14
Lacan (Abbagnano, Fornero, Storia della Filosofia, vol. 6) Lacan: inconscio e linguaggio Il «ritorno a Freud» proposto da Lacan trova uno dei suoi centri focali nella «rivoluzione copernicana» (révolution copernicienne) avviata dal padre della psicanalisi mediante un'opera di «dislocazione» della coscienza antitetica alla prospettiva egologica e logocentrica della filosofia dell'Occidente. Dislocazione grazie a cui «il centro vero dell'essere umano non è ormai più nello stesso posto che tutta una tradizione umanistica gli assegnava» (Ecrits). D'accordo con Freud nel ritenere che «l'io non è padrone in casa propria» e nel considerare l'inconscio come la vera «struttura» e l'autentica «voce» dell'individuo, Lacan propone infatti una sorta di ridefinizione «anticartesiana» dell'uomo giocata su talune battute paradossali: «penso dove non sono, dunque sono dove non penso» («je pense où je ne suis pas; donc je suis où je ne pense pas»); «non sono, là dove sono il trastullo del mio pensiero; penso a ciò che sono, là dove non penso di pensare» (Ecrits, p. 517; Scritti, pp. 512-13). In altri termini, negando che l'uomo risieda soprattutto nel cogito (= là ove egli appare «il trastullo del proprio pensiero» e là ove «l'essere è presente alla coscienza») ed affermando che l'uomo dimora prevalentemente nell'inconscio (= là ove egli non pensa di pensare e là ove l'essere è sottratto alla coscienza), Lacan, con il suo anti-cogito, sostiene dunque sulle orme di Freud che l'individuo risulta vissuto o abituato da una -X loquente profonda (= l'Es), nei cui confronti si trova in una situa- zione di radicale assoggettamento: «"L'uomo è parlato" condensa tutto il Freud di Lacan. Ma allora chi è il parlante? Se l'Io è destinato, un Altro parla nell'uomo: l'Inconscio, strutturato dal Linguaggio stesso»; «l'Io, per la sua funzione puramente difensiva e quindi narcisista, non è che il soggetto immaginario, cioè l'assoggettato senza vera autonomia o libertà da conflitti o da misconoscimenti alienanti». Tant'è vero che Lacan, detronizzando l'io dal suo piedestallo tradizionale e portando all'estremo l'attacco freudiano al «narcisismo universale», scrive che «l'Io è strutturato esattamente come un sintomo. Non è altro che un sintomo privilegiato all'interno del soggetto. È il sintomo umano per eccellenza, la malattia mentale dell'uomo» (Le séminaire de Jacques Lacan). Antiumanismo strutturalista ed antiumanismo freudiano formano quindi, nel nostro autore, un tutt'uno: «L'importanza di Lacan scrive Foucault a questo proposito è di aver mostrato come, attraverso il discorso del malato e i sintomi della sua nevrosi, sono le strutture, il sistema stesso del linguaggio e non il soggetto che parlano». Questa dottrina del primato dell'inconscio, e la relativa impostazione antiumanistica, si accompagnano, nel nostro autore, alla tesi del primato dell'ordine simbolico, ossia alla concezione secondo cui l'individuo risulta attraversato da una impersonale ed onnipotente trama di simboli e di significanti che lo costituiscono, ma che egli non ha creato e che non domina mai, essendone, più che la causa, l'effetto o il prodotto: «Se l'uomo arriva a pensare l'ordine simbolico è perché vi è anzitutto preso (il y est d'abord pris) nel suo essere»; «il soggetto, se può apparire servo del linguaggio, lo è ancor più di un discorso nel movimento universale del quale il suo posto e già iscritto alla sua nascita, non foss'altro che nella forma del nome proprio» (Écrits, p. 53; Scritti, p. 49); «Tutti gli esseri umani partecipano all'universo dei simboli, vi sono inclusi e lo subiscono molto più che non lo costituiscono: ne sono molto più i supporti che gli agenti» (Le séminaire de Jacques Lacan). Detto altrimenti: il «significante» gode di una sostanziale «preminenza» (prééminence) sul soggetto (cfr. Écrits, p. 39; Scritti, p. 36). Questi tratti del pensiero di Lacan sono quelli che lo avvicinano maggiormente a Lévi-Strauss e alla sua teoria dell'uomo come effetto di un codice simbolico radicato nelle strutture inconsce della psiche. Di conseguenza, come scrive J. M. Palmier, «È facilmente comprensibile il riferimento che negli scritti di

Lacan (Abbagnano, Fornero, Storia della Filosofia, vol. 6) e filosofia/Appunti/Lacan_manuale.pdf · Lacan (Abbagnano, Fornero, Storia della Filosofia, vol. 6) Lacan: inconscio e linguaggio

  • Upload
    trannhi

  • View
    287

  • Download
    0

Embed Size (px)

Citation preview

Lacan (Abbagnano, Fornero, Storia della Filosofia, vol. 6)

Lacan: inconscio e linguaggio Il «ritorno a Freud» proposto da Lacan trova uno dei suoi centri focali nella «rivoluzione copernicana»

(révolution copernicienne) avviata dal padre della psicanalisi mediante un'opera di «dislocazione» della

coscienza antitetica alla prospettiva egologica e logocentrica della filosofia dell'Occidente.

Dislocazione grazie a cui «il centro vero dell'essere umano non è ormai più nello stesso posto che tutta

una tradizione umanistica gli assegnava» (Ecrits). D'accordo con Freud nel ritenere che «l'io non è

padrone in casa propria» e nel considerare l'inconscio come la vera «struttura» e l'autentica «voce»

dell'individuo, Lacan propone infatti una sorta di ridefinizione «anticartesiana» dell'uomo giocata su

talune battute paradossali: «penso dove non sono, dunque sono dove non penso» («je pense où je ne

suis pas; donc je suis où je ne pense pas»); «non sono, là dove sono il trastullo del mio pensiero; penso

a ciò che sono, là dove non penso di pensare» (Ecrits, p. 517; Scritti, pp. 512-13).

In altri termini, negando che l'uomo risieda soprattutto nel cogito (= là ove egli appare «il trastullo del

proprio pensiero» e là ove «l'essere è presente alla coscienza») ed affermando che l'uomo dimora

prevalentemente nell'inconscio (= là ove egli non pensa di pensare e là ove l'essere è sottratto alla

coscienza), Lacan, con il suo anti-cogito, sostiene dunque — sulle orme di Freud — che l'individuo

risulta vissuto o abituato da una -X loquente profonda (= l'Es), nei cui confronti si trova in una situa-

zione di radicale assoggettamento: «"L'uomo è parlato" condensa tutto il Freud di Lacan.

Ma allora chi è il parlante? Se l'Io è destinato, un Altro parla nell'uomo: l'Inconscio, strutturato dal

Linguaggio stesso»; «l'Io, per la sua funzione puramente difensiva e quindi narcisista, non è che il

soggetto immaginario, cioè l'assoggettato senza vera autonomia o libertà da conflitti o da

misconoscimenti alienanti». Tant'è vero che Lacan, detronizzando l'io dal suo piedestallo tradizionale e

portando all'estremo l'attacco freudiano al «narcisismo universale», scrive che «l'Io è strutturato

esattamente come un sintomo. Non è altro che un sintomo privilegiato all'interno del soggetto. È il

sintomo umano per eccellenza, la malattia mentale dell'uomo» (Le séminaire de Jacques Lacan).

Antiumanismo strutturalista ed antiumanismo freudiano formano quindi, nel nostro autore, un tutt'uno:

«L'importanza di Lacan — scrive Foucault a questo proposito — è di aver mostrato come, attraverso il

discorso del malato e i sintomi della sua nevrosi, sono le strutture, il sistema stesso del linguaggio — e

non il soggetto che parlano». Questa dottrina del primato dell'inconscio, e la relativa impostazione

antiumanistica, si accompagnano, nel nostro autore, alla tesi del primato dell'ordine simbolico, ossia

alla concezione secondo cui l'individuo risulta attraversato da una impersonale ed onnipotente trama di

simboli e di significanti che lo costituiscono, ma che egli non ha creato e che non domina mai,

essendone, più che la causa, l'effetto o il prodotto: «Se l'uomo arriva a pensare l'ordine simbolico è

perché vi è anzitutto preso (il y est d'abord pris) nel suo essere»; «il soggetto, se può apparire servo del

linguaggio, lo è ancor più di un discorso nel movimento universale del quale il suo posto e già iscritto

alla sua nascita, non foss'altro che nella forma del nome proprio» (Écrits, p. 53; Scritti, p. 49); «Tutti gli

esseri umani partecipano all'universo dei simboli, vi sono inclusi e lo subiscono molto più che non lo

costituiscono: ne sono molto più i supporti che gli agenti» (Le séminaire de Jacques Lacan). Detto

altrimenti: il «significante» gode di una sostanziale «preminenza» (prééminence) sul soggetto (cfr.

