d’accesso. Su York Street, verso la chiesa batti-sta, non compare alcun corpo di fabbrica a ponte, ma lospazio della corte si apre all’esterno con terrazze epiantumazioni in quota. Il rivestimento lapideo deglielementi perimetrali appena descritti è appropriato altema architettonico, e infatti ne sottolinea la geometriaarcuando le linee di separazione tra ricorsi successivi,peraltro evidenziate dal ritmico contrappunto dei giun-ti verticali; in uno studio successivo, invece, questa sin-golare tessitura è sostituita da una trama rettilinea ditelai cementizi, resa ancor più monumentale, se possi-bile, dalla doppia arcata che chiude l’intero prospetto.Lo spazio interno, cinto da queste “muraglie”, è preva-lentemente illuminato da luce zenitale, incanalataentro torri vetrate che raggiungono il piano terra; nellacorte su York Street, invece, l’illuminazione è favoritadalla naturale apertura verso l’esterno. Centro dell’e-dificio così configurato è un ulteriore corpo scala dalcarattere fortemente scenografico e rappresentativo,

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solo immaginare - ed è già tanto - l’emozione di poterdavvero vedere quella scala e salire quelle rampe. Cisaremmo trovati a vivere, crediamo, un’esperienza dinotevole intensità, senza dubbio analoga a quelle spes-so descritte da Luigi Moretti, “classica” per connotativisivi, proporzioni, tensione fra sequenze spaziali: dap-prima la corte coperta, poi il lento aumentare dell’in-tensità luminosa approssimandosi alle botti strette elunghe dei lucernari, e in fondo, oltre la “loggia” deipiani a “cross hall”, lo spazio della città - una stranaspecie di Val D’Orcia kahniana...La terza e definitiva soluzione progettuale - a sua voltaarticolata in sottofasi di sviluppo - si caratterizza peruna forte razionalizzazione dell’impianto, o più esatta-mente per una riduzione all’essenziale degli elementicompositivi, distributivi e strutturali con cui esplicitarel’idea (sempre la stessa) dei due “palazzi” a corteaccostati. Sulla base di ulteriori e puntigliose osserva-zioni della committenza, Kahn organizza un edificiototalmente composto da cellule “cubiche”, ordinate inpianta da una maglia strutturale a moduli quadrati dicirca sei metri per sei, e giunge ad una chiarezza e aun’eleganza spaziale che lungi dal far rimpiangere leinvenzioni “eroiche” delle soluzio-ni precedenti, piuttosto le sorpas-sa per compiutezza e unitarietà. Per mezzo di un sistema struttura-le semplificato, costituito da pila-stri e solette in cemento e coadiu-vato, ove necessario, da travi esetti portanti (ad esempio in corri-spondenza delle torri con i colle-gamenti verticali), i due “palazzi”originari vengono inglobati inun’unica organizzazione additiva“ad quadratum”, articolata essen-zialmente in due gradi gerarchici:il modulo 6x6m della “stanza”, e ilsuo “multiplo”, pari a 12x12m(quattro moduli). Sul lato cortodell’edificio, la sezione presentatre moduli doppi (secondo la suc-cessione: corpo di fabbrica - corte- corpo di fabbrica); su quellolungo, partendo da High Street,abbiamo la seguente scansione:

modulo base - corte a modulo doppio - modulo base -modulo doppio corrispondente alla lobby dei collega-menti verticali (“fusa” per la larghezza di un modulocon la seconda corte, estesa per tre moduli) - corpo difabbrica di modulo doppio. In questo proporzionamen-to, la maglia planimetrica assume una tensione vertica-le appena accennata: ogni cellula 6x6m diventa pocopiù che cubica elevandosi sino a due piani, e l’incavodella corte assume anch’esso analoghe proporzioni - uncubo appena più alto della norma - giungendo all’altez-za massima di quattro piani fuori terra, giusto all’intra-dosso dei lucernari crociati. Un simile “respiro”, quasiun movimento astratto delle membrature costruite,consente al progettista di ritrovare senza sforzo e inmaniera apparentemente semplice la giusta posizionedelle parti, l’appropriato meccanismo di relazione fradi esse, e di massimizzare la visibilità dell’idea perse-guita. Lasciandosi alle spalle, pur senza dimenticarla,la potenza costruttiva e figurativa delle ipotesi prece-denti, con “niente”, o pochissimo, Kahn riesce a man-tenere inalterato il tema delle due grandi corti - e ilcorpo scala fra i due palazzi, e le sale piccole e grandi“foderate” efficacemente dai tamponamenti esterni e

interni - e conferisce alla costru-zione realizzata un carattere quasidomestico, quella domesticità pro-pria del palazzo signorile.Durante uno degli incontri prelimi-nari avuti con Louis Kahn, Paul Mel-lon ricevette l’architetto nella suacasa e nella sua biblioteca. Kahn fuparticolarmente colpito da quellavisita, e ricordò sempre il momen-to in cui il suo mecenate provò araccontargli il piacere di poterammirare le opere d’arte all’inter-no della propria abitazione, piutto-sto che in un museo, in ognimomento della giornata. Un piace-re che avrebbe voluto poter tra-smettere, in qualche modo, ancheai visitatori del nuovo edificio. In effetti, cos’altro sono gli spazidel Mellon Center, se non le “stan-ze” di una grande casa, o megliodel Palazzo del Signor Melloni?

Ha senso, nel terzo millennio, tra rappresentazioni olo-grammatiche, realtà virtuali, protesi cibernetiche equant’altro, parlare di tracciati regolatori, di propor-zioni? La sezione aurea custodisce qualche mistero? Laradice di due (√2) può rivelarci ancora qualcosa? Qualerapporto può esserci tra le architetture di un Gehry o diun Eisenman e la teoria dei medi proporzionali?

Domande retoriche, forse. Ritengo invece che lo studiodelle proporzioni abbia ancora un senso per lo studen-te e l'architetto compositore. Le ragioni possono divi-dersi in quattro categorie principali: l’una di carattereun po’ più storico, ma propedeutica alla composizione;le altre tre, invece, prettamente compositive. La prima è che l’acquisizione di una certa sensibilitàalle proporzioni permette un approccio di tipo qualita-tivo verso l’opera architettonica. Infatti, poiché mol-tissima dell'architettura antica è stata costruita conmoduli calcolati geometricamente, sarebbe corretto efertile leggere l’opera nella “lingua in cui è stata scrit-ta”. Potremmo infatti benissimo, nello studiare i piùgrandi esempi di questa, fare a meno del metro53. Nonsi parla qui di uno studio finalizzato ad un'opera direstauro “scientifico” dell'edificio, per il quale ilmetro è sicuramente utile, ma di uno studio rivolto acomprendere come l'opera sia stata concepita, comesia stata costruita, quale sia la sua morphé (nel sensogreco del termine). Chi è pratico di rilievo architetto-nico non può nascondere, in ogni caso, come anchenella prima fase del rilievo (quella dell'eidotipo, per

intenderci), la comprensione dei rapporti geometrici esintattici delle varie parti di un edificio faciliti l'opera-zione di rilevazione tutta. Nessuno dubita della como-dità del metro come sistema di misura; ciò nonostan-te, nello studio dell'architettura (e dell'architetto),esso può essere fuorviante perché riduce l'opera archi-tettonica a dati quantitativi (larghezza, lunghezza,altezza), offuscandone la comprensione più autentica.Indifferente all’oggetto cui viene applicato, ignorandose ciò che viene misurato sia un piedistallo o un capi-tello, una lunghezza o un'altezza, il metro perde(meglio: non ha affatto), la capacità di intuire il ruoloche ha la colonna rispetto all'altezza del vano, la lar-ghezza di questo rispetto all'apertura della porta e cosìdi seguito. L'applicazione pedante del sistema metricodistrugge la trama di rapporti gerarchici e semantici sucui spesso l'edificio si regge. Chi si mette a leggere(leggere nel senso di studiare) la Sagrestia Vecchia conil metro è fuori strada: probabilmente non comprende-rà nulla della sua complessità e anzi, per paradosso,essa potrà sembrargli finanche banale. Il metro è figlioprimogenito di Cartesio. La sua potenza (il piano car-tesiano: la griglia), può coprire e nascondere qualsiasioggetto. “Noi oggi potremmo dire che, per la diversafunzione assegnata ai due sistemi, si possano generareparadossalmente due distinti modi di rilevare l’archi-tettura. Ove opera il modulo, infatti, parrebbe suffi-ciente la determinazione di un solo dato, il semidiame-tro della colonna, per ottenere tutte le altre misure,anche se inaccessibili; laddove invece agisce una misu-

CONCLUSIONE: IL SENSO DELLE PROPORZIONI

“Io non rispetto la tradizione: la amo” I. Strawinsky

53 Si veda il metodo di Milizia per dimensionare gli elementi architettonici, basato su partizioni successive, e quanto sia irriducibile (concettualmen-te, è ovvio) al sistema metrico.

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Conclusione: il senso delle proporzioni

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mentato. A prescindere dalla fase metrica, è un rilievodove spesso si consente (e si incoraggia), l’allievo amettere in mostra le proprie capacità grafiche nelriprodurre un soggetto architettonico. Il rilievo si tra-sforma insomma in disegno dal vero: una natura morta.Con la sola differenza che il soggetto non è un vaso difrutta ma un edificio. Ma è evidente che così come unbuon ritrattista non è necessariamente un buon pittore,un rilievo di quel tipo non dà alcuna garanzia sullabontà dell’architetto.Per rilievo architettonico vorrei invece intendere quiun’altra cosa: il rilievo dell’architetto che va incontroal monumento con delle domande da porre. “Qui è ilpunto centrale della questione: studiare la storia perpercepire l’essenziale; ed è questo che si deve insegna-re fin dal principio, anche mediante il rilievo dei monu-menti. La capacità di affrontare gli elementi dell’archi-tettura non verrà affatto infirmata, ma troverà anziuna possibilità di arricchirsi nell’interno dialogo cheognuno farà tra ciò che egli inventa e ciò che è statoinventato prima di lui.” (Rogers, p. 102)E generalmente queste domande nascono quando si

deve costruire realmente un edificio: allora si guardaagli altri edifici con altri occhi. E questo, da un puntodi vista didattico, implica che lo studente dovrebbeessere spinto presto ad un reale esercizio costruttivo,in modo che sia obbligato ad un reale esercizio di rilie-vo. In quel momento lo studio, la visita e il rilievo assu-mono significati molto più intensi. Il rilievo architetto-nico compositivo obbliga a ri-progettare l’opera: asmontarla e rimontarla. Per sapere come è statacostruita, la devo anche ri-costruire. Io lo chiamo rilie-vo poetico. Sia perché è veramente un rilievo diversodal rilievo anestetico, sia perché è, nel senso greco deltermine, produttivo. Questo rilievo obbliga ad un’edu-cazione alle proporzioni e alla tecnica: alla Baukunst. Ilrilievo è dunque anche progetto: composizione. “L’ope-razione induttiva è altrettanto necessaria quanto quel-la deduttiva e il compiere entrambe è una corroboran-te ginnastica dell’intelletto e dei sensi. Particolarmen-te per l’architettura il penetrarne le strutture, il posse-derle, il variarle, è già fare, sicché esaminare un monu-

mento, tramite un’indagine approfondita del rilievo,conduce ben al di là di una constatazione metrica spa-zio-temporale perché conduce tale esperienza allesoglie della creazione compositiva. L’atto di rilevare ilmodello della Cupola di S. Pietro o la Cupola vera,mentre coglie forme uguali in scala diversa, spiegaimmediatamente la sostanziale differenza delle strut-ture costitutive dei due fenomeni le cui forme, purparagonabili nelle apparenze, denunciano la sostan-ziale differenza che sottende alla loro concretezza.Così risulta l’inconsistenza di qualsiasi approccio for-malista alla realtà architettonica, la quale si puòintendere appieno solo se condotta con rigore fino allasostanza più vera della struttura immanente nell’og-getto che si vuol decifrare.” (Rogers, p. 40)È il rilievo che Le Corbusier fa quando si trova al Parte-none o nelle ville pompeiane. È il rilievo che fannoChoisy, Viollet le Duc. È il rilievo che fa Palladio deltempietto del Clitunno a Spoleto. E poi di Alberti, diBrunelleschi.La seconda ragione per cui lo studio delle proporzioni èancora significativo, è di ordine prettamente composi-tivo. Parlare di composizione e di proporzionamentoapre tuttavia un panorama così ampio che è impensabi-le provarne qui una sintesi, seppure brutale. Indico soloalcuni argomenti strettamente collegati: il rapporto traproporzioni e dimensioni, il rapporto tra disegno eparola, il rapporto tra il disegno d’architettura e ilpiano, e, infine, il rapporto tra disegno e costruzione.Accogliendo le tesi di Leoncilli Massi, le proporzioni tra-scendono il mero dato geometrico-costruttivo, diven-tando più “dense” di significato. La proporzione è"sprezzatura", diceva, indicando felicemente con unsolo termine sia una condizione etico-intellettuale diassoluta rilevanza, sia il contesto storico (rinviando aPetrarca e poi a Castiglione e Raffaello), in cui tale con-dizione nasce e si sviluppa57. La “sprezzatura” consen-te di realizzare le più grandi opere senza che appaia ilminimo sforzo, senza alcuna eccentricità, ed è in que-sto simile alla mediocritas ciceroniana prima ed alber-tiana poi58.Le proporzioni sono come un'intelaiatura "intima", uno

