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La calibrazione delle immagini digitali del profondo cielo di Daniele Gasparri In questo articolo propongo una breve panoramica su come attenuare le principali fonti di rumore delle camere CCD utilizzate per le riprese degli oggetti del profondo cielo. Il discorso è generico e vale sia per le CCD astronomiche che per le normali reflex digitali. Il rumore delle immagini digitali Le immagini del cielo profondo vanno trattate in modo molto diverso rispetto a quelle del sistema solare per tre semplici motivi, che prescindono dal diverso tipo di strumentazione utilizzata: 1) Le esposizioni sono molto più lunghe di quelle planetarie, almeno di un minuto, spesso di alcune decine di minuti; questo introduce del rumore a causa dell’architettura di tutti i sensori digitali 2) Nonostante le lunghe esposizioni e la somma di diverse pose per aumentare ulteriormente il rapporto segnale/rumore, abbiamo in ogni caso molto meno segnale rispetto a qualsiasi immagine grezza planetaria, poiché gli oggetti del cielo profondo (ad esclusione delle stelle doppie, che vanno trattate in modo simile ai pianeti), sono intrinsecamente estremamente deboli. Questo significa che non potremmo applicare filtri di contrasto così intensi come siamo stati abituati con i pianeti. 3) La forma e soprattutto la distribuzione della luce degli oggetti diffusi, ad esclusione di qualche piccola nebulosa planetaria, è varia, molto estesa e soprattutto con gradienti di luminosità spesso elevatissimi, superiori anche alla dinamica dei migliori sensori digitali; per non sacrificare alcun dettaglio occorrerà prendere degli accorgimenti particolari sia in fase di ripresa, che, più spesso, in fase di elaborazione. Questi 3 punti fondamentali ci danno ancora meglio la consapevolezza della grande differenza tra un’immagine planetaria ed una di un oggetto dello spazio profondo, come una galassia. La fase di elaborazione, intesa come l’applicazione di filtri di contrasto ed accorgimenti che enfatizzano tutti i dettagli catturati, è ancora valida, ma prima deve essere preceduta da una fase di calibrazione, che lavora sulle singole immagini prima della loro somma. Ogni sensore digitale possiede un rumore, che possiamo scomporre in tre diversi tipi: rumore termico (dark current): detto anche corrente di buio, propria di tutti i sensori digitali, insito al loro funzionamento. Sappiamo infatti che quando un fotone colpisce la superficie di un pixel esso rilascia un elettrone, il quale, dopo essere immagazzinato e conteggiato, andrà a comporre il segnale dell’immagine. Tuttavia, uno o più elettroni possono essere rilasciati e quindi raccolti dai pixel anche quando nessun fotone colpisce la sua superficie. Questa produzione elettronica è causata dalla temperatura alla quale si trova il pixel. A livello microscopico possiamo immaginare infatti la temperatura come il livello di agitazione delle molecole di un qualsiasi reticolo solido; quando l’agitazione è elevata, qualche elettrone debolmente legato al proprio atomo può acquisire abbastanza energia da scappare ed essere catturato dalla differenza di potenziale applicata agli estremi del pixel. Questo elettrone viene conteggiato come se fosse stato prodotto da un fotone, ma così non è.

La calibrazione delle immagini digitali del profondo cielo · Le immagini del cielo profondo vanno trattate in modo molto diverso rispetto a quelle del sistema ... in fase di elaborazione

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La calibrazione delle immagini digitali del profondo cielo di Daniele Gasparri

In questo articolo propongo una breve panoramica su come attenuare le principali fonti di rumore delle camere CCD utilizzate per le riprese degli oggetti del profondo cielo. Il discorso è generico e vale sia per le CCD astronomiche che per le normali reflex digitali. Il rumore delle immagini digitali Le immagini del cielo profondo vanno trattate in modo molto diverso rispetto a quelle del sistema solare per tre semplici motivi, che prescindono dal diverso tipo di strumentazione utilizzata:

1) Le esposizioni sono molto più lunghe di quelle planetarie, almeno di un minuto, spesso di alcune decine di minuti; questo introduce del rumore a causa dell’architettura di tutti i sensori digitali

2) Nonostante le lunghe esposizioni e la somma di diverse pose per aumentare ulteriormente il rapporto segnale/rumore, abbiamo in ogni caso molto meno segnale rispetto a qualsiasi immagine grezza planetaria, poiché gli oggetti del cielo profondo (ad esclusione delle stelle doppie, che vanno trattate in modo simile ai pianeti), sono intrinsecamente estremamente deboli. Questo significa che non potremmo applicare filtri di contrasto così intensi come siamo stati abituati con i pianeti.

