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la VICENDA DI BERGAMO in KOSOVO racconto in occasione della chiusura del percorso Bergamo-Pejë/Peć, 2-3 novembre 2006

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la VICENDA DI BERGAMO in KOSOVO

racconto in occasione della chiusura del percorso Bergamo-Pejë/Peć, 2-3 novembre 2006

A cura di Giacomo Bosisio e Sergio Capitanio

In collaborazione con l’Agenzia per la Comunicazione del Comune di Bergamo

PREMESSA In queste pagine, scritte velocemente al momento della chiusura, si cerca di raccontare la vicenda di Bergamo per il Kosovo. Si tratta di una narrazione istintiva, che non vuole essere né una lettura univoca dell’esperienza, né tanto meno un’analisi esaustiva, ma al più proporsi come un materiale preliminare a qualsiasi approfondimento della vicenda.

PREMESSA TOPONOMASTICA

I Balcani hanno dimostrato per l’ennesima volta l’importanza nella costruzione dell’odio etnico dell’uso del linguaggio, e in particolare della toponomastica. In Kosovo vengono parlate principalmente due lingue, l’albanese in una sua variante regionale, e il serbo-croato. Qualsiasi luogo può essere chiamato in due modi, e non indifferentemente. Il Kosovo stesso viene chiamato dagli albanesi Kosova e Kosovo i Metohija dai serbi. L’albanese Peja diventa Peć in serbo-croato e viceversa. Scegliamo di utilizzare nei pochi casi in cui esiste la neutra dizione italiana (Kosovo, Pristina), per i luoghi contesi dalla toponomastica verrà utilizzata la doppia dizione. La toponomastica ufficiale è fornita da OSCE, che antepone la versione albanesizzata a quella in serbo-croato, ma non considera i nomi assegnati dopo la guerra. A questo criterio si adegua Unmik, aggiungendo a volte una fantomatica denominazione internazionale, mentre la Kfor utilizza quasi esclusivamente la dizione serba, come riportato dalle mappe militari. Non smette mai di stupire quanto la propaganda nazionalista si debba aggrappare a simboli per colmare la sua pochezza.

LA COOPERAZIONE DECENTRATA DI BERGAMO PER IL KOSOVO

Bergamo per il Kosovo1 ama definirsi “un’organizzazione ombrello” o “un’organizzazione di organizzazioni”, grazie al cui coordinamento le associazioni di qualsiasi dimensione e peso della provincia di Bergamo che vogliano confrontarsi ed operare in Kosovo, possano avere informazione ed appoggio logistico. Essa nasce nell’autunno del 1998 con la finalità di elaborare un intervento preventivo in Kosovo che scongiuri il minacciato ricorso all’opzione militare da parte della NATO, obiettivo che garantisce la partecipazione di numerose realtà istituzionali e private. Tra i fondatori sono infatti annoverati il Comune di Bergamo, la Caritas diocesana, la onlus dei sindacati confederali orobici Nord-Sud, il Comitato accoglienza profughi ex-Jugoslavia, il Centro documentazione La Porta e le emanazioni territoriali di Acli, Arci, Ana, Auser, Agesci, Donne in nero. Non appena la situazione precipita, con i tre mesi di bombardamenti NATO partiti nel marzo ’99 e l’esodo di centinaia di migliaia di profughi dal Kosovo verso i paesi confinanti, BGxKS si attiva per raccogliere aiuti di prima necessità da distribuire nei campi profughi in Albania. Due operatori vengono inviati insieme al materiale per verificare che il carico arrivi a destinazione e per garantirne la corretta distribuzione. I contatti con i responsabili di due campi, gestiti dalle italiane Caritas e ICS – Consorzio italiano di solidarietà, si fanno molto stretti. A giugno, non appena le forze serbe si ritirano dal Kosovo, ha luogo il repentino rientro di massa dei profughi, e gli operatori di Bergamo, a soli tre giorni dalla fine dei bombardamenti, decidono di seguirli. A luglio viene deciso di concentrare le proprie attività nella Vallata di Radavac, presso la Municipalità di Pejë/Peć, nella zona assegnata all’Esercito italiano. I motivi che conducono a questa scelta sono di natura contingente (l’affidabilità degli interlocutori incontrati, il bisogno oggettivo d’aiuto della popolazione, l’assenza di altre organizzazioni e dunque del rischio di sovrapposizioni delle attività), ma sopratutto sono coerenti con l’approccio territoriale

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1 Da qui in avanti BGxKS.

che già in Bosnia la cooperazione orobica ha perseguito. BGxKS compie sin dall’inizio una scelta precisa: la sua zona d’attività sarà solo la Valle in questione. Tale impostazione consentirà di ridurre al minimo il rischio di disperdere energie su un’area d’intervento troppo ampia rispetto alle sue limitate capacità, ma, soprattutto, garantirà la creazione di un saldo legame tra la comunità della Valle e le persone che, tramite BGxKS, vi si recheranno per portare il proprio contributo.

Le premesse teoriche per una soluzione operativa di questo tipo vanno cercate nella riflessione sui limiti della cooperazione internazionale bilaterale, portata avanti a partire dagli anni ’80 da alcuni soggetti impegnati in aree di crisi, i quali hanno cercato di rimpiazzarla con la cooperazione decentrata allo sviluppo. Si tratta del tentativo di superare l’inevitabile asimmetria nel rapporto tra il donatore (ed il suo braccio operativo, l’ONG – organizzazione non governativa) e i beneficiari. Nel caso della cooperazione decentrata il donatore non è un’anonima istituzione internazionale, finanziata da chissà quali governi, che dispensa aiuto tramite professionisti dell’intervento umanitario, bensì una comunità che si auto-organizza per raccogliere al proprio interno risorse (che possono essere di volta in volta materiali, indispensabili nelle fasi d’emergenza, ma pure tecniche, umane e conoscitive) che verranno poi distribuite alla comunità individuata come partner. Si può già intuire come, in un’organizzazione come BGxKS, la figura centrale dell’organigramma sia quella del volontario2, il privato cittadino che decide di “mettersi in mezzo” al conflitto, di sfruttare la propria terzietà tra le parti in lotta per operare una concreta interposizione.

L’ambizione sottesa a questo modo di interpretare il proprio ruolo all’interno di società lacerate dal conflitto è quella di poter creare un collegamento, un ponte in primo luogo umano, tra due comunità considerate nella complessità delle loro appartenenze identitarie. Ciò significa, per fare esempi banali,

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2 Gli stessi operatori espatriati di BGxKS percepiscono stipendi concordati all’interno dell’organizzazione sulla base delle risorse disponibili, spesso assimilabili più a rimborsi spese che agli standard retributivi del personale espatriato.

che nella casa di BGxKS a Pejë/Peć trovano ospitalità volontari sia cattolici che laici, rappresentanti di associazioni diverse, magari anche “rivali” in patria, ma che condividono l’impostazione e lo spirito delle nostre attività. Allo stesso tempo noi riteniamo nostri interlocutori, alla pari, gli abitanti della Valle di Radavac a prescindere dalla loro etnia, religione o sesso. In questi anni, svariate centinaia di bergamaschi di ogni estrazione sociale e dai percorsi personali più diversi hanno partecipato ai progetti promossi in Bosnia ed in Kosovo. Si tratta di un significativo esempio di diplomazia dal basso, di centinaia di ambasciatori informali della propria comunità d’origine che hanno cercato anzitutto un confronto con gli esponenti della comunità balcanica ospite. Tutto questo nel rispetto delle singole esperienze personali, evitando nei limiti del possibile la goffaggine di chi, proveniente dal benessere e dalla pace, pensa di poter elargire consigli di buonsenso sulla convivenza, la fratellanza e la rinascita a persone irrimediabilmente segnate dal lutto e dall’orrore della guerra. IL PRECEDENTE: IL “COMITATO ACCOGLIENZA PROFUGHI EX-JUGOSLAVIA” (1992-2000)

Per capire cosa sia BGxKS non si può prescindere da una rapidissima descrizione dell’esperienza del Comitato accoglienza profughi ex-Jugoslavia di Bergamo, di cui rappresenta, si può dire, una diretta filiazione. Il Comitato viene fondato nell’autunno del 1992 per iniziativa di alcuni consiglieri comunali; all’origine non era ipotizzato alcun tipo di intervento fuori dalla città, ma ci si proponeva di trovare un alloggio per il primo inverno ai profughi provenenti dalle zone di guerra. Non si voleva in alcun modo costruire una struttura fissa di accoglienza, potenziale luogo di esclusione, bensì organizzare una rete di ospitalità basata su abitazioni private. L’iniziativa mirava ad ottenere l’adesione personale di alcuni cittadini in grado di aprire la propria casa a persone in quel momento bisognose. Il Comitato non voleva affatto sostituirsi alle numerose

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organizzazioni di solidarietà già presenti sul territorio, ma dare loro un coordinamento ed offrire la possibilità di collegamento con le istituzioni locali, l’Amministrazione comunale e quella provinciale su tutte. E in effetti alcune sedute del Consiglio comunale hanno all’ordine del giorno la situazione del confitto in Bosnia e le iniziative intraprese in proposito all’interno della città.

Nell’aprile 1993 diventa evidente che il conflitto in Bosnia non ha alcuna possibilità di cessare entro il periodo per cui era stata inizialmente ipotizzata l’accoglienza. Non essendo possibile trovare una sistemazione per altri profughi, il cui numero tende inesorabilmente a crescere, vengono compiute alcune missioni esplorative in Istria per verificare la possibilità di una collaborazione con un campo profughi. Viene identificato il campo presso il Camping Pineta di Novigrad, campeggio di proprietà slovena requisito per ospitare milleduecento profughi croati, prevalentemente provenienti da Kakanj, una cittadina industriale di circa 70000 abitanti a 50 km da Sarajevo, da cui provengono alcuni dei primissimi ospiti delle famiglie bergamaschi. Alla semplice assistenza imperniata sull’invio di materiale e medicinali, il Comitato preferisce la promozione di un vero e proprio gemellaggio tra le città di Bergamo e Novigrad, con il coinvolgimento delle rispettive amministrazioni. Nella gestione ordinaria del campo si rivela fondamentale l’apporto di gruppi di volontari provenienti dalla provincia bergamasca, spesso già organizzati da associazioni radicate sul territorio, che accettano la proposta di collaborazione del Comitato.

