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In assenza di vento

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Nina Yorgen, romance. La separazione dei genitori giunge come un temporale nella vita di un ragazzo undicenne e peserà come un macigno sulla sua fragilità interiore. Lo stesso momento drammatico assume toni e aspetti diversi a seconda dell’angolazione, degli occhi di chi guarda. Per il padre la separazione è una scelta di vita, per la madre una spinta a non arrendersi in nome di un figlio da crescere. Pur sapendo dove andare, si aspetta un vento favorevole che non arriva mai e si resta fermi come in un stato di bonaccia. Si riflette sugli eventi costantemente e con una sola certezza: l’irreversibilità degli errori. “Ci si chiede di continuo se ci si stia sbagliando, se la propria soglia di tolleranza sia troppo bassa o se ci sia sempre una strada per ricominciare, semmai ne valga la pena. Poi, però, arriva un momento in cui ci si accorge che non c’è più tempo per riprovare, si sente l’urgenza del momento se ci si volta indietro a guardare tutto il perduto, nell’attesa del niente e di t

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NINA YORGEN GENY DI PALO

IN ASSENZA DI VENTO  

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IN ASSENZA DI VENTO Copyright © 2013 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-678-3 Copertina: Immagine Shutterstock.com

Prima edizione Febbraio 2014 Stampato da

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Questo romanzo è opera di fantasia, ogni riferimento a fatti o perso-naggi viventi o realmente esistiti è da ritenersi puramente casuale.

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A mia madre Anna

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La speranza è il sogno di chi è sveglio. (Aristotele)

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Capitolo I

NOTTE INSONNE Non avrebbe chiuso occhio. La notte per Luca sarebbe stata lunga e insonne. Lo aveva visto prepararsi le valigie, aveva vi-sto le lacrime della madre. Aveva sudato per la paura e poi era rimasto immobile per lo stridio di quelle parole ruvide e inac-cettabili, pronunciate con tono falsamente dolce. «Mi dispiace, Luca. La mamma e il papà non vanno più d’accordo. Papà si allontana da voi, per la serenità di tutti… Ma Luca, io non ti lascio. Puoi venirmi a trovare, possiamo ve-derci ogni volta che vorrai…». Non aveva aggiunto: «Non saprò più nulla della tua vita, se non quello che vorrai dirmi». Aveva gli occhi folli e spalancati. Ma il tono pacato rifletteva la fermezza e la risoluzione di chiudere definitivamente, la volontà di non cedere il posto a ogni ragio-nevole ripensamento, la necessità di convincere prima se stesso di aver fatto la scelta giusta. Sembrava la comunicazione di chi

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non si aspetta repliche. Eppure non era calato il silenzio. Sua madre aveva tirato fuori tutta la rabbia, quella che aveva conte-nuto ogni volta che il marito era rientrato tardi dal lavoro, ogni volta che si mostrava cieco dinanzi alla sua dolorosa precarietà nell’essere moglie. Luca l’aveva vista con gli occhi rossi di la-crime e rabbia. L’aveva sentita inveire: «Non potevamo andare d’accordo se tu continuavi a vederti con quell’altra. Ti ho dedi-cato gli anni della mia giovinezza per vederti andare via con la prima bionda del cazzo…». Che squarcio aveva procurato quella parola. La madre diceva parolacce solo quando si arrabbiava sul serio e questa volta lo era davvero. Poi era andata via, era scappata in giardino a cercare il cane. Anche Luca aveva alzato le spalle e si era rifugiato in camera. Ma solo per poco. Poi, con passi veloci, era tornato alla posta-zione iniziale, dove ancora si trovava il padre, lì, fermo, inebe-tito. Gli aveva urlato contro: «Sei un bastardo. Perché mi hai fatto nascere se pensavi di andartene! Cosa c’è che non ti piace più della mamma? Perché te ne vai?». Luca aveva compiuto da qualche mese undici anni; era un bambino particolare, veloce nei calcoli ma timido nelle parole. Non parlava mai di sua iniziativa, neppure della scuola; a volte, solo in chiusura di giornata, al caldo sotto le coperte, si attar-dava su qualche paura che confidava alla madre. Riusciva a sorprenderla. Sembrava un ragazzino indifferente alla realtà, costantemente in ritardo rispetto alle velocità della vita e delle emozioni, ma poi, nella notte, con qualche frase o con qualche domanda, rivelava di aver assorbito in quella testolina il mondo