Écrits, p. 39; Scritti, p. 36).

Questi tratti del pensiero di Lacan sono quelli che lo avvicinano maggiormente a Lévi-Strauss e alla sua

teoria dell'uomo come effetto di un codice simbolico radicato nelle strutture inconsce della psiche. Di

conseguenza, come scrive J. M. Palmier, «È facilmente comprensibile il riferimento che negli scritti di

Lacan troviamo alle opere di Lévi-Strauss. Spesso questi, sul piano collettivo delle strutture sociali,

esperimenta la stessa verità che la psicanalisi scopre, continuamente, nell'inconscio del soggetto»

(Lacan, le Symbolique et l'Imaginaire, Paris, 1972).

Lacan: inconscio e linguaggio La tesi centrale della psicanalisi di Lacan — senz'altro la più nota e la più caratteristica della sua opera

— è quella secondo cui l'inconscio è strutturato come un linguaggio: «l'inconscio è linguaggio» (Écrits,

p. 866; Scritti, p. 871); «il sesamo dell'inconscio sta nell'avere effetto di parola, nell'essere struttura di

linguaggio» (Écrits, p. 838; Scritti, p. 841); «l'inconscio è strutturato come un linguaggio. E non si

tratta di un'analogia, voglio proprio dire che la sua struttura è quella del linguaggio» (Conversazioni

con Lévi-Strauss, Foucault, Lacan). Ma se l'inconscio è parola — «a parle», «l'Es parla», ripete più

volte Lacan e se «in esso un materiale si muove secondo leggi che sono quelle scoperte dallo studio

delle lingue positive, cioè le lingue che sono o furono effettivamente parlate» (Écrits, p. 594; Scritti, p.

589) risulta evidente che la psicanalisi, per svolgere in modo adeguato il proprio compito di

ermeneutica del profondo, dovrà rifarsi alla linguistica — secondo l'esplicita tesi sostenuta da Lacan

nel Congresso di Roma del 1953: «La linguistica qui ci può servire di guida, poiché è questo il suo

ruolo all'apice dell'antropologia contemporanea, e non potremmo rimanervi indifferenti» (Écrits, p.

284; Scritti, p. 277).

Chiarendo il significato del proprio «ortodosso» ritorno a Freud, il nostro autore sostiene che la sua

originalità rispetto al fondatore della psicanalisi non consiste nella «scoperta» della linguisticità

dell'inconscio, già effettuata dal Maestro, ma nella oculata utilizzazione degli studi contemporanei di

linguistica strutturale, secondo la via già percorsa da Lévi-Strauss per quanto concerne l'antropologia.

Particolarmente illuminanti, a questo proposito, le dichiarazioni rilasciate a Pietro Caruso: «a

qualunque livello, quando compie un'analisi dell'inconscio, Freud fa sempre una analisi di tipo

linguistico. Prima che la nuova linguistica nascesse, Freud l'aveva già inventata. Lei ha chiesto in che

cosa mi distinguo da Freud: ecco, proprio in questo, nel fatto che io conosco la linguistica. Lui non la

conosceva, non ha potuto quindi accorgersi che quel che faceva era già linguistica, e la sola differenza

tra la sua posizione e la mia sta nel fatto che io, aprendo un suo libro, dico subito: questa è linguistica.

Posso dirlo perché la linguistica è sorta pochi anni dopo la psicanalisi. Saussure l'ha cominciata poco

dopo che Freud, nella Interpretazione dei sogni, aveva scritto un vero e proprio trattato di linguistica.

Questa è la mia "distanza" da Freud» (Conversazioni con Lévi-Strauss, Foucault, Lacan).

Sebbene l'Es «parli», il suo discorso, secondo Lacan, si configura come «discorso dell'Altro». Del

termine Altro — e questa è una delle tante difficoltà di «lettura» degli Écrits — il nostro autore non

offre una (esplicita) definizione formale, limitandosi ad usarlo in varie accezioni (sia pure strettamente

legate fra di loro). L'Altro è talora l'ordine simbolico e linguistico in cui il desiderio, per esprimersi, è

costretto a muoversi; talora l'inconscio; talora l'intersoggettività messa in atto dal dialogo analitico;

talora la Madre o il Padre, ecc. Nell'accezione freudianamente più rilevante l'Altro è comunque

l'inconscio in quanto altro dal soggetto conscio: « Noi insegniamo, seguendo Freud, che l'Altro è il

luogo della memoria, da lui scoperta sotto il nome di inconscio...»; (Écrits, p. 575; Scritti, p. 571).

Infatti, dal punto di vista della vita conscienziale, l'Es non può fare a meno di assumere la forma di un

discorso o di un messaggio proveniente da un «altrove» (l'Es come luogo dell'oblio e del rimosso e,

nello stesso tempo, come registro di un'«altra» memoria). In altri termini, l'Altro, da questo punto di

vista si configura come «l'impersonale soggettività dell'Inconscio — strutturato da leggi oggettive,

agente "di qua" dalla finzione dell'Io"».

In quanto «discours de l'Autre» (ricordiamo che già Freud aveva denominato l'inconscio eine andere

Schauplatz, ovvero come «un'altra scena» rispetto alla ribalta della coscienza corrispondente), l'Es

risulta indecifrabile alla quotidianità cosciente del soggetto: «Qual è dunque questo altro — scrive

Lacan con un giro di frase che sembra recuperare, in chiave psicanalitica, la tematica platonica ed

agostiniana dell' "ospite segreto" cui sono più attaccato che a me, se nelle più intime pieghe della mia

identità a me stesso è lui che mi agita?» (Écrits, p. 524; Scritti, p. 519). Tant'è vero che è proprio per

decodificare l'ignoto linguaggio dell'Altro che è sorta la psicanalisi, ovvero «Una scienza nuova, che è

la scienza di un oggetto nuovo: l'inconscio» (L. Althusser, Freud et Lacan, in Positions, Paris, 1976).

Scienza di geroglifici psichici di cui Freud, secondo Lacan, rappresenta appunto l'immortale

Champollion. In quanto tecnica decodificatrice dell'Es — che parla perché soffre, e più soffre più parla

— la psicanalisi è infatti una programmatica «auscultazione» della vita psichica profonda scaturiente

dal presupposto secondo cui l'unica via alla verità dell'inconscio è il linguaggio:

«Che l'inconscio si dica da sé, tale è dunque il progetto lacaniano» (A. Kremer-Marietti, Lacan et la

rhétorique de l'inconscient, Paris, 1978).

Affermando che «la verità può soltanto semidirsi» e che «non esiste nessun meta-linguaggio, perché

tutti i cosiddetti meta-linguaggi hanno bisogno del linguaggio per esprimere qualcosa», Lacan intende

appunto ribadire la tesi del primato del linguaggio e il fatto che l'inconscio si manifesta solo attraverso

il linguaggio e come linguaggio. Appurato, che l'inconscio è «desiderio diveniente linguaggio», balza

in primo piano la sopraccitata necessità di una psicanalisi linguistica debitamente attrezzata per

penetrare nei\ labirinti dell'«oscuro parlare» dell'Es, ossia di una psicologia che emancipandosi

definitivamente da «ogni filosofia uscita direttamente dal Cogito» (Écrits, p. 93; Scritti, p. 87) sia in

grado di fornire una descrizione «scientifica» del soggetto ancor più rigorosa di quella di Freud. E ciò

in virtù di una specie di «stilistica strutturale dell'inconscio» (J. M. Auzias, La chiave dello

strutturalismo, cit., p. 146) elaborata con gli strumenti odierni della linguistica, della logistica e del

calcolo combinatorio.

Ovviamente, la realizzazione di tale progetto presuppone la certezza — vitale per ogni psicanalisi e per

quella di Lacan in particolare — che il discorso dell'inconscio «trapeli» in qualche modo dalla trama e

dai disturbi del discorso conscio, mediante le cosiddette «formazioni dell'inconscio» (battute di spirito,

lapsus, sogni). Infatti, dal punto di vista del nostro autore il discorso umano assomiglia a quei

manoscritti che contengono due testi, uno dei quali è stato cancellato e ricoperto da un altro, in modo

tale che il primo può venir intravisto solo attraverso le falle del secondo, ovvero tramite i «buchi di

senso» del discorso conscio: «la vérité de l'inconscient est dès lors à situer entre les lignes» («la verità

dell'inconscio deve situarsi tra le righe», Écrits, p. 437; Scritti, p. 429). Da ciò le note caratterizzazioni

lacaniane dell'inconscio: «L'inconscio, a partire da Freud, è una catena di significanti che da qualche

parte (su un'altra scena, egli scrive) si ripete ed insiste per interferire nei tagli offertigli dal discorso

effettivo e dalla cogitazione che informa» (Écrits, p. 799; Scritti, p. 801); «L'inconscio è quella parte

del discorso concreto in quanto transindividuale che difetta alla disposizione del soggetto per ristabilire

la continuità del suo discorso cosciente» (Écrits, p. 258; Scritti, p. 252); «L'inconscio è quel capitolo

della mia storia che è marcato da un bianco od occupato da una menzogna: è il capitolo censurato»

(Écrits, p. 259; Scritti, p. 252).