3) La forma e soprattutto la distribuzione della luce degli oggetti diffusi, ad esclusione di qualche piccola nebulosa planetaria, è varia, molto estesa e soprattutto con gradienti di luminosità spesso elevatissimi, superiori anche alla dinamica dei migliori sensori digitali; per non sacrificare alcun dettaglio occorrerà prendere degli accorgimenti particolari sia in fase di ripresa, che, più spesso, in fase di elaborazione.

Questi 3 punti fondamentali ci danno ancora meglio la consapevolezza della grande differenza tra un’immagine planetaria ed una di un oggetto dello spazio profondo, come una galassia. La fase di elaborazione, intesa come l’applicazione di filtri di contrasto ed accorgimenti che enfatizzano tutti i dettagli catturati, è ancora valida, ma prima deve essere preceduta da una fase di calibrazione, che lavora sulle singole immagini prima della loro somma. Ogni sensore digitale possiede un rumore, che possiamo scomporre in tre diversi tipi: rumore termico (dark current): detto anche corrente di buio, propria di tutti i sensori digitali, insito al loro funzionamento. Sappiamo infatti che quando un fotone colpisce la superficie di un pixel esso rilascia un elettrone, il quale, dopo essere immagazzinato e conteggiato, andrà a comporre il segnale dell’immagine. Tuttavia, uno o più elettroni possono essere rilasciati e quindi raccolti dai pixel anche quando nessun fotone colpisce la sua superficie. Questa produzione elettronica è causata dalla temperatura alla quale si trova il pixel. A livello microscopico possiamo immaginare infatti la temperatura come il livello di agitazione delle molecole di un qualsiasi reticolo solido; quando l’agitazione è elevata, qualche elettrone debolmente legato al proprio atomo può acquisire abbastanza energia da scappare ed essere catturato dalla differenza di potenziale applicata agli estremi del pixel. Questo elettrone viene conteggiato come se fosse stato prodotto da un fotone, ma così non è.

Ogni sensore ha un certo rumore termico, detto anche corrente di buio, poiché è un flusso di elettroni (corrente) che è sempre presente, anche quando il CCD non è esposto alla luce (in inglese dark current). Naturalmente la sua entità dipende sia dalla qualità del sensore, sia soprattutto dalla temperatura alla quale si trova. Per questo motivo tutti i sensori progettati per gli usi astronomici possiedono un sistema di raffreddamento, che riduce di molto questo indesiderato effetto, sicuramente la fonte di rumore maggiore. Fissata una temperatura di lavoro, la sua entità dipende naturalmente dal tempo di esposizione. Un tipico sensore amatoriale di buona qualità, come il KAF-0402 che equipaggia ad esempio le SBIG ST-7, possiede una corrente di buio pari ad 1 elettrone per ogni pixel per ogni secondo, alla temperatura di 0°. Non tutti i pixel del sensore rispondono allo stesso modo alla temperatura ambientale; ce ne sono alcuni più sensibili degli altri che quindi tendono ad essere più brillanti, per questo definiti Hot pixel. Viceversa, esistono anche i cold pixel, cioè pixel freddi che appaiono più scuri della media. Fortunatamente la corrente di buio è facile da correggere perché generalmente essa, a temperatura fissata, è la stessa. Questo non deve stupire poiché è come se il nostro sensore fosse esposto ad una sorgente luminosa costante, producendo quindi intensità costanti se lo sono la temperatura ed il tempo di esposizione. Poiché si tratta di una sorgente di rumore non casuale, con pattern ben definiti, costante per certi valori di esposizione e temperatura, essa può essere corretta facilmente in ogni immagine, attraverso la calibrazione con un dark frame. Cosa significa tutto questo? Quando eseguiamo una posa su un soggetto del cielo profondo con pose che eccedono il minuto, il contributo della corrente di buio all’immagine non può essere trascurato e deve essere corretto. Se all’immagine di luce sottraiamo un’immagine ottenuta con il sensore completamente al buio con lo stesso tempo di esposizione e stessa temperatura, riusciamo ad eliminare completamente il rumore causato dalla corrente di buio. Questa procedura si chiama correzione con un dark frame, dove il dark frame è l’esposizione al buio totale che mette in luce solo la corrente di buio. Ogni singola immagine di luce deve essere corretta con una immagine di dark che possiede lo stesso tempo di esposizione e la stessa temperatura. Se uno dei due requisiti non fosse soddisfatto, la correzione non sarà totale (sottocorretta) oppure troppo intensa (sovracorretta). L’immagine di dark può essere anche la media o la mediana (ma non la somma!) di n singole immagini, ognuna delle quali deve avere la stessa esposizione e temperatura dell’immagine da correggere. Per lavori delicati e correzioni il più possibile accurate (come ad esempio in fotometria) si ottiene un master dark frame, cioè un’immagine di dark frutto della mediana di almeno 5-6 singoli frame. Questo consente di eliminare il contributo causato dai raggi cosmici, particelle energetiche che possono colpire il sensore anche quando è al buio completo. Rumore di lettura: Quando il sensore CCD viene letto dall’elettronica della camera viene introdotto del rumore, chiamato rumore di lettura (readout noise); esso non può essere mai eliminato ma solamente ridotto al minimo utilizzando dei sistemi di lettura adeguati. I sensori