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intero. Era già pieno di ferite, alcune auto-inflitte da quell’eccesso di sensibilità, tanto evidente in un maschietto e così insolita in un maschio adulto. La metamorfosi della cresci-ta maschile faceva dei bambini adulti incomprensibili. Chissà che bambino era stato il padre di Luca per decidere di andar via di casa come un temporale. Uno scoppio improvviso. E giù acqua e grandine su quell’erba tenera, sferzate di una na-tura che ferisce. Nel letto Luca non si fermava, non sapeva quale lato scegliere. Non aveva sonno, solo tanta paura. Quella sera era crollata la sua casa; era diventato tutto più piccolo, tutto insolitamente mi-sero. Anche il padre, l’uomo nel quale avrebbe voluto rifletter-si… L’aveva visto rimpicciolirsi, comprimersi in quelle quattro valigie che aveva già iniziato a preparare. Quell’uomo sarebbe scomparso nel tempo, ma mai definitivamente. Cosa credeva di fare… ma sì, che portasse via tutte le sue cose, che sparisse per sempre. Non avrebbe voluto vederlo mai più. Non si feriscono così le persone, non si lasciano i bambini. E poi la mamma. Forse era più brutta e più vecchia della nuova amica di papà, di quella “bionda del cazzo”… Era sempre sua madre e aveva degli occhi bellissimi, profondi. Quando pian-geva, le diventavano ancora più chiari, le venuzze di sangue brillavano nel bianco che circondava il verde ambrato dell’iride. Era vecchia la mamma? Per un periodo si era anche decisa a fare una dieta, quel ventre morbido era in parte rientrato, il se-no era sceso un po’ e il viso era diventato incredibilmente tri-ste, gli occhi stanchi.

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Luca non aveva mai capito se la madre non mangiasse per scel-ta, per l’ambizione tardiva di fare la modella o se invece qual-che dispiacere le stava togliendo l’appetito. In fondo, qualche chilo in più non le stava male, era più morbida da abbracciare e Luca lo faceva spesso, anche solo per prenderla in giro. Non si era mai separato dalla madre, il cordone ombelicale era rimasto volutamente intatto. Sempre presente, la madre era sua compagna di studi, condivideva il peso di tutti quei compiti che Luca sopportava malamente. Si dividevano anche i meriti. «Mamma, oggi abbiamo preso dieci a storia!». Era vero, Luca e la mamma la storia la studiavano insieme; mentre Luca cre-sceva, sua madre tornava bambina, a quando anche lei, in una stanzetta infreddolita, studiava i Romani e i Barbari. Quella notte non passava mai, la luce doveva restare accesa. Il buio all’esterno era inaccettabile. Nella stanza accanto c’era la mamma; anche lì la luce era accesa e da lì si sentiva un forte respiro, interrotto da toni più bassi. Anche lei non dormiva. Luca non riusciva a crederci. Avrebbe voluto tornare indietro, al giorno prima, a quando il padre era arrivato a casa proprio a cena finita. Era bello comunque poter vedere il padre, anche se per poche ore la sera. Pensava al suo amico Giorgio, anche lui era rimasto a casa solo con la madre e la sorella; il padre aveva addirittura cambiato città. Adesso che anche suo padre aveva fatto le valigie, Luca si sentiva parte del cinquanta per cento dei suoi compagni di classe che erano figli di genitori separati. Non era affatto una soddisfazione, anzi era una grande vergogna. Non lo avrebbe detto a nessuno. Non se ne sarebbero accorti, tanto il padre non

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c’era mai quando i compagni andavano a giocare a casa sua… Come era successa quella catastrofe? A volte nell’aria si era sentita la tensione come quella sera in cui la madre aveva im-provvisamente inveito contro il padre. Luca non aveva capito se la madre si fosse stancata di lavare le camicie a un uomo che, secondo lei, faceva poco per la famiglia o se il padre aves-se maldestramente lasciato segni di presenze femminili sul col-lo della camicia. Si ricordò di quella volta che la mamma aveva sbattuto a terra i piatti della cena. Aveva risparmiato di lavarli, ma poi, in lacrime, aveva dovuto raccoglierne anche i cocci. Povera mamma. Ma che testone era il padre. Aveva perso addi-rittura la borsa del lavoro sulla metropolitana, un’assurdità… come se lui fosse ritornato da scuola senza portarsi lo zaino. Qualche felpa a scuola l’aveva dimenticata e tante volte era sta-to rimproverato. Tutti gli dicevano che assomigliava al padre, gli stessi capelli, gli stessi occhi. No, non era vero. Non aveva nulla del padre. Nel tempo sarebbe cambiato. Non poteva avere nulla in comu-ne con chi faceva soffrire sua madre. Luca continuava a rigirarsi. Che peccato. Come aveva potuto fargli questo? Certo, si giocava poco insieme, solo il sabato pomeriggio con il sole, e dopo le cinque, e la domenica mattina se non ci si alzava troppo tardi. Il padre sapeva giocare a pallo-ne. La madre ci aveva provato solo una volta e pretendeva di farlo con le ciabattine da casa. Si era anche fatta male al polso al primo tiro in porta. Con la mamma la vittoria era sicura, ma la partita durava poco. Metteva tante scuse, che doveva stirare o preparare la cena, s’inventava una serie di bugie per non gio-