Nel febbraio 1994 Bergamo ospita la prima ambasciata della Bosnia Erzegovina in Italia, e più precisamente una delegazione di funzionari dell’Ambasciata di Berna che per qualche giorno lavora sulla regolarizzazione della posizione dei profughi presenti nella provincia. A fine giugno, dunque a guerra pienamente in corso, si svolge la prima missione di due bergamaschi a Kakanj, località strategicamente rilevante ma estranea alla linea del fronte nella fase conclusiva del conflitto, col fine di valutare la possibilità del rientro dei profughi nelle proprie abitazioni. Al sindaco musulmano della città viene offerta la possibilità di un gemellaggio con Bergamo, vincolato ad alcune condizioni che garantiscano il rispetto di tutte le etnie presenti

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nella municipalità3 e il loro pari accesso agli aiuti ed ai servizi municipali. Al rientro le immagini raccolte durante la missione vengono proiettate al campo di Novigrad col fine di smontare le voci catastrofiche messe in circolazione dalla propaganda nazionalista croata; seguono i saluti del sindaco, oltre a quelli delle autorità cattoliche. Le istituzioni locali di Kakanj invitano, di lì a poco, il Comitato a valutare l’ipotesi di organizzare una presenza fissa in città e da ottobre un operatore proveniente da Bergamo inizia periodi di permanenza nella cittadina bosniaca. In questo periodo l’attività del Comitato si concentra sugli scambi e collaborazioni tra scuole e associazioni bergamasche e bosniache. Il Consiglio comunale di Bergamo inaugura il progetto “Diamo una mano alla pace” per il periodo 1994-95, che ottiene un contributo della Regione Lombardia. I Sindacati confederali bergamaschi, tramite la loro onlus, firmano una convenzione con il locale sindacato dei minatori per un progetto di tutela dei diritti di lavoratori. Con gli accordi di Dayton e la fine del conflitto, le attività del Comitato possono fare un salto di qualità. Al posto del semplice invio di aiuti per la popolazione civile e di scambi simbolici tra le città, gli sforzi si concentrano sulla ricostruzione delle case al fine di dare la possibilità ai profughi di rientrare. Passaggio cruciale è la selezione dei beneficiari in base al reale bisogno, evitando di favorire l’etnia maggioritaria.

Nel 1996 il Comitato, fino a quel momento privo di personalità giuridica, si costituisce in associazione e ottiene il coinvolgimento in progetti finanziati da importanti organismi internazionali quali UNHCR4, ECHO5 e UNOPS6. Mentre in Bosnia continua l’alternarsi di gruppi di volontari bergamaschi coordinati dagli operatori espatriati, nel territorio neutro di Bergamo si tiene una difficile conferenza di dialogo interreligioso alla presenza di rappresentanti di tutte le confessioni presenti a

3 La maggioranza dei cittadini di Kakanj è musulmana, ma prima della guerra vi risiedevano una consistente minoranza croata (attorno al 30%) poi parzialmente rientrata, ed una serba, oggi praticamente inesistente. 4 United Nations High Commissioner for Refugees. 5 European Commission Humanitarian aid Office.

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6 United Nations Office for Project Services.

Kakanj. Le attività del Comitato si concentrano sulla ricostruzione e il micro-sviluppo locale. Particolare energia è posta su progetti che si rivolgono direttamente ai giovani di Kakanj. Nel 1998 si registra la partecipazione di giovanissimi volontari italiani all’inaugurazione di un centro di aggregazione giovanile tenuto a battesimo dal Comitato con la collaborazione di consulenti dell’Assessorato alle politiche giovanili del Comune di Bergamo, la cui gestione è presto affidata ad elementi locali. Nell’ottobre del 2000, conclusi i progetti di auto-sviluppo agricolo delle campagne attorno alla cittadina e risolti i rapporti di lavoro con lo staff locale, Livio Vicini, l’ultimo operatore bergamasco espatriato, lascia Kakanj e l’ufficio del Comitato in città chiude i battenti. Una piacevole dimostrazione della profondità dei rapporti umani creatisi in quegli anni e del buon ricordo che la comunità locale conserva a proposito della presenza dei bergamaschi sta nei viaggi annuali in Bosnia Erzegovina organizzati dagli ex-volontari che trovano ospitalità nelle famiglie un tempo “beneficiarie”. Le persone coinvolte nei progetti del Comitato nei suoi otto anni di attività sono numerosissime; molte di esse, in particolare il Direttore Roberto Bertoli e gli operatori espatriati (oltre allo stesso Vicini vanno ricordati Sanija Basić e Guido Fornoni) saranno tra i promotori ed i protagonisti di Bergamo per il Kosovo. IL CONTESTO TERRITORIALE: LA MUNICIPALITÀ DI PEJË/PEĆ E LA VALLATA DI RADAVAC La Municipalità (ente le cui funzioni sono assimilabili alla somma delle competenze dei comuni e delle province italiane) di Pejë/Peć si trova nel Kosovo nord-occidentale, incastonata tra la pianura della Dukagjini/Metohija ed il Montenegro, col quale comunica ad ovest attraverso il passo di Kuqishte/Kučište in Val Rugova e ad est attraverso il passo di Kula, a cui si accede dalla Vallata di Radavac. L’area comprende novantaquattro agglomerati di dimensioni molto variabili, in cui sono distribuiti

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centotrentamila abitanti dei quali circa il 60% nel capoluogo7. Centro urbano principale del Kosovo occidentale, ai tempi della Jugoslavia Pejë/Peć contendeva a Prizren il titolo di seconda città del Kosovo per importanza, allorquando, prima della depressione degli anni ’90 scatenata dalla guerra civile e dalle sanzioni internazionali, poteva contare su un certo grado di sviluppo industriale e su un commercio fiorente favorito dalla collocazione a ridosso del Montenegro e dalla rete stradale piuttosto articolata. Spiccava nel panorama industriale del luogo lo stabilimento della Crvena Zastava, che fino alla fine degli anni ’80 dava impiego a più di duemilaquattrocento operai, senza considerare l’indotto. Nonostante l’assenza totale di dati affidabili, si può sostenere che la composizione etnica della zona è, ad oggi, quasi esclusivamente albanese, ad eccezione di qualche significativa presenza di bosniaci8 e rom.

Prima del conflitto si valuta che nella Municipalità abitassero circa ottomila cittadini serbi9, prevalentemente concentrati in ambito urbano, mentre la loro presenza nelle campagne era ridottissima e circoscritta a pochi villaggi isolati: Goraždevac10, Belo Polje, Siga, Brestovik, Ljevoša, Crni Vrh e alcuni centri minori. Nelle vicinanze della città sorgono il Patriarcato serbo-ortodosso e l’importante monastero di Visoki Dečani, magnifici monumenti religiosi risalenti al XIII e XIV secolo rispettivamente, tutt’oggi fondamentali simboli della Chiesa e dell’identità serba. Questa zona del Kosovo ha conosciuto alcuni degli episodi più feroci del conflitto tra Uçk11 e forze di sicurezza serbe; non sono purtroppo mancati gli eccidi di civili soprattutto durante la fase più acuta delle violenze, contemporanea ai

7 Cfr. OSCE Mission in Kosovo, Pejë/Peć Municipal Profile, Pristina, 2005, p.1, reperibile all’indirizzo internet: http://www.osce.org/item/1197.html. 8 Più esattamente slavi musulmani, che nel villaggio di Vitomirica, alle porte del capoluogo, conoscono la più grande comunità bosniaca del Kosovo. 9 Cfr. OSCE Mission in Kosovo, op. cit., p. 2. 10 Si tratta dell’unico villaggio serbo della Dukagjin/Metohija che non è stato mai abbandonato dai propri abitanti (circa 800) nel dopoguerra.

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11 Ushtria Çlirimtare ë Kosoves (Esercito di liberazione del Kosovo).

bombardamenti NATO. Per avere un’idea della veemenza del conflitto nella zona, basti pensare che la quota del patrimonio abitativo danneggiato durante i combattimenti viene valutata intorno ai due terzi del totale e che, mentre si apprestavano a lasciare la città, le truppe serbe hanno appiccato il fuoco al centro storico di Pejë/Peć, distruggendo tutto il quartiere dell’antico bazar.

La Valle di Radavac si estende su un altopiano che si sviluppa in direzione del passo di Kula, a est di Pejë/Peć e si compone di quattro villaggi, Novosellë/Novo Selo e Radavac che sorgono in prossimità della strada asfaltata principale, e le più remote Jabllanicë/Jablanica Grande e Jabllanicë/Jablanica Piccola. All’imbocco della Vallata sorge il vasto villaggio di Vitomirica che ospita tutt’oggi la più numerosa comunità di bosniaci della regione. All’interno dell’area scorrono ben due corsi d’acqua, tra cui l’importante Drini i Bardhë/Beli Drim, e ciò spiega l’insolita, rispetto all’arida spianata kosovara, floridezza e fertilità dei terreni circostanti. La locale vocazione produttiva è di conseguenza l’agricoltura, benché essa sia attualmente praticata solo in termini di sussistenza, ad integrazione degli scarsi redditi medi familiari. Vista la prossimità al confine, tutta la zona è, dalla

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fine della guerra, interessata da un’attività di contrabbando piuttosto capillare per mezzo di spedizioni notturne a dorso di mulo. Addirittura nel 2000 tra i prati di Jabblanicë e le montagne del confine correva un’artigianale pipeline per il contrabbando della benzina che si dirigeva verso i cinque km smilitarizzati tra Kosovo e Jugoslavia, divenuta famosa in seguito ad un’inchiesta giornalistica12.