La corrente di buio generalmente si dimezza ogni circa 7°C.

amatoriali hanno tipicamente un readout noise elevato; per il solito KAF-0402 si hanno 15 elettroni. Il valore è fisso e non dipende da altri parametri poiché è un dato che dipende dall’elettronica del sensore. Fortunatamente può essere corretto efficacemente attraverso quelli che si chiamano bias frame, cioè esposizioni con tempo di integrazione pari a 0 (o il minimo possibile ammesso dalla camera digitale). In effetti si tratta di esposizioni di buio con tempo nullo. Rumore casuale: in ogni immagine digitale c’è una componente casuale di rumore. Nel caso delle riprese del sistema solare, con sensori di qualità mediocre come le webcam, esso è la componente principale del rumore totale; in effetti, grazie anche alle brevissime pose, la componente non casuale (correlata) è trascurabile, così come in generale lo è quella di lettura. Il rumore casuale, come la stessa definizione suggerisce, non può essere predetto, quindi non può essere corretto con specifiche immagini, poiché esso varia in modo imprevedibile da una posa all’altra. L’unico modo per attenuarlo (ma non eliminarlo), consiste nell’applicare, anche in questo caso, la tecnica della media delle immagini. Esso, infatti, segue la statistica di Poisson (per questo è detto anche Poisson noise): essa afferma che l’incertezza misurata per un segnale con intensità S è

SN = , dove N = rumore (noise in inglese). L’unico modo per attenuare il rumore di Poisson (cioè casuale) è aumentare il segnale, aumentando il tempo di esposizione o sommando (o mediando) più immagini. Il rumore casuale è dovuto al modo con cui i fotoni giungono sul sensore e, in piccola parte, all’errore con cui il contatore analogico-digitale trasforma il segnale analogico (il numero di elettroni) in digitale (valore ADU). Senza andare a scomodare concetti di meccanica quantistica, consideriamo uno sfondo uniformemente illuminato che colpisce tutto il sensore CCD. Il comportamento dei fotoni fa si che il numero che colpisce i pixel non sia esattamente lo stesso sia nello spazio che nel tempo; in effetti sono i fotoni stessi a seguire la statistica di Poisson, che identifica tutta una serie di eventi che si manifestano in modo casuale. Nella pratica cosa succede? Se riprendiamo un’immagine con poco segnale, cioè con pochi fotoni raccolti (in questi casi si trascura il fatto che non tutti i fotoni vengono raccolti, a causa dell’efficienza quantica di ogni sensore, che però non influisce in questo caso) avrò un’incertezza maggiore rispetto a quando ne raccolgo molti. Ad esempio, dato il comportamento casuale della luce, se un pixel raccoglie un fotone, può benissimo succedere che un altro ne raccolga 2, un altro ancora nessuno. La media raccolta su questi tre pixel è 1,5 ma la dispersione dei dati è 2, cioè la differenza tra i singoli valori di ogni pixel (2-0=2). Se facciamo questo per ogni pixel del sensore e poi riportiamo in un grafico tutti i valori, troviamo una curva che tende ad assomigliare ad una gaussiana, con un picco centrale, che corrisponde al valore medio, e delle zone periferiche. La deviazione standard, cioè la dispersione dei dati attorno alla media, avrà un certo valore, che però non è nullo. Questo cosa significa? Che, sebbene il sensore sia esposto ad una sorgente uniforme, la risposta che ne deriva non è uniforme: ogni pixel registrerà un valore leggermente diverso e l’aspetto globale è quello di un’immagine granulosa, rumorosa, che varia senza alcuna possibilità di previsione da un pixel all’altro e in funzione del tempo (trascuriamo la diversa sensibilità dei pixel). Tutto questo dipende unicamente dal comportamento duale onda-particella della luce ed impedisce di dare un conteggio esatto del numero di fotoni che colpiscono una determinata superficie in un certo intervallo di tempo. Qualsiasi sia il fenomeno, il numero di fotoni che giungono in un intervallo di tempo (o di spazio) segue la statistica di Poisson, poiché essi sono eventi indipendenti l’uno dall’altro (condizione necessaria affinché la distribuzione sia descritta dalla statistica di Poisson).