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care. Non ce la faceva, le veniva il fiatone. E papà l’aveva la-sciata. Non era però così male. Un giorno un vigile all’uscita della scuola le aveva fatto tante domande, guardava fisso la mamma negli occhi, sembrava volesse corteggiarla. Luca aveva sentito parlare la madre con una sua amica single, mentre rifiutava di uscire anche solo per una pizza tra amiche. Le facevano tristezza le donne che si ritrovavano in gruppo nei locali. Non sarebbe mai uscita. Luca incominciava a vedere i vantaggi di una madre solo per lui. L’avrebbe aiutata. Sì, avrebbe dovuto dirglielo. Insieme ce l’avrebbero fatta. Non c’era da disperarsi per quella fuga del padre che, andando via, aveva portato con sé l’ossessione delle regole e la rigidità dei toni. In fondo il padre si era solo preoccupato di insegnargli come stare seduto a tavola: ne faceva una questione di stile, di imma-gine, di apparenze. Tutto il tempo della cena lo passava a ri-cordargli di stare eretto con il busto. A tavola era come stare in macchina, con la mamma che per tutto il tempo del viaggio implorava il padre di rallentare. Un continuo discutere senza parlare di niente, nessun argomento serio, costruttivo, né un momento di dolcezza, né un attimo di relax. Solo un continuo esprimersi in modo divergente sulla velocità della vettura, sulla necessità di usare prudenza… Non c’era fine a quei discorsi, restava l’ostentazione da parte del padre delle proprie abilità di guida, la sua convinzione di avere una marcia in più. Era lui il maestro, in macchina come a tavola. A Luca sembravano una punizione quei gomiti serrati, quel dover infilzare con la for-chetta anche le patatine fritte. Erano più buone con le mani, il

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sale si attaccava alle punte delle dita che diventavano anch’esse saporite. «Luca, è a tavola che le persone mostrano se stesse. Se ti trovi a casa di gente estranea, con questo tuo modo di servirti con le mani, mostrerai di essere l’animale che sei». Luca non soppor-tava quando il padre sfogava il nervosismo della giornata con quelle affermazioni. E poi, quell’appellativo non lo accettava. Se tutti gli dicevano che era uguale a suo padre, allora il primo animale era proprio lui. Quante volte la madre aveva guardato il padre dritto negli occhi con rabbia, mentre Luca sentiva il peso della sua presenza e quasi godeva di un’importanza ritro-vata e generata proprio dallo scontro tra i suoi genitori. La ten-sione forse cominciava proprio da lì, a tavola. Anche la madre restava con i gomiti stretti, in silenzio, forchetta e coltello in posizione, una grande amarezza dentro. Alla mamma piaceva il pane, lo spezzava con le mani, con generosità; le piaceva usare le mani e con soddisfazione lo avvicinava pezzo dopo pezzo alle labbra. La luce della sveglia indicava le due e quaranta. Luca non era mai stato sveglio fino a quell’ora, nemmeno la notte di Capo-danno. «Bastardo, vigliacco». Che altro gli avrebbe potuto di-re? Non poteva crederci. Il padre aveva in silenzio predisposto tutto, aveva affittato un appartamento in centro con tutti i confort, come sapeva fare lui. Aveva lavato tutte e due le mac-chine; aveva fatto ordine tra le sue cose la domenica preceden-te. Si erano meravigliati tutti; mettere in ordine i cassetti quan-do si poteva andare fuori a giocare a pallone. Come aveva fatto a organizzare tutto con freddezza? Su cosa rifletteva quando

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sistemava le ultime bollette nella scatola giusta? Non pensava al fatto che avrebbe distrutto una tana in cui tutti, in un modo o nell’altro, riuscivano a trovare conforto? Il riferimento c’era sempre, c’era la stabilità che forse la madre riusciva a dare an-che solo con la presenza, a volte nervosa ma sempre costante. Luca restava sempre con gli occhi spalancati. Il padre era anda-to via. Sarebbe stata dura per lui, ma nessuno se ne era preoc-cupato. Come sarebbe diventato grande? Certo, ora gli sembra-va quasi che la madre fosse davvero troppo permissiva. Era fa-cile strapparle un sì, le punizioni venivano presto dimezzate e alcune volte dimenticate completamente. Le regole, come in molte famiglie, le poneva il padre e ora che non c’era più Luca ne avrebbe fatto a meno. E per quanto si sentisse in cuor suo risollevato, aveva in fondo paura anche di questo. Che strada avrebbe preso ora che si era liberato, suo malgrado, del suo tormentoso predicatore? Nella notte Luca aveva ancora più paura; il suo futuro aveva le sembianze di un Molliccio, la forma di un muro che improvvi-samente gli crollava addosso. Chissà come sarebbe stata la sua vita nei prossimi anni. La maestra gli aveva parlato delle brutte compagnie. Strano. Per Luca stare in compagnia non era mai “brutto”; quando si trattava di stare con i compagni, chiunque fossero, si stava bene. Perché brutta? Per quella storia della droga, di quegli amici diversi che non hanno interessi, non hanno fidanzate, non hanno madri a casa e allora decidono di drogarsi? E poi, magari, coinvolgono anche gli amici che, per curiosità o per stare al gioco, provano anche loro. No, a quella storia lì non aveva mai creduto. La storia della debolezza di chi