Nella Valle vivono circa 7000 persone, per il 99% di etnia albanese. Le statistiche ufficiali dell’OSCE reputano due terzi dei kosovari sotto i 25 anni d’età, e un tasso medio di disoccupazione attestato intorno al 60%. La memoria collettiva della popolazione dei villaggi è rimasta profondamente segnata da episodi drammatici accaduti durante la guerra. Già nel febbraio 1999 i famigerati paramilitari di Arkan13, soliti a ritrovarsi in un locale sulla strada che conduce al passo di Kula, avevano condotto azioni nei villaggi. Quando a fine marzo e l’inizio dei bombardamenti NATO, molti profughi transitarono per la Vallata diretti verso il Montenegro attraverso i passi montani innevati, le autorità militari serbe colsero l’occasione per sguinzagliare nei villaggi le forze di polizia speciale di Belgrado e l’esercito; non va dimenticato che operazioni di questo tipo da parte delle unità serbe hanno sempre visto, nel corso delle guerre degli anni ’90, la partecipazione di paramilitari disposti al “lavoro sporco”. A fine aprile i serbi scatenarono un’offensiva contro l’Uçk mobilitando nell’area millecinquecento soldati e un centinaio di mezzi; un simile dispiegamento di forze causò l’abbandono dei villaggi da parte di tutti gli abitanti, che si diressero verso i campi profughi in Montenegro ed in Albania. Proprio nel campo nei pressi di Kukës, in una disastrata zona nel nord dell’Albania, avvenne l’incontro con gli operatori umanitari bergamaschi Guido Fornoni e don Piero Legrenzi. Quando questi ultimi entrarono per la prima volta nella Vallata, appena tre giorni dopo la fine dei bombardamenti NATO, valutarono il grado di danneggiamento di 12 Ibrahim Rexhepi, L'oleodotto che non da' fastidio a nessuno, AIM Pristina, 30/11/2001, trad. di Ivana Telebak e Luka Zanoni, cit. in Notizie Est, 08/12/2001.

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13 Le terribili gesta delle “Tigri” di Željko Ražnjatovic detto Arkan riempiono le cronache della guerra di Bosnia.

più della metà delle abitazioni con la categoria V, la più alta, corrispondente a case date alle fiamme e di cui si può intuire l’originale volumetria solo dai pilastri rimasti in piedi e dai basamenti dei muri perimetrali. I caduti durante quei mesi, di solito giovani guerriglieri ma purtroppo anche inermi civili (non di rado anziani), furono alcune decine. In questi posti le mansioni corrispondenti a quelle di un sindaco sono di competenza di capi-villaggi nominati per il loro prestigio personale, senza però passare per formali elezioni. Costoro sono affiancati nelle decisioni più impegnative da consigli di zona composti da esponenti comunemente apprezzati delle famiglie più numerose. L’efficacia e la “legittimità funzionale” di tale assetto istituzionale si può ben capire quando si pensi all’alto grado di consanguineità degli abitanti dei villaggi.

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IL PERIODO DELL’EMERGENZA (giugno 1999-marzo 2000)

Inizialmente BGxKS si affidò per il finanziamento della propria azione ai soli fondi propri, stanziati dai principali partner come l’Amministrazione Comunale, la Caritas diocesana e i sindacati confederali locali. Con tali risorse si ricostruirono venti case e si richiamò l’attenzione degli organismi internazionali presenti nell’area sul radicamento che BGxKS poteva vantare nel tessuto sociale della Valle di Radavac. Di lì a poco, infatti, nonostante i problemi derivanti dalla mai chiarita posizione giuridica dell’organizzazione, si ottenne un ingente finanziamento da parte della “Missione Arcobaleno – Gestione fondi privati”. Il progetto n° 82 di “Arcobaleno”, affidato a BGxKS tramite la formale investitura di Diakonia-Caritas, una delle realtà aderenti che si prestò al ruolo di capofila prevedeva uno stanziamento di circa tre miliardi di lire per la ricostruzione di trecentocinquanta case ed una scuola nella Vallata.

L’esperienza della ricostruzione in Bosnia si rivelò in questa fase determinante per le scelte operative con cui conseguire l’obiettivo. A differenza di quanto viene fatto tradizionalmente dalle ong, che subappaltano le opere di edificazione a ditte private creando così l’ennesima figura intermedia tra donatore e beneficiario, BGxKS optò per il cosiddetto self-help: alla popolazione venne cioè fornito il materiale per la ricostruzione e vennero messe a disposizione le competenze di alcuni professionisti italiani e locali, ma il lavoro vivo fu delegato ai membri delle famiglie. In caso di famiglie prive d’elementi abili al lavoro, si fecero intervenire i volontari da Bergamo. Per la selezione dei destinatari delle forniture ci si affidò alla collaborazione dei leader locali, che disponevano di una mappatura esatta dei bisogni all’interno dei singoli villaggi. Nel reperimento dei materiali si diede la precedenza a quelli utili all’edificazione dei tetti e delle strutture portanti, ottenendo, ben prima della maggior parte degli altri progetti di ricostruzione, locali coperti e riscaldati in anticipo rispetto all’inizio del rigido inverno kosovaro. Si cercò di far attenzione a non disperdere risorse nei cari mercati occidentali dell’edilizia, ma di contattare

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ditte bosniache di legname e tegole con cui si era lavorato in precedenza, così da non fare compiere viaggi troppo lunghi alle merci e assegnare qualche commessa ad attori di una delle più asfittiche economie sud europee. Il risultato più importante che un simile approccio garantì a BGxKS fu la creazione di profondi legami di fiducia con la comunità locale della Vallata. Utilizzando la mediazione dei capi-villaggio per la selezione dei beneficiari si diede l’impressione, peraltro non fittizia, di agire nel rispetto degli equilibri consolidati, sebbene scossi alle fondamenta dalla guerra, nella comunità. Inoltre si evitarono sprechi tipici delle ricostruzioni rapide, le cattedrali nel deserto che la cooperazione spesso lascia dietro di sé a causa dell’incapacità degli operatori esterni di valutare le necessità espresse dalle popolazioni assistite.

L’efficacia fu tale che in pochi mesi vennero consegnate ben quattrocentodue case, a cui se ne aggiunsero altre venti, finanziate con fondi propri, e la scuola di Jabllanicë/Jablanica Piccola. Per fare tutto ciò e per assicurarsi che la grande maggioranza delle risorse arrivasse agli unici destinatari legittimi, senza dispersioni nelle casse delle organizzazioni coinvolte, la struttura amministrativa di BGxKS venne ridotta ai minimi termini: il direttore Robi Bertoli, Sanija e don Piero come operatori internazionali, due interpreti locali (l’attuale coordinatore locale Sami Meta e ) e un architetto come consulente fisso. A costoro, incaricati di coordinare le attività, si affiancavano per brevi turni dalla durata variabile i volontari provenienti da Bergamo il cui reclutamento era affidato ad un ufficio in città retto dalla CGIL. Ai volontari si fornivano i biglietti per la traversata dell’Adriatico, il resto delle spese era a carico loro. Figure centrali in una simile organizzazione, precaria e a tratti improvvisata, ma senz’altro elastica e resa affidabile dal coinvolgimento umano delle persone che la componevano e dalla loro passione, si rivelarono gli interpreti, anelli di congiunzione tra italiani e kosovari, indispensabili per affrontare una barriera linguistica altrimenti invalicabile e per trovare mediazioni funzionali tra la mentalità e l’immaginario dei bergamaschi e quelli della comunità locale.

Il ricorso alla modalità del self-help scongiurò inoltre un approccio all’aiuto umanitario molto diffuso e destinato a rivelarsi

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mero assistenzialismo. Si dimostrò che, messa nelle condizioni di lavorare, la comunità beneficiaria poteva farlo più rapidamente e con meno sprechi di qualsiasi soggetto estraneo. La “pioggia di mattoni e tegole” che si abbatté sulla Valle di Radavac fu molto più utile della pioggia di dollari contanti caduta altrove. Gli abitanti dei villaggi, per mezzo dei propri rappresentati, furono inoltre incentivati a sviluppare e consolidare quei legami comunitari e di solidarietà che la repentina scomparsa del nemico comune minacciava di far franare in favore di una corsa individualistica, o più spesso familistica, all’aiuto. I PROGETTI DI COMUNITÀ (2000-2003)

La ricostruzione in Kosovo, sostenuta da un inesauribile flusso di aiuti umanitari e dalla pacificazione della regione legata anche all’espulsione delle minoranze, ebbe una velocità impressionante. Nella primavera del 2000 poteva dirsi conclusa, e, in effetti, davvero poche persone avevano trascorso l’inverno precedente in sistemazioni d’emergenza. Con l’esaurimento di questa fase, molte ong videro rarefarsi le possibilità di finanziamento immediato dei progetti e si ritirarono per cercare altrove i fondi indispensabili a sopravvivere. È questo il periodo in cui BGxKS inaugurò una riflessione relativa al senso della propria presenza in Kosovo e alle prospettive future. Si decise di dichiarare conclusa la fase dell’emergenza, e, invece del disimpegno e del ritiro, si optò per un cambio d’approccio alla situazione. Si elaborarono dunque i cosiddetti “progetti di comunità”, una serie di attività che prevedeva il sostegno nel medio-lungo termine della società civile locale a partire dalle istanze che essa stessa esprimeva. La prima tappa di tale percorso fu un confronto serrato con i rappresentati della Vallata sui bisogni più imminenti a cui dare risposte e l’analisi delle caratteristiche socio-economiche dell’area condotta da due economisti dell’Università di Bergamo, Enzo Rodeschini e XY.

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Il primo e più ambizioso progetto che scaturì da questa ampia riflessione fu la costruzione di un centro di formazione professionale. Una iniziativa del genere avrebbe richiesto l’utilizzo di un ingente finanziamento messo a disposizione da una sottoscrizione dei lettori del Giornale di Brescia e da una raccolta fondi congiunta di Confindustria e dei sindacati confederali, circa un anno di lavori per la costruzione della struttura, e soprattutto la disponibilità di BGxKS ad avviarne le attività. Dopo qualche mese di “rodaggio”, il Centro sarebbe stato quindi donato alla Municipalità di Pejë/Peć dietro l’impegno a gestirlo nel rispetto dei diritti civili di tutti i cittadini kosovari. Siamo qui di fronte ad un progetto condotto secondo canoni più tradizionali rispetto alle modalità operative con cui si era affrontata la ricostruzione. Il Centro nasce per la volontà di affrontare quella che sembra sin dalla fine dei bombardamenti una delle maggiori difficoltà che dovrà affrontare il Kosovo “libero”, la disoccupazione di massa. La struttura concepita dagli architetti bergamaschi Carlo Fornoni e Flavio Della Vite può ospitare due uffici amministrativi, una grande sala da cinquecento posti per le manifestazioni pubbliche della comunità, una biblioteca, un laboratorio d’informatica14, un laboratorio d’analisi e uno per la lavorazione dei formaggi, alcune aule studio. In un edificio adiacente sono state ricavate alcune aule per le lezioni teoriche. Il Centro Polifunzionale, come è stato ribattezzato vista la molteplicità di funzioni radunate al suo interno, è stato inaugurato nell’ottobre 2001 alla presenza di delegazioni istituzionali (ridotte a causa della prossimità cronologica degli attentati dell’undici settembre) provenienti da Bergamo e Brescia e di lì a poco la Municipalità di Pejë/Peć ne ha nominato un direttore mediante un concorso per titoli. A BGxKS è stato chiesto di affiancare le attività del Centro mediante la partecipazione di un suo rappresentante al Consiglio direttivo, la supervisione dei corsi e l’invio di esperti italiani.

