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Il vuoto Da spazio di risulta ad elemento di progetto Paolo Catrambone Prof. Fulvio Irace Accademia di Architettura di Mendrisio . Gennaio 2016

Il vuoto, da spazio di risulta a elemento di progetto

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Il vuoto

Da spazio di risulta ad elemento di progetto

Paolo Catrambone

Prof. Fulvio Irace

Accademia di Architettura di Mendrisio . Gennaio 2016

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INDICE

6 . Introduzione

9. I vuoti della città

17. RICOSTRUIRE UN PENSIERO DI CITTA’

18. Nigel Henderson, i bambini di Chineshale Road

21. Allison e Peter Smithson, la strada come luogo di incontro

27. The Economist building a Londra, progettare un vuoto nel costruito

33. Aldo Van Eyck, i playground di Amsterdam

39. Gordon Cullen, Townscape

45. RICOSTRUIRE LA CITTA’ DALL’INTERNO

49. Gabriele Basilico, la permanenza della città

55. Alvaro Siza, la ricostruzione del Chiado di Lisbona

67. David Chipperfield, il progetto di JoachimStrasse a Berlino

73. Renzo Piano, il progetto di St. Giles a Londra

77. CONCLUSIONI

82. TRE POSSIBILI PRINCIPI PROGETTUALI

86. BIBLIOGRAFIA

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INTRODUZIONE

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Questo lavoro di approfondimento indaga un tema la cui riconoscibilità sfugge spesso alla nostra

completa comprensione: il vuoto.

Intorno a questo argomento sono molti gli affascinanti aspetti di riflessione che possono raccontare

il vuoto secondo diversi angoli di lettura.

Possiamo infatti partire dalla sua configurazione fisica, intendendolo come spazio di sottrazione,

come elemento conquistato per offrire spazi alla vita dell’uomo, oppure lo si può considerare come

mezzo di trasmissione di significati, pensando agli esempi delle culture orientali o a grandi spazi

architettonici come il Pantheon di Roma, che attraverso il suo immenso vuoto ambiva ad essere

rappresentazione costruita dell’universo. Il vuoto però può anche assumere significati personali se

inteso come mancanza, come assenza e allo stesso tempo come luogo in attesa del futuro e quindi

portatore di promesse e di fiducia.

Questi tre ampi ordini di classificazione sono quelli secondo cui il professor Fernando Espuelas

organizza il suo interessante testo intitolato “Il Vuoto, riflessioni sullo spazio in architettura”, che si

pone l’obiettivo di fornire una sorta di palinsesto sul quale sovrapporre le diverse qualità di questo

tema, non tanto nel tentativo di offrire delle risposte definitive ma bensì provando a interpretare la

densità di significati e qualità che questa dimensione può raccogliere.1

Il vuoto è direttamente collegato alla dimensione del pieno con il quale è chiamato ad instaurare un

sistema di relazioni in grado di esprimere il senso dell’opera costruita. Gli aspetti affascinanti legati

a questo tema sono molteplici ma queste pagine provano a concentrarsi sulla dimensione urbana del

vuoto, sullo spazio pubblico, sui vuoti della città. All’interno di questo ambito il vuoto mantiene la

sua dimensione spaziale ma si fa diversificato, aperto e collettivo. Si tratta appunto di un vuoto

urbano nel quale trovano la propria rappresentazione la memoria della città e il trascorrere

quotidiano della vita umana. Piet Mondrian sintetizza splendidamente questa dimensione nella sua

opera intitolata Broadway Boogie-Woogie, in cui attraverso un interessante processo di

scomposizione il pittore figura la simultaneità degli eventi e il ritmo di una città, rappresentandone

solo l’intreccio di vie e piazze. Scegliere di affrontare il vuoto nei sistemi urbani significa anche

riflettere sulla realtà presente e sullo sviluppo delle nostre città. La matrice dei vuoti ci permette di

leggere con chiarezza l’impianto delle città antiche fino all’epoca ottocentesca e di percepire in

molti casi la topografia e il territorio che le supportano e ne definiscono le direttrici. Il concetto di

vuoto si intreccia qui con quelli di densità e di soglia: il primo distingue chiaramente l’ambito

urbano da quello rurale mentre il secondo segna il passaggio dall’ambito privato a quello pubblico.

Questa dimensione nel suo insieme definisce la realtà di una città e al tempo stesso conferisce ai

vuoti il ruolo di protagonisti della vita pubblica, della percezione della città e della sua memoria.

1 Cfr. Fernando Espuelas. Il vuoto riflessioni sullo spazio in architettura, edizioni marinotti 2004, Milano

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Fig.1 Piet Mondrian, Broadway Boogie Woogie, tratto dal libro “Mondrian, Piet”

I nostri giorni hanno invece conosciuto lo sviluppo di una nuova dimensione urbana associata alla

definizione di città diffusa, dove lo sviluppo di singole abitazioni puntuali e degli spostamenti

veicolari ha generato un mondo in cui spesso non è più chiaro se ci si trovi in una città o nelle sue

campagne e in cui la qualità dei vuoti non appartiene più alla sensibilità della pianificazione

preferita al suo quasi totale rifiuto concretizzato nello riempimento dello spazio senza controllo.

Il vuoto nel mondo dell’architettura può rivestire un ruolo molto importante e il recupero della sua

comprensione, come vedremo attraverso diversi esempi, può definirsi come elemento basilare per

una nuova cultura progettuale e pianificatoria.

“E’ curioso come tutti noi architetti fotografiamo l’architettura senza persone, sapendo che è nata

per essere usata dalle persone, ed è perché l’architettura permane, le persone cambiano.

L’architettura mette in relazione cose e persone.