ra convenzionale, per conoscere le grandezze è neces-sario procedere alla misurazione sistematica di tutte leparti.” (Torsello, 2006, p. 56)Quanto appena detto vive su una premessa implicita:che la storia dell’architettura abbia un valore positivo.A chi non assegna nessun valore alla storia, il discorsoappare infatti inutile. Ma a questo punto è forse opportuno esplicitare la pre-messa e dichiarare la qualità del rapporto con la storia.Il rapporto che intendiamo è immediato e proficuo, dis-involto e profondo allo stesso tempo. La maieuticaleoncilliana costringeva da un lato ad allargare il pro-prio ambito di ricerca, e dall’altro a restringerla.Restringere l’approfondimento storico, l’esattezza filo-logica, l’attribuzione certa, la data dirimente, e scon-finare invece nella pittura, nella scultura, nella lette-ratura e finanche nella musica. La sezione di questolibro, chiamata “interludio”, vuole essere appunto unesempio di ciò che si intende quando si parla di un rap-porto fecondo con la storia: ad immagini di suoi proget-ti vengono contrapposti, affiancati immagini di Palla-dio, di Schinkel, di Scamozzi, di Aldo Rossi, del Tem-pietto del Clitunno. Ritengo che il rapporto con lamemoria sia stato uno dei punti cruciali dell’insegna-mento leoncilliano54. Ed il termine è slittato noncasualmente da “storia” a “memoria”. La storia è infat-ti la sterminata teoria di opere, di dettagli, di fram-menti, sullo sfondo di un tempo cronologico. La memo-ria è invece già una musa: ha riorganizzato la storia.Dal labirinto della storia la memoria riesce a trarre quelfilo rosso, che obbligando a ripercorrere alcune stanze,ci riconduce all’uscita. Siamo tornati da dove siamopartiti, certo, ma non siamo più gli stessi. Se infatti lamemoria è una raccolta ordinata è perché è impossibi-le ricordare tutto. E quindi è impossibile conservaretutto (anche sotto il profilo architettonico, ovviamen-te. E la cosa ha conseguenze immaginabili nel proget-to). Le opere di architettura vengono ridisegnate e pie-gate al solo uso compositivo, e non storico. Che il tem-pietto del Clitunno sia autenticamente romano o poste-riore è ininfluente ai fini della composizione.

Parlo evidentemente di una storia dell’architettura aduso e consumo di architetti creatori di forme, e noninvece di storici o critici dell’architettura55. E non perreiterare una distinzione insensata tra architetticostruttori e critici o storici. Poche cose mi hanno libe-rato nella visione dell’architettura come alcune paginedi Colin Rowe o di Tafuri, e ritengo che i critici abbianouna funzione importantissima nella formazione cultura-le dell’architetto. Mi rivolgo ad architetti costruttoriperché spesso, nel disegnare un’opera, occorre sì rifar-si ad opere del passato, ma dimenticando la data pre-cisa, l’autore, la committenza. Del passato possiamoliberamente prendere una forma, una suggestione, esvilupparla fin dove ci aggrada. Questo non significaavallare un comportamento predatorio del passato,anzi. Prendere e sviluppare un’idea (una Figura, avreb-be detto più correttamente Leoncilli Massi), implica unatteggiamento di profondo rispetto e studio verso l’o-pera presa a riferimento. “Gli oggetti di Morandi, sono,in qualche misura, sovrastorici, almeno negli anni piùtardi. Sembrano pretesti per delle variazioni compositi-ve. Non vi è quasi più memoria della loro modestia disuppellettili già utili ma ora inutili alle necessità quoti-diane e modeste.” (Contessi, p. 184)Appare chiaro quindi che una storia dell’architetturapropedeutica al progetto va letta secondo un’otticamodulare, proporzionale, geometrica, e non, invece,metrica.Secondo un’ottica compositiva.

Prima ho introdotto l’argomento del rilievo ed è beneche qui lo riprenda perché è un punto fondamentale.Uso qui rilievo architettonico in un’accezione diversache di solito si usa a scuola. E la assimilo più stretta-mente alle “letture compositive” leoncilliane che nonal rilievo canonico, anche se non vi è ragione per cui ledue cose debbano escludersi a vicenda.56 Spesso il rilie-vo che impariamo a scuola è rilievo architettonico sì,ma solo nel senso che si applica alla materia architet-tonica, all’oggetto architettonico. Ma è un rilievo pas-sivo, ri-produttivo, replicante, anestetico. Anesteticonel senso che non pone domande: è un rilievo addor-

54 Credo che il professor Leoncilli avrebbe approvato questa frase di Rogers “La storia è un patrimonio disponibile: ridiventa materia prima plasma-bile, secondo la volontà e l’interpretazione di cui siamo capaci.” (Rogers, p. 32)55 “Altri progetti e altre realizzazioni gli appartengono, al di là dell’accanirsi degli storici su date e precedenze, gli appartengono, diciamo così, perdiritto d’intelligenza…” (Grassi, 2007, p. 33)56 Cfr., per esempio, il paragrafo “Imitazione poetica” a p. 85 in: Leoncilli Massi, La leggenda del comporre, Alinea, Firenze 2003

57 Per ciò che concerne il piano come strumento figurativo e il rapporto tra dimensione e figurazione rinvio ai testi di Leoncilli Massi, e in partico-lare a La leggenda del comporre, Alinea, Firenze 2003 e La composizione. Commentari, Marsilio, Venezia 1985.58 Il tema della mediocritas, del mezzo, della medietà, riveste un’importanza straordinaria nell’estetica architettonica, passando per Palladio,Schinckel, fino al moderno: Loos, Wagner, Terragni.

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L’insieme definito dal canone regolatore e dai nomi è lachiave dell’intero processo. Il primo dà la coerenzaall’atto costruttivo e i secondi certificano l’identità e lafunzione. Dunque, il modulo non è semplice misura maproprietà metrica connaturata al nome, è propriamen-te prosodia, vale a dire canto, felice congiunzione tramisura, poesia, musica e ritmo del numero. È espressio-ne di quel privilegio che il mondo classico accorda alverbo essere, direbbe Foucault.Perciò, una volta deciso di costruire il tempio, magari apartire dallo stelo di una spiga quale grandezza inizia-le, ogni parte dell’edificio, anche la più minuta, neresta definita in dimensione e foggia. E specularmente,non appena indico il nome di una modanatura, adottan-do lo stesso stelo della spiga per misura, tutte le partidel tempio ne discendono di conseguenza.Il tempio è dominato dal commensurabile, dalla possi-bilità che una parte sia la misura dell’intero cui appar-tiene. E ciò che affascina i grandi matematici deltempo, alla ricerca di regole interne alle figure geome-triche e ai numeri, restii alla nostra idea del misurabi-le che esige il confronto con una grandezza estraneaall’ente. I misteri che appassionano quei filosofi-mate-matici sono la quadratura del cerchio, la diagonale delquadrato, la sezione aurea, la sequenza dei numeriprimi, la magia delle serie numeriche, l’enigma dell’u-no.” (Torsello, 2006, p. 47)Le proporzioni, benché importantissime, debbono cor-relarsi in architettura ad un altro concetto per dare vitaa qualcosa di veramente reale e costruito: la scala,ovverosia le dimensioni. Essenziale è cioè il rapportotra figurazione (nell’accezione leoncilliana del termi-ne) e dimensione reale, operativa, rapporto affine aquello tra spazio geometrico e spazio architettonicoindagato da Philippe Boudon, seppure da quest’ultimorisolto in termini forse più filosofici che architettonici.“Se l’architetto lavora su di uno spazio che non esisteancora, il suo pensiero si sviluppa in uno spazio chechiamo lo spazio di concezione. Questi costituisce l’og-getto di conoscenza dell’architetturologia e io tenteròdi darne una idea interrogandomi sul modo secondo cuiun architetto dà le misure — non a una cattedrale(penso naturalmente a Panofsky), ma più modestamen-

te ad un cubo… —. Osserviamo innanzi tutto che lo spa-zio architettonico non può essere ridotto allo spaziogeometrico che è uno spazio senza misure. Ne consegueche un oggetto in apparenza così semplice come il cubodell’architetto, non è lo stesso di quello dello studiosodi geometria. Questo ultimo, come oggetto del pensie-ro dello studioso di geometria, non ha misure: il pensie-ro di costui non differirà secondo la taglia del cubo;cubo di tre metri o cubo di trenta metri, è sempre uncubo per lo studioso di geometria. Per l’architetto ètutto diverso. È impensabile che il cubo dell’architettoSpreckelsen per l’Arche de la Défense, a Parigi, in qual-siasi momento della sua concezione abbia potuto esse-re pensato dall’architetto senza essere dotato di misu-re almeno implicite e approssimative. Di primo acchitoil progetto di un cubo alla Défense, a Parigi, aveva una“scala”. Ma, domandiamoci in che modo un architettodà delle misure ad uno spazio che si trova ad essere allafine di forma cubica”. In La questione della scala traepistemologia e architettura, (Dispense del seminario),IAUV, Venezia 1993. Il rapporto in questo caso è tuttorivolto al momento poetico della creazione architetto-nica.In questo rapporto tra dimensione e figurazione siinquadra il tema delle “temperaturae” vitruviane,delle “seste negli occhi” di Michelangelo: le correzioniottiche che è possibile apportare all’opera. Il tema nonè secondario, ed ha opposto nel tempo due categoriedi persone: da una parte i “puristi” delle proporzioni edall’altra i “sensibilisti”, per esempio63.Il problema è stato sempre presente, anche nell’anticoEgitto, ma è soprattutto con la Grecia che diventa evi-dente. La questione delle rastremazioni delle colonne,gli “scamilli impares”, non sono altro che il tentativo diapportare quelle necessarie modifiche dimensionali(reali), per fare in modo che la percezione sia di unoggetto ben proporzionato.“Con le dimensioni tutto cambia”, dice Valéry nell’Eu-

palino. L’architetto vero non può limitarsi e rinchiuder-si in un mondo puro, fatto solo di rapporti e proporzio-ni. L’architetto vero deve, alla fine, fare i conti con ledimensioni, con la misura. Le teorie proporzionalihanno sempre oscillato, nei secoli, tra un’oggettività

scheletro che guida e governa il progetto senza appari-re. Esse sono una forma mentis: un tipo di intelligenzache permette di elaborare forme piuttosto che parole:sono il logos spermatikos. Occorrerebbe anche qui unpo’ di “igiene del linguaggio” per comprendere cheun’architettura frattale può essere difficilmente realiz-zata, e che in genere questa presunta “frattalità” siriduce all’iterazione di un elemento architettonico allevarie scale. Viene spesso mascherata anche con il ter-mine di autosomiglianza. E’ certo legittimo usare talilocuzioni, ma il ripetersi di un elemento architettonico,diverso per dimensioni e localizzazione, appartenevagià al sapere architettonico tradizionale, che lo chia-mava molto più semplicemente variazione. Pensare per proporzioni consente poi di liberarsi defini-tivamente dalla tirannia del metro59. Non solo, infatti,questa quarantaquattromilionesima parte della circon-ferenza terrestre "corrompe" la lettura di un edificio,ma anche la concezione, specialmente laddove essa silega alle attuali normative per l'edilizia (altezza vani =2,70 m., larghezza corridoio min. 1 m., ecc.). Si è sedimentata, nel tempo, e soprattutto nell’am-biente del professionismo meno colto, una sorta di“estetica normativa”. Il "duetto"tra metro e normativa è di soven-te così forte che non si riescenemmeno ad immaginare e che cipossa essere stato (e che ci possaessere), un altro modo di dimen-sionare gli spazi.60 In questo sensole proporzioni liberano le capacitàdell’architetto compositore, purintroducendo un altro vincolo, ditipo compositivo, appunto61. Iltentativo di Le Corbusier, con ilsuo Modulor è, in questo senso,veramente liberatorio. I tracciatiregolatori, la geometria, obbliga-no ad un ritorno alle origini, aduna riflessione dell’architetturasull’architettura, la quale vive

