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L’ULTIMO VOLOPER PUNTA RAISI

di FRANCESCO TERRACINA

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FRANCESCO TERRACINA, giornalista, lavora all’Ansa di Palermo. È stato redattore del quotidiano “L’Ora” e direttore del “Mediterraneo”. Ha collaborato a diverse testate, tra cui “Diario”, “Il Manifesto”, “L’Europeo”, “Il Mondo”.

© 2012 Francesco Terracina© 2012 Stampa Alternativa/Nuovi Equilibri

Questo libro è rilasciato con licenza Creative Commons-Attribuzione-Non commerciale-Non opere derivate 2.5 Ita-lia. Il testo integrale della licenza è disponibile all’indirizzo http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/2.5/it/.L’autore e l’editore inoltre riconoscono il principio della gratuità del prestito bibliotecario e sono contrari a normeo direttive che, monetizzando tale servizio, limitino l’accesso alla cultura. Dunque l’autore e l’editore rinunciano ariscuotere eventuali introiti derivanti dal prestito bibliotecario di quest’opera. Per maggiori informazioni, si con-sulti il sito «Non Pago di Leggere», campagna europea contro il prestito a pagamento in biblioteca<http://www.nopago.org/>.

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PREFAZIONE

IL SILENZIO PARLA

In Sicilia si viene al mondo muti. È nel silenzio che

la diversità dei siciliani diventa cultura. Mafiosi,

ma anche cittadini – materializzazione

ectoplasmatica di un’illusione di cittadinanza –

perdono la bocca all’atto di nascita, simbolicamente

e antropologicamente. I palermitani mai l’hanno

aperta per confermare la verità semplice

dell’esistenza in vita, e ancora meno l’hanno

socchiusa in un sussurro che ne rivendicasse la

dignità. Il silenzio è la qualità più sottile e spesso

apprezzata dei morti e della morte. Della morte

civile e della solitudine, dei morti ammazzati, dei

morti di strage, dei morti di disastri aerei. Sono

stati tre a Palermo, per un totale di 297 morti: 5

maggio 1972 Montagna Longa, 23 dicembre 1978

Punta Raisi, 27 giugno 1980 strage di Ustica. Senza

contare le sedici vittime del tentato ammaraggio a

poche miglia da Palermo di un Atr 72 della

compagnia tunisina Tuninter, in volo il 6 agosto

2005 da Bari a Djerba. Non c’è un’altra città

italiana che possa contare tutte queste croci, tutti

questi silenzi.

Il silenzio è la trama e il protagonista di L’ultimo voloper Punta Raisi di Francesco Terracina, giornalista e

siciliano. Indagine e inchiesta storica, reportage ma

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anche documento e fonte originale, L’ultimo volo perPunta Raisi è un formidabile rapporto sullo stato del

silenzio a quarant’anni esatti da una strage ancora

inspiegabile. La Giustizia ha cristallizzato una

fragile e contorta verità, troppo rapida e poco

credibile, sulla morte di 115 persone a bordo del Dc

8 Alitalia AZ 112 Roma-Palermo che il 5 maggio

1972, tra le 22.23 e le 22.24, si schiantò sul costone

di Montagna Longa, a poco meno di otto chilometri

dalle piste dell’aeroporto palermitano.

Una verità che non regge. A scardinarla, il silenzio.

Una volta complice delle verità di Stato, oggi, dopo

quattro decenni, il silenzio parla. Si racconta

attraverso il linguaggio dei segni e dei segnali,

attraverso le tragedie collettive e il dolore privato

dei siciliani e della Sicilia, di Palermo e della sua

provincia negli anni ’70, un pezzo della nazione

italiana nella piena disponibilità di Cosa nostra che

di volta in volta stringeva accordi con lo Stato o con

quella negazione dello Stato che era il terrorismo

fascista e stragista, individuava interessi comuni,

operava con i metodi della criminalità ma con gli

agi dei vicereami. Non è un caso che Gladio in

Sicilia avrà ampi margini e l’isola fiorirà di campi

paramilitari fascisti. La Sicilia palestra, come al

solito, del nostro peggiore futuro. Il silenzio si

racconta fragorosamente nell’urlo del territorio

devastato, nell’offesa quotidiana della legalità, nello

sfregio permanente della comunità. Non correlati

delle tragedie, ma presupposti e anticipi.

Per ascoltare questo silenzio, per farlo parlare,

servono antenne sensibilissime che solo alcuni

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siciliani hanno sviluppato. Forse per l’urgenza di

smorfiare il silenzio dei morti, delle cose, della

natura e degli uomini. Forse per la necessità di

captare un segnale di rassicurante normalità al di

là delle distanze siderali che ci separano dalle

dinamiche certe del mondo. Francesco Terracina ha

fatto parlare il silenzio, solo due minuti di silenzio

radio, quelli tra la cabina dei piloti e lo scalo

palermitano, due soli, insondabili, inaccettabili

minuti di silenzio, tra le 22.23 e le 22.24 nel maggio

del ’72. Poi, lo schianto. Due minuti di silenzio che

hanno capovolto, sicilianamente, le leggi che

regolano il nostro universo, stravolgendo la logica e

persino la fisica, facendo diventare ineluttabile ciò

che non lo è, segnando il crisma della normalità su

ciò che è abnorme, malato, incredibile. Persino in

Sicilia, persino a Palermo dove tutto si tiene e si

confonde: la verità e la bugia, il denaro e la

collusione, la politica e la mafia, il pubblico servizio

e l’incompetenza, la richiesta di verità e la sua

negazione. Due minuti di silenzio che sembrano

racchiudere il mistero di tutti i silenzi, quelli che

hanno pilotato il nostro Paese lungo lo scartamento

ridotto della democrazia, condannandoci a una

irredimibile, tragica ambiguità.

Possiamo ancora accettare, in silenzio, la verità agli

atti che la scatola nera del Dc 8 non ha registrato

nulla del volo perché aveva il nastro strappato, ma

continuava a segnalarne il funzionamento?

Possiamo ancora accettare, in silenzio, la verità agli

atti che i piloti non avessero visto la pista di Punta

Raisi omettendo di avvisare la torre di controllo?

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Possiamo ancora accettare che nessun magistrato né

prima, né durante, né dopo il processo abbia chiesto

i tracciati radar del centro di difesa aerea di

Marsala (per la strage di Ustica furono acquisiti, ma

dopo otto anni dalla tragedia) per controllare la

reale traiettoria del Dc 8 in quei due minuti di

silenzio? Possiamo ancora accettare che non furono

mai autorizzate verifiche di tracce di esplosivo

nonostante molti corpi e oggetti presentassero

condizioni compatibili con un’esplosione? Possiamo

ancora accettare il tetragono, inossidabile rifiuto di

prendere in considerazione altre ipotesi sulle cause

della tragedia di Montagna Longa, altre piste di

indagine? Il silenzio, l’omertà, valore simbolico di

una comunità arcaica e mafiosa esteso ad

abbracciare le cose, i fatti, gli strumenti. Eppure le

altre piste di indagine erano lì, nei segni, nei

segnali, nell’oscuro presente di quegli anni.

Montagna Longa appare come l’epifania

terrificante, ma nello stesso tempo logica e

consequenziale, della saldatura tra contingenti

interessi mafiosi e strategiche ambizioni neofasciste.

Non solo per la qualità di alcuni passeggeri a bordo

del Dc 8, non solo perché due giorni dopo si

sarebbero svolte le elezioni politiche. Non è

Terracina ad affermarlo, ma i fatti del silenzio e le

certosine indagini di un poliziotto, Giuseppe Peri,

che approda a una verità così scomoda da segnarlo

nella carriera e nella salute. Antenne sensibilissime

che captarono la verità carsica di quegli anni e che

sino ad oggi ha trovato solo riscontri.

Ed è agghiacciante verificare come i morti per

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tragedia e per silenzio, in Sicilia, siano

pietosamente composti da altri morti, morti che

consolano i morti, morti che indagano sui morti. Il

generale Dalla Chiesa, ucciso il 3 settembre ’82,

tenne a battesimo l’inchiesta sul disastro; il

colonnello Giuseppe Russo, ucciso il 20 agosto del

’77, prese in carico la scatola nera inutilizzabile del

Dc 8; il medico legale Paolo Giaccone, ucciso l’11

agosto dell’82, fece i rilievi autoptici sui corpi dei

due piloti; il parlamentare comunista Pio La Torre,

ucciso il 30 aprile ’82, pronunciò a Montecitorio un

durissimo intervento contro le conclusioni

dell’indagine ministeriale sulla tragedia; Giovanni

Spampinato, giornalista de “L’Ora”, ucciso il 27

ottobre del ’72, indagò sui rapporti tra mafia e

terrorismo nero in Sicilia; il magistrato Cesare

Terranova, ucciso il 25 settembre ’79, fu l’ultimo ad

ascoltare il poliziotto Giuseppe Peri.

La fitta ragnatela di morti diventa un sudario a

coprire altri morti e a soffocare nei vivi ogni

preghiera di giustizia e invocazione di verità.

Sciolto il mistero di Montagna Longa dall’ultimo

abbraccio del silenzio, a Palermo si tornerebbe a

nascere con una normale anatomia antropologica.

Bocca compresa.

Giosuè Calaciura

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PARTE I

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1. La lettera Z sta per Zulu, che indicava l’orario medio del meridiano di Greenwich. Da tempo si usal’acronimo Utc (Universal time coordinated). È una convenzione alla quale si fa riferimento ogni volta cheè necessario indicare in maniera inequivocabile un orario ed evitare eventuali incomprensioni dovute al-la differenza di fuso orario.

CAPITOLO I

LA LINEA D’OMBRA

È andata così: 115 morti in una calma sera di maggio enessuno con cui prendersela, se non i due piloti, mortianche loro. Il 5 maggio 1972, tra le 22.23 e le 22.24 un Dc8 dell’Alitalia, il volo AZ 112 proveniente da Roma, sischianta contro una parete rocciosa a circa 935 metrid’altezza: Montagna Longa, un brullo costone calcareomesso lì ad ascoltare i venti, a ridosso dell’aeroporto pa-lermitano di Punta Raisi.L’aereo, con 108 passeggeri a bordo e sette membrid’equipaggio, aveva iniziato il rullaggio a Fiumicino alle21.35 (20.35 secondo l’orario del meridiano di Green-wich, che è il riferimento per il traffico dell’aria) con ven-ticinque minuti di ritardo e aveva staccato le ruote daterra alle 21.46. In quaranta minuti sarebbe giunto a Pa-lermo attraversando due aerovie, l’Ambra 1 e l’Ambra 13,passando per Ponza e Ustica.Decollo perfetto. Il registratore di Roma Controllo finoalle 21.10/Z1, cioè le 22.10 locali, segue l’aereo e a quelpunto lo autorizza a cambiare con Palermo Avvicinamen-to sulla frequenza 120,2 della torre di controllo di PuntaRaisi. Da questo momento, il concetto del tempo acqui-sta la sua dimensione meridionale, approssimata: Paler-mo, infatti, non ha il marcatempo nel registratore.A Punta Raisi, i tassisti danno uno sguardo alle auto pri-

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2. Sugli aerei di linea è obbligatorio che ci siano due piloti. Il pilot flight, che siede a sinistra, agisce suicomandi di volo. L’altro pilota presta assistenza al primo e si occupa anche delle comunicazioni radio btb(bordo-terra-aria).

vate parcheggiate nel piazzale e capiscono che non tiraaria d’affari. Dentro le loro Seicento Multipla nere e ver-di – dalla carrozzeria sfrontatamente gobba – riprendonoa sonnecchiare, mentre le radio a basso volume trasmet-tono gli ultimi appelli al voto dei segretari di partito: duegiorni dopo, il 7 maggio, si sarebbero svolte le elezionipolitiche. Il tabellone degli arrivi, quel vecchio ingranag-gio di “palpebre” nere con i numeri in bianco, tanto simi-le a una tombola e ormai sconosciuto alla generazionedell’era digitale, non segnala alcun ritardo: 25 minuti evi-dentemente non sono ritenuti un problema.Nella cabina di pilotaggio del Dc 8 c’è il comandante Ro-berto Bartoli, 41 anni da poco compiuti, 8.565 ore di voloalle spalle, 57 atterraggi a Punta Raisi e un curriculum ditutto rispetto che includeva la dura esperienza nell’avia-zione militare. Bartoli faceva parte dell’equipaggio che ac-compagnò Papa Paolo VI a Delhi nel primo viaggio di unpontefice in India. Con lui, in cabina, ci sono il primo uffi-ciale Bruno Dini, 37 anni, 3.117 ore alla cloche degli aereidi linea e un passato, anche per lui, nell’Aeronautica mili-tare, 22 i voli su Punta Raisi come terzo membro dell’equi-paggio e 8 i voli come copilota, e il motorista-pilota GinoDi Fiore, 28 anni, 1.124 ore passate ad ascoltare il suonodei reattori e a percepirne ogni nota, anche lui con brevet-to di pilota, sebbene non richiesto nel suo ruolo. Quattrogli assistenti: Adriano Pescosolido, Paola Graziella Magri-ni, Paola Massimi e Beatrice De Moulin.Dini è ai comandi dell’AZ 112, Bartoli ai collegamenti ra-dio2. Il pomeriggio del 5 maggio, il comandante e il suo

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equipaggio avevano volato da Roma a Catania e ritorno.Prima di imbarcarsi per Palermo, il comandante si era in-contrato a Fiumicino con la moglie e insieme avevano ac-compagnato i figli a bordo del volo Ati BM 351 diretto aTrieste, dove avrebbero trascorso qualche giorno dainonni.L’equipaggio avrebbe pernottato a Palermo, in uno diquegli alberghi esclusivi dove la compagnia di bandiera,ben lontana a quei tempi dalle ferree logiche del rispar-mio, mandava i propri dipendenti. Da lì a poco avrebbe-ro cenato, nonostante l’ora tarda, perché la gente del-l’aria è un po’ come gli attori di teatro, che mai andreb-bero in scena a pancia piena. Quando Bartoli si collega con Palermo, sono certamentepassate le 22.10, ora dell’ultima comunicazione con Ro-ma, e dichiara di trovarsi a 74 miglia da Punta Raisi. Latorre di controllo gli fornisce i dati meteo: calma di ven-to, visibilità cinque chilometri, 3/8 di cumuli a 1.700 pie-di, 5/8 di cirri a 20.000 piedi. Sono i nomi delle nuvole,mentre i numeri indicano la percentuale di copertura delcielo. La scala varia da 1/8 a 8/83. Volendo semplificare sipuò dire che i cumuli sono le nubi grigie, i cirri sono for-mazioni sfilacciate: le cosiddette pecorelle.Per un normale passeggero, l’esser sospeso in aria tra cu-muli e cirri è come stare su una giostra o dentro un incu-bo, e poco importa conoscere la scienza del volo, quelprincipio della fisica che prende il nome dal suo scopri-tore, Bernoulli, il quale già nel Settecento capì che la

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3. Anche questa nomenclatura è stata sostituita dai seguenti acronimi: Few (cielo coperto per meno del25%, che corrisponde alla vecchia scala 1/8); Sct, cioè scattered (copertura dal 25% al 50%: da 2/8 a4/8); Bkn, broken (cielo coperto dal 50% al 99%: da 6/8 a 7/8); Ovc, overcast (cielo completamente co-perto: 8/8).

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pressione dell’aria in movimento è più bassa rispetto aquella dell’aria circostante. E il vuoto che si crea sopral’ala, leggermente curva, consente all’aereo di essere ri-succhiato in alto. È un principio semplice e, come tuttele cose semplici, funziona.Ma torniamo alle comunicazioni di Bartoli con la torre dicontrollo: il comandante dice di trovarsi a 25 miglia daUstica e a 55 da Palermo. Ecco l’esatta trascrizione deldialogo tra i piloti e l’addetto alla torre di controllo.− AZ 112: Adesso siamo a 25 miglia da Ustica e quindi a75, oh scusate, 25 e 30 fa 55 miglia da Palermo.− Torre di controllo: Ok.− AZ 112: Siamo a 28 miglia, quindi fra tre miglia siamoal Ctr [la zona di controllo di Palermo, nda], tra dieci se-condi e continuiamo la discesa per 5000.− Torre di controllo: Ok 5000 piedi Prs [sigla del radiofa-ro installato in aeroporto, che trasmette sulla frequenza329, nda], nessun ritardo.− AZ 112: Palermo AZ 112 è sulla vostra verticale e lascia5000 e riporterà sottovento per la 25 sinistra.− Torre di controllo: Ricevuto, il vento è sempre calmo.− AZ 112: Ok… (parole indecifrabili). La trascrizione del dialogo si chiude con l’ok da parte diBartoli. È tutto quello che si sa su quest’ultima conversa-zione: nessuna perizia è mai stata eseguita sul nastro, no-nostante un’esplicita richiesta delle parti civili al proces-so che si aprirà a Catania. Da questo momento si inter-rompe ogni collegamento tra la torre di controllo e l’ae-reo, mentre inizia il dialogo telefonico tra le torri di con-trollo di Roma e Palermo.Sappiamo, dalla comunicazione di Bartoli, che aveva in-dividuato l’aeroporto e che si apprestava a scendere per

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portarsi sottovento e imboccare la pista 25 sinistra4.Compiuto l’avvicinamento, la procedura da manuale pre-vede che arrivati sulla verticale si compia un circuitopressoché ellittico che a Punta Raisi chiamano il “biscot-to sul mare” e che consiste nel percorrere a vista quattrobracci prima dell’atterraggio. Quando l’aereo imboccal’ultimo lato del circuito, che misura circa cinque chilo-metri, se il pilota non scorge la pista deve effettuare lamanovra di mancato avvicinamento, riattaccando e de-viando a destra verso il mare, per poi ripetere daccapo laprocedura5. Manovra, quest’ultima, che a chi viaggia confrequenza sarà, per probabilità statistica, capitato di as-sistere: è la classica riattaccata, che si effettua dandopotenza ai motori e raggiungendo una quota di sicurezzadalla quale ripetere la manovra.Bartoli e Dini non fanno nulla di tutto questo: non riat-taccano e non percorrono il circuito d’atterraggio; nonsul mare, almeno, non a nord dell’aeroporto, dove è pre-visto che si svolga questa operazione. Non compiono ne-anche la manovra più diretta: arrivare dal mare e atterra-re direttamente sulla pista, una procedura breve che, in

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4. Per chiarire la pianta dell’aeroporto, la pista principale corre quasi parallelamente alla linea di costa.La numerazione si riferisce alle coordinate geografiche: 25 sta per 250 gradi, significa che l’orientamen-to rientra nel quadrante ovest-sudovest. La stessa pista (il proseguimento della linea retta) sul lato op-posto è orientata a 70 gradi, cioè a est-nordest. Si tratta, insomma, dei due punti opposti dello stesso seg-mento, la cui differenza dà, ovviamente, 180 gradi.5. La cartina di avvicinamento prevede che gli aerei inizino la discesa da 5000 piedi, stabilizzati sul rile-vamento 039° del radiofaro Prs Ndb, quindi in allontanamento dalla pista. Raggiunta la quota di 2850piedi, entro un preciso arco di tempo si inizia la virata a sinistra verso la pista 25, prendendo prua 209°e iniziando un’ulteriore discesa per 1050 piedi. Una volta stabilizzati sul rilevamento 209° del radiofaroPrs, si mantiene la quota e si cerca a vista la pista: se entro un determinato lasso di tempo (in funzionedella velocità dell’aeromobile) non si vede la pista, si effettua la manovra di mancato avvicinamento, chein questo caso prevede una virata a destra verso il mare, salendo nuovamente a quota 5000 piedi. Quan-do l’equipaggio del volo AZ 112 dice alla torre di controllo di aver individuato la verticale del campo, la-sciando 5000 piedi, si suppone che fosse effettivamente stabilizzato sul tratto in allontanamento e aves-se iniziato la discesa come da procedura strumentale; oppure aveva identificato l’aeroporto, o credevad’averlo fatto, e cominciava la discesa mantenendo in vista la pista in uso e gli ostacoli presenti.

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Carta di atterraggio

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assenza di traffico e con buona visibilità, è quella più ese-guita. Circa due ore dopo, i rottami del Dc 8 verranno trovati,insieme ai corpi dell’equipaggio e dei passeggeri, tra lerocce aguzze di Montagna Longa, a poco meno di 4 mi-glia in linea d’aria dallo scalo di Punta Raisi. Cosa è suc-cesso tra l’ultima comunicazione di Bartoli e il momentodello schianto? Questa domanda, la più importante, nonha ancora avuto una risposta certa, nonostante un pro-cesso concluso in Cassazione nel 1984.I periti che hanno lavorato sull’incidente affermano che aPunta Raisi ogni procedura strumentale ha lo scopo dicoadiuvare il pilota nel condurre l’aereo in allineamentocon la pista, fino a una distanza e a una quota tali da per-mettere l’atterraggio completamente a vista. Il Dc 8 quan-do è finito sulla montagna si trovava a circa 3000 piedi. Sei piloti avevano già individuato la pista, come sembrereb-be dalle comunicazioni alla torre di controllo, cosa ci fa-cevano in quel punto fuori rotta e a quella quota?La conclusione dell’inchiesta sulla sciagura di MontagnaLonga (la più grave mai accaduta in Italia fino all’inci-dente dell’8 ottobre 2001 a Milano-Linate, dove 118 per-sone morirono per una collisione a terra tra un Md 87della Sas e un Cessna Citation), sia pure con molte cau-tele e non escludendo altre ipotesi legate all’errore uma-no, stabilisce che i piloti pensavano di trovarsi sulla ver-ticale dell’aeroporto, ma in verità si erano spinti più asud, verso le montagne, ritenendo che il radiofaro – lostrumento su cui gli aerei si sintonizzano per stabilire larotta – situato su Monte Gradara, dieci miglia verso l’en-troterra, fosse quello di Punta Raisi. È bene tenere amente questi due elementi: Monte Gradara e la distanza

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tra questo sito e l’aeroporto, che è, appunto, circa diecimiglia nautiche.Se i piloti non hanno visto lo scalo, considerato che l’ave-vano superato – è la tesi portata avanti nelle indagini – e sierano diretti più a sud, sulle montagne, perché avevanocomunicato di trovarsi sulla verticale dell’aeroporto? E so-prattutto, perché avrebbero dovuto lasciare la quota di si-curezza di 5000 piedi? Ancora: è possibile superare la lineadi costa, a cui è quasi attaccata la pista, senza accorgerse-ne? Certo, era buio. Ma quella era una sera calma, con vi-sibilità di cinque chilometri e cinque nodi di vento.L’ipotesi che si fece a caldo fu che avessero scambiato leluci dei vicini paesi per quelle dell’aeroporto. Ma i peritidel tribunale di Catania, dove si svolse il processo, esclu-sero decisamente questa possibilità, giudicandola “incre-dibile”: troppo fioche le luci di quei luoghi per poter es-sere confuse con quelle di uno scalo, la cui disposizionee colorazione non può tradire nessun pilota, soprattuttoun comandante esperto come Bartoli che vola da dicias-sette anni. Interrogati su questa ipotesi, alcuni piloti la ri-tengono anche loro inammissibile: se un professionistapuò scambiare le luci di una città per quelle di uno sca-lo, allora a New York rischierebbero tutti di atterrare sul-la Quinta Strada.Il pubblico ministero di Catania conclude la sua requisi-toria imputando ai piloti una serie di errori. Il più macro-scopico sarebbe stato proprio quello di spingersi fino aMonte Gradara, credendo che l’aeroporto fosse tra quel-le rocce buie, e lì «cominciarono la manovra di discesacon virata a destra, scambiarono l’oscurità delle monta-gne con quella del mare e cozzarono contro MontagnaLonga».

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A questo punto è importante sottolineare che non sievince da nessuna comunicazione o rilevazione che i pi-loti abbiano effettuato una virata a destra. Ricordiamo leultime parole di Bartoli nel dialogo con la torre di con-trollo: «AZ 112 è sulla vostra verticale e lascia 5000 e ri-porterà sottovento per la 25 sinistra».Ma ammesso che abbiano deciso di farlo una volta rag-giunta la verticale del campo (procedura comprensibileper rimanere a nord degli ostacoli, evitando che una vi-rata a sinistra, venendo da settentrione, li portasse sullecolline presenti a sud), per quale motivo avrebbero do-vuto lasciare la quota di sicurezza di 5000 piedi senza es-sere stabilizzati sul tratto d’allontanamento, come previ-sto dalla procedura?La comunicazione successiva a quella in cui l’aereo forni-sce la sua posizione non è mai stata decifrata. Sul nastrodella torre di controllo c’è una pausa, poi una conversazio-ne tra il Dc 8 e un aereo russo (il cui contenuto non è sta-to reso noto, forse perché giudicato ininfluente per le inda-gini) inserito sulla stessa frequenza; ancora un’altra pausae, infine, la voce dell’operatore della torre di controllo, ilsergente maggiore Rosario Terrano, che tenta di mettersiin contatto con l’equipaggio. L’inchiesta stabilirà che il na-stro di registrazione a terra si era attivato, ma senza regi-strare nulla per un paio di minuti. Segue lo schianto.L’aereo finisce contro la roccia e si spezza in più parti. Laprua e due motori rotolano lungo il costone della monta-gna, dal lato del paese di Carini, dove finiscono anche al-cuni corpi. Il kerosene si sparge ovunque e divampa unincendio. I bagliori delle fiamme si vedono anche da Pun-ta Raisi e bastano ad avvertire i parenti dei passeggeri, inattesa all’aeroporto, che la tragedia è compiuta.

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La disperazione coinvolge per qualche ora anche i fami-liari di nove persone che dovevano trovarsi a bordo delDc 8 ma che avevano perso l’aereo. In attesa c’erano an-che i parenti del giudice Giuseppe Lombardo, che figura-va nella lista degli imbarcati; ma il magistrato non erapartito, aveva dato il suo biglietto al collega Pasquale“Ninni” Ales, che gli aveva chiesto il favore di cedergli ilposto perché aveva necessità di raggiungere in fretta Pa-lermo.In aeroporto non c’è Francesco Graziano, palermitano,impiegato delle poste. Lui non aspetta nessuno: suo figlioMario, che è a Rieti per un corso della Forestale, sareb-be arrivato il giorno dopo in treno. Graziano apprendedella tragedia mentre sta andando a casa a mangiare, macapisce che in quel momento c’è altro da fare. Pochi co-noscono Montagna Longa come lui, che frequenta queiluoghi impervi da anni. Si offre di accompagnare carabi-nieri e vigili del fuoco tra i sentieri, e quando è in cimaqualcuno gli dice che tra quei corpi disseminati sulla roc-cia c’è anche quello di Mario, suo figlio, che all’ultimomomento aveva cambiato idea e voleva fare una sorpre-sa ai suoi genitori, arrivando in anticipo.

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CAPITOLO II

IL SILENZIO RADIO

A Punta Raisi è radunata l’abituale folla di amici e paren-ti ad attendere i passeggeri dell’ultimo volo della sera,molti dei quali tornano per le elezioni politiche della do-menica successiva. Nessuno sospetta niente, anche per-ché, con insolita solerzia, sul tabellone degli arrivi perqualche minuto l’AZ 112 è dato per atterrato.Su quel volo ci sono molti giovani, che con la loro tesse-ra elettorale usufruiscono dello sconto sull’esoso bi-glietto dell’Alitalia. In tasca hanno pochi spiccioli, noncerto le mazzette di banconote che uno dei passeggeri,il notaio Giacomo Buttitta, custodiva in valigia: la crona-ca prende subito per buona la leggenda che parla diquattrocento milioni di lire dentro una ventiquattrore ei giornali si lanciano nella descrizione di cercatori di for-tuna, tra sentieri e sterpaglie, che per settimane calpe-stano il luogo della tragedia nel tentativo di raccattareun po’ di denaro.Ed è per mancanza di soldi che Alessandra Vassallo, al-l’epoca venticinquenne, aveva deciso con il suo fidanzatoNino di non prendere quell’aereo. I due, freschi di Ses-santotto, si erano trasferiti a Roma da poco, girando lespalle a una Palermo distratta e disimpegnata, vanaglo-riosa e inconcludente, dove intendevano tornare per da-re i loro voti a chi dichiarava di avversare mafia, affari,speculazione edilizia. Ma per quanto il biglietto aereo fos-se scontato per chi mostrava un certificato elettorale,non potevano permettersi comunque di affrontare quel-

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la spesa, e la scelta cadde sulla seconda classe del trenodelle 20.30: due posti a sedere nei vagoni pieni diun’umanità un po’ dolente, non dissimile da quella de-scritta da Elio Vittorini in Conversazione in Sicilia.Due loro amici, Mariella Leone e Roberto Pottino, zia enipote, non avevano i loro stessi problemi e decisero diprendere il volo Alitalia, quel volo che Alessandra e Ninoin un punto del loro viaggio verso Palermo avranno perun istante incrociato lungo una qualche verticale tra cie-lo e terra.All’alba, Alessandra va sul ponte del traghetto che attra-versa lo Stretto, a mangiare l’arancina, quella palla di ri-so fritto con dentro il ragù di carne, che Andrea Camille-ri – rispettando la tradizione della Sicilia orientale – de-clinerà al maschile. Mentre all’alba mangia l’arancina, ol’arancino, sente che nella notte a Palermo c’è stato unincidente aereo e capisce che il volo è proprio quello chelei e il suo fidanzato avrebbero dovuto prendere e sulquale c’erano Mariella e Roberto.Gaetano Pottino, il padre di Roberto, non si rassegnò maialla morte del figlio e tornerà su Montagna Longa con pi-cozza e badile per scavare alla ricerca di qualcosa. Potti-no, qualche tempo prima, si era dato all’archeologia, fru-gando nel terreno della sua tenuta di Terravecchia di Cu-ti, vicino a Santa Caterina Villarmosa, nel Nisseno. Lapassione per l’archeologia non spiega la sua caparbia de-cisione di andare a scavare tra le rocce di Montagna Lon-ga, dove i risultati della ricerca finiranno in un libro, Icartaginesi in Sicilia, che per lui era qualcosa di più diun trattato scientifico, anche se il volume è ricordatoperché Pottino individua il monte Ercte, citato da Polibioa proposito della Prima Guerra Punica e dello sbarco di

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Amilcare, nella zona compresa tra Punta Raisi e Castel-lammare del Golfo.

Erano passati poco più di dodici anni dall’inaugurazionedello scalo: il primo jet atterrò alle 20.32 del 1° gennaio1960, proveniente da Ciampino, dopo un volo di 70 minu-ti. Era un Super Convair pilotato dal comandante Ferdi-nando Fioretti, triestino, che una volta messi i piedi sul-la pista, mentre qualcuno gli porgeva una coppa di cham-pagne, ebbe da ridire sulle segnalazioni luminose colloca-te nell’area montagnosa a ridosso dell’aeroporto. Ma nes-suno aveva voglia di guastare la festa e gli occhi eranotutti puntati su Lidia Mondì, 25 anni, che il caso scelsecome mascotte di quel primo volo. Una foto, che la ri-traeva sulla scaletta dell’aereo mentre accennava un sor-riso, finì sui giornali. Lidia Mondì, donna molto bella, do-dici anni dopo sarà una delle 115 vittime di MontagnaLonga. Quella sera tornava da uno dei suoi viaggi setti-manali a Roma, dove si recava per rifornirsi di capi daesporre nelle vetrine della sua boutique, “La Lampara”,un marchio di gran moda, che aveva sede a Mondello e aCefalù, nei luoghi delle vacanze.Quell’inaugurazione coprì a colpi di flash il mancato at-terraggio di un altro Convair, sempre proveniente da Ro-ma, che il giorno successivo, dopo che il pilota aveva su-dato sette camicie sulla pista battuta dal vento e dopoaver ripetuto due volte la manovra, diresse la prua versoTrapani, dove finalmente toccò terra. Niente male comeinizio.Ma torniamo alla sera del 5 maggio ’72 e alla trascrizioneintegrale del dialogo telefonico fra le torri di controllo diPalermo e Roma.

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− Palermo: Controllo?− Roma: Che succede?− Palermo: Guarda che la 112 mi sembra che sia andataa finire sulla montagna.− Roma: Che c’è?− Palermo: La 112!− Roma: Sì, che ha fatto?− Palermo: Mi sembra che sia andata… sulla montagna.− Roma: Non ti sento, parla più piano.− Palermo: Mi sembra che sia andata a finire sulla mon-tagna. Io l’ho vista. Le luci di navigazione.− Roma: Sì.− Palermo: Quando l’aereo aveva lasciato i 5000 piedi esubito riportato sottovento a destra6.− Roma: Dunque la 112 è andata a finire sulle montagne,mi dici.− Palermo: Almeno sembra così, perché ha fatto dal latosbagliato all’opposto dell’aeroporto. Capito? Sul latomontagna.− Roma: Sul lato montagna. Ma è in contatto?− Palermo: No, no. Ho perso il contatto. Doveva atterra-re tra due minuti.− Roma: Ha perso il contatto?− Palermo: Dopo che ha lasciato i 5000 piedi. Aveva la-sciato i 5000 e la stazione.− Roma. Aveva lasciato i 5000 e tu hai seguito le luci ver-so le montagne?

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6. È una deduzione del controllore di volo, visto che dalle comunicazioni ufficiali si evince soltanto che ipiloti lasciano la verticale del campo e 5000 piedi e intendono riportare (non vi erano ancora) sottoventoper la 25 sinistra.

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− Palermo: Esatto. Ho visto che invece di essere sotto-vento era sopravento. Dal lato opposto. Mi senti?7

− Roma: Avverti tutti, intanto, lì.− Palermo: Sì, sì, ciao. Io te l’ho voluto dire così. Ciao.− Roma: Allora?− Palermo: Guarda che io almeno te lo posso confermareperché a meno che l’aereo non sia in avaria radio, alme-no doveva fare passaggi bassi. Questo non ha atterrato.Io ho visto le luci di navigazione e penso che abbia sba-gliato l’atterraggio. Ma non ho sentito rumore di riattac-cata. Capito?− Roma. Ho capito. Non hai sentito più niente te?− Palermo: Senti?− Roma: Sento.− Palermo: Allora, io ho visto queste luci di navigazioneandare con la stessa velocità che può avere il Dc 8 ormaivicino alla velocità di stallo. Riattaccata non era. Questoqua è andato a finire dall’altra parte delle montagne piùbasse che abbiano noi qua.− Roma: Ho capito. Che pista in uso avevi?− Palermo: La 25 sinistra. Avevamo calma di vento.− Roma: 25 sinistra, calma di vento. Domanda pure a Tra-pani se sa qualche cosa.− Palermo: Come?− Roma: Domanda pure a Trapani.− Palermo: Ho già. Abbiamo chiesto, figurati. Che vuoi daTrapani?