Da ciò le altrettanto note caratterizzazioni lacaniane del sintomo: «Il sintomo qui è il significante di un

significato rimosso dalla coscienza del soggetto. Simbolo scritto sulla sabbia della carne e sul velo di

Maia, esso partecipa del linguaggio attraverso l'ambiguità semantica da noi già posta in rilievo nella

sua costituzione» (Écrits, p. 280; Scritti, p. 274); «il sintomo si risolve per intero in un'analisi di

linguaggio, poiché è esso stesso strutturato come un linguaggio, è linguaggio la cui parola dev'essere

liberata» (Écrits, p. 269; Scritti, p. 262). Tant'è vero che la follia è «la libertà negativa di una parola che

ha rinunciato a farsi riconoscere» (Écrits, p. 279; Scritti, p. 273). Di conseguenza, sebbene la verità

dell'Es si nasconda in mille forme e sembianze, essa, grazie alla psicanalisi, può venir portata alla luce:

«la verità può essere ritrovata; il più spesso è già scritta altrove. Cioè — nei movimenti: e questo è il

mio corpo, cioè il nucleo isterico della nevrosi in cui il sintomo isterico mostra la struttura di un

linguaggio e si decifra come un'iscrizione che, una volta raccolta, può essere distrutta senza grave

perdita; — nei documenti d'archivio, anche: e sono i ricordi della mia infanzia, impenetrabili al pari di

essi, quando non ne conosco la provenienza; — nell'evoluzione semantica: e questo corrisponde allo

stock e alle accezioni del vocabolario che mi è proprio, così come al mio stile e al mio carattere; — e

nelle tradizioni, addirittura nelle leggende che in forma eroicizzata veicolano la mia storia; — nelle

tracce, infine, che di questa storia conservano inevitabilmente le distorsioni, rese necessarie dal

raccordo del capitolo adulterato con i capitoli che l'inquadrano, e delle quali la mia esegesi ristabilirà il

senso» (Écrits, p. 259; Scritti, pp. 252-53).

Nel suo tentativo di decifrare la «retorica dell'inconscio», Lacan, rifacendosi a Jakobson, collega i

meccanismi inconsci illustrati da Freud ai procedimenti retorici della metafora e della metonimia: «i

meccanismi descritti da Freud come quelli del processo primario, in cui l'inconscio trova il suo regime,

ricoprono esattamente quelle funzioni che tale scuola [la linguistica strutturale] ritiene determinino i

versanti più radicali degli effetti del linguaggio, e cioè la metafora e la metonimia...» (Écrits, pp. 799-

800; Scritti, pp. 801-2). In particolare, il nostro autore accosta la metafora (figura retorica con la quale

si indica un oggetto col nome di un altro oggetto, avente con il primo rapporti di somiglianza) alla

condensazione (processo psichico mediante cui diverse idee o immagini vengono espresse da una

singola parola o immagine); e la metonimia (figura retorica che consiste nel nominare una cosa o una

persona, invece che con il suo proprio nome, col nome di un'altra cosa o persona che abbia con essa un

rapporto di dipendenza o di continuità) allo spostamento (processo psichico tramite cui si ha la

sostituzione di un'idea o di un'immagine con un'altra alla quale la prima è associativamente connessa).

Come avremo modo di constatare, i concetti di metafora e di metonimia risultano fondamentali per

comprendere le avventure del «desiderio» e della «domanda» (§ 953).

Lacan: lo «stadio dello specchio» e la dottrina dell'accesso al simbolico Insieme ai capisaldi teorici e metodologici cui si è accennato nel paragrafo precedente, le tematiche

lacaniane che hanno avuto maggiore risonanza sono quelle riguardanti la «fase dello specchio» e la

strutturazione del soggetto tramite l'accesso al simbolico. La dottrina dello «stadio dello specchio» —

proposta da Lacan al XIV Congresso internazionale di psicanalisi di Marienbad del 1936 e

successivamente rielaborata al XVI Congresso internazionale di Zurigo del 1949 — rappresenta il

primo rilevante apporto del nostro autore alla psicologia del profondo.

Per «stadio dello specchio» (stade du miroir) Lacan intende quella fase di costituzione dell'essere

umano, situantesi tra i sei e i diciotto mesi, nella quale il bambino, ancora in uno stato di

prematurazione biologica e di incoordinazione motoria, anticipa, con un'immagine visiva, la totalità del

proprio corpo, prendendo progressivamente conoscenza di sé.

Questo processo di captazione visiva del proprio corpo come totalità unitaria, con tutta la mimica o il

«traffichio giubilatorio» che l'accompagna, avviene tramite un'identificazione del bambino con il

proprio simile (la madre, un altro bambino, ecc.) oppure mediante la propria immagine «speculare»,

come indica il nome stesso della fase studiata dal nostro: «Sembra che un'immagine abbia colpito

Lacan, indicandogli questa scoperta: quella di una bambina che, nuda, davanti a uno specchio, si

guarda e indica con la mano la sua mancanza fallica» (J. M. Palmier, op. cit., p. 20).

Il riconoscimento di sé, nel quale culmina l'esperienza dello specchio può venir articolato e riassunto in

tre tappe fondamentali. Dapprima il bambino, accompagnato da un adulto davanti ad uno specchio,

confonde l'immagine riflessa con la realtà, tentando di afferrare l'immagine e di guardare dietro lo

specchio. In un secondo tempo, il bambino comprende che l'altro dello specchio è un'immagine e non

un essere reale, per cui non tenta più di afferrarlo. Infine, non solo capisce che il riflesso è

un'immagine, ma che tale immagine è la sua, differente da quella dell'adulto (con la quale inizialmente

la confondeva). Parallelamente a questo processo di autoriconoscimento nello specchio, il bambino

mantiene, nei confronti del coetaneo, un tipico atteggiamento di «transitivismo identificatorio e narcisi-

stico»: il bambino che vede cadere il compagno piange, quello che picchia dice di essere picchiato. Il

bambino che scorge l'amico fare qualche cosa lo imita, quello che vede il compagno prendere qualche

cosa cerca di afferrarlo, iniziando la contesa verbale: «è mio, non è tuo» e così via.

Questo significa che l'intero stadio dello specchio avviene entro la dimensione di ciò che Lacan

denomina l'immaginario e che egli caratterizza come una «relazione duale» di confusione fra sé e l'altro

(che funge da duplicazione fantasmatica di sé). Infatti, è attraverso l'immagine del simile che il

soggetto, per un meccanismo di identificazione si rapporta a sé: «Basta comprendere lo stadio dello

specchio come una identificazione nel pieno senso che l'analisi dà a questo termine: cioè come la

trasformazione prodotta nel soggetto quando assume un'immagine, — la cui predestinazione a questo

effetto di fase è già indicato dall'uso, nella teoria, dell'antico termine di imago» (Écrits, p. 94; Scritti, p.

88). Lo stadio dello specchio, globalmente considerato, si configura quindi come un primo abbozzo

dell'io, ossia come un primo schizzo di soggettività attraverso l'immaginario. La sua importanza, dal

punto di vista di Lacan, risulta duplice. Innanzitutto, l'esperienza sottesa alla fase dello specchio

rappresenta un primo passo nell'acquisizione di una totalità funzionale di sé. Sembra infatti che il

bambino, all'inizio, in virtù della sua «impotenza motrice» (Ib.), ovvero della sua incompleta maturità

neuro-muscolare, non abbia esperienza del suo corpo come di una totalità unitaria, ma lo percepisca

spezzettato e frammentario, come testimonia il cosiddetto «fantasma del corpo disgregato», presente ad

esempio nei sogni o nelle psicosi schizofreniche. In secondo luogo, l'esperienza sottesa alla fase dello

specchio risulta alla base del carattere «immaginario» dell'io, costituito sin dall'inizio come «io ideale»

e «ceppo delle identificazioni secondarie» (Écrits, p. 94; Scritti, p. 88). Come tale, esso apre la strada al

futuro di finzioni e alla «destinazione alienante» dell'io (Écrits, p. 95; Scritti, p. 89), costretto a vivere

in virtù di una dialettica ininterrotta di identificazioni narcisistiche con immagini esteriori. Lo «stade du

miroir», pur rappresentando un primo embrione di soggettività, si situa ancora tutto all'interno

dell'immaginario e della relazione duale. La formazione della soggettività vera e propria avviene

tramite il simbolico, cui si accede tramite la vicenda del complesso edipico (che anche in Lacan, come

in Freud, tende a configurarsi, per usare un'espressione di Laplace e Pontalis, come uno dei principali

assi di riferimento della teoria e della psicopatologia psicanalitica).