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iniziava a drogarsi per sbaglio, su suggerimento del compagno, non era più accettabile. Su Internet si trovavano tutti i tipi di informazioni sulle droghe, sugli effetti sul cervello, sui rischi possibili. La droga non era niente di diabolico, non era la strada verso la morte, presa senza coscienza. Forse si poteva sbaglia-re, preferire di inebetirsi piuttosto che pensare. Ma non era pos-sibile che ciò accadesse senza consapevolezza; la vita non ave-va più il senso giusto e si sceglieva un’altra strada, ma l’amico proprio non c’entrava. La droga non lo spaventava. Per il mo-mento, nonostante le paure, non avrebbe voluto cambiare dire-zione. No, stava bene con la madre.

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Capitolo II

MASSIMO E SOFIA C’era la possibilità di trascorrere qualche giorno in montagna. Massimo glielo aveva proposto con grande entusiasmo. Però non si trattava di un fine settimana, ma di un martedì e un mer-coledì in un albergo non lontano dalle piste da sci. Sofia, seb-bene solleticata dall’idea di cambiare aria, si era irrigidita per la proposta insolita. Amava Massimo come mai prima, niente in comune con quegli amori vissuti da ragazza. Lo adorava, le piaceva tutto di lui e a lui aveva dato tutta se stessa con piacere e ingenuità. Questa volta, alla richiesta di Massimo, l’orgoglio le suggeriva di non accettare. La rabbia le diceva che non era giusto andare a far compagnia a quell’uomo che il sabato e la domenica si rintanava in casa, in famiglia, stretto, chiuso tra le pareti domestiche di quella torre che egli stesso aveva blindato. Sofia non era la prima donna in parallelo con la moglie perché Massimo aveva sempre percorso due binari; gli scambi aveva-

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no cadenze temporali. Spesso le storie si chiudevano autono-mamente, le passioni si ridimensionavano, le emozioni degli incontri non erano mai tali da mettere a rischio il buon nome della famiglia. Ma dopo una breve pausa in stazione il treno ripartiva gagliar-do, con l’entusiasmo di sempre. Non bisognava danneggiare la famiglia, non bisognava togliere nulla ai figli e alla consorte: era questa l’unica regola morale a cui Massimo prestava sem-pre ossequiosa attenzione. Per il resto sapeva dare se stesso ge-nerosamente, con infinite attenzioni, telefonate senza fretta, con il pensiero costantemente rivolto alla vita dell’altra, cer-cando di riempirla a poco a poco, ma senza mai svuotare la propria. Manifestava anche momenti insoliti e ingiustificati di gelosia, momenti che avrebbero sfiorato l’assurdità se solo So-fia lo avesse almeno una volta visualizzato nel letto con la mo-glie, letto che riempiva costantemente con la sua presenza per non far dispiacere nessuno. Era un uomo di grande esperienza, sapeva far germogliare a-mori dal nulla. Il suo segreto, forse, stava proprio in quel suo mostrarsi costantemente attento e interessato alle dinamiche comportamentali delle sue compagne. Aveva intuito che il più grande piacere delle donne è sentirsi sempre capite, senza do-ver dire troppe parole. Massimo, nel tempo, si era perfezionato; usava sapientemente le parole, tutte quelle che una donna vuole sentire. Non si di-straeva mai. La faceva sentire sempre importante, sempre al centro dell’attenzione, anche se, di fatto, il baricentro era pe-santemente spostato rispetto al fulcro della sua famiglia.