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7. La definizione sottovento indica la posizione di un oggetto rispetto alla provenienza del vento e dunqueè un concetto relativo. Un oggetto non è sottovento in senso assoluto, ma relativamente a un altro ogget-to. Un oggetto è, invece, sopravento se è investito dal vento prima rispetto ad altri oggetti. Quando Terra-no parla di «lato opposto» e di «sopravento», possiamo presumere – ma è un’ipotesi – che l’aereo si di-rigesse verso sud: relativamente al campo di atterraggio, infatti, il sottovento indica l’area a nord delloscalo, quella sul mare, opposta alla zona montagnosa.

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− Roma: Trapani non sa niente? Ai 29 [si riferisce all’ora-rio nda] ha perso contatto?− Palermo: Pronto? Aspetta.− Roma: Pronto? Palermo? Palermo? Allora, novità?− Palermo: Senti? Comunicano che hanno visto da tuttele parti dall’altro lato della montagna. Tutti i carabinierihanno visto questa grande fiammata. Niente da fare.Nessun contatto con nessuno.− Roma: Ho capito. Senti, ho sentito Romeo Oscar chestima Palermo ai 48 [anche qui il riferimento è all’orario,nda].− Palermo: Ai 48?− Roma: Affermativo. Com’è il tempo a Palermo.− Palermo: Il tempo è bellissimo. Hai sentito di questo in-cidente?− Roma: Ho sentito. Qual era l’ultima comunicazione?− Palermo: L’abbiamo visto qui sopra. Scendeva a vista5000 piedi. Lasciava 5000 piedi a vista, poi si è vista unafiammata.− Roma: Ma lui non ha detto niente?− Palermo: Non ha detto niente.− Roma: Cioè, autorizzato all’avvicinamento, che ha det-to? Era numero 1?− Palermo: Era a vista numero 1, non c’era niente.− Roma: A vista numero 1. Non c’era niente.− Palermo: Esatto. C’è il monte, è andato contro il monte.− Roma: E non ha comunicato niente?− Palermo: No, niente.− Roma: Ho capito.Desumiamo da questo dialogo che l’aereo sia passato sul-la verticale di Punta Raisi e invece di iniziare la procedu-ra d’atterraggio abbia continuato la sua corsa verso le

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montagne, senza accennare alcuna reazione, senza riat-taccare i motori e risollevarsi, senza compiere alcuna vi-rata, come se il mezzo fosse in balia di se stesso.Ma a conclusione dell’inchiesta ministeriale condottadalla commissione presieduta dal generale FrancescoLino, il sergente maggiore Terrano dirà a verbale:«Tengo a precisare che quanto riferito a Roma dal sot-toscritto è stato detto in base a una ricostruzione sog-gettiva… Confermo quanto finora dichiarato: di nonaver visto né sentito alcun rumore dell’aereo». Unaversione che confermerà il 22 febbraio 1979 davanti algiudice istruttore di Catania, il quale gli contesta diaver sostenuto il contrario, e cioè di aver visto l’AZ112, di averne seguito la traiettoria e apprezzato la ve-locità. Ma Terrano ribatte: «Chiarisco che ho detto ciò,parlando al telefono con Roma, mentre ascoltavo quel-lo che si diceva vicino a me». Vicino a lui non c’era unpassante, ma Girolamo Fauci, il capo servizio con fun-zione di controllore d’avvicinamento. Fauci aveva rice-vuto la telefonata di Gino Governanti, il farmacista diCarini che per primo aveva dato l’allarme. «Io», spiegaTerrano al giudice istruttore, «ho chiamato anche Ro-ma, perché mi ero accorto che qualcosa non andavabene». E aggiunge: «Ho detto ciò parlando al telefonocon Roma mentre ascoltavo quello che si diceva vicinoa me. Insomma, ho detto quello che avevo sentito direal Fauci. Non ho visto l’aereo».A proposito delle dichiarazioni di Terrano, prosciolto inistruttoria, la sentenza del 1982 afferma: «Il tenore del-la telefonata con Roma appare inequivocabile in ognisua parte: il soggetto esprime nozioni di cui avrà certa-mente avuto percezione diretta e precisi giudizi sulla di-

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rezione dell’aereo, con cui subito dopo tenterà, invano,di mettersi in contatto via radio. Successivamente, purnegando di aver visto l’aereo, implicitamente contraddi-ce il suo assunto, in quanto aggiunge che dopo la telefo-nata del Governanti [il testimone che diede l’allarme,nda], fece uscire i vigili del fuoco dall’aeroporto dal latodella pista 02 [in direzione di monte Pecoraro, nda], inquanto supponeva che l’aereo fosse precipitato nei pres-si delle montagne basse che sovrastano Cinisi e Terrasi-ni, anziché verso Carini, come sarebbe stato logico in se-guito alle notizie apprese dalla telefonata del Governan-ti. Terrano, nell’immediatezza dei fatti, ha tenuto uncomportamento (e reso dichiarazioni) tipico di colui cheha una ben precisa idea di come si siano svolti i fatti e,soprattutto, sembrerebbe conoscere con buona appros-simazione la reale traiettoria percorsa dall’aereo quellasera fatale. Le successive deposizioni toglieranno a quelcomportamento e a quelle dichiarazioni ogni efficaciaprobatoria: resta però consacrata in atti la sensazioneche per un attimo si sia aperto uno squarcio di verità frale tenebre e che ci si trovi di fronte a colui che ha vera-mente intravisto quale fosse la reale traiettoria dell’ae-reo. Sui suestesi rilievi e considerazioni, si chiude, conun senso di profonda perplessità, l’excursus su quellache agli atti del processo sembra una traiettoria “folle”che pur tuttavia rientra pur sempre nell’ambito dellepossibili traiettorie percorse».Grazie a un decreto legge del 1979, i servizi di assistenzaal volo non sono più svolti da militari, che prima di quel-la data erano inquadrati come ufficiali o sottufficiali del-l’Aeronautica e il cui stato giuridico era identico a quelloprevisto per tutto il personale militare. Dal 1963, i servi-

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zi erano forniti dall’Ispettorato delle comunicazioni e del-l’assistenza al volo del Ministero della Difesa, malgrado lalegge 141 dello stesso anno prevedesse la devoluzione infavore del Ministero dei Trasporti. Nel ’79 viene costitui-to il Commissariato per l’assistenza al volo, che opera fi-no a quando non entra in vigore lo statuto dell’Aziendaautonoma per il traffico aereo generale.

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CAPITOLO III

A EST DI NIENTE

A Montagna Longa i soccorritori giungono attraverso unastrada impervia, costruita qualche anno prima per i lavo-ri di rimboschimento. Ma a metà del percorso incontranouna frana e poi una buca, che provvedono a riempire conle ruote di scorta delle jeep. Un’operazione piena d’insi-die, nella quale si conteranno tre feriti.Oggi su quel cocuzzolo campeggia una croce di metallo,sulla quale sono incisi i nomi, alcuni sbagliati, delle vit-time. A distanza di quarant’anni – a dimostrazione chela sciatteria non ha tempo – esistono due o tre elenchidei morti, e nessuno è uguale all’altro. Sul retro di unodi questi elenchi, diffuso dalle agenzie di stampa e arri-vato nelle mani delle famiglie delle vittime qualche gior-no dopo la tragedia, abbiamo trovato una nota scritta apenna nella quale si dice che «non è mai giunto un elen-co (neanche agli avvocati di parte civile) da parte del-l’assessorato allo Stato civile del Comune di Palermo.Sarebbe utilissimo, ai fini dell’apertura del procedimen-to penale, avere dati ufficiali sulle vittime, sia residentia Palermo sia in altre località, soprattutto sul numeroeffettivo dei morti da confrontare con gli elenchi Alita-lia».Ancora oggi qualcuno parla del mistero della centoquin-dicesima vittima che non sarebbe stata trovata. Non c’ènessun cadavere mancante e il mistero è un altro e benpiù grave: come ci si sia potuti accontentare di una veri-tà così fragile.

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La prima comunicazione radio tra la caserma dei vigilidel fuoco e i soccorritori avviene alle 22.49.– Vediamo in alto alla montagna come una palla di fuocoma non sappiamo che strada prendere.– Cercate di individuare meglio la zona.– Sono il comandante Furitano. Mandate cellule fotoelet-triche, tutte quelle che ci sono. Siamo vicini alla zona manon riusciamo a trovare una strada che ci porti verso ilrogo. C’è una confusione d’inferno, troppe macchine dicivili ci impediscono di procedere speditamente. Avvisa-te le forze dell’ordine perché ci aiutino.– 22.53: Sono il vicecomandante Castiglia. Siamo su unastrada che dovrebbe portare sul luogo del disastro. Ci se-guono centinaia di altre auto.[…]– 23.40: Sono il vicecomandante. Sulle nostre teste sen-tiamo dei lamenti. Non riusciamo a trovare una stradaper arrampicarci. Bisognerebbe essere dei rocciatori.Una persona del luogo mi dice che esiste una guida diquesti posti. È una guardia forestale. Si chiama Davì, cer-cate di rintracciarla.– 23.50: Sono il comandante Furitano. Comunicate a cel-lula fotoelettrica che illumina zona sbagliata. Non riu-sciamo a vedere nulla. Le torce che avevamo con noistanno scaricandosi. Quasi non danno più luce.– Sono il capitano D’Agostino. Non vedo più il rogo. Solopiccoli focolai. Ci troviamo in mezzo ad alcuni rottami.Cerchiamo i corpi. Saranno disseminati più sopra. Siamoa circa 800 metri dal livello del mare ma ancora non ab-biamo trovato nessuno dei passeggeri dell’aereo.– 24.00: Qui è il vicecomandante. Purtroppo i lamentinon erano della gente dell’aereo. Ci sono persone del luo-

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go che sono riuscite a raggiungere i primi rottami dell’ae-reo prima di noi. Piangono e non vogliono più prosegui-re. Sono atterrite. Non vogliono guidarci nella salita e quisi può finire da un momento all’altro su un burrone. Nonsi vede nulla. Ci arrampichiamo alla cieca.[…]– 00.10: Sono il capitano D’Agostino. Frughiamo dapper-tutto e in ogni dove troviamo tracce dell’aereo disinte-grato, ma ancora nessun corpo umano. Abbiamo spentoqualche piccolo focolaio con estintori portatili e prose-guiremo verso la vetta.– 00.20. Sono il comandante. Una grossa voragine si apredavanti a noi. Abbiamo lasciato già da un pezzo le nostreauto e comunichiamo con radio portatili. Non riusciamoa renderci conto se in fondo al burrone c’è qualcosa diquanto noi cerchiamo. Le nostre lampade non riesconoad illuminare fino in fondo al crepaccio. Segnalatemi laposizione degli altri ufficiali. Ditemi se hanno trovatoqualcosa.[…]– 00.40: Sono Castiglia, il vicecomandante. Siamo sul po-sto della sciagura. È una carneficina, sono tutti morti.Non si è salvato nessuno, purtroppo.– 00.41: Qui vigile Dispenza, ho contato quindici morti fi-no a questo momento, per quello che riesco a vedere conla mia torcia elettrica. Sono come morti di spavento, han-no gli abiti a brandelli, ma i loro corpi non sono straziati.– 00.45: Sono il vicecomandante. C’è un silenzio agghiac-ciante. Sono proprio tutti morti. È orribile. Avvisate co-mandante.– 00.50: Sono il comandante Furitano, sono insieme alcomandante Castiglia. Abbiamo perlustrato ormai una

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vastissima zona, fin dove arrivano i rottami dell’aereo.Nessun segno di vita. Potete confermare: nessun super-stite.– 00.59: Sono il capitano D’Agostino. Siamo tutti sul luo-go della tragedia. Non ci resta che iniziare questa terribi-le, agghiacciante veglia funebre.

Lucio Galluzzo, giornalista dell’“Ansa” di Palermo, è unodei primi cronisti ad arrivare su Montagna Longa, insie-me al suo collega Pippo Morina. Era salito dal lato di Ci-nisi, lasciando l’auto a parecchia distanza. «Non si vede-va quasi niente», racconta, «e a un certo punto inciampo.Il collega che era con me tenta di sorreggermi per evita-re che finisca a terra. Poi mi guarda e dice: “Lucio, siamoarrivati”. Ero inciampato su un cadavere».All’alba, quando la luce comincia a schiarire il luogo, unapecora carbonizzata sulla sommità della montagna indicail confine superiore delle fiamme. Da lì, sulla vetta e ver-so valle, c’è una scia di rottami e sterpaglie bruciate, lun-ga almeno mezzo chilometro.I primi testimoni, alcuni dei quali sono arrivati in nottatasulla cima, parlano con i cronisti e dicono di aver visto ilDc 8, già in fiamme, sorvolare Carini sulla verticale dellastazione ferroviaria. A torto o a ragione, nessuno credealla tesi dell’aereo in fiamme prima dell’impatto e il pro-cesso non prenderà mai in considerazione queste testi-monianze.Il giorno dopo, anche il farmacista di Carini, Gino Gover-nanti, e la moglie Maria Grazia Zanon, riferiscono ai gior-nalisti quello che hanno osservato la sera prima. Il farma-cista era stato il primo, alle 22.28, a telefonare al 113. IGovernanti abitano in una villa situata tra la collina e il

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Fotogrammi tratti da un video amatoriale girato sul luogo del-

l’incidente all’alba del 6 maggio. Si vedono i corpi di alcune

delle vittime.

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mare. La signora era sul balcone di casa, aveva le pinzedella biancheria in mano e stava mettendo ad asciugarela tuta del marito da poco tornato dal campo sportivo.Oggi il dottor Governanti ha superato gli ottant’anni, aquel tempo allenava il Carini, che giocava nel campiona-to di promozione. Tra i suoi ragazzi ce n’era uno cheavrebbe fatto strada: Zdenek Zeman, arrivato un paiod’anni prima dalla Cecoslovacchia invasa dai carri armatisovietici. Molti anni prima, nel ’46, l’Italia era diventata lapatria di suo zio, il calciatore e poi allenatore della Juven-tus Chestmir Vyckpaleck.La signora Zanon scorge un aereo che ha una strana tra-iettoria. È abituata a vederne passare tanti, ma nessunocon quella rotta e soprattutto a quella quota. Chiama ilmarito, che ha il tempo di affacciarsi al balcone e di ve-dere anche lui quello che sta accadendo: l’AZ 112 vienedal mare, ha una traiettoria quasi parallela a MontagnaLonga. A un certo punto l’aereo incrocia il crinale in sali-ta e scompare dalla loro vista. Passano un paio di secon-di e si sente il boato, seguito dal fuoco e da pezzi dell’ae-reo che rotolano in fiamme lungo il costone di montagnadal lato di Carini.Nella farmacia dove li abbiamo incontrati il 27 novembre2009 e poi il 5 maggio 2010, giorno del trentottesimo an-niversario della sciagura, i Governanti ricordano quelmomento come se fosse ieri. «Dopo l’impatto», dice la si-gnora, «ho visto fiamme di tutti i colori: rosso, verde, vio-la. Mi sembrava la fine del mondo». Né Grazia Zanon, néil marito hanno notato fiamme sull’aereo prima dell’im-patto: «Procedeva normalmente», ricorda la signora,«con le luci di navigazione accese e un assetto orizzonta-le. A sorprendermi sono state l’insolita rotta e la quota».

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La vetta più alta della catena montuosa misura 3163 pie-di, cioè 1129 metri. L’impatto avviene a circa 935 metri.Per tre volte Governanti è stato ascoltato dai magistratidi Catania e per tre volte ha confermato la stessa versio-ne. «Non capivo la ragione di quelle frequenti convoca-zioni. Andavo a Catania, rispondevo alle stesse domandenello stesso modo, poiché riferivo la verità, cioè quelloche avevo visto con i miei occhi. Ogni volta mi rimborsa-vano settemila lire per le spese, tornavo a casa e poco do-po mi richiamavano. La quarta volta non andai: avevoprenotato un viaggio in Egitto e non avevo alcuna inten-zione di rinunciarvi. Mi chiedevano se ero sicuro di quelche dicevo, ogni volta ripetevo, tale e quale, la mia ver-sione. Infine, proposero a me e a mia moglie di salire suun aereo che avrebbe dovuto simulare il percorso del Dc8. Che razza di proposta!».Quando Governanti chiama le forze dell’ordine, dall’altrocapo del telefono pensano che sia uno scherzo: «“Comefa a sostenere che si tratta di un aereo di linea e non diun velivolo militare?”, mi dissero. Risposi che le dimen-sioni non lasciavano dubbi. Vollero sapere il mio numerodi telefono e mi ordinarono di riagganciare. Pochi secon-di dopo mi richiamarono e capirono che la mia non era latelefonata di un mitomane».Il farmacista ricorda che per una settimana un gruppo dipersone, tra cui i tecnici dell’Alitalia, rimasero a casa suaa compiere osservazioni. «Offrivo loro da bere e qualchevolta da mangiare. Mi promisero un volo per gli Stati Uni-ti sul nuovo Boeing 747. Non ne fecero niente. In Ameri-ca ci andai, ma a mie spese». Il retrobottega della farma-cia ha una parete piena di foto dove c’è tutta l’Italia delcalcio che conta, da Vyckpaleck a Sivori, da Gigi Riva a

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Bruno Conti a Luca Toni. E su ognuno di loro il farmaci-sta ha una storia da raccontare, ma privilegia quella suZeman, testa lucidissima, grande visione di gioco ma an-che grande lentezza nei movimenti. Ma torniamo a quella sera. I Governanti vanno nella piaz-za di Carini, che aveva ospitato i comizi di chiusura dellacampagna elettorale. Quel venerdì ogni piazza dei quasiquattrocento comuni della Sicilia ospita un politico. An-che l’allora ministro dell’Interno Franco Restivo ha decisodi chiudere la campagna elettorale nell’Isola: poco dopo le22.30 sta parlando dal balcone del notaio Francesco Can-dioto, nella piazza Umberto I di Termini Imerese, e men-tre spiega che la Democrazia cristiana è stata l’artefice delmiracolo economico di quella zona, convincendo la Fiat arealizzare uno stabilimento proprio lì, qualcuno gli sus-surra all’orecchio. La folla rumoreggia, il ministro inter-rompe il suo comizio e, senza dare spiegazioni, va via.Nella piazza di Carini un oratore molto meno blasonatovede che la folla non lo segue più e si raduna a cerchiointorno al farmacista e alla moglie, che spiegano quantohanno visto e cercano di confrontare la loro versione conquella di altre persone. Alle 2 di notte, quando i Gover-nanti fanno ritorno a casa, ricevono la telefonata dell’al-lenatore della Juventus Cestmir “Cesto” Vyckpaleck. Ac-canto a lui, a Torino, c’è Giampiero Boniperti. Dicono alfarmacista che su quel volo c’era anche Cestmir junior,chiamato Cestino, 23 anni, il figlio di Vyckpaleck.Il farmacista ricorda quella telefonata: «Cesto mi fa: “Gi-no, che mi dici?”. “Che ti devo dire”, gli risposi, e la tele-fonata si chiuse così».Il giorno precedente, di ritorno da Londra, Governanti siera fermato a Torino. Il giovane Vyckpaleck gli aveva det-

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to che forse l’indomani sarebbe andato a Palermo per vo-tare. Il ragazzo aveva da poco deciso di non seguire le or-me del padre: dopo aver militato in Serie C con la Carra-rese, quell’anno era sceso alla categoria dilettanti e gioca-va come mezzala nel Ciriè, in promozione, per trentamilalire al mese. La Fiat, intanto, lo aveva assunto come pro-grammatore nel centro informatico. L’allenatore bianco-nero, che di lì a qualche giorno vincerà lo scudetto, quan-do seppe dell’incidente era in ritiro con la squadra in vi-sta della partita con il Cagliari che avrebbe consegnato lavittoria del campionato alla Juventus. Il giorno successivoprenderà un volo per Palermo; la moglie arriverà in treno.Che l’AZ 112 si trovasse a est rispetto all’aeroporto, oltreal farmacista e alla moglie lo testimoniano un po’ tutti,anche due poliziotti che in auto percorrevano l’autostra-da e hanno visto l’aereo a bassa quota, con le luci d’atter-raggio accese, tagliare la stessa autostrada, dirigendosiverso sud, cioè verso la montagna.La traiettoria a est dell’aeroporto è confermata anche daaltri testimoni, e una donna, la signora D’Anna, che sitrovava nel piazzale antistante l’aerostazione e dava lespalle al mare, guardando verso sud e sollevando la testaha visto l’aereo alla sua sinistra che si dirigeva verso l’en-troterra. L’ha seguito fino a quando non è scomparso die-tro monte Pecoraro, che si trova proprio a ridosso del-l’aeroporto e delimita un arco montuoso che comprendeMontagna Longa, ai piedi del quale si apre la conca dov’èadagiata la città di Carini. «Notai in alto alla mia sinistra,diretto verso Monte Pecoraro, un aereo, senza però sen-tire alcun rumore, ma scorgendo chiaramente le luci ros-se. Avvertii del fatto mio marito, che in quel momentostava osservando un altro aeromobile appena atterrato.

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Mio marito guardò verso l’alto, ma non riuscì a vederenulla, poiché l’aereo nel frattempo era sparito dietro lamontagna».Anche i due agenti di pubblica sicurezza, Manfrè e Foti,hanno dichiarato alla commissione ministeriale, alla pro-cura di Palermo e poi a quella di Catania che, provenien-ti dal capoluogo siciliano, «poco dopo aver superato il bi-vio che porta a Carini, ci ha sorvolato un aereo. Abbiamoletto l’indicazione della freccia che ne indica lo svincoloe dopo circa 700, 800 metri avvistammo l’aereo che pro-veniva dal mare… L’aereo passò in senso normale alla no-stra direzione, forse un po’ diagonalmente, ma cosa dipoco». Sono le testimonianze più verosimili e attendibiliche riferiscono di questa traiettoria e sono i soli testimo-ni ad aver visto il passaggio mare-terra alle 22.20 circa.Ma la commissione ministeriale d’inchiesta, istituita il 12giugno con un decreto dell’allora ministro dei TrasportiOscar Luigi Scalfaro, due settimane dopo deposita unarelazione nella quale gli esperti – concordi nell’attribuireai piloti la responsabilità dell’incidente – descrivono unatraiettoria che nulla ha a che fare con quella segnalatadai testimoni. Se il Dc 8 avesse davvero virato a sinistra,come sostenuto dalla commissione Lino, questo signifi-cherebbe, spiega la sentenza di Catania, «che i piloti ab-biano esattamente individuato il campo, come comunica-to alla torre di controllo, ed abbiano successivamente im-pattato contro la montagna. Ipotesi contrastata, perchéritenuta assurda».Il giorno precedente al deposito della relazione Lino, il 26giugno, il primo governo Andreotti cessava le funzioni.Fino a quel momento era stato l’esecutivo con la duratapiù breve nella storia della Repubblica, soltanto 129 gior-

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ni. Il 26 luglio si sarebbe insediato il secondo governo An-dreotti, con il liberale Aldo Bozzi al Ministero dei Tra-sporti, in sostituzione di Scalfaro. Un’altra crisi si sareb-be abbattuta su palazzo Chigi dopo 346 giorni: l’esecuti-vo cade per il ritiro dell’appoggio esterno da parte dei re-pubblicani di Ugo La Malfa. Il dissidio tra lo Scudocrocia-to e l’Edera nasce sulla riforma televisiva e sulle conces-sioni alle tv locali e scoppia con il caso Telebiella.Il fatto che Bartoli avesse comunicato di essere sulla ver-ticale dell’aeroporto non è dunque ritenuto credibile daiperiti, una tesi fatta propria dal tribunale: «Se l’aereoavesse effettivamente individuato la verticale, l’incidentenon sarebbe probabilmente avvenuto. Appare illogico,infatti, che dei piloti, dopo aver individuato la verticaledell’aeroporto, conoscendo i pericoli della zona, si ad-dentrino fra le montagne per oltre dieci chilometri e perlo più in discesa». Questo è un punto chiave dell’inchiesta. Le motivazionidella sentenza di primo e secondo grado scartano “defi-nitivamente” la traiettoria con virata a sinistra, «perchéillogica. È impossibile e inammissibile che piloti del-l’esperienza di Bartoli e Dini, per imprudenti, negligentio distratti che fossero quella sera, abbiano effettuato unavirata a sinistra, nonostante avessero detto alla torre dicontrollo di virare a destra8, sapendo, come non poteva-no non sapere, che a sinistra, abbassandosi di quota perl’atterraggio, sarebbero andati a finire ineluttabilmentesulle montagne. E non si dimentichi», sottolinea la sen-

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8. Come abbiamo visto, nelle comunicazioni di Bartoli alla torre di controllo non si parla di virata a de-stra. Nella manovra d’atterraggio la virata a sinistra è quella standard. L’aeroporto di Palermo ha un cir-cuito d’atterraggio non standard: virando a sinistra, infatti, si finirebbe contro le montagne. A Punta Rai-si la manovra va compiuta a nord del campo, con virata a destra.

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tenza, «che nella fase d’atterraggio anche il più distratto,imprudente e negligente dei piloti non può non esserequanto meno vigile e presente a se stesso».I giudici ritengono – sono ancora parole contenute nellasentenza – «folle e impensabile» l’ipotesi di virata a sini-stra descritta dalla commissione Lino, che parte dall’er-rato presupposto (sempre secondo i giudici) che l’aereosi trovasse effettivamente a 5000 piedi sul radiofaro diPunta Raisi, quando, invece, si era spinto più a sud.Bartoli, chissà per quale ragione, si sarebbe sbagliato,avrebbe commesso errori «impensabili», come dicono glistessi magistrati in alcuni passaggi dell’istruttoria. Nes-suno ha ipotizzato che dall’individuazione della verticaleai momenti immediatamente successivi che hanno pre-ceduto lo schianto, i piloti non siano più stati in grado dimanovrare l’aereo e che possa essere avvenuto qualcosache ha persino interrotto il collegamento radio con la tor-re di controllo. È lo stesso Terrano, in un passaggio del-le comunicazioni con Roma, a sollevare il dubbio che l’ae-reo possa trovarsi «in avaria radio».La domanda sulla traiettoria seguita, che aveva una suaindubbia importanza, assorbì buona parte dell’indagine.Nessuno si chiese se l’aereo seguì quel percorso perchéingovernabile, sia pure per un guasto. Gli esami sui mo-tori, compiuti dai tecnici della Rolls Royce, escluserodanni ai propulsori; altre analisi non avvalorarono mai latesi di un problema tecnico, mentre i resti del Dc 8 veni-vano trasferiti nell’aeroporto di Boccadifalco e da lì, tem-po dopo, a Pisa.Secondo la commissione Lino, il Dc 8 era a ovest di Mon-tagna Longa, sopra i paesi di Cinisi e Terrasini, «dovenessuno l’ha visto», dicono i giudici. In verità, un paio di

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testimoni, Renato e Luciano Turghi, ritengono che l’ae-reo provenisse da ovest.Quando Bartoli comunica che sta per portarsi sulla pista25 sinistra, il primo ufficiale, che si trova ai comandi,avrebbe interpretato erroneamente l’ultima comunica-zione del comandante, che dice «sottovento per la 25 si-nistra». In pratica Dini avrebbe virato a sinistra, scam-biando la posizione della pista (25 sinistra, appunto), perla direzione della virata.Se fosse accaduto questo, il comandante avrebbe avutotutto il tempo per correggere l’eventuale errore del suosecondo. «Sinistra», parola pronunciata da Bartoli per in-dicare il nome della pista, diventa la pietra d’angolo diquello sghembo edificio di ipotesi, frettolosamente co-struito dalla commissione Lino e che i giudici non inten-dono puntellare: «Se Dini avesse interpretato male la co-municazione del Bartoli e l’aereo si fosse trovato effetti-vamente sulla verticale dell’aerodromo, allorquandoavesse iniziato la virata a sinistra a 5000 piedi, i compo-nenti della cabina avrebbero sicuramente notato le lucirosse dei fari di pericolo collocati sul monte Pecoraro e aPizzo Corvo (910 metri d’altezza), a meno che quella se-ra non fossero funzionanti. Dagli atti, però, risulta cheerano in funzione. Va aggiunto che si sarebbero accortidella virata a sinistra dall’inclinazione che veniva presadall’aereo e sicuramente sarebbero intervenuti per evita-re l’errore». Già. «Da quanto sopra», aggiunge però lasentenza, «consegue logicamente che quando l’AZ 112iniziò la procedura di atterraggio non si trovava sulla ver-ticale dell’aeroporto».Come si può ipotizzare che entrambi i piloti e il terzo as-sistente abbiano erroneamente identificato l’aeroporto,

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pur vedendolo da diverse angolazioni? Com’è possibileche abbiano perso il riferimento con la pista e con gliostacoli? E perché mai, non avendo visto un bel nulla,hanno comunque deciso di lasciare la quota di 5000 pie-di? C’è da aggiungere che gli strumenti di bordo eranoperfettamente in grado di rilevare sia la direzione dell’ae-reo sia la distanza, espressa in miglia nautiche, dal radio-faro di Monte Gradara.Ma l’indagine ministeriale comincia con un processo alleintenzioni, e cioè con il presunto equivoco linguisticoscaturito da quella comunicazione in cui Bartoli pronun-cia la parola «sinistra» per indicare la pista d’atterraggioe il suo secondo la interpreta come la direzione della vi-rata. Tesi sposata anche dai tre periti nominati dal tribu-nale di Palermo. In seguito, anche la relazione dell’An-pac, l’associazione dei piloti, escluderà che l’aereo aves-se virato a sinistra. Ma per arrivare a queste prime con-clusioni passano anni.La testimonianza del farmacista e della moglie, unita allealtre e al dialogo telefonico fra le torri di controllo di Ro-ma e Palermo, complicano il quadro che la commissioneLino aveva provato a semplificare nei quindici giorni dilavoro, accollando ai piloti tutte le responsabilità. Lo sce-nario trovava conforto nell’innegabile condizione di pre-carietà dell’aeroporto.Chiunque abbia seguito da terra la traiettoria di un aereocapisce che non è facile individuarne la posizione. Man ma-no che la quota si abbassa, però, i riferimenti diventano piùchiari. Governanti e la moglie, inoltre, riferiscono un datotemporalmente incontrovertibile: dal momento dell’osser-vazione a quello dell’impatto intercorre pochissimo tempo;da quando lo perdono di vista allo schianto, addirittura po-

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chi secondi. Non c’è dubbio, secondo la loro testimonianza,che il Dc 8 sia finito contro il primo ostacolo incontrato,cioè Montagna Longa; mentre per la ricostruzione del tri-bunale – che privilegia, sia pure con cautela, una delle ipo-tesi possibili sulla traiettoria seguita dal Dc 8 – l’impatto sa-rebbe avvenuto sulla via di ritorno da Monte Gradara.Gli inquirenti di Catania, contrariamente a quanto affer-mato dalla commissione Lino (che pure il 23 maggio ’72aveva compiuto una simulazione con cinque distinti voli,uno dei quali notturno), non hanno mai avuto dubbi chel’aereo si trovasse, nel momento in cui l’hanno osservato,a est dell’aeroporto. Tuttavia, rispetto alla testimonianzadei Governanti, aggiungono un dettaglio che altera tutto:l’aereo, secondo il tribunale, aveva sì imboccato quellatraiettoria, ma non si era subito schiantato su MontagnaLonga, come riferito dai testimoni, ed era andato piùavanti di circa cinque miglia, fino a Monte Gradara, doveera posizionato il nuovo radiofaro. Da lì, credendo erro-neamente di essere sulla verticale dell’aeroporto, i pilotiavevano iniziato la manovra d’atterraggio con una virataa destra, quasi a chiudere un cerchio, che aveva portatoil Dc 8 a schiantarsi contro la roccia. Non è l’unica traiet-toria presa in esame, come abbiamo già detto, ma è quel-la ritenuta più credibile.L’aggiunta di quelle cinque miglia mette in crisi la tesi deitestimoni che avevano assistito allo schianto, avvenutosubito dopo aver visto l’aereo provenire da nord versosud, ma spiegava l’errore: l’aereo si stava dirigendo sulradiofaro di Monte Gradara perché i piloti immaginavanoche fosse quello di Punta Raisi. I Governanti in questiquarant’anni non hanno mai ritenuto – al contrario delsergente maggiore Terrano – che la loro fosse una «rico-

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struzione soggettiva» e hanno continuato a fidarsi dei lo-ro occhi e dell’oggettività della visione.Il relitto è stato trovato con prua 100 gradi, nel quadran-te est-sud-est, e assetto trasversale livellato. La posizio-ne – secondo la tesi degli esperti – stabiliva con certezzache l’aereo aveva compiuto una virata a destra, dopo averraggiunto Monte Gradara, e aveva mantenuto quell’ango-lo fino all’impatto.Ecco cosa dice un pilota all’agenzia “Air Press” a proposi-to della manovra descritta dai periti: «Rimane ancora dadimostrare con quale chiarezza di prove si sia raggiunta laconvinzione che la sera del 5 maggio ’72 l’AZ 112, dopoaver superato la verticale (dichiarata) dell’aeroporto e

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Il luogo dell’impatto visto dall’alto. Nel solco lasciato sul terre-

no si vede parte della coda del Dc 8.

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dopo aver percorso altre cinque miglia a sud di Punta Rai-si, abbia temporalmente potuto impattare sul luogo del si-nistro eseguendo una virata a destra solamente due o treminuti dopo il sorvolo dell’aeroporto, quando tale ipoteti-ca manovra comporta necessariamente un tempo supe-riore di almeno tre minuti, tempo che non trova riscontroobiettivo né nelle testimonianze, né soprattutto nelle pos-sibilità tecniche del Dc 8». L’aereo, insomma, non avreb-be avuto il tempo di arrivare a Monte Gradara, né la pos-sibilità di compiere la manovra che gli viene attribuita.I testimoni riferiscono che il Dc 8 arrivava dal mare eprocedeva quasi parallelamente a Montagna Longa, conuna leggera angolazione che lo avrebbe portato a incro-ciare il crinale. Cosa che avviene, tanto che l’aereo scom-pare dalla vista e qualche secondo dopo i Governanti di-cono di aver visto le fiamme e sentito lo scoppio. Attra-verso la loro testimonianza è possibile ricostruire una di-namica diversa da quella ipotizzata dai periti: l’aereo, su-perata la linea di costa, incrocia il crinale e impatta con-tro il costone della montagna. E la mancanza di reazionida parte dei piloti lascia pensare che dentro la cabinaqualcosa non andasse. Un guasto, un’esplosione, una col-luttazione? La versione fornita dai giudici è senz’altro più rassicuran-te: è andato tutto secondo procedura, però il luogo erasbagliato; i piloti hanno soltanto commesso un errore,madornale, ma pur sempre un errore.Siamo davanti a tre ipotesi: quella della commissione Li-no (l’aereo è sulla verticale dell’aeroporto e vira a sini-stra, anziché a destra, per un’incomprensione tra Bartolie Dini); quella del tribunale (l’AZ 112 si è inoltrato oltrela montagna, ritenendo che l’aeroporto fosse più a sud, e

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L’ipotesi accreditata dal tribunale di Catania. La linea curva

tratteggiata rappresenta il circuito d’atterraggio che l’aereo

avrebbe dovuto compiere per imboccare la pista: secondo i

giudici, i piloti ritenevano di trovarsi sull’aeroporto, invece

erano su Monte Gradara, dove è posizionato uno dei radiofa-

ri, indicato dal cerchio tratteggiato.