Lacan, nei suoi seminari su Les formations de l' inconscient («Bulletin de Psychologie» 1956-57)

articola lo sviluppo dell'Edipo in tre tempi. Il primo momento coincide con la relazione duale madre-

figlio, allorquando il bambino non desidera soltanto il contatto e le cure della madre, ma vuole essere

tutto per lei, ovvero il completamento di ciò che le manca: il fallo. In altre parole, il bambino si vive

come desiderio del desiderio della madre e per soddisfarlo si identifica con l'oggetto stesso di tale

desiderio, ovvero con il fallo: «Il bambino desidera addirittura, in quanto fallo, dormire con lei. E basta

che la madre favorisca, anche per poco, con il suo atteggiamento l'appagamento di questo desiderio,

perché il bambino sia maturo per la perversione» (Ib., p. 115).

Per cui si può dire che in questo stadio il bambino, riconoscendosi, attraverso una fusione non-distinta

con la madre ed il suo desiderio, non sia un «soggetto», ma una mancanza, un nulla, uno zero. In un

secondo tempo abbiamo l'intervento guasta-feste del padre, che priva il bambino dell'oggetto del suo

desiderio e la madre dell'oggetto fallico, mediante la doppia imposizione: «non giacerai con tua madre»

(rivolta al bambino) e «non reintegrerai il tuo prodotto» (rivolta alla madre). Il bambino si trova così di

fronte all'Interdetto ed incontra la legge del padre, il quale, scindendo la diade madre-figlio e proibendo

la loro unione, mette in atto una sorta di «castrazione simbolica» dell'infante. Da questa seconda tappa

scaturisce la terza: quella dell'identificazione con il padre.

Quest'ultima tappa presuppone che il bambino acceda al «Nome-delPadre». Termine con cui Lacan non

intende il padre reale, ma la funzione del padre, ossia quella entità simbolica — di cui il genitore è solo

incarnazione contingente — la quale opera anche nel caso di un padre assente o morto e che può venir

rappresentata anche da figure diverse da quelle parentali.

Ora, affinché il bambino riconosca la Parola del Padre bisogna che la Legge venga seguita anche dalla

madre. Identificandosi con il padre, il bambino cessa di «essere» il fallo e diviene colui che «ha» il

fallo, assumendo in tal modo il proprio ruolo maschile ed avviandosi al superamento del complesso

edipico. Viceversa, se l'interdizione paterna non viene riconosciuta, dal bambino o dalla madre, il

soggetto rimane identificato con il fallo e sottomesso alla madre. Ovviamente la vicenda edipica

presenta anche una sua specifica dinamica al femminile — che all'inizio coincide freudianamente con

quella maschile, in quanto il desiderio di essere il fallo è identico nei due sessi — per poi

distinguersene solo in seguito, in rapporto all'assunzione dell'«avere» o del «non-avere» il fallo. In altri

termini, come scrive Althusser (che di Lacan è stato amico, paziente e studioso), «il bambino quando

vive e risolve la situazione tragica e benefica della castrazione, accetta il fatto di non avere lo stesso

diritto di suo padre, e in particolare di non avere il diritto di suo padre sulla madre, che si rivela allora

come dotata dell'intollerabile statuto di un duplice impiego, madre per il bambino, moglie per il padre;

ma accettando di non avere lo stesso diritto di suo padre ne guadagna la garanzia che un giorno futuro,

quando sarà anch'egli adulto, avrà il diritto che gli è ora negato a causa della sua mancanza di "mezzi".

Ha solo un piccolo diritto, che diverrà grande se egli stesso sarà in grado di diventare grande accettando

di "mangiare tutta la minestra". La bambina, da parte sua, quando vive e assume la situazione tragica e

benefica della castrazione, accetta di non avere lo stesso diritto di sua madre, accetta quindi

doppiamente di non avere lo stesso diritto (fallo) di suo padre, dato che anche sua madre non l'ha (non

ha il fallo), in quanto donna, perché donna, e accetta nello stesso tempo di non avere lo stesso diritto di

sua madre, cioè di non essere ancora una donna come sua madre. Ma ci guadagna in compenso un

piccolo diritto: quello di essere una bambina, e le promesse di un grande diritto, il pieno diritto di esse-

re donna, quando si sarà fatta adulta, se sarà capace di diventare grande accettando la legge dell'ordine

umano» (op. cit., p. 25).

La risoluzione dell'Edipo coincide con l'autocostituzione del soggetto, cioè con il suo ingresso

all'ordine del simbolo, del linguaggio e della civiltà. Infatti, con l'accettazione dell'interdetto paterno

l'individuo entra, di diritto, nella costellazione familiare e diviene membro riconosciuto della società,

trasformandosi, da animaletto generato da un uomo e una donna, in un autentico essere umano.

Parallelamente, il bambino acquista pieno uso del linguaggio, che gli fornisce innanzitutto la categoria

grammaticale della propria individualità (categoria che egli conquista progressivamente, in quanto

dapprima si limita ad indicare se stesso usando il nome seguito dal verbo alla terza persona singolare.

Solo in seguito giunge a parlare di sé come «io», coniugando il verbo alla prima persona).

In sintonia con gran parte della cultura contemporanea, Lacan ripete quindi — e si sforza di dimostrare

psicanaliticamente — che l'uomo si fa tale solo in virtù del suo ingresso nell'ordine «simbolico» della

lingua e della società.

Del resto, Parola e Legge, Discorso e Norma, risultano strettamente connessi, in quanto ciò che

appartiene alla società (tabù, credenze, ecc.) appare linguisticamente espresso, e ciò che appartiene al

linguaggio appare socialmente significante.

A loro volta, linguaggio e società presuppongono entrambi il simbolo: «L'uomo parla dunque, ma è

perché il simbolo lo ha fatto uomo», (Scritti, p. 269). Ma l'accesso al simbolo, come si è visto, avviene

tramite l'Edipo. Di conseguenza, Lacan, ricollegandosi a Lévi-Strauss, vede nell'Interdizione edipica

(che si specifica nella proibizione dell'incesto e nell'esogamia) la condizione stessa della vita sociale e

dell'ordine simbolico su cui essa si regge: «La Legge primordiale è dunque quella che regolando l'al-

leanza sovrappone il regno della cultura al regno della natura, in balia della legge dell'accoppiamento»

(Écrits, p. 277; Scritti, p. 270), «E nel nome del padre che dobbiamo riconoscere il supporto della

funzione simbolica, che dal sorgere dei tempi storici identifica la propria persona con la figura della

legge» (Écrits, p. 278; Scritti, p. 271). In conclusione, la famiglia, in quanto struttura simbolica,

«manifesta un superamento delle leggi naturali della riproduzione instaurando la Cultura. Non solo, ma

essa, da sola, consente a ciascuno di sapere chi è, in una promiscuità totale, nessuno potrebbe essere

chiamato padre, figlio o sorella, e quindi non potrebbe neppure "situarsi" e riconoscere gli altri dal

posto, particolare che ricoprono. In questo senso, il nome, come elemento che veicola i rapporti di

prossimità, è un pegno di reciproco riconoscimento fra gli individui».

Sinora abbiamo parlato dell'immaginario e del simbolico (e dei loro rapporti reciproci) sottintendendo

una specie di strutturazione diadica del soggetto. In realtà è bene ricordare che Lacan ragiona sempre

all'interno di un sistema triadico. Egli parla infatti di tre «registri» in cui si struttura il campo

psicanalitico: l'Immaginario, il Simbolico e il Reale. Registri che stanno alla base dello studio su «La

lettera rubata» (con cui si aprono gli Écrits) e dei quali egli, anche nei Seminari, rivendica il decisivo

ruolo psicanalitico: «Senza questi tre sistemi di riferimento, impossibile capire qualcosa della tecnica e

dell'esperienza freudiana» (Le séminaire de Jacques Lacan. Livre I. Les écrits techniques de Freud, cit.,

p. 91). L'esistenza di un triplo registro psicanalitico non esclude tuttavia la sopraccitata preminenza e

centralità del simbolico, in quanto sia l'immaginario che il reale (nelle loro varie sfumature ed

accezioni) risultano entrambi sottoposti a ciò che il nostro chiama la «presa del simbolico» (prise du

symbolique), ovvero «l'onnipresenza... della funzione simbolica» (Écrits, p. 415; Scritti, p. 406). Infatti,

scrive Lacan, «questo reale, non abbiamo nessun altro mezzo di apprenderlo — su tutti i piani, e non

solo su quello della conoscenza — se non grazie all'intermediario del simbolico» (Le séminaire de

Jacques Lacan. Livre II.).