Nella buona architettura vediamo, quando è vuota, sia persone che cose che, pur non essendoci,

sono presenti. Il fatto che non ci siano è perché si rinuncia alla loro presenza, e la buona architettura

è piena di buone rinunce”.2

In queste parole di Alejandro De La Sota comprendiamo con un’immagine chiara la reciproca

importanza che intercorre tra il vuoto e lo spazio costruito e lungo le pagine di questo lavoro

proveremo ad andare più a fondo, rifiutando uno sguardo nostalgico a modelli passati, ma provando

a comprendere l’importanza di un tema attraverso cui rileggere il futuro delle nostre città.

2 Alejandro De la Sota, testo di introduzione all’articolo: “1929/1986. Reconstrucion del Pabellon de Barcelona” , in Arquitectura, n.261

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I VUOTI DELLA CITTA’

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Le città sono i momenti di incontro, o solo il momento del desiderio di incontrarsi, materializzati

sotto forma di muri, strade, case, luci, piazze, sale, stanze, fiere, teatri, fonti, bagni, terme (…)

Le città sono fatte del tempo dell’incontro e del tempo che lo precede.3

Se le cittá sono i momenti dell’incontro con il tempo, con la memoria e con le persone diventa

interessante analizzarle a partire dal luogo fisico dove ciò avviene, ovvero lo spazio pubblico: la

matrice dei vuoti di una città.

Il vuoto delle cittá é lo spazio condiviso, quello dove la vita scorre ogni giorno, dove le persone si

esprimono e dove l’architettura ha la possibilità di radicare il proprio significato.

Siamo abituati a pensare le città a partire dai suoi edifici e a immaginare la forma urbana a partire

dai pieni. Ribaltare questa visione provando a comprendere cosa significhi guardare un paesaggio

urbano studiando la forma e il significato degli spazi compresi tra le architetture può permetterci di

ampliare il nostro sguardo portandoci a considerare i vuoti con la medesima importanza che diamo

ai pieni. Parlare di questo tema in un periodo storico come il nostro apre collegamenti ad altre

epoche e ci da la possibilità di portare la nostra attenzione all’importanza delle cose minime, del

silenzio e delle relazioni. Lo sviluppo sfrenato delle nostre città oggi non è più sostenibile né dal

punto di vista sociale né da quello economico: le città devono iniziare a rigenerarsi dall’interno.

Pensare ai vuoti, come ad uno spazio che necessita di un pensiero progettuale può essere uno dei

temi più decisivi per la futura qualità dello spazio di vita delle nostre città.

“L’architettura esprime la sua importanza se in grado di costruire una città viva, porosa, relazionale,

inclusiva, identitaria, partecipativa e creativa. Noi come architetti costruiamo i contenitori di questa

vita affinché le persone possano poter amare e appropriarsi dei loro luoghi”.4

3 Joao Nunes, La memoria delle città, in PROAP, Architettura del Paesaggio, Note editorial, Lisbona,2010, p.48 4 Goncalo Byrne, Urbanidades, Madrid Conde de fenosa Fund. Pedro Bairre de la Maza 2009, p. 8

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Il sistema di vuoti non è solo il luogo della vita di una città ma è anche lo spazio in cui entrano in

relazione temporalità e stratificazioni differenti che noi possiamo percepire attraverso le vie, i cortili

o le piazze. Sono questi spazi tra gli edifici a raccontarci la storia di un luogo e a comunicarci con

immediatezza la gerarchia di una determinata area urbana. I vuoti di una città non sempre hanno

assunto importanza attraverso una pianificazione definita ma spesso è stato il trascorrere il tempo a

definirne la conformazione spaziale. Atene è in questo caso un esempio molto particolare di questo

processo. La famosa agorà non venne mai progettata, bensì assunse il proprio significato attraverso

l’appropriazione da parte dei cittadini di quella grande area ai piedi dell’Acropoli. Gli edifici

vennero dopo e furono costruiti intorno a questo spazio che venne lasciato volutamente libero

accrescendo da un lato l’importanza degli edifici governativi che lì vennero eretti e dall’altro la

forza della piazza stessa che divenne il vuoto simbolo dell’identità democratica e relazionale

dell’antica civiltà attica. L’importanza che quello spazio non costruito rappresentò per la storia di

quella civiltà venne reso ancora piu forte dalla successiva conquista di Atene da parte dei Romani,

che scelsero simbolicamente di costruire il tempio dedicato ad Ares al centro del vuoto dell’Agorà.

Una demolizione costruendo un tempio: il cuore della grandezza della civiltà greca risiedeva in quel

grande spazio pubblico che i romani scelsero di cancellare sostituendo il costruito al vuoto.5

“I Romani con i loro mirabili edifici fecero un regalo avvelenato: era scomparso lo spazio ampio,

libero ed unitário, emblema di una singolare forma di convivenza. La grande spianata dell’Agorá, il

suo civico e sacro vuoto centrale, fu come il mare invisibile dello spirito attico che con il trascorrere

del tempo depositó i suoi sedimenti urbani: edifici, scalinate altari. L’impero romano si impiegó nel

riempimento di quel vuoto cívico, prosciugando il mare della libertá ateniese.”6

Se Atene rappresentò un caso di crescita urbana pianificata a partire dagli usi di vita dei suoi

cittadini, Mileto costituì invece il primo caso di città realmente pianificata, nella quale anche i vuoti

furono pensati a partire dal primo momento: la città era pensata come un tutto, nel quale lo spazio

urbano dovesse cessare di essere un semplice residuo tra il costruito, diventando ora un’entità a se

stante, misurata e disegnata per ospitare la vita pubblica della città.7 Atene e Mileto costituiscono

due momenti molto diversi fra loro che peró portano a rendersi conto dell’importanza che gli spazi

pubblici ricoprono nella lettura di una cittá e dei suoi edifici. L’architettura del passato ,a cui ci

siamo riferiti, fu sempre pensata per durare attraverso il tempo mentre noi oggi ci scontriamo con

una cultura architettonica autoreferenziale, volta a stupire e a generare immagini che prescindono

dalla realtá cittadina in cui si inseriscono.