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lì ha iniziato il circuito d’atterraggio, finendo contro laroccia); quella dei due testimoni (il Dc 8 arrivava dal ma-re e si è schiantato contro il primo ostacolo).Ma eccone una quarta, rimasta inspiegabilmente sepoltatra le carte del processo civile intentato a Palermo dai fa-miliari delle vittime – un procedimento diverso da quellopenale che si è svolto a Catania. I periti Achille Danesi eAlfredo Magazzù forniscono una versione che non com-bacia con quella dei colleghi etnei: il Dc 8 non sarebbe af-fatto arrivato fino a Monte Gradara per poi tornare indie-tro e schiantarsi contro Montagna Longa; secondo i dueingegneri, invece, Bartoli e Dini, poco dopo aver sorvola-to lo scalo di Punta Raisi, credendo erroneamente di tro-varsi ancora sul mare, avrebbero fatto una virata a sini-stra, a cui doveva far seguito un’ulteriore virata a destra,necessaria per portare il Dc 8 in allineamento con la pi-sta. Ma, dopo aver impostato la prima manovra, l’aereoavrebbe incontrato l’ostacolo della montagna. Era cosìdifficile portare al processo di Catania questa tesi, redat-ta nel 1980, mentre l’indagine era ancora in corso?

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CAPITOLO IV

TUTTA COLPA LORO

Quanto ai fattori esterni come causa dell’incidente, eccocome si esprime, in un italiano incerto, la commissioneministeriale: «L’analisi conduce a formulare le ipotesi o diuna situazione particolare determinatasi all’interno dellacabina di pilotaggio per intervento di persone estraneeoppure di un’avaria che possa aver distolto, per quasidue primi, l’equipaggio di condotta, ovvero ad un fattoreumano che comprenda una gamma di ipotesi delle qualialcune possono essere valutate ma molte rimangono sco-nosciute».E qualche riga più avanti: «L’ammissione della possibilitàdi un’avaria o di un intervento estraneo lascia perplessiper il tempo estremamente ristretto in cui si sarebbe do-vuta verificare. Bisogna escludere, infatti, che l’eventoanomalo sia avvenuto prima dell’ultima comunicazione,in quanto l’equipaggio o avrebbe denunciato il fatto e, seimpedito a farlo, si sarebbe comunque per tempo premu-rato di evitare la zona a sud dell’aeroporto».Nel tentativo di escludere ipotesi diverse dall’erroreumano, la commissione finisce per suffragarne la possibi-lità: «La manovra più logica, rapida e sicura per portarsisulla verticale del campo (con prua sud) alla posizione disottovento per pista 25 sinistra è una virata a destra ini-ziata al più presto. Se si fosse manifestato un qualcheevento anomalo dopo l’inizio di tale virata la traiettoriadel volo sarebbe stata da concludersi nei quadranti set-tentrionali rispetto all’aeroporto»; il Dc 8, insomma,

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avrebbe ripreso la traiettoria verso il mare. «Questo è va-lido anche nell’ipotesi di incapacità fisica o psichica deipiloti per effetto di gas tossici o per improvviso malesse-re. Resterebbe, quindi, da ammettere l’evento anomalomanifestatosi nei pochi secondi intercorsi tra la fine del-l’ultima comunicazione e la stabilizzazione dell’aeromobi-le nella virata a destra. Tempo tanto ristretto da permet-tere ragionevolmente di scartare una tale ipotesi». Laconclusione è secca e frettolosa: «Fatte queste conside-razioni, rimane l’ipotesi che il fatto sia da ascrivere ad av-venimenti che vengono trattati sotto l’aspetto del fattoreumano nei riguardi dei componenti l’equipaggio di con-dotta».Tra i primi ad esprimere dubbi sul corso dell’indagine èl’associazione dei piloti. All’indomani del deposito delrapporto Lino, l’Anpac mette per iscritto alcune osserva-zioni, a partire dalla velocità con cui la commissione d’in-chiesta era arrivata alle conclusioni: «Un tempo del tuttoinadeguato, indicativo di una inammissibile fretta». I pi-loti facevano notare alcune incongruità contenute inquelle pagine. I tecnici guidati da Lino scrivevano, infat-ti, che «l’aeromobile e le sue parti risultano completa-mente distrutti». E subito dopo: «Non sono emersi ele-menti di dubbio sull’efficienza dell’aereo e delle sue par-ti prima dell’impatto».E poi: «L’equipaggio era in buone condizioni fisiche», men-tre poche pagine prima si legge che «erano affievoliti i nor-mali processi della sfera intellettiva del comandante».Nell’inchiesta Lino, dice l’Anpac, manca ogni indicazionedi importanti impianti e relativi strumenti riguardanti lapressurizzazione, l’apparato antincendio, gli altimetri ba-rometrici, le indicazioni sui motori, il condizionamento, i

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generatori elettrici. E dato il tipo di incidente, un’impor-tanza particolare assumono le regolazioni delle luci deglistrumenti, la regolazione delle luci in cabina, la posizionedelle poltrone di guida e del tecnico di volo. «Ma di tuttoquesto», scrive l’Anpac, «la commissione non ha fattocenno. Nulla è stato detto sul ritrovamento e sulla loca-lizzazione dei corpi; sul ritrovamento eventuale di carti-ne di procedura, di manuali, di documenti di bordo, delpiano di carico e di centraggio. Non sono stati citati ritro-vamenti di orologi e la mancanza di dati certi mette in di-scussione tutti i rilevamenti di tempi successivi alle22.10».E ancora: «Non si è tenuto conto delle osservazioni delcontrollore di servizio [Terrano, nda] che parla di suoitentativi di contatto radio che non compaiono sulle regi-strazioni. C’è da notare, infine, che se il pilota non segna-la eventuali avarie a bordo, non si può escludere che leavarie in realtà ci siano». Per ultimo, la commissione Li-no, che pure addebita ai piloti la responsabilità della scia-gura, «è convinta, oltre ogni ragionevole dubbio, chel’equipaggio non sia incorso nell’errore di identificazionedell’aeroporto». Che è invece quanto stabilirà il processodieci anni dopo.Tra le numerose osservazioni dell’Anpac alla relazione Li-no, c’è un addebito non secondario: la commissione nonha preso in considerazione «l’ipotesi di eventuali azionidelittuose che avrebbero potuto verificarsi nel brevetempo dopo l’ultima comunicazione», liquidandole come«improbabili».A cadaveri ancora caldi, la commissione Lino aveva in-chiodato i piloti. Ecco alcuni passaggi: «L’osservanza daparte di entrambi dei compiti previsti per ciascuno di es-

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si dal manuale d’impiego, avrebbe potuto contribuire aevitare tale manovra». Bartoli viene accusato di «man-canza di supervisione: non è intervenuto per correggerela manovra, quasi fosse stato mentalmente assente inquell’ultimo minuto». Ma nelle conclusioni la commissio-ne evidenzia che comunque l’equipaggio ha senz’altroidentificato l’aeroporto. Dunque? I fattori determinantidell’incidente sono i seguenti, dice il generale Lino: «Lamancata osservanza del circuito di traffico aeroportualee dei compiti previsti dal manuale». E, quali fattori con-correnti, «quel particolare stato di distrazione ricorrentedel comandante Bartoli evidenziatosi in quella giornata,e la insufficiente osservazione all’esterno».Dini, considerato dalla commissione «un elemento ido-neo alle mansioni di co-pilota», è il destinatario di «alcu-ni giudizi globali», si esprimono così i commissari, «chehanno messo in luce qualche lacuna tecnica e talune im-precisioni, nonché certe riserve sul suo temperamento esulla sua mentalità. Ben preparato e sicuro di sé, in real-tà era poco riflessivo, sicché a volte prendeva decisionipoco ortodosse, forse per presunzione o per leggerezza.Non aveva attitudini al comando e mostrava di ritenereche le iniziative da lui prese nell’espletamento dei suoicompiti fossero sempre vagliate dal comandante». E an-cora: «Dini poteva essere un buon collaboratore, se co-stantemente controllato, ma di non completo affidamen-to qualora lasciato libero di prendere iniziative». Chi ab-bia fornito tutte queste indicazioni alla commissione Li-no, non è dato saperlo.E torniamo a Bartoli: «È sempre stato giudicato di buonecapacità, talvolta anche superiori alla media, sia come pi-lota che come comandante». Ma ecco che anche per Bar-

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toli si riportano «alcuni giudizi globali» – quali saranno?– nei quali si attesta che «aveva raggiunto un limite chenon sarebbe stato suscettibile di ulteriore miglioramen-to, soprattutto a causa della non eccessiva meticolositànell’espletamento delle sue funzioni». La sua gestione dicomando «è stata giudicata più volte troppo fiduciosa neiconfronti dell’equipaggio e in particolare del co-pilota,tale da farlo apparire ai co-piloti stessi molto liberale».La commissione scava nella carriera di Bartoli e scopreuna mancata collisione con un Fokker 27 dell’Ati, quan-do il comandante, durante due settimane di ferie, avevapilotato da Milano a Roma a Lusaka e da Roma a Brindi-si un Siai 208 di una compagnia diversa dall’Alitalia. Poi,sempre secondo la commissione, in volo il pilota non fa-ceva uso di lenti, come avrebbe dovuto dal ’70 e in ognicaso «non ne aveva due paia come prescritto dalle nor-me Oaci9». Al comandante erano stati riscontrati cinquedecimi di miopia per occhio e 2.25 decimi di ipermetro-pia e astigmatismo.Il profilo di Bartoli è uno dei capitoli più approfonditi dal-la commissione, che in quindici giorni ha dovuto esami-nare tutti gli aspetti della sciagura, valutare le condizionidell’aeroporto e, non dimentichiamolo, dattiloscrivere ilrapporto. L’analisi psico-comportamentale sul coman-dante si chiude con la ricostruzione del suo volo prece-dente, il Catania-Roma di quello stesso pomeriggio: «Hacommesso molte imprecisioni sia nella forma che nelcontenuto dei messaggi. Imprecisioni indicative di pocaconcentrazione, come se si fossero affievoliti, per motiviimprecisabili, i normali processi della sfera intellettiva».

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9. Organizzazione dell’aviazione civile internazionale, che ha sede in Canada. L’acronimo inglese è Icao.

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Della commissione, oltre a Lino, fanno parte tecnici, in-gegneri e un medico militare. I tratti psicologici e carat-teriali dei due piloti sembrano tagliati con l’accetta. Ilrappresentante dell’Anpac, il comandante GuglielmoFerretti, avversa le conclusioni, ma l’esito rimase lo stes-so. La relazione esclude l’ipotesi di «eventi esterni» o diguasti meccanici come causa dell’incidente. Gli unici re-sponsabili sono i piloti. Va sottolineato che l’inchiesta siconclude senza che nessuno abbia mai pensato di esegui-re un’indagine balistica sui corpi o sulle parti dell’aereo,analisi che sarebbero servite a verificare l’eventuale pre-senza di esplosivo.Subito dopo l’incidente, viene anche insinuato che Barto-li e Dini fossero ubriachi, tanto che i parenti delle vittimechiedono e ottengono che sui due piloti venga eseguital’autopsia, affidata all’équipe guidata dal professor IdealeDel Carpio, che comprende Marco Stassi, Paolo Procac-cianti, Iginio Maggiordomo e Paolo Giaccone. Quest’ulti-mo, a cui è intitolato il Policlinico di Palermo, sarà ucci-so dalla mafia l’11 agosto 1981 per essersi rifiutato dicambiare il referto di un’impronta digitale lasciata da unkiller durante un conflitto a fuoco costato quattro morti.I medici legali, che compiono anche un’analisi tossicolo-gica, escludono la presenza di alcool e di droghe nel san-gue. «Dai miei ricordi», dice Paolo Procaccianti, «i cada-veri erano molto traumatizzati, ma non presentavanoustioni compatibili con un’esplosione a bordo. A queltempo, però, mi occupai degli esami tossicologici e nonpartecipai alle ispezioni cadaveriche, che fecero altri col-leghi di indubbio valore». Alla domanda se oggi sia anco-ra possibile, riesumando un cadavere, trovare eventualitracce di esplosivo, Procaccianti spiega che, se i resti so-

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no ben conservati, anche dopo quarant’anni è possibile.Tutto dipende dallo stato della pelle, ci sono corpi che sicorificano, e su questi si possono compiere analisi atten-dibili.Quanto agli esami tossicologici sui piloti, il risultato die-de esito negativo. Eppure, il 7 settembre 2009, duranteuna nostra visita nei luoghi del disastro, una coppia dianziani incontrata lungo il percorso, a Piano Margi, ricor-dando la notte della sciagura dice, senza alcuna esitazio-ne, che il pilota era ubriaco: «Gli piaceva bere», aggiun-ge l’uomo in tono confidenziale. Erano passati trentaset-te anni, ma le leggende non hanno scadenza.La sciagura è talmente poco spiegabile che la sentenzaconclude così: «Ogni congettura è confinata nel campodelle ipotesi, ognuna teoricamente possibile, nessuna pe-rò dimostrabile con certezza». E ancora: «Gli errori gra-vissimi dei piloti sono in contrasto con le doti di profes-sionalità degli stessi e con la conoscenza della zona mon-tuosa da parte di Bartoli […]. La condotta di volo dei pi-loti, qualunque sia la spiegazione ad essa data, si imponequale causa unica ed esclusiva nella produzione del-l’evento».

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CAPITOLO V

IL POLIZIOTTO LA CHIAMA STRAGE

Quelle su Dini e Bartoli sono le uniche autopsie autoriz-zate dai magistrati. Intanto, tutti i cadaveri vengono len-tamente recuperati, portati nell’obitorio dell’istituto dimedicina legale del Policlinico di Palermo, dove i paren-ti iniziano il pietoso compito del riconoscimento. Un cor-po, quello del regista Franco Indovina (noto alle crona-che dei rotocalchi per la sua storia d’amore con la princi-pessa Soraya, l’ex moglie dello scià di Persia, Reza Pahle-vi), sarà trovato a brandelli. Indovina aveva cominciatocome aiuto regista di Michelangelo Antonioni e nel ’64aveva firmato un episodio, Latin lover, del film I tre vol-

ti, dove Soraya recitava con Alberto Sordi. Aveva un fra-tello pilota d’aerei, il quale faceva parte dell’equipaggioche, all’indomani del referendum che diede all’Italia lasua attuale forma repubblicana, accompagnò nell’esilio diCascais l’ultimo re Umberto II.Tra la folla dei parenti davanti alla camera mortuaria delPoliclinico di Palermo, c’è anche un uomo in manette,guardato a vista dai carabinieri. Si chiama Giusto Scia-rabba, finito nel carcere dell’Ucciardone nella retata cheha portato in galera gli esponenti della cosiddetta “nuo-va mafia”. Cerca la sua donna, Renate Heichlinger, tede-sca di Amburgo, 36 anni, che il 10 maggio avrebbe dovu-to sposare in carcere.Le bare sono contrassegnate da un numero e da una let-tera. Sulla 12 T è scritto: «Sesso femminile; effetti perso-nali: una fede, una cintura, una fascia elastica di lana; al-

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l’interno della fede inciso: Concettina e Lillo, 16-6-1937».Mentre davanti al Policlinico c’è un via vai di parenti, cu-riosi e giornalisti, il funzionario dell’Alitalia OttavianoCanzini sente l’urgenza di comunicare alla stampa che lasua azienda provvederà a tutto, e – rivolgendosi al gior-nalista del “Corriere della sera” Matteo Collura, futurobiografo di Leonardo Sciascia – dice: «Scriva, la prego,che paghiamo tutto noi ai parenti delle vittime: il viaggio,le casse, i funerali, ogni cosa». Ma gli esborsi dell’Alitalianon erano poi così generosi: centomila lire per ogni vali-gia, cinque milioni per passeggero, 400 milioni per i set-te membri dell’equipaggio; a fronte di un risarcimento as-sicurativo a favore della compagnia di 2 miliardi e 600milioni.Le vittime sono a piedi scalzi. Togliere le scarpe è unadelle procedure previste negli atterraggi di emergenza,per evitare che i passeggeri possano sfondare gli scivoligonfiabili o ferirsi durante le operazioni di evacuazione.Resta difficile stabilire se le calzature siano state volon-tariamente tolte o strappate via dall’urto. Oggi sorgespontanea una domanda: qualcuno verificò se le stringhefossero slacciate? Quesito banale, anche questo senza ri-sposta.Quando viene ritrovata la salma del giovane Vyckpaleck,il ragazzo stringe ancora nel pugno un crocifisso. A ricor-dare questo particolare è il farmacista Governanti. C’è unaltro dettaglio a cui è difficile attribuire un preciso signi-ficato: nella tasca della giacca di una delle vittime fu tro-vato un biglietto scritto a mano, senza un destinatario; visi leggeva: «Non doveva finire così».Ma se ci fosse stato un problema a bordo, perché il co-mandante non l’ha comunicato alla torre di controllo?

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Quei circa due minuti di black out nei collegamenti radiorestano l’elemento più inspiegabile della vicenda. Bartolinon solo blocca ogni comunicazione con la torre di con-trollo, ma chiamato da quest’ultima non accenna alcunarisposta. È accaduto qualcosa che ha mandato in tilt lecomunicazioni radio? Quei due minuti di silenzio hannoforse inghiottito la verità sulla sciagura. Le ipotesi sulblocco del collegamento radio possono essere infinite;ma quella che sembra la più banale, un cono d’ombra cheha impedito la comunicazione, si rivela come un’altra del-le infinite coincidenze sfortunate capitate quella sera, unpo’ troppe. Nei cinque voli compiuti per simulare quellofatale della sera del 5 maggio non risulta alcuna difficol-tà di comunicazione radio fra la torre di controllo e l’ae-reo nel tratto che precede il luogo dell’impatto, pur aven-do i tecnici percorso tutte le possibili traiettorie cheavrebbe potuto compiere l’AZ 112.Cos’è accaduto in cabina in quei due minuti? Se i pilotinon avessero avuto alcuna percezione del pericolo immi-nente e avessero volato in condizioni di “normalità”, nonsarebbe stato altrettanto normale rispondere alle insi-stenti chiamate della torre di controllo?Di eventi esterni, quelli prontamente esclusi dalla com-missione Lino, parlarono due giorni dopo l’agenzia distampa “Reuters” e alcuni giornali inglesi come il “Sun-day Express” e il “Sunday Telegraph”, che citavano fontidi polizia. Si disse che la mafia aveva tutto l’interesse aprovocare il disastro, perché tra i 115 passeggeri di quelvolo c’erano due uomini che le avrebbero procurato dan-ni: il comandante della Guardia di finanza di Palermo,Antonio Fontanelli, e il magistrato Ignazio Alcamo. Que-st’ultimo, che faceva parte della sezione per le misure di

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prevenzione, aveva proposto il soggiorno obbligato per ilcostruttore Francesco Vassallo e per Ninetta Bagarella,compagna dell’allora latitante Totò Riina, l’uomo che sa-rebbe diventato il capo incontrastato della mafia e cheaveva fatto perdere le proprie tracce nel marzo ’70. Vas-sallo, meno noto ai più, ex carrettiere diventato costrut-tore, fu uno degli artefici del sacco edilizio di Palermo,quando la politica cittadina era in mano ai democristianiSalvo Lima e Giovanni Gioia. Per la troika più disinvoltadella politica e degli affari palermitani fu coniato l’acroni-mo Valigio, con le iniziali dei loro cognomi. Quanto alla ri-chiesta di confino per la Bagarella, inutile dire che la ma-fia non la prese bene, soprattutto il giovane fratello di Ni-netta, Leoluca, che ebbe modo di mostrare, nello stileche si addiceva a un boss in erba, tutto il risentimentoche provava nei confronti di Alcamo, il quale ricevetteminacce telefoniche da Bagarella, poi arrestato nel ’95. Ilprovvedimento del magistrato nei confronti della donnadi un mafioso – Riina l’avrebbe sposata in segreto nelmaggio ’73, in una cerimonia clandestina e soltanto reli-giosa officiata da padre Agostino Coppola, il confessoredi Cosa nostra, amico e complice di Luciano Liggio, fini-to in galera un anno dopo aver officiato quelle nozze –non aveva precedenti in Sicilia, dove per parecchi anniancora la non esistenza della mafia sarebbe stata dataper definizione.Tra i passeggeri di quel volo c’è anche un uomo che co-nosce qualche segreto della Prima Repubblica. Si chiamaLetterio Maggiore. Era stato il medico di Salvatore Giu-liano e aveva contribuito all’arresto di Gaspare Pisciotta,il luogotenente del bandito di Montelepre, la cui bandaaveva compiuto la strage di Portella della Ginestra, nel

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’47, sparando sulla folla radunata nel pianoro per festeg-giare il Primo maggio, uccidendo undici persone e feren-done ventisette.Il dottor Maggiore è un personaggio defilato, che ama vi-vere nell’ombra. Le notizie che lo riguardano sono spora-diche. Si sa che è stato medico condotto a Monteleprenegli anni in cui vi scorrazzava la banda Giuliano. Nato aUstica, da una donna slava confinata nell’isola durante ilVentennio, con molta probabilità ha avuto una parte diprimo piano nella cattura di Gaspare Pisciotta, portata atermine dal dirigente della squadra mobile di PalermoMichele Gambino insieme all’allora prefetto del capoluo-go siciliano, Angelo Vicari, nominato successivamentecapo della Polizia.Maggiore e Vicari avevano avuto una serie di incontri lon-tano da occhi indiscreti, in una villa nell’isola di Ustica.Forse era uno dei pochi a conoscere la vera storia diquella che è considerata la prima strage di Stato, a cui se-guirono una serie di altri misteri, come l’uccisione di Giu-liano, avvenuta il 5 luglio 1950 a Castelvetrano, nella piùpasticciata messa in scena prodotta nel Paese del melo-dramma; e come la stessa cattura di Pisciotta, avvelena-to in carcere il 9 febbraio 1954.Prima della strage di Portella della Ginestra, Maggioreandò negli Stati Uniti. Le sue vicende sono ben racconta-te nel libro di Angelo La Bella e Rosa Mecarolo, Portella

della Ginestra, la strage che ha cambiato la storia

d’Italia10. Tra i documenti trovati nella cella di Pisciottac’è una lettera di Maggiore, datata 14 ottobre 1953; pro-viene dall’America ed è destinata a Pisciotta attraverso

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10. Edito da Teti, Milano, 2003.

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Giuseppe Barone, studente di medicina di Montelepre,un giovane di 27 anni che dirà di aver conosciuto il dot-tore durante il periodo in cui esercitava nel suo paese. Il19 marzo 1954, poco più di un mese dopo la morte di Pi-sciotta, Barone viene interrogato. Lo stesso giorno ven-gono perquisite le sue due case, a Montelepre e a Paler-mo.Lo studente aveva fatto recapitare a Pisciotta la lettera diMaggiore trovata in carcere. In quella missiva viene con-sigliato al detenuto di attenersi alla versione “concorda-ta”. Grazie ai buoni uffici di qualche secondino, il medicoaveva più volte fatto visita al vice di Giuliano durante ilsuo periodo di detenzione e aveva capito, o gli era statodetto, che Pisciotta aveva intenzione di ritrattare le di-chiarazioni rese al processo di Viterbo sui mandanti del-la strage di Portella, dove aveva pronunciato la frase si-billina «siamo il padre, il figlio e lo spirito santo», chefuor di metafora significava che tra banditi, magistraturae forze dell’ordine esisteva una sorta di patto.Del resto, alcuni passaggi sono ormai consegnati alla sto-ria, come la lettera di Giuliano trovata in tasca a un uo-mo della banda che avrebbe dovuto imbucarla e indiriz-zata al procuratore generale di Palermo, nella quale ilsuo autore ringraziava il magistrato per averlo ricevuto.Pisciotta pensa a un nuovo memoriale, ma il medico cer-ca di convincerlo ad attenersi alla versione nota e lo invi-ta a ricusare il collegio difensivo, costituito dagli avvoca-ti De Lisi e Crisafulli. Pisciotta farà a meno del primo, materrà il secondo. Maggiore gli aveva consigliato un nome,Aldo Berna, del Foro di Palermo, rampollo di una dina-stia di avvocati dello studio Berna-Filangeri. Franco Ber-na fu anche l’avvocato di Luciano Liggio.

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Nel ’77 Crisafulli rende nota una lettera che Pisciotta gliaveva inviato il 15 giugno 1953: «Carissimo avvocato, og-gi inaspettatamente spunta fuori un fungo, non so se ve-lenoso o buono. La cosa è molto delicata. La prego di la-sciare ogni cosa e di precipitarsi a Palermo». Crisafullinon andò. Ventiquattro anni dopo, l’avvocato commentòcosì quell’episodio: «Nei mesi successivi alla lettera delfungo, Pisciotta deve aver creduto alle promesse di liber-tà, di fuga o di espatrio. Oggi sappiamo che dietro quellepromesse si nascondeva la tagliola del 9 febbraio», il gior-no in cui qualcuno avvelenò il suo caffè.Il fratello di Pisciotta, Pietro, guidava una squadra di net-turbini a Palermo, nella zona fra il teatro Massimo e viaMaqueda. Chi l’ha conosciuto ricorda che aveva un atteg-giamento da capo e che faceva valere le sue mansioni. In-terrogato dal sostituto procuratore, spiegò che Maggioreaveva detto anche a lui che Gaspare avrebbe fatto meglioa cambiare difensore, suggerendogli il nome di Berna esottolineando che era il caso di fare in fretta, altrimentisarebbe stato troppo tardi. Il magistrato che interrogòPietro Pisciotta è Pietro Scaglione, ucciso il 5 maggio1971 a Palermo, esattamente un anno prima della sciagu-ra aerea. Da lì a qualche settimana, Scaglione si sarebbedovuto trasferire in Puglia.Letterio Maggiore morirà a Montagna Longa, luogo che inlinea d’aria dista qualche chilometro da Montelepre. Lasua morte lascia intatti i misteri della strage del ’47 e del-l’avvelenamento di Pisciotta.In una lettera sequestrata a casa di Barone, il medicoscrive da Brooklyn – quartier generale degli immigrati ar-rivati da Montelepre, dove risiede al civico 1841 dellaSettantatreesima Strada – e parla così della morte di Pi-

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sciotta: «Credo che qualcuno interessato abbia conosciu-to i propositi di Gaspare e lo ha fatto liquidare. Noi duepossiamo guardare con la fronte alta. Non siamo gente diqueste cose». Tornato dagli Stati Uniti, nessuno lo inter-rogò. Scaglione si era limitato a sentire Pietro Pisciotta,la madre Rosalia Lombardo e Giuseppe Barone.

Sulla sciagura di Montagna Longa la tesi dell’attentatonon entrò mai tra le ipotesi di indagine giudiziaria, nean-che quando il vicequestore di Trapani, Giuseppe Peri,nell’agosto del 1977 inviò a sette procure un rapporto in-vestigativo che, partendo da quattro sequestri di perso-na e altrettanti omicidi di magistrati, tra cui Scaglione,disegnò un quadro che metteva insieme eversione nera emafia. Quell’informativa faceva rientrare la sciagura diMontagna Longa nella categoria delle stragi. Nel rappor-to, di cui parleremo ampiamente più avanti, vengono de-nunciate trentuno persone. Inutile dire che Peri fu tra-sferito dal suo ufficio, grazie al “contributo” – non sapre-mo mai se esplicito o no – del questore del tempo VanniAiello, del suo collega Giuseppe Varchi, il cui nome fu poitrovato tra gli iscritti alla loggia massonica P2 di LicioGelli (tessera 908), e di un magistrato della procura diMarsala, Salvatore Cassata, anche lui piduista (tessera903). Del rapporto Peri si sarebbe persa la memoria se la tena-ce Maria Eleonora Fais, sorella di Angela, giornalista de“L’Ora” e di “Paese Sera”, una delle vittime della sciagu-ra, non avesse provato in tutti i modi a rintracciarlo. Atrovare quelle 33 pagine dattiloscritte fu, alla fine del ’91,il magistrato Paolo Borsellino, allora procuratore di Mar-sala, il quale non fece in tempo (sarebbe stato ucciso nel-

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la strage di via D’Amelio, a Palermo, il 19 luglio 1992) adapprofondirne i contenuti e a consegnarlo alla Fais, chene ebbe una copia soltanto nel ’97 dall’allora capo dellaprocura di Marsala, Antonio Silvio Sciuto. Nel marzo2001 l’Istituto Gramsci siciliano lo pubblicò a propriespese.Quando Peri spedì il suo rapporto a otto procure, a Cata-nia era ancora in corso il processo di primo grado sullasciagura di Montagna Longa, finito nel tribunale etneogià nell’agosto ’72, per decisione della Cassazione: a Pa-lermo, infatti, dove le indagini erano condotte dall’alloraprocuratore Giovanni Pizzillo (inizialmente con lui lavo-rarono parecchi pm: Rizzo, Signorino, Aliquò, Virga,Agnello, Terranova), il processo non si sarebbe potutosvolgere perché tra le vittime c’era un magistrato di queldistretto, Ignazio Alcamo, appunto.

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CAPITOLO VI

IL FARO POGGIATO DOVE CAPITA

Esclusa la pista dell’attentato o del sabotaggio, rimaseroin piedi i filoni indirizzati ad appurare la funzionalità de-gli apparati radioelettrici di Punta Raisi: l’Ndb, il Vor, ilfaro di avvicinamento a luce verde (non funzionante dal7 dicembre 1971), il faro di aerodromo (guasto dal 7 set-tembre 1971), un altro apparecchio luminoso che emet-te una luce bianca e verde. Grande spazio fu dedicato al-la traiettoria del Dc 8, ma inspiegabilmente passò in se-condo piano l’altra dimensione, quella per cui un aereo èdiverso da una nave, da un treno, da un’automobile: laquota. Nessuna perizia fu fatta sugli altimetri, anche so-lo per capire se fossero funzionanti.L’inchiesta si muove partendo da un assunto: l’errore deipiloti. Gli altri attori del disastro entrano come eventualicorresponsabili. Diciamo subito che alcuni saranno pro-sciolti nel corso dell’istruttoria e quelli rinviati a giudizioverranno assolti.Prima del gennaio ’72, a Punta Raisi c’era un radiofaro, ilPal, sintonizzato sulla frequenza 355.5 Kc/s, posizionatoun chilometro e mezzo più a est rispetto a un altro stru-mento, il Prs, sulla frequenza 329, attivo la sera dell’inci-dente, ma di cui i piloti del Dc 8 non si sarebbero avval-si. Il 26 gennaio 1972, il Pal era stato trasferito su MonteGradara, a dieci miglia dall’aeroporto, verso sud.Bartoli, che non aveva mai volato con Dini, aveva effet-tuato l’ultimo viaggio per Palermo il 13 aprile 1972 (sem-pre con un Dc 8 e sempre alla stessa ora) assistito dal

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collega Guido Klug. In quella data il registratore di volo,passato al setaccio dagli inquirenti, aveva evidenziatouna manovra perfetta.Lo spostamento del Pal, dice l’inchiesta, non era stato re-cepito a dovere da tutti i piloti. Il Prs, inoltre, nella suanuova collocazione subiva interferenze di altri radiofari.Tredici piloti, ascoltati dai magistrati, avevano riferitoquesto inconveniente. Uno di loro, Omero Pattaro, atter-rato a Punta Raisi la notte del 4 maggio 1972, alla vigiliadell’incidente, aveva spiegato che in quella occasionenon era riuscito a sintonizzarsi sul Prs e quando l’avevafatto lo strumento gli indicava, in certi momenti, una ver-ticale fittizia di Punta Raisi. Sull’episodio, il pilota avevainoltrato un rapporto all’Itav, l’ispettorato delle teleco-municazioni per l’assistenza al volo.Le condizioni degli apparati radioelettrici furono esami-nate dai tre periti d’ufficio del tribunale di Catania, il co-mandante dell’Alitalia Francesco Barchitta e i professoridell’Università di Roma Antonino La Rosa e Renato Van-nutelli che depositarono due distinte relazioni il 5 otto-bre 1976 e il 3 febbraio 1981. La prima perizia, che duròsedici mesi, gettò nello sconforto i familiari delle vittime:i tecnici individuavano come unici responsabili della scia-gura i piloti, imputando loro una manovra sbagliata, sca-gionando i funzionari dell’aviazione civile, il direttore del-l’aeroporto e i militari che avevano il compito di gestirele strumentazioni aeroportuali. Il pm Aldo Grassi accusòil colpo e spiegò che quella perizia non avrebbe certo ar-chiviato il procedimento penale. Un processo, in effetti, si svolse. I dieci anni trascorsi pri-ma di arrivare a una sentenza si spiegano non soltantocon la lentezza della giustizia italiana, ma anche con le

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interminabili disquisizioni su argomenti risultati poi mar-ginali, ma che costituirono il perno del processo, tutto in-centrato su tre imputati, responsabili del mancato fun-zionamento del faro di aerodromo. Giovanni Carignano,direttore dell’aeroporto, Arcangelo Paoletti, capo del se-condo servizio aeroporti della direzione generale del-l’aviazione civile, e Luigi Sodini, alla guida del ventidue-simo ufficio della stessa direzione, furono processati acausa dell’unica accusa rimasta in piedi: il non funziona-mento degli apparati luminosi. Gli altri indiziati di con-corso nel disastro e di omicidio colposo, gli ufficiali del-l’Itav, Sebastiano Freri e Giuseppe Canipari, responsabilidel settore da cui dipendevano l’installazione e il funzio-namento dei radiofari, furono prosciolti perché si accer-tò che i piloti quella sera non si erano serviti dell’Ndb diPunta Raisi, considerato mal funzionante e poco affidabi-le. Fuori dal processo rimase anche il sergente maggioreTerrano, inizialmente accusato di non aver comunicato aipiloti che erano su una traiettoria sbagliata.Il faro d’aerodromo fu il protagonista del processo. Puòun aereo cadere se una luce di segnalazione non funzio-na? I piloti definirono il faro «di ausilio», di «grande ausi-lio», «di ausilio determinante». Ma sembra che servisse amolto poco. Secondo i periti che stilarono la relazione nel’76, la luce del faro serviva, tutt’al più, a identificare l’ae-roporto per il «navigante lontano»; man mano che l’aereosi avvicinava, la luce del faro veniva sovrastata da quelladello scalo. Ma subito dopo aggiungevano che «nel casovi fosse stato errore nell’individuazione dell’aeroporto, lamancanza del faro avrebbe potuto avere contribuito anon correggere tale errore».I periti – e sarà un atteggiamento ricorrente in tutta que-