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Al di là dello spessore delle donne che coinvolgeva, egli stabi-liva progetti di una durata massima di due anni; allo scadere del tempo stabilito le donne sentivano l’esigenza di un’intimità assoluta e unica, continuativa e affidabile nel tempo. Nel mo-mento in cui il cerchio iniziava a stringersi, Massimo organiz-zava la fuga, non rapida ma di convenienza, indolore, senza generare rancori. Era un artista, anche nell’uscita di scena. A volta riusciva a trovare soluzioni vantaggiose al punto di dive-nire vittima dell’abbandono. Non si sa se anche lui soffrisse per l’allontanamento dalla donna a cui si era legato generosamente per due anni, a cui comunque aveva dato una parte intima di sé. Tuttavia, forse, la regola della salute familiare “prima di tutto” dava ragione e conforto a ogni forma di rimpianto. Non era mai perdente perché anche la chiusura generava emozioni, quelle su cui aveva costruito il senso della propria esistenza. Quando Massimo iniziò a emozionarsi con Sofia, era da poco uscito da una storia il cui finale aveva subito qualche variazio-ne non prevista dal copione. Nell’ultimo biennio aveva scelto una donna coniugata e con prole, soggetto che potenzialmente non espone a rischi la famiglia. Qualche mese prima dello sca-dere del biennio, lei era rimasta incinta, con molte probabilità del marito. Sebbene la storia fosse ormai alle battute finali, il fatto che lei avesse provveduto, autonomamente e in anticipo, allo scambio del binario aveva generato in lui una ferita pro-fonda, rimarginabile forse con una storia nuova, in parallelo con la chiusura indolore. Si era imbattuto in Sofia, non particolarmente carina ma giova-ne, impegnata sul lavoro e, purtroppo, ancora nubile.

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Nello scontro anche Sofia lo aveva notato; un bell’uomo, senza fede al dito, capelli ondulati, leggermente più lunghi della me-dia e con qualche filo argentato nella chioma bruna, una voce calda. Al telefono e poi anche da vicino. Una variazione di stanze sul piano dell’ufficio li aveva portati vicini, una porta di fronte all’altra, entrambe sempre aperte. Sofia lo aveva iniziato a studiare con attenzione, ascoltava le sue conversazioni telefo-niche, misurava le parole e i tempi. Lo aveva sentito anche al-terarsi, ma sempre con moderazione. Le piaceva, tanto. Vicini di stanza, iniziarono anche la collaborazione e allora la sua voce divenne ancora più calda. Poi una volta le disse: «Collega, abbiamo parlato già tanto al telefono. Spostiamoci alla macchinetta del caffè se vogliamo continuare…». Vogliamo continuare… cosa? Il lavoro, la conversazione, il piacere di stare insieme. Qualsiasi cosa andava bene. Sofia riagganciava il telefono e provava a riflettere su ciò che aveva sentito; mentre si rassicurava di aver inteso bene, Mas-simo era già appoggiato alla porta del suo ufficio, con un viso innocente, tenero. Lei si alzò dalla scrivania e notò lo sguardo. Si accorse che i suoi occhi erano fermi sulla sua camicia, altezza seno, in quella sfasatura del tessuto che si irrigidisce e lascia una piccola fen-ditura aperta. Provò con disinvoltura a girarsi, come per clicca-re un’ultima cosa al computer. Anche i pantaloni erano attillati. Forse Massimo li aveva già notati ed era stato spinto a chia-marla ogni giorno alle tre per il caffè alla macchinetta. Dopo i primi incontri, iniziò lo studio caratteriale vero e pro-prio. Sofia e Massimo lavoravano insieme, il che rendeva pos-

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sibile l’osservazione tra soggetti anche nel loro relazionarsi con gli altri, in espressioni probabilmente più veritiere e spontanee di quelle che si generavano quando erano da soli. Un giorno Sofia lo aveva sentito discutere a lungo al telefono su questioni di lavoro. Non l’aveva chiamata. Erano le quattro e ancora non si sentiva il profumo di caffè. Aspettava, con la continua tentazione di chiamarlo. Alle cinque e un quarto Mas-simo si affacciò alla porta del suo ufficio; i capelli erano un po’ arruffati, la barba sembrava fosse cresciuta all’improvviso nel corso del pomeriggio e dell’attesa. ‹‹Oggi niente caffè. Hai sonno? Sei stanca?» le disse, come se il suo unico pensiero fosse lo stato fisico ed emozionale di So-fia. E lei, già in subbuglio: «No, no. Sono stata presa dal perfezio-namento di un contratto e non ho guardato l’ora». «Potremmo prendere un caffè ora. Ma fuori da queste mura, ti prego. Passo solo un attimo da un collega e ti aspetto tra un quarto d’ora all’uscita». Il tono non lasciava pause di riflessio-ne. Non le aveva fatto domande e quindi non aveva aspettato alcu-na risposta. Intanto, Sofia aveva già spento il computer e preso il cappotto. Doveva passare prima dai bagni. Si lavò a lungo le mani, pen-sierosa. Aveva già un appuntamento con Alessandra, non pote-va trattenersi con Massimo, avrebbe dovuto dirglielo. Intanto, però, prendeva da un astuccio rosso un matitone lucente per gli occhi, poi estraeva un pennellone per il fard e con insistenza lo passava sugli zigomi. Pensava ad altro. Ingoiò anche una men-

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tina prima di lucidarsi le labbra. Guardò l’orologio, emoziona-ta, e si affrettò. All’uscita, con lo stesso tono dell’invito, Massimo le disse di lasciare la macchina al parcheggio; sarebbero andati con la sua moto fino al bar della Casina. Alessandra era stata dimenticata.