5 Cfr. Fernando Espuelas. Il vuoto riflessioni sullo spazio in architettura, edizioni marinotti 2004, Milano 6 Fernando Espuelas. Il vuoto riflessioni sullo spazio in architettura, edizioni marinotti 2004, Milano, pp 54-55 7 Cfr. Fernando Espuelas. Il vuoto riflessioni sullo spazio in architettura, edizioni marinotti 2004, Milano

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Fig.2 L’agorà di Atene, tratta dal libro “Fernando Espuelas, il vuoto”

Fig.3 L’agorà di Atene ai tempi dell’occupazione romana, tratta dal libro “Fernando Espuelas, il vuoto”

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La nostra contemporaneitá, che tende all’omologazione, alla velocitá e a una pioggia costante di

immagini, si é diretta verso un edificato che esprime la stessa confusione. La gran parte delle

immagini che ci circondano svaniscono dopo pochi istanti, sono come dei sogni che non lasciano

traccia nella memoria, cosi come un’architettura incapace di pensare al vuoto che la circonda non

lascerá traccia nella memoria della cittá.

La metafora dei sogni é quella usata da Italo Calvino nella sua lezione sull’Esattezza in cui

troviamo anche un riflessione sulla cittá. La cittá secondo Calvino è il simbolo piu articolato capace

di comunicare la tensione tra la razionalitá geometrica e il groviglio delle esistenze umane.

Possiamo allora ritrovarci nei panni del Kublai Khan che, riprendendo le parole di Calvino,

“riduce la conoscenza del suo impero alla combinatória dei pezzi di scacchi di una scacchiera,

scomponendo le cittá raccontate da Marco Polo in altre disposizioni di torri, alfieri e re sui quadrati

bianchi e neri di una scacchiera”.8

L’operazione a cui peró arriva il gran Khan é la presa di coscienza che le sue vere conquiste non

sono altro che il tassello di legno su cui ciascun pezzo si posa:

“Il Gran Khan cercava di immedesimarsi nel gioco: ma adesso era il perché del gioco a sfuggirgli.

Il fine d’ogni partita é una vincita o una perdita: ma di cosa? Qual’era la vera posta?

Allo scacco matto, sotto il piede del re sbalzato via dalla mano del vincitore, resta il nulla:

un quadrato nero o bianco. A forza di scorporare le sue conquiste per ridurle all’essenza, Kublai era

arrivato all’operazione estrema: la conquista definitiva, di cui i multiformi tesori dell’impero non

erano che involucri illusori, si riduceva a un tassello di legno piallato. Allora Marco Polo parló: La

tua scacchiera, sire, é un intarsio di due legni; ébano e acero. Il tassello sul quale si fissa il tuo

sguardo illuminato fu tagliato in uno strato del tronco che crebbe in un anno di siccitá: vedi come si

dispongono le fibre? Qui si scorge un nodo appena accennato: una gemma tentó di spuntare in un

giorno di primavera precoce ma la brina della notte lo obbligó a desistere. Il Gran Khan non si era

fino ad allora reso conto che lo straniero sapesse esprimersi fluentemente nella sua língua, ma non

era questo a stupirlo. Ecco un poro piú grosso: forse é stato il nido di una larva; non d’un tarlo,

perche appena nato avrebbe continuato a scavare, ma d’un bruco che rosicchió le foglie e fu la

causa per cui l’albero fu scelto per essere abbattuto… Questo margine fu inciso dall’ebanista con la

sgorbia perche aderisse al quadrato piu vicino, piu sporgente.. La quantitá di cose che si potevano

leggere in un pezzo di legno liscio e vuoto sommergeva Kublai Khan, i fiumi, gli approdi, le donne

alle finestre…”9

8 Italo Calvino, Lezioni Americane, sei proposte per il prossimo millennio, Mondadori, 2002, Milano, pp 80 9 Ibidem, pp 81-82

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Fig.4 Rappresentazione della città Invisibile di Ersilia presso Berlino, tratta dal sito “www.unurth.com”

Ritroviamo un vuoto nell’immaginazione del Khan: quello lasciato dal Re caduto, quello rimasto

sulla scacchiera, la vera conquista capace di superare quei tesori che altro non rappresentano se non

involucri illusori.

Il vuoto di cui il Khan si rende conto é un luogo colmo di cose da leggere, uno spazio

apparentemente scontato portatore peró di una forza, di una storia e di una bellezza capace di essere

il senso ultimo di ogni palazzo conquistato. Marco Polo in questo caso altro non é che il cantore di

quel tassello, delle sue stratificazioni e delle sua energia nascosta sotto l’immagine delle

pedine.Oggi siamo abituati a a dar per scontato lo spazio della vita pubblica, mentre Kublai Khan ci

dimostra come scomponendo ogni cittá, se ne ritrova la sostanza ultima, il tassello su cui tutto si

regge, che nelle nostre cittá concrete è costituito dallo spazio pubblico.

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RICOSTRUIRE UN’IDEA DI CITTA’

Una nuova linea di pensiero tra Regno Unito e Olanda negli anni ‘50

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NIGEL HENDERSON

I bambini di Chineshole Road

Nigel Henderson nacque a Londra nel 1917, fu tra i fondatori dell’Indipendent Group e strinse

legami con molti architetti della sua epoca che vennero colpiti dalle sue immagini.

