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Inediti - Dante Maffia

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Dante Maffia

L’OLIVO ED ALTRI INEDITI

Poesia 2.0, 2012

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Titolo: INEDITI | Dante Maffia

Testi di: Dante Maffia

FontiL’Olivo ed altri inediti

Il presente documento non è un prodotto editoriale ed è da intendersi a scopo illustrativo e senza fini di lucro. Tutti i diritti riservati all’autore.

Poesia2.0

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I personaggi di dante maffia tra individualismo e follia di Sabrina Buono Accostarsi ai personaggi “maffeiani” significa entrare in punta di piedi nella coscienza desolata ed ironica della loro malattia spirituale. Sembra quasi che attraverso i romanzi l’autore scruti l’animo, le passioni più recondite, i desideri più intimi delle sue creature. Annibale Scrivio o Italo Nasone gli consentono, a mio parere, di appagare non solo la passione dell’inchiesta psicologica, ma anche il bisogno di sceneggiare la propria visione del mondo. Il fallito romanziere A. Scrivio o il collezionista odontotecnico I. Nasone incarnano i temi della crisi esistenziale: la solitudine dell’uomo moderno di fronte agli enigmi del mondo, gli inutili sforzi dell’individuo per non soffrire, l’alienazione prodotta dal mito del consumismo e da un mondo non sempre riconoscibile. Da qui la costruzione di protagonisti che si presentano al mondo con la loro sana follia, con una visione suis generis della vita, in cui i valori vengono sovvertiti con l’unico scopo di ricercare la propria identità, il proprio posto nel cosmo. Il lupo mannaro A. Scrivio, a metà tra un licantropo ed uno scapolo con modeste velleità letterarie, è presentato quasi come un ossessivo compulsivo che osserva scrupolosamente crescere la sua barba, che

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odia lavarsi “perché non sopporta la lascivia dell’acqua”, cambiarsi o bere in un bicchiere che sia stato lavato e risplenda di pulito. In realtà la sua ossessione non è altro che paura di non riconoscere se stesso e ciò che lo circonda, forse, secondo il mio opinabile parere, paura di scavare negli oscuri anfratti della coscienza. Persino un inetto come lui, senza energia volitiva, può provare l’amore e, forse, cercare per mezzo di esso di realizzarsi nella vita di relazione. Ma la follia di A. Scrivio arriva all’inimmaginabile, al potersi innamorare della foto di una donna al cimitero. Ed è qui che la follia diviene individualismo, quasi egoismo; perché è tale la paura d’amare, di soffrire, di non essere ricambiati che è più semplice innamorarsi di un defunto. E poi chi ha stabilito che vi siano dei limiti all’amore? L’ amore per A. Scrivio non ha regole, norme da manuale da mettere in pratica, è come una sindrome, tanto folle e pazzesca da farlo balzare giù dal letto in piena notte per andare a partecipare ad un fantomatico galà dei morti viventi o parlare, ricordando l’ossimoro foscoliano, ad un “cenere muto”. Del resto, però, anche un diseredato, un disilluso come Scrivio può ancora credere nell’amore, “che distrugge tutto, supera le barriere, la morte, crea la morte” ed ipotizzare persino il suicidio per ricongiungersi alla sua cara. Il medesimo rifiuto della vita sociale, delle sue norme, dei ruoli che essa impone, lo si ritrova nell’altro protagonista maffeiano, Italo Nasone, che incarna al meglio un eroe tragicomico dei tempi nostri, che

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tenta la rivolta agli schemi impostigli dalla convivenza civile preferendo la vita da “pescatore metropolitano” al “pisciatoio intellettuale”. L’odontotecnico borghese I. Nasone fugge dalla “trappola pirandelliana” della famiglia, dalle litigate opprimenti con la moglie, dal grigiore della sua casa, dagli odi, dai rancori coniugali. Ma non è questa l’unica trappola, vi è anche quella economica, la condizione sociale, “l’angoscia sul lavoro”, che si traduce in un bisogno disperato di autenticità, di immediatezza, di spontaneità vitale. L’unica via di salvezza è la fuga nell’irrazionale, in un mondo in cui domina la follia, dove topi e scarafaggi parlanti possono sfrattarti dalla tua casa, costringerti a superare assurde prove di sopravvivenza. Anche gli oggetti parlano, le insegne luminose di un’anonima gelateria, i colori, le dentiere, la candela consunta o la serratura e sembrano più vivi delle persone stesse, anzi, è come se volessero partecipare o evidenziare la solitudine di Nasone. La possibilità di evasione arriva per il protagonista con l’avvento di Aïcha, una ragazza marocchina arrivata in Italia per sfuggire ad un padre autoritario. È con lei che Italo scopre la sua rinascita, per la prima volta viene accettato nella sua totalità, anche la sua collezione di dentiere non è vituperata, le sue manie vengono accettate, il suo medesimo nome piace alla ragazza “con la djellaba bianca”. Forse con lei scopre l’amore vero, non quello sessuale e carnale che aveva avuto con tutte le altre, ma un sentimento diverso che lo porta a fare un gesto quasi folle; decide, malgrado mille esitazioni, di emigrare in

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un continente dove nessuno andrebbe se non per un safari o per un bagno nell’Oceano Indiano: l’Africa. Il suo è un viaggio all’insegna di una fede profonda, per trovare quella parte di sé che ha perduto e non importa se all’apice di quel credo vi sia Allah o Gesù, l’importante è non perdere l’amore e tenerlo stretto anche a patto di emigrare dal proprio paese.

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L’olivo (Inediti 2012)

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L’ olivo 1 Ma certo, trasgredire un suo consiglio sarebbe un grave danno e ne potrebbe venire fuori un lungo travaglio e liti e incomprensioni, meglio obbedirle per filo e per segno, in fondo è la Concetta di sempre, sempre prodiga nelle spiegazioni pronta a dire e ridire che una buona minestra si fa se l’olio è quello che viene dagli alberi antichi che svettano grigi assolati sui poggi e guardano il mare da un lato e i monti dall’altro a giusta distanza. È quasi ai novanta, borbotta cammina si ferma al balcone scruta si siede e sospira. I pensieri vanno veloci ma ancora conosce chi macina olive sincere e chi mette nei tomoli chiacchiere e frasche. 2 Alla fine del banchetto la prova del nove è mettere olio sul pane di casa, assaggiare lentamente, schioccare la lingua, e aspettare.

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3 Ero appena un ragazzo quando al paese venivano a frotte le raccoglitrici, d’ogni età, quasi vecchie, donne robuste, bambine, con gli occhi aperti, le mani a geloni, lo scialle di lana annodato sul collo. Un pezzo di pane e due olive, un tarallo, un sorso d’acqua, due fichi. Cantavano al freddo le mani gelate, i piedi nel fango. “L’olio è sacro, lo sai?”. “No”. Mi pareva che fosse un liquore che sa dare anima al cibo. Solo questo, ed era un pensiero visto in chissà quale storia appresa la sera davanti al camino d’Antonia. 4 Il frantoio era zeppo di gente, la macina andava veloce

tirata dal mulo bendato. Colava dai fischi quell’oro sfacciato e solenne. L’unto era sempre nascosto appeso alla Croce.

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Ora è una chiesa abbandonata Tutti i corvi, scendendo da una nuvola pesante, si nascondevano sull’olivo davanti casa che subito volava verso l’orizzonte con la gioia di chi fa una marachella. Lui conosceva le opere dei grandi, soprattutto filosofi, il pensiero del vecchio Kant, di Socrate e Telesio. I corvi felici d’ascoltare parole incomprensibili. L’assenso lo davano mangiando molte olive. Poi, nella notte, a pericolo sparito, l’olivo ritornava a troneggiare davanti casa. La luna inargentava la sua chioma. Per quasi mille anni produsse olio grazie al suo pensare. Le idee erano linfa, ora è una chiesa abbandonata, il rifugio d’una scrofa.

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Il suo verde era stanco Le mattine di gelo aspro, la furia della tramontana che tagliava le mani, e l’infuriare della neve. Ma qualcuno pensava ad accendere un fuoco di rami secchi, un crepitare di ricordi proprio accanto a lui forse un po’ invidioso dei fratelli che digradando verso la pianura gridavano la gloria e l’abbondanza. Il suo verde era stanco, come chiuso in un cielo corroso. Ma ricordava il verde della terra e l’odore verde del suo nettare, e il canto della sua anima che bruciava traguardi e dava l’Unto in nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.

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Un luogo sacro ai giochi L’antro che nascondeva la capretta nei giorni di pioggia, quel mistero che aveva la faccia stupita. Era un’isola di beatitudine, un luogo sacro ai giochi e io ne inventavo dall’alba al tramonto sempre nuovi, accogliendo gli altri al ricovero. In dieci ci rifugiammo durante una tempesta e poi vedemmo l’orrore negli occhi delle madri: i lampi vi potevano colpire. Ridevamo felici ancora cullati dal calore del vecchio olivo. Aveva cuore grande e braccia lunghe, un gigante buono, una città di sogni.

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Quando dio creo’ l’olivo Quando Dio creò l’olivo e lo radicò per restare secoli e secoli all’addiaccio, al sole e alle tempeste, lo rese sacro e stabilì che fosse l’albero dell’amore. Benedisse le fronde e affidò al suo frutto l’immagine del Figlio. Un abisso di lumi lo scuote ad ogni autunno; c’è una dolce lussuria nel suo argento immacolato e s’io lo guardo nel tramonto impallidire penso a mia madre stanca: lo guardava paga e innamorata.

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Che cosa sarebbe il mondfo senza l’olivo? Io lo vedevo, passandoti accanto, ognuno ti guardava compunto, ti bisbigliava una frase, ti diceva una parola dolce, ti sorrideva. Dalla finestra guardavo incapace di capire . La tua maestosità era una traccia e un invito, non cercavi né l’alba né la conoscenza, offrivi te stesso nel fiume dell’amore, non indicavi la strada del progresso, né quella che porta alla vita eterna, soltanto mormoravi, appena la brezza muoveva le sue braccia o balbettava qualche sussurro, di vivere in pace, e il contadino pensava: “Che cosa sarebbe il mondo senza l’olivo? Una povera cosa in attesa di nascere”. L’olivo ha un cuore che trasuda e spande intorno la gioia, ha le ali grandi, e le parole sante per gridare al mondo: pace, pace! E il grido s’apre in un vento caldo che copre l’universo. Onde si propagano ripetendo: pace, pace, pace.