A loro volta, «le immagini sono già soggette ad un simbolismo inconscio» (Écrits, p. 728; Scritti, p.

724) e «nessuna formazione immaginaria è specifica, nessuna è determinante nella struttura e nella

dinamica d'un processo... ci si condanna a mancare l'una e l'altra quando, con la speranza di arrivare

meglio al nocciolo, ci si vuole infischiare dell'articolazione simbolica, scoperta da Freud

contemporaneamente all'inconscio, e che infatti gli è consostanziale: nel suo riferimento metodico

all'Edipo egli ci significa proprio la necessità di tale articolazione» (Écrits, p. 546; Scritti, p. 542).

Tant'è vero che lo stesso momento dell'immaginario pre-edipico «in cui il bambino vive la sua

relazione immediata con un essere umano (la madre), senza riconoscerla praticamente come relazione

simbolica quale in effetti è (relazione di un bambino umano con una madre umana) — è segnato e

strutturato nella sua dialettica dalla dialettica stessa dell'ordine simbolico, cioè dell'ordine umano, della

norma umana... Là dove una lettura superficiale o condizionata di Freud non vedeva che l'infanzia

felice e senza legge...

Lacan mostra l'efficacia dell'ordine, della legge che fin da prima se ne sta in attesa della nascita di ogni

piccolo dell'uomo, e s'impossessa di lui fin dal suo primo pianto per assegnargli un posto e un ruolo,

insomma una destinazione forzata» (L. Althusser, op. cit., pp. 22-23).

Lacan: la soggettività come «Spaltung». Psicanalisi e verità La strutturazione del soggetto tramite l'Edipo ed il simbolico si accompagna ad altri due eventi

strettamente legati fra di loro: la divisione (o «Spaltung») del soggetto e l'avvento della trama

dell'inconscio. Secondo Lacan l'accesso all'ordine simbolico-linguistico comporta inevitabilmente un

«fendersi» del soggetto, ossia quel fenomeno che egli denomina con i termini francesi «fente» o

«refente», oppure con il termine freudiano «Spaltung» (dal tedesco Spalte: spaccatura).

La «Spaltung» è la scissione fra lo psichismo inconscio e lo psichismo conscio del soggetto, il quale,

mediatizzandosi attraverso il discorso, distrugge la relazione immediata di sé a sé che lo caratterizzava

nella fase prelinguistica e presimbolica. Ciò accade in quanto l'utilizzazione del simbolo e della parola

(che non sono mai ciò che rappresentano) postula di per sé una frattura fra il vissuto ed il segno che lo

richiama: «Il simbolo, riassume A. Rifflet-Lemaire, è diverso da ciò che rappresenta, ed è la sua

condizione: pertanto, il soggetto chiamato "Giovanni", che si traduce "io" nel discorso, se da un lato si

salva grazie a questa denominazione che lo inserisce nel circuito dello scambio, dall'altro si perde a se

stesso. Qualsiasi relazione mediata impone una rottura della continuità inaugurale da sé a sé, da sé

all'altro e al mondo» (op. cit., p. 100). Infatti, non appena il soggetto si nomina, si produce

automaticamente una distinzione fra l' "Io", soggetto dell'enunciato, e l'Io, soggetto dell'enunciazione,

ossia la circostanza che caratterizza la Spaltung, intesa appunto come la «scissione del soggetto che si

opera per ogni intervento del significante: quella del soggetto dell'enunciazione dal soggetto

dell'enunciato» (Écrits, p. 770; Scritti, p. 770); «"Sono ciò che penso, quindi sono": separa il "sono"

esistenziale dal "sono" del senso. Questa refente deve essere considerata fondamentale e come il primo

getto della rimozione iniziale» (Réponses à des étudiants, 1966, n. 3). Da un lato, questa separazione o

Ichspaltung del soggetto segna il pervenire del soggetto a se stesso: «Separare, séparer, va a finire in se

parere, generarsi da sé» (Écrits, p. 843; Scritti, p. 846). Dall'altro lato, essa determina una coincidenza

impossibile fra il sé profondo e il sé del discorso cosciente, il quale diviene un rebus dietro cui si cela il

vero soggetto loquente (parafrasando Lacan, potremmo quindi dire che, in virtù della Spaltung, il

cartesiano larvatus prodeo, «procedo mascherato», risulta essere il destino stesso dell'uomo).

Il fatto della Spaltung— che lo psicanalista, nella sua prassi, reperisce «in modo per così dire

quotidiano» (Écrits, p. 855; Scritti, p. 859) — è il fatto stesso dell'inconscio, in quanto la divisione del

soggetto cui esso rimanda si accompagna all'affermarsi della trama metacoscienziale dell'Es. Tant'è

vero che «la Urverdrangung [rimozione originaria] su cui Freud ha sempre insistito» appare

costitutivamente connessa alla «reduplicazione del soggetto che il discorso provoca» (Écrits, p. 710;

Scritti, p. 707; corsivo nostro), in quanto, «è in questo raddoppiamento (redoublement) del soggetto

della parola che l'inconscio come tale trova di che articolarsi» (Écrits, p. 711; Scritti, p. 708; corsivo

nostro).

Per cui, quando Lacan sentenzia che «l'inconscio è linguaggio», oltre a dire che l'inconscio si dà come

linguaggio, intende anche affermare che il linguaggio è la condizione stessa dell'inconscio, in quanto è

il linguaggio, o il mondo simbolico in generale, a creare l'inconscio, reduplicando il soggetto su due

piani: «In generale l'inconscio è nel soggetto una scissione del sistema simbolico, una limitazione,

un'alienazione indotta dal sistema simbolico» (Le séminaire de Jacques Lacan. Livre I, cit., p. 244). La

frattura e lo spareggio fra linguaggio conscio e linguaggio inconscio, sottese alla Spaltung del soggetto,

trovano una raffigurazione in ciò che Lacan denomina «l'algoritmo saussuriano», del quale fornisce la

seguente rappresentazione schematica:

S_

s

precisando che «si legge: significante su significato, dove il su risponde alla sbarra che ne separa le due

tappe» (Écrits, p. 497; Scritti, p. 491). Questo grafico (si noti la sua inversione spaziale rispetto a quello

originario del linguista ginevrino, che pone il concetto o significato sopra e l'immagine acustica o il

significante sotto) è il frutto di una ripresa di De Saussure alla luce della teoria di Lacan. Infatti, mentre

De Saussure, racchiudendo il segno in un'ellisse, intende richiamare la presenza di una varia

corrispondenza parallela fra S e S, Lacan, insistendo sulla barra (o meglio: barriera) di frazione che

separa S e S, vuole sottolineare lo scarto permanente che divide il significante (l'insieme degli elementi

materiali del linguaggio: la lettera o i suoni) ed il significato (il senso della nostra esperienza trasmessa

con il discorso). In altri termini, significante e significato, secondo Lacan, si configurano come due reti

le cui relazioni non si ricoprono (cfr. Écrits, pp. 414-15; Scritti, pp. 404-5), in quanto il significato, pur

esteriorizzandosi nella globalità dei successivi significanti, non si colloca in alcun luogo del

significante: «Si può dunque dire che è nella catena del significante che il senso insiste, ma che nessuno

degli elementi della catena consiste nella significazione di cui è capace in quello stesso momento

(Écrits, p. 502; Scritti, p. 497).

Ma se la lettera e il senso non si ricoprono puntualmente, e se la doppia serie che si costituisce acquista

la propria significazione solo nella correlazione e nell'opposizione dei termini peculiari a ogni serie, «si

impone dunque la nozione di uno scivolamento incessante del significato sotto il significante» (Écrits,

Ib.; Scritti, Ib.). La ragione di questo «glissement» è appunto la Spaltung del soggetto ed il correlativo

processo di rimozione che la governa. Infatti, mediante l'inspessimento della linea di frazione fra S e s,

da lui trasformata, come si è visto, in una «barre», Lacan ha voluto alludere, fra le altre cose, alla

«discordanza fra il significato e il significante determinata da ogni censura d'origine sociale» (Écrits, p.

372; Scritti, p. 364). Discordanza che si lega strettamente alla tesi della predominanza e dell'autonomia

del significante, il quale, con i suoi meccanismi associativi (si pensi ad esempio ai sogni) agisce

separatamente dalla sua significazione e all'insaputa del soggetto.

Di conseguenza, sullo sfondo dello specifico «saussurismo» di Lacan, si staglia l'ombra di una

impossibile unificazione terminale del significante con il significato, cui corrisponde la mancata

unificazione di tutta una serie di rapporti diadici. Inoltre, il fenomeno della Spaltung sottintende una

scissione netta fra natura e cultura.