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sta vicenda – alternano certezze a cautele. Poco dopo, glistessi tecnici, infatti, sottolineano che in assenza del faroerano atterrati a Punta Raisi oltre mille aerei e nessunequipaggio si era mai lamentato: nel brogliaccio dei re-clami era stato segnalato di tutto, ma nessuno aveva maiavuto qualcosa da ridire sul non funzionamento dellostrumento luminoso. La conclusione è che «la mancanzadel faro non sembra poter determinare pericolosi inter-valli nell’assistenza ai piloti». Ma più avanti i tecnici ag-giungono che la mancanza del faro, associata al fattocontingente che anche il radiofaro in quel periodo fun-zionava imperfettamente, «dava presumibilmente luogoa qualche difficoltà nell’individuazione dell’aeroporto».Non è finita: Arcangelo Paoletti, uno degli imputati, ave-va tirato fuori un verbale del Comitato di sicurezza ope-rativa dell’aeroporto, datato 16 settembre 1975, nel qua-le l’organismo faceva suo un parere dell’Anpac sull’inuti-lità del faro di aerodromo nelle fasi di avvicinamento e at-terraggio. Sulla questione, i giudici scrivono nella senten-za: «Devonsi ridimensionare le enfatiche dichiarazionidei piloti, che in vari atti del processo definiscono il farodi aerodromo costituente “ausilio”, “grande ausilio”, “au-silio determinante” e che, pur tuttavia, nel periodo diinefficienza del faro non si avvalsero mai del brogliacciodei reclami». Insomma, il faro d’aerodromo, da un latoserviva, dall’altro non serviva. Nel Paese delle mancateverità, allora e ora trionfano le opinioni.Gli inglesi, invece, avevano le idee chiare sulla pericolo-sità dello scalo e ritenevano Punta Raisi uno dei tre piùpericolosi aeroporti dell’area del Mediterraneo, insiemead Alghero in Sardegna e a Girona in Spagna. Nel luglio’70, la Balpa, l’associazione dei piloti britannici, aveva da-

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to l’allarme in un documento diffuso dalla stampa nelquale si affermava che, a causa di una radioassistenzanon adeguata, Punta Raisi «dovrebbe essere bandito atutte le operazioni notturne».L’aeroporto anticipò il nuovo stile urbanistico della città,ispirato all’estemporaneità. Sette mesi prima dell’inci-dente del ’72 e due mesi dopo la sciagura, il faro delloscalo, per dirne una, rimase spento, fino a quando il di-rettore dell’aeroporto, sollecitato a provvedere al suofunzionamento, lo piazzò a terra, prendendosi persinoqualche complimento per la brillante idea, definita nellasentenza dei giudici «un rimedio all’italiana». La dittache avrebbe dovuto realizzare il traliccio su cui posizio-nare il faro, si limitò a vincere l’appalto, ma non ad ese-guire l’opera. La Regione, responsabile per le infrastrut-ture aeroportuali, aveva suggerito di piazzarlo sul tetto diun edificio in costruzione. È interessante quanto ha riferito ai magistrati GiovanniCarignano, direttore dell’aeroporto: «Effettivamente, indata 26 giugno ’72, io presi autonomamente l’iniziativa,rientrando nell’ambito delle mie competenze, di installa-re provvisoriamente il faro di aerodromo in modo da ren-derlo funzionante. Preciso che presi tale iniziativa inquanto mi resi conto che, nonostante le reiterate solleci-tazioni telefoniche fatte all’ufficio regionale aeroporti,nonché alla ditta vincitrice della gara d’appalto, le opereper l’installazione del nuovo traliccio andavano per lelunghe, tanto che erano già trascorsi circa nove mesi dal-lo smantellamento dell’originario faro, mesi durante iquali l’aeroporto era rimasto privo del faro. A seguito ditale mia iniziativa, chiesi all’ufficio regionale aeroporti sefosse stato possibile, in mancanza del traliccio, ubicare

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provvisoriamente il faro in un qualsiasi sito della zona ae-roportuale. L’ufficio comunicava a me che il faro potevaessere provvisoriamente installato sul solaio di copertu-ra del locale adibito a nuovo centro trasmittente. Poichétale manufatto non era stato ancora collaudato, e poichéper posizionarvi sopra il faro di aerodromo occorreva pri-ma costruire una soletta in cemento per l’ancoraggio delmedesimo, ebbi perplessità sull’opportunità di ubicareprovvisoriamente colà il faro, ed allora, previe intese te-lefoniche con l’ingegner Salvi dell’ufficio aeroporti pres-so la direzione generale dell’Aviazione civile di Roma, de-cisi di posizionare provvisoriamente il faro a terra, su unasoletta di cemento armato appositamente costruita».Ai magistrati non resta che definire «umoristico» il fono-gramma che impone a Carignano di ripristinare il servizio.Un carteggio, dicono i giudici nella sentenza di primo gra-do, «che induce ad amare riflessioni sulle disfunzioni diuna burocrazia che non sa districarsi nel gioco delle com-petenze fra Stato e Regione, fra ufficio 22 e ufficio 23. Larisposta di Carignano è in sintonia con i tempi di cotantosfascio burocratico, e per il momento appaga tutti». Ma vediamo cosa pensano i piloti di questa soluzione. Ri-portiamo un lancio dell’agenzia “Air Press” del 9 gennaio1982: «Le affermazioni che vorrebbero che il faro di ae-rodromo serva all’identificazione dell’aeroporto sonoinattendibili, in quanto a identificare l’aerodromo servesemmai il faro di identificazione… L’affermazione che ilfaro luminoso di aerodromo potesse essere installato alsuolo, privo del suo traliccio, è quella che più d’ogni altrafa comprendere la mancata conoscenza tecnica di chi lapostula. Infatti, il faro di aerodromo deve essere installa-to in una posizione certa, ad una certa altezza dal suolo

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e con un’inclinazione del suo fascio luminoso in modoche esso stesso non possa costituire un ben più grave pe-ricolo, e cioè quello dell’abbagliamento notturno della vi-sione dei piloti impegnati nelle manovre d’avvicinamen-to, d’atterraggio, di decollo e di rullaggio sull’aeroportostesso e nelle sue immediate vicinanze». Era questo iltasso di competenza dei responsabili dell’aeroporto.Sembra incredibile che dieci anni di indagini abbianoruotato intorno a una lampadina spenta, per stabilire,alla fine, che nulla sarebbe cambiato se fosse stata ac-cesa.Quando lo scalo di Punta Raisi entrò in esercizio, c’eranodue piste. Tuttavia, per anni quella principale non potéessere utilizzata perché la torre di controllo, tirata su al-la meglio, era troppo bassa e non si riusciva a scorgerel’inizio della pista. Per montare il “cappello” della torrepassò un anno e intanto si bloccarono i lavori della terzapista, quella cosiddetta dello Scirocco, per costruire laquale occorreva chiudere l’unica in uso. Quando fu pron-ta la nuova torre, si innescò un contenzioso tra Stato eRegione su come procedere al collaudo. Superato questoscoglio, si scoprì che mancava l’impianto di illuminazioneai lati della pista dello Scirocco e quando fu realizzatovenne a galla un’altra magagna: non c’era il faro di segna-lazione su Monte Palmeto, a ridosso dell’aeroporto, man-canza che determinò l’utilizzo della pista soltanto di gior-no. Dopo l’ennesimo accomodamento, venne fuori unproblema ancor più grave: sotto il punto di impatto dellapista principale che per anni era rimasta chiusa – gli ae-rei atterravano su un raccordo secondario – c’era una vo-ragine che aveva portato al cedimento del manto. Il col-po d’occhio finale era l’edificio dell’aerostazione, una

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specie di cantiere in abbandono, dove non funzionavaquasi nulla, neanche la macchina del caffè, spesso sosti-tuita con la moka poggiata su una spiritiera, un fornelli-no alimentato ad alcool.

L’aereo di Bartoli e Dini, un gigante dei cieli, usato in ge-nere per le traversate transoceaniche e per i voli di me-dio raggio, solo da poco era impiegato per i voli di picco-lo raggio. È un veliero dell’aria, uno dei più sicuri mai uti-lizzati dall’aviazione civile e uno dei più longevi, costrui-to, nei vari modelli, in 556 esemplari. Ha quattro motoriRolls Royce e un record di cui fregiarsi: fu il primo mo-dello commerciale a superare la barriera del suono, rag-giungendo, il 21 agosto del 1961, la velocità record di1063 chilometri orari a 12.600 metri. In quella stessa oc-casione si portò alla quota di 15.875 metri, anch’essa re-cord per un velivolo commerciale.Il Dc 8 era un po’ l’orgoglio della nostra compagnia dibandiera che ne aveva acquistati dodici dalla società co-struttrice, la Douglas, ed era finito sul famoso “Gronchirosa”, il francobollo con l’effige dell’allora presidente del-la Repubblica per celebrare i collegamenti di linea tra ilnostro paese e l’America. La prima emissione di quelfrancobollo, che conteneva un errore successivamentecorretto, ha quotazioni altissime e si rivelò una fortunaper i pochi filatelici che ne vennero in possesso.Il Dc 8 che si è disintegrato su Montagna Longa era sta-to costruito nel ’61, modello 43, targato I-DIWB; portavail nome di Antonio Pigafetta, uno che navigava con Ma-gellano e che finì ammazzato dai turchi. Ma il giorno do-po la sciagura, fra le tante cose dette e altrettante taciu-te, si sostenne che quell’aereo non era adatto a voli di

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corto raggio e ad atterraggi in un aeroporto di periferiacome quello di Palermo, dove le poche strumentazionisorgevano tra le erbacce brucate da qualche pecora.L’aereo aveva le luci d’atterraggio accese, i flap11 eranosulla posizione 25 gradi, cioè quella prevista per l’atter-raggio. Ma i piloti, secondo i periti, non avevano visto leluci dell’aeroporto sulla destra, né i fari di pericolo suMonte Pecoraro attaccato allo scalo. E per questo ritene-vano che la pista fosse più a sud, traditi anche dalla nuo-va posizione del radiofaro.Bartoli, insomma, pensava di dirigersi su Punta Raisi,mentre andava verso Monte Gradara. Questo perché, è laspiegazione degli esperti, il pilota era ingannato dalle suevecchie esperienze e credeva che lo strumento di MonteGradara fosse quello di Punta Raisi, dismesso a gennaio.Ma se Bartoli aveva volato su Palermo solo tre settimaneprima, il 13 aprile, quando quel radiofaro era già stato spo-stato? All’obiezione i periti, e poi il tribunale, rispondonoche durante quel volo avrebbe potuto non accorgersi del-lo spostamento, dato che alle radio assistenze, in quellaprecedente occasione, era addetto il suo collega Klug.Bartoli avrebbe sommato a questa distrazione anche lamancata lettura del Notam12 su cui era stato già da unpezzo segnalato lo spostamento del radiofaro. A tali man-chevolezze, il collegio dei periti aggiunge il mancato usodelle lenti, dato per scontato anche in questa occasione.Ma c’è una testimonianza che aumenta le perplessità sul-l’ipotetica traiettoria che avrebbe portato l’aereo fino aMonte Gradara: è quella del comandante Atza che volan-

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11. I flap sono estensioni dell’ala che servono ad aumentare la portanza a basse velocità. Secondo i cal-coli, il Dc 8 Alitalia in quella fase volava a circa 180 miglia all’ora, ovvero circa 290 chilometri orari. 12. Notice to the airman, ovvero avviso ai naviganti.

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do sopra le nubi incorse nell’errore di identificazione del-l’aeroporto e lo oltrepassò. Ma fu in grado di correggerela traiettoria perché si accorse, dall’esame di uno stru-mento di bordo, di essere a circa metà strada tra il Vorcollocato sulla montagna e Punta Raisi. Dini e Bartoli, sedavvero hanno fatto quel percorso, non avrebbero attri-buito alcun valore – ennesimo, imperdonabile errore – al-le indicazione dello strumento di bordo, proseguendo co-me se niente fosse verso sud e a quota bassissima. PerAtza era stato facile rimediare, perché per Bartoli sareb-be dovuto esser così difficile?Le indicazioni della cartina fornita dall’Alitalia nel Route

manual e aggiornata al 29 gennaio 1972 prevedono unavvicinamento parzialmente manuale oppure completa-mente a contatto visivo. L’annuncio dato da Bartoli allatorre di controllo («lascia 5000 piedi e riporterà sotto-vento per la 25 sinistra») secondo i periti «fa inequivoca-bilmente ritenere che il pilota ha rinunciato all’avvicina-mento strumentale ed ha invece deciso per l’avvicina-mento a contatto visivo col suolo». Ma quale suolo avreb-be visto Bartoli?Alle infinite “distrazioni” del comandante si aggiungonole scarse attrezzature dell’aeroporto nelle radioassisten-ze, la mancanza di verifiche radar della posizione dell’ae-reo da parte della torre di controllo «e altri fattori umanie anomali non potuti accertare», dicono i giudici.A questo punto è utile soffermarci sugli strumenti tecnici,che hanno avuto un’importanza determinante per gli esitidel processo. Il ricevitore dei segnali radio dell’aereo sichiama Adf. Il Dc 8 ne aveva due. Uno era sintonizzato suuna frequenza compresa fra 350 e 359 Kc/s, l’altro fra 250e 259 Kc/s. I periti hanno così ritenuto che il ricevitore del-

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l’aereo fosse sintonizzato sul radiofaro situato su MonteGradara, che trasmette alla frequenza di 355.5 Kc/s, e chei piloti non si fossero avvalsi dell’altro strumento piazzatonell’aeroporto, il Prs, la cui frequenza è 329 Kc/s. Ma unperito di parte civile ha fatto notare che da Roma a Paler-mo non c’è un solo strumento che trasmette tra 250 e 259Kc/s e che, inoltre, è improbabile che uno dei due Adf nonsia mai stato utilizzato per l’intera tratta. E ipotizza che ilpotenziometro dell’Adf si trovasse su quella frequenzaperché i piloti avevano tentato in tutti i modi di connetter-si con il Prs e non riuscendoci avessero desistito, lascian-do la sintonizzazione in un punto qualunque.Proviamo a sintetizzare il ragionamento: ammesso chenella manovra di avvicinamento Bartoli e Dini avesseroscambiato il radiofaro di Punta Raisi con quello di MonteGradara, man mano che si avvicinavano all’aeroportoavrebbero dovuto accorgersi, guardando gli strumenti dibordo, che il riferimento era errato. Tutti sanno che l’ae-roporto di Palermo è sul mare: superata la linea di costa,infatti, ci si aspetta di trovare la pista. Se questo non ac-cade, qualcosa non va. E qualora non avessero visto l’ae-roporto perché distratti, il radar meteo a bordo dell’aereo(che ha anche una funzione di ground mapping, pro-prio quella su cui era attivato) avrebbe segnalato loro ilpassaggio dal mare alla terra. Invece vanno avanti sullastessa direttrice per quasi dieci miglia, senza guardarenulla, neanche l’altimetro.All’epoca del disastro, secondo i periti, Punta Raisi nonera equipaggiato «né per un completo avvicinamentostrumentale, né per alcun tipo di atterraggio strumentale,cosicché, prima di iniziare qualsiasi manovra, l’aeroportodoveva essere perfettamente individuato a vista».

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La sentenza della Cassazione, a pagina 23, è ancora piùesplicita sull’argomento: «Il pilota», si legge, «prima di ini-ziare la manovra d’atterraggio, avrebbe dovuto individua-re a vista la pista, per effettuare senza alcun ausilio stru-mentale l’inserimento nel circuito di traffico per la pista».La Cassazione dà atto ai giudici di merito di non essersidiscostati dagli accertamenti dei periti d’ufficio, che col-legano la mancata individuazione della pista a un erroredei piloti, che si comportano come se fossero sulla verti-cale di Punta Raisi, senza esserlo. Cosa avrebbero avvista-to? Come si può scambiare un luogo buio per una pista?Non si può ed è ancora la Cassazione a sottolinearlo:«L’esperimento di un volo notturno, in condizioni di oscu-

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Sopralluogo di investigatori e magistrati a Montagna Longa.

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rità analoghe a quelle esistenti la sera del 5 maggio, diedeesito negativo, nel senso che non erano state individuateluci nella zona, confondibili con quelle dell’aeroporto».La necessità dell’atterraggio a vista era dovuta al nonperfetto funzionamento dei due radiofari, che in alcunisettori del quadrante magnetico avevano coefficientid’inaffidabilità elevati: il Pal di circa 30 gradi, il Prs addi-rittura di 90 gradi. Tutto questo ai piloti veniva segnala-to sui Notam. Quando il Pal fu spostato, dicono sempre iperiti, le prove di funzionalità, «da parte di personale pernulla specializzato», durarono appena due giorni. Logicavuole che la scarsa affidabilità degli strumenti è un moti-vo in più per aumentare la concentrazione dei piloti.Quella di Monte Gradara, secondo l’errata convinzionedei piloti, doveva essere, per dirla in gergo aeronautico,“la virata base” (cioè l’ultima virata per posizionare l’ae-reo sul sentiero finale per l’atterraggio) che avrebbe con-dotto il mezzo “in finale”, cioè all’atterraggio. Bartoli eDini volavano a vista, scollegati dalla torre di controllo,senza comunicazioni radio. Sapevano che in quell’aero-porto i radiofari erano da ausilio alla vista e che occorre-va guardare fuori dal finestrino. E se le condizioni meteonon lo consentivano, bisognava lasciarsi guidare dallatorre di controllo. L’allora presidente dell’Anpac, Adal-berto Pellegrino, dirà ai magistrati che «a Punta Raisil’atterraggio doveva essere fatto a vista, con qualunquetipo d’aereo, per la mancanza a terra di apparecchiaturequali il Vor, l’Ils, il sistema di controllo radar».L’inchiesta disse che Bartoli e Dini non si erano serviti delPrs 329, e questo scagionò i responsabili dell’Itav che si sa-rebbero dovuti curare dell’efficienza di questo strumento,essendo venuto meno – secondo i giudici – il nesso di cau-

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salità tra il disastro e il cattivo funzionamento del Prs. Nonaverlo utilizzato, sembra più un atto di saggezza che unaleggerezza, se si pensa che il comandante Giacomo Man-cuso, riferendosi a tre voli da lui compiuti tra il 7 e il 9 feb-braio 1972, scrisse sul brogliaccio-reclami: «Il Prs 329 nondà affidamento. Il Pal 355 invece, può essere sintonizzatoa grande distanza ed è molto meno influenzato dalle con-dizioni meteo avverse». Poi aggiunse: «Esso è stato riposi-zionato in una località montagnosa e questo potrebbe in-durre qualche pilota non aggiornato e in particolari diffi-coltà ad effettuare la procedura sull’aeroporto senza tene-re conto delle nuove posizioni, con conseguenze inimma-ginabili». Sembrerebbe una profezia e invece, come moltihanno fatto notare, le difficoltà rappresentate dalla caoti-ca organizzazione degli strumenti, ben conosciuta dai pilo-ti – soprattutto da quelli come Bartoli che frequentavanoquelle piste da tempo – garantiva un supplemento d’atten-zione, tanto che Mancuso non si era fatto ingannare dai ca-pricciosi segnali delle frequenze.Ma se il radiofaro di avvicinamento Prs 329 funzionavamale, a causa della sua disposizione, perché fu installatoin quel punto? Ce lo spiega, anzi non se lo spiega, il te-nente colonnello dell’Aeronautica Alfio Lorenzini, ascol-tato dai pm di Catania il 18 luglio 1973: «Avevamo indi-cato una posizione completamente opposta. Constatocon meraviglia che non è stata tenuta in considerazione».Ma ritorniamo all’ipotesi dei periti: Dini e Bartoli passanosulla verticale (sbagliata) di Monte Gradara e iniziano lamanovra d’atterraggio virando a destra. Possibile che nean-che allora si accorgano che sotto di loro non c’erano né ilTirreno né le luci dell’aeroporto? Piuttosto che continuarela virata a destra per iniziare il circuito d’atterraggio, avreb-

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bero avuto la possibilità di dirigersi verso il mare, lungo unatraiettoria dove le cime delle colline sono ben più basse de-gli oltre 900 metri di Montagna Longa. Invece, iniziata la vi-rata non cambiano più traiettoria e vanno a schiantarsi.Il 7 maggio 1972, intervistato da “La Stampa”, il direttoredell’aeroporto Carignano dice: «La cosa sconcertante èche l’aereo non aveva nessun motivo per sorvolare la zonain cui è precipitato». A meno che non ci sia finito perchéera incontrollabile. Ecco il punto rimasto sempre oscuro.Su “Air Press” del 9 gennaio 1982, partendo dalla notainefficienza dei fari di aerodromo e di identificazione, unpilota commenta così l’ipotesi accreditata per l’incidente:«Sarebbe come se di notte un automobilista, debitamen-te preavvisato dell’esistenza di una porzione di stradafranata e segnalata solo con delle luci catarifrangenti,precipitasse in un burrone dopo aver voluto affrontare ilpur possibile passaggio sulla rimanente carreggiata,avendo intenzionalmente spento i fari della sua automo-bile». E spiega che la fase di volo a vista compiuta da Bar-toli si era resa necessaria proprio a causa del non funzio-namento delle apparecchiature aeroportuali. Ma fidarsidegli occhi presuppone che l’obiettivo sia visibile: «Tuttaquesta fase di volo a vista, liberamente prescelta, si svol-geva, per la nota inefficienza dei fari Abn e Ibn aeropor-tuali, a completa discrezionalità dei piloti». Insomma, sel’atterraggio doveva compiersi a vista, era ovvio che i pi-loti avessero individuato la pista.

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CAPITOLO VII

SE IL FATTO È UN’OPINIONE

Abbiamo visto che, prima dell’impatto, Bartoli comunicavia radio di trovarsi sulla verticale di Punta Raisi. La con-ferma ce la dà l’addetto alla torre di controllo, il sergen-te Terrano, che parlando con Roma dice di aver visto «la112», che però si dirigeva verso le montagne. Nel corsodel processo, l’inequivocabile frase di Terrano sarà da luistesso definita una «interpretazione soggettiva». Ma sediamo per buona questa “interpretazione”, o questo flus-so di coscienza del sergente maggiore, nel momento incui il comandante comunica di essere in vista dell’aero-porto si trova davvero in quel punto, tanto che il Dc 8 èsotto l’osservazione visiva, se non di Terrano, della signo-ra D’Anna, la testimone che descrive con cura di dettagliil passaggio dell’aereo sopra la sua testa. Ma il giudiceistruttore, nell’atto che proscioglie l’addetto alla torre dicontrollo, si esprime così: «È emerso che Terrano non af-fermava fatti da lui constatati, ma avanzava delle ipotesisulla perdita di contatto radio con l’aereo». I giudici riter-ranno inverosimile, inoltre, che l’aereo si trovasse effetti-vamente sulla verticale dell’aeroporto, dove “verticale”non è un riferimento geometrico, ma sta a significare cheha identificato e visto l’aeroporto.Al processo non resta che attribuire ai piloti tutti gli er-rori, almeno quattro: profondità (non sapevano di trovar-si 10 miglia più a sud e non hanno consultato gli stru-menti di bordo che indicavano la posizione dal radiofaroe, dunque, dall’aeroporto), traiettoria (hanno persevera-

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to nella manovra sbagliata), visione (non hanno guarda-to all’esterno e non si sono accorti che sotto c’era la mon-tagna), udito (non hanno sentito l’allarme acustico chel’altimetro emette quando si scende a una quota più bas-sa di quella stabilita). Tutto questo si addice al profilo didue piloti esperti, coadiuvati in cabina da un motorista,anch’egli con un brevetto di volo? Ecco che cosa dicono alcuni colleghi di Bartoli ai magi-strati di Palermo il 26 maggio 1972: «Era un uomo equi-librato e posso affermare che come pilota era superiorealla media» (Pasquale Mancini); «era quanto mai equili-brato e prudente» (Luciano Caldarini); «ne ho un ottimoricordo sul piano professionale e umano» (Adriano Zini).Quanto al mancato uso delle lenti, imputato a Bartoli sianel rapporto Lino, sia nell’inchiesta di Catania, due suoicolleghi, Maurizio Tomassoni e Amilcare Filipponi, cheavevano volato con lui, escludono che il pilota avessegravi problemi di vista: «Solo una volta, su un Dc 6, dinotte, gli ho visto mettere lenti da riposo», dirà Filippo-ni, «non portava occhiali da vista e vedeva bene, come hopotuto desumere essendo suo amico».La vedova Bartoli, Bianca Fachini, il 27 maggio confer-merà ai pm di Palermo di aver incontrato il marito a Fiu-micino poco prima che si imbarcasse sul volo per PuntaRaisi: «Era in perfette condizioni fisiche e psichiche.Quella mattina si era alzato verso le 10. Alle 11 eravamoandati a ritirare il progetto di una casa che intendevamocostruire. Poi aveva pranzato e subito dopo era andato ariposare fin verso le 15.15, quando era andato in aeropor-to per il volo Roma-Catania». La signora l’aveva visto l’ul-tima volta a Fiumicino, dove si era recata per accompa-gnare i figli che andavano a Trieste dai nonni materni.

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Qualcuno disse che a Fiumicino i coniugi Bartoli litigaro-no, davanti ad alcuni colleghi del pilota, non si sa perquale ragione. Ma questo episodio – al pari dell’incredibi-le leggenda sui piloti ubriachi – passò di bocca in boccasenza mai arrivare in un’aula di giustizia o finire sulle car-te. Ma, probabilmente, è servito alla commissione Linoper insinuare la tesi sulle alterate condizioni psichichedel comandante.Quanto agli occhiali, Bartoli li portava, dice la moglie,«solo quando si sentiva un po’ stanco. Non li usava né perleggere né per guidare l’auto». Nella borsa, che lei glipreparava, ne aveva sempre un paio. Durante i voli noncenava, aspettava sempre di tornare a casa.Per quanto riguarda Dini, il comandante Giorgio Gobbi il3 giugno dice ai magistrati che alcune volte gli aveva af-fidato i comandi e aveva assolto i suoi compiti con capa-cità.La vedova di Dini, Paola Ghignoni, aveva spiegato che ilsuo era un matrimonio felice, avevano due bambini diuno e due anni, e che il marito era un tipo piuttosto cal-mo ed equilibrato e non portava occhiali. Le osservazio-ni medico-legali esclusero qualunque problema di salute.«Perché tanto accanimento?», si chiede nel 2009 la vedo-va Dini in un’intervista televisiva alla trasmissione dellaRai Chi l’ha visto?. «Forse è stato il modo più sempliceper chiudere la vicenda». Mentre la sorella del pilota, nelcorso della stessa trasmissione, dice: «Un funzionariodell’Alitalia mi propose una somma di denaro». Dichiara-zioni rimaste lì, come la richiesta di Adriana Scacciano-ce, figlia di una delle vittime, Giacomo, di riesumare ilcorpo del genitore per appurare finalmente se si puòescludere un’ipotesi diversa da quella dell’incidente.

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CAPITOLO VIII

LA TERRA DI NESSUNO

Le osservazioni dei periti contengono elementi di grandeinteresse per quanto riguarda la procedura d’atterraggio,tanto che a leggerli diventa davvero difficile convincersiche Bartoli e Dini potessero ignorare la loro posizione.Alla domanda del giudice istruttore se i piloti avesseroeffettuato una procedura strumentale di avvicinamento ouna a vista, gli esperti rispondono che l’annuncio di Bar-toli («lascia 5000 piedi e riporterà sottovento per la 25 si-nistra») «fa inequivocabilmente ritenere che il pilota harinunciato all’avvicinamento strumentale e ha invece de-ciso per l’avvicinamento a contatto visivo col suolo». Se ècosì, i piloti avevano individuato la pista e non potevanocerto cercarla altrove, dieci miglia più avanti dove, sì,c’era il radiofaro di Monte Gradara, ma immerso nel buiodelle montagne e a una distanza non visibile dalla posi-zione in cui l’aereo si trovava durante l’ultima comunica-zione. Ecco un altro punto oscuro.Scriverà nel ’92 Adalberto Pellegrino, per anni presiden-te dell’Anpac e pilota di grande esperienza, nel suo libroTrappole nel cielo13: «La commissione d’inchiesta tecni-co formale e la magistratura non seppero trovare altri re-sponsabili della sciagura che i due piloti, sui quali – sen-za alcun elemento oggettivo – venne rovesciato tutto ilpeso della responsabilità professionale e morale».L’opinione di Pellegrino sull’aeroporto palermitano è la

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13. Edito da Sugarco, Milano, 1992

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seguente: «È il contributo italiano al trattato su come nondovrebbe venire costruito un aeroporto destinato all’avia-zione civile». Localizzato ed edificato a seguito di valuta-zioni che nulla avevano a che fare con l’aeronautica. E an-cora: «La pista principale venne ricavata a ridosso delmonte Pecoraro che sovrasta l’intera zona aeroportuale –dista solamente mezzo miglio dalle sue pendici – assog-gettandola ai venti di caduta [il fenomeno del wind she-

ar, tornato alla ribalta dopo l’incidente in atterraggio diun volo Win Jet, avvenuto il 24 settembre 2010, nda] chescendono dal rilievo verso il circuito, rinforzandosi e ar-ricchendosi in un imprevedibile susseguirsi di rafficheche rende problematica – e qualche volta impossibile – lamanovra di atterraggio degli aeroplani». Ma, nonostantetutto, allo scalo fu dato il nome di aeroporto internaziona-le. Col passare degli anni, le lettere cubitali che lo indica-vano caddero o si scheggiarono, così il tempo provvide adeclassarlo a qualcosa come “orto nazionale”.Sei anni dopo la sciagura di Montagna Longa, il 23 dicem-bre 1978, 37 minuti e 59 secondi dopo la mezzanotte, unaltro aereo, il Dc 9 Alitalia “Isola di Stromboli” con il nu-mero di volo AZ 4128, proveniente da Roma con 129 per-sone a bordo, finì in mare quando era a due miglia daPunta Raisi. Spirava un forte vento da sud e pioveva. Sol-tanto ventuno passeggeri si salvarono perché soccorsi dadue pescherecci che si trovavano in quella zona. Ben 108persone, compresi i cinque membri dell’equipaggio, mo-rirono. Manco a dirlo, la responsabilità primaria dell’inci-dente anche questa volta fu attribuita ai piloti. Nello Fais,ingegnere, fratello di una delle vittime della sciagura del’72, si chiese, con amara ironia, perché tutti i piloti sba-gliano a Palermo.

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Già, perché? La scelta di costruire un aeroporto a PuntaRaisi è una delle tante, incomprensibili storie siciliane ecomincia nel ’53, quando il governo nazionale decide difinanziare la realizzazione di un nuovo scalo. L’allora pre-sidente della Regione Franco Restivo, futuro ministro,coglie la palla al balzo e candida Palermo. Lo Stato tireràfuori il 60%, la Regione la parte restante. Si costituisceun consorzio che raggruppa la stessa Regione, il Comunedi Palermo, la Camera di commercio, la Provincia, la Cas-sa di Risparmio e il Banco di Sicilia. Il nuovo organismo èpresieduto dal sindaco Gioacchino Scaduto, il suo vice èAlfredo Terrasi, presidente della Camera di commercio,uno squalo dell’edilizia che aveva fatto fortuna con unacolossale speculazione immobiliare sui terreni di alcunisuoi familiari, in un’area che si chiama Girata delle Rose,a ovest di Palermo, proprio in direzione di Punta Raisi.Su quelle terre, dice nel ’64 il deputato comunista Pio LaTorre, si è deciso gran parte dell’avvenire dello sviluppourbanistico. Per fare un favore a Terrasi, si ritardò primal’approvazione del piano regolatore e poi la sua applica-zione, proprio per dare precedenza ai piani di iniziativaprivata come quelli della famiglia Terrasi. Del consorziofanno parte alcuni tecnici, tra questi l’ingegner Iaforte eil capo dell’ufficio tecnico del Comune, Vincenzo Nicolet-ti, padre del futuro segretario regionale della Dc, Rosa-rio, morto suicida a metà degli anni Ottanta. Il consorzioistituisce una commissione, che sulla carta dovrebbe es-sere un organo terzo, e invece ne fanno parte alcuni com-ponenti del consorzio stesso, che ricoprono il doppioruolo di controllori e controllati. Il primo atto della com-missione è quello di non dare seguito al concorso inter-nazionale per realizzare il progetto, contravvenendo a un

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passaggio scritto a chiare lettere nel bando redatto dalgoverno nazionale.Quando qualcuno individua Buonfornello – un’area pia-neggiante a circa 50 chilometri da Palermo – come pos-sibile sito per realizzare lo scalo, ecco che la commissio-ne mette il primo paletto: l’aeroporto deve essere co-struito nel raggio di 30 chilometri dalla città. Il ministero,attraverso un suo rappresentante, propone così un luogoche rientri entro questa distanza: la pianura tra Ficaraz-zi e Bagheria, Torre Corsara, a est di Palermo. Il profes-sor Sebastiano D’Agostino prepara un progetto, subitoavversato da qualche proprietario terriero della zona, ge-loso dei propri agrumeti e degli investimenti fatti sui ter-reni. D’Agostino dimostra che soltanto il 30 per cento dei60 ettari destinati al futuro aeroporto è coltivato ad aran-ce e avanza il sospetto che il problema principale sia co-stituito da un gruppo di mafiosi che intende continuare alucrare sui pozzi d’acqua abusivi della zona, usati per ir-rigare le campagne; un bene pubblico diventato proprie-tà di Cosa nostra, che vende l’acqua come i titoli dellaBorsa, imponendo ogni mattina, in regime di assolutomonopolio, un prezzo diverso e sempre più alto.Il consorzio, che avversa il progetto D’Agostino, non per-de tempo e nel ’55 mette nero su bianco le sue decisioni:l’aeroporto si farà a Punta Raisi, dove i terreni brulli, suiquali nessuno ha speso una lira, potranno dare ai pro-prietari buoni introiti. Inizia la corsa all’acquisto: alleva-tori e contadini, ignari di quanto sta accadendo, vendonole loro pietraie a improvvisati acquirenti, a mille lire almetro quadro, stupiti che qualcuno possa essere interes-sato a quelle terre aride e improduttive. Ancora non san-no che lì dovrà sorgere un aeroporto e poi un’autostrada,

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e dopo ancora una moltitudine di ville e villette allietatedal rombo dei jet. Il sì a Punta Raisi arriva un anno dopo,nel ’56, quando alla presidenza della Regione si insedia ildemocristiano Giuseppe Alessi, l’avvocato di Caltanisset-ta nel cui studio nacque la Democrazia cristiana. Il 15marzo di quell’anno vengono piazzati nell’area gli anemo-metri e dieci giorni dopo, mentre gli strumenti che misu-rano i venti danno risultati da brivido, viene presentato ilprogetto.Nelle motivazioni della scelta, la commissione tecnicaspiega che l’altra ipotesi, quella di Ficarazzi, è troppo di-spendiosa: otto miliardi contro i cinque di Punta Raisi.Inutile dire che il prezzo finale sarà più del doppio, cioèundici miliardi. Ma la ragione principale viene pronuncia-ta con un’impudenza da veri impostori: a Ficarazzi, dicela commissione, lo scalo è chiuso tra monte Grifone emonte Gibilforni. Le due alture, in verità, distano cinquee sedici chilometri dall’eventuale aeroporto. A Punta Rai-si, invece, la pista principale si trova soltanto a ottocen-to metri da monte Pecoraro, che rappresenta la propag-gine più vicina alla costa della catena montuosa che com-prende anche Montagna Longa.Il nuovo ministro dei Trasporti, Taviani, vuol vedercichiaro – si fa per dire – e istituisce il solito organismo ple-torico a cui l’Italia ha tante volte affidato il compito di an-nacquare ogni polemica, una super commissione per va-lutare il progetto. Il 20 settembre 1956 i tecnici si riuni-scono, sono fior di generali dell’aeronautica, piloti, tecni-ci, gente dell’aria alla quale basterebbe dare un’occhiataa Punta Raisi per capire che quello è il posto sbagliato.Ma l’unico a dire no sarà il generale Gallo. Qualche mesedopo, l’assessore regionale ai Lavori pubblici, Rosario

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Lanza, presenta all’Assemblea regionale siciliana la leggeche finanzia l’opera: tre miliardi è l’apporto dell’ammini-strazione siciliana, due li tirerà fuori lo Stato. Nel 2004 lastessa Assemblea, forse per un inconscio senso di colpa,estese ai familiari dei morti di Montagna Longa i beneficiprevisti per i parenti delle vittime di mafia, che ebberocosì la possibilità di essere assunti nei ranghi dell’ammi-nistrazione.Aggiudicato l’appalto con uno sconto del 29 per cento, suuna base d’asta di cinque miliardi, il ribasso fu subito az-zerato da una perizia suppletiva presentata dalla dittaappaltatrice, la Sab di Roma. Iniziava così la costruzionedell’aeroporto, che ancora per qualche tempo dopol’inaugurazione si poteva raggiungere in auto solo dopoaver attraversato un tratto di strada sterrata, costeggiatada muretti di pietra a secco.