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L’albero custode Niente è eterno, eppure tu avevi il viso di Cristo radioso, e un’ombra così grande che temevo avvolgesse la mia vita cancellandomi i sogni turchesi intravisti quando a frotte ti piluccavano il cervello torme di passeri affamati. Dove sono quei sogni? Li hai nascosti nel tuo seno, oppure sono svaniti? Da qualche anno sei silenzioso come se ti specchiassi in me che ho perduto la freschezza del canto e l’armonia. Ecco, lo so, tu sei custode del dolore del mondo e del mio dolore che somiglia sempre più ai crisantemi calpestati il due novembre. Niente è eterno, e quando perirai anche l’ultimo mio fiato avrà perduto consistenza e i tuoi frutti saranno un canto metafisico, una nenia. Va’, allontanati da me, e sii sempre le mille braccia amorose, la vastità dell’amore, sii custode della mia anima fino a quando potrai sfidare i venti e ridere con gli arcobaleni. Se ti penso senza più radici perdo l’anima, mi marciscono gli occhi.

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Accalappiacani Rovesciando i barlumi mi pareva d’ottenere altri effetti, i suoni guasti uscire dal lampadario e il rovistare della tromba che con cortesia ma fermamente offriva nuove ere. Il guazzabuglio della polvere, le ritrovate sfere di cristallo che servivano al niente da adornare, e quel pallido gesto delle candele sempre accese. Mia vita o vita d’altri, che importa? Vita dei miei e del paese, un grido che si ripercuote all’infinito al sommo del non esserci, e tutto sfuma come a dirmi che non esiste nulla se non la parvenza che tracima verso la banalità del risaputo. Poi l’affondo della risata, con quel tic che aveva antenati solenni. e finalmente l’ombra si disfa in altre ombre cocciute, passi di falene, echi di danze arrugginite, sfilacciarsi di lane calde e la caduta già compiuta, la covata stolta.

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La tosse canina Avevo trentotto anni quando mi s’attaccò la tosse canina, o come la chiamano i medici la pertosse. Probabilmente, disse il medico, da ragazzo non l’avevo presa. Ma che genio! Dava scosse violente a tutto il corpo, mi faceva sbrodolare dagli occhi, dall’ano, dalla bocca come un porco che si dimena, una campana che fa ballonzolare il battaglio senza ritmo, stonata. L’avrei strangolata volentieri la dannata puttana che s’era annidata nei polmoni, nei bronchi e nella gola, ma mi consola non averlo fatto perché avrei spedito al creatore me stesso e con malumore. Possibile che la medicina non ha fatto progressi da duecento anni su questa malattia cretina? Ma tanto cretina non è se ogni anno muoiono settecentomila cristiani torcendosi budella e mani. Il medico mi ha raccomandato di stare alla larga dagli asili infantili, non si sa mai, una ricaduta… Ma non sono d’accordo con lui sulle precauzioni, a volte dai balconi scende una nota d’epidemia e si allarga sul mondo. Vedete ch’è impossibile seguire una metodologia. Maledetto sia chi non ricerca su questa malattia.

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L’acqua Durante una piena del Ferro –ero bambino e vedevo le cose gigantesche, può darsi che fosse la piena d’un catino!- s’aprirono le saracinesche e i campi furono allagati, la cima degli alberi non si vide per giorni. Io m’incamminai dentro l’acqua per saggiarne consistenza e coscienza, per vederne l’essenza, e andai su e giù origliando, verificando se la limpidezza fosse effetto del sole o della brezza, o soltanto delle parole che scaturiscono dall’acqua. Là dentro vissi sere serene, ascoltai armonie di musici babilonesi, storie così carnalmente perverse che fui indotto a pensare alla povertà dei poeti. Ma lasciamo stare. Tornato in casa feci accendere un fuoco con molti ceppi secchi. Ero bagnato fradicio, nelle ossa sentivo la scossa dell’umidità e starnutivo piegandomi. Ma fu una bella esperienza, senza la quale adesso non potrei dirvi –ma a chi può interessare?- che cos’è l’acqua, che cosa è veramente il mare.

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Risentire il corpo Torno a questa terra che a stento riconosco, ogni anno perde una nota di colore, un serto di papaveri. Sarà perché in fondo tutto cambia

o perché i giovani amano il mutamento, o sarà per il nuovo assetto delle case che hanno nuove architetture. O sarà perché io sono un altro sempre più povero e malato. Verso il paese i viottoli si fanno più larghi, l’asfalto ha qualcosa di stantio. C’è intorno come un quaderno abbandonato con qualche appunto, le pieghe nelle pagine. Non so se sia vita o morte questo segno senza polvere e senza consunzione. Un mare aperto senza febbre ormai. Mi specchio nell’ombra dei due carrubi troppo vecchi, gli rubo nuvole e coriandoli. Questo verde ha la faccia estranea, che gli sarà successo? Ormai espulso dai lieti mormorii della brezza, dai conviti dei calabroni. Non trovo punti fermi, nodi da sbrogliare, tutto chiaro come in una tomba. Ecco, sentire che o ci sei o non ci sei non cambia nulla, arrivano serene le voci dalla spiaggia. Chissà, mi dico, se un’altra estate sarò qui malinconico a pensare il tempo che passa e trasforma le pene. A un tratto tutto assume quel lindore

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dell’infanzia e si fa bello il golfo, vivi l’agave il treno in corsa la zanzara che insiste sul dorso della mano. Anche i tuoi occhi fremono, un sussulto che fuga ombre e apre altri orizzonti. Le onde s’azzuffano col cielo, ecco, ritorno a sentire il mio corpo.

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Il piacere degli errori Stare delle ore a corteggiare la ragazza che fa la smorfiosa affacciata alla finestra. Vado e vengo per il corso, sbircio, rido come uno che deve farsi notare e sa che notato può avere una chance. Poi stanco mi siedo sulla panchina e leggo due tre righe da un libro sgualcito. Potresti scendere e venirmi accanto proseguire con me nella lettura. La finestra si chiude, è sera, un tonfo arido e schietto. La mia paura trova pace, un coro di serpi mi culla, non sarò mai salvo. .

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Orazione Campanelliana (Inediti 2012)

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1 La pura inquieta fiamma del dissidio rompe le barriere del silenzio, apre al pulviscolo stanco e alle maree la malvagità del bene, ed è una festa confusa, un incontrarsi di iene che rasentano l'essenza dell'immacolatezza, del tripudio odoroso di bacche.

2 Il contatto diretto con l'Essere presume di diventare zero e assommarsi alla forma del canto, è l'immutarsi interamente, diventare fuoco -non tutto-, e la ragione farsi senso, illuiarsi.

3 Io per campi e per diluvi, per forre e montagne di ginestre, accolsi l'altro in me, mi feci altro in me stesso e poi aprii le cateratte alla morte, come deve chi ha visto in carne e ossa l'infinito e ne ha sentito la voce, il brivido cangiante, la malia dei nodi inestricabili e consunti, e tuttavia intatti nella semina e nel tuono.

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4 Dunque conoscere è morire, questa la fase ultima, e la condensa della musica si pone trasversale e non cede. Allora rovesciamo il senso, andiamo verso il nuovo limite, moriamo per giungere a Dio, spezziamo la negatività della realtà, facciamoci cosa essenza e forma, , mutiamoci in Dio ch'è vita eterna, magnifichiamo il connubio e la catarsi. 5 Come la luce fiorisce da incorporeo scatto dell'inesistenza a materia che si spande in rosso e giallo,

l'anima s'addensa e le passioni le danno il ritmo e la cadenza: Dio impera nello sfarzo della dolcezza sacra. Volano per mari sbandati gli orli spiumacciati del dire troppo attorno e non sfiorare l'osso e la polpa che dan fiato al Verbo.

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Neve in sogno (Inediti 2012)

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Neve in sogno Il bianco sale dalla spiaggia. Roseto non appartiene più a sé, ma a un’ innocenza che uccide ricordi e litanie per farne denso fiume di strascichi irrisolti. Sull’orizzonte si sono accumulati navigli, strade, uva passa, fiori colorati e arcobaleni spenti. Un disastro o una benedizione che libera il mio canto in direzione del nonsenso. Mia patria ch’eri nido ed eri canto, mia signora del bene e del calore disumano del crescere. Mia agognata radura dove un aspide si vestiva di rintocchi coraggiosi e spingeva all’assalto. O era una coccinella? È fermo il gioco, la neve ha sparute agonie e improvvisi risvegli. Io vado e vengo da quel punto azzurro dove ormai le voci sono spente. Alla deriva sono i putti di Michelangelo e le sfere del mio equilibro che muore ogni giorno. Tra me e il sogno passano leggere armonie e cupe dissolvenze. Anima, dove sei? Rotto è il muro, l’acqua non gorgoglia, eppure i naviganti sono nel naufragio.

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I gabbiani non hanno soste, sfrondano il lauro e ribaltano la barriera; il muschio delle onde avvolge i cauti rintocchi delle taccole che stanno dentro cupole recise. Oh morte, oh canto oh limite oh ingordi malesseri che accendono lividi e sbollentano le questioni del mulino. Morirò come un soffio senza meta, come chi s’accorge che il vuoto ha pallide miserie da difendere. Ma potrò dire che schiere d’angeli sono buffi presagi, onde malvagie.

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La vista lunga La capacità di vedere oltre l’orizzonte, vedere anche l’inesistente o ciò che si sdraia tra le piume del sole e della nebbia; vedere sanguinare il Santo che cammina sugli orli delle nuvole e sorride. Sono pago del mio io, soddisfatto dell’aspetto del mondo e non mando messaggi ai sordi, non inseguo le vie del firmamento. Sto quieto e ascolto l’acqua cadere, le vibrazioni dei sentimenti. L’immensità la sento palpitare come il vecchio organo della chiesa madre. L’ortica tenta di parlarmi, probabile che voglia dissuadermi dal miracolo. Ed ecco che appaiono concretamente gli anni passati e futuri. Cercare è sempre inutile, da sé rotolano le sfere e arrivano puntuali le inquadrature a dimostrare che esisto, che esistono nessi con la storia e fuori dalla storia. A questo punto perché confessare che io sono la storia e tu la piuma estranea al rinnovamento? Io sono anche il gesto che placa le assurdità e le rende digeribili. Ma non sono dispiaciuto, soltanto ho fame di spazi e terrore della morte incosciente, terrore di rinascere con gli occhi spalancati.

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Fuori dalle stagioni Il timore del farsi e del disfarsi, il silenzio che prende braccia e occhi e poi abbaia e strepita. Ecco, siamo felici come quando aspettavamo l’alba convinti d’essere privilegiati dalla vita. Lasciavamo il cuore molto lontano neanche custodito, in un altrove nebbioso e impalpabile. Eppure ti sentivo aspra e dolcissima come un profumo aperto alla possibilità della morte. E mi guardavi come si guarda il mare quando imita le tragedie. “Restare così sempre affacciati all’abisso sarebbe come entrare nelle funzioni celesti e sentire ciò che accade fuori dalle stagioni”. Ti guardavo trascolorare, diventare senso mentre raccoglievamo i residui dei nostri corpi sazi, una condanna.