Dall’esempio visto qualche riga sopra, appare evidente che maggiore è il numero di fotoni che colpisce un sensore, minore è l’incertezza nel loro conteggio, come in effetti abbiamo già detto:

SN = . Un segnale di 100 elettroni avrà un rumore di 10, uno con 10000 avrà un rumore di 100. Il valore assoluto del rumore aumenta, ma quello che a noi interessa è il rapporto tra il segnale e il rumore, che ci da direttamente informazioni su quanto quest’ultimo influenza la qualità dell’immagine. Questi concetti valgono in ogni campo di applicazione.

Quando il rapporto segnale/rumore è elevato, l’immagine appare priva di granulosità (rumore) e ad essa possono essere applicati con successo filtri di contrasto, proprio come avviene nelle immagini planetarie. Come possiamo intuire, e come avremo la conferma tra qualche pagina, il metodo migliore per aumentare il rapporto Segnale/rumore è quello di sommare o mediare molte pose. Sebbene l’aumento del tempo di esposizione porti ad un risultato identico, abbiamo il limite fisico del sensore, che non può raccogliere più di una certa quantità di segnale in una singola posa (Full Well Capacity). La media o la somma di molte immagini con esposizioni adatte permette di aumentare teoricamente a piacere il segnale di ogni immagine astronomica. Fixed Pattern noise Con questo termine inglese si identifica quel rumore che dipende quasi esclusivamente dalla configurazione ottica utilizzata. Questa fonte di disturbo non dipende dall’architettura del sensore CCD o dalla sua temperatura, piuttosto dalle proprietà dell’intero sistema di ripresa. Il pattern noise è la comparsa di dettagli fittizi in ogni immagine astronomica, generalmente a grande scala. Esempi tipici sono gradienti luminosi lungo l’immagine e soprattutto la vignettatura, cioè la perdita di luce verso i bordi dell’immagine, ma anche granelli di polvere e sporco o eventuali difetti del sensore CCD stesso. A causa dell’elevata dinamica dei sensori CCD e della qualità non certo professionale dei telescopi amatoriale, la vignettatura è un problema molto comune e spesso difficile da risolvere a posteriori che altera pesantemente l’estetica e l’utilità scientifica di ogni immagine. In effetti il pattern noise è sicuramente la fonte più fastidiosa sia dal punto estetico che scientifico, per questo occorre eliminarlo completamente attraverso quelle che si chiamano riprese di flat field.