Alla fine degli anni ’40, Henderson inizió a scattare una serie di fotografie che ritraevano anonimi

bambini della periferia londinese intenti a giocare lungo Chineshale Road.

Henderson era un artista molteplice, in grado con una serie di immagini scattate dalla sua finestra,

di esprimere e raccontare la vitalitá potenziale di uno spazio collettivo libero ed informale come una

strada. Il paesaggio urbano diventa uno spazio di cui le persone si appropriano, un vuoto dove i

bambini si ritrovano e giocano con mezzi semplici come una griglia disegnata sull’asfalto.

Le fotografie di Chineshale Road testimoniano la necessitá di un’architettura piú attenta alla

spontaneitá della vita che alla razionalitá delle regole.10

Il lavoro di Henderson permette di vedere meglio e di percepire come nell’Europa postbellica si

avvertisse la necessitá di pensare agli ambienti della vita collettiva concentrandosi anche sulla

piccola scala comprendendone l’importanza.

Rispetto ad un movimento moderno che non fu in grado di determinare uno spazio pubblico dal

punto di vista del suo proprio disegno specifico, una generazione di professionisti contemporanei

tra cui A&P Smithson e Aldo Van Eyck cercó di superare l’inadeguatezza dei propri strumenti

progettuali ricorrendo anche alle influenze di altre espressioni artistiche, come la fotografia, che con

piu sottigliezza si stavano concentrando sulla rinnovata necessità sociale delle nascenti metropoli.

10 Cfr. Fulvio Irace, Learning from the street, Politecnico di Milano, 2007

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Fig.5, 6, 7, 8 Fotografie di Nigel Henderson presso Chineshole Road, tratte dl sito “www.tate.org.uk”

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ALLISON & PETER SMITHSON

La strada come luogo di incontro

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Due figure centrali e innovative nel pensiero urbano di questo periodo sono gli architetti inglesi

Allison e Peter Smithson. La figura di Nigel Henderson e delle sue fotografie fu in questo senso

fondamentale per la coppia di architetti, che proprio attraverso quelle immagini presentarono per la

prima volta la loro visione delle necessità urbane. Durante il IX CIAM Le Corbusier aveva ormai

adottato un sistema di presentazione dei singoli gruppi basato su una cosidetta Grille. Tale griglia si

basava sul concetto di zonizzazione e mirava a smontare e dividere le varie funzioni urbane per

analizzarle singolarmente. Gli Smithson svuotarono il sistema courbusiano e inserirono all’interno

della loro griglia alcune delle fotografie di Henderson, chiamate a descrivere i sistemi di relazione

urbana difesi dai due architetti.

La luce, l’aria e la trasparenza dei nuovi modelli del movimento Moderno venivano contrapposti

alla miseria delle condizioni di vita tradizionali e presentate come temi basilari nella progettazione

delle nuove realtá urbane. Il razionalismo vestiva in quel momento il ruolo di unica medicina in

grado di curare le cittá, di ridare ordine e armonia. Allison e Peter Smitshon esprimono invece

un’idea completamente diversa, nella quale il gioco dei bambini vuole mostrare l’importanza di una

cultura urbana che pensi il progetto legandosi alla vita di chi ne fruirá superando gli schemi analitici

presentati dalla nuova architettura moderna. Come abbiamo accennato, le idee degli architetti

inglesi erano condivise da altri giovani professionisti che gravitavano intorno ai congressi

internazionali. La Carta di Atene pareva aver offerto risposte universali ai problemi urbani, ma

furono proprio questi nuovi protagonisti a rimettere in discussione i dogmi della nuova architettura

riunendosi nel gruppo chiamato Team X. Condividevano tutti una sorta di fedeltá nei principi della

nuova architettura, ma tutti, avevano ugualmente piena coscienza dei limiti che presentava

esprimendo una forte critica rispetto alla complessitá dei problemi della cittá.

“Per noi il costruire ha un significato speciale nel senso di una responsabilità assoluta. (...)

Nessun piano astratto esiste tra l’architetto e ciò che deve fare ma soltanto un fatto umano e le

logiche del contesto. (...)

Il team X è dell’opinione che soltanto in questo modo possano costruirsi dei gruppi di edifici

significativi, dove ogni edificio è una cosa vivente e un’estensione naturale degli altri;

insieme essi conformeranno spazi dove ogni uomo realizzerà ciò che desidera essere”.11

Queste parole segnano la messa in discussione del verbo modernista, volgendo ora lo sguardo a una

umanizzazione dell’architettura, che rifiuti piani astratti inadeguati e indifferenti alla naturale

costruzione di una comunitá, di una cittá e di un individuo. Le immagini dei bambini lungo le strade

chiarificano, con l’immediatezza dell’immagine, queste posizioni e testimoniano idee forse meno

conosciute ma che in questi momenti di ripensamento della città, furono in grado di leggere le

lacune di modelli urbani che limitavano il potenziale dell’architettura al semplice edificio in sè.

11 Dichiarazione dell’Obiettivo del Team X, in Team X Primer, Londra, 1953

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Fig. 9 La Grille proposta da A&P Smithson tratta dal libro “The Charged Void”

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Gli Smithson allargano i punti di vista e scelgono di concentrarsi sui vuoti, sullo spazio tra gli

edifici, dimostrando con quelle fotografie l’importanza della strada nella vita di una città. La coppia

inglese definisce questo pensiero introducendo il loro volume “The Charged Void”, parlando della

capacità dell’architettura di caricare d’importanza lo spazio che la circonda con un’energia che può

entrare a sua volta in relazione con la vita della città. Si tratta di una capacità che non sempre è

possibile registrare o definire, ma che costruisce l’identità di un luogo e che come architetti

possiamo sentire e con la quale siamo chiamati a lavorare.