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Il varco dell’addio Se adesso tu arrivassi dentro il fiume dei sogni a mitigare lo sfacelo delle infinite combinazioni io chiederei perdono a me stesso e poi fiorirei in rami lunghi e profumati per far posto al sole e agli uccelli più colorati. Se adesso io diventassi piuma che leggera sale al cielo e potessi contare le gambe del vento e i nodi sottili delle nuvole tessute da richiami invisibili… Ma sono pietra che non sa gemere o sentire, ombra del mite passo del silenzio aggrappato a un pensiero che diluvia per sotterranei incubi in attesa di trovare il varco dell’addio.

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Nozze d’argento Il calore è sempre quello. L’opacità è in qualcosa che arriva a distillare la pece del conchiuso senza saper sorridere. Dovevamo fuggire da noi al momento opportuno e avere il coraggio, dopo, d’incontrarci al museo o in un parco. Ma il teatro non è il nostro forte. E siamo qui a tendere l’agguato a noi ragazzi, conoscendo il resto.

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Un sospiro Mai che t’abbia potuto incontrare in un territorio neutro dove alba o tramonti non hanno rilevanza, dove il cielo è immenso e limitato come una stanza. Mai che t’abbia potuto dire senza reticenze le mie agonie o spararti addosso la cecità del tuo corpo, inventarmi la nenia d’un pettirosso, o offrirti le mie assenze. Lo so, dirai ch’è metafisico il mio balbettare, l’adunco ribaltare delle sensazioni in pensieri. Ma diventa sempre più tardi e l’arrancare ingrandisce sempre più le cose di ieri. Non ho più le mani, lo vedi? Il paesaggio si sgretola e i colori diventano gelidi, di plastica direbbe il nostro amico critico d’arte. Come vorrei che un lampo squarciasse quelle insegne e le rendesse grido. Tu resti ferma nel tuo passo fermo a mirare la sera che avanza sulle ombre sempre più fitte. Quasi una danza di sensazioni irrevocabilmente trite. E la differenza tra morti e vivi è irrilevante adesso che non troviamo consonanza nei corpi. Eppure in me il ragazzo è ancora acerbo e sa piangere, sa gridare, esistere.

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Il fiele del non detto Gambe del cielo, occhi del verde, mani dell’ortica, una distesa di lumi incerti tra veglia e sonno, rintocchi di cantilene ammuffite nei solai abbandonati dove vipere ardenti mulinavano infanzie di livori, muti altari dell’eternità sfuggita alla rotta delle passioni. Ma potevo anche ridere del male e riordinare le carte finalmente stracciare il palinsesto da anni abbandonato. Così dal sonno al risveglio senza un avviso, dal turbinio alla quiete che divampa per sotterranei miti o lunghe le criniere dei cavalli. Dall’intensità dei bivacchi all’armonia distesa dei rifiuti… e poi quella vigilia di parole, il frantumarsi in gocce del consenso senza farsi dissenso, il fluire d’incanti che transitavano per foschi cunicoli. E il grido che lacerava la poca luce in dissesto, il fiele del non detto diventato preghiera del dio sconfitto, del dio che non sa camminare sulle acque e s’affida al gomitolo d’Arianna.

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A un comizio Il pari e il dispari del senso, l’afa mortale della cabbala, l’inseguimento verso le cupe glorie smemorate e il traguardo fittizio, quel piegarsi su se stessi convinti che la storia sia ciò che nasce dalle proprie viscere. E quelli che in piazza battono le mani e gridano vittoria e a casa hanno appena acqua e pane, e un po’ di detersivo che forse servirà a eliminare i pidocchi.

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Primo principio Chi ha detto che puoi toglierti il cappello adesso anche l’atto di contrizione segue le norme da me dettate. Inginocchiati, metti le mani sul petto, segnati e poi pensa che domani sarai un altro, un altro, non so come. Il primo principio è l’atto di contrizione, poi quello d’obbedienza, poi la perdita totale dell’io. Il che? L’io! Ma io non sapevo di queste storie e non chiusi gli occhi, volevo vedere che cosa c’è dietro lo sventolio delle pentole che bollono. Ma la faccenda andò per le lunghe e a un certo punto non si capì se festa o funerale si stava svolgendo. Al balcone lui parlava dei diritti dell’Uomo, di qualcosa che poteva interessare. Ma la folla era troppa e la sordità galoppante.

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Primo comandamento Il giorno e la notte affidati al mio indice. o così o fuori dal consorzio, intesi? L’alba e il tramonto chiusi nel perimetro della politica e chi ne ha ne metta. Soltanto la dovizia dei profumi cercava una via d’uscita e s’adornava di bestemmie i capelli. Fuori moda, fuori tempo, a che serviva una parata che sa di carnevale? Rifeci la valigia e ripartii. Il treno però fermava a ogni stazione. Poi la sosta si fece infinita. l’alt era disegnato sui binari. E a un certo punto i binari divelti.

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Un mancato accidente Sulle strisce pedonali arrancando con materiali plastici accumulati silenziosamente nelle pieghe del bianco ormai quasi sbiadito, e sulla punta del dito mignolo una frana di biscotti che sbavavano ricordando il sapore del latte, la rugiada che una volta fu avvistata sulla strada del ritorno, e fu una festa grande finita a salsicce e a ruzzoloni.

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Il fatto del giorno Il fatto del giorno fu detto e ripetuto dal prete sull’altare, uno scandalo da evitare se la civiltà è qualcosa da custodire e promuovere per il bene comune. Ma c’era la frenesia della politica e per strada cadevano le biforcute analisi del chi la fa l’aspetti. In ginocchio tutto ciò che fermentava: favole e cimici, confetti e pane. E io a ridere sfrenato per non aver saputo capire che si può morire in un attimo evitando il lento superfluo morire.

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Gli arrivi “Opporsi, opporsi” gridavano dalla nebbiosa padania gli alligatori e le spampanate matricole dell’esercito del tripudio malsano. Io avrei voluto dar loro una mano per benedire gli insulti e non fermare gli spergiuri. Ma erano così vivamente strampalate le icone che non ci fu scampo per il minimo d’attenzione e finì tutto nella sbavatura orecchiante del consenso che non si sa dov’era diretto. Certo è che la folla era scalmanata ed eccitata, una processione di lingue schiamazzanti per diventare una sola lingua. Utopia, certo, di quelle che allungano la vita alla puzza che viene dai cimiteri violati, dai cimiteri, anche se il pianto non si sente più, ma il sangue ha la voce.

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Articolo uno Scriva pure, Ministro, da domani le albe siano cancellate dal calendario. Perché così perplesso? Vedremo il come, e le risorse non mancheranno. Ma tu sei la puzzola che scrive del poco che si sfrange nel pulviscolo, nella chiarità d’un inferno addomesticato. Pietà, pietà per chi non crede a nulla, per chi non sa scalare e sgomitare. Pietà per la vita di chi muore lentamente ogni giorno e non può fare un solo gesto a causa di stanchezza.

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Adesso Adesso chiudi gli occhi e abbandonati. Tu sta’ buona. Le altre non hanno più le mani, ho provveduto a fermarti su carta patinata, dentro il sapore d’una favola, anche nell’insalata. Adesso ciò che conta è la sincera solitudine della chimera che voleva stringermi nel sepolcro del suo passo rabbioso. Non sapeva che tu mi porti sempre fuori pista e che per chiudere gli occhi ho bisogno del soffio lieve delle tue dita innamorate.

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Avvertimento Ecco il segreto: la morte esiste soltanto per gli altri. La partita ho dovuta giocarla a suon di milioni, ma è riuscita. Eternamente noi due camminiamo nell’intrigo solenne della solitudine senza accorgerci che siamo senza corpi senza potere. Lo so, alcuni diranno che si tratta di neuropsichiatria, altri che sia l’effetto della poesia o il disperdersi del divino ch’è in noi. Oh, come siamo dentro la bufera e siamo uccisi ogni giorno dallo sventolare del crepuscolo che ci avvisa che solo la morte conosce la verità.

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Ma tu… Ma tu dovevi ricreare il mondo senza barriere per la mia gloria. Non trasgredire più, l’inferno lo posseggo e posso regalartelo all’istante. I martelli bisogna cancellarli dal vocabolario, io sono colui che non conosce le carezze, non dimenticarlo però che le so dare. Resta la forma disfatta la nenia che se ne va per intricati ossimori festeggiando l’inquieto traghettare delle perdite. Non sento ormai la divinità inseguirmi, il farfugliare dei simboli è un’arma arrugginita o un illuso tambureggiare sul lido che si muove: le maree sono concetti che non vogliono divincolarsi dai colori e sbandano ogni giorno in pesi e in gridi perdendo le piume e le dita delle mani.

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Non ci sono ostacoli Non ci sono ostacoli, dovremo soltanto prescrivere le colpe che ci hanno assegnato. Attenta. Il mondo è un rovinare di balocchi nel fumo intenso delle promesse. Non è un miracolo il sogno del mare né la caduta della neve magari a maggio. Niente è scontato. E se tra alti e bassi si rispecchia la consuetudine in finzioni di marmo, non badare al consuntivo: c’è chi preme per diventare osso e chi anima. Il verbo è ormai caduto in oblio, bisogna scannare la raucedine del mare.

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La lingua La lingua mi consola dell’errore che funesto adombrava la vertigine So che gli spazi non hanno corpo, ma anche questo dovrà presto finire. Accatastati in fondo al magazzino stanno le risorse che dovrebbero cambiare qualche pensiero di chi fa la politica. Ma il dubbio è che la corsa sia interrotta proprio là dove ansima la storia e non sa più riconoscere le impronte.

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Una menzogna L’aspide è il sole nel suo bagliore. l’intensità del corpo si dissolve con un colpo d’ala di gabbiano. Mai visto un gabbiano? È un uccello amato dai poeti, una menzogna. E nel firmamento turbinano le cadute di stelle come note ch’hanno la testa e i piedi e non perdonano le stasi del non esserci. Non so mai in che direzione andare: il mondo è cieco e lo spreco altra finzione.

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Registrazione del non fatto La spinta che solleva il remigare delle stelle in direzione del polo inesistente, le regate degli astri che camminano come orchi infuriati e fanno le comari. Ma poi perché dovrei stare a sentirle quelle banali fiamme senza fuoco? Essi stanno di là, nel limbo che divora le attese e io nel frammentato supporto del possibile. Arriva Ulisse ormai troppo vecchio a dire basta. Nessuno l’ascolta, finalmente. La guerra infatti prende il sopravvento, prosegue la corsa della morte secondo le regole divine.

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La realta’ La realtà è una funesta sintesi della memoria, un disegno che giunge sempre tardi al traguardo. C’è chi crede che la pena sia non accorgersi della beffa. Invece tutto è officiato da angeli corrotti che distribuiscono altarini bianchi come latte. L’amore è un boato che lontano benedice gli anfratti dei crepuscoli.

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Decisione unanime La disperazione del pane fu totale, niente poté consolarlo e attorno a lui all’improvviso si alzarono le barriere di muri compatti di buio. Si riunirono nelle stazioni nei teatri processioni d’inattese presenze, perfino aiuole di crisantemi. Che si poteva fare per ridare vigore a un’abitudine ormai fuori moda? La decisione fu totale, in silenzio si continua ancora a scrivere il verbale.