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CAPITOLO IX

COLPEVOLI? SOLO IMPRUDENTI

Al processo di Catania si disquisì lungamente sugli appa-rati tecnici dello scalo di Punta Raisi e sul mancato rece-pimento nel nostro ordinamento delle norme contenutenella Convenzione Oaci. Per i cultori della materia, il pro-cesso stabilì che l’Italia si era limitata a recepire la Con-venzione, ma non i contenuti degli allegati. Gli imputati,dunque, in assenza di precise disposizioni attuative, nonavevano commesso reati, tutt’al più avevano «violato co-muni norme di prudenza», sentenziò il tribunale.Dare addosso all’aeroporto di Punta Raisi era fin troppofacile. I periti, rispondendo alle domande del giudiceistruttore sullo scalo palermitano, osservarono che si tro-vava in una zona malagevole, sia per la presenza dellemontagne, sia perché disturbato dai venti di caduta, di-versi da un capo all’altro della pista. Inoltre, «la rapidavariazione mare-pista-montagna dà luogo spesso ad illu-sioni ottiche». Nessuno risponde alla domanda sul per-ché sia stato costruito proprio lì, nel territorio di Cinisi, ilpaese dei “Cento passi”, dove governava il boss Gaetano“Tano” Badalamenti, l’uomo che nel ’77 diede l’ordine diuccidere il militante di Lotta Continua Peppino Impasta-to, che dai microfoni di “Radio Aut” salutava ogni matti-na il boss riverito da tutti chiamandolo “Tano Seduto”.In verità, la ragione era semplice e imbarazzante: l’aero-porto segnò l’area di espansione della città che si svilup-pò – forse il termine è inappropriato – verso ovest, dovei terreni, di cui la borghesia mafiosa aveva fatto incetta,

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moltiplicarono il loro valore. Fu preso di mira ogni ango-lo del territorio, comprese le aree demaniali. Oggi, il pae-saggio ai lati dell’autostrada che da Palermo conduce aPunta Raisi, dove l’aeroporto ha preso il nome Falcone-Borsellino, è una cortina di cemento che si estende qua-si senza soluzione di continuità e separa i viaggiatori dalmare. La stessa separatezza è riprodotta a Palermo, do-ve abbandono e stravagante edilizia riducono al minimoil contatto tra il mare e i suoi abitanti.Nel 1960, l’anno in cui l’aeroporto diventa operativo e ipalazzi sorgono come funghi, a Palermo l’emigrazione su-pera l’immigrazione. Il saldo negativo resterà quasi con-tinuamente inalterato fino ai nostri giorni. Però, in unasocietà squilibrata, in cui la ricchezza illegale la faceva dapadrona, si continuerà a costruire. Il calcestruzzo divore-rà tutto, compresa la famosa Conca d’Oro. LeonardoSciascia, qualche anno prima di morire, pubblicò un illu-minante articolo su “Spazio e Società”, la rivista direttadall’architetto Giancarlo De Carlo (uno degli estensoridel Piano Programma, strumento urbanistico che nonebbe mai attuazione nel capoluogo siciliano), nel qualespiegò con la sua solita lucidità come il territorio fossestato devastato da un’avanzata inarrestabile di costruzio-ni che partivano dal mare, invadevano la piana e si ar-rampicavano su per i monti. Un accerchiamento del ter-ritorio secondo una strategia quasi militare, una sorta diassedio di Stalingrado dei palazzinari.Ma erano tempi in cui il cemento era una specie di divi-nità. Anche i periti di Montagna Longa ne erano in qual-che modo convinti, quando nella loro relazione scrisseroche «l’importanza di uno scalo aereo è tale che spesso,pur di averlo, viene approntato il minimo di attrezzatura

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per renderlo agibile». Forse serviva alla fuga dei palermi-tani in cerca di lavoro, perché proprio a partire dal ’60 ri-comincia l’ondata migratoria verso il nord del Paese everso l’Europa continentale. Per tutti gli anni Sessanta,oltre quindicimila persone lasciavano ogni anno Palermoper cercare lavoro altrove, mentre la città ergeva cantie-ri ovunque e Vito Ciancimino coronava, sia pure per po-che settimane, il sogno di diventare sindaco. Quando, nelgennaio del ’71, l’ex barbiere di Corleone fu costretto adimettersi per le faide interne alla Dc, gli successe Gia-como Marchello. Al momento dell’incidente di MontagnaLonga è lui il sindaco di Palermo, che di mestiere avevafatto per trentasei anni il colonnello dell’aviazione.

Il 10 dicembre 1981, il giudice istruttore Cacciatore rin-via a giudizio per omicidio colposo plurimo il direttoredell’aeroporto Giovanni Carignano e i dirigenti dell’avia-zione civile Luigi Sodini e Arcangelo Paoletti. Oltre agliimputati prosciolti in istruttoria (Freri, Canipari e Terra-no), ce n’è un altro, il direttore generale dell’aviazione ci-vile Felice Santini, deceduto nel 1978, contro il quale nonsi poté procedere «per morte del reo». Il dibattimento sulla sciagura di Montagna Longa inizia il15 aprile 1982, quattro mesi dopo la sentenza del giudi-ce istruttore, e si conclude il 27 aprile con l’assoluzionedegli imputati, per i quali il pm Grassi aveva richiesto unapena detentiva di quattro anni e l’interdizione dai pubbli-ci uffici per cinque anni, chiedendo poi tre anni di con-dono per entrambe le pene. Il giudice Giustino Iezzi, do-po sei ore di camera di consiglio, legge il dispositivo del-la sentenza. Sono le 16.30. Tutti assolti.L’imputato Carignano, presente in aula, si guarda intorno

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e dice: «Meraviglioso». Renato Ciccarelli, avvocato diparte civile, si porta una mano alla fronte e dice: «Trase-colato».Delle ventiquattro parti civili, in rappresentanza di ottovittime, due (le famiglie Fais e Salatiello) si ritirerannopolemicamente nel corso del processo, mentre la vedo-va Bartoli ricusa il pm Grassi e si vede respingere la ri-chiesta.Dopo la sentenza, l’Anpac si esprime così sugli esiti: «IlProcesso è anche il titolo di un romanzo di Kafka, chel’occasione ci ha fatto ricordare prepotentemente. Pur-troppo. Iniziato a Catania il 15 aprile, con la previsione dialmeno quindici udienze, il giudizio per l’incidente diMontagna Longa si è chiuso frettolosamente il 27 se-guente dopo sole cinque sessioni. Fin dalla secondaudienza, come già ricordato e per l’aria che tirava, alcu-ne parti civili avevano abbandonato il processo. […] So-no passati più di dieci anni da quel 5 maggio ’72, un pe-riodo lunghissimo, soprattutto per chi attendeva giusti-zia, nel corso del quale sono state dette e scritte tantecose sull’incidente, sull’aeroporto, sui piloti. Cose per lopiù approssimate, come è costume in Italia quando siparla di aviazione civile. In questo caso, però, c’è stataanche malafede e incoscienza. Molte girandole, infatti,hanno schizzato i loro umori a ruota libera, molti “specia-listi” freschi di giornata si sono esibiti senza pudore. Intutti questi aspiranti gesucristo è comune ed evidente lapresunzione di sapere esattamente perché e come è suc-cesso l’incidente dell’AZ 112. Non importa se le diverseverità sono in contrasto tra di loro, non importa se nonesiste una dinamica certa dei fatti, non importa se, findall’inizio, non sono stati disponibili elementi oggettivi

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quali registrazione Fdr, testimonianze attendibili, tracceradar eccetera. Non importa. Basta concludere dicendoche la colpa è dei piloti. Se questa è una diagnosi tran-quillizzante e liberatoria persino per dei piloti, figuriamo-ci per gli altri. […] Per l’incidente di Montagna Longa, do-po un’inchiesta tecnico-formale incredibile (non è stataaccertata nemmeno l’ora esatta dell’impatto e non si sache quota segnavano gli altimetri), dopo due requisitoriecontraddittorie, che però con le varie perizie sono dura-te quasi dieci anni, ci attendevamo, almeno in fase pro-cessuale, conclusioni diverse e una definitiva identifica-zione delle molteplici responsabilità che hanno causato ildisastro».Nel ’72, a proposito della commissione ministeriale pre-sieduta da Lino, l’Anpac aveva fatto notare «la presenzain maggioranza di membri appartenenti ad amministra-zioni direttamente responsabili delle deficienze della no-stra aviazione civile», concludendo che questo «suscitadubbi sul procedere e sulla conclusione dei lavori».Il 2 giugno 1983 inizia il processo d’appello a Catania.Procuratore generale è Filippo Di Cataldo. I giudici di se-condo grado il 13 giugno confermano la sentenza. L’8 ot-tobre, Di Cataldo ricorre in Cassazione. Nel ricorso scri-ve: «È stato violato il principio della retta motivazionedella sentenza, per travisamento di fatto, omessa valuta-zione di circostanze, mancanza di contraddittorietà dellamotivazione nella parte in cui la corte non ritiene la sus-sistenza del nesso causale tra il comportamento degli im-putati e l’evento».Il 4 aprile 1984 la quinta sezione penale della Cassazionerespinge il ricorso. Sono passati undici anni e undici me-si, un numero che non porta bene all’aviazione.

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Neanche il 1972 fu una data felice: si verificarono in tut-to il mondo ben 84 incidenti aerei con 2546 morti. Lasciagura più grave, che avvenne sempre in fase d’atter-raggio, si verificò a Mosca quando un Ilyushin 62 dell’Ae-roflot si schiantò con 174 persone a bordo. In quell’anno,altri tre Dc 8 furono coinvolti in incidenti: quelli della Jalgiapponese a Delhi il 14 giugno (ottantaquattro morti equattro sopravvissuti) e a Mosca il 28 novembre (sessan-tuno morti); quello della ecuadoregna Aviaco a Las Pal-mas, nelle Canarie, il 5 luglio, che provocò dieci morti.

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CAPITOLO X

UNA CROCE SULL’INCHIESTA

Per il primo anniversario della strage, quando su Monta-gna Longa fu eretta una croce con i nomi delle 115 vitti-me, il pm di Catania Vincenzo D’Agata (che con il colle-ga Pietro Vitaliti, subentrato a Lorenzo Inserra, coordina-va le indagini) aveva assicurato che a giugno il lavoro deimagistrati sarebbe stato concluso: «Un’ultima cosa im-portante che ci resta da fare», spiegò, «è un’ispezione deiluoghi dell’incidente». In un’intervista a “L’Ora” (il gior-nale che nella strage aveva perso, oltre ad Angela Fais,anche Alberto Scandone e l’ex direttore Francesco Cri-spi), Inserra dirà: «A noi era arrivato da Palermo un fa-scicolo e sopra, come accusati, c’erano i nomi di Bartolie Dini». Inserra aveva lasciato l’inchiesta il 14 marzo1973, quando era passato a un collegio giudicante dellostesso tribunale di Catania. La procura del capoluogo siciliano, prima che il processofosse trasferito a Catania, chiese all’Alitalia i nastri diquindici scatole nere di aerei su cui aveva volato Bartoli,che furono esaminati dai periti nominati dal tribunale, gliingegneri Salvatore Di Tommaso, Orazio Scrofani e SantiLupo. In quei nastri non trovarono nulla. Mentre non sisaprà mai che cosa era inciso nella scatola nera dell’AZ112, perché il flight recorder, che fu trovato, aveva il na-stro strappato in corrispondenza di un tempo di volo dicirca sette ore dalla sua installazione, avvenuta il 30 apri-le 1972 alle 17. «Se ne deduce», scriverà la commissioneLino, «che il registratore ha cessato di registrare il primo

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maggio». La sostituzione del nastro si sarebbe dovuta ef-fettuare il giorno dopo l’incidente. Quando qualcuno sichiese se un apparecchio così importante può inceppar-si come un mangianastri senza che il guasto venga segna-lato, la risposta tecnica è stata che la ruota di avvolgi-mento continuava a funzionare, mentre il nastro eraspezzato. In quelle condizioni nessuno poteva accorger-sene, soprattutto perché la spia che segnalava il funzio-namento della scatola nera continuava a dare luce verde.Se ne deduce – e anche questa si somma a tutte le altrecoincidenze a senso unico – che chi ha progettato ilflight recorder non ha previsto tra i guasti segnalabilidalla spia lo strappo del nastro.Dopo il ritrovamento, la scatola nera fu affidata al colon-nello dei carabinieri Giuseppe Russo, ucciso dalla mafiail 20 agosto 1977, che la portò a Roma nei laboratori del-l’Alitalia. Nelle officine della compagnia di bandiera si re-cò, per assistere alla lettura della scatola, anche il pm Al-do Rizzo e fu proprio lui a comunicare il giorno dopo alprocuratore Pizzillo lo sconcertante risultato dell’opera-zione. La procura si riunì per mezza giornata e si sparsela voce che i magistrati avessero intenzione di aprireun’inchiesta per indagare su quell’improbabile fatto chemetteva una pietra sopra l’accertamento della verità.Non se ne fece nulla.Ma davvero ci si può non accorgere di un nastro strappa-to? A quel tempo la scatola nera era una macchina abba-stanza semplice, funzionava con un nastro che registravain analogico e conteneva – come quella attuale, molto piùevoluta e con funzioni digitali – due piste: il registratoredelle voci di cabina e quello dei parametri di volo. Sor-prende però che nessuno si sia accorto del guasto alla sia

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pur rudimentale scatola nera, perché il segnale di funzio-namento è legato non alla bobina che trascina il nastro –che sappiamo continuava a girare a vuoto – ma alla bobi-na trascinata. Non può che essere così: il movimento ol’arresto di quest’ultima è il dato che può segnalare consicurezza il funzionamento di entrambe le bobine e dun-que dello strumento; è il cedimento del nastro ad assicu-rare che la registrazione avviene. È una considerazionetalmente di buon senso che sembra impossibile non viabbia pensato nessuno.Per non parlare del fatto che esiste un concetto ben no-to alla cibernetica e che si chiama retroazione o feed-back. In un manuale, pubblicato a Boston nel 1950 e inItalia nel ’6614, il semplice principio viene spiegato così:«Il comando della macchina, sulla base del suo funziona-mento effettivo, anziché del suo comportamento previ-sto, è conosciuto come retroazione e implica che i mem-bri sensori, messi in azione dai membri motori, svolganouna funzione di rivelatori o segnalatori, cioè di elementiche indicano il comportamento della macchina».Anche la semplice freccia dell’automobile, una volta cheviene azionata dalla leva accanto al volante, non è dettoche funzioni: chi ci assicura che la lampadina non sia ful-minata o che un contatto sia ossidato? E infatti, il segna-le della freccia sul cruscotto si accende e si spegne conun ritmo prestabilito che ne indica il corretto funziona-mento. Qualora si verificasse un guasto, il ritmo sarà di-verso – più accelerato o più lento – o addirittura il segna-le scompare. Non basta, insomma, azionare la leva peressere certi di aver effettivamente inserito la freccia; ri-

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14. Robert Wiener, Introduzione alla cibernetica, Boringhieri, Torino, 1966.

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ceveremo un’indicazione, sulla base di un parametro no-to, che ci darà la certezza del suo funzionamento.Si può credere che la scatola nera del Dc 8 fosse menoevoluta della freccia di un’auto? Nel ’72 il flight recorder

aveva sedici anni di vita: era stato inventato nel 1956 dal-l’australiano David Warren, recentemente scomparso, eprodotto in serie in Inghilterra a partire dal 1960. Qualcheanno dopo, divenne uno strumento obbligatorio per tuttigli aerei. Da un’evoluzione all’altra, oggi è in grado di resi-stere per mezz’ora a temperature fino a 1100 gradi.Ma la scatola nera del Dc 8 non si è guastata per l’impat-to, al quale ha perfettamente resistito; era non funzio-nante e da ben sette ore, secondo quanto risulta dall’in-chiesta.La serie di sfortunate coincidenze non si ferma al nastrospezzato della scatola nera: a Fiumicino il personale diterra non aveva ritirato prima del decollo – per un malin-teso, si disse – la copia delle annotazioni tecniche dove ipiloti segnano le eventuali anomalie riscontrate nei voliprecedenti. Si tratta del cosiddetto libro di ferro, costi-tuito da cinquanta pagine numerate di colore bianco,giallo, verde e blu. A Fiumicino l’equipaggio avrebbe do-vuto consegnare i fogli verdi e quelli gialli, che riportava-no le annotazioni del precedente volo; lì dovevano esse-re segnalate le anomalie o i guasti riscontrati nell’aero-mobile, compreso il mancato funzionamento della scato-la nera. Ma del libro di ferro non si sa nulla.Ce ne sarebbero di elementi per far sorgere qualche dub-bio, anche a distanza di anni, e invece ognuno ha mante-nuto la propria posizione.Il 7 maggio 2002, vent’anni dopo la sentenza di Catania,l’ingegner Di Tommaso, uno dei tre periti di Palermo, in-

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tervistato da “La Repubblica” non sembra minimamentedisposto a rivalutare i fatti, anche alla luce degli esiti delprocesso. Insiste sulla propria versione: «Al comando delvelivolo c’era il secondo pilota, mai atterrato a Palermo.Il comandante era alle comunicazioni: nel volo preceden-te [il Catania-Roma di quello stesso giorno, nda] avevacommesso una serie di errori e si era sfiorata una colli-sione». Di questa sfiorata collisione non c’è traccia nellecarte processuali ancora disponibili. E ancora: «A Paler-mo accadde che Bartoli comunicò alla torre di controlloche stava effettuando una virata a destra per entrare sul-la pista 25 sinistra. Dini interpretò diversamente quellaindicazione, virò dalla parte opposta, abbassò i flap di 25gradi e quando vide la montagna davanti tentò di riattac-care».Non fu solo colpa dei piloti, secondo il perito: «A terranon c’era nulla che potesse correggere quell’errore. L’ad-detto alla torre disse di aver visto l’aereo dirigersi versola montagna, poi sostenne che era una sua deduzione».Di Tommaso aggiunge un episodio inedito: «Con i resti sicomposero 115 vittime. Poi fu trovata una hostess». Sulnumero dei morti ci sono versioni contrastanti: si disseche mancava un cadavere, poi ritrovato; ma della vittimain più non si era mai parlato e non si trovano attualmen-te riscontri. Infine, il perito aggiunge che tra le vittime«c’era un signore che aveva escogitato un sistema per lo-calizzare un aereo in caso di caduta. Tornava da Romaper brevettare quella sua invenzione». È la sciagura del-le coincidenze.Chi, tornando da Roma il giorno precedente, il 4 maggio1972, ebbe il sospetto di un clima non proprio sereno ful’ingegner Martino Taviano, che il 10 maggio inviò una

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lettera al procuratore Pizzillo, scrivendo che a Fiumicinoera stato perquisito, insieme ad altri passeggeri. Viaggia-tore abituale, Taviano non aveva mai assistito a questeprocedure di sicurezza e sentì il bisogno di informare lamagistratura. L’Alitalia, interrogata sulla vicenda, spiegòche si trattava di normale routine. Non è escluso che an-che negli aeroporti italiani fosse scattato l’allarme a cau-sa del dirottamento, quello stesso giorno, di un Dc 9 involo da Ankara a Istanbul da parte di quattro turchi checostrinsero l’aereo ad atterrare a Sofia. Così come non èescluso che ci fosse anche un allarme in Italia su possibi-li attentati. Qualcuno parlò, per esempio, di possibili ven-dette del terrorismo nero per la mancata liberazione del-l’ufficiale delle SS Herbert Kappler, rinchiuso nel carceremilitare di Gaeta, da dove riuscirà a scappare.Misteri che aleggiano da quarant’anni sulle vite di chi inquella tragedia ha perso mogli, mariti, padri, madri, figli,amici. Storie troppo grandi in un Paese che si fa piccinoe si immiserisce ogni volta che gli viene chiesto di gene-rare verità, quella che la piccola Maria Teresa, sei anni altempo della sciagura, chiedeva alla sua maestra: «Dovesono mamma e papà, perché non tornano?». Mamma epapà erano Calogero Cammarata e Concetta Capozzi,morti con altri due figli a Montagna Longa. Maria Teresaera stata adottata dalla coppia qualche anno prima equella mattina non era partita perché sull’aereo erano ri-masti solo quattro posti, così i genitori l’avevano lasciataa casa della maestra.

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CAPITOLO XI

LA MANOVRA FOLLE

Chiuso il processo penale, che non vede coinvolta lacompagnia di bandiera, rimane in piedi il procedimentocivile, concluso nel 1985. L’Alitalia è condannata al risar-cimento dei danni. La sentenza è della prima sezione deltribunale di Palermo. Il risarcimento riguarderà soltantole due famiglie delle vittime che avevano rifiutato la tran-sazione con la compagnia: i Fais per la morte di Angela ei Salatiello per quella di Elisabetta.La lunga vicenda dei risarcimenti ebbe risvolti parados-sali: a un anno dalla sciagura, l’Alitalia aveva trovato unaccordo con il 43 per cento degli eredi delle vittime. Lenorme del tempo, riportate in piccolo dietro ogni bigliet-to aereo, prevedevano risarcimenti di soli cinque milionidi lire in caso di morte per incidente sulle tratte naziona-li. Alcuni chiesero cifre fino a ottanta volte superiori.L’Alitalia non trovò di meglio che citare in giudizio alcu-ne famiglie delle vittime. Un’azione legale di questo tiponon aveva precedenti nella storia giudiziaria del Paese.Maria Eleonora Fais pensa di chiedere la riapertura delprocesso. Non ha mai smesso di cercare la verità sullasciagura e ricorda il clima da guerra civile di quegli anni,nei quali, in Sicilia, gruppi di terroristi neri giocavano al-la guerra nei campi paramilitari. Uno di questi fu scoper-to a Bellolampo, dove c’è una grande discarica di rifiuti,in una zona a sud di Palermo non lontana in linea d’ariada Montagna Longa.Il rapporto Peri, divulgato nel 2001, convince la Fais che

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sia arrivato il momento di riaprire il processo. Vent’anniprima, durante l’istruttoria, le parti civili chiesero unaperizia sul nastro registrato della torre di controllo, peranalizzare alcune pause o cancellature che si interpone-vano nel dialogo dei due controllori di volo. Secondo laFais, «dall’inchiesta Lino potrebbe venire l’ipotesi delpossibile atto doloso contro l’aeromobile, che mandò inavaria i meccanismi. Il comandante Ferretti, che facevaparte della commissione d’inchiesta ministeriale in rap-presentanza dell’Anpac, avanzò il sospetto di una esplo-sione nella carlinga. Sappiamo, da quello che è venutofuori dopo, che l’eversione nera aveva buone basi in Sici-lia, come dimostra la presenza stabile di terroristi da uncapo all’altro dell’Isola. Non dimentichiamo che nel ’72, il27 ottobre, a Ragusa fu ucciso un collega di mia sorellaAngela, il corrispondente de “L’Ora” Giovanni Spampina-to, per mano di Roberto Campria, figlio del presidentedel tribunale di Ragusa».Spampinato stava indagando sull’omicidio di un possi-dente e antiquario legato ad ambienti di destra, AngeloTumino, e nutriva forti sospetti su Campria.In quegli anni il clima non è rassicurante. Se l’agenzia“Reuters” un paio di giorni dopo l’incidente di MontagnaLonga parla di attentato, secondo Maria Eleonora Fais «sa-rebbe stato utile considerare anche questa pista. Ma l’inda-gine sembra conclusa ancor prima di cominciare: non èstata effettuata nessuna perizia balistica, per esempio. Co-sì come non si procedette ad accertamenti tra i più sempli-ci: i magistrati non si posero il problema di sapere chi ave-va sostituito il nastro della scatola nera, risultato strappa-to e inservibile. Il nome del tecnico che esegue questi lavo-ri, di norma, è annotato nei registri dell’Alitalia».

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Quando Angela Fais morì a Montagna Longa aveva 27 an-ni. Nella sua agenda bruciacchiata dal kerosene del Dc 8,e trovata fra i rottami, alla data del 5 maggio c’era una so-la annotazione: 14-20. Era il suo orario di lavoro a “Pae-se Sera”, dove si era trasferita dopo alcuni anni passati a“L’Ora”. A riconoscere il suo corpo, sul luogo della scia-gura, fu il giornalista Francesco “Ciccio” La Licata, poi di-ventato autorevole firma de “La Stampa”. La Licata quel-la notte salì sulla montagna insieme a un collega de“L’Ora”, Gianni Lo Monaco, il quale durante il camminocadde e si ruppe una gamba. Non c’era molto da fare: ilgiovane cronista trovò una coperta e la mise addosso aLo Monaco, poi avvertì i vigili del fuoco, che solo l’indo-mani poterono andare a recuperare con una barella il fe-rito, il quale trascorse la notte seduto su un pietrone at-tendendo i soccorsi. Ciccio proseguì la sua scalata e arri-vato sul pianoro, nel buio pesto, attese che facesse gior-no. Alle prime luci si accorse che attorno a lui c’erano so-lo cadaveri: «Accanto al corpo di Angela», ricorda, «tro-vai il suo passaporto».Durante la notte, dice ancora La Licata, «Carlo AlbertoDalla Chiesa, che conduceva le indagini, diede ordine dinon far avvicinare nessuno nella zona e ordinò di spara-re contro gli intrusi. Si temeva l’arrivo di sciacalli, questafu la versione ufficiale. Gli spari ci furono, a valle del pia-noro, dove erano finiti pezzi dell’aereo e cadaveri. Il co-lonnello Nannavecchia si precipitò lungo il dirupo, ri-schiando la pelle, pur di fermare la gente che nel frat-tempo era riuscita a salire sulla montagna». La Licata ri-mase tre giorni a Montagna Longa, e quando raccoglievaun po’ di notizie scendeva giù, a piedi, e dettava le infor-mazioni al giornale da una cabina telefonica. Poi risaliva.

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La borsa di Angela non era bruciata e non lo erano nean-che i suoi documenti personali. Era di pelle e aveva lacerniera scardinata, «come se avesse subito lo sposta-mento d’aria», dice la sorella, «provocato da un’esplosio-ne. Le pillole Optalidon erano sfarinate così come le pen-ne biro Bic, che sembravano frantumate a colpi di mar-tello su un’incudine. Facendo in seguito delle prove d’im-patto in laboratorio, anche a 300 chilometri orari non siraggiunsero questi risultati, perché il peso specifico del-le Bic e delle compresse è bassissimo e solo un’esplosio-ne può provocare tali esiti. Anche le condizioni di molticorpi erano compatibili con l’esplosione, ma al procura-tore Pizzillo e ai suoi sostituti non venne in mente di far-li analizzare per verificare se fossero presenti tracce diesplosivo. Nessuno fece quell’accertamento che, trenta-cinque anni dopo l’incidente nel quale Enrico Mattei ave-va trovato la morte nei cieli di Bescapè, si rivelò decisivoper capire, proprio grazie alle analisi sul cadavere riesu-mato, quanto era accaduto all’aereo che trasportava ilpresidente dell’Eni».Angela Fais aveva cominciato la sua carriera giornalisti-ca nella sede di Palermo de “l’Unità”, in via Velasquez. Adirigere la redazione c’era Federico Farkas, che fu il por-tavoce di Luigi Longo. Angela aveva la rara dote di farsivoler bene da tutti, dal direttore al fattorino. La sua ca-pacità di entrare in relazione con la gente era un valoreaggiunto per ogni posto dove lavorava. La settimana pre-cedente, con lo stesso volo, aveva portato a Palermo i fla-ni e le pellicole de “l’Unità domenicale”, per consentire distampare in fretta il supplemento del giornale in vistadelle imminenti elezioni. I suoi colleghi ricordano che eraarrivata trafelata nella tipografia de “L’Ora”, con un pac-

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co che era più grande di lei, il “Topolino”, come la chia-mavano al lavoro.Quando passò a “L’Ora”, Angela aveva conosciuto un ra-gazzino che di mestiere faceva lo scippatore. Era un tiposveglio, intelligente. Angela lo convocava ogni giorno algiornale e gli dava qualche spicciolo per mangiare, cer-cando di distrarlo dalla sua attività. Non sappiamo sequel ragazzino abbia poi desistito dai suoi propositi cri-minali, ma ai funerali fu visto in lacrime accanto alla ba-ra di Angela.La Fais faceva parte di un gruppo di belle promesse delgiornalismo: con lei era arrivato nel glorioso giornale dipiazzetta Napoli – fondato dalla famiglia Florio nel lonta-no 1900 e chiuso nel 1992 – anche Alberto Scandone, ilquale proveniva dall’area cattolica. Scandone, pure luimorto nella sciagura, si infatuò di quel quotidiano comu-nista che trattava a pesci in faccia la mafia e il malaffare,e il suo sogno era quello di scrivere la cronaca dell’incon-tro che più auspicava, quello tra Paolo VI ed Enrico Ber-linguer, che nella sua fantasia si sarebbe dovuto svolge-re, in un futuro non lontano, nei giardini del Vaticano.Quando Angela arriva a Roma, entra a far parte di un ri-stretto gruppo di persone fidate che stanno intorno aBerlinguer. Ricorda la sorella Maria Eleonora: «I Berlin-guer erano amici di famiglia. Frequentavano casa di miamadre, in Sardegna. Il ’72 era un periodo in cui il partitoandava a tentoni, nel Paese c’era un’aria irrespirabile.Berlinguer non dormiva mai nello stesso posto: il partitoaveva attrezzato alcuni piccoli appartamenti, a Roma, do-ve i dirigenti passavano la notte, evitando di restare alungo nello stesso luogo. Angela era al corrente di tuttoquesto. Mi parlava dei frequenti incontri del segretario

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del Pci con Aldo Moro, del suo tentativo di convincere illeader democristiano ad appoggiare la causa dei palesti-nesi. Non ho mai saputo perché quel giorno Angela aves-se cambiato idea e non fosse più partita con il volo delpomeriggio, dove era prenotata. L’amministratore di“Paese Sera”, Amerigo Terenzi, mi spiegò che aveva insi-stito per trovare un posto sull’ultimo aereo per Palermo.Gli chiese, addirittura, se poteva usare il suo nome al-l’Alitalia per trovare posto. All’aeroporto l’accompagnòun collega, Walter Buzzoli, che aveva un’Alfa Romeo spi-der. Mi è sempre rimasto il dubbio che quel pomeriggiofosse accaduto qualcosa di importante. So che Angelastava cercando di dare una mano a Giovanni Spampinatoper le sue inchieste sul terrorismo nero a Ragusa e checercava notizie sul neofascista Vittorio Quintavalle. Simuoveva con circospezione, annotava i fatti che la con-vincevano poco e aveva fiuto per le persone. Da anni cer-co di capire. Quando penso a quel nastro inutilizzabiledella scatola nera, mi chiedo perché mai nessuno abbiacercato di stabilire chi fece l’ultima manutenzione, chi lomontò. Un giornalista polacco, Anthony Jerkov, disse apersone del Pci che a Fiumicino lavorava un neofascistanoto ai servizi segreti, un certo Julio Beccarini, che ave-va la residenza a Beirut. Ho chiesto, senza avere mai ri-sposte, se avesse a che fare con quel volo».Il nome Julio, ma non il cognome, rientra nei tardivi ri-cordi di Alberto Volo, ex estremista di destra, personag-gio che nelle aule giudiziarie si è creato la fama di depi-statore, come afferma Rosario Priore, il giudice che si èoccupato della strage di Ustica, il quale, esponendo nel-le conclusioni della sentenza-ordinanza alcune dichiara-zioni di Volo riguardo alla strage del 1980 e ad altri epi-

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sodi, conclude che sono talmente paradossali da nonaver bisogno di alcun commento. Volo oggi ha poco piùdi sessant’anni, vive a Palermo e recentemente è statocoinvolto in un’inchiesta per diplomi falsi. Durante un in-contro con la Fais, le riferisce che anche lui doveva esse-re sull’aereo che si è schiantato a Montagna Longa e rive-la la sua convinzione che si trattò di una strage ordita daGladio, l’organizzazione paramilitare che operava in Italiaai tempi della guerra fredda. Nel maggio 2007 la notiziafinisce sul sito Comincialitalia.net, che intervista laFais. A giro di posta, alle 10.23 del 9 maggio, Volo inter-viene nel dibattito che si apre sul sito e che produce giu-dizi taglienti sull’ex estremista, inviando un commento escusandosi «per aver causato dissidi e, quindi, aver datoragione a chi mi accusa d’essere un provocatore». E ag-giunge: «Non è vero che io non abbia rivelato chi mi im-pedì di prendere quell’aereo maledetto: si chiamava Do-natella come la signora Papi, era una hostess dell’Alitaliaed abitava in via dei Giornalisti, 21 a Roma – Monte Ma-rio. Il cognome, per quanti sforzi faccia ed abbia fatto,non riesco a ricordarlo. Escludo che Donatella avesse al-cuna cognizione di quanto stava per accadere, posto checi incontrammo in aerostazione nell’imminenza della par-tenza, proprio perché aveva accompagnato lì la sua mi-gliore amica, l’hostess Brigitte, che in quel volo perse lavita. Se Donatella avesse avuto la benché minima cogni-zione dell’imminente tragedia avrebbe salvato la vita allasua amica piuttosto che a me. La sua amica Brigitte ave-va preso il posto di una collega che si era data malata al-l’ultimo momento e di cui sarebbe facilissimo scoprirel’identità, se se ne avesse voglia! L’hostess che si era da-ta ammalata e sfuggì alla morte, “usciva” con un certo Ju-