La calibrazione delle immagini digitali Con il termine calibrazione si identificano tutti i passaggi necessari per ridurre le sorgenti di rumore non casuale, in particolare il readout noise, la dark current e il rumore fisso (fixed pattern). Questi errori, essendo di natura non casuale e quindi ripetibili, possono essere corretti. Una buona procedura di calibrazione delle proprie immagini consente di raggiungere livelli di eccellenza dal punto di vista estetico ed altissime precisioni dal punto di vista fotometrico, rendendo i sensori CCD amatoriali utili anche per la scoperta e lo studio di pianeti extrasolari in transito. Tale procedura dovrebbe essere intrapresa anche quando si utilizzano sensori non proprio adatti per le applicazioni astronomiche, come le reflex digitali e le webcam. In realtà, se si applica la tecnica vista per i pianeti, quindi esposizioni estremamente brevi e somma di moltissimi frame, la procedura di calibrazione può essere trascurata in toto ma, ogni volta che aumentiamo il tempo di esposizione e dirigiamo la nostra attenzione verso oggetti molto deboli, occorre che essa sia applicata in modo rigoroso. La calibrazione si effettua su ogni singolo frame e non sull’eventuale immagine grezza frutto della somma o media di singole esposizioni, prima dell’applicazione di qualsiasi filtro di contrasto o di modifica dell’istogramma, naturalmente sull’immagine fit o in formato raw a piena dinamica. Non vi sono particolari difficoltà poiché la procedura non necessita di scelte da parte dell’utente. La calibrazione è piuttosto semplice ma necessita di immagini che vanno riprese parallelamente all’acquisizione delle riprese di luce, i cosiddetti frame di calibrazione. Le successive correzioni vengono applicate automaticamente da qualsiasi software astronomico come Maxim Dl, Astroart, CCDSoft, CCDops… Vediamo quali sono e come applicare le immagini di calibrazione che, dovrebbero essere il frutto della media, o meglio, della mediana, di almeno 5-6 immagini, naturalmente tutte identiche. Dark frame: La corrente di buio, per pose lunghe, è la componente che più crea fastidi nell’estetica di un’immagine. Un’immagine di dark frame deve essere effettuata con il sensore al buio (per quelli senza otturatore meccanico) ed alla stessa temperatura dell’immagine di luce, con lo stesso tempo di esposizione. Questa immagine conterrà la stessa corrente di buio dell’immagine da calibrare e con una semplice operazione di differenza il suo contributo verrà praticamente cancellato. Per esposizioni di dark superiori ai 5 minuti è preferibile costruire un master dark, cioè un’immagine composta dalla mediana di almeno 5 singole immagini, tutte naturalmente aventi la stessa durata e stessa temperatura. In ogni posa lunga, infatti, è molto elevata la probabilità che vi compaiano dei raggi cosmici, che possono essere considerati a tutti gli effetti delle sorgenti di rumore casuale. Effettuando la mediana di almeno 5 immagini il programma di elaborazione costruisce il master dark trascurando le fonti di rumore casuale che non compaiono in tutte le immagini. Se la temperatura del vostro sensore CCD è regolabile, potrete costruire una libreria di dark frame con le temperature ed esposizioni che più utilizzate; in questo modo potrete correggere tutte le immagini future, purché ottenute con la stessa temperatura ed esposizione. In realtà, il normale deterioramento del sensore CCD limita l’utilità temporale dei dark frame a circa 1 anno. Se la vostra camera non consente di controllare la temperatura, occorre raccogliere un dark frame subito dopo l’acquisizione dell’immagine di luce, oppure in mezzo ad un set di esposizioni di luce. Una volta composto il vostro master dark è molto semplice correggere le immagini, attraverso i comandi specifici di ogni software astronomico. E’ bene che questa ed altre fasi vengano gestite da programmi appositamente progettati per gli usi astronomici. Alcune camere manifestano, dopo essere state esposte ad intensità relativamente elevate (tali da saturare o quasi il sensore) un effetto di immagine residua che si rende visibile specialmente nella successiva acquisizione di un dark frame. Per evitare questo effetto, di cui abbiamo parlato nell’articolo sui difetti dei sensori digitali, è bene far eseguire alla camera qualche breve esposizione buia per svuotare completamente i pixel dalla carica residua.