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Il collezionista di filstrocche Il collezionista di filastrocche non trovava più bambini disposti a dargli la possibilità d’arricchire le sue teche. Decise perciò di smettere, ma senza recriminare o configurarsi giorni di vendetta. Aprì il salvadanaio verso la discesa ripida e irta di chiodi e vi rovinò le parole accumulate in tanti anni di appassionata ricerca. I rospi che vivevano ai piedi del burrone erano sbalorditi di tanta ricchezza Ma si resero conto che non era per loro tutto quel ben di dio, e gli dettero fuoco.

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I piedi del silenzio I piedi del silenzio s’appesantivano giorno dopo giorno e bruciavano lentamente a cominciare dalle unghie. Immergerli nell’acqua gelida non era servito neppure ad alleviare la moltitudine delle fitte che avevano qualcosa di troppo sublime Nella loro consistenza rumorosa si pensò perfino che i piedi avessero un’anima e un cuore e che avrebbero potuto parlare e dire cose importanti.

Ma poi la resa fu totale, e arrivarono spruzzi di vetriolo, cascate di moscardelli fritti in un olio rancido e vecchio di anni. Fu la fine. E la loro forma divenne una promessa di ansie da prestare al futuro. La stanchezza fece il resto. Poi il sonno eterno.

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Dunque Dunque te l’avevo detto che andare oltre avresti trovato la gelatina di ombre, se pure, e l’inconsistente parola senza corpo che divaga e fa parere che prima c’era un sogno e si poteva serbare. Ma quali altri incubi sorreggono le spalle dell’eterno se non la caparbia dell’assenza che si sposta come un orizzonte smarrito e a caccia di certezze. Lo sapevo, ma non potevo insistere e tu ostinata a bruciare le candele profumate, a inginocchiarti e cadere nel deliquio. Fidarsi qualche volta dei poeti, del loro fiuto, della loro povertà, del niente che li alita e li porta nel velo indistinto della percezione che scorre come acqua in fiumi occulti e guida il senso fuori dalla logica.

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Insistenza Nessuno deve insistere, sono lontano dai circuiti delle benedizioni, delle promesse, delle preghiere che sento avide di non so quali disastri o agonie. Voglio preservarmi dalle contaminazioni che arrivano come miele e si sciolgono nei gorghi ingigantiti da chi gode dei limiti. Possibile che il mondo si sia piegato all’assurdo che non porta se non ai piedi della croce? O verso altre sintesi che soffocano la libertà dell’essere? O sono attardato nella logica della scienza e faccio sogni suggeriti dalla matematica. Ma quale altro balocco mi si ruba e quale altra indagine ho perduto per essere costretto alla dabbenaggine d’essere un gufo privo di memoria, una rotta invisibile, una morta storia?

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Gli spazzini Ma sì che non hanno soste, che devono essere puntuali e pulire pulire pulire sempre pulire e andando nella notte caricare i malesseri le pupe rotte del malumore delle angosce divenute strazio d’immondizia di povere cose spente e prive d’utilità. Sempre organizzati con camion che caricano il semaforo e le consuetudini la dimenticanza del vissuto e del novembre rotto da immagini usurpate alle intemperanze della pioggia. Non è una condanna, non assoluzione, ma bagliore d’un fuoco che si nasconde a chiunque volesse saperne di più. I giochi sono fatti. Tutto funziona secondo le regole. I turni stabiliti e rispettati, perché, mai sia, la corsa potrebbe esasperare le contumelie dei fiocchi della morte e allora arriverebbero carri armati di putredine. Ci sono anche quelli che osannano all’inconcludenza, al fiorire del dissesto, alla caduta a picco.

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Maledizione In una vecchia casa ormai ricca di ragni, tanti che se ne potrebbe fare un museo, vigila la luna la sua memoria come se avesse avuto una tresca con quelle creature che appena sono circostanze irritanti. Eppure hanno avuto un senso, una volta, e una loro ragione che non si comprende. Chiamano, i nuovi nati, una ciurma di altri insetti ad assistere al concerto che si terrà tra demoni la notte dell’ultimo dell’anno. Lamenti e grida, qualche risata sconcia, e poi la fisarmonica che striscia sui corpi e li modella. Se la musica potesse fare a meno di chi sta lì a guardare e si consola, dormirebbe oppure aumenterebbe la sua frenesia? Il dubbio resta, corre il vento tra fessura e fessura. Il pandemonio resta irrisolto. Non ci sono risposte.

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Al limite del bosco Al limite del bosco –esistono ancora i boschi? Una lucertola tenta la fuga. -Una lucertola? Certo, ma forse mi sbaglio. Diciamo ch’era un brontosauro. -Allora? Allora quel che vedo ha un suono che s’allontana, devo divincolarmi da me stesso e cercare un riparo allontanando le mie mani. Un cerchio s’è staccato dalla cima delle querce e rotola seminando vastità e paura. Non ci sarà nessuna parte da recitare. Presto, andiamo nel rifugio, la guerra è violenta, non risparmia i poeti., altrimenti ombre e sangue si mischiano e gridano, poi.

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La guerra Obbligato ad andare avanti a sparare al nemico appena avvistato perché il nemico è un’orribile bestia che per anni per secoli è stato davanti alla porta di casa pronto a carpire segreti della famiglia. Obbligato a ubbidire: uccidere è una cosa come un’altra, alla fine, e ci si fa anche l’abitudine. Così miravo sempre al cuore convinto che bisogna difendersi, altrimenti ombre e sangue si mischiano e gridano poi d’essere innocenti, lo so per esperienza.

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Le rane Ho molta dimestichezza con le rane, ne capisco il linguaggio e anche le furbizie, e a volte ci siamo scontrati con violenza perché i pareri sulla luna erano discordi. Quando allo stagno ho sottratto dell’acqua assetato per colpa della calura che al paese a volte è insopportabile, le ho sentite nemiche, come se quell’acqua fosse proprietà inviolabile del loro gracidare. Non sempre rispondono alle domande, per esempio quella più pettoruta sembra una letterata e visto che ha letto Hugo, le ho domandato se avesse letto anche un mio vecchio libro che le riguardava. Silenzio assoluto. L’acqua s’è intorbidata. Dopo un po’ è scrosciata una pioggia adirata un temporale estivo di quelli che sconquassano.

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I vicini di casa Chiamarli bastardi sarebbe un complimento, non c’è un solo giorno che non li sento gridare, alzare il volume del televisore fino a far tremare i vetri del balcone. “Sembra che gli abbiano ammazzato i figli nella culla”. Prima o poi imbraccerò il fucile del nonno appeso ancora nel mobiletto dell’entrata. Il cervello ha strappi e giravolte, cadute e vibrazioni patetiche o furiose, sono confuso. Meritano al più presto una lezione.

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Mestiere sbagliato Invece di leggere libri e fare a fette parole e concetti avrei dovuto andarmene in una prateria e trovare una radura con alberi centenari a barriera e un pozzo inesauribile. Allevare api, coltivare kiwi, farmi il pane in casa, seguire il mutamento delle stagioni, affidarmi al vento alla febbre delle nuvole. Ho voluto la città, le belve che non sanno rinunciare alla sopraffazione. Adesso è la guerra fratricida, l’incanto è nell’attesa del morire.

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Nel magazzino Troppi, troppi sacchi vuoti, troppi livori al davanzale e sui panni lavati il mortuario rancore del bisogno, e la cancrena dei rospi che riuniti a schiere pregano il sole di sorgere, il bastardo. La porta spalancata, in bella fila casse ricolme di spazzole giacconi marmi e giocattoli bicchieri istoriati scope e radio transistor una montagna di tappeti una catasta di ombrelli lampadari rotti una congrega di bambole un labirinto di filastrocche imploranti e spazi aperti all’infruttuoso albeggiare come se il mondo fosse risolto in quel divagare d’oggetti coi cartellini visibili del prezzo con la catena al collo del rimorso.

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La cronaca La cronaca, sai, la cronaca è un ingrediente necessario per rendere la poesia immortale. È il sale che modifica e arricchisce il sapore, concupisce il lettore. E tu a recriminare che le toppe sono alzate di scudi al sublime, che non bisognerebbe avanzare pretese con degli scampoli, che per dire qualcosa di giusto e di onesto non si scende a patti col resto dell’universo troppo adattato al consumo. Per questo potevi lavorare in un giornale in un qualsiasi giornale magari sportivo dove la notizia muore appena pronunciata.

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I confini Sempre tentati di varcare i confini, rompere con l’attesa e salutare i vicini con un sorriso che dice e non dice. Avviarsi lenti senza valige al porto e non voltarsi. Però lasciare scritto che presto si farà ritorno, le bollette siano lasciate nella cassetta. Non c’è fretta, ma sì, pagare una penale in fondo è esiziale, non pesa. E poi… potrebbe darsi che noi a un certo punto decidiamo di sparire da noi, scendere nel folto degli alberi di cristallo e cancellare i nomi

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Gli appunti Verso occidente il sole se ne andava… Notizie sbagliate, forse puntava verso città che voleva salvare dalle contaminazioni verbali. O verso un cielo scritto da brufoli di sequenze ormai spente e senza nidi. Volevo andare anch’io verso gli spalti del terrore e misurarmi al coro con le mie mani con il cuore aperto da stelle filanti troppo dolciastre. E fu la fuga delle ore, lo sgretolarsi di un consenso che seminava i padri senza incenso per strade che avevano ai due lati orride carcasse di mutilati Senza distinzione: cani e uomini uccisi, bei visi in decomposizione. Indifferente al pericolo la lupa latrava idolo votato alla morte, in foia d’assenso.

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I fiori Perché c’è chi continua a credere che a una donna faccia piacere ricevere fiori in vita e dopo morta? Perché c’è chi crede che siano un gesto garbato e gentile? Io mai avrei creduto che potessero esistere i fiorai, che i fiori avessero un costo e che per cancellare un’offesa basta mandare un cesto d’orchidee. Ma non m’arrendo. Guardo i prati e sorrido. Il sole anch’esso è scettico e mi dà ragione.

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Al bar Anche qui la noia infesta l’aria perché mi sono portato un libro del Bacucco d’una ovvietà da fare schifo. Chiedo perdono allo schifo mentre sorseggio il mio campari liscio e penso che ormai devo acquistare una pistola. Se aspetto ancora la poesia diventerà notizia confusa, scampolo d’aceto, risulta del poco mondo di chi gestisce il sito.

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Le parole dei tigli Le parole dei tigli si confusero con quelle dell’alta tensione Senza corto circuito la combustione bruciò significati e tarantelle. A un certo punto i codici ricorsero all’inganno, finsero la morte per salvare Aristotele e Platone. Altre opere furono estratte a sorte. Ma così non si va da nessuna parte. Non s’impara nemmeno l’arte di proseguire il cammino esenti dalle contaminazioni. A ogni bivio bisognò decidere la strada da prendere. Non c’erano ovviamente indicazioni e si finì per arrivare all’Ade.