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lio che lavorava all’aeroscalo. Ecco la verità, pura e sem-plice! Ecco su cosa si dovrebbe riflettere e discutere!».Nell’autunno 2009, chi scrive si è messo in contatto conl’avvocato di Stefano Volo per chiedergli se il suo clientefosse interessato a chiarire quanto riportato nel sito, mal’ex estremista ha rifiutato, adducendo problemi di salu-te – da anni è malato – e lamentando le riserve espresseda più parti su di lui e sui suoi racconti che riguardano letrame della Prima Repubblica.A parte la scarsa memoria di Volo sui cognomi – che con-trasta con la precisione dell’indirizzo indicato nel suo in-tervento, via dei Giornalisti 21 –, non c’è alcuna hostessBrigitte che sia salita su quel Dc 8 in sostituzione di unacollega. Il nome che si avvicina di più a Brigitte è Beatri-ce, che di cognome fa De Moulin.Il giorno dopo il suo intervento, Volo manda al sito un al-tro commento che va in rete alle 13.06: «Nessuno rispon-de, nessuno riflette... nessuno discute... e se dico chesembriamo tanti struzzi... vengo insultato, vilipeso e tac-ciato da sporco fascista». I puntini di sospensione sono diVolo e lo sfogo si chiude con nove punti esclamativi.Riportiamo le parole dell’ex estremista di destra per evi-tare che la sua ricostruzione continui a essere uno deitanti “si dice” che periodicamente si aggiungono a una vi-cenda tragica che ha soltanto bisogno di verità.La Fais, che nel corso di questi anni ha tentato di racco-gliere quante più notizie possibili, spiega che Volo si èspinto a dirle di aver ceduto il proprio posto in aereo al-la sorella.Su posizioni politiche inconciliabili con quelle di Volo, laFais, a suo tempo militante del Pci, rimprovera al suo expartito di non aver mai preso in considerazione l’ipotesi

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dell’attentato. Su sei interrogazioni parlamentari presen-tate sulla vicenda, non compare mai una pista diversa daquella dell’incidente, causato dalle cattive condizioni del-lo scalo e delle strumentazioni a terra. La principale atte-nuante è la condizione dell’aeroporto di Palermo, che co-me abbiamo visto non era esattamente degna di uno sca-lo passeggeri. Autore di quelle interrogazioni fu un ami-co di famiglia dei Fais, Pio La Torre, ucciso dalla mafianel 1982. Il parlamentare comunista nella seduta dellaCamera del 19 luglio 1972 pronunciò un intervento duris-simo sugli esiti dell’inchiesta ministeriale: «Si concentratutta l’attenzione sulle responsabilità soggettive del pilo-ta Bartoli, definito distratto e lassista, e del suo secondo,definito press’a poco un menomato psichico. Vi sarebbeda domandarsi come con queste note di qualifica si po-tessero mantenere al pilotaggio di un Dc 8, di un quadri-getto di linea, persone di tal genere. Non ritengo che siail caso di infierire in questo modo sulla memoria di per-sone che sono cadute nello svolgimento del loro lavoro,per cercare di evitare temi più scottanti».Con gli aeroporti, La Torre non ha mai avuto un buonrapporto, neanche da morto: lo scalo di Comiso, a lui in-titolato in ricordo delle battaglie contro l’installazione deimissili Nato in Sicilia, recentemente ha ripreso il vecchionome “Vincenzo Magliocco”, grazie all’imbarazzante de-cisione di un sindaco di centrodestra.Considerata dai vertici del partito una persona fin trop-po esuberante – Sciascia, probabilmente, l’avrebbe defi-nita di tenace concetto –, Maria Eleonora Fais, donna mi-nuta e dai tratti fieri, non smette di cercare la verità enon ha alcuna intenzione di fermarsi. Detesta apparire emostra di non credere nel “dovere” di ricordare che ap-

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paga quanti ritengono di assolvere al proprio compitosemplicemente commemorando. Preferisce coltivare ilvizio della verità.Nel trentottesimo anniversario della sciagura, mentreCarini era in campagna elettorale per le comunali, in unagiornata incerta tra pioggerella e un timido sole, siamoandati di mattina nella piazza del paese e abbiamo chie-sto a un passante se sapesse di una cerimonia per ricor-dare le vittime del disastro aereo di Montagna Longa.«Non ne so niente», risponde l’uomo, «ma posso chiama-re l’assessore alla cultura». Estratto dalla tasca un volu-minoso telefonino d’altri tempi, intavola un colloquio conil politico e ripete a voce alta: «Lei non ne sa niente. Hocapito. Forse c’è una messa». Finita la breve conversa-zione telefonica, dice: «Forse c’è una messa, ma il porto-ne del duomo è chiuso». La cerimonia religiosa ci sarà neltardo pomeriggio, quando alcuni parenti delle vittimetornano da Montagna Longa, dove sono stati condotti dadue jeep della Forestale. Qualcuno tira fuori un vecchioricordo e racconta un episodio già noto. Tutti cercanoancora una qualche verità. È così ogni anno, a comincia-re dal primo anniversario, quando sul luogo della stragefu realizzata una croce in metallo, di sette tonnellate emezzo, alta dodici metri. Quel giorno del ’73 spirava ven-to di scirocco, un gruppo di parenti delle vittime, allequattro del pomeriggio, si recò sulla montagna con leCampagnole della forestale e, come riportano le crona-che del tempo, anche con una Fiat 850 e una VolkswagenMaggiolino. A un anno di distanza, molti rottami eranoancora sparsi qua e là: le ruote del carrello, la coda delDc 8, pezzi di lamiera. Più tardi l’arciprete di Carini, donVincenzo Badalamenti, officiò una messa nel duomo alla

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quale parteciparono i parenti delle vittime e poche auto-rità: il procuratore Pizzillo, il sindaco di Palermo, Giaco-mo Marchello, quello di Carini, Giovanni Finazzo, e il ca-pogruppo della Dc al Consiglio provinciale di Palermo,Francesco Sturzo, che sottolineò il contributo dell’ammi-nistrazione – un milione di lire – per la realizzazione del-la croce; mentre il presidente della Regione VincenzoGiummarra inviò un telegramma. Dall’anno successivospettò solo ai parenti ricordare.In quel 1973 i testimoni oculari dell’incidente, già ascolta-ti dagli investigatori e dai magistrati, continuarono a for-nire ai cronisti la stessa versione resa poco dopo l’inciden-te: l’aereo, avvolto in una palla di fuoco, solo successiva-mente si era schiantato contro Montagna Longa. Nel cor-so degli anni, però, qualcuno cominciò a ricredersi.I periti si sono più volte interrogati sulla traiettoria del-l’aereo, ma si sono mai fermati a riflettere sul perché sitrovasse proprio in quel punto e, soprattutto, a quellaquota? Per errore, d’accordo: ma la quantità di questi er-rori è tale da dover per forza generare qualche sospetto.I piloti sono troppo colpevoli per poter essere colpevoli.Erano in quel punto, e questo è un dato. Ma perché aquella quota? La quota esclude il posto e il posto escludela quota. Chi manovra un aereo non può trovarsi in unpunto per caso, deve sapere dove si trova. Un dato topo-grafico può essere un’opinione? Quale disorientamentopuò cogliere una coppia di piloti esperti, che poco primaaveva comunicato di essere sulla verticale dell’aeroporto?L’inchiesta si è impigrita sul preconcetto dell’errore uma-no – possibile, plausibile, persino probabile – ma erava-mo davanti al più grave disastro aereo del Paese e sareb-be stato utile indagare in ogni direzione e prendere in

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considerazione persino l’ipotesi di una saetta di Giove.Invece, rimane vaga anche l’ora dell’impatto, «alquantoincerta», scrivono i periti nella relazione consegnata algiudice istruttore il 17 luglio 1978, «sebbene dovesse esi-stere un centinaio di orologi, fra quelli dei passeggeri,quelli dell’equipaggio e quelli di bordo. Negli atti del pro-cesso a disposizione non si riscontra alcun riferimento atale fonte, la quale poteva, mediamente, essere più pro-bante di altre. L’ora di passaggio sull’aeroporto è anch’es-sa incerta […]. Perdono quindi significato i tempi di per-correnza aeroporto-punto d’impatto».Ma gli orologi c’erano, eccome: nella relazione stilata dal-l’allora comandante dei vigili del fuoco, Gioacchino Furi-tano, se ne parla in maniera esplicita. Ecco cosa scriveFuritano: «Durante le operazioni recuperati denaro, oro-logi, chiavi, accendisigari che venivano consegnati al ma-resciallo dei Carabinieri Di Benedetto». Che fine hannofatto?Il comandante dei vigili, tra i primi ad arrivare sul luogodella tragedia, mette nero su bianco, e senza alcuna am-biguità, che la direzione di provenienza dell’aereo era daovest, lato Terrasini: «Localizzati i rottami dell’aereo o vi-sto le tracce del fatto, si poteva così ricostruire la mecca-nica del sinistro: l’aereo, proveniente da ponente, cioèdal lato di Terrasini, aveva urtato strisciando sul crinaledi Montagna Longa, in corrispondenza della freccia indi-cata sullo schizzo planimetrico [che manca dagli archividei vigili del fuoco di Palermo, nda]; i motori avevano la-sciato una lunga traccia sul pianoro; un’ala con due mo-tori o parte della fusoliera, venivano proiettati oltre il pia-noro, rotolando sulla fiancata di levante della montagnain direzione di Carini; il resto della fusoliera si era disin-

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tegrata proiettando in varie zone il dolorante carico uma-no: alcuni corpi erano rotolati, assieme all’ala, sul versan-te di Carini. Verso quest’ultima direzione sono stati pro-iettati in fiamme un’ala, due motori e parte della carlin-ga, il che ha dato la falsa impressione ai testimoni che sitrovavano a Carini, che l’aereo procedesse con incendioa bordo e che successivamente si fosse schiantato controla montagna».A terra ci sono delle tracce inequivocabili, quelle dellegondole dei motori e della fusoliera. Secondo la testi-monianza dei coniugi Governanti, sembrerebbe che laposizione del relitto, con prua a 100 gradi, possa esserestata determinata dalla rotazione subita dall’aereo dopol’impatto contro la roccia dell’ala sinistra, che si è spez-zata. I due testimoni hanno visto bene: quando diconoche il Dc 8, proveniente dal mare, si avvicinava al pun-to dell’impatto correndo quasi parallelamente alla mon-tagna, affermano il vero. La linea della catena montuo-sa, infatti, disegna una curva che da ovest procede ver-so sud-est. L’altezza del costone montuoso cresce daponente verso levante, consentendo a un osservatoreche si trova a terra di seguire il tragitto dell’aereo finoa quando non incrocia il crinale e scompare dietro lamontagna a una quota di circa 935 metri (95 in menodella cima più alta), dove è avvenuto lo schianto. Il latodi ponente è lo stesso in cui il sergente Terrano avreb-be visto l’aereo, tanto che le ricerche cominciano pro-prio da lì. È anche il punto indicato da un’altra testimo-ne, la signora D’Anna. Insomma, il Dc 8, secondo questaricostruzione, non è mai arrivato a Monte Gradara, do-ve avrebbe iniziato la procedura d’atterraggio. Non hatentato alcun atterraggio, semplicemente si è schianta-

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to, lungo la sua improbabile traiettoria, contro il primoostacolo incontrato.Se questo è il percorso seguito dal Dc 8, perché altri duetestimoni, i poliziotti Foti e Manfrè, dicono di aver vistol’aereo all’altezza dello svincolo autostradale di Carini, aest dell’aeroporto, attraversare la linea di costa? I duegiungono in aeroporto, secondo la loro stessa ricostruzio-ne, intorno alle 22.20. La distanza tra Carini e Punta Raisiè di circa dieci chilometri e occorrono poco meno di dieciminuti per percorrerla. I poliziotti potrebbero aver vistoun altro aereo in quel punto dell’autostrada, probabilmen-te il Catania-Palermo atterrato intorno alle 22.10 sulla pi-sta 25, in uso quella sera, alla quale si accedeva proprio dallato di Carini. Anche l’AZ 112 avrebbe dovuto compiere lostesso percorso, così come aveva annunciato Bartoli allatorre di controllo, prima che le comunicazioni radio si in-terrompessero per i due minuti precedenti all’impatto.Da che cosa è stata determinata la posizione “folle” delDc 8, come la definiscono i giudici, che infatti non credo-no che l’aereo si trovasse a ovest dell’aeroporto?Probabilmente non lo sapremo mai.A quel tempo, negli anni della guerra fredda, a Marsala,vicino all’aeroporto militare di Trapani Birgi c’era uno deidue sistemi radar di difesa aerea presenti in Sicilia; l’al-tro si trovava a Mezzogregorio, tra Augusta e Siracusa.L’intero Mediterraneo era, inoltre, controllato da aereipattugliatori Atlantic della Nato, che si levavano in voloda Sigonella, e dai Grumman dell’aeronautica militareitaliana di stanza a Birgi. Il monitoraggio dell’area era ga-rantito ventiquattr’ore su ventiquattro in un periodo incui la strategia di difesa era quasi del tutto orientata alcontrollo dei sommergibili sovietici che dal Mar Nero, at-

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traverso il Bosforo e lo Stretto dei Dardanelli, arrivavanonel Mediterraneo. Uno scenario da Ottobre Rosso, chenulla lasciava al caso.Non c’è alcuna ragione per ritenere che la sera del 5 mag-gio il radar di Marsala fosse spento e che i militari son-necchiassero o fossero poco interessati a seguire quelloche accadeva sopra le loro teste. Per il radar, un aereo èun oggetto che si muove nell’aria, poco importa che sitratti di un mezzo civile o militare. Se così non fosse, sa-remmo in presenza di un grave “buco” nell’apparato didifesa. Il tracciato radar dell’AZ 112 è stato dunque regi-strato dalla difesa aerea di Marsala: non si può lasciarenei cieli un oggetto senza controllo.A Marsala in quel periodo era installato un radar del tipoAnfps 8, con una portata attorno alle 500 miglia. La di-stanza tra Marsala e Punta Raisi è di circa 50 miglia. Lostrumento ha un raggio di trasmissione cosecante qua-dra, definizione un po’ astrusa ma che indica semplice-mente la sorgente e la direzione del segnale e che rassi-cura sul fatto che un aereo, a qualunque quota si trovi, ècompreso nel lobo di radiazione dello strumento. Facciamo un passo indietro: quando l’AZ 112 decolla daFiumicino il primo radar che lo avvista è quello di Licola,vicino a Napoli. È lì che vengono certificati i dati del volo.Il Dc 8 è un aereo civile partito da un aeroporto italiano eviene classificato come “F”, cioè Friendly. Quando Licolalo “consegna” a Marsala, il Centro di difesa aerea sa tuttodi quel puntino che si muove sui monitor. Sa, soprattutto,che non si tratta di uno “Z”, che sta per Zombie (un veli-volo non identificato), né di un “X Ray”, un aereo nemicoda inseguire con i caccia intercettatori per contrastarnel’eventuale minaccia alla sicurezza del Paese.

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Ma un aereo civile, anche se non desta allarmi, va co-munque seguito: se precipita, se scompare dai monitor,qualcuno lo deve sapere. Ed ecco come viene seguita, inquesto caso da Marsala, la navigazione di un volo fino al-la sua destinazione: il radar fornisce due indicazioni sualtrettanti monitor, la prima individua la posizione sulpiano e si chiama Ppi (Plan position indicator), la se-conda Rhi (Range height position) e indica la quota.L’operatore al Ppi conosce la posizione, quello all’Rhi laquota. Dall’insieme dei due dati si ha la cosiddetta “vesti-zione” della traccia radar, cioè l’informazione completa inun determinato momento dell’aereo preso in esame.Stiamo parlando del 1972; oggi, ovviamente, nell’era deicomputer, le procedure sono molto più semplici.Il sistema di controllo radar a Marsala è di tipo fonetico-manuale: ottenuti a voce i dati dagli operatori che stan-no ai monitor, un aviere marcatore riporta la posizionedell’aereo su un grande pannello di plexiglass: quello diMarsala era dieci metri di base e quattro d’altezza. Sulpannello è raffigurata in scala l’intera area geografica dicompetenza del Centro, divisa in quadranti, ognuno deiquali comprende 60 miglia quadrate. Gli avieri marcatorimaterializzano su questa lavagna trasparente le coordi-nate geografiche in cui l’aereo in questione si trova nelmomento preso in considerazione, tracciando una frec-cia che ne indica la precisa localizzazione e la direzione.L’operazione viene ripetuta e aggiornata più volte e, so-prattutto, viene annotata a penna su un registro che sichiama DA1, in cui figura l’ora, la quota, la velocità, iltempo trascorso dal decollo. A fine percorso, quandol’aereo è atterrato, l’operazione viene conclusa e ognidettaglio rimane scritto nel registro.

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Uniti i vari punti, si finisce per conoscere la precisa rottadell’aereo, l’orario, la traccia, la posizione geografica.Mettendo insieme le varie “fotografie” ne viene fuori latraiettoria.Il registro DA1, che non è un bloc notes, ma un volumestampato dal Poligrafico dello Stato e che ha una formasimile a uno spesso album da disegno (un rettangolo conla base molto più lunga dell’altezza), quando ha esauritole pagine viene consegnato al Terzo Soc (Sector opera-

tion center) di Martina Franca, in Puglia.Solo a partire dal ’74 i tracciati radar a Marsala sarannoregistrati sui nastri magnetici; ma nel ’72 il metodo di re-gistrazione, che può sembrare arcaico, era persino piùindelebile: si sa, scripta manent. Sarebbe stato semplice, dunque, anche a distanza ditempo, provare a dare un’occhiata a quel registro per sta-bilire l’esatta traiettoria del Dc 8. Dalle carte dell’inchie-sta non risulta che sia mai stato chiesto il tracciato radar.Quel tracciato avrebbe permesso di individuare la traiet-toria dell’aereo, senza dover ricorrere a ipotesi accade-miche e a tesi probabilistiche che hanno allungato a di-smisura i tempi del processo, senza mai arrivare a un da-to preciso. A voler fare la parte dell’avvocato del diavolo, si può sup-porre che Marsala abbia “abbandonato” l’AZ 112 primadello schianto, avvenuto intorno alle 22.23. Ma già dalleprime indagini la commissione Lino si rammarica chedalle 22.10, l’ora in cui Roma controllo lascia il Dc 8, ogniulteriore evento abbia una collocazione temporale ap-prossimativa, mancando a Palermo il marcatore orario.Non è pensabile che Marsala dalle 22.10 non abbia piùseguito l’aereo Alitalia; a meno che non si voglia pensare

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che per un terzo della sua navigazione il volo sia stato la-sciato al proprio destino. Eppure le indagini proseguonocome se il radar di Marsala non esistesse.Sappiamo, inoltre, che l’AZ 112 nei due minuti che han-no preceduto lo schianto si è trasformato in un fantasma:chi l’ha visto forse non l’ha visto; chi ha sentito il rumoredei motori, forse non l’ha sentito. Due minuti di vuotoche hanno preparato la tragedia. È qui il mistero: 120 se-condi in cui un oggetto di 66 tonnellate, lungo 56 metri econ un’apertura alare di 45, che sorvola l’area dell’aero-porto, scompare, per riapparire in frantumi sul pianorodi una montagna.Due minuti in cui si blocca la comunicazione radio e incui, probabilmente, anche gli altri strumenti di bordovanno in tilt. L’altimetro, per esempio: per quanto rudi-mentale fosse a quel tempo il suo funzionamento (era ta-rato sul Qnh, il valore della pressione atmosferica rileva-ta al terreno), davvero non ha dato alcuna indicazione aipiloti? E le apparecchiature collegate con le radioassi-stenze (Adf, Loran, Vor) erano anch’esse fuori uso? Inol-tre, un “buco” accidentale nelle comunicazioni radio è unevento di bassissima probabilità, trascurabile.C’è da considerare, inoltre, che il Centro di difesa aereadi Marsala, oltre a seguire attraverso il radar la traietto-ria degli aerei, ha anche la possibilità di comunicare viaradio con l’equipaggio. È accaduto, quella sera? Anchequesta domanda non ha risposta. Nell’immediatezza delfatto, l’addetto della torre di controllo chiama Birgi, manon Marsala.Il Dc 8 sembra fuori da ogni controllo: dalla cabina nonprovengono voci e il suo appare un fantomatico viaggio altermine della notte.

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Quel cenno all’aereo russo con il quale il Dc 8 ha avutouna comunicazione radio è troppo generico, buttato lìper caso nelle carte dell’inchiesta, per poter affermareche nei cieli del Mediterraneo la sera del 5 maggio si ag-girava un nemico. Ma di certo sappiamo che, a un certopunto, si interrompono le comunicazioni tra il volo Alita-lia e la torre di controllo; contemporaneamente l’aereoprende una traiettoria che nulla ha a che vedere conquella comunicata poco prima dal comandante Bartoli, ilquale dice di essere in allineamento con Punta Raisi; as-sume, invece, una traiettoria talmente folle che gli stessiinquirenti si rifiutano di prenderla in considerazione o diritenerla minimamente probabile; tanto che, per giustifi-care l’impatto, devono considerarne una che abbia unalogica, che possa essere stata compiuta da esseri raziona-li quali si suppone siano tre piloti di una compagnia dibandiera.La mancata acquisizione del tracciato radar, il black outdelle comunicazioni radio, il nastro inservibile della sca-tola nera, la “ritrattazione” del controllore di volo sonoun numero talmente elevato di coincidenze negative chenemmeno i più raffinati studi di stocastica riuscirebberoa spiegare.A proposito del DA1, anche nell’indagine sul disastro diUstica avvenuto nel 1980 il registro avrebbe potuto spie-gare che cosa accadde quella sera del 27 giugno nei cielidel Mediterraneo. Di quel documento, compilato nel cen-tro radar di Licola, non si trovò traccia, ma almeno la ma-gistratura, anche se otto anni dopo, aveva provato a cer-carlo. E nel 1988, dopo che un aviere di stanza a Marsa-la telefonò in forma anonima a una trasmissione televisi-va per raccontare la sua verità sulla strage di Ustica, l’al-

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lora procuratore di Marsala Paolo Borsellino tentò di ca-pire perché il radar del centro di difesa fosse spento.L’aeronautica ha sempre sostenuto che quel giorno, acausa di un’esercitazione, le strumentazioni avevano fun-zionato a fasi alterne e che quella sera a Marsala c’eranosolo due addetti. Borsellino appurò che ce n’erano bendieci, ma la risposta fu che otto, proprio in quel momen-to, erano in un’altra stanza.A distanza di quarant’anni, non c’è più traccia del DA1 diMarsala. La documentazione, infatti, con ogni probabilitàè stata distrutta: negli anni Ottanta lo stato maggiore del-l’aeronautica ha emanato una disposizione che prevede,passati quindici anni, la distruzione dei documenti archi-viati in tutti i centri di difesa aerea. Dopo il 1987, dun-que, il centro di Marsala, il cui hangar – dove erano de-positati i documenti – è passato nella disponibilità del-l’aeroporto di Birgi, non era più tenuto a conservare lecarte.

A cominciare dalla commissione ministeriale, che conuna velocità estranea al carattere sonnacchioso della giu-stizia italiana spiegò in fretta qual era la direzione daprendere per spiegare l’incidente, nessuno ritenne di an-dare oltre.Eppure il vicequestore di Trapani, Giuseppe Peri, provòa gettare il sasso nello stagno con il suo rapporto: ebbecome risposta il silenzio e in seguito il trasferimento. Conil senno di poi, sappiamo che la parte sui sequestri di per-sona – la quasi totalità del contenuto di quel documento– trovò ampio riscontro. Le sue ipotesi investigative nonerano frutto della fantasia, ma di un lavoro onesto e cer-tosino. Il rapporto mafia-terrorismo è venuto spesso alla

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luce e fu una delle piste – abbandonata in fretta – perspiegare l’omicidio del presidente della Regione sicilianaPiersanti Mattarella, avvenuto nel 1980. Se non ci sono elementi per affermare che dietro la scia-gura di Montagna Longa ci sia una pista terroristico-ma-fiosa o comunque diversa dal semplice errore umano, co-me lascia trapelare Peri, ci sono però molti elementi cheinducono a formulare ipotesi diverse dall’errore dei duepiloti. Ma al di là delle supposizioni, l’importanza di quelrapporto consiste nell’invito ad allargare il raggio delleindagini; un percorso che, se fosse stato intrapreso,avrebbe probabilmente condotto a una qualche verità.Nel 1976 Peri lavora a Trapani e intuisce – forse troppopresto – che non esistono compartimenti stagni, distin-zioni nette, e che la mafia, per esempio, non è l’antidotoal terrorismo, ma è il terrorismo nella sua forma più “lai-ca” e più pericolosa.Il poliziotto guarda indietro nel tempo, al 5 maggio 1972,e afferma che quello di Montagna Longa non è stato unincidente, bensì una strage organizzata da esponenti delterrorismo nero e uomini della mafia, il cui legame è ro-dato dalla serie di sequestri di persona programmati nel-l’ambito di una comune regia, con l’intento di creare lacosiddetta strategia della tensione. La sua era una tesiche non portava il timbro della verità, ma neanche quel-lo della patacca. In ogni caso quel documento era unasollecitazione ad approfondire la vicenda.Peri a quel tempo non poteva sapere, anche se forse ave-va intuito qualcosa, che in Sicilia, soprattutto dalle sueparti, c’era una misteriosa e ramificata organizzazione, ilcui nome, Gladio, sarebbe diventato noto solo quindicianni dopo. Non ci sono “cattivi” per definizione e Gladio

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non fa eccezione; ma citarla serve a capire che la Siciliadi quegli anni non era un posto da cartolina.Nelle sterminate dichiarazione che Massimo Ciancimino– figlio di Vito, ex sindaco mafioso di Palermo – ha fattoai magistrati della Dda, c’è un verbale che riguarda lasciagura di Montagna Longa. Ciancimino afferma che suquell’aereo viaggiava un uomo dei servizi segreti, di cuinon fa il nome. Quell’uomo era il superiore dell’ormai fa-moso signor Franco, un’entità tuttora misteriosa, anellodi collegamento tra lo Stato e la mafia nella presuntatrattativa che riguarda il periodo delle stragi del ’92. DonVito, anni dopo, avrebbe detto al figlio che il signor Fran-co era succeduto al suo superiore proprio dopo l’inciden-te di Montagna Longa.Ma questo non è l’unico ricordo di Massimo Cianciminosulla sciagura: il 5 maggio 1972, quando lui aveva noveanni, insieme alla famiglia stava andando all’esclusivo cir-colo Lauria di Mondello. Un uomo delle forze dell’ordine,in motocicletta, li raggiunse lungo la strada, dicendo alpadre di chiamare subito l’allora sottosegretario AttilioRuffini, futuro ministro dei Trasporti e della Difesa: Ruf-fini avrebbe chiesto a don Vito di adoperarsi per fare inmodo che la stampa non si lanciasse in ricostruzioni fan-tasiose. Ma l’attendibilità delle dichiarazioni di Ciancimi-no jr, su questa e su innumerevoli altre vicende, è tuttada chiarire.

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PARTE II

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CAPITOLO I

LA TESI DEL POLIZIOTTO

Cinque anni prima che fosse emessa la sentenza di primogrado sulla sciagura di Montagna Longa, il vicequestorePeri manda il suo rapporto a otto procure. È il 22 agosto1977. Le carte attraversano l’Italia in lungo e in largo e fi-niscono nelle mani dei magistrati di Marsala, Trapani, Pa-lermo, Agrigento, Taranto, Milano e Torino. Finisconoanche sulla scrivania del diretto superiore di Peri, il que-store Vanni Aiello, che il 18 novembre e il 12 dicembredell’anno precedente aveva ricevuto dal suo vice due in-formative. Ma se le prime comunicazioni scottavano, l’ul-timo documento avrà ustionato le mani dei colleghi delvicequestore.Peri aveva diretto per due anni il commissariato di Alca-mo, grosso centro del Trapanese. Lì aveva cominciato aindagare sul rapimento di un notabile della provincia,l’esattore Luigi Corleo, di Salemi, bloccato all’ora di pran-zo del 17 luglio 1975 mentre tornava in auto nella sua ca-sa di campagna. Un commando un po’ chiassoso, compo-sto da una decina di uomini distribuiti su più macchine,aveva circondato l’Alfa 2000 di Corleo, suocero di NinoSalvo, che insieme al cugino Ignazio erediterà il businessdelle esattorie in Sicilia. L’aggio percepito dalla loro so-cietà di riscossione tributi era il doppio rispetto a quellopraticato nel resto del Paese. I due, negli anni ruggentidella Dc, diventeranno gli uomini più ricchi e discussidell’Isola.Corleo non farà più ritorno a casa: morirà durante il se-

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questro. Una silenziosa faida misurerà la potenza mafio-sa dei rampanti cugini, arrestati nove anni dopo da Gio-vanni Falcone. Nino morirà in una clinica di Bellinzonanel 1986 ed eviterà le aule di giustizia; Ignazio sarà ucci-so nel 1992 dagli uomini di Totò Riina davanti al cancel-lo della propria villa, dopo aver rimediato una condannaper mafia al primo maxi processo contro Cosa nostra.Il sequestro Corleo avvenne due settimane dopo il rapi-mento di Nicola Campisi, professore all’Università di Pa-lermo, bloccato anche lui mentre era in auto sulla stradache da Sciacca porta a Menfi, lungo la costa dell’Agrigen-tino. Il docente, già sequestrato una prima volta nel 1957,rimase nelle mani dei rapitori per cinque settimane e fu ri-lasciato l’8 agosto dietro un riscatto di 700 milioni di lire.Peri legò i due rapimenti a un terzo, avvenuto il prece-dente 13 gennaio a Lainate, nel Milanese, quando EgidioPerfetti, l’industriale dei chewing gum “Brooklyn”, finìper dieci giorni nelle mani dei banditi, che per la sua li-berazione ottennero un riscatto miliardario.Un quarto sequestro attirò l’attenzione di Peri, quello delbanchiere Luigi Mariano, avvenuto in Puglia, a Gallipoli,sei giorni dopo il rapimento Corleo. Anche in quel caso fupagato un riscatto. Il poliziotto aveva un’idea semplice sulla dinamica dei ra-pimenti e sulla distribuzione dei compiti: «Il sequestroviene scomposto. Per le fasi più rischiose ci si serve dielementi mafiosi, per trarre in inganno gli investigatori, iquali pensano che sia opera di criminali locali. Sfugge co-sì la cerchia di ideatori e conseguentemente anche il mo-vente».Cosa c’entrano i sequestri con Montagna Longa? Peri èconvinto che da qualche anno l’eversione di destra abbia

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rapporti con la mafia. I terroristi organizzano i rapimentiper finanziarsi, Cosa nostra offre la manodopera. En-trambi hanno da guadagnarci e non solo economicamen-te: un clima di insicurezza crea le condizioni per sovver-tire le istituzioni o per tenerle sotto ricatto.Fa rientrare in questa strategia anche alcuni omicidi:quello del procuratore della Repubblica di Palermo Pie-tro Scaglione, avvenuto il 5 maggio 1971; del procurato-re generale Francesco Coco (che aveva avuto assegnatele indagini sull’assassinio di Scaglione) e del sostitutoprocuratore Vittorio Occorsio, avvenuti rispettivamentel’8 giugno 1976 a Genova e il 10 luglio dello stesso annoa Roma. I bossoli trovati a terra dopo l’omicidio del pmerano dello stesso calibro dei proiettili abbandonati sulsedile di una delle auto usate per il sequestro Corleo.Sul rapimento dell’esattore democristiano, a Peri nonsfuggono alcuni particolari significativi. Il boss di Salemi,Salvatore Zizzo, classe 1910, che ha goduto nella sua lun-ga carriera di tutte le protezioni possibili da parte di po-litici, carabinieri, magistrati, era finalmente incappato inqualche problema giudiziario. Ne erano passati di annidal lontano 1929, quando Zizzo fu per la prima volta de-nunciato dagli uomini dell’Arma per rapina, estorsione,omicidio premeditato e assolto per insufficienza di prove,formula che lo salverà spesso.Il mafioso si trova al soggiorno obbligato a Quartu San-t’Elena, in Sardegna. Con lui c’è anche il nipote Salvato-re Miceli, che avrà una brillante carriera di narcotraffi-cante e che solo nel 2009 è finito in manette in Venezue-la. Il commissario scopre che, una settimana dopo il rapi-mento di Campisi, il boss si trova a Salemi in licenza. Il 17luglio 1975, lo stesso giorno del sequestro Corleo, Zizzo

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è ancora nel suo paese e ha da godersi altri cinque gior-ni di licenza, grazie a una proroga concessagli dal giudi-ce istruttore. Ma il mafioso, quel giorno stesso, decide ditornare al soggiorno obbligato, rinunciando a proseguirela sua vacanza.Peri nota che anche il nipote di Zizzo, Miceli, non se nesta a guardare e dà una mano a Luigi Martinesi, tra gli au-tori del sequestro Mariano. In quel periodo, infatti, si tra-sferisce con la moglie in Puglia, a Monticelli, la stessa zo-na in cui Mariano verrà tenuto segregato subito dopo ilrapimento. Miceli prende il nome di Salvatore Patti. Po-co dopo, lui e la moglie si trasferiranno nella villa di unodegli autori del sequestro, un certo Marcello Aloisi.La “ditta” siciliana dei sequestratori comprende anchealtri nomi come Nicolò Messina, di Mazara del Vallo, nelTrapanese, fermato il 20 agosto 1976 a Monreale con unapatente falsa e una banconota da centomila lire il cui nu-mero di serie rimanda al denaro pagato per il rilascio diEgidio Perfetti, il quale disse che uno dei due rapitoriaveva un marcato accento meridionale. Al momento del-l’arresto, Messina è in compagnia di Vito Vannutelli eGiuseppe Ferro, anche loro del Trapanese, inseguiti daun mandato di cattura per il sequestro Campisi. Messinasarà ucciso il 16 luglio 1977, tre giorni dopo la sua scar-cerazione. Ferro, per scrupolo di cronaca, è uno dei per-sonaggi che ha contribuito a chiarire il quadro della mi-steriosa strage della casermetta di Alcamo, dove nel 1976furono assassinati due carabinieri.Sul sequestro Corleo, Peri prende di mira il neofascistaPierluigi Concutelli, al quale non sarà mai addebitata al-cuna responsabilità nella vicenda. Nel rapporto spiegache Concutelli aveva partecipato nel luglio ’72 alle eser-