Flat field: una calibrazione con un buon flat field è quanto di più difficile per gli amatori. Spesso questa fase viene vista anche con una certa superficialità, ma è invece importantissima, sia dal punto di vista scientifico che estetico. Qualsiasi telescopio non illumina uniformemente tutto il piano focale occupato dai sensori digitali; questo effetto è noto anche come vignettatura: in particolare le parti periferiche ricevono meno luce di quelle centrali. L’effetto, con sensori di modeste dimensioni o con telescopi di ottima qualità, è limitato, ma, data la grande sensibilità e range dinamico dei CCD, anche differenze di pochi elettroni possono essere messe in evidenza e creare effetti piuttosto spiacevoli, oltre che rovinare la precisione fotometrica delle proprie immagini. Anche l’eventuale presenza di polvere sul sensore o su parti ottiche ad esso vicine contribuisce a rendere il campo non uniforme, non piatto. Questo, che spesso è considerato una vera e propria fonte di rumore (identificato nella categoria dei pattern regolari) è spesso il responsabile dell’aspetto poco piacevole delle immagini digitali. Fortunatamente può essere efficacemente corretto: di quanto dipende dalla bravura dell’astrofilo nell’acquisire corrette immagini di campo piatto, o in inglese (visto che suona molto meglio!) flat field. Una buona immagine di flat field è un’esposizione con durata e temperatura indipendenti da quelle dell’immagine di luce da correggere, che registra solamente le disuniformità del campo. Dividendo l’immagine originale per quella di flat field, si ottiene una correzione completa. Poiché l’immagine di flat fiel è una ripresa CCD a tutti gli effetti, come tale contiene del rumore, che si aggiunge inevitabilmente all’immagine da correggere, per questo è opportuno che essa, oltre a registrare perfettamente la non uniformità del campo, abbia il minimo rumore possibile. Questo si ottiene mediando tra di loro almeno una decina di singole immagini, alle quali vengono sottratti i rispettivi dark frame: si trattano cioè le immagini di flat field alla stregua delle normali riprese in luce. Un master flat field è un’immagine risultato della media (non mediana e non somma!) di almeno 10-15 singole immagini, ognuna delle quali ha ricevuto un’esposizione tale che il massimo valore di intensità (al netto dei pixel caldi!) si attesti intorno alla metà della full well capacity del CCD (in alternativa si utilizzano anche i conteggi del contatore analogico-digitale). In altre parole, se un sensore ammette luminosità fino a 65500 conteggi, un buon master flat può essere la media di 15 immagini ognuna delle quali ha valori di luminosità massimi intorno ai 35000 conteggi. E’ estremamente importante che nessuna zona dell’immagine di flat field saturi, ed è molto importante, se si utilizzano esposizioni superiori ai 10 secondi, calibrare ogni immagine di flat per il relativo dark o media di N di essi.

Ecco un’ottima immagine di flat field, media di 50 singole esposizioni effettuate con la tecnica del cielo al crepuscolo esposta nel testo. L’immagine di flat field corregge i difetti del sistema ottico (vignettatura, polvere) e del sensore, come la diversa sensibilità dei pixel. Notate come il poisson noise si sia ridotto notevolmente con la media di molte immagini!

Abbiamo appena visto le caratteristiche di un buon master flat field, ma nella pratica, come si realizza? Innanzitutto esso va ripreso esattamente con la stessa configurazione con la quale è stata catturata l’immagine da calibrare; per stessa si intende stessa orientazione della camera, stessi eventuali filtri, stessa posizione della messa a fuoco; gli unici parametri che possono variare sono, come già detto, l’esposizione e la temperatura del sensore, ma le condizioni geometriche devono essere identiche. Detto questo, l’immagine di flat field dovrebbe essere ripresa puntando il telescopio verso uno sfondo uniformemente illuminato. Questo è in effetti il punto più delicato, poiché avere uno sfondo realmente uniforme non è facile. Per fare ciò esistono diversi espedienti:

1) si copre il telescopio con dei fogli da disegno al alta grammatura e si punta il cielo allo zenit, in prossimità del tramonto del Sole. Se il campo di ripresa non è molto più grande di mezzo grado, lo sfondo così creato è molto uniforme e costituisce la condizione migliore per ricavare un buon flat field. Naturalmente, una volta ottenuto, è assolutamente vietato cambiare l’orientazione della camera, così come variare sensibilmente la messa a fuoco o addirittura estrarre il CCD dal barilotto dell’oculare. Ognuna di queste operazioni porta alla perdita dell’utilità del flat field ottenuto.