Infatti, contrariamente a Lévi-Strauss, che tende a riportare la cultura alla natura e ad evitare ogni

contrapposizione fra i due livelli di realtà (§ 941), Lacan considera la cultura come una sorta di

tradimento della natura, ovvero come un ordine inautentico di significanti nei quali l'uomo si aliena

dalle sue matrici originarie: «La parte vera ed essenziale della personalità è ciò che sta sotto la

maschera, ciò che è stato rimosso, vale a dire la Natura, vessata da una forza superiore, mentre invece

se ci fermiamo alla maschera e cioè al discorso, all'Io e al comportamento sociale, il soggetto prolifera

sotto le forme multiple che gli si dà, o che gli vengono imposte. Forme che sono fantasmi, riflessi

dell'essere vero...» (A.Rifflet-Lemaire, op. cit., p. 101).

A questa divisione fra uomo e natura, dovuta al linguaggio e alla normativa sociale, corrisponde

un'analoga divisione fra uomo e verità. Infatti, in virtù della Spaltung e dell'accesso al simbolico,

l'uomo può costituirsi a soggetto solo a patto di porre contemporaneamente, fra sé e la verità, fra

discorso conscio e discorso inconscio, una qualche linea di frazione — pena l'annullamento di sé come

soggetto. Ma il fatto che l'uomo sia costretto a dimorare «a distanza» dalla verità, la quale «vaga sulle

rovine dove gli uomini non la cercano: nei sogni, nel motto di spirito, nel gioco di parole» (A. Kremer-

Marietti, op. cit., p. 172), e il fatto che la psicanalisi sia indotta a presuppone una serie di «divisioni»

mai completamente superate fra significante e significato, io ed Es, simbolico e reale, psicologico e

biologico, ecc., autorizza forse a parlare di Lacan come di un «teorico dell'appuntamento mancato con

la verità» o di un «filosofo dell'Assenza?». Una lettera di questo tipo — che rischia di fare di Lacan

l'assertore di una forma di psicanalisi destinata a concludersi con un plateale suicidio della psicanalisi

stessa — ci sembra poco rispondente all'opera effettiva del nostro autore. Tant'è che A. Rifflet-Lemaire

— che pure insiste sulla «cattura "impossibile" per l'uomo della Verità» (op. cit., p. 73), sulla Verità

che «si sottrae al linguaggio» (Ib.), sulla «distorsione irriducibile fra il significante e il significato» (Ib.,

p. 74), sul fatto che «Il significato finale ricercato è radicalmente escluso dal pensiero, dal momento

che esso dipende da una dimensione incommensurabile, e cioè dal Reale» (Ib.), sulla tesi per cui «a li-

vello delle scienze, degli scambi intellettuali fra gli uomini, in effetti il cerchio non si chiude mai,

proprio come dimostrano secoli di scienza e di filosofia umane protese alla vana ricerca di una verità

che il linguaggio rifiuta» (Ib., p. 138) — ad un certo punto scrive: «Questa filosofia del linguaggio e

della limitazione della scienza è poi radicalmente pessimista? No di certo, poiché Lacan stesso continua

nella ricerca del sapere. Ma allora forse lo è per noi, discepoli o alunni, che veicoliamo semplicemente

il pensiero del Maestro? Lacan pensa che sia proprio così» (Ib., p. 153).

Del resto, fornire di Lacan una lettura «sintomale» di stampo pessimistico, o in chiave di «ontologia

negativa» non significa forse tradire il senso stesso di quel «ritorno a Freud» di cui egli si è fatto

banditore, nella persuasione, mai rinnegata, dello psicanalista come «maestro di verità»? La scoperta di

Freud, scrive Lacan in La cosa freudiana, «mette in questione la verità, e non v'è chi la verità non

riguardi personalmente. Confessate che è un discorso ben strano questo, gettarvi in faccia questa parola

che passa quasi per malfamata, proscritta com'è dalle buone compagnie.

Domando tuttavia se tale parola non sia iscritta nel cuore stesso della pratica analitica (au coeur meme

de la pratique analytique), dato che questa rifà sempre la scoperta del potere della verità (du pouvoir de

la vérité) in noi e fino nella nostra carne» (Écrits, p. 405; Scritti, p. 395). Tale verità («senza la quale

non è più possibile distinguere il viso dalla maschera, e fuori di cui sembra non esserci altro mostro che

il labirinto stesso», Écrits, p. 406; Scritti, p. 396) ha come fondamento la sua stessa parola: «Io sono

dunque per voi l'enigma di colei che si sottrae non appena è apparsa... Ma perché voi mi troviate là

dove sono, vi insegnerò a qual segno riconoscermi. Uomini, ascoltate, ve ne dò il segreto. Io la verità,

parlo (Moi, la vérité, je parle)» (Écrits, pp. 408-9; Scritti, p. 399); «la verità si fonda sul fatto che parla,

e non ha altro modo per farlo. Ecco perché l'inconscio,

che lo dice il vero sul vero, è strutturato come un linguaggio, e perché io, quando insegno questo, dico

il vero su Freud che ha saputo, sotto il nome di inconscio, lasciar parlare la verità» (Écrits, p. 866;

Scritti, p. 872); «La verità in psicanalisi è il sintomo. Là dove c'è sintomo, c'è una verità che si fa

strada» (Conversazioni con Lévi-Strauss, Foucault, Lacan, cit., p. 165); «Questa verità che conosciamo

così, non possiamo dunque conoscerla? Adaequatio rei et intellectus: così si definisce il concetto della

verità da quando ci sono dei pensatori, e dei pensatori che ci conducono nelle vie del loro pensiero. Un

intelletto come il nostro sarà bene all'altezza di questa cosa che ci parla, anzi parla in noi...» (Écrits, p.

420; Scritti, p. 411).

Questo non significa tuttavia che Lacan sia, o possa venir considerato, come il teorico di una verità

pienamente esplicitata o esplicitabile, in grado di superare le «divisioni» sopraccitate. Una simile

lettura sarebbe unilaterale- tanto quella precedente. In realtà, la posizione dello psicanalista francese

circa «Il commercio di lungo corso della verità» (Écrits, p. 410; Scritti, p. 401) risulta globalmente più

complessa ed articolata della rigida contrapposizione fra l'ipotesi di una verità (completamente) saputa

e l'ipotesi di una verità (sostanzialmente) ignorata. Infatti Lacan è fermamente convinto che il pensiero

umano abbia la possibilità di instaurare dei rapporti (o delle «alleanze») con la verità. Nello stesso

tempo è fermamente persuaso che il sapere non possa vantare, su di essa, prese esaustive o possessi

ultimi, in quanto, la Verità (in senso assoluto) rimane sempre estranea (o «straniera») alla scienza e ai

suoi strumenti concettuali e linguistici.

Che una lettura di questo tipo — forse l'unica in grado di dar ragione delle apparenti «oscillazioni» di

Lacan circa il problema della verità — rispecchi, più delle due precedenti, la concreta posizione del

nostro autore ci sembra confermato da un basilare (anche se poco citato) passo degli Ecrits: «Si

comprenda bene il nostro pensiero. Non stiamo giocando al paradosso di negare che la scienza abbia di

che conoscere circa la verità (Nous ne jouons pas au paradoxe de dénier que la science n'ait pas à

connaitre de la vérité)... Ma la verità nel suo valore specifico resta estranea all'ordine della scienza

(Mais la vérité dans sa valeur spécifique reste étrangère à l' ordre de la science): la scienza può onorarsi

delle sue alleanze (alliances) con la verità; può proporsi come oggetto il suo fenomeno ed il suo valore;

ma non può in alcun modo identificarla con il fine che le è proprio» (Écrits, p. 79; Scritti, p. 73).

Mancanza, desiderio e domanda. Strutturalismo e heideggerismo negli «Ecrits» Un altro caratteristico plesso di idee di Lacan — che mostra ulteriormente come la vita mentale

conscia, per effetto della Spaltung, sia costretta a ridursi a semplice metafora di quella inconscia, in

omaggio al principio secondo cui «l'uomo non è che sintomo» — risulta costituito dalle nozioni

interconnesse di «mancanza», «desiderio» e «domanda».

Presentare in modo soddisfacente questa sezione dell'opera di Lacan non è facile, sia per il consueto

ermetismo dei testi, sia per la disorientante polisemia dei termini, sia per l'assenza di una trattazione

organica dell'argomento da parte del nostro. Tenendo presente il discorso complessivo di Lacan e gli

apporti chiarificatori dei critici si può ricostruire il suo pensiero nel modo seguente. Nell'uomo vi è una

«mancanza ad essere» (manque à etre) che scaturisce dal vissuto di incompletezza o di «privazione»

(privation) conseguente alla fuoriuscita dal corpo materno. Da ciò il bisogno primordiale di reintegrare

l'unità perduta. Unità simboleggiata dal Fallo. Ovviamente, in questo contesto, il Fallo non è da

prendersi in senso letterale, ossia come l'equivalente dell'organo sessuale maschile (il pene): «Esso ha

un significato ben più vasto ed è in qualche modo il significante che fonda tutti gli altri significanti, in

quanto allude a ciò che del desiderio è la causa: la mancanza ad essere, il bisogno di reinstaurare

un'unità perduta. Il fallo è dunque simbolo ottativo di unione e di completezza, e come tale,

negativamente, rivela la primitiva "mancanza" che costituisce l'uomo» (D. Galati, Teoria del linguaggio

e prassi analitica in Jacques Lacan, Milano, 1981, p. 43).