costruendo all’interno di sé i propri rapporti, le propriegerarchie, i propri significati. “Avere la possibilità di reiterare in un edificio, sia nelsuo insieme, che nelle sue parti, fino alle più minute,lo stesso ristretto insieme di rapporti tra le misure gliconferisce coerenza figurativa; e se tali rapporti sonotra quelli ritenuti armoniosi la coerenza figurativadiventa qualità estetica. […] Quella che qui è statachiamata “compatibilità tra le figure” e che consiste indefinitiva nella ricorrenza degli stessi rapporti sia allascala degli elementi, che delle parti, che dell’insiemedi un edificio, è alla base definizione vitruviana di sim-metria, ripresa anche da Palladio, in particolare per gliedifici religiosi” (Bolla, 1997, p. 132)Esse istituiscono un sistema logico in cui, fissate alcunemisure, le altre possono solo derivarsi da queste, e nonprescinderne62. Comporre è allora simile allo giocare ascacchi, o allo scrivere musica: gli elementi fondativisono pochi, ma le possibilità combinatorie immense. “L’ordine del linguaggio: nel tempio, ogni frammento èidentificato da un nome, e le cose disegnate sono unitàirrinunciabili della composizione. “Colonna”, “roc-chio”, “base”, “capitello”, e così pure “cornice”, “tra-

beazione”, “frontone”, “timpano”indicano parti sostanziali dell’edi-ficio; a quei nomi sono legate leforme e la cadenza costruttiva chele regge. Ma anche “scozia”,“toro”, “listello”, “collarino”,“dentello”, e mille altri, valgono aindividuare e a distinguere. Ognitermine ha un doppio privilegio, inquanto consente di riconosceresenza errore le cose - azione tipicadel nome - e aiuta a conseguire laforma: i nomi hanno potere “con-formante”. Così, il modulo e le suefrazioni fissano i rapporti tra leparti, e i termini che le denotanosono fonte di atti edificatori oltreche certezza di identificazione.

59 In questo senso, e come ritorno ad un antropometrismo di matrice umanistica, il Modulor di Le Corbusier non può essere visto che come un rega-lo alla cultura architettonica.60 “I fatti”, invece, parafrasando un noto scrittore, “sono ostinati”, e ci pongono quotidianamente di fronte a monumenti concepiti in altro modo.61 “Tu mi discordi tutta quella musica …” dice Alberti a Matteo de’ Pasti per il Tempio Malatestiano di Rimini.62 Si vedano i modi di trovare le altezze delle stanze in Alberti e Palladio, più avanti.

63 Si vedano, come semplice esempio, le critiche del Milizia a Palladio, per la sua “disinvoltura” sintattica o la querelle dei classicisti francesi, inFichet, F., La théorie architecturale à l’age classique. Essai d’anthologie critique, Mardaga, Bruxelles 1979

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rafforza cioè un’identità, che può essere ristretta ad unsingolo essere umano ma anche ad un’intera classe, aduna collettività: una tribù. Un soldato può essere deco-rato. Decorazione può essere anche un atto di ricono-scimento, di attribuzione. Decorazione che può meri-tarsi il soldato A o il soldato B. In un momento comel’attuale, dove il concetto di identità è sottoposto aduna profonda rivisitazione e ridefinizione, ritengo chela decorazione abbia una grande voce in capitolo. La decorazione, intesa nel senso qui indicato, è ancheciò che permette dunque di stabilire un rapporto conciò che mi circonda, sia in senso diacronico, sia in sensogeografico. Come posso inserirmi in un contestocostruito ignorando materiali e geometria, per esem-pio? Come posso ignorare i ritmi consuetudinari, i rap-porti di luce ed ombra, i profili, le geometrie ribadite?

L’ornamento sarebbe invece l’azione estetica e costitu-tiva che non può dissociarsi dall’oggetto che si vacostruendo. L’ornamento è il tracciamento delle colon-ne, il triglifo e la metopa. In questo senso ornamentosembra veramente avere una stretta parentela conor(di)namento. Per quel tempio vi è solo quel triglifo: ilbucranio potrà essere la decorazione dello spazio-metopa. Il Movimento Moderno, nella sua volontà dirompere definitivamente con il passato, aveva da subi-to dichiarato guerra alla decorazione. Tuttavia questa èrientrata, per così dire, dalla porta di servizio. La NeueSachlickeit, la griglia strutturale (maison Dom-Ino), èdiventata la decorazione, la sola decorazione possibile:“Sans pousser l’analogie trop loin, il serait possibile dedire que, dans l’architecture contemporaine, l’ossatu-re en est venue à posséder une valeur analogue à cellequ’avait la colonne dans l’Antiquité gréco-romaine etla Renaissance. Comme la colonne, l’ossature établitpour l’ensemble de l’édifice une unité de mesure, undénominateur commun, auquel toutes les parties obéis-sent : comme la travée de la cathédrale gothique, elleimpose un système auquel tous les autres éléments dela construction sont subordonnés.” [Senza spingere l’a-nalogia troppo in là, sarebbe possibile dire che, nell’ar-chitettura contemporanea, l’ossatura è arrivata adottenere un valore analogo a quello che aveva la colon-na nell’antichità greco-romana e nel rinascimento.Come la colonna, l’ossatura stabilisce per l’insiemedell’edificio un’unità di misura, un denominatore

comune, al quale tutte le parti obbediscono: come lacampata della cattedrale gotica, essa impone un siste-ma al quale tutti gli altri elementi della costruzionesono subordinati.] (Rowe, 2000, p.110). Nel caso di Ter-ragni, non si può dire che le colonne e le travi dellaCasa del Fascio siano prive di volontà estetica, chesiano lì per ragioni eminentemente pratiche e struttu-rali. Questo tipo particolare di intenzionalità estetica,che ha fatto “tabula rasa” di modanature, fregi, colo-ri, ecc., ha comunque consentito di generare ritmi,tonalità, corrispondenze e altro, che vorrei appuntoclassificare come ornamento. Non c’è decorazione,certo, ma come vogliamo chiamare la precisione ritmi-ca e formale della ultima casa di Ungers? Necessità dis-tributive? Statiche? Caso? La casa di Ungers non hadecorazione, ma è tutta risolta in ornamento. Lo stes-so lavoro che Loos stigmatizza nel calzolaio, nelmomento in cui aggiunge dentelli e quant’altro alla suatomaia, è qui profuso in attenti calcoli per stabilire lagiusta posizione di una finestra rispetto alla linea digronda, lo spazio tra una finestra e l’altra: le dimensio-ni della finestra stessa.Il quarto motivo è che l’uso delle proporzioni portanecessariamente anche ad una riflessione tra norma elicenza. “La reinvenzione personalizzata della norma èciò in cui si incarna l’azione dell’eroe. La norma dell’e-roe, essendo un dover essere, è norma autoimposta.Liberamente autoimposta.” (Contessi, p. 121)Si legga per esempio questo passo tratto da una letteradi Sir Edwin Lutyens a Herbert Baker.“Ho l’audacia di usare l’ordine dorico, corroso daltempo, che trovo così bello. Non lo si può copiare. Inrealtà, bisogna impadronirsene e poi realizzarlo… Non losi può copiare: ci si troverebbe presi in trappola e ilrisultato sarebbe un pasticcio. È un duro travaglio, unafaticosa meditazione su ogni linea di ciascuna delle tredimensioni e su ogni articolazione, e non ci si può per-mettere di spostare nemmeno una pietra. Se lo affrontiin questo modo, l’ordine è tuo, e ogni linea, essendoprima elaborata nella mente, deve essere permeata dipoesia e di arte nella misura in cui Dio te ne ha fattodono. Se modifichi un elemento (cosa che puoi semprefare), devi armonizzare con esso tutti gli altri con unacerta cura e fantasia. Non è quindi una partita facile, néla si può giocare a cuor leggero.” (Summerson, p. 24)Abbiamo visto che le proporzioni possono “reggere”,

scientifica, esatta, ed una soggettività incisiva edincontrollabile. Come è facile intuire, il rapportodimensione-figurazione incide sia su una lettura tuttaestetica delle proporzioni, sia su una tutta costruttiva.“Tandis que j’écris seul dans mon bureau, je ressensdifférement des choses absolument semblables dontj’ai parlé il y a quelques jours devant un public nom-breux à Yale. L’espace a un pouvoir et donne le ton”[Mentre scrivo nel mio ufficio, sento in maniera diffe-rente le cose assolutamente simili delle quali ho parla-to qualche giorno fa a Yale. Lo spazio ha un potere e dàil tono.] (Kahn, 1996, p. 46) Vi è infatti un ulteriore risvolto costruttivo, strutturale,sul quale si dilunga egregiamente Salvatore Di Pasquale,a cui rimando per gli approfondimenti. In estrema sinte-si: un conto è un’opera tettonica pensata per delledimensioni e un altro conto è la stessa opera in un domi-nio di dimensioni completamente diverse. Un pontedimensionato per una luce di 40 m non mantiene le stes-se proporzioni (tra le parti), per una luce di 400 m.Necessità strutturali, legate alla gravità, obbligano adaltri progetti formali. Senza proporzioni non vi è misu-ra, intesa qui come adeguatezza della misura: “Quellacosa è smisurata!” per dire che ovviamente è invecesproporzionata, e non che non può essere misurata.

La terza ragione, ancora compositiva, è che le propor-zioni consentono di reintrodurre legittimamente il con-cetto di ornamentazione in architettura. O almeno diaffrontare l’argomento senza pregiudizi “ideologici”64.Non parlo di ornamento in senso necessariamente“aggiuntivo” e cioè di una cosa che verrebbe aggiuntapiù tardi ad un’opera già compiuta, quasi perfetta insé. Non penso alla decorazione come al superfluo,ammesso e non concesso che tutto ciò che sia aggiun-to, e cioè posteriore in termini cronologici, sia ancheipso facto, superfluo. Credo infatti che si sia creato unpernicioso parallelismo tra successivo e superfluo: trasuperficie e superfluo. Ma è evidente che una praticacomplessa come quella architettonica non può esaurir-si in un unico atto, in una fase, in un lampo. Esistonodelle cose che vanno realizzate prima ed altre dopo,

delle cose che sono all’interno e delle cose che vannoall’esterno. Ma se portassimo al limite il ragionamentoche stabilisce un’uguaglianza tra superficie (perchésuccessiva) e superfluo, potremmo anche dire che untetto è secondario rispetto alle fondazioni. Se così nonè (e non è così), chiedo di applicare la stessa coerenzaanche al tema della decorazione.“In tal senso la decorazione non è più accessorio mafatto strettamente connesso al processo compositivo,attributo, in senso albertiano, sostanziale al prodursi diquella bellezza artificiale – la forma creata – a cui que-st’ultimo tende.” (Leoncilli Massi, 1985, p. 54)Intendo la decorazione come ciò che è degno, conve-niente, appropriato. Parlo di decorazione come capaci-tà plastica, come possibilità di una modanatura, di unprofilo. La geometria e le proporzioni rappresentano unraffinamento ed un’astrazione della decorazione figu-rativa, scultorea o pittorica. Che cosa sono, d’altraparte, metopa e triglifo, se non una decorazione moregeometrico? Che cos’è la Postparkasse di Wagner senon un’applicazione stringente e sistematica di un pro-porzionamento? Ma decorazione (meglio: ornamenta-zione), è anche capacità di generare un ritmo, di dareun tono all’opera. Ed ecco allora che la disposizionedelle bucature (bucature! Che brutto termine), dellefinestre e delle porte in una facciata, l’allineamento diun portico, le dimensioni dei suoi pilastri, sono ancheazioni decorative. La Casa del Fascio di Como è unsupremo e sublimato atto ornamentale, se si vuole.“La decorazione torna a partecipare al generale pro-cesso di oggettivazione della forma come elementofunzionale al chiarimento dei modi costituiti della stes-sa, fatto che riporta il tema decorativo a far parte inte-grante del progetto come dell’opera. E per esserestrettamente connessa al processo di “geometrizzazio-ne delle forme”, la decorazione diviene così materia“progettabile” che si sottrae all’arbitrio in funzione diun risultato unitario.” (Leoncilli Massi, 1985, p. 53)La decorazione è anche ciò che identifica, che indivi-dua. Io sono e sono riconosciuto perché c’è un qualco-sa che mi definisce e mi distingue dagli altri. Il selvag-gio di Loos, nel tatuarsi, si identifica. La decorazione