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Capitolo III

LA MADRE DELL’EST Ogni sera la madre rimetteva le pentole a posto e Luca era sempre lì a osservarla. La madre faceva tutto come se il marito non fosse ancora andato via, come se dovesse rientrare prima o poi, anche tardi come sempre. Ogni sera lo stesso rituale, come quando lui rientrava affranto dal lavoro. Spesso il padre rincasava tardi; era nella normalità stare così tanto tempo lontano da loro. Aveva iniziato a fare sempre più tardi ed era sempre più stanco, ma non ne sembrava cosciente, tantomeno del vuoto che stava generando. Aveva creato un mondo suo in cui si rifugiava e si consolava, una dimensione che non aveva nulla in comune con la realtà, quella in cui a-vrebbe dovuto essere marito e padre davvero. Si trovava me-glio nel ruolo adolescenziale che si era ritagliato e modellato su quella figura cresciuta principalmente in altezza. Non si era re-so conto che era tardi anche per ricostruirsi una vita, una nuova

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e più bella, che non era possibile annullare tutto, solo perché ciò che aveva costruito con la madre e Luca ora non gli piaceva più. Nel suo futuro era tutto fattibile, quasi più facile. Invece, per Luca, il futuro era inimmaginabile senza di lui. Ma questo il padre non riusciva a capirlo. Ormai la madre era presa solo dall’ordine, rimetteva a posto una casa intera, la cucina, le pentole, i libri, le sue carte, in mo-do ossessivo. Cercava di non chiedersi che senso avesse fare ordine intorno quando la vita era in pieno subbuglio. In fondo, i ritmi non erano cambiati, eppure la tristezza domi-nava ovunque. Luca continuava ad andare a scuola e a dividere i compiti con la madre; anche la madre continuava ad andare a scuola e rientrava sempre prima delle due, in tempo per il turno pomeridiano in casa. All’apparenza non era cambiato nulla, ec-cetto una pesante sensazione di fissità malinconica. Uno stato di silenziosa bonaccia. Le azioni si ripetevano meccanicamen-te. Il tempo si era fermato, mancava la fluidità della speranza, non c’era più la dimensione delle aspettative. Nel passato le at-tese erano state lunghe, non solo nei rientri serali; ora si aspet-tava comunque, confusi, come ci fosse una remota possibilità che il padre, in qualche modo, in un vago bagliore di lucidità, potesse fare inversione di rotta. Era forte però il rammarico per quell’immagine del padre che ormai si era rimpicciolita fino a scomparire in quelle valigie portate via in fretta, nella furia del-la follia, nella volontà di cogliere l’attimo. Non esisteva mai un momento giusto per andare via dalla fa-miglia; o si faceva in preda allo stordimento dell’assurdo o non si sarebbero mai trovate le parole e le forze per raccogliere una

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parte di sé e portarla via. D’altronde quella parte non era mar-ginale, era un buon pezzo di muro che, ai primi mattoni rimos-si, avrebbe ceduto immediatamente. Anzi quel muro era crolla-to tutto e Luca era fermo a osservarne i resti. L’immobilità sconcertante era fissa sul tratto delle labbra della madre. Sempre meno parole, nessun sorriso. Però lei c’era sem-pre, decisa a mantenere la sua posizione come in trincea. Il padre era stato scorretto, Luca lo sapeva. Lo aveva lasciato solo. Ma si cresceva anche senza padre. Allo zio Sandro il padre era morto quando era ancora piccolo ed era stato tirato su dalla madre. Ciononostante, lo zio era stato bravissimo a scuola e anche alla facoltà di ingegneria. Ora aveva dei figli, si era spo-sato con una moglie carina. Aveva anche una gran bella mac-china. Appariva sereno, a volte allegro, forse aveva addirittura dimenticato come si sta con il padre affianco. Luca ogni volta faceva un elenco mentale di tutti i suoi coeta-nei senza padre. Li visualizzava uno a uno. Era un buon nume-ro, apparentemente confortante. Peggio sarebbe stata l’ipotesi di un surrogato del padre, mai a-vrebbe accettato un compagno per la madre. Ma in fondo quel-la donna che gli resisteva a fianco, con quell’espressione ma-linconica stampata sul viso, difficilmente avrebbe attirato alcun essere vivente con un minimo di voglia di vivere. Un po’ gli dispiaceva vederla così. Si era messo a studiare con più impe-gno perché sapeva che solo la scuola e gli eventuali successi che potevano venire da lì avevano un senso e potevano risve-gliare il torpore della madre. Era questione di tempo. Presto la