“Quello che noi stiamo cercando di offrire è un’urbanistica dove la pianificazione specifica si

generi a partire dallo spazio tra gli edifici e il progetto che ne segue dovrà essere visto nell’ottica di

questa ambizione.

Lo in between parla con il cielo... Lo in between carica di interesse quello stesso cielo”12

Ai loro occhi appariva con evidenza che l’architettura e l’urbanistica dovessero trovare una

necessaria articolazione integrando i temi teorici con il fattore umano e il vuoto tra gli edifici

rappresentava il campo adeguato dove tale interazione poteva avere luogo.

L’idea di vuoto urbano è individuata dalla coppia inglese nell’immagine della strada che

rappresenta il primo luogo in cui si manifestano le relazioni sociali e le espressioni di ciascun

individuo. L’impostazione data dalla Carta di Atene rendeva possibile affrontare meccanicamente il

disordine della città finendo però col diventare eccessivamente diagrammatica, senza rispondere

adeguatamente alla vita quotidiana delle persone.

Il sistema delle quattro funzioni (vivere, lavorare, riposare e circolare) viene quindi riletto dagli

Smithson e dal Team X, che proposero un’analisi urbana a partire dai diversi livelli di relazione tra

gli individui sintetizzata in quattro momenti: la casa (realtà privata), la strada (primo contatto con il

mondo esterno), il quartiere (insieme di fatti urbani che garantiscono un’identità alla propri

comunità) e infine l’insieme che lega tutti questi sistemi specifici ovvero la città.

12 A&P Smithson, The Charged Void, The Monacelli Press, New York, 2005, pp 13

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Fig.10 Schema associativo disegnato da P.Smithson tratto dal libro “The Charged Void”

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THE ECONOMIST BUILDING

Progettare un vuoto nel costruito

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La nuova sede dell’Economist a Londra, costruita tra il 1959 e il 1964, fu la traduzione in opera

costruita di molti dei pensieri che abbiamo analizzato. Il progetto non fu accolto positivamente da

tutta la critica e molti degli stessi sostenitori degli Smithson, tra cui Ryener Banham, nutrirono

dubbi sulle scelte compositive, temendo una riproposizione pittoresca di scale urbane del secolo

passato. Questi pareri negativi spinsero la coppia a riaffermare, sulla rivista Architectural Review

del 1957, la loro approvazione per le idee urbanistiche di Le Corbusier chiarite successivamente con

il progetto Haupstadt di Berlino. Si trattava di un lavoro sullo sviluppo di un’area della capitale

tedesca, nel quale tutto il traffico veniva lasciato al livello più basso, mentre tutte le zone destinate a

negozi e allo svago volavano sopra questo livello incrociandolo solo in apposite piazze dove le

risalite consentivano i collegamenti tra i livelli. Haupstadt fu un lavoro in cui il nuovo sviluppo era

chiamato a dialogare con i resti della vecchia città e gli Smithson scelsero di preservare tutto quanto

rimaneva, edificando i nuovi manufatti tra gli edifici precedenti, aumentandone la scala e generando

corti e piazze pubbliche tra gli uni e gli altri. La descrizione della strategia del progetto Berlinese,

introduce chiaramente l’Economist building di Londra, sottolineando ancora una volta la centralità

del cosidetto space-between nella progettazione degli Smithson. Il lavoro venne affidato alla coppia

dopo un breve concorso con la volontà di raggruppare in un solo signficativo edificio i diversi uffici

allora dislocati in diversi luoghi della città. Le possibilità prevedevano di chiudere l’isolato lungo

l’intero perimetro, di costruire una singola torre su un podio al centro dell’isolato o una terza

opzione che mettesse in dialogo le precedenti. A margine di questa terza opzione venne ritrovata

una nota che recitava:

“Possiamo pensare di costruire una torre su un podio, con l’aggiunta di alcuni blocchi più piccoli

sempre sul medesimo podio, attivandone un dialogo attraverso una piazza pubblica”.13

Fu questa terza possibilità quella scelta dagli Smithson per la progettazione del nuovo edificio,

scegliendo di porre dentro una torre 14 piani l’intera sede del giornale, ubicandola su un podio, in

posizione arretrata rispetto a St. James street, così da attenuarne l’impatto visivo. Altri due edifici

completarono l’isolato: uno seguiva l’allineamento della posteriore Bury street e fu destinato a

residenze o uffici privati, mentre un secondo manufatto, sede della Martins Bank, seguiva

l’allineamento sulla principale St. James street, distanziandosi dall’esistente edificio in mattoni sede

del Boodle’s club e definendo attraverso questa separazione l’ingresso alla nuova piazza pubblica

creata tra gli edifici. Questo tipo di disposizione permise la massima permeabilità pedonale e di luce

attraverso il sito e la minima perdita di superficie costruita ai nuovi edifici. La rottura nella

continuità costruita della via londinese fu un gesto forte che al tempo stesso conferì un nuovo e

prestigioso indirizzo all’Economist. Gli Smithson scelsero di costruire un sistema di vuoti,

all’interno del denso tessuto londinese, concependolo come una vera piazza pubblica, aperta sulla 13 Nial Hobhouse e Louisa Hutton e Krucker Bruno, Architecture is not made with the brain, Architectural Association, Londra, 2005, pp18

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Fig.11 Assonometria progettuale di A&P Smithson tratta dal libro “Architecture is not made with the brain”

Fig.12 Ipotesi di riproposizione dell’Economist Building, tratta dal libro “Architecture is not made with the brain”

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strada ma rimanendone distanziata, intensa e calma contemporaneamente come tutte le piazze.