64 “Riflettere, oggi, sul tema decorazione comporta la necessità di dover rimuovere, dalle nostre coscienze infelici, guardandolo negli occhi, unodei divieti più proibitivi e ingombranti della tradizione moderna: la generosa utopia di quell’imperativo loosiano che, in modo quasi manicheo, poneuna scelta, in forma di salvezza, tra «ornamento e delitto»” (Leoncilli Massi, 1985, p. 81

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ducibilità concettuale ad una basata sulla riproduzionefattuale, materica. Da un’estetica basata sull’informa-zione ad una basata sui dati: dalla lettura alla tattili-tà”67. E la cosa trova una conferma lampante nell’attocreativo di Gehry, che è un modellare. La logica generativa della forma sfugge ormai all’archi-tetto che non è più in grado di prefigurare la sua opera,ma deve arrivarvi o attraverso la scultura, in un “facen-do”, o attraverso il computer. Lo stesso Gehry ha fon-dato una società, la GT, che si occupa del problema delrapporto tra la prefigurazione, chiamiamola così, ed ildisegno. L’architetto infatti non è più in grado di disegnare l’ar-chitettura. Il disegno in pianta-prospetto-sezione nonha più molto senso. Abbiamo parlato prima del rilievo. Pensiamo a qualiproblemi comporterà in futuro il rilievo del centro diBilbao. La qualità di questo rilievo dipenderà dallaquantità dei dati a disposizione (più che dalla loro qua-lità), e dalla capacità tecnica, computazionale, di ela-borarne una sintesi. Potremo anche continuare il nostro“disegno dal vero”, ma non il rilievo architettonico. Lo spazio che noi viviamo è empiricamente euclideo:che la forza gravitazionale pieghi o no i raggi luminosiè una cosa che poco interessa all’architetto. Che il con-cetto di misura si sia ampliato ed articolato dopo i frat-tali di Mandelbrot poco cambia per il metro del mura-tore e dell’architetto. Che la sezione aurea governi ladisposizione dei semi del girasole o la traiettoria di unfalco predatore non implica che il principio vada tra-sposto obbligatoriamente nelle costruzioni. Vi è,soprattutto in architettura, una certa indifferenza iner-ziale a questi risultati scientifici di settore. L’architet-tura non è assimilabile tout-cout all’arte. Il principio diindeterminazione di Heisenberg per il mondo sub-ato-mico non influisce sulla cazzuola del muratore più delbattito d’ali di una farfalla nella foresta amazzonica:non dovrebbe influire più di tanto nemmeno sulla mati-ta dell’architetto.Lo Zeitgesit, certo. L’architettura deve rappresentarela propria epoca, il proprio tempo. Deve rappresentare,aggiungo io, come un ri-presentare: presentare dinuovo, mostrare ancora. Deve rappresentare, infine,

anche se stessa. Forse il problema è proprio nel verbo,che dovrebbe traslare: da rappresentare ad ospitare.L’architettura può accogliere lo spirito del tempo, con-sentirgli di essere vivo ed operante senza piegarsi adassurdi contorsionismi. I “flussi comunicazionali”, comequalcuno ormai dice, possono viaggiare benissimo siaattraverso le solide pareti dell’Altes Museum che attra-verso il policarbonato di Kengo Kuma. Trovo una bellis-sima sintesi di ciò che voglio dire qui nel libro di Emery(Emery, 2007), ma soprattutto in questo passaggio:“Infatti, se la buona architettura è tale e resta tale inquanto è capace di assumere il suo essere-per-gli-altri,essa nondimeno sarà anche tentata, specie in epoca diautonomia dell’arte – dal volere “cristallizzarsi in modoautonomo e dal seguire una propria legge formale”(Adorno, Parva Aesthetica, p. 121), sarà insomma ten-tata da una sorta di desiderio formale tendente adavere il sopravvento sui suoi doveri, per quanto almenoparimenti costitutivi, nei confronti dello spazio pubbli-co. La misura – o la forma – capace di calibrare nelmigliore dei modi questo dualismo d’essenza e d’esi-genza dovrà evidentemente essere cercata con un lavo-ro progettuale serio, critico, animato dal senso dellaprobità e dal più esigente autocontrollo creativo; unlavoro progettuale consapevole del fatto che percostruire bisogna sapere abitare, dove saper abitaresignifica essenzialmente anche curare e preservarel’ambiente. In altri termini, l’architettura che intervie-ne nella definizione degli spazi della città e dei paesag-gi del vivere – ed essa direttamente o meno lo fa sem-pre, e cioè anche quando la sua committenza sembraprivata – deve restare intrecciata con lo scopo primarioconsistente nel collaborare alla salute del tutto, altri-menti essa rischia di trasformarsi in feticcio, e di inse-guire un puro essere in sé, in realtà privo di senso efenomenologicamente inesistente.”Quando Natalini avanza, con il solito understatement,che “abbiamo uno straordinario bisogno di normalità”,coglie il punto. “… So benissimo come questa rinunciami tolga dalla corsa al successo (e alla celebrità), mapenso che ci siano valori più alti di quelli promessi dallanovità. Sono i valori di una città dignitosa e civile,capace di trasformarsi senza perdere il suo patrimonio

sia l’impianto planimetrico del tempio che la dimensio-ne della stria, o del listello della voluta65. Questaestensibilità, questa versatilità del linguaggio consente(ma obbliga anche ad), una coerenza sistematica.Le proporzioni forniscono un’occasione in più per un’i-giene del linguaggio, una liberazione dal capriccio, unfreno alla “libido aedificandi”. Ovviamente non è lostrumento in sé a consentire ipso facto una maggiorcoerenza o una possibile maggiore plasticità. Tuttavialo studio delle proporzioni, della geometria, la loro fre-quentazione, consentono di acquisire con maggior faci-lità questa forma mentis. Si vedano, tra le tantissime,le tavole del Palladio per i templi, dove convivono ildettaglio più minuto con la dimensione maggiore deltempio.Ma qual è il luogo elettivo in cui le proporzioni ed unacerta idea di spazio possono vivere? È il piano figurati-vo di cui parla Leoncilli. Se il piano figurativo prospet-tico è capace di assumere in sé l’infinito dello spazio,allora la composizione nel quadro figurativo può crearelo spazio! Il piano è ovviamente strumento concettua-le, prima che operativo: è il campo d’esistenza dellospazio. Questo piano figurativo non va confuso con ilpiano proiettivo, a cui molti hanno ridotto il primo. Ilpiano instaura rapporti tra due dimensioni: ci si chie-de allora come mai l’architettura, fatto formale nelletre dimensioni, abbia come sistema rappresentativo unpiano bidimensionale. Ora, l’architettura vive nelle tre dimensioni, ma nonesistono rapporti contemporanei tra tre dimensioni. Omeglio: esistono come fenomeno reale, ma non comestrumento gnoseologico. Etimologicamente, matemati-camente e filosoficamente, rapporto è una relazionetra due entità. Questo significa che correlare tre enti-tà (a,b,c) necessita di due operazioni temporalmentedistinte (a:b) e ((a:b):c), laddove nel secondo gruppo ilprimo rapporto viene considerato come unità. Questa èla via più veloce, altrimenti bisogna istituire tre rappor-ti semplici distinti: (a:b), (b:c), (a:c).La complessità tridimensionale e sincronica dell’operaarchitettonica viene così ricondotta a fasi temporal-mente distinte proprio attraverso il piano.La prima soluzione è stata seguita da architetti come

Alberti e Palladio. Alberti, con un’idea di grande astra-zione, istituisce addirittura i rapporti non tra le singoledimensioni, ma tra le superfici di un ambiente. In unlocale ordinario un solo rapporto consente di passarealla terza dimensione, poiché le entità da correlaresono a questo punto due e non più tre. Palladio indica almeno tre diverse maniere per trovarel’altezza di uno stesso locale, correlandola sempre alledimensioni in pianta del locale. Questo significa poterpassare direttamente dalla pianta all’alzato e con unacerta flessibilità. Non dimentichiamo poi che la composizione classicaaveva come elemento fondante la pianta, dalla qualeun architetto era in grado di derivare le altre misure el’organizzazione sintattico-tettonica mediante la qualericostruire mentalmente l’opera.Si potrebbe obiettare che questo concetto di spazio, acui facciamo riferimento, è fermo al 1400. Occorredunque un’altra modalità rappresentativa? Avevanoragione le avanguardie? I futuristi, i cubisti? E ora, idecostruttivisti? Lo spazio di Gehry, le “nuvole” di Fuk-sas sono veramente una nuova spazialità? O non sonopiuttosto una vecchia spazialità diversamente rappre-sentata? Lo spazio di Gehry è indescrivibile (non l’esperienzadello spazio, che è altra cosa): si rimane letteralmentesenza parola. Lo spazio di Gehry, di Eisenman, di Kool-has, non ha una legge formativa: non è riconoscibile innessuno dei corpi geometrici che abbiamo studiato ascuola. “Io chiamo “geometriche” le figure che sontracce dei moti che possiamo esprimere con pocheparole” dice Fedro a Socrate66. Ora, al di là di questorichiamo “aulico”, è effettivamente difficile descriveregeometricamente lo spazio del Centro di Bilbao. Sidovrebbero sciorinare sistemi di equazioni che descri-vono traiettorie curve, affatto significative, per unarchitetto e per chiunque altro non sia un matematico.In futuro dovremo trovare degli strumenti, anche lin-guistici (delle nuove parole) per questi oggetti, o allo-ra questi potranno essere comunicati, solo attraverso lacopia integrale, la simulazione tridimensionale, dei“replicanti” architettonici.“Stiamo per passare da un’estetica basata sulla ripro-

65 Anche qui il pensiero corre subito a Wagner, ma poi rintraccia il filo rosso della memoria e torna a Schinkel, a Palladio, ad Alberti, Brunelleschi, …66 Paul Valéry, Eupalino o l’architetto, Edizione Biblioteca dell’Immagine, Pordenone 1988, p. 39

67 Cfr. Francesco Dal Co e Peter Eisenmann, Una conversazione intorno al significato e ai fini dell’architettura (e qualche ricordo), in “Casabella”,n. 675, Febbraio 2000, pp. 32-37

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condizione della fecondità, della fertilità. L’inattuale èquello che sta prima del gesto. Attuale è invece ciò chearistotelicamente è passato dallo stato di potenzaall’atto. Ma con l’atto quello che si aveva da dire si èdetto, una volta per tutte: quello si aveva da fare si èfatto. Direi quindi che l’inattualità è la condizione fon-dante dell’insegnare. Leoncilli insegnava a “tenderel’arco”. L’arco teso è tutto “in potenza”. Anche stilisti-camente, chi arrivava con disegni che prevedevanoarchi a tutto sesto, era “fortemente consigliato” ariportare l’arco ad un sesto molto più ribassato, moltopiù teso.Inattuale è chi potrebbe ancora fare, chi sta per fare,dire, disegnare, e non chi è inetto, inefficace, inerte.

Se passiamo in rassegna i concetti che abbiamo vistoprima parlando delle ragioni delle proporzioni, ci ren-diamo meglio di quanto perdiamo. E dico che perdiamonon solo sotto il profilo meramente estetico, ma anchesotto quello concettuale. Occorre fare all’architetturala stessa domanda che si deve fare alla tecnica: “Se sipuò fare, si deve necessariamente farlo?”. Tutto ègesto, tutto è nuovo. Quanta distanza dobbiamo constatare dai personaggiillustrati da Contessi in un suo recente testo: “L’eroe èripetitivo e dunque, immutabilmente, se stesso. Il pit-tore Giorgio Morandi, il pittore Mark Rothko e l’archi-tetto Aldo Rossi, per esempio, immutabilmente se stes-si, sono eroi del nostro tempo. Gli ultimi, forse.”