Tra il 2000 e il 2001 si realizzarono, in collaborazione con l’Assessorato alla Pubblica Istruzione del Comune e il Provveditorato agli studi di Bergamo alcuni corsi

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14 I computer e gli arredi con cui è attrezzato sono stati acquistati dal contingente italiano della KFor.

d’aggiornamento per insegnanti di scuole elementari che videro l’invio di gruppi di insegnanti italiani nelle due scuole elementari della Vallata e la permanenza di maestri kosovari (superati gli inimmaginabili problemi relativi ai visti d’ingresso) a Bergamo per periodi di una settimana. Le pareti delle scuole kosovare in questione, tutt’oggi decorati con cartelloni colorati e da collage, dimostrano l’entusiasmo con cui i docenti, ostacolati nell’aggiornare i metodi d’insegnamento dal declino delle istituzioni jugoslave prima e dalla clandestinità dell’insegnamento nella lingua madre poi, hanno saputo prendere spunto dal confronto con i colleghi italiani.

Un’iniziativa molto limitata per durata e potenzialità ma che mi sembra ben esemplificare lo sforzo di BGxKS di sostegno della società civile kosovara, in questo caso tramite la promozione dell’associazionismo sportivo, è stata il soggiorno di dieci giorni nell’estate 2002 di una dozzina di istruttori della sezione C.A.I. di Bergamo, che hanno proposto ai loro omologhi locali seminari teorici ed esercitazioni pratiche di tecnica d’arrampicata, speleologia15 e rispetto dell’ambiente montano. Nel 2001 e nel 2004 si sono tenuti due seminari di urbanistica rivolti ai consulenti della Municipalità di Peć/Peja con l’intervento di architetti inviati da BGxKS in collaborazione con la una docente dell’Università di Venezia.

BGxKS ha avviato anche un progetto di sviluppo economico in campo agricolo, attraverso la costruzione di alcune serre per la coltivazione degli ortaggi nei villaggi. Tali strutture sono state donate grazie ad un finanziamento della Regione Lombardia ad aziende agricole familiari locali che rispondevano a requisiti di affidabilità e dimensione a patto che potessero essere utilizzate per la formazione di agronomi ed agricoltori in collaborazione con il Centro polifunzionale e il Dipartimento del lavoro della Municipalità di Pejë/Peć. Il progetto è stato curato dall’esperto Angelo Brembilla, messo a disposizione dalla Provincia di Bergamo, e si è concluso nel 2005. Sono stati anche curati corsi di formazione per i giovani agricoltori della Vallata. La

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15 Le caratteristiche geologiche della Val Rugova in particolare si presterebbero molto bene ad attività organizzate di speleologia, come ben sapevano gli esperti in materia in epoca jugoslava.

coltura in serra si è dimostrata estremamente produttiva, e soprattutto in grado di inserirsi nel mercato locale. IPIK: PROGETTO DI VOLONTARIATO GIOVANILE (2001 e 2002)

Sempre nell’ambito dei progetti di comunità e nell’ottica di favorire l’incontro tra la comunità bergamasca e quella kosovara, nell’agosto 2000 vengono ospitati da BGxKS una dozzina di volontari di età comprese tra i 17 e i 21 anni, ed il gruppo pacifista di ispirazione cattolica Si vive una sola pace, già attivo in Bosnia Erzegovina. Costoro non sono incaricati di partecipare ai lavori manuali richiesti dalla ricostruzione, ormai esaurita, ma di organizzare delle attività d’intrattenimento ed animazione per i bambini della Vallata. Il progetto riscuote un successo inaspettato, l’arrivo degli animatori è atteso in ogni villaggio da centinaia di bambini, i volontari conoscono un’esperienza dall’alto valore umano. Sulla base di questa felice esperienza-pilota, il direttore di BGxKS propone ad alcuni degli animatori del 2000 di organizzare per tutta l’estate successiva una presenza nei villaggi della Valle di giovani della città cui proporre di improvvisarsi animatori. Non vengono richiesti né competenze né particolari esperienze precedenti, solo una certa elasticità nell’accettare uno stile di vita piuttosto spartano durante la permanenza. Ai sei giovani coordinatori del progetto viene garantito l’appoggio dell’Ufficio Giovani del Comune (in particolare grazie alla competenza e disponibilità di Renato Magni), con il compito di dare loro supporto logistico e svolgere un servizio di segreteria. Nei mesi di preparazione del progetto, vengono coinvolti nell’organizzazione alcune delle associazioni storicamente impegnate nelle attività giovanili, l’AGESCI, i CiNGEI e l’ARCI.

Le adesioni superano qualsiasi previsione, alla chiusura delle iscrizioni si registrano più di duecento ragazzi di età inferiore ai ventinove anni, dalle più svariate biografie e sensibilità, disponibili a trascorrere in Kosovo un periodo di due settimane autofinanziandosi. Per poter ospitare un simile numero

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di persone si trasforma la scuola elementare di Novosellë/Novo Selo in modo che possa alloggiare fino a cento ragazzi contemporaneamente, con servizi igienici adeguati, una mensa e dei magazzini per il materiale utile alle attività. I lavori sono eseguiti ad inizio luglio dal gruppo dei coordinatori aiutati da una squadra di pensionati dell’AUSER di Bergamo, coordinati da uno dei più generosi e competenti volontari di BGxKS, Luigi Battaglia detto Taja. I primi volontari giungono il 14 luglio, viaggiando da Bergamo ad Ancona in treno, da Ancona a Bar (Montenegro) in traghetto e dal porto al Kosovo su un pullman inviato da Pejë/Peć. Solo il viaggio dura un giorno e mezzo, si arriva al campo di Novosellë/Novo Selo in piena notte e già l’indomani sono programmate delle attività.

Durante le due settimane di permanenza (undici giorni al netto del viaggio di andata e ritorno) i volontari girano con rotazione quotidiana i quattro villaggi della Vallata spostandosi a piedi, su tragitti di qualche chilometro. Nel weekend vengono portati in visita a siti d’interesse come la città di Prizren, il Patriarcato serbo-ortodosso, il monastero di Dečani, i vicini villaggi-fantasma di Siga e Brestovik, le cui case distrutte e frettolosamente abbandonate, come dimostrano gli oggetti della quotidianità dei loro ex-abitanti che non si è fatto a tempo a prelevare sparsi tra le rovine, sono un monumento alle distruzioni della guerra (anche quella umanitaria) difficile da dimenticare. Nei pomeriggi d’animazione i ragazzi italiani incontrano loro coetanei del posto e questo dà loro la possibilità di scoprire che l’immagine diffusa nella Bergamasca dell’albanese, improntata al peggiore razzismo e al pregiudizio, non ha molto a che vedere con la realtà. La sera, al campo, oltre agli spazi per la goliardia che si possono immaginare in un posto completamente autogestito da giovani, arrivano i visitatori, ragazzi e anziani del villaggio, volontari di altre ong, internazionali vari, militari. Il “campo dei bergamaschi” è presto noto in tutta la Municipalità come uno dei principali luoghi d’incontro.

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Animazione a Radavac (2001)

Rientrati in Italia, in autunno i partecipanti ad IPIK

vengono coinvolti in un percorso di verifica e riflessione sull’esperienza appena conclusa. In quest’occasione sono promosse alcune proposte di miglioramento che saranno recepite nell’organizzazione dell’edizione 2002 dell’iniziativa. Nell’estate di quell’anno viene riproposto infatti un campo della durata di un mese nella stessa ubicazione del precedente. Il numero dei partecipanti viene di proposito limitato a ottanta persone, distribuite in gruppi d’attività. Se l’animazione dei bambini rimane il compito della maggioranza “generalista” dei volontari, sulla base delle competenze personali vengono anche istituiti un gruppo per attività di tutela ambientale, uno di recitazione, uno di musica. Interessante si rivela l’attività del gruppo dedicato alle tematiche di genere, che, constatata la condizione di sostanziale segregazione delle donne nella società rurale kosovara, si propone di coinvolgere le ragazze dei villaggi in attività “protette”, che non inducano in sospetto le famiglie, con il rischio che venga negato alle ragazze il permesso di uscire di casa. Anche questa edizione del progetto ottiene un grosso

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successo. Infine un gruppo di ragazzi realizzano un video sulla situazione del Kosovo16.

La visibilità della presenza dei volontari, disseminati per tutta la Vallata anche ad emergenza conclusa, e la chiassosa riconoscibilità del campo base contribuiscono ad affermare il ruolo privilegiato di BGxKS agli occhi dei locali. In una fase in cui il personale internazionale tende a diminuire, i bergamaschi sono in netta controtendenza e nelle settimane d’agosto di quegli anni sembrano quasi invadere pacificamente la Valle di Radavac. La grande maggioranza dei suoi abitanti non sarebbe probabilmente in grado di indicare la posizione di Bergamo su una cartina geografica, ma collega d’istinto quel nome a tutte quelle persone che in questi anni hanno popolato la Valle costruendo le case delle famiglie più in difficoltà, giocando con i bambini, accettando l’ospitalità delle famiglie, dormendo nei villaggi.

I responsabili di BGxKS non hanno mai dovuto porsi troppi dubbi in relazione alla sicurezza dei volontari; in un contesto del genere è proprio la comunità ospite a farsi garante degli stranieri. All’innato, infinito senso dell’ospitalità albanese si aggiunge un atteggiamento di riconoscenza diffusa. Noi vogliamo credere che non si tratti di riconoscenza per l’aiuto materiale ricevuto, in verità assai limitato in quanto proporzionale alle risorse di cui un’organizzazione delle nostre dimensioni e dalla precaria istituzionalizzazione può disporre, ma piuttosto gli abitanti della Valle di Radavac abbiano apprezzato nella gente di BGxKS l’atteggiamento proprio di chi non è alla ricerca della buona azione con cui lavarsi la coscienza, ma di chi cerca un confronto, di chi crede che la cooperazione vada intesa come un processo di crescita reciproca e simmetrica, senza un generoso donatore che trionfa portando aiuto al disgraziato bisognoso del momento. IPIK ha saputo investire sulla partecipazione entusiasta di tante ragazze e ragazzi, e ha contribuito a garantire a BGxKS la fiducia da parte dei suoi interlocutori locali e, come si vedrà oltre, internazionali.