Il vuoto in questo intervento è uno spazio urbano nel quale l’architettura è in grado di liberare

quell’energia relazionale così importante per gli Smithson. Una sorta di connettività che lega in un

insieme urbano tre edifici distinti, mettendoli in dialogo,attraverso uno spazio pubblico, con la città.

Questo spazio ricorda molto la corte aperta del municipio disegnato a Saynatsalo da Alvar Aalto: un

momento di quiete distanziato dal rumoroso e sgradevole traffico urbano senza perderne però la

percezione. Gli Smithson vollero rinforzare questa idea di pausa nel tessuto urbano disegnando un

lunghissima panchina in pietra lungo il muro cieco del Boodle’s club. La lunga panchina è uno

degli elementi che permette di capire come questo vuoto sia un vero elemento di progetto, pensato

nei suoi singoli elementi, nei suoi materiali che inducono ad abbassare la chiassosa temperatura

della città, fino ad arrivare ai giunti di una pavimentazione che con il loro disegno zig-zag

conducono subliminalmente all’entrata della torre. Il vuoto dell’Economist si apre agli usi e alla vita

della città per diventare il corridoio principale di un accesso o una semplice scorciatoia tra due vie

per qualunque cittadino percorra questo quartiere di Londra. La nuova sede dell’Economist di

Londra è un progetto paradigmatico per comprendere l’architettura degli Smithson e la densità di

significati che un vuoto può raccogliere nella sua relazioni con i pieni. Lungo St. James street, la

città si rompe ed entra all’interno del progetto per dare spazio alle diversità che la vita quotidiana

può offrire. Questo tipo di apertura è parte del pensiero stesso degli Smithson che sentivano la

necessità di lavorare sul fattore umano della pianificazione per cercare di preservare gli elementi

identitari di una città. Molti contemporanei inglesi finirono per perdersi in stili storicisti e

pittoreschi mentre gli Smithson furono capaci di rispondere alle critiche ricevute, con la forza di

una modernità che permette a questo progetto di essere ancora contemporaneo a quasi cinquant’anni

dalla sua realizzazione. La loro proposta urbanistica va oltre l’edificio la cui progettazione si spinge

fino “allo spazio collettivo che ogni architettura porta con sè” 14 . Peter Smithon difende un

approccio alla pianificazione volto al recupero di un approccio meno analitico e più umano:

“(...) se una strada si estende in una certa maniera, gli edifici dovranno sottolinearne l’importanza.

Allo stesso modo se vi è un’abitudine come andare al tempio o a fare shopping, l’organizzazione

degli edifici sarà la migliore per dare importanza a una attività che non ne avrebbe senza gli stessi

edifici. Se non si operasse in questo senso non avremmo le nostre attività quotidiane, sarebbe tutto

molto banale e non avremmo sistemi di relazione o ragioni per compiere le nostre azioni”.

“Un edificio oggi è interessante soltanto se rappresenta qualcosa in piu di se stesso, se caricherà lo

spazio intorno a se con possibilità di connessione e se sarà soprattutto in grado di farlo attraverso

un silenzio che la nostra sensibilità non può percepire fisicamente come architettura”15

14 A&P Smithson, The Charged Void, The Monacelli Press, New York, 2005, pp 13 15 Nial Hobhouse e Louisa Hutton e Krucker Bruno, Architecture is not made with the brain, Architectural Association, Londra, 2005, pp26

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Fig.13 Pianta del piano terra dell’Economist Building tratta dal libro “Architecture is not made with the brain”

Fig.14 Immagine della piazza interna dell’Economist Building tratta dal libro “The Charged Void”

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ALDO VAN EYCK I playground di Amsterdam

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Aldo Van Eyck costruì il primo playground nel 1947 ad Amsterdam, entro un piccolo lotto nel

quartiere di Bertelmanplein. Il lavoro dell’architetto olandese segue le idee di A&P Smithson e i

suoi progetti costituiscono un’ulteriore scarto alle idee urbane del funzionalismo. La progettazione

non è piu pensata secondo un movimento dall’alto verso il basso, ma al contrario diviene un

percorso capace di partire dal basso e dagli spazi collettivi, per dare senso all’edificato. Van Eyck

come gli Smithson riteneva superato il “quartetto congelato delle funzioni” proposto dal movimento

moderno, non credendolo più in grado di affrontare la questione urbana del dopoguerra.

La situazione olandese era molto grave e le difficoltà coinvolgevano diversi campi tra cui quello

dell’edilizia, incapace in quel momento di offrire ai cittadini spazi per la vita collettiva. Van Eyck

in questo complicato momento venne incaricato di progettare quasi 700 playgrounds ed i primi

interventi si installarono presso lotti temporanei inutilizzati. Parevano interventi quasi di emergenza

ma portavano con se significati ben piu profondi di una soluzione creativa in un momento di

bisogno. La dimensione dei singoli lavori era minima, ma in grado nel suo complesso di disegnare

una punteggiatura dentro il tessuto di Amsterdam ben più efficace di qualunque piano regolatore.

Lotti lasciati vuoti dalla guerra, dall’incuria, dal tempo, con un piccolo atto di progettazione

sensibile all’umiltà della piccola scala, da spazi vuoti e derelitti divengono spazi pieni di vita. 16

Il lavoro di Van Eyck è un elogio di quell’architettura senza protagonismo, capace di avere rispetto

e di porsi molte domande per incidere veramente sulla vita delle persone e dei bambini.