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di bellezza e di umanità. Sono i valori di un’architettu-ra calma e solida, capace di rassicurarci e di difender-ci dalle offese delle stagioni e degli uomini.” (Natalini,2005, p. 85)Credo nella buona fede e apprezzo l’impegno intellet-tuale, ma lo spazio di Gehry68 continua ad apparirmicome una caverna, od un ibrido tra una caverna, unaforesta, un tratto intestinale, il ventre di un pesce, unabolla di gas. Una caverna linda, pulita, illuminata,riscaldata. Al titanio, ma sempre una caverna. E perquanto io mi sforzi non riesco a trovare alcuna ragioneculturale ed antropologica seria per tornare in uno spa-zio così. Lo spazio non è ricostruibile: si ritorna allospazio mistico, sensibilistico. “Noi vediamo per acquisi-re una conoscenza del nostro mondo. […] La sola cono-scenza che valga la pena di conseguire è quella dellecaratteristiche specifiche e stabili del mondo; di con-seguenza il cervello è interessato solo alle proprietàcostanti, immutabili, permanenti e specifiche deglioggetti e delle superfici del mondo esterno, perchésono queste proprietà che gli permettono di ordinare glioggetti per categorie.” (Zeki, 2003, p. 21)69

All’esterno, in chiave urbana, nel migliore dei casi, iloro progetti si pongono come begli oggetti a cui nonimporta il rapporto di consonanza con l’esistente. Maanche questa volta, ovviamente, è il rapporto con lastoria a fare la differenza.Una nuova spazialità, dunque? Forse solo la rincorsa aduna novità “spaziale”. Il punto è proprio questo: il mitodel nuovo. Sul cui altare abbiamo sacrificato spesso lastoria, la sapienza costruttiva, la figuratività, lo spazioarchitettonico, l’armonia…70

Occorrerebbe anche qui un po’ di “igiene del linguaggio”per comprendere che un’architettura frattale può esse-re difficilmente realizzata, e che in genere questa pre-sunta “frattalità” si riduce all’iterazione di un elementoarchitettonico alle varie scale. Viene spesso mascherataanche con il termine di autosomiglianza. E’ certo legit-timo usare tali locuzioni, ma il ripetersi di un elemento

architettonico, diverso per dimensioni e localizzazione,apparteneva già al sapere architettonico tradizionale,che lo chiamava molto più semplicemente variazione. Viè indubbiamente un rapporto ancora fortissimo tra laparola e la forma. Penso per esempio al cantiere: èancora impensabile che un disegno sia “senza-parola”, eche non sia accompagnato da didascalie, note, appunti,ecc. Anche nel momento più operativo, più manuale, laparola arriva in soccorso del fare, indicando le cose. Masiamo qui evidentemente ad un livello ancora primordia-le di sovrapposizione parola-disegno. Nel contemporaneo la parola ha perso il potere forte-mente preciso che aveva nel descrivere l’architettura.Prima vi erano basi, capitelli, cimase, astragali, meto-pe, e poi travi, archi, finestre, ecc. Dall’elemento piùpiccolo al più grande tutto poteva esse nominato, rin-viando ad una cosa ben precisa o comunque identifica-bile. Al momento, invece tutto sembra essere fluidifi-cato e non identificabile. Non sappiamo più dire sequella è una finestra o un condotto tecnico, se quello èun tetto od una parete. Non è tanto che si metta in attouna procedura ingannatrice: è che è proprio impossibi-le applicare le vecchie categorie tassonomiche ai nuovielementi dell’architettura.L’architettura si dà come immediata: non è appuntopossibile descriverla: può solo essere mostrata.Vi è tutto un settore che è quello della critica architet-tonica che deve necessariamente servirsi della parolaper trasmettere la propria pratica. Di fronte ai nuoviprogetti, la critica opera in due modi opposti: da unaparte presenta sempre più delle immagini, riducendo lospazio della parola; dall’altra il testo, non potendooperare come di consueto deriva verso assunti semprepiù filosofici o sempre più tecnici.Ma tutto ciò è inattuale, si dice. Se per attuale inten-diamo ciò che dice il De Mauro (ciò che è in atto, che èpassato dalla possibilità di esistere all’esistenza reale:esistenza, realtà attuale.), l’essere inattuale è unbene. Anzi, è necessario. L’inattualità è infatti la pre-

68 Ovviamente prendo Gehry come la punta di diamante di un movimento in cui assimilo personaggi quali Eisenam, Hadid, Liebeskind, ecc. E attri-buisco a questi la qualifica di migliori epigoni, di architetti di cui non condivido la poetica, ma che ritengo onesti. Perché poi non dobbiamo dimen-ticare che vi sono degli emuli che ne riprendono qualche stilema formale, qualche arditezza materica senza alcun rigore e serietà.69 Si confronti anche con quanto affermato da Kanisza: “Un risultato regolare continuerà ad essere più soddisfacente, almeno sul piano estetico, diun risultato meno regolare; e opportune ricerche sperimentali potrebbero forse dimostrare che esso è più stabile e più resistente alla deformazio-ne e che possiede uno status privilegiato per quanto riguarda l'attenzione, la memoria e il pensiero.” in Gaetano Kanizsa, Grammatica del vedere.Saggi su percezione e gestalt, Bologna - c1980 72 Rimando tra gli altri, a Jean Clair, Critica della modernità, Allemandi, Milano 199470 Rimando tra gli altri a Jean Clair, Critica della modernità, Allemandi, Milano 1994

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BIBLIOGRAFIA RAGIONATA

Questa piccola guida vuole essere un modesto aiuto a chi deve orientarsi nella sterminata mole di opere che par-lano di proporzioni e di architettura. Ho omesso alcuni indirizzi internet sull’argomento perché oramai la proli-ferazione è tale che era impossibile farne una selezione.

Ackerman, James1972 - Palladio, Einaudi, TorinoLibro di agevole lettura, divenuto nel tempo un piccolo "classi-co" su Palladio, contiene anche un regesto delle opere. Qui varicordato per la sezione che riguarda i principii architettonici 2001 - Punti di distanza. Saggi sull’architettura e l’arte d’Occi-dente, Electa, Milano2003 - Architettura e disegno. La rappresentazione da Vitruvioa Gehry, Electa, Milano

Alberti, Leon Battista1960, Opere volgari, a cura di Cecil Grayson, Laterza, BariQui interessa soprattutto per il De Pictura e il De Rerum Mathe-maticarum.1989, L’architettura, Traduzione di Giovanni Orlandi, Introdu-zione e note di Paolo Portoghesi, Il Polifilo, Milano

Argan, Giulio Carlo 1970 [stampa], Studi e note dal Bramante al Canova, Bulzoni,RomaIl libro contiene due saggi importanti per la nostra trattazione.Uno di questi è sul Bramante, pubblicato nel 1934, nel quale èmesso in luce il suo apporto al rinascimento romano e le diffe-renze tra Bramante e il classicismo. Il testo esplicita tra l'altroil ruolo della geometria nella concezione dello spazio. Altro saggio di grande chiarezza è quello sul Palladio vistoprima attraverso le parole del Milizia, il quale ne critica le"bizzarrie", e poi attraverso quelle di Goethe, che ne intuisce lagenialità. Il testo è utile per comprender come, a fianco di com-posizioni planimetriche rigorose, Palladio si permetta dellelicenze del tutto anticlassiche negli alzati.1977, La cupola di Brunelleschi, in “Nuova Antologia”, n. 9-10-11-12, 1977, pp. 17-24Testo in cui si mette in evidenza come la Cupola sia da leggersicome costruzione prospettica, come spazio messo in prospetti-va, e di come la lanterna abbia un rapporto ben preciso con lacostruzione sottostante.

Arias, Paolo Enrico1964, Policleto, Edizioni per il Club del Libro, Milano,Contiene saggi di diversi autori distribuiti nel tempo tra Winc-kelman e Panofsky. Il saggio di quest'ultimo è illuminante, poi-ché non solo mette in luce la diversità tra la concezione grecaed egizia delle proporzioni, ma perché permette di comprende-re che ruolo ha questa concezione nell'architettura greca eancora in Vitruvio.

Bairati, Cesare 1952, La simmetria dinamica. Scienza ed arte nell'architetturaclassica, Politecnica Tamburini, MilanoTesto che ha introdotto in Italia i concetti della simmetria dina-mica di Hambidge e a cui si rifanno molti studiosi delle propor-zioni.

Battisti, Eugenio 1963, ad vocem La proporzione in architettura, in EnciclopediaUniversale dell'Arte, XI, Firenze, SansoniSi tratta di una voce all'interno di un'enciclopedia. Ha quindi ilpregio e il difetto di essere sintetica.1973, Un tentativo di analisi strutturale del Palladio tramite leteorie musicali del Cinquecento e l’impiego di figure rettori-che, in “Bollettino C.I.S.A.”, n. XV, VicenzaSaggio che riporto soprattutto per la seconda parte, dedicataalle figure rettoriche, perché molto stimolante, anche se di dif-ficile verifica.1975, Bramante, creatore dello spazio moderno, in “Il Veltro”,n. 1-2,, pp. 35-40Viene messo in luce il rapporto tra spazio reale e spazio archi-tettonico alla fine del Quattrocento, attraverso tre episodi: laCappella del Perdono a Urbino, S. Maria presso S. Satiro a Mila-no e il Tempietto di S. Pietro a Roma. Il ruolo della prospettivacome strumento illusionistico, quindi.Filippo Brunelleschi, Electa, Milano

Bechmann, Roland1984, Le radici delle cattedrali. L’architettura gotica espressio-ne delle condizioni dell’ambiente, traduzione di GiangiacomoAmoretti, Mondadori, MilanoÈ un testo che guarda all’architettura gotica inquadrandola inun’analisi di ampio respiro. Tuttavia i capitoli dedicati ai pro-blemi tecnici e alle soluzioni date dai costruttori sono illumi-nanti e fanno “piazza pulita” anche di alcune teorie mistiche edesoteriche sulle proporzioni.

Bellini, Federico 1993, Mario Ridolfi, Laterza, RomaUn testo corretto, che ripercorre cronologicamente le vicendedi Ridolfi dalla Roma fascista alla chiusura delle Marmore. Vistala scarsa bibliografia su Ridolfi, è un libro da leggere.

Beltrame, Renzo1972, Sul proporzionamento nelle architetture brunelleschiane,in “L'arte”, n° 18-19/20,Riporto qui l'indicazione di quest'articolo per chi vuole render-

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Bibliografia ragionata

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nel suo sviluppo storico. Lo segnalo qui soprattutto per la partedi analisi del concetto della simmetria “antica”, come l’autricedefinisce la concezione essenzialmente figurativa e metricarisalente ai greci.

Cellini, Francesco; D’Amato, Claudio 1997, (a cura di), Mario Ridolfi. Manuale delle tecniche tradi-zionali del costruire. Il ciclo delle Marmore, Electa, MilanoTesto completo sull’opera di Mario Ridolfi degli ultimi anni. Lageometria come Baukunst.2005, Le architetture di Ridolfi e Frankl, Electa, Milano

Choay, Francoise 1986, La regola e il modello, Officina, RomaLibro molto interessante che apre nuovi orizzonti sul trattatoalbertiano De Re Aedificatoria. Viene infatti tracciata una nettadifferenza, formale e sostanziale, con gli altri trattati e in par-ticolar modo con quello vitruviano. Contiene inoltre un esamedei trattati utopistici, a partire dalla Utopia di Tommaso Moro.

Contessi, Gianni 2004, Vite al limite. Giorgio Morandi, Aldo Rossi, Mark Rothko,Christian Marinotti, MilanoTesto bellissimo che rende conto delle relazioni tra scelte eti-che e poetiche.

Cupelloni, Luciano1996 [stampa], Antichi cantieri moderni. Concezione, saperetecnico, costruzione da Ikìtnos a Brunelleschi, prefazione diEduardo Vittoria, Gangemi, Roma

Curti, Mario 2006 [stampa], La proporzione. Storia di un’idea da Pitagora aLe Corbusier, prefazione di Paolo Portoghesi, Gangemi Editore,RomaTesto molto interessante e completo sulla proporzione, chemantiene quanto promette nel titolo, verificando l’idea di pro-porzione in tutte le sue articolazioni e lungo il corso della sto-ria. Le note di rinvio a pié di pagina integrano perfettamenteuna bibliografia ridotta all’essenziale.

Davini, Simonella1996, Il circolo del salto. Kierkegaard e la ripetizione, EdizioniETS, PisaLibro piuttosto impegnativo e che presuppone la conoscenza diKierkegaard, ma che ricompensa l’impegno con le ultime pagi-ne sulla ripetizione come “ricordo in avanti”.

De Angelis d'Ossat, Guglielmo1958, Enunciati euclidei e “Divina Proporzione” nel l'architet-tura del primo Rinascimento, in Il mondo antico nel Rinascimen-to. Atti del V° convegno internazionale di studi sul Rinascimen-to, Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento, Firenze, Sanso-niSaggio di grande cultura storica e filologica, dove tuttavia iriscontri di alcune proporzioni vengono solo annunciate o esem-plificate su foto e disegni in maniera sommaria, dove però ilfamoso "rectarlo in proportione" della lettera al Gonzaga del-l'Alberti viene "piegato" alla sola proporzione aurea.