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16 Pietro Bianchi, Matteo Cavalleri, Davide Lantieri e Sergio Visinoni in collaborazione con IPIK e Lab 80, Quando la guerra finisce, ottobre 2003.

IL RIENTRO: LA GESTAZIONE DEL PROGETTO SIGA, BRETOVIK E LJEVOŠA (2001-2003)

Nell’estate del 2001 i funzionari della UNMIK Regional Return Unity contattano gli operatori di BGxKS per proporre loro la conduzione di un progetto di rientro nei villaggi di Siga, Brestovik e Ljevoša, finanziato dal Governo italiano attraverso una donazione di circa tre milioni e mezzo di euro. Si decide con rapidità di non perdere tempo interrogandosi sul senso dell’azione di un governo che prima (indirettamente) distrugge e poi stanzia del denaro per ricostruire i medesimi villaggi, e si risponde favorevolmente alla proposta di collaborazione, convinti che si tratti di un’occasione imperdibile per far valere, una volta tanto, le ragioni di chi opera da anni sul campo all’interno delle stanze della burocrazia internazionale. L’insolita procedura di consultazione dei non-governativi da parte di UNMIK deriva dal riconoscimento del radicamento di BGxKS nel territorio adiacente ai villaggi in questione, dall’esperienza maturata dagli operatori bergamaschi in Bosnia e dagli ottimi rapporti personali tra questi e i funzionari UN della zona. Siga e Brestovik, a differenza di Ljevoša, sono villaggi serbi tra loro confinanti e sorgono nella fascia pedemontana tra la città di Pejë/Peć e la Valle di Radavac. Fino al giugno 1999 vi abitavano alcune centinaia di kosovari di etnia serba con le rispettive famiglie. Prima della guerra i serbi della Dukagjini/Metohija vivevano in prevalenza nei centri urbani, ma è impossibile pensare di proporre loro un rientro in città, sia per motivi di sicurezza sia a causa dell’inestricabile confusione in cui versano le attestazioni catastali. Bisogna dunque puntare sul rientro nei villaggi, anche se questo significa, in automatico, rischiare la creazione di enclave in cui gli abitanti non possono godere dei loro diritti fondamentali. Dal momento che la vita nei campi profughi in Serbia e Montenegro è, per i tanti non abbienti, di livello così misero da far ritenere ogni alternativa preferibile, gli IDPs accettano di tornare a casa propria nella speranza di migliorare, anche se di poco, le condizioni materiali di vita17.

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17 Unmik, The Right to Sustainable Return. Concept Paper, 17 May 2002; in questo documento d’indirizzo, elaborato circa un anno dopo i

Durante i colloqui con i rappresentanti di UNMIK, i rappresentanti di BGxKS avanzano una condizione per aderire al progetto: si dovrà evitare la creazione di un’enclave chiusa, generatrice di tensioni tra la comunità accogliente, che vive come una provocazione il ritorno dei serbi protetti dalle armi della NATO e che mal sopporterebbe i controlli che i militari svolgono di routine nei dintorni delle aree sottoposte alla loro sorveglianza, e quella rientrante, che verrebbe quotidianamente mortificata dal vivere in una prigione a cielo aperto. Per gestire una situazione del genere si stabilisce che il progetto non debba avere come obiettivo unico il rientro, bensì un programma di interventi a beneficio di tutte le comunità presenti nell’area18, senza distinzioni etniche. In questo modo, la componente dei balancing projects, relativa alle attività in favore della maggioranza volte ad “indorare la pillola” del rientro di minoranze avvertite come ostili, diventa prioritaria e il rientro, che comporta in primo luogo la ricostruzione, solo uno degli aspetti operativi del progetto complessivo19. In tal modo BGxKS ritiene di poter inserire con coerenza l’adesione alle attività in programma a Siga e Brestovik nel suo percorso di crescita e confronto reciproci attivato nella Valle di Radavac, conservando un rapporto di lealtà con la comunità albanese, cercando anzi di dirottare risorse su di essa, senza per questo venir meno alla sua posizione super partes rispetto al conflitto.

primi progetti di rientro, si insiste proprio sulla volontarietà della scelta dei profughi che non devono essere forzati nel prendere la decisione di tornare in Kosovo: gli internazionali sono obbligati a fornire loro un quadro franco e senza reticenze delle reali condizioni di vita che dovranno affrontare nei villaggi d’origine. 18 Ricapitolando: albanesi dei villaggi della Vallata, serbi di Siga e Brestovik, bosniaci di Vitomirica e rom dispersi per l’intera zona.

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19 Il titolo del progetto si trasforma significativamente dal precedente Return Project to Siga and Brestovik in Intercommunity Development Plan In Radavac/Radac Valley, molto più accettabile per BGxKS.

Brestovik (2003)

Un approccio come quello da noi propugnato rappresenta

con ogni evidenza un azzardo sul piano della sicurezza, ma, allo stesso tempo, un inedito investimento di fiducia sulla responsabilità della comunità locale, che si ritiene in grado di evitare le provocazioni e di aprire un dialogo, o meglio, una trattativa che porti un contributo, anche conflittuale, all’elaborazione di un progetto tanto delicato. Lo sforzo di fondo è quello di non ridurre il rientro ad una faccenda da risolversi applicando le regole dei manuali dell’aiuto umanitario secondo la consolidata, tecnocratica e spesso fallimentare prassi internazionale nei Balcani, ma di aprire un processo politico che porti al confronto tra interlocutori che faticano anche solo a riconoscersi reciprocamente. Per questo motivo un’altra richiesta pregiudiziale avanzata da BGxKS è che sia prevista nelle occasioni di confronto sul progetto anche la presenza dei rappresentanti delle comunità locali, in alternativa alle innumerevoli riunioni sul destino di aree più o meno vaste del Kosovo a cui partecipano decine di persone provenienti da tutto il

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mondo ma non un solo kosovaro. Altra conseguenza di questo modo di intendere il progetto è la trasparenza. Se si richiede un’assunzione di responsabilità da parte dei locali al fine di ottenere partecipazione e garanzie, non si può trattarli come ragazzini indisciplinati, imporre provvedimenti dall’alto e metterli di fronte ai fatti compiuti.

Così, nell’ottobre 2001, siamo autorizzati a comunicare ai rappresentanti della Valle che la Comunità internazionale ha deciso di appoggiare i rientri a Siga e Brestovik e ha chiesto a BGxKS di partecipare. Scegliamo, come occasione per rendere pubblica questa deflagrante notizia, il soggiorno per un corso d’aggiornamento di una decina di insegnanti elementari, intellettuali ascoltati dalla popolazione rurale che costituisce il nerbo della popolazione della Valle, a Bergamo, ritenendo che la lontananza da casa possa garantire maggiore serenità alla discussione che scaturirà. La notizia è accolta con sincero dolore e immediata paura: i serbi di Siga e Brestovik sono ritenuti coinvolti nelle violenze commesse nei villaggi albanesi nel 1999, inoltre, il rientro di anche solo una famiglia serba è interpretato come l’inizio di un processo che riporterà al dominio di Belgrado. Da parte nostra rendiamo esplicito che comprendiamo la fatica ed il dolore di fronte ad una notizia del genere, ma, allo stesso tempo, facciamo presente che se la Comunità internazionale ha deciso di procedere con il rientro, non saranno certo le paure degli albanesi del posto o una piccola ong italiana a farle cambiare idea; dunque ha senso solo prendere atto della sua posizione e avviare un processo politico che la renda accettabile se non addirittura vantaggiosa, attraverso i balancing projects. La riunione si scioglie sulla richiesta avanzata dagli insegnanti a BGxKS di partecipare al progetto, successivamente ratificata dal Consiglio della Vallata: se esso deve proprio essere avviato, meglio che lo realizzi chi si è già dimostrato un partner affidabile e conosce la zona, piuttosto che un’organizzazione proveniente da chissà dove e che non ha mai sentito nominare la Valle.

I progetti di rientro devono cominciare in primavera per dare la possibilità ai rientranti di coltivare ciò che integrerà la loro alimentazione nell’inverno successivo e per far svolgere la ricostruzione con condizioni climatiche favorevoli.

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L’inaugurazione dei lavori viene così fissata per marzo-aprile 2002; nel frattempo vengono programmati alcuni viaggi del personale UNMIK e dei rappresentanti di BGxKS nei campi profughi in Serbia e Montenegro. Gli operatori di BGxKS filmano20 tali incontri al fine di poterli proiettare in occasione delle analoghe riunioni presso i villaggi albanesi; in questo modo si comincia a sondare le reazioni nella comunità ricevente, ad annotare le osservazioni relative alle aspettative degli albanesi e a prendere i nomi, che verranno poi girati alle autorità internazionali, di coloro che sono individuati dagli albanesi come complici dei crimini di guerra. Le settimane passano in attesa che UNMIK pubblichi il cosiddetto tender21; la nostra squadra è pronta, il direttore ha già avvisato a fine maggio tre operatori italiani, due operatori locali ed un contabile bosniaco di tenersi pronti a raggiungere il Kosovo da un momento all’altro per l’inizio del progetto in cantiere da quasi un anno. Nel frattempo le nostre attività già programmate proseguono e a luglio tutto lo staff è presente a Pejë/Peć per seguire in particolare il campo dei giovani. Ad agosto, finalmente, il tender è pubblicato, BGxKS partecipa e “vince” i segmenti del tender relativi alle Cross Boundary activities, Reconciliation, Balancing Projects per i quali siamo i meglio titolati; non si capisce bene perché ci viene assegnata pure la componente Sewage System Rehabilitation. Rimane del tutto oscuro chi esprimerà il project manager ma noi diamo per scontato che sarà UNMIK a distaccare un suo funzionario per ricoprire questo delicato ruolo. È metà agosto, i tempi tecnici sono ormai saltati, ma noi siamo pronti a cominciare

20 Cfr. OSCE – UNHCR, Ninth Assessment on the Situation of Ethnic Minorities in Kosovo, maggio 2002. L’idea di riprendere l’assemblea con i profughi, invero piuttosto banale, colpisce decisamente i rappresentanti delle istituzioni internazionali presenti al punto che nel rapporto citato l’episodio è descritto come “Another example of innovation is a video project undertaken by an international NGO” e ne viene descritta l’utilità potenziale per avviare un percorso di reciproco riconoscimento.