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Protervia Inabissarsi e poi tornare a splendere di profondità, quel poco che resta del fango e sembra oro. Ma l’infelicità non ha decoro e se oltre le decisioni restano anche i trespoli alzati dei pappagalli, non ci facciamo carico di cose che vanno avanti per inerzia. Il dopo è una faccenda sconosciuta alla ciurma. Il mare forza otto, o giù di lì. La battigia illuminata da qualcosa che sfugge alla mente umana.

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L’incanto L’incanto era dovere era la scorza dei numi uccisi e rivoltati: sogni guasti d’indigestione, razzi fulminei arrivati da incubi in dissesto. Non conoscevo altro oltre il confuso parlottare dei nespoli, indecisi fiotti che originavano la sfera dell’azzurro. e il sussurro delle api, il confabulare dei calabroni sulla porta sempre aperta. La caduta del sole fu la prima fase del guadagno, poi s’infittì lo scalo di navi troppo alte, una confusione di rotte, un richiamo di sirene che sbandavano verso scogli giganti. E la resa fu quasi un incantevole rifugio d’occhi distrutti, di maree sepolte finalmente arrivate alla consegna.

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Chiodi arrugginiti L’agguato dei ragni, il tripudio della casualità e quel tamburo d’inedia che scivolava sui guasti, sul costone dei rimbalzanti massi che sciorinavano fulgori e nel passaggio morivano le bestie fradice d’attesa come quando l’arrivo del furgone metteva allegria. Non c’erano strade da un poggio all’altro e tutto rovinava nel quieto debordare della campagna arida e serrata nel pulviscolo amaro del dissesto visibile sulle catapecchie abbandonate. Non c’era lo scampo della fuga: soltanto lunga attesa e il lento morire del dispetto.

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Misericordia Appostato al quadrivio suonavo l’armonica e ascoltavo la furia delle rondini il via vai frenetico delle pulci che infestavano la carità e l’attesa. Era di maggio, l’erba odorosa e accesa di colori, un passo dalla gioia universale. Una caduta possibile nel vuoto della danza che sa di mistero e di carrubo. E c’era il nodo irrisolto del tempo, la nera cupa immagine del dio che capovolgeva le sequenze. Non era possibile la resa, fui io a recriminare ed eccomi sconfitto.

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Scoscendimento Lo squilibrio delle convinzioni e la resa al primo canto del gallo; la paura d’essere altro ad ogni risveglio e trovarsi senza mani o senza occhi. Cadevano da punti imprecisati balocchi di plastica: un sussurrare di neutri fasti che calavano con protervia per imporre un dissennato codice chiuso al rinnovamento. O non avevo altro che la forma ormai corrotta del mio cuore e ansimavo sugli spalti convinto di farcela. Ma i tuoni squassavano le regole, si rivoltavano i corvi al guaire del senso. E siamo sempre lì con in mano l’erba secca del prato, a sferruzzare torbidi lieviti che azzimati sorridono sperando che arrivi il Grande Errore a correggere le coordinate.

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Perdite Non si contano più da quando un impercettibile brusio arriva dal pozzo che macina la concretezza e prospetta tutto in ombre e dinieghi. Non serve che la luna sia bassa o alta o che divori qualche schiuma di buio dai tetti e ne dia un abbaglio momentaneo. Non è che di cartapesta, residuo di chissà quale evento che per distrazione ha dimenticato una briciola, un ritaglio. Non vedi che il rosso è smemorato e che il vento non si raccapezza? Non vedi che passano veloci gli uomini degli uffici a testa bassa come se fossero oggetti lanciati per raggiungere il punto ovvio dei lamenti, come se da un fiume ormai secco arrivassero echi di disastri e di sconvolti pleniluni a invadere l’osanna dei giardini. Che poi qui è nebbia indorata e laguna di noia, avvizziti strascichi di sogni che neppure un angelo può più cullare. Ma domani, vedrai, come intorno la luce abbindolerà le braccia di chi ancora si frappone tra l’errore e il firmamento.

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Sconnessioni Non so se affacciarmi o restare fermo sul volto dei nessi e prendere il vuoto della città che cammina ormai sfatta di odori. Sento che l’ansia brucia le insegne e ne fa un bordello di maschere. Non insistere, sai, il percorso è lungo e accidentato, e nessuno potrà aiutarci a rivoltare la magia del dissenso o quella scia di pulviscolo che assomma nella corsa il motivo ancestrale del dissolversi. Non fare mea culpa, non esiste la ragione del piegarsi senza credere che altri numi possano decidere del mio e del tuo soggiorno acceso da candele che presto perderanno la loro qualità di poca luce. Intanto secchi colpi sbarrano la strada, baratri si aprono negli occhi, nascono mandrie di tori selvatici e di musiche che poi saranno cupi sintomi dell’eccelso. Ma la pietà sia bandita da ogni contrada e tu non farti vanto delle morti che più non hanno senso. Cresce la gloria del gelo, del musico che chiede alle note un abbandono.

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La salvezza La salvezza sarà l’anonimato, l’arrivo della polvere, il cieco battito della ripetizione.

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Concretezza Quanto rimasticare e quante piaghe si sono raccolte nelle piazze e il putiferio è appena fiera d’un rituale che ormai s’illude di partorire nelle finzioni. Denti aguzzi azzannano le sfere dei passi che ripetono l’assolo. Ogni cosa cade al suono d’un tamburo echeggiante chissà quali orli quali misure, oppure solamente si crogiola nelle pieghe di poveri sussulti aspettando che ita missa est si rotoli verso i lampadari. Le messe si concludono ogni mattina non giova ricordarsi dell’immortalità del sole: la morte è il degrado del senso, lo spiraglio della sordità.

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Fallimenti certi Provarci è umano, tentare d’acciuffare lo scorrere dell’azzurro quando si fa sospiro e fa tremare le vele o bisbiglia a chi passa l’immortale fluire dell’evanescenza. Le parole sono comunque rituali pescati in un abisso che cerca d’uscire dalle pantomime. Mai nessuno riuscirà a fermare l’occhio che rapido fugge verso gli eterni splendori dell’eccelso. Non esistono i luoghi della verità fissa indelebile, forse il divenire è nella stasi che però non dorme.

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New York andata e ritorno (Inediti 2012)

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New York andata e ritorno 1 L’aereo cade a picco nel mare. L’addio è concluso, ineluttabile. Poi altezza, larghezza, rumore assenza del cuore. Hanno la camicia di forza uomini e grattacieli. 2 Inchiodato dal cinguettio interiore - è nel cervello, in tasca, nelle mani? – fermo il gelso lo metto a fuoco nella prospettiva che mi è più comoda e lui mi guarda senza sospetti com’uno ch’è abituato alle bizzarrie. Poi scendono a uno a uno le finestre dai tronchi… il miele gli squarci i lamenti d’una cicala – e ognuno se ne va per la sua strada.

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La mia vita è buttata ora nel camino spento – lo vedo – in una pentola chiusa, nel nodo di linee sghimbesce. Corrono rapide allusioni, tutto s’incanala nei rituali.

Di me non importa, è dell’altro che temo, quello che s’adira e non accetta dilazioni, quello che il mare lo vuole in tasca e non s’accontenta d’avere mille occhi d’essere la Statua della Libertà. Sa che i silenzi non conoscono la matematica.

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Il punto fermo nella forma d’un bicchiere, la mosca che ronza corteggia lo zucchero rimasto nel fondo della tazza, il vento che scuote la libido delle finestre e dentro si accendono fuochi selvaggi distrazioni di nostalgie, si distruggono orizzonti si uccidono chimere. Non basta il punto alto delle due Torri a delimitare i disastri che corrono sfacciatamente appresso a bandiere sconosciute.

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5 Non potrò dirlo neanche a lei che poi recrimina mi dice sei pazzo smettila lo sai che né tavoli né sedie parlano e se tu le senti sei proprio andato. E io me ne sto sospettoso rintanato guardo la tazza col caffé, anche lei parla, e dunque zitto, zitto, ma poi: sei sbreccata vecchia zitella ormai, certo, ricordo le prime volte, ma i fiorellini azzurri ormai ti si sono sbiaditi. Non farti sentire altrimenti per me si mette male. Smettila anche tu o finirai in cocci. Di’ anche al caffè di tacere, siamo tra nemici sospettosi e cattivi. 6 Nel gruppo si sente forte - L’unione fa la forza- Mai una sera s’avventura solo per il quartiere dell’Albergo. Fuma affacciato a un balcone la pancia ben protetta il professore di Potenza.

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Era meglio non rivederla , così grassa, sformata; non era così allora; io l’ho amata per i suoi fianchi accesi d’armonia, per i virgulti di gelsomini che le nascevano negli occhi attimo dopo attimo, prepotenti, e arroganti perfino col sole. Un tripudio, sembrava sfidare Dio. “Sai”, m’ha detto, “qui si mangia troppo burro di noccioline e l’aria è infetta”.

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Il tassista è disorientato, fa finta di nulla ma è preoccupato ed è certamente convinto che non conoscere l’inglese sia un limite dell’intelligenza. “Io il Bronx ce l’ho nell’anima” gli dico per rasserenarlo, “si fermi qui, so come rendere innocui i teppisti”. Si rifiuta, accelera: “Muy peligroso, sparano, accoltellano”. Lo blocco, gli faccio vedere le cicatrici del cuore, degli occhi, del cielo, il passaporto. Ride senza capire nulla; quantunque indio è già troppo statunitense.

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9 “Ogni quartiere ha il suo reddito”. Non capisco. “A seconda di quanto si guadagna si cambia quartiere”. Va bene, continuo a non capire, non quello che dici, ma il motivo di questa scelta. Le palazzine tutte uguali, ci si può sbagliare, potrebbe aprire la porta una signora incinta bionda ossigenata o un accidioso bevitore di birra mentre ha sul fuoco una pentola di fagioli degassati e tiene la radio accesa che si gratta con rumori quasi umani. 10 Me li trascino appresso da quando sono partito; non so quanti siano né di che razza. Non hanno abbaiato una sola volta ma stanno in guardia, tra loro si scambiano segnali. Non ho neppure capito

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se aspettano il momento buono per sbranarmi oppure se mi seguono per proteggermi. Mi domando se sarò capace di sparare senza tentennare.

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Un giorno… un altro… notizie opache che arrivano prive d’identità nella furia d’esistere confuse col riciclaggio. Cadono a picco le angustie per fare posto alla malinconia. La realtà si fonde coi pensieri, si distrugge prima ancora di farsi polpa viva.

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Da un momento all’altro può accadere di tutto… e accade che la scarpa s’impigli, che lo scarico del bagno non funzioni, che un piccione tubi fuori misura e prenda la mira sbagliata. La forza della vita è in queste occasioni che sorgono come folate di vento accumulato dalla ruggine trionfante della Quinta Strada.