Di Pasquale, Salvatore 1992, Tracce di statica archimedea in L.B. Alberti, in “Palladio”,n. 9,Bellissimo saggio dove il tema dell’equilibrio è trattato connotevole profondità e allo stesso tempo con una levità di scrit-tura da far invidia a molti letterati. Non mancano alcune pun-tualizzazioni quasi anedottiche che rendono ancor più piacevo-le la lettura. Ne esce un Alberti molto pragmatico ed estrema-mente “razionale”, capace di astrazioni veramente notevoli,sulla scia (inconsapevole?) di Archimede.1996, L'arte del costruire. Tra conoscenza e scienza, Marsilio,Venezia Libro che ripercorre la scienza delle costruzioni attraverso ilparadigma dei modelli meccanici prima e matematici poi. È untesto ricco di riferimenti storici, interessantissimo per chi vuoleosservare le costruzioni da un punto diverso rispetto a quellostrettamente scolastico. Infine, coinvolgendo e facendo di Gali-lei uno dei personaggi maggiori del testo, è un punto obbligatoper chi si interessa al binomio proporzione-scala.2002, Brunelleschi. La costruzione della cupola di Santa Mariadel Fiore, Marsilio, Venezia

Durand, Jean Nicolas Louis1986, Lezioni di architettura; a c. di E D'Alfonso, CLUP, MilanoManuale pubblicato nel 1819, è di una razionalità implacabile eimpietosa. Qui interessa soprattutto per come affronta la que-stione degli ordini architettonici.

Eco, Umberto2004, Storia della bellezza, RCS Libri, Bompiani, TorinoTesto molto ben illustrato che insegue il concetto di bellezza apartire dagli albori della civiltà per finire ai nostri giorni. Con-tiene più di un passaggio sui temi delle proporzioni e della geo-metria.

si conto di come sia facile ritrovare, a posteriori, dei tracciatiregolatori applicati all'architettura. Beltrame tira in gioco puredelle formule ricorsive (senza la spiegazione dei termini) esenza un probabile collegamento con l'architettura per attribui-re al Brunelleschi dei calcoli stringati, salvo poi fargli carico diapprossimazioni nello schema d'impianto di mezzo braccio fio-rentino (circa 30 cm).

Bettini, Sergio1978, Lo spazio architettonico da Roma a Bisanzio, Dedalo, BariIntensissimo libro di poche pagine per comprendere come lospazio, come soggetto architettonico, nasca a Roma.

Bodei, Remo1995, Le forme del bello, Bologna, Il MulinoÈ un libro che segue lo sviluppo del concetto di bellezza daPitagora fino ai giorni nostri, e quindi dall'armonia alla disso-nanza, al caos. Ha il pregio di essere di agevole lettura e diavere una buona bibliografia.

Bolla, Nicola 1982, Armonie proporzionali, Venezia, IAUV, Dipartimento diTeoria e Tecnica della Progettazione ediliziaÈ uno scritto di poche cartelle, piuttosto colto, dove viene trat-tato il tema delle armonie proporzionali ad un livello epistemo-logico. 1997, Il Professore e Margherita. Saggio in forma di dialogosulle opportune conoscenze preliminari per affrontare con suc-cesso un corso universitario di Composizione Architettonica,Edizioni Scientifiche Italiane, NapoliTesto interessante. A mio avviso ha un limite nell’essere trop-po sbilanciato sulla geometria, sulle medie e sulla capacità dilegare spazio e conoscenza delle forme.

Botton, Alain de 2006, Architettura e felicità, Guanda, ParmaTesto rivolto ad un pubblico vasto, ma molto intrigante (e irri-verente), nei confronti di alcuni mostri sacri. Si veda lo spasso-so resoconto sull’inabitabilità di Ville Savoye.

Borsi, Franco [1966], Per una storia della teoria delle proporzioni, Quadernidella Cattedra di Disegno della Facoltà di Architettura, Firenze, Lo ricordo per un’approfondita riflessione sull’armonia greca eegiziana e per una ricca bibliografia, anche se ormai datata.

Boudon, Philippe1991, (sous la direction de), De l'architecture à l'épistémologie,PUF, ParisCostituito da contributi diversi, lo ricordo in questa sede per ilsaggio del curatore, che pone la questione della scala a fiancoa quella delle proporzioni e delle dimensioni.2002, Echelle(s). L’architecturologie comme travail d’épistémo-logue, Economica, [s.l.]2003, Sur l’espace architecturale. Essai d’épistémologie de l’ar-chitecture, Parenthèses, Marseille, Bramante tra Umanesimo eManierismo: mostra storico-critica, 1970 [stampa]Roma, Istituto grafico Tiberino, Libro pubblicato in occasionedella mostra tentuta a Roma a cura del Comitato Nazionale perle Celebrazioni Bramantesche. Contiene, oltre ad una lucidaintroduzione di R. Bonelli, dei saggi critici che vertono sullospazio del Bramante, sulla sua concezione strutturale e sulladifferenza con la scuola fiorentina. È interessante ricordarloqui però per i passi che riguardano il Tempietto di S. Pietro inMontorio a Roma.

Bruschi, Arnaldo 1969, Bramante architetto, Laterza, BariÈ uno dei libri più completi sul Bramante: vi si ritrovano sia lacorrettezza filologica che la precisione dei riferimenti architet-tonici. È inoltre corredato da numerose illustrazioni.1978, Borromini: manierismo spaziale oltre il Barocco, Dedalo,BariBreve ma intenso saggio del Bruschi che, nel 1967, dà una let-tura del Borromini ancora attualissima. In particolare viene evi-denziato come Borromini non abbandoni né la geometria né laprospettiva, ma come queste si applichino con un nuovo furormathematicus.2004, L’antico, la tradizione, il moderno. Da Arnolfo a Peruzzi,saggi sull’architettura del Rinascimento, a cura di Maurizio Riccie Paola Zampa, Electa, Milano

Bucci, Federico; Mulazzani, Marco2000, Luigi Moretti. Opere e scritti, Electa, MilanoRiporto qui questo testo non tanto per la presentazione delleopere realizzate, quanto per la raccolta degli scritti di Moret-ti, alcuni dei quali veramente intensi.

Castellani, Elena2000, Simmetria e natura. Dalle armonie delle figure alle inva-rianze delle leggi, presentazione di Giulio Giorello, Gius. Later-za & Figli, Roma-BariLibro molto interessante sulla simmetria esaminando la stessa

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Bibliografia ragionata

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Le proporzioni dimenticate. Leoncilli e la necessità dell’inattuale.

Gimpel, Jean1982, I costruttori di cattedrali, Jaca Book, MilanoTesto di interesse forse relativamente alle proporzioni, ma illu-minante sul mondo medievale, sugli architetti, sugli strumentidell’epoca. Interessante la bibliografia. Giuseppe Terragni, 1996 Triennale di Milano, Centro Studi G. Terragni, con la collabora-zione del Centro Internazionale di Studi Andrea Palladio, EnteAutonomo La Triennale di Milano e Electa, MilanoÈ il catalogo della mostra tenuta a Milano nel 1996. Contienenumerosi saggi, la maggior parte dei quali verte ancora sull'a-desione più o meno forte di Terragni al fascismo.

Gostoli, Francesco 2004, Metro Armonico. Come io penso l’architettura, SilvanaEditoriale, MilanoTesto piuttosto criptico, che mescola cognizioni in materia diproporzioni con frasi lapidarie di taglio sociologico, antropolo-gico. L’applicazione di questo metro armonico è appena accen-nata in due passaggi. Infine, questo metro armonico non è altroche la concatenazione di una sesquialtera e di una sesquitertiadell’Alberti.

Grassi, Giorgio2007, Leon Battista Alberti e l’architettura romana, FrancoAngeli, MilanoIl lavoro più recente di Giorgio Grassi su Leon Battista Alberti.Pagine illuminanti sul modo albertiano di procedere, sul ruolodell’idea e del disegno. Altrettanto interessanti le sue conside-razioni sulle opere che appartengono all’Alberti per “dirittod’intelligenza”. È ovviamente anche una critica all’architettu-ra d’oggi, ridotta a “spettacolo di se stessa”.

Guenzi, Carlo 1981, (a cura di), L'arte di edificare. Manuali in Italia 1750 -1950, BE-MA, MilanoÈ un libro di riferimento per quanto riguarda la manualisticaitaliana nei due secoli menzionati nel titolo. È ovviamente,oltre ad uno spaccato dello stato dell'arte nel tempo, una buonafonte bibliografica.

Guillaume, Jean1990, Désaccord parfait. Ordres et mesures dans la chapelle desPazzi, in “Annali di architettura”, n. 2, 1990, pp. 9-23Saggio che analizza senza pietà (dal punto di vista proporziona-le), la Cappella Pazzi. Dal 1867 al 1977 si sono avute più di 17letture “musicali” e “armoniche” della cappella, alcune delle

quali incompatibili tra loro. E il bello è che erano basate sulrilievo di Stegmann e Geymüller, al quale si riconosce un erro-re di 45 cm.

Heitz, Carol1973, Mathématique et architecture. proportions, Dimensionssystématiques et symboliques dansa l'architecture religieuse duHaut Moyen Age, in Musica e arte figurativa nei sec. X-XII, Cen-tro Studi sulla spiritualità medievale, TodiÈ un saggio che, dopo aver distinto nettamente tra modulo eproporzionamento, esemplifica su edifici dell'Alto Medioevoproporzioni basate sui più diversi numeri. Si va quindi dai rap-porti semplici al numero d'oro, passando per il sei, il sette, ildodici, il ventotto, a tutti quei numeri, cioè, caricati di un valo-re simbolico nella religione cristiana.

Hersey, George2001, Il significato nascosto dell’architettura classica. Specula-zioni sull’ornato architettonico da Vitruvio a Venturi, introdu-zione di Marco Biraghi, Bruno Mondadori, MilanoTesto interessante, che approfondisce, con l’aiuto dell’etimolo-gia, il significato dell’ornamento nella cultura greca. L’introdu-zione di Marco Braghi è preziosa quanto il libro.

Hildebrand, Adolf von1996, Il problema della forma, a cura di Sergio Samek Lodovici,TEA, MilanoLo segnalo perché costituisce un punto di riferimento nei testiche si occupano della forma. Il testo è scritto basandosi sullascultura, ma i ragionamenti possono estendersi anche all’archi-tettura e alla pittura.

Husserl, Edmund 1996, Libro dello spazio, a cura di Vincenzo Costa, Guerini eAssociati, VeronaTesto piuttosto impegnativo basato sulle distinzioni tra perce-zione e costruzione dello spazio, tra il fondamento psicologicoe quello filosofico dello spazio intuitivo.

Jammer, Max 1966, Storia del concetto di spazio, con una premessa di AlbertEinstein, Feltrinelli, MilanoTesto che forse esula da un discorso sullo spazio architettonico,ma che rimane a tutt’oggi il libro più profondo sull’argomento,e che permette di ricostruire molto delle culture che hannoprodotto spazi e definizioni di spazi.

Eisenman, Peter2003, Giuseppe Terragni: transformations, decompositions, cri-tiques, The Monacelli Press, New YorkVolume molto colto e sofisticato sulle operazioni sintattiche esemnatiche di Terragni. Una lettura “compositiva” di Terragni.

Emmer, Michele2006, Visibili Armonie. Arte Cinema Teatro e Matematica, Bol-lati Boringhieri, TorinoCorposo volume che mantiene quello che promette nel titolo,collegando cinema e matematica, teatro e numeri. I riferimen-ti all’architettura sono tuttavia pochi, limitati più che altro ail Modulor di Le Corbusier. Molto spazio è dedicato ad Escher.

Esposito Quaroni, Gabriella 1993, (a cura di), Ludovico Quaroni. Progettare un edificio.Otto lezioni di architettura, Gangemi, stampaScritto da Ludovico Quaroni per gli studenti, è un testo assolu-tamente da leggere. Una delle otto lezioni è dedicata alle pro-porzioni e alla geometria ed è ulteriormente approfondita inquattro schede con delle note bibliografiche adeguate a chivuol andare oltre.

Fagiolo, Marcello 1978, Le facciate palladiane: la progettazione come proiezionesul piano di spazi dietro spazi, in “Bollettino C.I.S.A.” n. XX,VicenzaTesto illuminante sul disegno palladiano, visto come successio-ne di piani proiettivi.