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21 Per quanto possa sembrare inaudito, UNMIK assegnava alle ong progetti di questo tipo seguendo la procedura dell’appalto, come se si trattasse della fornitura di gasolio per il riscaldamento negli uffici.

il nostro lavoro. UNMIK ci invita però ad aspettare ancora qualche tempo, utile per definire i dettagli burocratici; noi intuiamo che qualcosa non funziona e decidiamo di rimpatriare in attesa di notizie.

Le notizie arrivano circa due mesi dopo quando scopriamo che UNMIK Pristina non vuole saperne di gestire direttamente un progetto così delicato, e del resto BGxKS non ha i requisiti formali per proporsi in quel ruolo, e che i funzionari di Pejë/Peć hanno agito in piena autonomia, arrivando a coprire i costi amministrativi del tender con i loro stipendi personali; lo stesso tender è stato invalidato e ORC – Office for Reconciliation and Community di Pristina, ufficio centrale sotto la cui responsabilità ricadono i progetti di rientro, ha bloccato di fatto il progetto.

Nell’aprile 2003 siamo di nuovo presenti in Kosovo in forze; constatiamo che i nostri nuovi interlocutori internazionali non sanno niente di quanto è stato fatto in relazione al progetto di Siga e Brestovik. Quando il nuovo capo della RRU ci chiede se possiamo fornirgli le fotocopie in nostro possesso degli atti del tender dell’anno precedente perché gli originali sono stati distrutti dall’ex funzionaria responsabile in un momento di sconforto poco dopo essere stata sollevata dall’incarico, ci risulta difficile dissimulare una certa frustrazione. Nel frattempo, nonostante gli operatori designati all’assunzione non appena il progetto partirà proseguano a lavorare gratuitamente, i costi di struttura minacciano di affossarci. Saremmo anche pronti a lasciare il Kosovo, ma ormai siamo troppo personalmente legati al destino di Siga e Brestovik per chiamarci fuori. A giugno scopriamo, quasi per caso, che ORC ha designato come Leading Agency del progetto IOM22.

A giugno prendiamo contatto con i funzionari di IOM incaricati del progetto e scopriamo che non hanno ancora cominciato a lavorare sul progetto, a causa delle non chiarita disponibilità dei fondi messi a disposizione dalla Cooperazione allo sviluppo del Ministero degli esteri. A noi invece un punto in

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22 International Organization for Migration; non si tratta di un’agenzia UN, nella cui galassia comunque orbita, ma di un’organizzazione inter-governativa.

questa desolante vicenda sembra chiarissimo, il progetto non si farà nemmeno nel 2003. E dunque a settembre rientriamo in Italia, da dove attendiamo che IOM ci convochi. Ogni settimana, via e-mail e attraverso il nostro coordinatore locale, facciamo loro presente che se vogliamo elaborare un progetto sostenibile dobbiamo cominciare a pensarlo con largo anticipo e che se puntiamo sulla primavera 2004 come periodo per il rientro vero e proprio, dobbiamo cominciare sia le cross-boundary activities23 in Serbia e Montenegro sia le reconciliation activities24 con largo anticipo. Ma ci mettiamo il cuore in pace, e aspettiamo di essere contattati. L’unica buona notizia arriva dalla stampa, il giorno in cui giornali comunicano che il Ministro degli esteri italiano Franco Frattini ha ricevuto lo Special Representative of the Secretary General per il Kosovo Harry Holkeri e in quell’occasione ha firmato il decreto con cui sblocca lo stanziamento di 3,5 milioni di euro a favore di un progetto di rientro della minoranza serba in Kosovo25. Questa notizia ci apre gli occhi sull’ennesimo aspetto oscuro della vicenda, quasi grottesca, che ha caratterizzato la gestione UNMIK: tutto ciò che è stato detto e fatto a proposito del progetto prima di quella giornata non aveva alcuna copertura finanziaria.

23 Si tratta delle missioni informative da compiersi presso i luoghi di residenza degli IDPs per ragguagliarli delle caratteristiche del progetto e dei criteri con cui si selezioneranno i partecipanti. Esse richiedono molto tempo perché gli abitanti di Siga e Brestovik sono sparsi in numerose piccole località della Serbia e del Montenegro. 24 Sono le attività con cui si cerca di preparare la comunità albanese al rientro dei serbi e di individuare, al suo interno, casi di disponibilità ad intraprendere un dialogo inter-comunitario. Lo staff di BGxKS preferisce utilizzare il termine facilitazione in luogo di riconciliazione o pacificazione, ritenuti inadatti rispetto alle reali condizioni sul campo.

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25 http://www.esteri.it/ita/6_38_90_01.asp?id=716&mod=1&min=1 (18 settembre 2003)

IL RIENTRO: L’AVVIO DEL PROGETTO (2004)

La comunicazione tanto attesa arriva nel gennaio 2004. Il project manager di IOM Stuart Mac Neil ci nomina implementing partner e ci convoca per discutere del nostro ruolo all’interno del progetto. L’impianto originario su cui avevamo lavorato due anni prima è molto cambiato. La decisione se accettare o meno la proposta è difficile e dolorosa. Ma l’investimento che abbiamo fatto su questo progetto è, sia dal punto di vista personale che professionale, troppo importante. Faremo parte della squadra, insieme agli altri partner ingaggiati, la governativa tedesca THW – Technisches Hilfswerk Bundesanstalt, responsabile della ricostruzione e la spagnola MPDL – Movimiento por la Paz el Desarme y la Libertad, responsabile della composizione delle controversie legali connesse alla proprietà degli immobili. L’incognita maggiore che pende sul nostro lavoro riguarda lo stato d’animo dei nostri interlocutori locali: se noi stessi, dopo due anni e mezzo di confusione, ci sentiamo amareggiati e in parte sfiduciati, come si sentiranno le persone cui abbiamo promesso un ritorno a casa per poi lasciarle altri due anni nei campi profughi o quelle, tra cui tanti amici, cui abbiamo annunciato nel lontano 2001 il ritorno di figure che avvertono come ostili e la cui presenza riaprirebbe tante dolorose ferite? Anche in nome della correttezza nei loro confronti, e del nostro desiderio di riscattarci ai loro occhi, decidiamo di accettare la proposta di partnership di IOM.

Il 6 febbraio 2004, gli operatori di BGxKS Livio Vicini (capo-progetto), Giacomo Bosisio e Aleksandra Witkowska, presto raggiunti dal direttore Robi Bertoli e da Sergio Capitanio, riaprono la casa di Pejë/Peć. A loro è affidata la realizzazione delle seguenti componenti: Community Temporary Shelter Assistance, Facilitation of the Return Process and Operation of the Temporary Transit Facility, Measures for reconciliation and re-integration, Community infrastructure and Balancing projects. Rimessa in piedi la struttura logistica dell’organizzazione e completato il team con il personale locale (il sempre presente Sami Meta e i giovani della Vallata Shpresa Sefa e Liridon

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Blakay), cominciamo una serie di incontri con tutti i nostri interlocutori, convinti che il successo del nostro lavoro non dipenda (solo) dalla nostra adesione ai manuali redatti dagli esperti di UN ma dalla nostra capacità di intessere una trama di corresponsabilizzazione tra tutte le persone coinvolte a vario titolo nel programma. E così spendiamo le nostre mattine incontrando casa per casa tutte le famiglie albanesi che abitano nei dintorni di Siga e Brestovik, per spiegare loro cosa stiamo per fare e ascoltare i loro punti di vista, incontriamo tutti i rappresentanti dei villaggi e della Municipalità, sia in occasioni ufficiali che in circostanze informali. A fine febbraio organizziamo una riunione con tutti i segretari cittadini dei partiti politici kosovari per confrontarci con loro ed ottenere una loro adesione al principio che sancisce il diritto al rientro ai luoghi d’origine di tutti i profughi. A Bergamo riprendiamo i contatti con i volontari del passato per organizzare alcune loro missioni durante il periodo della ricostruzione: ci sembra particolarmente significativo che le stesse persone che hanno portato un aiuto concreto alla comunità albanese durante l’emergenza, facciano altrettanto con coloro che attualmente hanno bisogno di un contributo. Nel frattempo continuiamo a mantenere i contatti con UNMIK e IOM, i quali, a loro volta, ci garantiscono una notevole autonomia operativa. Conduciamo i sopralluoghi con la KFor per elaborare un sistema di sorveglianza dei villaggi serbi a bassa visibilità e che non comporti disagi per la comunità albanese. Cominciamo le missioni in Serbia e Montenegro e elaboriamo un calendario dei rientri, fissando la prima “ondata” per la prima settimana di aprile 2004. Convochiamo numerose riunioni per decidere la destinazione concreta dei fondi allocati per i balancing projects, cercando di mediare tra pretese campanilistiche delle assemblee locali e la “grandeur” internazionale di UNMIK e IOM. Il 10 marzo trasportiamo, senza scorta armata, i primi sette capi famiglia da Kragujevac (Serbia) a Pejë/Peć per farli partecipare al MWG e per far loro firmare il contratto tripartito di ricostruzione con la Municipalità (retta da funzionari albanesi) e l’Amministrazione internazionale.

Esattamente una settimana dopo, il 17 marzo, scoppiano disordini e violenze in tutto il Kosovo. Dopo tre giorni di scontri e

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di tensione altissima, il bilancio è di 19 morti, 600 feriti e 4200 nuovi profughi26. Quest’ultimo dato significa che in alcune zone del Kosovo, i profughi che da poco avevano trovato il coraggio di tornare a casa, sono stati cacciati di nuovo e le loro proprietà, per la seconda volta in meno di cinque anni, distrutte. Gli eventi di marzo vengono subito catalogati dalla stampa internazionale come il naturale riesplodere delle tensioni etniche, mentre la lettura promossa da BGxKS privilegia la sottolineatura degli elementi di malessere sociale diffuso, legato all’ormai eterna indeterminatezza della questione kosovara e dal cronico ritardo nello sviluppo economico.

La comunità internazionale reagisce al 17 marzo bloccando qualsiasi attività e cautelandosi con la massima prudenza; BGxKS decide invece di continuare la sua presenza sul campo, lanciando alla comunità locale un segnale di prossimità. I segnali raccolti all’interno della Vallata suggeriscono infatti un evidente discostamento da parte della popolazione nei confronti della degenerazione violenta delle manifestazioni di protesta. Mentre il progetto di rientro è per l’ennesima volta surgelato, noi continuiamo a mantenere i contatti sia con la comunità ricevente sia con i futuri rientranti. A fine maggio gli operatori di BGxKS compiono una missione di verifica in Serbia e Montenegro, con il fine di contattare tutti i novanta beneficiari del progetto. In dodici giorni vengono visitate novanta famiglie, sparsi su tutto il territorio serbo-montenegrino. La risposta è chiara: i serbi vogliono tornare. BGxKS assume allora questa posizione come propria, e la pone agli altri partner del progetto. Verso la metà di giugno la situazione si sblocca: si riparte.