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La vedo nel dopo sogno. È qui distesa accanto, ne sento il calore. Ancora è capace di lavorare per dodici ore al giorno, d’accudire le figlie sopportando delusioni e fatica mettendo la casa a soqquadro, lavando in ogni angolo. Mi piacciono i lampi del suo corpo anche se sono sempre più rari. Si muove veloce, negli occhi conserva il meglio di quand’era ragazza.

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La Mela ha fretta di non so che cosa, come vivesse dentro lugubri presagi, nell’essenza d’un nulla che vuole diventare forma.

Io mi rifugio nella vastità d’un melograno ch’era davanti casa a Roseto e soleggiava beato.

I sussurri sono bendati o distrutti da troppi urli neutri. La metropolitana è il preludio d’un inferno che non mi appartiene.

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Cos’è questa rassegna d’alberi, questo rincorrermi col loro tronco, coi loro rami? Lo so, il cipresso per crescere ci ha messo venti anni, ormai ha un nome, una sua fisionomia; inutile recriminare se era vecchio o giovane, se la sua ombra serviva. Ne parlerò come un evento che si è cancellato per colpa di qualcuno. La decisione è stata unanimemente condominiale. 16 Le adesioni agli eccidi, l’esaltazione per l’orrido. Complicità sfrenata dei cartelloni della loro sfacciataggine. Credere che il sangue sia un accordo musicale per l’ebbrezza cercata e goduta nel dolore degli altri. Poiché la neve è un’invenzione dell’acqua e l’acqua un’invenzione delle nuvole e le nuvole un’invenzione dei poeti. I poeti che producono fenomeni fisici – e poi quell’altalena di rivelazioni, ad ogni angolo un tulipano marcito.

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Una ragnatela di cielo stesa ad asciugare, e il pudore del latte nel bicchiere elegante - di Boemia? – che il Plaza esibisce, il latte che si sente invenzione d’una mucca o d’una capra del Giovane Holden. E il filo sottile che lega l’ombra alla luce, la dinamica dell’Hudson che non vuole imparare a volare e si ostina a testa in giù. 17

Messa nella posizione giusta la pianta di basilico si fa regina, misteriosamente si fa sapore.

Ma che nascesse anche qui mi disorienta, significa che in qualche maniera l’America appartiene alla terra.

Da uno spazio indefinito arrivano rigurgiti e ululati, imitazioni di tamburi impazziti.

Dove hanno imparato le filastrocche queste strade affollate, questi fiumi di anonimi assenti?

Come dentro un guado di sabbie mobili, inseguito da cani spelacchiati, mi dondolo nella baia che banalmente abbaia.

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18 Ancora alberi a convegno con la mia ansia ormai logora. Sono gli ontani di Roma a parlare. I passanti a Little Italy hanno l’ aria di casa, povero me! Entro nel niente illibato di sillabe sgualcite, di foglie un po’ folli, di salti mortali che vanno da Roseto a Nuova York. Si aprono le strade squarciate da mille rimbombi da mille terremoti che mi portano fuori dalle ossessioni, dalle manie. I miei libri proseguono in me nel letto, nei piatti continuano a blaterare, mi portano in alto da dove è difficile valutare la trasparenza, stabilire il sito della mia innocenza. E comunque non ho nessun desiderio d’essere coi mie pastori. 19 Nel cuore della notte sento “fire, fire”. Vedo fiamme tra le lenzuola, sento colpi d’incudine, sento che scavano in un angolo nascosto del mio essere, forse nel cavo della mano destra

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o nel tallone. Un disastro o un mutamento? Ecco, le sirene squarciano l’aria, finalmente posso mettermi in tasca il Ponte di Brookleen. 20 Non dire una parola in più, non fare l’italiano corteggiatore. Così resto per ore a rimuginare sul da farsi. Vado al Museo o a vagabondare nei megastore? Compro anche ciò che non mi serve, come potrei sottrarmi al fascino delle merci in bella mostra? Uno scoiattolo però mi avvisa, meglio abbandonare gli acquisti su una panchina del Parco e cercare un quadrifoglio. È qui, a due passi, basta che sappia guardare. Due guardie mi invitano a prendere la via del cancello. Un tram borbotta, un barbone bestemmia. È quasi notte e non credo che questo cielo abbia diritto alle stelle.

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21 Il piccolo borghese impaurito ch’è in me sobbalza ad ogni indizio di pericolo. Qui i pericoli stanno in agguato ai semafori, nelle insegne, negli slarghi con una protervia che m’irrita. Molte cose sono al loro posto per il caso o il capriccio d’un bizzarro architetto hippy, per un distratto capomastro, o perché è così, niente di più. Io però me ne guardo bene dal dire la mia: ogni parola procura più guai del dovuto e può accendere micce a catena, scenari kafkiani. Del resto da sempre, ovunque, le cose vengono posate dove capita. È la regola, più di tanto non si può fare. 22 Appena solo nella camera dell’albergo, ch’è dalle parti di Piazza Washinton, mobili e oggetti cominciano a parlarmi. Non me ne meraviglio, sono un incallito collezionista disposto a prestare l’anima alle cose.

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Tra Roma e Roseto ho accumulato quadri rane libri giocattoli francobolli monete altre cianfrusaglie che alla mia morte perderanno il podio: qualche erede li venderà al mercato dell’usato. Ciò che adesso non darei sotto minaccia si perderà alla prima svolta. Che rabbia! Le mie preoccupazioni non scalfiranno il futuro. Sdraiato sul letto, in questa New York senza musica, perché mai penso a ciò che ne sarà delle mie collezioni? 23 Non avevo fatto nulla e mi sentivo in colpa così, all’improvviso, come chi ha ucciso qualcuno e non se ne ricorda se non a sprazzi e si dispera. Accaduto per caso, lei si stava sporgendo da un parapetto, a me prudeva il naso, le vidi le mutandine di seta celeste e l’orgasmo fu perentorio.

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Un rullare di favole oscene imperversò nel sangue. La Mela fu quella d’Adamo, fu una puttana eternamente sconcia.

24

Alla deriva… non ho direzione, mi sono perduto in un sogno letterario che m’allontana da queste strade catacombali. Macchie fitte, smoccolati spazi, e il ridere delle limousine, le donne fatte umane nel pensare alle capre calabresi. Non servirebbe urlare, non ne vale la pena, ad ogni svolta travolto dal grigio d’un cielo irritato, troppo alto, superbamente stupido. Perché di tutta la letteratura solo Fitzgerald m’accompagna? Vedo le sue immagini, l’ha creato lui il paesaggio urbano? Ma questa libellula è estranea, smarrita, ha perduto l’occasione di diventare altro. Un grido di rapace rimbomba sul treno, scaltro il controllore. Ho quasi raggiunto il punto delicato della sutura tra vita e sogno.

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25

Anche i silenzi stritolati, anche i mutamenti uccisi nell’attimo della consapevolezza. Anche me rifatto nel tuorlo d’un uovo. O sono un soffio guasto che non sa più pensare e arranca per la quarantaduesima in cerca d’una maschera per nuotare. Lasciatemelo credere… dietro la parvenza del troppo alto c’è l’impotenza non dichiarata. Il dolore delle cose è più pesante nel crepuscolo che arriva infiocchettato di profumi lontani. Sarebbe augurabile un’alta marea di duecento metri per sentirmi nel pieno della ragione.

26

Forse lo scrupolo, il senso di colpa che va e viene e non mi lascia in pace. Non so cos’è l’America, una farsa, un barlume, una finta cicala , una scala verso il nulla, una fanfara… Io non voglio più starci in questa plaga di odori di cipolle e di carote, non voglio diventare lo squalo che galoppa nel nonsenso, nel dilagare di metafore corrotte.

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27 Lo specchio rimanda il me contrito o quello antico – io so ch’è quello antico ancora solcato dai fulmini del desiderio, dal fiele dei ricordi. Sono sempre più convinto che le scarpe fanno parte del mio dna. Ognuno può ritagliarsi la città a proprio piacimento. Ma questa non si presta al sogno, è vipera con la testa immacolata. 28 Che ci fa qui a Chine Town, in attesa di che cosa? Sono già tre volte ch’è scattato il verde del semaforo e le insegne luminose hanno gridato; diabolicamente, sensualmente danzano. Che ci fa qui a mostrare le gambe sotto la gonna gialla troppo corta? Farà succedere mille incidenti, farà distrarre gli automobilisti. Morirà, lo so, è mortale anche lei, e il vuoto sarà una grande lapide che abbraccerà l’universo. Sono così belle le sue gambe nude,

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hanno il sorriso di alberi antichi che un giorno in Germania o in Brasile vidi e mi sembrarono colonne d’un tempio greco. Erano betulle? Alberi del pane? Ricordo ancora le loro parole ricche di misteriose risonanze. Ma quanto sono belle le sue gambe nude sotto la gonna corta, sotto quel giallo acceso, colonne d’un tempio greco antico. 29 Sì, poteva succedermi un guaio, ma ero già con un piede sull’aereo, già per metà in Italia. L’ho baciata per strada, all’improvviso. Lei ha gridato di gioia, poteva portami al commissariato. Come si chiama? Stava passando e l’ho fermata. In me è rimasta intera, mi vive come un peso che fa parte del mio corpo. Lo stridore dei denti non era americano.

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30 Per prima cosa ho baciato la terra a Fiumicino. ed è sparita la paura. Le Timberland per le figlie tintinnavano nello zaino. Non hanno trovato da ridire alla dogana. Mi è venuta incontro la voce di Totonno il pescatore che gridava impossibili storie di mari, nel corpo fiocine, alte maree, il soffocamento, il pesce spada infuriato. Un ricordo che non c’entra niente, ma mi ha riportato a Roseto, al mare che non s’adira mai, e non è mai spaventato.

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Ricordi di New York 1 Dòppe fèd’i cùnte cu a mesùre du cùrpe, cerchè si nti mùschegue rumànen’i sentemènte cu zavùrr’ a chiarìje o com’a zìcch’ ammuccète. Jè chiantèt’u magazzìne di recòrde nta nu sìtte sciullète nta cùreve di gòsse. Nènte fòrse rumàned’a ffè a guàrdie allu sìnze e nti pàsse da vòce a vìte tròve cummère cu spìnn’i strìnge na mène. Te’, mo’, i memòrie du capetène de nu viàgge cu tìmpe s’aggliùttede sc’cavùrde pàcce o ncamasciùte o nìur’ i sfrid’i fòrge. (Poi fare i conti con l’estensione del corpo, cercare se nelle fibre le sensazioni restano in strascichi limpidi o come zecche nascoste. Il deposito dei ricordi è situato in una radura scomoda nell’ansa delle ossa. Forse niente resterà a guardia del senso e la vita si risolverà nei passi nella voce nel desiderio di stringere una mano. Ecco dunque il diario di bordo d’un viaggio che il tempo macina ingordo allucinato o stanco o nero di fuliggine).