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donna si sarebbe ripresa e sarebbe ritornata quella di sempre. Ce l’avrebbero fatta insieme. Anche meglio, senza tutte quelle regole di bon ton, senza stress a tavola, senza le punizioni dell’ultima ora. La mamma era più flessibile, riusciva ad alter-nare una punizione a un complimento: in un bilancio settima-nale i sì erano nettamente superiori ai no. Ultimamente la paura di perdere il controllo della situazione l’aveva irrigidita nella posizione e sembrava meno incline al perdono immediato. A-veva sempre creduto che bastassero poche regole, anche due: il rispetto per gli altri e l’impegno personale. Luca le contava, e-rano solo due ma, appena faceva di testa sua, le aveva già vio-late entrambe. Bastava che non rispettasse gli orari o si lascias-se prendere un po’ troppo dalla Play Station e automaticamente era già fuori dalle regole. La madre era buona con lui, anche troppo. La si convinceva con qualche promessa provvisoria. Le si leggeva in faccia che avrebbe ceduto. E se fosse cambiata anche la madre? Improvvisamente Luca si era immaginato la madre di Stefano, quella che veniva fuori scuola con la minigonna e i tacchi alti. Accendeva la sigaretta proprio al suono della campana; chissà se era nervosa perché doveva riprendersi il figlio da scuola mentre desiderava essere altrove, come il suo abbigliamento lasciava supporre, o se in-vece voleva darsi un tono approfittando della platea dei pochi padri presenti nel cortile della scuola. Aveva belle gambe, Luca le aveva notate. Ma metteva troppo rossetto e quegli occhi così neri a volte gli facevano paura. La madre di Stefano si era sepa-rata dal marito molti anni prima, il padre non lo si vedeva quasi

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mai. Stefano aveva una sorella un po’ più grande che assomi-gliava sempre di più alla madre, con gli stessi capelli lunghi, gli stessi jeans infilati negli stivali neri. Anche l’espressione del volto era la stessa, sempre imbronciata, sempre seccata ogni volta in cui uno degli amici del fratello più piccolo si rivolge-vano a lei, ormai liceale da qualche mese e già pronta all’autogestione sentimentale. Una copia in erba della madre e, forse come lei, già arrabbiata con la vita. A Luca sua madre piaceva. Non si notava nel gruppo, ma da vicino non era male. Si ricordava di quando l’aveva vista sorri-dere. Meravigliosa, rassicurante, faceva venir voglia di sorride-re. Ora, invece, aveva assunto i toni delle donne dell’Est, di-messe ma piene di orgoglio. Legava i capelli stringendoli forte in una coda; tirandoli tutti stretti con un elastico nero, riusciva a evidenziare gli zigomi alti e la fronte spaziosa. Forse il fisico non era un granché, ma la mamma di Luca la minigonna non la immaginava neppure e tutto sommato i colori scuri dei pullover riuscivano a nascondere i chili in più dell’età e della solitudine. Quando aveva le riunioni importanti a scuola, riusciva anche a sembrare più magra - il tailleur grigio e i tacchi alti le stavano bene- e poi portava sempre un foulard colorato che le ravviva-va il volto. In quelle occasioni di lavoro si truccava addirittura e le occhiaie si attenuavano, gli occhi si illuminavano, le guan-ce arrossate dal fard le conferivano un aspetto salutare. L’effetto finale era quasi gradevole. Peccato che il padre l’avesse lasciata. Facevano una bella figu-ra insieme. La severità estetica della madre dava serietà anche a quei movimenti un po’ da bambinone del padre. Luca voleva

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bene al padre, troppo - pensava. Ma non sopportava più quella sfida continua che lui gli lanciava ogni volta che era in casa; nessuno sembrava più capace di fare nulla, anche se di fatto tutto avveniva e si svolgeva senza la minima partecipazione né consapevolezza da parte sua. Perché il padre rimproverava la madre se Luca aveva stabilito un legame morboso con la Play station? Tutta colpa della madre se dopo i compiti Luca, alle sette di sera, si connetteva con il suo mondo virtuale di pugili e combattenti e restava appiccicato allo schermo. Era poi una fa-tica portarlo via di lì per la cena. La madre lo rimproverava e ogni punizione finiva sempre per colpire il tempo di gioco con la Play. Nei casi di colpa seria ogni videogioco doveva restare inattivo per un mese; di fatto la punizione durava solo le prime due settimane. La buona condotta abbassava i termini della pe-na e Luca rinfilava la testa nello schermo. Era facile tornare a casa e dire: «Luca, ma perché invece non leggi un buon libro? Perché non vai a fare una passeggiata con gli amici?». Per Luca i libri di scuola erano già troppi; personalmente non avrebbe trovato nessuna emozione nel maghetto orfano accom-pagnato da amici un po’ strani, non era appassionato di fanta-scienza, non amava niente se non l’eccitazione che gli veniva dal combattimento virtuale. Alcune volte rendeva il gioco inte-rattivo, nel senso che insultava i suoi nemici o lanciava parole di dolore per un colpo subito. Uscire poi non era proprio possibile. I suoi pochi amici erano esattamente come lui, amanti del pallone e dei videogiochi. Non era piacevole per loro passeggiare in gruppo, perché senti-