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citazioni nel campo paramilitare di Menfi, nell’Agrigenti-no, e che aveva grande abilità nell’uso dei mitra. Aggiun-ge che una fonte confidenziale, nel luglio ’76, subito do-po l’omicidio di Vittorio Occorsio, ucciso il 10 dello stes-so mese, suggeriva al nucleo antiterrorismo di Catania dicercare Concutelli, autore dell’assassinio, a Salemi. L’an-no precedente, il neofascista si era candidato a Palermoalle elezioni amministrative.Peri concludeva che nel Trapanese esisteva un’unica, po-tente organizzazione mafiosa facente capo a SalvatoreZizzo, che aveva preso in appalto i quattro sequestri: duein Sicilia, uno in Puglia e l’altro in Lombardia. I riscontrierano dati dalla singolare circolazione delle banconotetra personaggi tutti legati alla mafia del Trapanese e dal-la presenza nei luoghi dei sequestri delle persone indizia-te. Le finalità della mafia esulavano, secondo Peri, «dalmero conseguimento del prezzo del riscatto». Non erauna questione di denaro, insomma, ma c’era qualcosa dipiù. Il terrorismo nero e Cosa nostra avevano trovatobuone ragioni per un’alleanza.La mafia, per volere dei boss dominanti in quel periodo(Stefano Bontade e Gaetano Badalamenti), aveva decisoche la Sicilia doveva restare fuori dall’affare dei rapimen-ti. I sequestri erano permessi, ma lontano dall’Isola. Ne-gli anni Settanta non è più così, qualcosa si rompe nono-stante il governo della criminalità organizzata sia semprenelle stesse mani e nonostante il “ribelle” Luciano Liggiofinisca in carcere il 4 luglio 1974.Le tesi del poliziotto non hanno molto a che spartire conquelle dei carabinieri, che in un rapporto del nucleoispettivo di Palermo, inviato il 13 ottobre 1976 alla pro-cura del capoluogo siciliano e a quella di Marsala, sosten-

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gono che un certo Vito Cordio, scomparso il 2 luglio1975, avrebbe chiesto alla cosca competente per territo-rio, cioè a quella di Zizzo, il permesso di rapire il notabi-le; ma la mafia non sarebbe stata d’accordo. Secondo Pe-ri, dunque, Cosa nostra partecipa al sequestro; mentreper i carabinieri vi si oppone. Un dettaglio non da poco.Il poliziotto mostra anche di non credere che una serie dieventi accaduti ad Alcamo, nel Trapanese, fossero ricon-ducibili solo alla mafia. La sera del 26 aprile 1975 vieneucciso un consigliere socialista, Antonino Piscitello.Quella stessa notte vengono trovati quattordici candelot-ti di dinamite, che se fossero esplosi avrebbero provocatouna strage di innocenti. La mafia elimina i nemici, ma per-ché dovrebbe far saltare in aria mezzo quartiere in unaterra dove governa indisturbata? Il 28 maggio successivoammazzano ad Alcamo un assessore democristiano, Fran-cesco Paolo Guarrasi, e il 22 giugno qualcuno tenta di uc-cidere due carabinieri a colpi di lupara, mentre transitanosu un’auto di servizio. Una vita un po’ troppo movimenta-ta per una cittadina di cinquantamila abitanti, ordinata-mente truffaldina, dove si fanno grandi affari col vino, ra-ramente prodotto con l’uva. Alcamo detiene due record:il più alto consumo pro capite di zucchero in Italia e il piùalto numero di automobili rispetto alla popolazione.Il 26 gennaio 1976 due carabinieri, Carmine Apuzzo eSalvatore Falcetta, vengono massacrati nella casermettadi Alcamo Marina. A dare l’allarme sono gli uomini discorta di Giorgio Almirante che passano da lì tornandoda un comizio del segretario missino. La colpa viene da-ta a un anarchico (piazza Fontana insegna), GiuseppeVesco, che si suicida in carcere prima della sentenza edopo aver fatto i nomi di tre complici: Vincenzo Ferran-

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telli, Gaetano Sant’Angelo, entrambi riparati all’estero, eGiuseppe Gulotta, condannato all’ergastolo nel 1990. So-lo una ventina di anni dopo un ex brigadiere che si eraoccupato della strage, Renato Olino, stanco di mantene-re un segreto così pesante, racconta che la pista anarchi-ca era stata stabilita a tavolino dai carabinieri, i quali, asuon di botte, avevano convinto i colpevoli designati aconfessare responsabilità che non avevano. Ottenuta larevisione del processo, Gulotta è stato ritenuto estraneoalla strage, e scarcerato, dalla sentenza della Corte d’ap-pello di Reggio Calabria, emessa il 13 febbraio 2012.Nel ’76 gli investigatori avevano tentato di tirare dentro,senza riuscirvi, anche Peppino Impastato, il militante diLotta Continua che sarà ucciso due anni dopo dalla ma-fia. Il quadretto che disegna le responsabilità della sini-stra extraparlamentare sembra perfetto e già collaudato.Solo trentasei anni dopo avremmo appreso che si eratrattato di un depistaggio, ma Peri aveva intuito subitoche la ricostruzione ufficiale non funzionava.L’uccisione dei due carabinieri aveva finito per gettare ilpanico tra la popolazione. Nel suo rapporto il commissa-rio descrive la cittadina di Alcamo come avvolta dallapaura: «L’allarme in tutti gli strati della popolazione èenorme, al massimo. I negozi di ferramenta e i fabbri in-crementano i loro incassi per la vendita di chiavistelli e lacollocazione di sbarre metalliche per chiudere, la sera,con sicurezza, dall’interno, porte, portoni e finestre delleabitazioni private, onde scongiurare temuti assalti not-turni nel cuore della notte, durante il sonno». Non sem-bra la descrizione di un dormiente paesone del Sud, go-vernato dalla mafia che ha sempre saputo chi colpire eche ha sempre mirato contro i propri nemici.

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Nella città governata dalla cosca capeggiata dalla fami-glia Rimi, un po’ tutti si sentono nel mirino e sembra chele “regole” di un tempo non funzionino più. Del resto, senella vicina Salemi un uomo come Corleo è stato rapito,qualcosa ha turbato gli equilibri di sempre. Nel Trapane-se, la geografia del potere mafioso era chiara a tutti: Ziz-zo governava a Salemi, Buccellato a Castellammare delGolfo, Marino a Paceco, i fratelli Minore a Trapani. Dalleloro roccaforti, le famiglie estendevano il controllo sul-l’intera provincia e non c’era un metro quadro di territo-rio non “sorvegliato”.Gli attentati di Alcamo fanno capire all’acuto Peri chequalcosa si è rotto. Il poliziotto guarda indietro negli an-ni e capisce che la Sicilia non è rimasta immune da quelfenomeno che viene chiamato strategia della tensione.Intuisce che la mafia non è stata a guardare mentre igruppi terroristici progettavano un nuovo assetto politi-co del Paese, anzi ha preso per tempo le misure per nonrestare spiazzata davanti all’eventuale capovolgimentodegli equilibri istituzionali. È una buona ragione per al-lacciare un qualche rapporto con gli intrusi – dopo aver-lo fatto nel ’70 in occasione del tentato golpe Borghese –perché serve a ribadire il suo potere sul territorio e a nonfarsi sorprendere dai mutamenti.A Palermo, il 15 maggio 1969 erano stati arrestati settemembri della Giovane Italia, che da un mese andavano ingiro per la città a piazzare bombe nelle caserme dei cara-binieri, nel carcere dell’Ucciardone e nella chiesa ReginaPacis. Nel capoluogo siciliano si muove agilmente Pier-luigi Concutelli; nella Sicilia orientale sono di casa il fon-datore di Avanguardia nazionale Stefano Delle Chiaie eVittorio Quintavalle. I neofascisti, insomma, non si fer-

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mano a Reggio Calabria come ha creduto la pubblicisticadel tempo. Anche l’Isola è penetrabile, anzi, qui i referen-ti mafiosi mostrano una certa “laicità”, interessati comesono a guadagnarci qualcosa.A Sant’Anna, nella campagne fra Trapani ed Erice, Periaveva trovato una grande quantità di bossoli a terra in uncampo paramilitare dove si esercitavano i neofascisti.Era un’ulteriore conferma che la mafia, padrona del ter-ritorio, conosceva e autorizzava quelle operazioni.

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CAPITOLO II

MEMORIE DEL SOTTOSCALA

Le ipotesi di Peri sulla sciagura del Dc 8 creano un po’ discandalo. Tra i passeggeri, lo ricordiamo, c’era il magi-strato Ignazio Alcamo e anche per questa ragione il com-missario avanza l’ipotesi di un attentato. Se quello diMontagna Longa era stato classificato come un inciden-te, da quel momento lo scenario cambia; ma l’investiga-tore è l’unico a ritenere che ci sia altro e che quell’episo-dio sia stato l’inizio della saldatura tra potere mafioso eterrorismo. Se si trattasse di una strage, insomma, sareb-be la più grave dell’era repubblicana: a Ustica, sull’aereodell’Itavia abbattuto il 27 giugno 1980, morirono 81 per-sone; a Montagna Longa, le vittime furono 115.Peri non crede alle coincidenze e confronta la data del-l’uccisione di Scaglione con quella della sciagura aerea:entrambi gli eventi sono accaduti il 5 maggio, a distanzadi un anno l’uno dall’altro. Qualcuno ha voluto lasciareuna traccia, sospetta il poliziotto, per consentire di colle-gare i due episodi.Come si è detto, Alcamo aveva firmato le misure di pre-venzione per Francesco Vassallo e per Ninetta Bagarella.Era un giudice coraggioso, riservato. Non aveva scorta eper andare al lavoro utilizzava la sua Fiat 1500 nera. Cin-que giorni dopo la sciagura avrebbe dovuto essere elettoal Consiglio superiore della magistratura, che si riunì il10 maggio. Il suo posto al Csm fu preso da Silvio Coco,poi diventato senatore democristiano e sottosegretarioalla Giustizia.

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Quel 5 maggio, il giudice Alcamo era a Firenze. Un’autolo accompagnò a Fiumicino e riuscì a prendere l’aereograzie al ritardo del volo. Si sedette nei posti di coda, laparte del velivolo che subì meno danni e infatti il suo cor-po fu trovato quasi integro. Il riconoscimento lo compìCarlo Alberto Dalla Chiesa, da poco tornato a Palermoper dirigere la legione carabinieri.Due giorni dopo la morte di Alcamo, Mario Francese, ilcronista che nel ’78 sarà ucciso dalla mafia per le sue in-chieste, ricorda così il magistrato sul “Giornale di Sicilia”:«I suoi interventi nulla concedevano al superfluo e al re-torico. […] Si distinse nelle sedute della sezione speciale

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Carlo Alberto Dalla Chiesa (a sinistra), a destra il pm Do-

menico Signorino.

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per le misure di prevenzione (presidente Giovanni Pizzil-lo) della Corte d’appello negli anni seguenti alla strage diCiaculli. […] Non fu mai incline al compromesso. Amò laverità processuale ed ebbe il culto dell’obiettività non di-sgiunta da umanità. L’ultimo caso clamoroso da lui trat-tato: la proposta per il soggiorno obbligato del costrutto-re edile palermitano Francesco Vassallo. Anche in questaoccasione Alcamo dimostrò un senso spiccato di analisi euna grande dose di coraggio».Dopo la sua morte, nessuno pensò più di importunareVassallo, che non subì mai condanne e di anno in anno in-crementava il proprio patrimonio. Il tema degli appaltitornò tragicamente nell’agenda della magistratura ottoanni dopo con Gaetano Costa, il procuratore della Re-pubblica di Palermo ucciso il 6 agosto 1980 dopo aver fir-mato da solo (vista la titubanza dei suoi sostituti) cin-quanta ordini di cattura per altrettanti mafiosi.Il figlio di Ignazio Alcamo, Vittorio, aveva otto anni quan-do il padre morì. Oggi fa il giudice a Palermo. Da buonmagistrato non ha idee preconcette su quanto accadutoa Montagna Longa, ma da tecnico riconosce che le inda-gini lasciarono a desiderare e ritiene che il motivo sia daattribuire agli scarsi strumenti di cui disponevano gli in-vestigatori del tempo.Sulla vicenda di Montagna Longa, Peri non si sofferma alungo. Quando se ne occupa, il processo è ancora in cor-so, ma l’intera vicenda cade nel dimenticatoio. Con glielementi di cui dispone, Peri parte da alcune considera-zioni: il pilota dell’AZ 112 – è la sua tesi – diede prece-denza a un volo proveniente da Catania (un aereo del-l’Ati era atterrato poco prima della sciagura a Punta Rai-si e se ne trova traccia nelle comunicazioni della torre di

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controllo) e per questo ritardò di dieci minuti l’atterrag-gio. L’inchiesta stabilirà che il Roma-Palermo non diedela precedenza a un altro volo, ma che semplicementel’AZ 112 aveva ritardato di 25 minuti il decollo. Un rap-porto di polizia, del resto, è un atto riservato e prelimina-re all’apertura di un’eventuale inchiesta giudiziaria e nonha il dono della precisione.«L’attentatore, in possesso di una carica esplosiva ad orolo-geria, non voleva di certo la propria morte», si legge nelrapporto, «ed approssimandosi il momento del contattodelle due lancette e, quindi, dell’esplosione, non si autode-nunziò al personale di bordo per ovviare alla deflagrazionee i dieci minuti di ritardo dell’atterraggio avrebbero fattoesplodere la carica a bordo. Ne discende che l’attentatorenon avrebbe voluto anche la sua morte e forse nemmeno lastrage, perché ne sarebbe stato coinvolto; avrebbe volutoforse il danneggiamento dell’aereo già atterrato, allorquan-do tutti i passeggeri, lui compreso, fossero già scesi a ter-ra». L’attentato così concepito, si chiede Peri, non sarebbebastato a screditare lo Stato alla vigilia delle elezioni?Poi aggiunge altre considerazioni: alcuni cadaveri si pre-sentavano disintegrati, cosa che non avviene a seguito diurti violenti; parecchi cittadini di Carini videro l’aereo giàin fiamme; in caso di avarie agli strumenti di bordo il pilo-ta avrebbe avuto dei secondi per segnalarle a terra, invecel’improvvisa deflagrazione non gli ha dato il tempo di farlo.La mancata rivendicazione dell’ipotetico attentato laspiega così: «Nessuna trama eversiva l’avrebbe rivendi-cato: trattandosi di vittime innocenti non avrebbe conse-guito consensi per screditare lo Stato alla vigilia delleelezioni, anzi, avrebbe conseguito una condanna genera-le. Sarebbe stato rivendicato se fosse stato distrutto o

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danneggiato soltanto l’aereo una volta atterrato». La si-tuazione, insomma, era sfuggita di mano: un atto dimo-strativo si era trasformato in una strage.Peri non sembra avere un’idea precisa della dinamica,piuttosto prova a costruire un’ipotesi, sperando che que-sta serva ad allargare le indagini. L’unica cosa di cui sem-bra certo è che le cose non sono andate come l’indaginele ha descritte.Il rapporto non ebbe fortuna. Per la prima volta compar-ve in un’aula di tribunale il 3 ottobre 1977, a Taranto, du-rante il processo per il rapimento Mariano eseguito dauna composita banda di fascisti, mafiosi e delinquenti co-muni, che vedeva tra gli imputati il reo confesso LuigiMartinesi, figlio dell’ex federale di Brindisi, e l’assassinodi Occorsio, Pierluigi Concutelli, il primo nome dei tren-tuno denunciati da Peri nel suo rapporto. Ma i giudicinon lo presero in considerazione, neanche quando Marti-nesi spiegò che i soldi del sequestro Mariano dovevanoservire a finanziare un movimento rivoluzionario neofa-scista e che in una riunione a Roma, nei primi mesi del’75, erano stati decisi quattro rapimenti, avvalendosi del-la manovalanza mafiosa.«Troppo grossa è questa bomba, capisco la riservatezza ditutti a pronunciarsi», disse Peri a “L’Europeo” nell’ottobredel ’77. E aggiunse: «Ho gettato le mie reti e come ognibuon pescatore ho raccolto il pesce. E non si tratta di robacongelata». Chi lo frequentava in quel periodo, ricorda cheera furibondo per la pubblicazione di notizie sul suo rap-porto, finite oltre che su “L’Europeo” anche sul quotidiano“Trapani Sera”, che ne pubblicò stralci l’8 ottobre 1977.Il documento continuò a restare nei cassetti delle procu-re, ma dopo che i giornali avevano diffuso la notizia, arri-

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varono anche gli ingenerosi commenti della magistratu-ra: a Taranto il pm del processo Mariano definisce “farne-ticanti” le ipotesi di Peri; il procuratore di Marsala, Fran-cesco Coci, che gli aveva affidato l’approfondimento del-le indagini sul sequestro Corleo, dice di essere rimastosorpreso da certe aggiunte non concordate preventiva-mente tra il suo ufficio e Peri; il procuratore di TrapaniGiuseppe Lumia definisce “generiche” le tesi di Peri; in-fine, il sostituto della procura di Palermo, Giusto Sciac-chitano, dopo un incontro a Trapani con il poliziotto, loaccusa di dilettantismo.La scarsa fortuna del rapporto si trasformò in un proble-ma per la carriera del poliziotto. Peri fu richiamato a Tra-pani il 12 aprile 1977 e vi rimase fino al 29 luglio 1978, ilgiorno in cui, rientrato dalle ferie, dovette lasciare la se-de. Così aveva deciso il ministero dopo un’ispezione con-dotta in estate, mentre Peri era in ferie. Sarà spedito inun commissariato della provincia di Messina e poi a Pa-lermo. Proverà a ribellarsi, trasmettendo al questore e alprefetto di Trapani un’istanza nella quale chiede di esse-re ascoltato dal capo della polizia. Non accade niente.L’8 febbraio 1979, il questore Vanni Aiello scrive un rap-porto informativo su Peri ai colleghi di Palermo, e siesprime così: «Peri è dotato di larga esperienza, di otti-ma preparazione giuridica e di capacità tecnico-profes-sionali; ha evidenziato particolare zelo specie nei servizidi polizia giudiziaria, e notevole attaccamento al lavoro.Tuttavia, per il suo carattere introverso e la sua accen-tuata diffidenza, i suoi rapporti con gli ambienti dell’uffi-cio, in specie con colleghi e superiori, non sono stati deimigliori, tanto da creare attriti e tensioni. Proprio in re-lazione di tali riflessi negativi, il dottor Peri è stato ogget-

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to, nell’aprile del decorso anno, di un’inchiesta condottada un ispettore ministeriale nell’estate successiva. Si ri-tiene comunque, nel complesso, per quanto di compe-tenza, che al dottor Peri possa essere attribuita la quali-fica di ottimo». Un bel tappeto rosso per chi se ne va.Se a trasferimento avvenuto Aiello si prodiga in compli-menti per Peri, il 20 aprile 1978, quando il ministero aprela pratica ispettiva, il vicequestore vicario di Trapani,quel Giuseppe Varchi che troveremo negli elenchi dellaP2, scrive all’ispettore generale capo della polizia Fran-cesco Saverio Romanelli, sollecitato da quest’ultimo,spiegandogli di essere sempre stato gentile con Peri,«male ricambiato, forse a causa della sua bocciatura agliesami per commissario capo. Ha nutrito una ostilità vela-ta da atteggiamenti di insofferenza. Ha mostrato la ten-denza a disattendere i superiori e ad emarginarsi dai col-leghi. Ad Alcamo, per timore di attentati, si pose in unpregiudizievole isolamento, oltre a girare armato conbombe a mano sull’auto… È stato da me diffidato a pre-sentare al questore copia dei rapporti giudiziari da lui re-datti, ma a quanto mi risulta non vi ha mai ottemperato».Per finire, il prefetto Adolfo Pacillo gli assesta il colpo digrazia, scrivendo il 5 gennaio 1978 al ministero e spie-gando che Peri è poco più che un paranoico. C’è da fareattenzione alla data: la lettera del prefetto precede di cir-ca quattro mesi l’ispezione ministeriale e non è esclusoche ne sia la causa. Pacillo dice che «si rende indilazio-nabile il suo allontanamento da questa provincia», puressendo «a onor del vero, un funzionario di esperienza eprofessionalmente capace, per cui potrebbe trovare pro-ficuo impiego in altro ambiente». E aggiunge che Peri«ha spacciato un banale fatto meccanico per un mostruo-

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so tentativo di sabotaggio, facendo una denuncia per ten-tato omicidio a carico della questura: di ciò si è avuta no-tizia dal procuratore di Trapani».Di quale episodio parla il prefetto? A Trapani qualcunoallentò i bulloni di una ruota dell’auto di servizio usata daPeri. Era il 26 settembre 1977. Il giorno dopo il poliziot-to scrive un promemoria sull’episodio e il 29 presenta al-le procure di Marsala e di Trapani una formale denuncia,rimasta nel cassetto:

Verso le 9.30 sono partito da Trapani con la solita autovettura dellaquestura, la Fiat 128 targata AG 76406, guidata dall’autista guardiadi P.S. Carofilo Domenico, diretto alla procura di Marsala, ove alle ore10 dovevo partecipare ad una riunione presieduta dal sig. Procurato-re della Repubblica dr. Coci, con l’intervento del sostituto procurato-re della Repubblica di Palermo, dr. Sciacchitano, del vice questoredella Criminalpol dr. Contrada1 e del dr. Peri Aldo della Mobile di Tra-pani. Pervenuti nella via Marsala di Trapani, ci siamo fermati a cau-sa di un continuo rumore proveniente dal motore, lato destro, ed ab-biamo controllato la staticità della ruota anteriore destra e, trovata-la normale, abbiamo proseguito il viaggio a velocità ridotta, ritenen-do trattarsi di guasto alla ventola del radiatore. Terminata la riunio-ne verso le 13.30, il predetto autista, prima di riprendere il viaggio diritorno a Trapani, mi riferiva che un meccanico di Marsala avevaispezionato detta autovettura ed aveva trovato due bulloni della ruo-ta anteriore sinistra molto svitati e gli altri due allentati e che, nellacircostanza, gli aveva detto: “come mai, correndo, non vi siete am-mazzati?”. L’autista aveva risposto che aveva mantenuto una veloci-tà di marcia ridotta. Il giorno successivo, 27 corrente, ho chiesto al ca-po garage della questura, maresciallo Moretti, chiarimenti, ed egli,

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1. Bruno Contrada, che diventerà il numero tre del Sisde, nel 2007 sarà condannato a dieci anni, consentenza definitiva della Cassazione, per associazione esterna alla mafia.

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presenti diversi meccanici, mi ha riferito che alla autovettura in que-stione – che fino a venerdì scorso, 23 corrente, era normale avendolaio usata per Marsala – non era stata cambiata alcuna ruota perchéforata, né per altri motivi. Essendo egli capo garage, ciò non gli risul-tava da alcuna relazione, neppure orale. Pertanto non sapeva dare al-cuna spiegazione all’allentamento dei bulloni della ruota anteriore si-nistra e precisava che i bulloni, da sé, non possono allentarsi essen-do la loro avvitatura in senso contrario alla direzione di marcia del vei-colo. Ieri, accompagnato dalla guardia autista Carofilo Domenico, misono presentato, con la stessa autovettura Fiat 128, al meccanico diMarsala Ampola Vito, con officina in via Orazio 4, nelle adiacenze deltribunale, per avere chiarimenti circa il grado di svitatura dei bullonidella ruota anteriore sinistra da lui stesso constatato e poter, quindi,formulare un giudizio sull’idoneità dello stratagemma escogitato percommettere un reato, risultando esclusa l’ipotesi della dimenticanzadell’avvitatura. Egli ha dimostrato, svitandoli fino al punto constata-to, che due dei quattro bulloni della ruota in questione erano comple-tamente svitati e che bastava una minima torsione per toglierli, men-tre gli altri due erano molto svitati. Il suddetto meccanico, avuta con-ferma che detta ruota, da venerdì 23 corrente non era stata cambiataper foratura e che, quindi, l’allentamento dei bulloni non era dovuto adimenticanza di avvitamento, ha tenuto a precisare che trattavasi di“atto di sabotaggio”, poiché i bulloni, una volta avvitati bene, da solinon possono svitarsi. Ribadiva, nella circostanza, il grave pericolo cheha costituito durante il viaggio tale atto di sabotaggio. Infatti, lo svi-tamento dei bulloni della ruota anteriore sinistra avrebbe determina-to, in caso di marcia veloce, un improvviso e pericoloso sbandamentocon invasione della corsia opposta e, data l’intensità del traffico sul-la statale 115, un sicuro scontro frontale con altri automezzi, menoprobabile in caso di svitatura dei bulloni di una delle due ruote poste-riori o di quella anteriore destra. Non si è verificato l’evento criminosovoluto, perché il rumore della ruota allentata ha messo in allarme, du-

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rante la marcia, i componenti l’equipaggio, che hanno continuato ilviaggio a velocità ridotta, ritenendo trattarsi di lieve guasto alla ven-tola del radiatore. Se non fosse stato avvertito alcun rumore, proce-dendo a velocità sostenuta si sarebbe verificato certamente l’evento.

Nel promemoria stilato il 27 settembre, in coda agli ap-punti che riguardano i bulloni della ruota, Peri aggiunge:«Della riunione suddetta [quella alla procura di Marsala,nda] avevo informato, sabato decorso 24, il questoreAiello e il dr. Peri Aldo. E tramite questi ne sarà venutoa conoscenza il vicequestore dr. Varchi».Il promemoria continua così:

A questo punto faccio presente quanto segue in relazione ad eventua-li fatti che possano, nel futuro, mettere in pericolo la mia incolumitàpersonale. Tre o quattro giorni dopo l’omicidio del colonnello Russo,avvenuto il 20 agosto ’77, nell’atrio della questura ho visto il giorna-lista de “L’Ora” Tanino Rizzuto che conversava con dr. Peri Aldo e colmaresciallo Fodale. Passando accanto e scambiata qualche parolaconvenevole li ho salutati e mi sono avviato alla mia autovettura. Ilpomeriggio del giorno dopo sul giornale “L’Ora” ho letto, mentre mitrovavo nell’ufficio del capo gabinetto facente funzioni dr. Bonura, unarticolo a firma di Tanino Rizzuto che collegava, a caratteri cubitali,l’omicidio di Russo col sequestro Corleo, “le cui indagini sono condot-te dal procuratore della Repubblica di Marsala, che si avvale di unfunzionario di P.S. della questura di Trapani da lui scelto”. Contem-poraneamente mi ha chiamato il questore Aiello, il quale, nel comu-nicarmi di aver letto anch’egli detto articolo, mi confermava cheavrebbe telefonato al questore di Palermo per far richiamare il dr.Contrada, che a suo giudizio, aveva fornito a “L’Ora” la suddetta no-tizia, avendo egli partecipato, alcuni mesi prima, a Marsala, ad unariunione di indagini per sequestri di persona. Ho obiettato che la no-

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tizia era partita da Trapani e non da Palermo e che il dr. Contrada nonpoteva averla data, poiché “L’Ora” pubblica integralmente l’articoloinviato dal corrispondente locale. Ho aggiunto che data la efferatez-za recente dell’omicidio del colonnello Russo e del suo amico Costa,non era opportuno pubblicare il particolare nei termini di cui sopra eche si poteva fare aggiungere anche il nome e cognome del funziona-rio di P.S. se l’intenzione era quella di farlo uccidere. Uscito dallastanza del questore ho incontrato, nell’ufficio del capo gabinetto, ildr. Peri Aldo, il quale, spontaneamente, comunicandomi la notizia de“L’Ora” mi ha detto: “Io ieri ho parlato con Tanino Rizzuto, però nongli ho detto il fatto del funzionario. Rizzuto ha anche parlato con Var-chi, ma non so se la notizia l’ha fornita lui”. Evidentemente il dr. Pe-ri Aldo non poteva negare l’incontro con Rizzuto del giorno prima,avendolo notato io stesso nel cortile della questura conversare con ilgiornalista Rizzuto, come anzidetto. Il giorno seguente mi presentoall’ufficio del dr. Varchi ed accenno a quanto pubblicato da “L’Ora”,senza darne carico ad alcuno, né elevando sospetti. Il dr. Varchi spon-taneamente mi ha detto: “Io l’altro ieri ero in permesso, ieri di riposo,il giornalista Rizzuto non l’ho visto”, cadendo in contraddizione conquanto affermato il giorno prima dal dr. Peri Aldo. Non ho fatto nota-re la contraddizione, e come se nulla fosse accaduto mi sono conge-dato. Alcuni giorni dopo, e precisamente il 13 corrente, il questoreAiello mi ha convocato nel suo ufficio e, tra l’altro, mi ha comunica-to che il capo della Polizia Parlato2, letto l’articolo in questione su“L’Ora”, era intervenuto col questore di Palermo, il quale aveva ulte-riormente richiamato il dr. Contrada che, a sua discolpa, attribuiva lanotizia data a “L’Ora” forse a qualche suo incauto sottufficiale. Riba-divo ancora che la notizia era stata data da Trapani e riferivo che ildr. Varchi, da me richiesto di notizie in merito, mi aveva detto di non

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2. Si tratta del prefetto Giuseppe Parlato, originario di Partanna, nel Trapanese, nominato alla guida del-la Polizia nel novembre precedente e sollevato dall’incarico nel gennaio del 1979, dopo l’evasione dei neo-fascisti Freda e Ventura.

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aver parlato col giornalista Rizzuto in quei giorni perché assente dal-l’ufficio, contraddicendo quanto affermato, invece, dal dr. Peri Aldo.Il questore Aiello ribadiva che il dr. Peri Aldo aveva detto anche a luiche il Varchi aveva parlato con Rizzuto e lamentava, infine, che nel-l’amministrazione della P.S. “leggerezze del genere non sono ammes-se”. Alla mia osservazione che le mendaci affermazioni del dr. Varchimi inducevano a ritenere che una notizia del genere di quella data algiornalista avrebbe potuto indirizzare anche sulla mia persona i kil-ler del colonnello Russo, ammesso che il movente di detto omicidiofosse l’insistenza nelle indagini sul sequestro Corleo da parte delsuddetto ufficiale – come affermato a caratteri cubitali nell’articolode “L’Ora” – il questore Aiello ribadiva che “leggerezze del genere nonsono ammesse”. Ribadivo, allora, che per le mendaci affermazionidel dr. Varchi, scartavo l’ipotesi che la notizia fosse stata data per“semplice leggerezza” anche da qualche collega – in tal caso perdo-nabile – e che incominciavo a credere sulla cattiveria dei propositi dichi aveva dato la notizia su riportata. Non so se l’allentamento deibulloni dell’autovettura, bulloni che da soli non si possono svitare,sia collegata a quanto sopra riferito, tenuto presente, anche in rela-zione alla sfera politica che investe il mio rapporto del 22, si fa pre-sente che lo svitamento della ruota anteriore sinistra avrebbe deter-minato, in caso di marcia veloce, un pericoloso ed improvviso sban-damento, con invasione della corsia di marcia opposta e, data l’in-tensità del traffico sulla statale 115, un sicuro scontro frontale conaltri automezzi; non così in caso di svitamento dei bulloni di una del-le due ruote posteriori o di quella anteriore destra.

Peri, in effetti, lavorava a Marsala alle indagini sul seque-stro Corleo, e aveva sostituito in quel ruolo il colonnellodei carabinieri Giuseppe Russo, l’ufficiale che nell’inchie-sta di Montagna Longa aveva avuto una parte: era stataconsegnata proprio a lui, per portarla nei laboratori di

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Roma, la scatola nera del Dc 8 recuperata il giorno dopola sciagura dal capitano dei carabinieri Savino, quella chepoi risultò inservibile a causa del nastro spezzato. Stupi-sce che Bruno Contrada, per quanto Peri non gli attribui-sca alcuna colpa riguardo alla fuga di notizie, sia nel ’77indicato come probabile responsabile di quella soffiata.Evidentemente, tra i suoi colleghi non godeva di grandereputazione già a quel tempo.A metà del ’78, Peri fu trasferito alla questura di Paler-mo. La notte del primo gennaio 1982 morì. Aveva 54 an-ni, metà dei quali trascorsi in polizia. Lasciava la moglie,morta nel settembre 2009, e due figli. Quella notte, dopoaver brindato con i colleghi della questura e dopo la ce-na in famiglia, a Palermo, Peri aveva vomitato. Nessunopensò a un problema cardiaco e tutti ritennero che sitrattasse di indigestione. Invece, dissero i medici, erastato un infarto. Il pomeriggio del 31 dicembre, fino a se-ra, era stato al lavoro. In seguito gli fu riconosciuta lacausa di servizio: lo stress aveva contribuito a stroncarlo.Sul suo corpo non fu eseguita alcuna autopsia.Negli appunti del poliziotto ricorre il nome di Aldo Peri.Tra i due non c’era alcun rapporto di parentela e nessu-na passione comune. Aldo Peri aveva una visione nonproprio ortodossa del suo mestiere e nel 1978 finì in ga-lera con l’accusa di sfruttamento della prostituzione: per-cepiva “tangenti” da alcune prostitute. Fu sostituito daNinni Cassarà, il poliziotto che il 6 agosto 1985 sarà mas-sacrato a Palermo da un commando mafioso.Giuseppe Varchi, anche lui alla questura di Trapani, nonamava Giuseppe Peri, preferiva altri giri, come la LoggiaP2, “hobby” che coltivava insieme al procuratore capo diMarsala Salvatore Cassata, che non si può annoverare tra

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i fan del vicequestore. Il piduista Cassata – morto il 18 ago-sto 1989 in quello che a prima vista era sembrato un inci-dente stradale, ma che qualche anno dopo il pentito Rosa-rio Spatola rivelò essere un attentato – fu trasferito a Na-poli dopo la censura del Csm scaturita dall’iscrizione allaP2. Cassata, che aveva ignorato il rapporto Peri ma avevaassegnato al suo autore le indagini sul rapimento Corleo,mise una buona parola per trasferire altrove il poliziotto.Di questo magistrato gli appassionati di musica pop ricor-deranno il brano di una canzone di Roberto Vecchioni, cheaveva avuto il privilegio di essere arrestato proprio da lui,con l’accusa di aver offerto uno spinello a un minorenne. Ilcantautore era finito in cella e il magistrato che lo avevamandato in galera, subito dopo era andato in ferie: “Signorgiudice,/le stelle sono chiare/per chi le può vedere,/maga-ri stando al mare./Signor giudice,/chissà che sole:/si copra,per favore, che le può far male”. Va detto, per la cronaca,che Vecchioni fu assolto con formula piena.I mafiologi sapranno, invece, che tra i parenti di Cassatac’è Francesco Bonventre, suo cognato, arrestato nel2002 nell’operazione “Peronospera” e tornato libero dueanni dopo tra la sua gente, a Marsala, che organizzò unafesta per la scarcerazione.In un altro promemoria, datato 16 aprile 1977, Peri ripor-ta una conversazione avuta con il questore Aiello il gior-no precedente verso le 18, alla presenza di un funziona-rio dell’ufficio, il dottor Chiappisi. Peri esibisce al suo su-periore una lettera del procuratore di Marsala, Coci, chelo invita ad andare a Taranto sempre per le indagini cheriguardano i sequestri di persona. Nella città pugliese, ilpoliziotto incontrerà il giudice istruttore Morelli che sioccupa del sequestro Mariano. Su quattro pagine di car-

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ta protocollo, recanti la sua firma e finora inediti, il poli-ziotto riporta così quella conversazione che spiega laqualità dei rapporti che intercorrevano con Aiello.