Durante l’estate BGxKS riorganizza anche la propria struttura: Giacomo abbandona i Balcani per dedicarsi agli studi in

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26 Per la ricostruzione dei fatti di quelle giornate si veda International Crisis Group, Europe Report N°155, Collapse in Kosovo, 22 Aprile 2004. Il rapporto apre con la seguente osservazione: “On 17 March 2004, the unstable foundations of four and a half years of gradual progress in Kosovo buckled and gave way. Within hours the province was immersed in anti-Serb and anti-UN rioting and regressed to levels of violence not seen since 1999. By 18 March the violence mutated into the ethnic cleasing of entire minority villages and neighbourhoods”.

Italia, mentre Liridon riesce ad iscriversi all’Università di Milano. Vengono aggregati Skender Pelaj, di Novoselo e con un ricco curriculum, e Eldic Karalić, giovane bosniaco-kosovaro di Vitomirica. A inizio settembre il relocation center 27di Brestovik è pronto, e i primi sei beneficiari ritornano nei loro villaggi il 17 settembre, sei mesi esatti dopo gli scontri di marzo, e sempre rispettando lo stile low-profile, che ci porta ad evitare cerimonie e pubblicità a questo giorno cruciale. Il giorno stesso l’Esercito Italiano, contro ogni accordo preventivamente concordato, stabilisce una postazione nel villaggio: fortunatamente dopo tre giorni, e grazie alle insistenze dei partner coinvolti, viene dato l’ordine di smobilitare. La Kfor è presente nei villaggi con un pattugliamento leggero solo durante la notte, mentre di giorno la sicurezza è affidata alla Polizia Unmik e, soprattutto, alla KPS28, cioè la polizia kosovara. Proprio questa riesce a garantire una buona copertura del territorio, e riesce a inserirsi nell’intricata rete delle relazioni, redimendo le piccole scaramucce con un atteggiamento di ragionevolezza e responsabilità.

Nel frattempo la ricostruzione delle case prosegue velocemente, con l’obiettivo di consegnare prima dell’inverno più della metà delle abitazioni. Ljevoša, data la particolare posizione geografica e la mole di lavori infrastrutturali da realizzare, viene rimandata al 2005. I rientranti ricevono mentre sono ospiti del relocation center un’assistenza completa, che viene però gestita senza rischi di eccedenza, che rischierebbero l’insinuarsi di aspettative assistenzialistiche. Vengono anche accompagnati dagli operatori di BGxKS in città per effettuare le procedure burocratiche per l’ottenimento dei documenti di identità dell’amministrazione Unmik. I funzionari della Municipalità sono lieti di ricevere i rientranti nei propri uffici, senza essere costretti dal personale internazionale a recarsi nei villaggi serbi per motivi di sicurezza.

Si tratta di uno dei passaggi qualitativamente più significativi della strategia messa in atto da BGxKS: avviare pratiche quotidiane finalizzate, attraverso i piccoli passi e le 27 Centro di soggiorno temporaneo, nell’attesa che la propria casa venga ricostruita.

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28 Kosovo Police Service.

opportune forzature, alla sostenibilità del processo di rientro e alla garanzia di tutti i diritti e doveri fondamentali, in primis la libertà di movimento. I primi abitanti di Siga e Brestovik a recarsi in città sono le donne, accompagnate sempre dagli operatori bergamaschi per effettuare le spese. Si tratta di un piccolo gesto di coraggio dalla valenza incommensurabile, ottenuto attraverso il rapporto di fiducia che è stato costruito. Sono i primi serbi a recarsi in città dalla fine della guerra, e lo stupore della popolazione albanese è visibile. Eppure, di fronte al buon andamento delle gite in città, si procede a trasportare sempre più serbi, invitandoli a muoversi autonomamente senza l’iniziale affiancamento degli operatori di BGxKS. Gli abitanti serbi dei due villaggi vengono inoltre accompagnato al Patriarcato di Pejë/Peć o al Monastero di Dećani per asssistere alle funzioni religiose.

Siga e Brestovik iniziano così lentamente a ripopolarsi, e ricominciano anche i rapporti con i vicini albanesi, per lo più incontri casuali nei dintorni dei villaggi. I rapporti di BGxKS con la comunità ricevente si infittiscono sempre più, e vengono via via individuate le priorità per la realizzazione dei balancing projects, che devono essere opere di interesse collettivo. L’organizzazione bergamasca decide anche di raccogliere, in autonomia dagli altri partner, le richieste di aiuto individuale da parte della comunità ricevente, e di predisporre entro la primavera successivo un piano di implementazione, attingendo ai soldi risparmiati sulla struttura. Sale anche l’interesse della comunità internazionale per questi due villaggi rurali della Municipalità di Pejë/Peć, che conoscono una fama inaspettata. I rientranti eleggono inoltre i propri rappresentanti: Miodrag Dasić a Brestovik e Milorad Jašović a Siga. In breve tempo dimostrano la loro affidabilità, e soprattutto la loro condivisione degli obiettivi propugnati da BGxKS, mirati alla stabilizzazione e all’orizzonte di una convivenza possibile. Gli operatori di BGxKS sono consci che non è possibile pretendere che serbi e albanesi tornino buoni amici, ammesso che lo siano mai stati, ma inseguono la possibilità di una reciproca accettazione, in una prospettiva democratica di rispetto dei diritti e dei doveri. Mentre la comunità internazionale etichetta le attività di dialogo inter-etnico come “riconciliazione”, il lessico bergamasco preferisce parlare di

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“facilitazione”, nei termini di affiancamento a un processo delicato ed inevitabile.

Sempre nell’autunno 2004 riprendono i viaggi di solidarietà dei pensionati dei sindacati confederali bergamaschi, coordinati dall’icona Gianluigi Battaglia. Il loro compito è la costruzione dei tavoli e delle panche per le case serbe, attraverso l’avvio di un micro-laboratorio di falegnameria che rimarrà poi in dotazione ai rientranti. Due comitive di otto pensionati si alternano fra ottobre e novembre, e l’effetto è quello auspicato: la presenza di volontari nei villaggi aiuta a creare un clima di serenità e di vicinanza. Si inizia inoltre a progettare la riedition del progetto Ipik per l’estate successiva. IL RIENTRO: LA STABILIZZAZIONE (2005-2006)

L’inverno passa tranquillo, e la tanto temuta ondata di spopolamento dei villaggi si verifica in minima parte. Il 2004 si chiude con una quarantina di case ricostruite e consegnate ai beneficiari. Il programma di generazione di reddito curato dagli esperti di IOM aveva nei mesi precedenti distribuito ai beneficiari del progetto di rientro bestiame, oltre ai materiali per ricostruire la stalla e gli alimenti per la brutta stagione. Anche per questo motivo si mantiene un trend di presenze soddisfacente, anche se non elevato in valore assoluto. L’aspetto che fa meglio sperare è la manifesta volontà da parte di un gruppo di rientranti di stabilirsi a tutti gli effetti in Kosovo. Un dato estremamente significativo è dato dal rientro, nel dicembre 2004, dei primi due bambini: Branko di cinque anni e Marta di tre.

Nel frattempo si lavora affinché in primavera le attività riprendano a pieno ritmo, e soprattutto nella direzione della sostenibilità. Il ritorno in autunno aveva infatti imposto di fornire assistenza alimentare per tutto l’inverno, data l’impossibilità di coltivare la terra. A marzo inoltrato si avvia invece un massiccio programma di dissodamento e aratura dei campi rimasti incolti per oltre cinque anni. Vengono anche ripiantumati gli alberi da

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frutto, che erano stati completamente eliminati dopo la guerra, in uno sfregio simbolico di enorme gravità per questa società rurale.

Riprendono così i viaggi sulla direttrice Mitrovica-Pejë/Peć per trasportare i beneficiari. Lo schema è ormai collaudato: i beneficiari arrivano nella città divisa dal fiume Ibar, terminale delle corse pubbliche serbe. Qui vengono accolti dal personale di BGxKS, che li trasporta con un pulmino fino ai villaggi. Nella prima fase rientrano solo i capofamiglia, che vengono poi raggiunti, quando la casa è ultimata, dal resto della famiglia. Nel frattempo iniziamo a sostenere l’idea che i serbi si possano muovere con i normali mezzi pubblici che fanno la spola tra Kosovo e Montenegro. Con un processo graduale di accompagnamento, anche questo passaggio all’apparenza elementare viene acquisito dalla comunità rientrante come elemento di normalità. Lo sviluppo di questo approccio porta alla completa autonomia nei propri spostamenti da parte dei rientranti serbi, tanto che diventa via via più difficile tenere aggiornato il registro delle presenze. Un beneficiario decide addirittura di comprare una macchina, e la tacita decisione di accettare di porvi la targa kosovara è un dettaglio che va sottolineato. Inoltre un pulmino per il trasporto di persone viene donato a un altro rientrante, che inizia così, pur tra le mille difficoltà del caso, l’attività di taxista. Sebbene parlare di libertà di movimento, tanto invocata dalla comunità internazionale, possa sembrare aleatorio, possiamo affermare che le possibilità costruite in questi villaggi siano un risultato ben al di sopra delle più rosee aspettative.

Iniziano inoltre i primi incontri ufficiali tra rappresentanti serbi ed albanesi dell’area, che servono a dirimere innanzitutto questioni legate principalmente ai piccoli problemi di convivenza tipici di una società contadina. Questo passaggio evidenzia però quanto la progressiva e reciproca accettazione tra le due comunità sia un processo innescato e capace di costruire una convivenza possibile. Nonostante rimangano aperte alcune grandi questioni, legate al nodo irrisolto dello status istituzionale della provincia kosovara, il livello locale permette, attraverso una costante presenza di terzi estranei al conflitto, di creare percorsi di riavvicinamento.