2) In alternativa, se durante la nottata si è costretti a fare una delle operazioni che invalidano l’efficienza del flat fied ripreso, occorre trovare un altro modo per riprenderne uno, di notte. Il modo di agire è simile al precedente: si copre il telescopio con un foglio di carta bianca, questa volta a bassa grammatura, e si punta uno sfondo illuminato uniformemente: esso può essere anche un lontano lampione (distanza maggiore di 50 metri) o un edificio monocolore uniformemente illuminato, o una lampada, meglio se a led, posta dall’astrofilo ad una distanza di almeno 10 metri. Chi dispone di un osservatorio con relativa cupola può trovare utile accendere le luci e puntare direttamente la cupola. L’importante è che lo sfondo sia uniformemente illuminato.

Ogni programma astronomico permette la correzione per il flat field che, come con i dark frame, va applicata ad ogni singola immagine di luce e non limitatamente all’immagine frutto della media si singole esposizioni. Il miglioramento in termini qualitativi, se il master flat a vostra disposizione è buono (quindi media di N immagini riprese su uno sfondo uniformemente illuminato, con dinamica compresa tra il 40 e il 70% di quella totale del sensore) è notevole, come testimoniano le immagini di seguito.

A sinistra: singola esposizione corretta per il dark frame ma non per il flat field. A destra: correzione con un ottimo flat field; i gradienti artificiali di luce sono scomparsi del tutto. E’ bene sottolineare come il flat field elimini le imperfezioni del campo del CCD ed eventuali difetti estetici come la presenza di polvere o sottili righe e pattern regolari, cioè difetti di origine strumentale, mentre nulla può fare nell’eliminare i gradienti luminosi introdotti da un cielo inquinato o dalla presenza della luna. In questi casi, anche l’applicazione di un flat field può non essere sufficiente a rendere completamente piatto il campo. Un motivo in più per operare solamente da cieli bui.

Bias frame: il rumore di lettura o lo stesso disturbo provocato dall’amplificatore del sensore (visibile spesso come una macchia luminosa lungo i bordi dell’immagine, specie in sensori non tipicamente astronomici) possono essere ridotti con l’ausilio di un bias frame, cioè con un’immagine (o meglio, la media di n immagini, per minimizzare il rumore) che contenga solo questi difetti, che non dipendono ne dall’esposizione, ne dalla temperatura, ne dalla configurazione ottica utilizzata. Da ciò emerge che un bias frame è un’immagine scattata con tempo di esposizione nullo, l’unica strada per raccogliere solo queste fonti di rumore. Le camere commerciali economiche non prevedono un tempo di posa nullo e in questi casi si dovrà utilizzare l’esposizione minima possibile, eventualmente tappando il telescopio: si tratta a tutti gli effetti di un dark frame a tempo zero o comunque il più breve possibile. In realtà, l’utilità dei bias frame non è elevata; se ci si pensa bene, infatti, in un’immagine di dark frame dovrebbe essere contenuta, oltre alla corrente di buio, l’informazione sul rumore di lettura e dell’amplificatore. Un dark frame, se eseguito correttamente (cioè stesso tempo di posa e stessa temperatura dell’imamgine di luce) svolge perfettamente anche le funzioni di un bias frame. Allora, è davvero utile questa ulteriore correzione? In realtà no, ma non sempre. Se si ha un dark frame adeguato non si deve correggere con un bias frame, altrimenti si avrà il fenomeno della sovracorrezione: l’immagine risulterà corretta più del necessario. Se, tuttavia, si disponesse di dark frame che hanno una durata diversa da quelli dell’immagine da calibrare (anche differenze di pochi secondi), allora occorre calibrare anche con il bias. Le immagini a destra testimoniano quanto detto. Le singole pose di 30 secondi sono state corrette con dark di 20; sebbene quasi tutta la corrente di buio sia stata eliminata, rimane un gradiente luminoso all’estrema sinistra del fotogramma (immagine in alto) prodotto dal metodo di lettura del sensore, eliminabile con un bias frame, o meglio un master bias come quello qui sotto

Un ottima immagine di bias frame. E’ necessario che essa sia il risultato della media di molti singoli frame, per minimizzare il rumore casuale, estremamente evidente in questi casi. Notate il rumore introdotto dall’amplificatore (aumento di luce a sinistra) e le imperfezioni del sensore CCD.

Il bias frame si rende necessario solamente quando si dispone di dark frame non corretti per le immagini da calibrare