Ferlenga, Alberto; Verde, Paola 2000, Dom Hans van der Laan. Le opere, gli scritti, a cura di,Electa, Milano Testo che illustra alcune opere del monaco benedettino archi-tetto e che è corredato di una antologia di scritti che insistonosui concetti di euritmia, simmetria, ordine.

Ferri, Silvio 1958, Figure “quadrate” nel Rinascimento, in Il mondo anticonel Rinascimento. Atti del V° convegno internazionale di studisul Rinascimento, Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento,Firenze, SansoniSaggio brevissimo ma di grande chiarezza sulla "quadratura"rinascimentale.

Fichet, Francoise1979, La théorie architecturale à l'age classique. Essai d'antho-logie critique, Mardaga, Bruxelles

È un'antologia che riguarda vari autori francesi, letterati, pit-tori e architetti compresi tra il XVI° e il XVIV° secolo. Per ogniautore trattato è compilata una scheda sintetica della vita e delpensiero. È preceduta da una notevole introduzione, di raralucidità, sullo sviluppo della figura di architetto da costruttorea genio e sulla progressiva perdita d'intensità simbolica del con-cetto di spazio.

Fiedler, Konrad1963, L'attività artistica. Tre saggi di estetica e teoria della"pura visibilità", tradotti da Carlo Sgorlon, prefazione di Carlo L.Ragghianti, Neri Pozza, Venezia

Forty, Adrian 2004, Parole e edifici. Un vocabolario per l’architettura moder-na, Pendragon, BolognaUna panoramica sulle parole e sui concetti fondanti dell’archi-tettura, esaminati anche nel proprio sviluppo storico, e quindinei loro relativi slittamenti semantici.

Francastel, Pierre 2005, Lo spazio figurativo dal rinascimento al cubismo, Associa-zione Culturale Mimesis, MilanoTesto importantissimo per la comprensione dello spazio quat-trocentesco e della prospettiva.

Galli Bibiena, Ferdinando1731, Direzioni ai giovani studenti nel disegno dell'architetturacivile, Arnaldo Forni, Sala Bolognese [s.d.], rist. anas. LelioDalla Volpe,Delizioso libriccino (di piccolo formato) dove vengono illustratecostruzioni geometriche di poligoni e solidi, nonché alcune ope-razioni per calcolare aree e lunghezze.

Ghyka, Matila1959, Le Nombre d'Or. Rites et rythmes pythagoriciens dans ledeveloppement de la civilation occidentale, preceduto da unalettera di Paul Valéry, Gallimard, Paris1971, Philosophie et mystique du nombre, Payot, Paris 1971Qui interessa soprattutto per i primi capitoli, dedicati a Plato-ne e Pitagora e ai numeri gnomonici.1987, Esthétique des proportions dans la nature et dans lesarts, Rocher, ParisLibri che presuppongono una discreta conoscenza matematica,per essere compresi appieno. L’autore è comunque una pietramiliare in questo genere si studi.

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Bibliografia ragionata

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Le proporzioni dimenticate. Leoncilli e la necessità dell’inattuale.

Marcolli, Attilio 1984, Teoria del campo. Corso di educazione alla visione, San-soni, FirenzeTesto piuttosto "denso", dal quale molti hanno tratto un note-vole aiuto nei loro studi. Contiene preziose distinzioni tra lesimmetrie possibili e sui numeri come gnomoni, oltre a elemen-ti di topologia e di teoria dei colori.

Masiero, Roberto 1999, Estetica dell’architettura, Il Mulino, BolognaHa il merito di essere una difficile sintesi dell’estetica dell’ar-chitettura dagli inizi della civiltà ad oggi, ed è corredato da unabibliografia mirata e senz’altro d’aiuto a studenti di architet-tura.

Milizia, Francesco 1972, Principi di architettura civile di Francesco Milizia, rip.anas. della 2a ed., 1847, Gabriele Mazzotta, MilanoLibro che spazia dalla teoria alla pratica, com'era uso nel perio-do. Qui interessa per la parte dedicata alle proporzioni e alladefinizione di alcuni concetti chiave, come euritmia e simme-tria. Come d'abitudine, è corredato di tavole esplicative, alcu-ne delle quali molto belle.

Millon, H.; Magnago Lampugnani, Vittorio 1994, (a cura di), Rinascimento. Da Brunelleschi a Michelange-lo. La rappresentazione dell’architettura, Bompiani, MilanoPonderoso catalogo della mostra tenuta a Venezia. Contienenumerosi saggi di vari autori e delle schede che approfondisco-no argomenti particolari.

Moretti, Luigi 1951, Trasfigurazioni di strutture murarie, in “Spazio”, n. 4, pp.5-141951-52, Valori della modanatura, “Spazio”, n. 6, pp. 5-12, 1121952-53, Strutture e sequenze di spazi, “Spazio”, n. 7, pp. 9-20, 107I saggi che qui si portano all’attenzione del lettore sono profon-dissimi e pregni di una cultura visiva oramai persa. Poche pagi-ne per capire da dove nascano le strutture ideali del rinasci-mento, per capire il senso delle modanature, per apprezzare lesuccessioni degli spazi palladiani. La quasi totalità dei saggisono ripubblicati in: Bucci, Federico e Mulazzani, Marco, LuigiMoretti. Opere e scritti, Electa, Milano 2000

Morolli, Gabriele 1988, L'architettura di Vitruvio. Una guida illustrata, I, Alinea,Firenze1988b (a cura di), L'architettura di Vitruvio nella versione diCarlo Amati, II Alinea, FirenzeLa "guida" di Morolli si riferisce proprio alla riproduzione dellibro dell'Amati. Il nostro interesse è concentrato proprio suquesta, che si delinea come un utilissimo strumento per acce-dere a Vitruvio. Essa infatti tocca alcuni punti critici del testovitruviano, come quello della simmetria, degli "scamilli impa-res" e dell'antropomorfismo.Gabriele Morolli, Pietro Ruschi (a cura di), 1993, San Lorenzo. 393 – 1993. L’architettura. Le vicende dellafabbrica, Alinea, Firenze

Natalini, Adolfo 2005, Quaderni olandesi, a cura di Vittorio Santoianni, Aion Edi-zioni, FirenzeNon è un testo sulle proporzioni, ma le atmosfere pacate e dis-tese delle sue riflessioni (come delle sue architetture), lascia-no immaginare una sottile padronanza di un certo senso delleproporzioni, ormai sedimentato, che è difficile verbalizzare.

Nicco Fasola, G. 1942, Prospettiva, in “ Emporium”, n° 6,Saggio certo datato, ma di grande interesse nel precisare che laprospettiva lineare matematica non è una scoperta, ma un'in-venzione del nostro Umanesimo. Inoltre viene affrontato iltema della realtività storica della prospettiva nei riguardi del-l'arte contemporanea.1942b, Svolgimento del pensiero prospettico nei trattati daEuclide a Piero della Francesca, in “ Emporium”, dicembre1942, fasc. IIIn questo saggio viene ripercorsa la prospettiva, nelle sue varieforme, da Euclide a Piero, passando per Alhazen, Bacone, Wite-lo, Peckam, Ghiberti. Soprattutto viene evidenziata la diversaconcezione dello spazio necessaria all'Umanesimo per poter teo-rizzare la prospettiva come costruzione.

Ouaknin, Marc-Alain2005, I misteri dei numeri, Atalante, BolognaTesto molto piacevole, basato ovviamente sui numeri ma i cuirichiami alla geometria sono frequenti e accattivanti.

Pacini, Piero 1972, (a cura di), Gino Severini. Dal cubismo al classicismo ealtri saggi sulla divina proporzione e sul numero d’oro, Marchi

Kahn, Louis I.1996, Silence et lumière, traduction de l’américain par Mathil-de Bellaigue et Christian Devillers, Editions du linteau, ParisTesto che presenta una selezione di conferenze e di incontritenuti tra il 1955 ed il 1974. Molto interessante perché molto“diretto” e quindi risolutivo rispetto ad alcuni termini usati daKahn che si prestano invero ad alcune ambiguità interpretative.

Krier, Rob 1988, Architectural Composition, Academy, LondonSegnalo questo testo "per completezza", visto che un sostanzio-so capitolo del libro è dedicato alle proporzioni. Oltre a ripren-dere la tesi di Moessel sulla segmentazione polare del cerchio,Krier si spinge fino a suffragare la tesi che la lunghezza delleossa dei diti e di altre parti del corpo siano in proporzioneaurea tra loro.

Laan, Hans van der 1989, L’espace architectonique. Quinze leçons sur la dispositionde la demeure humaine, E. J. Brill, Leiden1996, Strumenti di ordine, in “Casabella” n. 634,Saggio che riassume i concetti di questo architetto-monaco, cheoltre ad ampliare l'accezione di termini quali simmetria edeuritmia, illustra come ancora le proporzioni possano esistere,come forma mentis, nell'architettura contemporanea.

Le Corbusier 1974, Il Modulor. Saggio su una misura armonica su scala umanauniversalmente applicabile all'architettura e alla meccanica, tr.it. Gabriele Mazzotta, MilanoTesto “obbligatorio” per chi vuole occuparsi di proporzioni nelmoderno. È un libro composto da due volumi, di cui il secondoè relativamente interessante, poiché riservato all'applicazionedel Modulor nell'industria mondiale. Il primo contiene invecealcune riflessioni teoriche sulla proporzione ed offre involonta-riamente uno spaccato del mondo architettonico degli anni '30-40.1979, Precisazioni sullo stato attuale dell’architettura e del-l’urbanistica, Laterza, Roma-BariContiene un paragrafo sulle proporzioni.1984, Verso un’architettura, Longanesi & C., Milano 1984Presenta un sintetico capitolo sui tracciati regolatori.

Leoncilli Massi, Gian Carlo 1985, La composizione. Commentari, Marsilio, VeneziaÈ un testo dove viene proposto l'argomento della composizionearchitettonica, in tempi non sospetti, con l'intensità di scrittu-

ra che il tema esige. Oltre a segnare la sua diversità etica attra-verso la presentazione del tema del "Sublimatoio", il libro inte-ressa soprattutto qui per le bellissime "letture compositive"degli edifici di Otto Wagner.

1997, L’Etrusco torna a scrivere, Alinea, Firenze

2000, Danteum. Dar forma all’idea: un Danteum fiorentino, consaggi di Salvatore Di Pasquale, Gian Carlo Leoncilli Massi, LorisMacci, Gabriele Morolli, Elena Pontiggia, Andrea Ricci, DanieleSpoletini, Thimothy Verdon, Angelo Pontecorboli Editore/ EDKsrl, Firenze stampa 2000

2002, La leggenda del Comporre, Alinea, FirenzeTesto densissimo, dove viene ripercorsa l’idea di un’architettu-ra ancora tutta basata sulla composizione, sullo studio, sul con-fronto con l’eredità culturale del nostro passato.

Livio, Mario2003, La sezione aurea. Storia di un numero e di un mistero chedura da tremila anni, Traduzione di Stefano Galli, RCS Libri SpA,MilanoPiacevolissimo libro di un astrofisico americano che mette inrelazione l’arte, le orbite galattiche, le foglie del girasole e lageometria tramite in Numero d’Oro. Contiene una buonissimabibliografia (in inglese).

Lundy, Miranda2002, Le leggi dell’Universo. Geometria sacra, Macro Edizioni,Diegaro di CesenaÈ un testo di poche pagine piuttosto curioso, con riferimentialla decorazione islamica, alla cosmologia, all’acustica, allamistica.

Luporini, Eugenio1964, Brunelleschi. Forma e Ragione, Edizioni di Comunità,Milano,Sono analizzate essenzialmente le chiese di S. Spirito e S.Lorenzo, e soprattutto alla prima è dedicata un'ampia partealla spiegazione in base a moduli geometrici.

Mandelli, Emma; Rossi, Michela2002, (a cura di), Muro & muri. Tipi e architetture a Firenze edintorni, Alinea, Firenze.Testo molto ricco di rilievi e tesi di laurea in materia di disegnoe rilievo in cui è emblematica la chiave proporzionale in moltirilievi dell’architettura storica fiorentina.

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Bibliografia ragionata

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Le proporzioni dimenticate. Leoncilli e la necessità dell’inattuale.

parte dedicata all'architettura, egli traccia con lucidità le dif-ferenze fondamentali tra quella egizia, quella greca e quellaromana e tra le corrispondenti "distanze" da cui esse andrebbe-ro valutate. Esemplifica inoltre queste differenze nelle altreforme d'arte figurativa.