In virtù dell'Interdizione paterna il bisogno di unità con la Madre viene rimosso e precipita

nell'inconscio, dando luogo alla costituzione del «desiderio» vero e proprio. Per questa sua genesi

edipica («Dunque è piuttosto l'assunzione della castrazione a creare la mancanza per cui il desiderio si

istituisce», Écrits, p. 852; Scritti, p. 856), il desiderio sarà costretto ad essere metafora o metonimia,

cioè a rincorrere all'impazzata una molteplicità di oggetti sostitutivi di quello primordiale (sebbene

allusivamente connessi, a livello inconscio, con esso). In altre parole, cercando di colmare la mancanza

ed il «vuoto» (béance) del bisogno primordiale, il desiderio andrà realizzando un'infinita fuga da un

significante all'altro, nel vano tentativo di appagare la propria esigenza profonda (e, a causa della

rimozione, non più saputa come tale), ovvero l'unità con la Madre (adombrata appunto da quell'oggetto

irreale ed impossibile che è il Phallus).

Tutto questo significa che per la sua natura metonimica, «il desiderio è di per sé votato alla perpetua

insoddisfazione che cerca di colmare complicandosi e moltiplicandosi indefinitamente, in un gioco

continuo di sostituzione di significanti tutti ugualmente inadeguati in quanto tutti metonimici (o

metaforici) rispetto al vero significato: l'oggetto primitivo del bisogno. È il mondo di "Alice", dei

miraggi e delle false prospettive in cui il soggetto si lancia in una corsa destinata a non raggiungere mai

la meta, poiché questa meta si sposta sempre più avanti secondo una traiettoria che però tende,

all'infinito, (e qui sta l'aspetto paradossale del desiderio umano) ad una chiusura circolare. La meta

ultima del desiderio è infatti posta prima e al di qua della "linea di partenza" della sua corsa

metonimica. Ed è appunto l'oggetto vissuto di mancanza ad essere metonimizzato nel desiderio.

Riassumendo, il desiderio ha una struttura ripetitiva, tende sempre a tornare su se stesso e così facendo

esso assume se stesso come oggetto, chiudendosi in un cerchio "tautologico" senza via di uscita...» (D.

CALATI, op. cit., pp. 59-60). Detto secondo gli ardui giri di frase di Lacan: «gli enigmi che il desiderio

propone a ogni "filosofia naturale", la sua frenesia che mima l'abisso dell'infinito (le gouffre de l'infini),

l'intima collusione in cui racchiude il piacere di sapere e quello di dominare con il godimento, non

dipendono da nessun altro disordine dell'istinto se non dalla sua cattura fra le rotaie — eternamente tese

verso il desiderio di altra cosa — della metonimia. Da qui la sua fissazione "perversa" allo stesso punto

di sospensione della catena significante dove il ricordo di copertura si immobilizza, in cui l'immagine

affascinante del feticcio si fa statua. Non c'è nessun altro modo di capire l'indistruttibilità del desiderio

inconscio...» (Écrits, p. 518; Scritti, p. 513; trad. modificata).

Strettamente connessa al desiderio, e costretta a condividerne il destino di sconfitta è la «domanda»,

che ne articola le richieste in forma linguistica e che mette capo ad una domanda d'amore rivolta ad

altri. Come tale, la domanda è più profonda del bisogno organico, sebbene si presenti spesso

"mascherata" sotto forma di bisogno, come dimostra l'esempio del bambino, che apparentemente

sembra chiedere il cibo, ma in realtà vuole l'amore della madre. Tant'è vero che se quest'ultima

«confonde le sue cure col dono del suo amore» e «al posto di ciò che non ha lo rimpinza della pappa

asfissiante di ciò che ha», allora «la soddisfazione del bisogno appare come l'illusione in cui la

domanda d'amore va a schiantarsi» (Écrits, pp. 627-28; Scritti, p. 623). Tuttavia, il carattere essenziale

della domanda, intesa alla maniera di Lacan, non risiede in un'astratta contrapposizione al «bisogno»

(organico), ma nel fatto di rappresentare una sorta di traduzione moltiplicata dal desiderio. Infatti, se

l'oggetto (inconscio) di quest'ultimo è il Fallo, gli oggetti della domanda sono svariati (si può volere

questo o quello e, al limite, qualsiasi cosa).

In particolare, il desiderio instaura, con la domanda, una singolare dialettica, la quale fa sì che esso,

come osserva Lacan, si trovi ad essere, al tempo stesso, al di là e al di qua della domanda: «Il desiderio

è al di là della domanda: ciò vuol dire che la trascende, che va più lontano, che è eterno perché non si

può mai soddisfare. La domanda, articolando il desiderio alle sue condizioni di forma linguistica, ne

tradisce necessariamente la vera portata. Ma, d'altro canto, il desiderio si incava al di qua della

domanda. In questo caso, sembra che avvenga un capovolgimento di ruoli. La domanda incondizionata

ed assoluta, mimando la frenesia del desiderio, evocherà la mancanza ad essere radicale che sottende il

desiderio. Il desiderio, dunque, è come invaso, sorpassato dalla domanda da cui rinascerà del resto, dal

momento che nessuna domanda è capace di soddisfarlo appieno» (A. Rifflet-Lemaire, op. cit., pp. 206-

7). Inoltre, «se la domanda è tutta nel registro dell'avere, il desiderio si articola nella dimensione

dell'essere del soggetto. Ma qual è l'articolazione tra queste due dimensioni.— ? "Il compimento del

desiderio dell'uomo — disse Lacan (seminario del 7 gennaio 1959) — è la domanda di qualcosa che

non può domandarsi — il fallo". In effetti può essere domandato il pene, ma non il fallo, che è un

significante, ergo qualcosa che non si può avere. Eppure il desiderio genera domande, domande che

vanno oltre se stesse, perché sono domande di essere, domande "miracolose" di essere il fallo» (S.

Benvenuto, La strategia freudiana. 1984, p. 144).

La teoria lacaniana del bisogno, del desiderio e della domanda rappresenta un'ulteriore conferma di

come l'inconscio, secondo il nostro autore, «parli» — e parli proprio come Jakobson ha mostrato che

parla il discorso poetico, ossia tramite una sequenza ininterrotta di metafore e di metonimie: «metafora

il simbolo, che sostituisce un simbolo con un altro rendendo oscuro il procedimento della rimozione,

metonimia il desiderio che si appunta su un oggetto sostitutivo, rendendo indecifrabile il fine ultimo di

ogni nostra aspirazione, quello per cui ogni desiderio, di spostamento metonimico in spostamento

metonimico, si rivela come desiderio dell'Altro» (U. Eco, La struttura assente, cit., p. 330). Inoltre, tale

teoria mostra chiaramente come il vero désir dell'uomo, secondo Lacan, vada ricercato nel suo

inconscio. Come suggerisce, del resto, la ricorrente ed enigmatica espressione: «il desiderio dell'uomo

è il desiderio dell'Altro» (le désir de l' homme est le désir de l'Autre). Espressione che (parallelamente

al termine «Altro») può assumere significati diversi ma che in riferimento all'Inconscio va letta

secondo la chiave del genitivo soggettivo: «il desiderio dell'uomo è il desiderio dell'Altro, in cui "dell' "

è la determinazione che i grammatici chiamano soggettiva, cioè... egli desidera in quanto Altro (ciò

costituisce la vera portata della passione umana)» (Écrits, p. 814; Scritti, p. 817; corsivo nostro).

Appurato che il desiderio autentico dell'uomo abita nell'Es, appare evidente che l'analisi e la guarigione

delle patologie nevrotiche — viste come fenomeni di destrutturazione della personalità, manifestantesi

nell'uso del linguaggio — implicheranno sempre un'operazione di accesso alla verità dell'inconscio. In

ogni caso, l'Es appare a Lacan come il luogo dove l'io deve tornare per scoprire la matrice profonda del

proprio essere e del proprio desiderio. Tant'è vero che il noto aforisma freudiano «Wo Es war, soli Ich

werden» non va interpretato, secondo Lacan, nel senso di una dilatazione possessiva dei limiti dell'Io,

quasi volesse significare che l'Io deve «sloggiare» l'Es, ma «nel senso di un suo remissivo ritorno là

dove già era nella forma autentica dell'Es» (M. Francioni, op. cit., p. 52). In altri termini, come

puntualizza Eco, secondo il nostro, «Non si tratta di sostituire la chiarezza razionale dell'Io alla realtà

originaria e oscura dell'Es: si tratta di ad-venire, di andare là, di venire alla luce là, in quel luogo

originario in cui sta l'Es come "luogo d'essere", Kern unseres Wesens.