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2 U sùnne lùnghe ha fàtte sbampè a cùde da Stàtue da Libertè, du Udson, di grattacìghe. M’è parùte che tùtte se putì mmesc’ chè i mìje, m’ègge mpaurète i pèrd’ u nòme, a mme squagliè a parùgue. Spìsse da m’je fujìd’u mestère, se stutàved’a gùce, s’allargàved’u scùreche e m’imbruglève cu i gàmme mìje e l’ùcchie ca me parìne putìje grànne come jè grànn’u cìghe, l’orezzònte, u scialamìnte de cu tènede. E deventève relògge giappunèse, na sc’càtua cenèse, u telefunìne, u CD, na scàrp’ i màrche. Se sìne tròppe scòmede sì com’a fiùre marciùte ca fìted’a jìlle stèsse e cu te stè vecìne. Ma come fè a slazzède a pommedìje ntu spìnne dùce du cafè fàtte nta chèse. De na pàste cu sùche i pummadòre frìsche cu vasanecòje? U ghìmmete crèscede nta chèpa mèja sturnecète, jì guàrghe da maghète, vìghe quìlle ca non c’è, o se ne va tammurrejànne troppe nnànte. E vide quìlle ca non c’è. E se defènnede. I respòste s’accavàllene e truttìjene e l’ùcchie se ghjnchien’ i mònghe e se ne vène drìtte ddùve a ngè vìte. Jèd’accussì ca sberrìje pi vìje camenète cercànne nu chiuvìtte addùgue m’appuggè sup’a mìje stèsse, pe no jèsse mangète da gùpe senza recìtte.

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(Il sonno lungo ha evaporato lo strascico della Statua della Libertà, dell’Hudson, dei grattacieli. Ho temuto il rimescolamento totale del mio essere, ho avuto paura di perdere il mio nome, dissolvermi in parole. Spesso da me s’allontanava il mistero, si spegneva la luce, si dilatavano ombre e confondevo le mie gambe e i miei occhi con i banconi dei supermercati ch’erano l’infinito, l’orizzonte, la goduria del possesso. Anch’io un orologio giapponese, un oggetto cinese, un cellulare, un CD, una scarpa di marca. Il disadattamento è un fiore marcio che puzza a se stesso e a chi ti viene incontro. Ma come sciogliere il mito nel tenue desiderio del caffé fatto in casa, di una pasta col sugo di pomodoro fresco con basilico? Il limite sta nel mio dissesto psichico, il mio sguardo è malato, vede ciò che non c’è, oppure va troppo avanti e si difende? Le risposte s’accavallano e galoppano e gli occhi diventano impuri, contaminati e diretti all’impasto dell’indifferenza. È così che divago per le strade percorse in cerca di un appiglio che mi discolpi da me stesso, dalla fame dell’irrequietezza).

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3 I mène, sti mène ca svapòrene ntu ncìnse di carìzzze. Tènene mùre chi gguàntene e li mìttene ntu pertùse. Come s’edda f è pe ffè arrevède nfrònte l‘acqua frìsche di penzìre dùce ca nàscede du ntasamìnte du còre e se fè càrne senza ghìmete da sìte? Pe nu sbàglie di pàss’a còrse du sògue gràpede cunchìglie antìche e luccecamìnte i sàcce e non u sàcce, nu diciamìnte du crànie ca perde tìmp’ e nchiòved’u selènzie. Ntu nòm’i Crìste se conchiùded’u bàlle da còrse vìrs’ u nènte rutt’e strùtte. Mo jè du mìje u cùrpe mìje, jè vendechijète pecchì ncamasciùte da preputènze i còse furastìre, da cu pàrlede nglèse. (Le mani, queste mani che evaporano nell’incenso delle carezze. Hanno muri che le serrano e le costringono alla resa. Come fare per trasmettere alla fronte la fluidità della tenerezza che nasce dal gorgo dei pensieri e si fa carne immensa della sete? Per un errore dei passi il turbinare del sole apre conchiglie fossili e chiarori di malintesi, un sussurrare a tratti

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del cranio che si dilunga e crea silenzio. Sacralmente si conclude la danza del correre verso l’insignificanza. Adesso il mio corpo è mio, trema perché stordito dagli assalti di cose estranee, dalla lingua inglese).

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4 Dùce dùce se sbròglien’ i sùnne i cùnte curiùse i fàcce a fàcce nta nu prète annevrechèt’i gambejìzze addurmesciùte.

Nta chèpe fèn’a còrse accidamìnte tempèste scùse pe parlè de quìlle can tu fùche da Cite se nnè jìde pe cùnte sùje lùntene da vìte. Ogne cùnte ntu pàsse sùje, ntu ghìmete nìure o jànch’o senze nu pìcchie i mòde. Capescìje ca nta Quinta Strète s’arregliàved’a stòrie i cramatìne, ma va a sapè cu, e li fìghe di fùglie jànche com’a nìve rijagàvene bùlle. Nènt’ u penzìre mìje, u nòme mìje na tabacchèra vècchie

jettète nta sàcche de munnìzze. Jàmme, n’atu pàsse, e u spettamìnte se fè chjche i nu prugètte nciutùte, jàmme, almène cunzègne a cu tènede besùgn’ u sogue ca stè nascènne. (A poco a poco si dipanano le visioni gli aneddoti gli incontri in un prato cupo di riverberi assonnati. Nella testa si rincorrono eccidi uragani pretesti per parlare di ciò che nel fuoco della City andava per suo conto lontano dalla vita. Ogni cosa nel suo passo, nel suo limite oscuro o lieto o privo di maniere. Capivo che nella Quinta Strada

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s’assiepava la storia del futuro, ma non sapevo quale, e margini di fogli bianchi come la neve offrivano postille. Il mio pensiero zero, il mio nome un inserto abbandonato ai sacchi d’immondizia. Avanti, un altro passo e l’attesa si fa lembo d’un costrutto avariato, avanti, cedi almeno la tua parte di alba a chi ne ha bisogno).

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5 Em’arrevèt’a nu pùnte ca ffè poguesìje jè com’a pegliè pu cùgue cu lèggede e jè pùre cuntènte i se fè peglè pu cùgue tànte pùre s’angè poguesìje a mùseche se fè frettète e nnànt’ a nesciùne cànge nnùlle, i mène dùce dùce s’abbìtuen’alli chegùre sfàtte e lu seghenasènze jè na statìje i ll’àneme ca ccìtted’i sèr’ì l’armunìje nta chjche ca sbàttene nti gùce i càrburre fràcere. Nova Yorke, nta stu masùne ciùt’i sògue ghède nu cùnte ca ngè e mìttede pantejìzze. U cerevìlle tènede pommedìje ca s’ammùrrene e scentìllene tra gùre cu a chèpa gauzète. I sùnne se sfarìnene, fèn’amòre cu quìlle ca nze dìced’ e se gràped’a fèste nta fùme ca fène scìnghe sup’a pèlle i fìmmene chiàtt’ o tròppe delechète. Ragiunamìnte strìtte arrivène di pònte ca se fène mmàste semp’i cchiù e stène darrìr’ i pòrte de ghète jumère ca ntenène cchiù sìtte. Jè na còrse i nutìzzie senza sèghe, i mestère canusciùte da l’àcque. Tè, come vìned’a resurreziòne e come se svòlged’a glòrie du nènte. Ed a qquè se rùppene

i cìste di pommedìje etèrn’e se gàuzen’i fegurànte. Te’, devènte tùtte chianùre tutt’i cùnt’e s’addurmìscede

ntu nùzz’i nu prefùme, ntu subùrbie mis’a durmì.

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(Ormai fare poesia è prendere per il culo il lettore che è ben felice di farsi prendere per il culo tanto con o senza poesia la musica si fa frittata e all’orizzonte non cambia nulla, le mani a poco a poco s’addestrano ai colori sfatti e l’insipienza è una stagione dell’anima che purga le sere d’armonia in risvolti inciampati nei barlumi di scorie nucleari. New York, in questo tramonto stupido ha qualcosa d’irreale e di spaventoso. Il cervello ha storie che si sovrappongono e cozzano tra loro con impennate fulgide. Le visioni si sfaldano, si coniugano con il non detto e s’apre la baldoria in fumi che decollano sulla pelle di donne grasse o troppo delicate. Ragionamenti fitti arrivano dai ponti che s’inarcano sempre più e origliano alle sponde del fiume ormai privo di forma. È un rincorrersi di notizie futili, di enigmi svelati per annegamento. Ecco come avviene la catarsi e come avviene l’apoteosi del nulla. E qui s’infrangono

le ceste dei miti e s’ergono a simboli. Ecco, si spiana ogni cosa e il mondo s’addormenta nel glutine di un odore, nel suburbio oscurato).

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6 A nne nàscede nènte pe sbàglie o tutte jè sbagliète e pe stu mutìve pecchì stè a penzè se quìlle che vedìme jè fàtt’ a regola d’àrte sa cùreve jè chiaghète.

Nta tutt’i gùsse de tutt’i parùgue triònfed’a ghègge e non fè na grìnze se mìs’allu mùre nnànt’a na sc’cupètte. M’ègge sèmp’ammuccète darrìr’a pòrt’i gòsse; ntu crànie

scìfuguene jumère quète, crèscene vùsc’che ca vòne parì tegàtr’i tànte ddìje du Ghìmpe. Come cu sàpede come, m’a qquè debbànne tròppe strùssue e tròppe ghitanìje fène nu sc’casciamìnt’ ammuinèsche. Ah, se putère scrive senza nùll’i vìcchie e gusè prùggu’i fucìghe pe purefechè u sciollamìnte du jànche, a pagùr’ e lu pantejìzze cu fè tremè a tùtt’i penzìre che pènsede, a tùttì’i vòce. (Non nasce nulla per caso o tutto è casuale e proprio per questo perché stare a pensare se la retta è ben modellata se la curva ha una piaga. In ogni cartilagine della parola la regola trionfa e non si disfa nemmeno se messa al muro di fronte a un archibugio. Mi sono sempre nascosta dietro il paravento delle ossa; nel cranio scorrono fiumi lenti, crescono foreste che imitano gli dei dell’Olimpo. In che cosa non è facile dirlo, ma qui accanto troppe scorie e troppe litanie

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fanno scorribande di rinvii. Ah, se potessi scrivere senza veli e usare polvere da sparo per purificare il dissesto del bianco, la sua paura e l’ansia che lo fa tremare ad ogni pensiero o voce).