“Una città senza i particolari movimenti dei bambini è un paradosso”17

Nel dopoguerra per Amsterdam fu pensato un grande piano urbanistico, redatto da Corneliis Van

Eesteren che seguiva le previsioni di crescita demografica e dei trasporti, mirando a quella

zonizzazione propria del pensiero funzionalista: lavoro, riposo e trasporti venivano divisi ma

integrati nel piano. Tale proposta dava il via alla costruzione di nuovi edifici e di grandi blocchi di

edifici residenziali secondo i nuovi principi che il movimento moderno aveva proposto.

Il piano immaginava inoltre operazioni di sventramento per favorire i trasporti e le nuove

infrastrutture ma non si spinse tanto avanti, a causa di forti movimenti di protesta ai quali partecipò

attivamente anche Aldo Van Eyck.

16 Fulvio Irace, Learning from the street, Politecnico di Milano, 2007, pp 7 17 A.van Eyck, Kind en Stad, in Goed Woenen, Ottobre 1950

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Fig.15 Immagine di un area dismessa lungo i canali di Amsterdam prima dell’intervento di Van Eyck, tratta dal sito”www.architekturfurkinder.ch)

Fig.16 Immagine della medesima area lungo i canali di Amsterdam dopo l’intervento di Van Eyck, tratta dal sito”www.architekturfurkinder.ch)

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L’architetto olandese, che inizialmente aveva lavorato a fianco di Van Esteren, finì lentamente per

distanziarsi dalle sue posizioni e fu proprio la nuova visione proposta con i suoi playgrounds a farlo

divenire fortemente critico riguardo le idee funzionaliste:

“Il funzionalismo ha ucciso la creatività.

E’ come una fredda tecnocrazia, nella quale l’aspetto umano è dimenticato. Un edificio è più che

una somma delle sue funzioni.

L’architettura deve facilitare l’attività dell’uomo e favorire l’interazione sociale”.18

Dei 700 playgrounds oggi ne restano circa 90 e tutti questi interventi sono stati interpretati

dall’architetto come un momento per sviluppare e verificare le proprie idee legate all’architettura,

all’immaginazione e alla relatività. Quest’ultima parola appare in molte descrizioni e consiste nel

rendersi conto che i vari elementi del progetto non rispondono a una gerarchia ma si determinano

attraverso mutue relazioni: tutti gli elementi che Van Eyck disegnava erano ugualmente importanti.

Ogni elemento era pensato dalle mani dall’architetto che voleva stimolare l’immaginazione di quei

bambini. La struttura emisferica di tubi in metallo, non era solo un luogo da scalare, ma diveniva un

momento di incontro o il punto piu in altro dal quale controllare tutto l’intorno. L’immaginazione

rispondeva ad un esigenza di apertura, una volontà innovativa con cui progettare un luogo di cui le

persone potessero appropriarsi ognuno secondo la propria volontà. Altri aspetti innovativi

risiedevano nella modularità di questi elementi ma la vera grande forza di questi playgrounds sta

nella loro ubicazione interstiziale. Il progetto non prende in considerazione l’idea di tabula rasa

proposta dai funzionalisti ma al contrario disegna questi vuoti esistenti attivando relazioni con il

tessuto urbano. Van Eyck usa l’architettura affinchè le persone possano creare i propri luoghi e

sentirsi a casa anche nella città moderna, rifutando le fredde regole moderne secondo cui

l’architettura era soltanto una fusione di spazio e tempo.

“Benchè spazio e tempo abbiano un significato, luogo e occasione significano di più.

Lo spazio nell’immagine di un uomo è un luogo,

il tempo nell’immagine di un uomo è un’occasione”19

18 Aldo Van Eyck, The Story of Another Thought, in (Forum) 7/1959, Amsterdam

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Fig.17 Immagine prima-dopo di un’area periferica di Amsterdam oggetto dell’intervento di Van Eyck, tratta dal sito”www.architekturfurkinder.ch)

Fig.18 Immagine prima-dopo di un’area centrale di Amsterdam oggetto dell’intervento di Van Eyck, tratta dal sito”www.architekturfurkinder.ch)

19 Aldo Van Eyck (1959), in Ana Mendez de Andès (2010), Urbanacciòn 07/09, La Casa Encendida, Madrid, pp. 25-39

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GORDON CULLEN

Townscape

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Gordon Cullen fu un architetto e intelletuale inglese autore del testo “TownScape”: neologismo in

grado di legare insieme due concetti apparentemente distanti come quello di paesaggio e città.

Questo lavoro venne completato intorno al 1960 e raccoglie molte idee che abbiamo visto

concretizzarsi nei lavori degli Smithson in Inghilterra e di Aldo Van Eyck in Olanda.

L’intera opera di Cullen si concentra sullo spazio urbano, analizzando tutti gli elementi che lo

definiscono: le pavimentazioni, i materiali, gli alberi, le zone d’ombra, quelle più dinamiche e così

via per poi tesserli insieme in quell’evento comune che Cullen definisce come dramma urbano.

Townscape si divide in tre grandi capitoli che articolano l’esperienza dei vuoti della città attraverso

una vera e propria esperienza spaziale. Il primo capitolo riguarda l’esperienza visuale che racconta

del paesaggio urbano come di una realtà che sorge attraverso una successione di sorprese, di

intuizioni o di rivelazioni improvvise. La seconda parte del testo si riferisce alla nostra percezione

di quello che ci circonda e alle nostre diverse posizioni all’interno dello spazio urbano: essere

dentro, essere fuori o percorrere un portico provoca sensazioni diverse che secondo Cullen è

importante registrare per pensarne la progettazione. Secondo la sua opinione se le nostre città

fossero disegnate considerando anche la percezione di chi si muove nello spazio, queste potrebbero

rivelarsi come una sorta di esperienza plastica, fatta di aree di compressione e di vuoto, di forte

contrasto tra spazi ampi e spazi delimitati e alternanza di momenti di tensione e di quiete. 20