– Aiello: È una lettera anomala, anomala come è anoma-la la comunicazione con teleradio da lei fatta da Alcamosulla questione Concutelli [il riferimento è alle indaginisui rapimenti, nda], ipotesi platonica.– Peri: Farneticante l’ha definita lei a suo tempo. L’ipote-si non è né platonica né farneticante perché ha un ri-scontro obiettivo. Lei mi ha contestato che la comunica-zione di tale ipotesi l’avrei dovuta fare da Alcamo con “ci-frato”, ma ritenevo questo una contraddizione e non co-sa necessaria, poiché alcuni giorni prima avevo letto sul“Giornale di Sicilia” che personale del Nucleo antiterrori-smo di Catania e della questura di Trapani (dr. Giuffridae Bonura) avevano ricercato il Concutelli Pier Luigi nelterritorio di Salemi e Castelvetrano, nelle stesse contra-de ove era stato ricercato il sequestrato Corleo Luigi.– Aiello: Che indagini deve fare a Taranto.– Peri: Debbo leggere dei processi presso quel giudiceistruttore, in relazione alla ipotesi Concutelli-Corleo.– Aiello: A Lecce sono stati eseguiti arresti, vi è qualcu-no della provincia di Trapani?– Peri: Non leggete i giornali? Alcuni giorni fa ho letto sul“Giornale di Sicilia” che a Taranto, per il sequestro delbanchiere Mariano, sono state arrestate diverse persone,elencate nel giornale stesso.– Aiello: Vi è qualcuno della nostra provincia?– Peri: Sì, lo so per averlo appreso dal “Giornale di Sici-lia”. Vi è Miceli Salvatore da Salemi.– Aiello: Chi pagherà le spese per il suo viaggio? Noi o la

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procura di Marsala? Bisogna chiedere l’autorizzazione alMinistero dell’Interno. Qual è la prassi?– Chiappisi: Non so. Sono indagini, andare a fare una per-quisizione, un arresto.– Peri: E anche sono indagini di polizia giudiziaria anda-re a Taranto o in altre città a prendere visione, leggendo,di altri fatti delittuosi connessi o meno con altri delitti ve-rificatesi in questa provincia. In occasione del sequestroCaruso andai a Milano, a richiesta del Giudice istruttoredel tribunale di Palermo, e le spese mi furono rimborsa-te dal Ministero dell’Interno.– Aiello: Chieda l’autorizzazione al ministero. Però allora(novembre ’76) non informai il ministero, né l’antiterrori-smo di Roma della sua ipotesi, perché la ritenevo platoni-ca. Ed anche perché è in corso una proposta di ricompen-se [di rimborsi, nda] fatta da Immordino e segnalando lasua ipotesi si cadeva in contraddizione. E se la faccio orala segnalazione al ministero per chiedere l’autorizzazioneper la sua partenza per Taranto, il ministero dirà: sonoquelli o questi i responsabili del sequestro Corleo?– Peri: Sono fatti suoi. Io faccio il mio dovere.– Chiappisi: E che dirà il dottor Santillo dell’antiterrori-smo? Il vice questore dottor Varchi potrà concordare conil dottor De Rosa del ministero una maniera…– Aiello: L’autorizzazione deve chiederla il prefetto. Iopotrei dire, se richiesto, che lei parte per indagini richie-ste dalla procura di Marsala ed essendo le indagini coper-te dal segreto d’ufficio, io non so il motivo per cui lei vaa Taranto.– Peri: Io debbo andare a Taranto. Non mi interessa lamancata comunicazione dell’ipotesi Concutelli al mini-stero, il quale potrebbe anche conoscere, in seguito, a

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mezzo stampa, la natura delle indagini che saranno dame svolte a Taranto. Il rimborso delle spese lo farà il Mi-nistero dell’Interno o quello di Grazia e Giustizia.– Aiello: Quanti giorni mancherà? Parte di lunedì, avràtutta la settimana a disposizione.– Chiappisi: Parte il 26 corrente.– Peri: (Non capendo tale differimento) No. La settima-na entrante, il 19 o il 20 corrente, non prima, perché il 18ho un impegno per un sopralluogo per un omicidio. Man-cherò tre, quattro giorni.– Aiello: Il ministero dando l’autorizzazione non fissa ilgiorno. Può partire quando vuole. Mi lasci la lettera.

Ma chi era Giuseppe Peri? «Un uomo solo», dice il gior-nalista Aldo Virzì che lo conobbe e lo frequentò. «Ma lasua era una solitudine speciale, consapevole, direi unascelta. Non mi parlò mai male di nessun collega, di nes-sun magistrato. Era di poche parole, aveva grande intui-to e rara intelligenza. Lavorava nelle stanze umide dellaquestura che si trovava in un vecchio convento. Fumavasenza sosta e considerando che le sue ore di veglia eranotante, perché dormiva davvero poco, ho calcolato checonsumava da quattro a cinque pacchetti al giorno diEsportazioni senza filtro.«Per quanto riguarda il rapporto, ero certo di non potercontare sulla sua collaborazione», ricorda Virzì, «e cosìdecisi di parlarne con i suoi colleghi Aiello e Varchi. Maebbi la chiara sensazione che non fossero interessati alcontenuto delle sue indagini e fu in quel momento checominciai a capire quanto poco lo amassero in questura.Non era solo una questione caratteriale. È vero, Peri nonfaceva nulla per farsi voler bene: aveva le sue durezze,

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non rideva mai, tutt’al più accennava a un movimentodelle labbra, se non erano occupate da una sigaretta. Mail dato caratteriale non spiega il suo isolamento né il tra-sferimento, che non fu certo un premio alla carriera».Il 5 ottobre 1977 Virzì pubblicò su “L’Ora” un articolo: “La‘bomba’ del commissario, dal processo di Taranto rimbal-zano molti misteri siciliani”. Nell’incipit scrive: «Perples-sità, imbarazzo e sgomento si colgono nelle parole delquestore di Trapani Aiello, quando con le copie dei gior-nali nazionali che ne parlano, chiediamo conferma di unrapporto della questura di Trapani inviato a quattro pro-cure [in verità sono otto, nda] e nelle quali si ipotizza chesarebbe stata un’unica organizzazione mista, tra delin-quenza mafiosa ed elementi del fascismo nero nazionale,a progettare e realizzare quattro dei più clamorosi seque-stri di persona».Nel corso del pezzo, Virzì scrive: «Il questore ci tiene subi-to a precisare che il rapporto non è dell’ufficio. […] Primadi riceverci si è consultato per mezzora con tutto il suostato maggiore. […] Le sue dichiarazioni, si capisce, sonostate concordate. Si intuisce che non si dà molto credito alrapporto. Inutile chiedere precisazioni: “Si rivolga al diret-to interessato”, aggiunge, “ognuno di noi risponde dei suoiatti”, facendo capire che Peri non la passerà liscia».Aurelio Bruno, decano dei cronisti di giudiziaria di Paler-mo, che oggi ha novant’anni, ricorda così Peri: «Dopo ilsuo trasferimento andai a trovarlo in questura. Gli aveva-no dato, ma solo sulla carta, l’incarico di dirigere la se-conda divisione della polizia giudiziaria. Era in una stan-za buia, un po’ umida. Ebbi l’impressione che l’avesseroisolato, anche fisicamente, relegato lì, in un angolo delpalazzo, dietro una vecchia scrivania».

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Il più grande dei due figli di Peri, Benigno, che abbiamoincontrato il 13 novembre 2009 a Trapani, dove vive, ri-corda che il padre non parlava mai di lavoro: «A casa nonmostrava preoccupazioni o timori. Non so se lo facevacon mia madre. Non l’ho mai sentito lamentarsi del suotrasferimento a Palermo, dove era giunto dopo un prece-dente trasferimento in un commissariato di provincia.Quando l’infarto lo uccise, il medico ci disse che forse sisarebbe potuto salvare se avessimo capito che il suo nonera un semplice mal di stomaco. Ma quel malessere sem-brava giustificabile, dopo il brindisi con i colleghi dellaquestura e dopo la cena di Capodanno. Come avremmopotuto intuire che la situazione era grave? Non c’eranomedici in famiglia».Roberto, il figlio minore di Peri, che nel ’76 aveva noveanni, ricorda il ticchettio della Lettera 22 nello studio delpadre, che dopo cena e fino a notte si attardava per scri-vere il suo rapporto. Quando divenne un po’ più grandeapprese che il papà poliziotto usava le ferie per continua-re in santa pace il suo lavoro, per fare riscontri, recarsisui luoghi, incontrare persone. «Non so che compiti gliabbiano assegnato ufficialmente quando lo trasferirono aPalermo», dice Roberto Peri, «ma so che si occupava digestire l’ordine pubblico allo stadio della Favorita duran-te le partite di calcio. Certo, tenere calma la curva non mipare che avesse nulla a che fare con il suo lavoro prece-dente. Leggendo oggi quel rapporto e vedendo come so-no andate le cose in Italia, sento un moto di orgoglio permio padre che ebbe il torto di avere ragione troppo pre-sto, quando il suo metodo d’indagine e le sue conclusio-ni erano considerati eresie».

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CAPITOLO III

I SOSPETTI DI UN CRONISTA PERBENE

Qualche anno prima che Peri mettesse gli occhi sugli stra-ni rapporti tra mafia ed eversione nera, il poco più cheventenne giornalista Giovanni Spampinato, amico di An-gela Fais, scoprì la presenza nel Ragusano di personaggicome l’allora latitante Stefano Delle Chiaie e Vittorio Quin-tavalle, che aveva fatto parte della X Mas di Junio ValerioBorghese e che fece perdere le sue tracce dopo essere sta-to sentito sul delitto del possidente Angelo Tumino. Primadi essere ucciso, Spampinato aveva scritto che in Sicilia «sipreparava qualcosa di grosso». Campria, condannato perl’omicidio del cronista, disse al maggiore della Guardia difinanza Carlo Calvano che una persona insospettabile gliaveva chiesto di corrompere dei finanzieri e di portare aPalermo, dietro compenso, una valigia di cui non conosce-va il contenuto. Calvano riferirà ai magistrati il contenutodi quel colloquio, spiegando che l’operazione di cui gli ave-va parlato Campria consisteva nel facilitare lo sbarco diuna nave proveniente dalla Jugoslavia con un quantitativodi sigarette del valore di duecento milioni di lire, dieci deiquali sarebbero andati a Campria. Quanto alla valigetta,l’omicida di Spampinato sospettava che contenesse droga.Sigarette e droga, soprattutto in quegli anni, spesso si ri-velarono una copertura per il trasporto di armi.Quella del Ragusano è sempre stata un’area governata dagiunte di sinistra, almeno fino a qualche anno fa, quandoroccaforti come Vittoria e Comiso cominciarono a cade-re. Lì la destra ha sempre provato a infiltrarsi. Quando

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nell’Italia degli anni Settanta si realizzavano false tesseredel Pci a uso dei terroristi neri, Ragusa conosceva giàquella tecnica: nel ’44, infatti, il fascista Renzo Renzi di-ventò segretario della Federazione comunista della città.E sempre a Ragusa, in quegli anni, Salvatore Cilia, chesarebbe diventato deputato regionale del Msi per due le-gislature e vicesegretario della Cisnal, fondò quella stra-na e trasversale associazione chiamata “Non partiamo”,diventata il titolo di un libro dello stesso Cilia. Vi aderiva-no potenziali reclute di tutte le estrazioni, unite da un in-teressato e improvviso sentimento anti-militarista.Di Giovanni Spampinato3 sono state trovate due letteredel 1972 indirizzate ad Angela Fais. Portano le date del28 febbraio e dell’11 marzo.

Ragusa, 28-2-’72Cara Angela,ti do altri elementi su Quintavalle, elementi che ho raccolto stamatti-na. Sono convinto che vale la pena andare a fondo nella faccenda, per-ché il nostro uomo è pieno di contraddizioni, e se il suo passato è bur-rascoso, il suo presente è, quanto meno, poco limpido. Quello che hoscritto dall’inizio del caso Tumino (quando di Q. non si parlava) nellasettimana passata, anche se frutto di illazioni, si è rivelato puntual-mente esatto. Avevo scritto che dietro il caso Tumino c’era qualcosa dimolto grosso; e poi, parlando di Delle Chiaie e Quintavalle, ho messo inrelazione la loro presenza con il delitto Tumino. Anche qui è venuta laconferma: Quintavalle è stato interrogato, e la sua abitazione ragusa-na perquisita. Ora lui si mostra preoccupato, e la moglie, poco primache egli rientrasse a Roma mercoledì (è andato in macchina con unoscagnozzo di Cilia) gli ha telefonato che «c’erano altri guai sul giorna-

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3. Cfr. Alberto Spampinato, C’erano bei cani ma molto seri. Storia di mio fratello Giovanni ucciso per averscritto troppo, Ponte alle Grazie, Milano, 2009.

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le». Ma andiamo con ordine. Si chiama Vittorio, a Roma abita in vialeCarlo Felice, 6 (tel. 772807) e ha uno studio di pittore a Porta San Pao-lo. Qui è venuto poco prima di Natale, con la moglie e con il figlio Giu-lio Cesare di 16 anni (quello del tentativo di infiltrazione tra gli anar-chici). È un tipo molto alto, 1 metro e 90. Da Natale si è allontanato so-lo per brevi periodi per fare delle scappate a Roma. La moglie e il figliosono rientrati ai primi di gennaio nella capitale. Dell’altro figlio di cuiè stata segnalata la presenza (un giovane di circa 25 anni coi baffi)non ha mai fatto cenno alla famiglia che ha frequentato assiduamen-te (persone conosciute casualmente e assolutamente insospettabili).Invece telefonavano, lui e la moglie, giornalmente ad un altro figlio,Gaetano di 21 anni, studente universitario. Ora questo Gaetano sareb-be stato operato di emorroidi, e questo giustificherebbe una sua assen-za più lunga del previsto (una settimana). Dice anche di avere due fi-glie femmine. Sostiene di essere laureato in pedagogia e di avere inse-gnato disegno e pittura a Roma, Firenze e Tokio (sic!). Dice di esseremaestro di karatè. Dice di vivere della vendita dei suoi quadri e ha mo-strato assegni di mezzo milione. Ma a volte è costretto a ricorrere a pre-stiti. Ho visto tre suoi quadri, paesaggi (tra l’altro una chiesa dove sisono svolti i funerali di un suo fratello, e lo studio di Porta San Paolo).Non sono opere d’arte, lo stile è un po’ da cartoline tipo Ottocento, mamostrano una buona conoscenza della tecnica della prospettiva. Non famistero di aver fatto parte della Decima Mas, anzi se ne vanta. Non hamai fatto il nome di Borghese. Dice di essere stato in carcere (control-lare se è stato condannato nel ’46 con Borghese, e per quali reati). Di-ce di essere nato a Torino, da famiglia vittoriese. Conosce Cilia da vec-chia data e l’anno scorso gli ha fatto dono per la campagna elettoraledi autoadesivi fluorescenti con la foto di Cilia. Che hanno appiccicatosu tutte le insegne stradali. Diceva di essere venuto a Ragusa per co-struire un albergo di 250 stanze, con piscina su un terreno dell’avv.Schembari, agrario e fascista. Ma nella zona non si possono realizzareinsediamenti turistici, e al comune nessuno sa niente del progetto. Di-

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ce di avere litigato col figlio di questo Schembari, braccio destro di Ci-lia, tipo equivoco, perché quest’ultimo temeva che gli fregasse la mo-glie due mesi dopo il matrimonio, e questa vive a Gela. Dice che faràda padrino al nascituro figlio di Cilia (ma Cilia è separato dalla mo-glie). Dice anche che rimane a Ragusa perché gli stanno preparandouna mostra di suoi quadri. Per la sera del delitto ha un alibi che regge:è stato in compagnia di persone insospettabili dal primo pomeriggioininterrottamente fino alle 23, mentre il delitto sarebbe avvenuto tra le19 e le 21. L’articolo su “L’Ora” di lunedì 6 lo ha mandato in bestia e siè mostrato, negli ultimi giorni, preoccupato. Dice che gira molto e cheè un giorno qui e l’indomani in America. È sbruffone ma su certe cosesi controlla. Non ha fatto cenno agli articoli, come non ha fatto il nomedi Borghese. Questo quanto so fino a questo momento. Sto raccoglien-do altre informazioni a Scicli e Vittoria. Penso che questo tizio sia im-plicato col traffico illecito di oggetti d’arte e pezzi archeologici, ma cheabbia una funzione politica precisa nelle file neofasciste.Ciao, ciao, Giovanni Spampinato

Ragusa, 11 marzo 1972Cara Angela,eccoci a noi. Ti dico subito di cosa ho bisogno e così poi possiamopassare ad altro. Compagni di Siracusa mi hanno fatto notare che ilQuintavalle che è qui a Ragusa era forse implicato nel crack finan-ziario di Valerio Borghese. Ora penso che per voi a Roma non dovreb-be essere difficile avere sue notizie. Lui ha affermato che nella capi-tale faceva il professore di disegno o pittura in un istituto artistico (èriuscito a “’mpicari” qualche quadro anche qui). Ha un paio di figli,o forse più. Mi hanno detto di svolgere indagini qui e a Vittoria, per-ché forse è nativo delle nostre parti (lui afferma di essere marchigia-no, forse di Ancona). Se so altre notizie (dati anagrafici, ecc.) ti tele-fono senza dare troppo nell’orecchio. Qui a Ragusa e Siracusa, i fa-scisti sono irritati e preoccupati. Cilia ha fatto cenno a una querela

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che suoi camerati avrebbero intenzione di fare perché ho detto chesono vicini ai trafficanti di droga. Una querela l’ha presentata il giu-dice Campria, per il caso Tumino (perché ho scritto che il figlio di unmagistrato era sotto torchio). Come vedi va tutto bene. Con Giacomosi lavora alla perfezione, certo resta sempre il problema economico, illavoro mi assorbe molto e rende poco. Ieri Nino G. mi ha accennatoalla possibilità di una mia utilizzazione a Catania, sempre come col-laboratore. Dovremmo parlarne con più precisione. Certo che, in unmodo o nell’altro, debbo trovare una sistemazione che mi consentaun minimo di indipendenza economica. E questo, stando a Ragusa,non credo sia possibile. Tra l’altro, ho la ragazza che studia a Roma,e il fatto di vederci solo nelle feste crea problemi. Comunque, non soproprio cosa farò. In questi ultimi tempi, grazie al continuo impegno,sono piuttosto su di morale, ma a volte per lunghi periodi mi sento in-trappolato e non vedo prospettive.Ti scrivo queste cose anche perché tu mi hai spinto a farlo. E, datoche ci sono, ti chiedo un consiglio: secondo te cosa mi conviene fare,stare a Ragusa, andare a Catania o venire a Roma? Ma a Roma nonsaprei proprio cosa fare. Tu che dici?Cara Angela, torniamo al lavoro. Forse mi sono buttato troppo a cor-po morto su questa faccenda e può essere rischioso, perché è comecamminare su un campo minato. Però credo che ne valga la penaperché qualcosa sotto c’è e di non poco conto. E allora, tanto vale an-dare a fondo, per evitare di essere presi alla sprovvista.A Roma come ti trovi? L’ultima volta che ci siamo visti a Palermo erimolto contenta di questo trasferimento. Contaci pure, se vengo a Ro-ma ci sentiamo e ci vediamo e potremo parlare un po’. Dovrei iscri-vermi all’albo, ma nessuno ancora mi ha saputo dire esattamente co-sa debbo fare.Ciao, Giovanni Spampinato, Via Salvatore, 230 97100 RagusaUltimora: Quintavalle è stato interrogato in relazione al caso Tumino.Sempre più emozionante!

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Un articolo di Mario Genco, su “L’Ora” del 2 novembre1972, tratteggia il profilo di Campria che si costituì nelcarcere di Ragusa subito dopo aver ucciso Spampinato,con il quale era uscito in macchina. L’assassino, fingendodi star male, chiese al giornalista che era alla guida di fer-marsi con la sua Cinquecento nei paraggi del carcere diRagusa e lo freddò a colpi di pistola. Subito dopo bussòalla porta della casa circondariale per costituirsi.

Un passaporto per la seminfermità mentale: questa è sembrata ieri lastrategia difensiva che Roberto Campria ha delineato (o diligentemen-te ripetuto?), durante le tre ore di interrogatorio al quale è stato sotto-posto nel carcere di Modica dal sostituto procuratore generale Auletta.Un interrogatorio contrappuntato da bugie, amnesia e lacrime.Prima bugia: afferma di non aver mai né visto né conosciuto l’ex-maròdella Decima Mas Vittorio Quintavalle, la cui inquietante e finora inde-cifrata presenza nel Ragusano si riflette non poco sul delitto Tumino.C’è tuttavia gente, a Ragusa, che riferisce di avere visto insiemeCampria, Tumino e Quintavalle. Sembra perfino che durante uno de-gli incontri di Giovanni Spampinato con Campria i due abbiano in-contrato Quintavalle che Campria avrebbe chiamato fermandocisi achiacchierare. Allora: perché Campria dice di non conoscere il fasci-sta Quintavalle, quando sa benissimo che un sacco di gente a Ragu-sa li ha visti insieme?Seconda bugia: Campria dice di non avere avuto mai interessi nécontatti politici, specialmente verso destra. Ma non era uno dei pochiamici dell’ingegner Angelo Tumino, la cui milizia politica nel Msi eraarcinota a tutti e quindi anche al Campria?Negando i suoi contatti con gli ambienti della destra ragusana (Tumino,si ricordi, era in rapporti non precari con l’onorevole missino Cilia, a suavolta ben collegato al principe Borghese e ai tempi di “Ordine Nuovo”anche con l’ultrà Pino Rauti); Roberto Campria tenta perfino di giocare

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la carta di un suo sinistrismo “in divenire” e rileva che gli unici discor-si politici egli li faceva proprio con Giovanni Spampinato.Tutto ciò, sarebbe venuto fuori dall’interrogatorio di ieri, anche se leindiscrezioni trapelano con molta difficoltà e non sono sempre con-trollabili. Le amnesie sono molto più numerose: in pratica, RobertoCampria non ricorda quasi nulla. Della forsennata sparatoria con laquale ha ucciso Giovanni Spampinato riesce a dire soltanto: “Non soperché l’ho fatto. Io volevo bene a Giovanni, lo stimavo. La macchinasi fermò, io scesi e mi misi a sparare”.È già tanto che ieri abbia detto almeno questo: perché la sera di ve-nerdì, al sostituto procuratore Fera che gli chiedeva di dirgli il perché,Campria non seppe o volle dire altro che: “Non ricordo più nulla”. Siera creduto fino ad oggi che quella sera avesse detto più o meno: l’ho ucciso perché lui aveva ucciso moralmente me, o qualcosa di si-mile. Macché, neanche questo disse: troppo tempestivo per essereuno smemorato […].Omicidio senza movente dunque omicidio di un folle: l’equazione di-fensiva è estremamente chiara, ma ci sembra altrettanto incredibile.Soprattutto, conferma nell’ipotesi già fatta che Roberto Campria sia,abilmente manovrato, costretto a coprire qualcuno. Ciò riconduce im-mediatamente al delitto Tumino, sul quale ieri il sostituto Procurato-re Generale Auletta sembra abbia a lungo ma inutilmente insistitodurante l’interrogatorio, e alla trama nella quale quel delitto si ma-turò. Quella trama è nera, in uno sconcertante intreccio di interessiche vanno dal commercio clandestino di materiale archeologico allavendita di quadri rubati, dal contrabbando al traffico di armi e esplo-sivi: tutto un vastissimo campo di indagini che nessuno finora hamai affrontato con un minimo di decisione. […].

Recentemente, lo storico Giuseppe Casarrubea, che haindagato sullo stragismo a partire da Portella della Gine-stra, ha scritto di essere venuto in possesso di alcuni do-

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cumenti redatti da appartenenti a opposti schieramentipolitici internazionali, il Kew Gardens britannico e l’Ar-chivio nazionale dei Servizi di sicurezza di Budapest. Inquelle carte si legge che nella seconda metà degli anniSettanta in Italia si stava organizzando un colpo di Statovoluto dal Patto atlantico e che la Sicilia era tra le princi-pali basi strategiche e militari. Che la preparazione diquesto piano fosse cominciata nel ’72, due anni dopo ilfallito golpe Borghese?Peri, poco prima di morire, è stato sentito dalla commis-sione nazionale antimafia. Di quell’audizione, che avven-ne a Palermo durante una trasferta della stessa commis-sione e che inizialmente fu segretata, non esistono verba-li se non poche righe nelle quali si parla dell’acquisizionedel rapporto redatto dal poliziotto. A chiedere quell’audi-zione fu il giudice Cesare Terranova che nella sciagura diMontagna Longa aveva perso la cognata Gabriella Giaco-nia, la donna che aveva raccontato con scetticismo agliamici la predizione fattale da una chiromante incontrataper strada: sarebbe morta quell’anno in un incidente ae-reo.Terranova, dal ’76 al ’79, fu parlamentare, eletto nella li-sta del Pci, e componente della commissione antimafia.Sarà ucciso nel settembre 1979. Sul rapporto Peri cala ilsilenzio.

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I 115 MORTI

Rosario Adelfio, di Palermo, 26 anni.Alfonso Alaimo, di Palermo, 42 anni.Giuseppe Albergamo, di Palermo, 27 anni.Ignazio Alcamo, di Palermo, 44 anni.Pasquale Ales, di Palermo, 42 anni.Lucia Armao, di Palermo, 47 anni.Fabio Badalotti, di Mantova, 44 anni.Roberto Bartoli, di Dovadola (Forlì), 41 anni.Mario Bombonati, di Verona, 32 anni.Lidia Borcich Tosi, di Palermo, 43 anni.Rosario Borzì, di Paternò (Catania), 24 anni.Filippo Buttitta, di Bagheria (Palermo), 32 anni.Giacomo Buttitta, di Palermo, 57 anni.Calogero Cammarata, di Caltanissetta, 60 anni.Giovanni Cammarata, di Caltanissetta, 9 anni.Silvana Cammarata, di Caltanissetta, 10 anni.Maria Candia, di Palermo, 53 anni.Fernando Cannizzaro, di Palermo, 27 anni.Concetta Capozzi, di Caltanissetta, 61 anni.Giuseppe Catalanotto, di Palermo, 36 anni.Giovanni Cavataio, di Alcamo (Trapani), 41 anni.Rosalia Chianello, di Palermo, 29 anni.Pietro China, di Caltanissetta, 24 anni.Antonio Cisarò, di Calatafimi (Trapani), 48 anni.Carla Colajanni, di Palermo, 41 anni.Olga Collizon, di Londra, 48 anni.Elisabetta Criscuoli, di Palermo, 31 anni.Pietro Criscuoli, di Palermo, 39 anni.Francesco Crispi, di Palermo, 54 anni.

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Salvatore Culmone, di Palermo, 38 anni.Salvatore D’Anna, di Palermo, 24 anni.Armando De Bono, di Londra, 47 anni.Nicolò De Luca, di Palermo, 58 anni.Beatrice De Moulin, di Charleroy (Belgio), 24 anni.Gino Di Fiore, di Roma, 28 anni.Elisabetta Di Maggio, di Palermo, 50 anni.Paolo Di Maio, di Mazara del Vallo (Trapani), 33 anni.Bruno Dini, di Terranuova Bracciolini (Arezzo), 37 anni.Giovanni Durante, di Palermo, 30 anni.Angela Fais, di Palermo, 27 anni.Alessandro Fanuele, di Palermo, 28 anni.Ignazio Faso, di Terrasini (Palermo), 35 anni.Giuseppe Filippi, di Milano, 30 anni.Antonio Fontana, di Trapani, 25 anni.Antonio Fontalelli, di Firenze, 48 anni.Maria Galardi, di Palermo, 37 anni.Cecilia Gallina, di Palermo, 30 anni.Gioacchino Genuardi, di Palermo, 34 anni.Gabriella Giaconia, di Palermo, 43 anni.Ezio Gorbi Frattini, 16 anni, di Torino.Giuseppa Graffagnino, di Palermo, 32 anni.Paolo Grassadonia, di Palermo, 30 anni.Mario Graziano, di Palermo, 20 anni.Attanasio Greco, di Palermo, 31 anni.Alessandro Guccione, di Palermo, 31 anni.Giuseppe Guscio, di Palermo, 35 anni.Renate Heichlinger, di Amburgo (Germania), 36 anni.Franco Indovina, di Palermo, 42 anni.Bernardette Labat Labourette, 29 anniGiovanni La Rocca, di Palermo, 37 anni.Filippo Lazzara, di Palermo, 26 anni.

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Mariella Leone, di Palermo, 42 anni.Giovanni Lino, di Palermo, 46 anni.Gaspare Lo Grasso, di Palermo, 21 anni.Stefano Lo Presti, di Palermo, 68 anni.Filippo Lorico, di Palermo, 27 anni.Eliana Lucchesini, di Palermo, 35 anni.Anna Maffei, di Roma, 40 anni.Letterio Maggiore, di Ustica (Palermo), 50 anni.Paola Graziella Magrini, di Milano, 23 anni.Guido Magnolfi, di Palermo, 42 anni.Vincenzo Martino, di Castelvetrano (Trapani), 45 anni.Paola Massimi, di Terni, 25 anni.Pamela Elizabeth Mc Carthy, di Londra, 22 anni.Giuseppe Misuraca, di Palermo, 47 anni.Lidia Mondì, di Palermo, 36 anni.Giovanni Montalto, di Palermo, 30 anni.Bruno Motta, di Rovigo, 40 anni.Vincent Navarre, 32 anni.Santo Novara, di Mazara del Vallo (Trapani), 45 anni.Armando Pappalardo, di Terrasini (Palermo), 27 anni.Giuseppina Paternostro, di Palermo, 32 anni.Adriano Pescosolido, di Ceprano (Frosinone), 33 anni.Francesco Pirrello, di Palermo, 21 anni.Francesco Pomara, di Castelvetrano (Trapani), 25 anni.Roberto Pottino, di Palermo, 25 anni.Claudio Provenzano, di Palermo, 25 anni.Adriana Pupella, di Palermo, 48 anni.Gaetana Restivo, di Bagheria (Palermo), 24 anni.Giuseppe Ricci, di Viterbo, 34 anni.Bernardo Rizzo, di Palermo, 25 anni.Alfonso Russo, di Agrigento, 33 anni.Giuseppe Russo, di Agrigento, 61 anni.

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Elisabetta Salatiello, di Palermo, 27 anni.Lelio Sammarco, di Palermo, 51 anni.Giuseppina Savatteri, di Palermo, 20 anni.Michele Savatteri, di Palermo, 23 anni.Bianca Maria Savona, di Palermo, 20 anni.Giacomo Scaccianoce, di Palermo, 44 anni.Mario Scaglione, di Palermo, 48 anni.Alberto Scandone, di Palermo, 29 anni.Giuseppe Scialabba, di Trabia (Palermo), 25 anni.Girolamo Tamburello, di Palermo, 23 anni.Vincenzo Tiscini, di Palermo, 50 anni.Giuseppe Travia, di Palermo, 30 anni.Giovanni Trupiano, di Palermo, 45 anni.Gaetano Vaccaro, di Palermo, 34 anni.Carmelo Valvo, di Palermo, 49 anni.Fulvio Visentini, di Palermo, 29 anni.Francesco Volpe, di Palermo, 37 anni.Cestmir Vycpaleck, di Torino, 23 anni.Giuseppe Zaratti, di Palermo, 35 anni.Vladimiro Zarbo, di Palermo, 35 anni.Luigi Zuliani, di Palermo, 51 anni.Willy Zwaenepoel, 42 anni.

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Prefazione. Il silenzio parla di Giosuè Calaciura . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3

Parte I . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 9Capitolo I. La linea d’ombra . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 11Capitolo II. Il silenzio radio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 21Capitolo III. A est di niente . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 30Capitolo IV. Tutta colpa loro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 49Capitolo V. Il poliziotto la chiama strage . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 56Capitolo VI. Il faro poggiato dove capita . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 65Capitolo VII. Se il fatto è un’opinione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 80Capitolo VIII. La terra di nessuno . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 83Capitolo IX. Colpevoli? Solo imprudenti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 89Capitolo X. Una croce sull’inchiesta . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 95Capitolo XI. La manovra folle . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 101

Parte II . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 125Capitolo I. La tesi del poliziotto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 127Capitolo II. Memorie del sottoscala . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 136Capitolo III. I sospetti di un cronista perbene . . . . . . . . . . . . . . . . 155

I 115 morti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 163

INDICE

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L’ULTIMO VOLOPER PUNTA RAISIdi FRANCESCO TERRACINA

Redazione FABIO GIOVANNINIProgetto grafico ANYONE!Impaginazione ROBERTA ROSSI

© 2012 Stampa Alternativa/Nuovi EquilibriCasella postale 97 – 01100 Viterbo fax 0761.352751e-mail: [email protected]

ISBN 978-88-6222-285-3Prima edizione: marzo 2012Prima ristampa: settembre 2012

presso ARTI GRAFICHE LA MODERNA (Roma)

Ringraziamenti

Per la stesura di questo libro è stato fondamentale il supporto del comandante Fa-brizio Lustri, che ringrazio per le sue osservazioni puntuali e per aver più volte cor-retto la rotta. Importante è stato il sostegno di Alfio Caruso e del “miglior fabbro”Marina Di Leo. Numerose sono le persone che mi hanno fornito spunti e suggeri-menti, alcune delle quali citate nel testo. Sono grato, inoltre, a Silvio Governali,Gaia Villani, Gianfranco Criscenti, Patrizia Abbate, Nello Pogliese, Enzo Guidotto,Vincenzo Sinapi, Debora Gagliardi, Lilli De Luca, Constanze Neumann, MarcelloMonterosso, Giovanni Castellammare, Renato Magazzù, Massimo Giannetti, PinoTermini, Daniela Graziano, Anna Barba, Francesco Falco.

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