Si può ritrovare la pace (nella cura psicanalitica come nella cura filosofica che mi spinge a domandarmi

cosa sia l'essere e chi sono io) solo se si accetta l'idea di non essere dove abitualmente si è, ma di essere

dove abitualmente non si è. Bisogna ritrovare il luogo di origine, riconoscerlo, liegen lassen, lasciarlo

apparire e custodirlo... Non per nulla Lacan attribuisce al detto di Freud un tono presocratico» (op. cit.,

pp. XVI-XVII e pp. 340-41).

Una presentazione dell'opera del nostro non può fare a meno di prendere in esame due questioni

critiche su cui non ci siamo ancora adeguatamente soffermati: il rapporto fra Lacan e lo strutturalismo

da un lato ed il rapporto fra Lacan ed Heidegger dall'altro. Per quanto riguarda il primo punto, che

Lacan presupponga in qualche modo lo strutturalismo, e che, per certi versi, parli lui stesso il lin-

guaggio dell'episteme strutturalista, ci sembra qualcosa di difficilmente contestabile. Infatti, l'autore de-

gli Écrits rientra nel «campo magnetico» del movimento strutturalista non solo per i suoi rapporti con la

linguistica strutturale,

ma anche per talune direttive teoriche e metodologiche di fondo: ad esempio per la sua maniera

antiumanistica di rapportarsi al problema dell'uomo; per la sua tendenza a concepire il soggetto come

un sistema di strutture disposte a piani; per la dottrina dell'inconscio come rete strutturata di elementi;

per la visione antifenomenologica ed antiesistenziale della psicologia, ecc. Del resto, scrive Lacan, «è o

non è lo strutturalismo ciò che ci consente di porre la nostra esperienza come il campo dove l'Es parla?

Se sì, "la distanza dall'esperienza" della struttura sparisce, poiché essa opera nell'esperienza non come

un modello teorico, ma come la macchina originale (originale) che vi mette in scena il soggetto»

(Écrits, p. 649; Scritti, p. 645; trad. modificata), «noi stessi facciamo del termine struttura un uso che

riteniamo potersi fondare su quello di Claude Lévi-Strauss» (Écrits, p. 648; Scritti, p. 644). Ciò non

equivale tuttavia ad una «mummificazione» di Lacan nel museo dello strutturalismo (soprattutto se

inteso come etichetta rigida). Infatti, con le tesi sopraccitate si intende semplicemente mettere in luce

come il suo ripensamento del freudismo sia avvenuto in stretta connessione con il paradigma

strutturalista e rappresenti di fatto, nell'ambito della cultura del Novecento, un creativo punto di

incontro — all'insegna di una originale «psicanalisi linguistica» — fra psicologia del profondo e

strutturalismo. In altri termini, come scrive J. M. Auzias, «Jacques Lacan non è strutturalista, così come

si è in pittura della scuola di Parigi. Jacques Lacan è uno psicanalista freudiano che vuole essere di

stretta osservanza. E le sue ricerche hanno incontrato quelle di Lévi-Strauss che egli nomina a più

riprese... Lo strutturalismo vive d'incontri, non d'annessioni, Jacques Lacan incontra Lévi-Strauss,

come incontra Hegel o Marx. Incontrare non è sottomettersi, né coincidere, né entrare nei quadri» (op.

cit., p. 139).

Anche il rapporto Lacan-Heidegger è stato variamente discusso e, in taluni casi, ha contribuito a

mettere in circolazione l'idea (che è piaciuta soprattutto agli studiosi di filosofia, ma non altrettanto agli

psicanalisti) di un sostanziale «heideggerismo» del nostro. In realtà, un'interpretazione di questo tipo

appare poco verosimile e necessita, a nostro avviso, di essere criticamente riveduta. Innanzitutto, pur

citando spesso i filosofi, Lacan ha sempre insistito sul carattere rigorosamente psicanalitico, e non

filosofico, della propria opera. Per cui, ogni tentativo di «catturare» il suo pensiero nelle maglie di una

qualsivoglia filosofia — compresa quella heideggeriana — rischia di risolversi in una manifesta

«forzatura». Questo non significa ovviamente che la costruzione di Lacan non contenga anch'essa

presupposti, riferi menti e conseguenze di tipo filosofico o che in essa non siano rintracciabili degli

espliciti o impliciti rimandi al filosofo tedesco.

Tuttavia, un conto è rilevare determinate «consonanze» o determinati «stimoli», e un conto è scorgere

nel lacanismo «un caso di manierismo heideggeriano» (U. ECO, op. cit., p. 341). Eco stesso, nella

Prefazione (1980) ad una nuova edizione della Struttura assente scrive: «quale fosse il mio errore me lo

hanno spiegato in molti. Io assumevo Lacan come fosse un filosofo e come se manovrasse concetti

filosofici (si badi bene, li manovrava ed esplicitamente li derivava da Heidegger!). Ma, mi è stato detto,

questi concetti filosofici acquistavano nuove valenze per il fatto che si inserivano nel discorso di uno

psicanalista. Termini come Essere, Verità o Altro, quando sono riferiti all'inconscio, al fallo, al

triangolo edipico, non sono più la stessa cosa che erano quando erano riferiti, che so, a Dio o all'essere

in quanto essere» (Ib., pp. V-VI). Su quest'ultimo punto, è difficile non essere d'accordo con i critici di

Eco. Dall'altro lato, è difficile non essere d'accordo con Eco, contro alcuni dei suoi stessi critici, circa là

necessità di tenere fermo il rapporto Heidegger-Lacan («in quel capitolo — egli sostiene a distanza di

tempo — dicevo qualcosa di giusto», Ib., p. vi). Infatti, che fra lo psicanalista Lacan ed il filosofo

dell'essere Heidegger esistano talune (oggettive) convergenze concettuali di fondo, che rendono

plausibile l'idea di specifiche influenze del secondo sul primo, ci sembra un dato fuori discussione.

Basti pensare, ad esempio, all'identica ottica antiumanistica, cioè al fatto che «pour Lacan comme pour

Heidegger, au principe du monde il y a Autre chose que l'homme» (A. Juranville, op. cit., p. 137); alla

comune persuasione di «un Essere non altrimenti attingibile se non attraverso la dimensione del

linguaggio: di un linguaggio che non è in potere dell'uomo perché non l'uomo si pensa in esso ma esso

si pensa nell'uomo» (U. ECO, op. cit., p. 339); all'analogo convincimento circa l'esistenza di una

«Chose» (l'Essere o l'Inconscio) collocata in un orizzonte di ulteriorità rispetto agli enti (Heidegger) o

alla vita mentale conscia (Lacan).

L'esistenza di simili consonanze, o di altre affini, non esclude tuttavia la disparità di base dei campi

teorici (e degli universi mentali) entro cui si muovono i due autori. Concentriamoci ad esempio su di un

brano come il seguente, che esemplifica abbastanza bene, a nostro giudizio, il tipo di rapporto che —

nella realtà dei testi — sussiste fra Heidegger e Lacan. Parlando di un oblio senza ritorno del rimosso,

conseguente all'integrazione simbolica, il nostro afferma: «L'integrazione nella storia comporta

evidentemente l'oblio di un intero mondo d'ombre, che non sono state portate all'esistenza simbolica. E

se quest'esistenza simbolica è riuscita e pienamente assunta dal soggetto, non lascia alcuna scoria dietro

di sé. Bisognerebbe fare allora intervenire nozioni heideggeriane. In ogni ingresso dell'essere nella sua

abitazione di parole esiste un margine d'oblio, un léte complementare di ogni aléteia» (Le séminaire de

Jacques Lacan. Livre I., cit., p. 239).

Come si può osservare, in questo brano Lacan allude ad un possibile impiego di nozioni heideggeriane,

ovvero ad una eventuale utilizzazione, in chiave di psicologia del profondo, di alcuni concetti filosofici

del pensatore tedesco — senza che tutto questo implichi una qualche «assunzione» dei suoi principi

ontologici. Lo stesso discorso potrebbe essere ripetuto a proposito degli altri luoghi in cui Lacan parla

di Heidegger. In conclusione, ci sembra che i testi, anziché suggerire l'immagine «generale», ma non

sufficientemente suffragata, di un «heideggerismo» di Lacan, autorizzino soltanto la constatazione

«locale» di talune «suggestioni heideggeriane», liberamente e tecnicamente sviluppate in sede di

discorso psicanalitico.