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7 Secùre, u befùrte s’annevrecàvede tutt’i sèr’ allu punè du sògu’ e lu nfenìte cannejàvede pi chèse chiù gàute. U nzirramìnte du vìnte se fecì sìnte com’a n’esèrcet’i vòmmece. U tìmpe se nfracecàved’ a tutte l’appuntamènte, jì com’ a nu pupàzze stevìje affaccète a nu barcòne p’aspettè ca ngùn’u cùnte cangiàvede pa fòrze di merìzze. Piglièt’e screvìte tutt’i cùnte, na poguesìje, a nne vàghd’a pène. U nchiòstre ièrede pesànt’ e penzerùse, troppa càrne di mène mìje c’evì scuguète e u pantejìzz’avèrede sciùllet’i benefìce avùte di forestìre. Nova York annaspàvede sup’a na pìnn’i crestàlle, a buscìje sventeguijavèd’a canzòna sùje cu tammùrre chiù gàute di Torre Gemelle. Da sùpre ce càdid’a nìve, ce passàvede nu cangùre.

(Ma certo, la voragine s’incupiva ad ogni tramonto e la vastità ansava per i piani più alti. Lo stridore del vento aveva il ronzio d’una armata di calabroni. Il tempo s’infradiciava ad ogni appuntamento, ridicolmente io stavo affacciato a un balcone ad aspettare che qualcosa cambiasse sull’onda degli odori. Prendere appunti per un diario, per una poesia, non valeva la pena. L’inchiostro era pesante e pensante,

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troppa carne delle mie mani vi era scolata e i fremiti avrebbero scosso i privilegi ricevuti dagli ospiti. New York arrancava su una piuma di cristallo, la menzogna sbandierava il suo canto con tamburi alti più delle Torri Gemelle. Su queste cadeva la neve, transitava un canguro).

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8 Me s’a poguesìje jè nu pìcchie i pène frìsche o nu pìcchie i vìnte arruzzète nescciùn’ o po sapè. Gòje i puète vène caccejànne sbrìffe e sbràffe, accozzène a nutìzzie ncavarcannèse, e gràpen’ i dìnte mille ramàglie contre cu pàrled’alla televisione.

A ngè defferènze tra pùrpe e gòsse, càden’a pìsce’i dubbie da canuscènza, s’ammùcced’u frìtte e lu refrìtte e li tòrc’i Puguecenèlle. Addìje ghjnchjamìnte da parògue, addìje recchìzze ca sbuttejàvede nti pàggene. A mìsse cantète jè nu cùnte bbùne, nu cròsteche du rembamamìnte. Cu scrìved’u fède pe se cunzuguè, pe cerché a glòrie, pe pegliè pe fìsse ll’àute. Nova York jèd’a fegùre precìse de come sùn’i cùnte addùgu’ em’arrevète dòppe sècugu’ i sògue. (Ma se la poesia è un po’ di pane fresco o un po’ di vento arrugginito non è dato saperlo. Oggi i poeti vanno a caccia d’effetti, ingorgano la notizia sovrapponendosi, creando difficoltà agli speaker televisivi. Non c’è differenza tra la polpa e le ossa: cadono a picco le ritrosie del palese, s’occulta il risaputo e le fiaccolate pulcinesche. Addio

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pienezza del dire, addio ricchezza che traboccava dalle pagine. I funerali sono un indizio benevolo, un acrostico della demenza. Chi scrive lo fa per consolarsi, per cercare la gloria, per irridere agli altri. New York è l’immagine esatta di questo stato di cose a cui siamo giunti dopo secoli di sole).

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9 Me rassègn’ allu sciullamìnte, alli scuncìzze. Ntu sìnghe se sbròded’u fùche da poguesìje o u crède du nènte. Jì sìnghe chjchète ntu sùrch’ i mìje stèsse. I stòzzere pi chène, a rèsene ntu vìne. Vène l’ùmmen’a mùrre vìrs’a vùcche du Nfìrne, i fìmmene tènen’i tàcche gàute, u cùgue di scimmiùne.

(Mi arrendo al dissesto, all’incongruenza. Nel segno trabocca la libidine del canto o la religione del niente. Io sono piegato nel solco del mio essere. Gli avanzi per i cani, la resina nel vino. Vanno uomini a schiere verso la foce dell’Inferno, le donne hanno i tacchi alti, il culo da scimmioni).

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10 A nge rejèsch’a me caccè da ncùll’u sfrecamìnte che fèn’i mène gauzèt’addummannann’ajùte. Nu fìsch’i sèrpe ghìvede ncammenèt’alla glòrie, e sùp’a tùtt’ì mùre di grattacìghe se sentìde cannejè scurrènn’u pantejìzze da caretè. A ntènghe cchiù i vràzz’e mànche l’ùcchie ma sùgue na chjchèt’i gùne frechèt’a Central Park. (Non riesco a scrollarmi di dosso il rumore fatto di mani alzate a chiedere soccorso. Un livido schiocco di serpi anelava alla gloria, e su ogni facciata di grattacielo si udiva lo scorrere della pietà che ansimava. Non ho più le mie braccia né gli occhi, ma solo un riflesso di luna rubato al Central Park)

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Dante Maffia è nato a Roseto Capo Spulico (Cosenza) il 17 gennaio 1946. Il padre, Salvatore, piccolo commerciante del paese, scelse il nome del quarto figlio (dopo Luigi, Antonio e Filomena) augurandosi che diventasse uno scrittore. La madre, Rosina Tucci, fu colpita da una grave malattia che la costrinse sulla sedia a rotelle. Fin da ragazzo Dante è stato affascinato dai libri e dalle “pommedìje”( racconti orali) ascoltate avidamente attorno al caminetto. Racconta lui stesso in una poesia scritta a tredici anni: “Vado la sera/ di casa in casa/ ad ascoltare le fiabe/ che mi raccontano i vecchi / al focolare/ come un mendico/ che ha bisogno di un pezzo di pane”. Trasferitosi a Roma ha esercitato vari mestieri per sopravvivere e frequentare l’Università. Si è laureato con una tesi sulla Presenza del Verga nella narrativa calabrese. Si è dedicato all’insegnamento e alla ricerca nella cattedra di Letteratura Italiana

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dell’Università di Salerno diretta da Luigi Reina. Natura avida e curiosa, Maffìa ha ingaggiato con la lettura e con la scrittura un vero e proprio duello cercando di scandagliare, oltre che le opere degli scrittori italiani, anche quelle di altri paesi. Dotato di una prodigiosa memoria (forse non è casuale che come suo riferimento principale abbia scelto Campanella) riesce puntualmente a sbalordire per i dotti e appropriati riferimenti durante le sue frequenti conferenze tenute da anni nelle maggiori università del mondo. Il viaggio è il punto nodale delle sue indagini di scrittore. È poeta, narratore, saggista, critico d’arte e fondatore di riviste prestigiose come “Il Policordo”, “Poetica” e “Polimnia”. Intensa la sua attività critica sulle maggiori riviste italiane tra cui “Nuova Antologia”, “Il Veltro”, “Il Belli”, “Idea”, “Poiesis”, “Fermenti”, “Poesia”, “Microprovincia”, “Hebenon”, “La Fiera Letteraria”, “Il Giornale di Calabria”, “Il Mattino”, “La Voce”, “Nuovi Argomenti”, “Il Cittadino”, “La Nazione”, “Paese Sera”, “Lunarionuovo”, “Misure Critiche”, “La Rassegna Salentina”, “Otto/Novecento”. È stato corrispondente de “La Nacion” di Buenos Aires ; per anni ha curato la rubrica dei libri per RAI 2 ed è redattore degli “Studi di Italianistica nell’Africa Australe”. Come poeta fu segnalato, agli esordi, da Aldo Palazzeschi che ha firmato la prefazione al suo primo volume, e da Leonardo Sciascia che con Dario Bellezza ritiene Maffìa “uno dei più felici poeti dell’Italia moderna”. Ha tradotto alcuni poeti dialettali calabresi per Garzanti e per Mondadori. Il Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi,

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nel 2004 lo ha insignito di Medaglia d’Oro per i suoi meriti culturali, insieme a Uto Ughi, Raffaele La Capria, Piero Angela, Giuseppe Tornatore, Ermanno Olmi e Achille Bonito Oliva. Oltre ad Aldo Palazzeschi, hanno prefato i suoi libri Donato Valli, Enzo Mandruzzato, Dario Bellezza, Mario Sansone, Carmelo Mezzasalma, Mario Luzi, Giulio Ferroni, Marco Rossi,Giacinto Spagnoletti, Angelo Stella, Giuseppe Pontiggia, Mario Specchio, Claudio Magris, Nelo Risi, Alberto Granese, Dacia Maraini, Gian Luigi Nespoli, Silvana Folliero, Tommaso Romano, Carmelo Vera Saura, Tullio De Mauro, Natalino Sapegno, Norberto Bobbio, Luigi Reina, Alberto Bevilacqua, Alberto Moravia, Alberto Granese, Corrado Calabrò, Gianpaolo Rugarli, Alberto Abbuonandi, Remo Bodei, Sergio Givone, Giuliano Manacorda. Numerose le traduzioni delle sue opere all’estero: in rumeno, inglese, francese, spagnolo, russo, tedesco, portoghese, slovacco, macedone, svedese, sloveno, bulgaro, greco, ungherese. Dante Maffìa ha scritto molto, sempre più convinto, come ha ripetuto in più d’una occasione, che gli scrittori non si possono né si devono giudicare dalla quantità delle loro pagine: “Quando a Liala un giornalista domandò perché non fosse riuscita a creare il capolavoro, la narratrice sorridendo fece notare che non era stata colpa della fretta e dei cento e più romanzi scritti, ma semplicemente perché non ne era capace. Infatti altri, come Dostoievskij , Balzac o Goethe, che di libri ne hanno scritto più di lei, hanno prodotto dei capolavori nonostante la marea delle loro pagine.”. Per una bibliografia ampia, ma non

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completa, si rimanda ai testi curati da Luigi Troccoli, Omaggio a Dante Maffìa , Castrovillari, 1978; da Gennaro Mercogliano, L’Odissea nel mistero, Catania, 1984; da Rocco Salerno, Antico e nuovo nella poesia di Maffìa, Roma, 1986; da Franco Di Carlo, Gli opposti segni, Lecce, 1986; da Luigi Reina, La poesia come azione e dizione, Roma, 1988; da Giuseppe De Marco, Mappa dei poeti del Sud, Napoli, 1989; da Vincenzo Petrone, Lessico del dialetto di Maffìa, Rossano, 1989; e dal recente studio complessivo di Antonio Iacopetta. Per i libri editi ha ricevuto i premi: “Martina Franca”, “Palmi”, “Alfonso Gatto”, “Tarquinia- Cardarelli”, “Calliope”, “Città di Firenze”, “Città di Venezia”, “Trastevere”, “Pino d’Oro”, “Brutium”, “Rhegium Julii”, “Acireale”, “Lentini”, “Lanciano”, “Città di Cariati”, “Circe-Sabaudia”, “Montale”, “Un ponte per l’Europa”, “Vanvitelli”, “Insieme nell’Arte”, “Marineo”, “Anna Borra”, “Contini-Bonacossi”, “D’Alessandro”, “Anco Marzio”, “Cirò Marina”, “Palmi”, “Viareggio”, “Stresa”.

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