Rogers, Ernesto Nathan2006, Gli elementi del fenomeno architettonico, a cura di Cesa-re De Seta, Christian Marinotti, Milano Testo alla cui limpidezza e leggerezza occorrerebbe sempre farriferimento. Qui lo segnalo non per le proporzioni, ma per ilrapporto con l’antico e la funzione didattica del rilievo deimonumenti.

Roisecco, Giulio Storia del concetto di spazio, Bulzoni, RomaLibro tutto teso ad avvalorare la tesi dello spazio come conti-nuum spazio-temporale. La storia dell’architettura come evolu-zione dello spazio da statico a dinamico, come accettazione del-l’elemento tempo nella percezione dell’opera.

Rossi, Paolo Alberto1981, Soluzioni brunelleschiane. Prospettiva: invenzione e uso,in “Critica d'arte”, n° 175-177,In questo saggio vengono presentate delle letture proporziona-li sulle seguenti opere del Brunelleschi: Palazzo Pitti (con lasezione aurea) e la Rotonda degli Angeli. Inoltre viene spiegatopersuasivamente il significato della distanza nelle costruzioniprospettiche del Brunelleschi.

Rowe, Colin2000, Mathématiques de la villa idéale et autres essais, Hazan,ParisDelizioso libro che raccoglie saggi diversi sull’architettura esulla composizione.

Rykwert, Joseph - Engel, Anne 1994, (a cura di), Leon Battista Alberti, Electa, MilanoÈ il catalogo della mostra tenuta a Mantova nel 1994 sull'Alber-ti. Volume sostanzioso che spazia dalla scrittura alla numisma-tica. Contiene dei saggi molto interessanti sulla geometriaalbertiana ed è ovviamente una ricchissima fonte bibliografica.

Sala, Nicoletta; Cappellato, Gabriele 2003, Viaggio matematico nell’arte e nell’architettura, Presen-tazione di Mario Botta, Franco Angeli, MilanoTesto divulgativo sui concetti fondamentali di simmetria, tras-

lazioni, iperboli, ecc. Forse un po’ troppo calibrato su una visio-ne molto matematica dell’architettura.

Salerno, Luigi 1963, Proporzione, in Enciclopedia Universale dell'Arte, XI, San-soni, FirenzeIl contesto a cui si applica il concetto di proporzione è veramen-te ampio. Qui se ne fa un'esatta e stringata sintesi.

Santayana, George1997, Il senso della bellezza, a cura di Giuseppe Patella, Aethe-tica, Palermo

Severino, Emanuele2003, Tecnica e architettura, a cura di Renato Rizzi, RaffaelloCortina, MilanoLibro molto interessante, anche per l’acuta introduzione delcuratore, incentrata sull’architettura.

Summerson, John1970, Il linguaggio classico dell'architettura, Einaudi, TorinoLibro di piccolo formato e di agevole lettura, permette di avvi-cinarsi agli ordini architettonici senza necessariamente essereesperti in collarini e scozie. È anche una velocisissima storiadell’architettura vista attraverso le differenze del dorico grecoda quello del Bernini.

Tatarkiewicz, Wladyslaw1979, Storia dell'estetica, 3 vol., tr. it. Giulio Einaudi, TorinoI tre volumi piuttosto impegnativi del Tatarkiewicz sono unutile strumento per chi si avvicina alla storia dell'estetica e habisogno di una messa a fuoco dei temi portanti della materia.2001, Storia di sei Idee, Aesthetica edizioni, Palermo Libro molto interessante sul bello, sulla creatività, sull’arte.Presuppone una discreta preparazione filosofica.

Tavolaro, Antonio2003 , Castel del Monte e Il Segreto dei Templari, Edizioni Giu-seppe Laterza, BariÈ un romanzo, o forse sarebbe meglio dire un saggio romanzatosu Castel del Monte, e sulle proporzioni e giochi geometrici dicui sarebbe scrigno. Qui tuttavia si riporta come eccesso di “calcolite”. Alcune ipotesi sono talmente ardite che è necessario presume-re una conoscenza approfondita di matematica.

& Bertolli, FirenzeViene qui riproposto, in francese, il saggio Du cubisme au Clas-sicisme che Severini pubblicò presso Povolozky a Parigi nel1921. Tralascio qui di indagare il ruolo che il saggio ha avutonegli anni Venti per limitarmi alle nozioni matematiche e geo-metriche esemplificate con grande chiarezza e competenza. Iltesto è corredato di alcune lettere tra Severini e Le Corbusiere tra Severini e critici d’arte molto interessanti.

Pacioli, Luca 1982, De Divina Proportione, con un'introduzione di AugustoMarinoni, rip. anas. Associazione tra le Casse di Risparmio Italia-ne, Roma e Silvana Editoriale, MilanoRiporto questo testo non solo per la bellezza dei solidi disegna-ti da Leonardo, ma anche per la chiara introduzione di Marino-ni, che accompagna alla lettura del trattato e inquadra i rap-porti tra Pacioli e Leonardo.

Panofsky, Erwin 1952, Idea. Contributo alla storia dell’estetica, La Nuova Italia,ScandicciFamosissimo e interessantissimo testo di Panosky, conosciutosoprattutto per le amplissime e dottissime note.1993, La prospettiva come "forma simbolica" e altri scritti, Fel-trinelli, MilanoIn questo testo l'autore esplicita la sua idea sulla prospettivaintesa come momento stilistico e non come semplice tecnica dirappresentazione. Panosfsky prende in esame anche la prospet-tiva nel suo sviluppo storico, da Vitruvio fino a Desargues. Daleggere per collegare il problema delle deformazioni ottichecon quello delle proporzioni oggettive.

Panza, Pierluigi 1994, Leon Battista Alberti. Filosofia e teoria dell'arte, GueriniStudio, MilanoTesto che riprende ed integra la tesi in estetica dell'autore, per-mettendo una osservazione a 360 gradi dell'Alberti. Consenteinoltre di comprendere quale sia il nesso tra le speculazionifilosofiche e l'utilità pratica che da esse derivano. Così è ancheper il capitolo che concerne più propriamente i numeri e la geo-metria. 1996, (a cura di), Estetica dell’architettura, Guerini e Associa-ti, MilanoÈ una raccolta antologica di filosofi sull’estetica in architettu-ra, utile per chi è completamente “digiuno” e intende affron-tare l’argomento.Pesic, Peter

2005, La prova di Abel. Saggio sulle fonti e sul significato dellairrisolvibilità in matematica, Bollati Boringhieri, TorinoTesto intrigante che tuttavia richiede qualche conoscenza mate-matica. Bello soprattutto il primo capitolo “Lo scandalo dell’ir-razionale”.

Piero della Francesca 1984, De prospectiva Pingendi, Ed. critica a cura di G. NiccoFasola, Le Lettere, Firenze Interessantissimo testo critico della Nicco Fasola, introdotto asua volta da Battisti. Piero della Francesca e il suo trattato ven-gono collocati nella giusta dimensione storico-filologica, e ven-gono altresì fatte alcune precisazioni notevoli sulle prospettivee sugli ideali del Quattrocento fiorentino.

Pontiggia, Elena 1997, (a cura di), Gino Severini. Dal cubismo al classicismo.Estetica del compasso e del numero, SE, MilanoNiente da aggiungere per quanto riguarda il testo severinianogià indagato da Pacini. Il saggio della Pontiggia inquadra splen-didamente Severini nella Parigi degli anni Venti.2005, (a cura di), Il ritorno all’ordine, Abscondita, Milano Volume che collaziona testi di artisti e critici di inizio secolo,tutti riconducibili a quel rappel a l’ordre che dà il nome allaraccolta.

Pratelli, Augusto 1995, Il disegno di architettura. Tre chiese del bolognese, CHAR-TA, MilanoÈ un libro composto da un professore di disegno che insegna allaFacoltà di Ingegneria di Bologna. Inizia con un bellissima disser-tazione sulla storia della geometria e sul disegno "denso" deinostri predecessori per finire però con delle esemplificazionigrafiche (le tre chiese) che non sono affatto all'altezza delleaspettative.

Quatremère de Quincy, A.C. 1992, Dizionario storico di architettura. Le voci teoriche; a c.di Valeria Farinati e Georges Teyssot, Marsilio, VeneziaUtilissimo testo per chi vuole rendersi conto di come alcuni con-cetti chiave dell'architettura, come proporzione, simmetria,euritmia, fossero già cambiati all'epoca rispetto alla formula-zione vitruviana.

Riegl, Alois 1959, Arte tardoromana, Einaudi, TorinoÈ anche questo un classico degli studi di architettura. Nella

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Le proporzioni dimenticate. Leoncilli e la necessità dell’inattuale.

Tessenow, Heinrich1995, Osservazioni sul costruire, a cura di Giorgio Grassi, Fran-co Angeli, MilanoContiene alcune osservazioni (appunto) sulla Baukunst e in que-sta sede importa per le riflessioni sulla simmetria.

Torsello, Benito Paolo2006, Figure di pietra. L’architettura e il restauro, Marsilio,VeneziaTesto molto molto interessante, basato certo sul restauro, mache contiene alcuni passaggi importanti sull’antico e sulle pro-porzioni, sull’ordine architettonico. Esemplare per la leggerez-za della scrittura.

Valéry, Paul1984, Scritti sull'arte, Guanda, ParmaCome si intuisce dal titolo è una raccolta di scritti sul soggetto"arte". Si va dalla danza al disegno passando per la musica.Oltre alla bellissima scrittura di Valéry, il testo interessa quiperché impreziosito di riferimenti alla composizione davveroprofondi, pur se brevi.1988, Eupalino o l'architetto, Biblioteca dell'Immagine, Porde-noneÈ un dialogo che Valéry, poeta e matematico, ipotizza tra Socra-te e Fedro. I temi discussi dai due vanno dai ricordi dell'uno aidubbi dell'altro, svolgendosi comunque sempre intorno all'archi-tettura. In filigrana, tra le letture possibili, emerge la raziona-lità tutta greca dei numeri, delle forme, delle proporzioni.1995, Il cimitero marino, traduzione di Patrizia Valduga; con unsaggio di Elio Franzini, Arnoldo Mondadori, MilanoPropongo qui questo testo non tanto per la poesia che lo intito-la, ma per il commento di Valéry sulla sua opera (Sul Cimiteromarino), dove si parla ancora di composizione, di ordine e dipoesia.

Viollet-le-Duc, Eugène1981, L’architettura ragionata. Estratti dal Dizionario, Saggiointroduttivo, commento e apparati di M. Antonietta Crippa, JacaBookPreziosissimo saggio di Maria Antonietta Crippa e assolutamen-te imperdibile la lettura di Viollet-le-Duc, soprattutto per levoci estratte. La voce “Costruzione” rende tra l’altro chiaro ilsistema ed il funzionamento degli archi.

Wittkower, Rudolf1992, Idea e immagine. Studi sul Rinascimento italiano, tr. it.Giulio Einaudi, TorinoContiene, rivisto ed ampliato, il famoso saggio The changingconcept of proportion pubblicato con il titolo di Il mutevoleconcetto di proporzione, che verte sulle manie proporzionali "aposteriori" di critici e storici.1994, Principii architettonici nell'età dell'Umanesimo, Einaudi,TorinoÈ un testo fondamentale per comprendere l'architettura rinasci-mentale e la critica storica sulla stessa. Chiarisce vari argomen-ti: l'edificio a pianta centrale, l'Aberti, il Palladio, la teoria musi-cale, ecc. con un linguaggio di grande chiarezza e precisione.

Zeki, Semir 2003, La visione dall’interno. Arte e cervello, Bollati Boringhie-ri, TorinoTesto molto interessante, con un taglio trasversale, che va dal-l’arte alla neurobiologia, apportando qualche contributo sullaformazione psicologica del concetto di spazio.

Zellini, Paolo 1999, Gnomon. Una indagine sul numero, Adelphi, MilanoLibro interessantissimo sul numero, sulla geometria, sul calco-lo. Si parte dalla matematica hindu fino ad arrivare agli algo-ritmi dei grandi numeri.

Page 56: Le proporzioni dimenticate

Leoncilli chiedeva un disegno astratto, scabro e se vo-gliamo “antigrazioso”, come amava dire ricordandoCarrà, ma ricco di suggestioni architettoniche, di possibilità spaziali e fantastiche, un disegno che privilegiasse lo studio delle piante, poiché soprattutto in queste ultime è possibile scorgere la matrice dellospazio e intuire lo svolgimento tridimensionale dell’idea costruttiva immaginata.

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