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Durante il 2005 vengono realizzati i balancing projects a beneficio della comunità ricevente (albanese, ma anche bosniaca e rom). Gli interventi sono numerosi e rappresentano la risultante di un processo partecipativo che ha coinvolto in primis la comunità locale. In particolare vengono realizzati: il campo sportivo per la scuola di Novoselo, una strada che collega la frazione montana di Burnut, un progetto di organizzazione del sistema di raccolta dei rifiuti, riabilitazione del sistema idrico a Siga e Brestovik, sistema idrico a Jablanica Grande, riabilitazione di un piccolo ponte nella frazione di Dushkaje sopra Brestovik, installazione di una pompa idrica nella località Pelaj di Novoselo, una donazione di materiali informatici e didattici per le scuole di Novoselo e di Jablanica Piccola, oltre a una lunga serie di aiuti individuali, quali due abitazioni per casi di estrema povertà, donazioni di bestiame, alimenti e materiali edili, costruzione di servizi igienici e fosse biologiche. Una citazione a parte merita la scuola, costruita a pochi metri di distanza dal sito della vecchia scuola, distrutta durante la guerra, e ubicata proprio a metà strada tra la zona albanese e quella serba, in un luogo di possibile incontro dove è posizionato l’ufficio-container di BGxKS. La questione del reciproco riconoscimento fra il sistema educativo kosovaro e quello serbo rimane un problema irrisolto, e solo i negoziati sullo status potrebbero portare a una soluzione.

Il 2006 conosce inoltre un ulteriore sviluppo: IOM decide di partecipare a un bando della European Agency for Reconstruction per promuovere una seconda ondata di rientri nei tre villaggi serbi. Alle novanta abitazioni iniziali se ne aggiungono altre quaranta. Nella discussione interna avviata in questa occasione da BGxKS viene assunta la decisione di curare questa seconda fase, che rimarrà l’ultimo passaggio della presenza bergamasca nella vallata di Radavac. Il progetto del 2006 diventa occasione per consolidare la posizione anche del primo gruppo di rientranti, assicurando una presenza quotidiana di supporto. Sergio Capitanio abbandona il Kosovo all’inizio di ottobre 2005, e Livio Vicini un mese dopo. Rientra in Kosovo Giacomo Bosisio, a cui viene affidata la conduzione di questo secondo progetto, coadiuvato da qualche presenza di Vicini e Bertoli. La struttura

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locale si è nel frattempo consolidata attorno agli esperti Sami Meta e Skender Pelaj, e alla dinamica Shpresa Sefa.

Anche la seconda edizione conosce una quota significativa destinata ai balancing projects: vengono realizzate due strade di collegamento tra le zone albanesi di Siga e Brestovik, vengono donati i serramenti e l’isolamento alla ricostruenda scuola di Vitomirica, oltre che un trattore alla comunità albanese di Siga. Inoltre si procede ad un ulteriore copioso investimento nell’aiuto a situazioni individuali, attraverso un attento lavoro di ricerca e relazione con la comunità locale.

Si conferma inoltre la presenza, sia nel 2005 che nel 2006, degli operosi volontari-pensionati, ormai conosciuti ed apprezzati da tutti gli abitanti della Vallata, e segno tangibile e concreto della neutralità nell’aiuto. Anche i campi di animazione estiva Ipik conoscono nuovi sviluppi: nel 2005 viene proposta l’esperienza, e il coordinamento viene affidato all’illustre “ex” Teo Zanardi. Partecipano una ventina di volontari, che ripropongono la fortunata animazione per i bambini, affiancata da alcune attività con i giovani. Il diverso contesto nel quale si inserisce il contributo dei volontari-giovani amplifica il ruolo e il valore di una presenza civile nella Vallata: addirittura si riescono a coinvolgere nelle stesse attività bambini serbi ed albanesi, nonostante le difficoltà linguistiche. Accantonando la retorica che ne potrebbe scaturire, possiamo cogliere questa situazione come una prova della qualità del lavoro proposto, capace di avere le giuste attenzioni nei confronti delle comunità locali, ma anche di introdurre discontinuità. Altro risultato apprezzabile di Ipik 2005 è la nascita di un gruppo che si rende promotore della successiva edizione, che coinvolge oltre trenta partecipanti. Il gruppo Ipik sta valutando la possibilità di continuare le proprie attività nonostante la chiusura di BGxKS.

A poco più di due anni dal primo rientro, possiamo riconoscere, senza alcuna pretesa trionfalistica, che il progetto è andato bene. I numeri parlano di centotrenta case ricostruite, oltre alla riabilitazione di infrastrutture. Attualmente nei tre villaggi serbi vivono stabilmente 130-140 persone, le quali hanno deciso di tornare effettivamente ai loro villaggi di origine, nonostante le difficoltà. Potrebbe sembrare un numero basso, ma se ci

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affidiamo a un’analisi comparata, notiamo che si tratta senza dubbio del maggior risultato perseguito a livello regionale. È ovviamente riduttivo circoscrivere la complessità che si è cercato di descrivere nelle pagine precedenti ad uno sterile dato numerico. La sensazione che qualsiasi visitatore può percepire passeggiando per Siga e Brestovik è quella di due villaggi kosovari che sono tornati a una vita per diversi aspetti normali.

Marta e Branko a Brestovik (2005)

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UN BILANCIO APERTO

Ci sono due motivi principali per cui non è facile tracciare un bilancio della vicenda di Bergamo per il Kosovo. Il primo è rappresentato dal fatto che BGxKS è tuttora in attività e ha mutato aspetto più di una volta. Oggi, ormai alla conclusione del delicato progetto di rientro della minoranza serba nella Vallata di Radavac, ultimo atto del suo percorso durato oltre sette anni, ricopre il ruolo di una ong tradizionale cercando di mettere a valore il bagaglio di esperienze e riflessioni raccolto durante gli anni precedenti, quando, prima il Comitato e poi BGxKS, rappresentavano una vera anomalia nel panorama degli attori internazionali. In secondo luogo, nel valutare ciò che BGxKS ha fatto in questi anni, è difficile poter dire quale, dei tanti sforzi profusi, sia stato davvero utile. La categoria dell’utilità pratica è piuttosto difficile da applicare alle nostre iniziative. È stato utile il campo d’animazione organizzato in estate? Non lo sapremo mai. Di certo non ha portato alcun tipo di beneficio materiale a quanti vi hanno partecipato a vario titolo, e non siamo certo così ingenui da pensare che a bambini e adulti passati per l’esperienza della guerra sia sufficiente un balletto in compagnia di ragazzi italiani per superare i traumi più profondi. Per essere soddisfatti ci basterebbe sapere di non essere stati del tutto inutili, ma forse possiamo ambire a qualcosa di più.

Abbiamo veramente aiutato quella gente? Francamente non lo sappiamo; la questione è un’altra. Non importa cosa e quanto noi ed i nostri compagni abbiamo dato, tantomeno se l’abbiamo fatto in termini di aiuto materiale, lavoro concreto o semplice presenza. Possiamo dire però di esserci stati, di aver rivendicato un ruolo marginale ma attivo in una vicenda che qualcuno pensava di poter risolvere con ottocentesche conferenze di spartizione d’aree d’influenza e bombardamenti da dodicimila metri d’altezza. Abbiamo ascoltato, provato a capire, detto la nostra. Abbiamo trattato gli abitanti dei nostri villaggi come interlocutori, non come bambini vittime di un gioco più grande di loro. E, tutt’oggi, cerchiamo di stare nel mezzo di una latente tensione etnica che sembra solo chiedere di essere manipolata e strumentalizzata da chi, di volta in volta, si trova a

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condizionare la convivenza dei popoli balcanici. Con ciò non si vuole sostenere che basti la nostra presenza per risolvere un conflitto secolare, ci mancherebbe; ma rivendichiamo la nostra scelta di proporci come mediatori tra comunità che hanno al loro interno le potenzialità ed i valori per poter convivere in pace, fermo restando che l’anticamera di qualsiasi processo di pacificazione sta nella giustizia e nella necessariamente lunga rielaborazione del lutto.

La flottiglia dei potenti mezzi a disposizione di BGxKS davanti al Field Office (2004)

Il bilancio è solo positivo dunque? Naturalmente l’onestà

intellettuale ci impedisce di stendere una semplice agiografia di BGxKS. I limiti della nostra azione sono stati spesso evidenti, e l’errore di considerarci migliori in virtù della nostra peculiare diversità sarebbe grave. Si può facilmente intuire come un certo “pressappochismo” accompagni l’azione di un’organizzazione non strutturata come la nostra. E come, spesso, l’entusiasmo e la passione individuali abbiano dovuto compensare le competenze specifiche con grave rischio per la qualità dei progetti. Non sono

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mancati errori, come ad esempio nell’esperienza del Centro polifunzionale, caratterizzata da debolezze tipiche della cooperazione internazionale. La fretta dei donatori di ottenere risultati visibili da mostrare ai sottoscrittori ha condizionato la delicata fase di calibrazione del progetto. E la struttura costruita è risultata all’inizio sovradimensionata rispetto alle esigenze e alle capacità del territorio che la ospita. Inoltre la Municipalità, sulle cui capacità si era investito, si è presto dimostrata non in grado di gestire da sola una struttura così complessa. Ma proprio l’elasticità della struttura di BGxKS ha consentito di prendere atto delle difficoltà ed intervenire in corso d’opera, ottenendo che ai responsabili del Centro per conto delle istituzioni locali fossero affiancati gli esperti di ILO29 e ripensando in termini più attivi il ruolo di BGxKS all’interno del Consiglio direttivo.

Infine è bene chiarire che la vicenda di BGxKS va considerata nella sua unicità. La sua esperienza è qualcosa di maggiore della sommatoria delle esperienze individuali dei tanti che hanno partecipato alle diverse fasi del suo percorso. Vanno poi tenuti in considerazione gli elementi “congiunturali” quali la disponibilità delle persone incontrate a mettersi in gioco, l’affidabilità degli interlocutori locali, l’assenza di incidenti gravi nel corso delle operazioni e tanti altri. BGxKS non è un modello esportabile, né ha mai avuto l’ambizione di fare da esempio per altri. Forse è però utile raccontarne la vicenda perché può stimolare la fantasia e l’azione di quanti pensano che la società civile possa rivendicare un ruolo attivo ed autonomo anche nella gestione delle fasi di crisi, nella convinzione che la pace sia un processo che richiede la partecipazione del numero più allargato possibile di cittadini consapevoli per evolversi da sogno agognato a condizione stabile.

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29 International Labour Organization.

Stampato dal Centro Stampa – Comune di Bergamo

ottobre 2006