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vano solo l’umiliazione delle compagne di classe che, con bor-setta e lucidalabbra, si mettevano in mostra per i ragazzi più grandi, dalla terza media in su. Bisognava aspettare un paio d’anni per pensare di poter fare una passeggiata rilassante. L’isola pedonale gli faceva venir voglia di giocare, di correre senza il pericolo delle macchine. Se non fosse stato per quel nugolo di vecchietti accanto alla fontanella e per quelli a cui i cani imponevano la passeggiata serale, avrebbe potuto organiz-zare una partita di calcetto a cinque, proprio lì in quella piaz-zetta in cui le ragazzine si innamoravano. Innamorarsi non aveva senso. Era una magia che si esauriva la-sciando almeno un perdente, se non addirittura due. Anche il padre e la madre erano stati innamorati, almeno da come rac-contava la madre. Diceva che il padre la faceva sentire una principessa, con mille attenzioni, non perdeva mai una ricor-renza per farle sentire che c’era sempre lui accanto. Poi, nel tempo, era sparito l’amore e con lui anche il padre. Chissà se la madre era ancora innamorata o se invece aveva solo paura di rimettere in gioco i sentimenti, di potersi eventualmente inna-morare di nuovo, magari di un’altra persona sbagliata. Eppure, nonostante le delusioni che ognuno immancabilmente aveva vissuto, gli sembrava che l’amore fosse per tutti una necessità della vita. Il tempo non ne affievoliva l’urgenza; bisognava sentirsi sempre nel cuore dell’altro; a ogni età ci si rammarica-va di non essere più importanti per chi era stato scelto quale compagno di vita o ci si intristiva in assenza di batticuore. An-che la nonna di Luca, nonostante il tempo, l’età e le esperienze di vita, continuava a ricordare i tempi in cui il nonno pensava

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solo a lei, le inviava cartoline d’amore e non aveva occhi che per lei. Non riusciva ad accettare che ora il nonno gli occhi li avesse fissi sulla televisione, nuova costante compagnia di una vita trascorsa più sulla poltrona che sulle proprie gambe. Anche i nonni litigavano, ma non si erano mai separati, forse perché erano nati agli inizi del secolo precedente, troppo presto per immaginare i vantaggi di chi voleva vivere una o più vita e cre-are altrettante famiglie. Dopo momenti di burrasca e mezze giornate di quarantene e ripicche, si ritrovavano magari al mo-mento del caffè preparato dal più debole. Ritrovavano l’amore solo nei momenti di difficoltà dovuti al malessere fisico dell’uno o dell’altro; nella malattia riscoprivano l’inutilità del discutere e la necessità di soccorrersi reciprocamente, come a-vevano giurato quarant’anni prima in una solenne promessa d’amore. Oggi quella promessa non valeva più tanto e, soprat-tutto, non per sempre; faceva parte di una formalità rituale che non consentiva di riflettere troppo sul peso delle parole del giu-ramento. Amarsi e onorarsi, entrambe promesse difficili da mantenere in salute e in gioventù, figuriamoci con qualche fi-glio a carico e tanto stress da smaltire. Un giuramento d’altri tempi, quando donne remissive riuscivano a porsi a servizio completo del marito e dei figli che Dio avrebbe voluto per quella famiglia. Adesso le donne volevano stare a mezzoservi-zio, avere una propria indipendenza sociale ed economica, no-nostante la dipendenza psicologica. Non si poteva dire sempre sì, visto che ora anche la propria giornata di lavoro fuori casa aveva lo stesso carico emotivo e fisico del consorte. Non si po-tevano accettare insulti o tradimenti, visto che all’apparenza e-

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sisteva una dignità maggiorata. Eppure, davanti alle difficoltà di un rapporto in bilico, non si riusciva a dire no con fermezza e decisione perché nella famiglia costruita con amore e difficol-tà, tra sogni e rinunce, c’erano i figli per i quali ogni incidente nel percorso evolutivo familiare era un colpo di scure. Fine anteprima.Continua...Disponibile anche in ebook a 4,99 euro da marzo-aprile 2014