L’ultimo punto riguarda i contenuti che la matrice dei vuoti di una città è in grado di raccogliere e

di trasmettere attraverso i colori, le texture, i rapporti di scala, gli stili, la natura e tutto ciò che ne

costituisce un’identità non riproducibile. L’immagine a destra accompagna la descrizione di quelle

che Cullen definisce Visioni Seriali. Si tratta dell’esperienza visuale di un centro urbano che si

articola in una successione di punti di vista che nel loro insieme concretizzano la nostra percezione

di una città. Cullen insiste sull’importanza che le piccole variazioni e gli allineamenti urbani,

assumono nella loro ricostruzione visiva definendo la nostra progressiva scoperta di un luogo,

svelando un mistero che si chiarifica passo dopo passo. Si tratta di una maniera di pensare che

Cullen definisce attraverso il suo tratto preciso e che nel testo si ripete per molte realtà diverse. Ciò

che è interessante di questa opera di Cullen è l’idea di trattare il vuoto conferendogli la stessa

importanza che viene data agli edifici, dimostrando come esista una relazione strettissima tra pieni e

vuoti:

“Lo spazio esterno non è solamente la mostra di lavori individuali di architettura come quadri in

una galleria, ma deve ambire ad essere un ambiente umano completo.

Il dramma urbano deve sorgere e comporsi a partire da tutto l’intorno, dal pavimento, alle luci, agli

alberi, agli edifici”.21

20 Cfr. Gordon Cullen, Townscape. The Architectural Press, Londra, 1961 21 Gordon Cullen, Townscape. The Architectural Press, Londra, 1961, pp 24

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Fig.19 Disegni relativi alle Visioni Seriali proposte da Gordono Cullen, tratte dal suo testo “TownScape”

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Nella pagina a fianco riconosciamo il progetto di Allison e Peter Smithson per l’Economist building

ma il disegno dell’edificio è stato tracciato da Gordon Cullen. Townscape raccoglie moltissimi

elementi di analisi ma riferirsi a questo schizzo composto dallo stesso autore può portarci a capire il

paesaggio urbano pensato dagli Smithson, attraverso le categorie che Gordon Cullen elenca nel suo

testo. Innanzitutto l’edificio viene trattato nella sua completa relazione con la città attraverso una

visione seriale che in tre momenti diversi ci trasporta da un punto di vista distante fino all’interno

della nuova piazza pubblica. In tutti i tre disegni non manca mai la presenza della città che si rivela

e si relaziona con l’edificio attraverso il vuoto della piazza. Passando alle categorie di luogo, la

nuova sede dell’Economist definisce un ambiente urbano riferibile a un Enclosure: isola da cui il

rumore della città rimane escluso come i rapporti casuali e impersonali, in favore di un relativo

silenzio e della dimensione relazionale. Questo sistema nel testo di Cullen spesso però si riferisce a

un vero e proprio ambiente chiuso e per questo la nuova piazza potrebbe porsi a metà tra i concetti

di Enclosure e di Closure, ovvero un’interruzione delle visuali dirette e immediate ottenuta per

mezzo di irregolarità o nuovi allineamenti che portano a intuire un mondo tra gli edifici capace di

generare un’aspettativa o una sorpresa. All’interno di queste categorie l’Economist risponde ancora

ad altri elementi che lo scrittore inglese ritiene importanti nella percezione di una città. Il tema di

vedere oltre l’enclosure è per esempio perfettamente chiarito dal disegno in basso a sinistra, dove la

continuità visiva tra piazza e contesto non viene interrotta ma volutamente ricercata. Il cambio di

livello, considerato da Cullen una di quelle azioni sottili in grado di cambiare la percezione di un

ambiente, è perfettamente chiarito dal podio rialzato su cui i tre edifici si articolano. Il tema delle

strettoie e delle compressioni spaziali che conducono attraverso la piazza sono esaltate nel testo di

Cullen come strategie capaci di gerarchizzare e far sentire le diversi parti di una città. L’intimità,

ritenuta necessaria per diversificare la forza di ciascun luogo, viene portata dagli Smithson con

quella panchina contro il muro in mattoni che trasmette la sensazione di un ambiente quasi

domestico. Molto interessante è infine un ultimo punto che riguarda i “Contrasti” di una città.

Questa analisi apre l’ultimo capitolo di Townscape che parla dei contenuti che il paesaggio urbano

può trasmettere proprio attraverso lo spazio pubblico. Nel progetto degli Smithson il contrasto

avviene tra il nuovo edificio e il precedente Boodle’s club, da cui la coppia sceglie di distanziarsi,

aprendo in quella separazione l’affaccio verso St. James street. Quel vuoto tra due tempi della città

fa si che si possa stabilire un dialogo tra i due momenti. Townscape cataloga un’interpretazione del

disegno urbano che questo gruppo di architetti ha cercato di introdurre nell’ambito del dibattito di

quegli anni, spostando l’attenzione dagli edifici allo spazio urbano che li unisce. Si tratta di un

allargamento dello sguardo supportato da disegni, testi e progetti costruiti, che stabiliscono

interessanti relazioni anche con la nostra epoca in cui sentiamo la necessità di ripensare il mestiere

dell’architetto in relazione alle necessità del nostro tempo.

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Fig.20 Disegni relativi alle Visioni Seriali proposte da Gordono Cullen per l’Economist Building, tratte dal suo testo “TownScape”

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RICOSTRUIRE LE CITTA’ DALL’INTERNO

L’architettura contemporanea attraverso il tessuto urbano

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Gli Smithson, Van Eyck e Cullen esprimevano le proprie idee durante un periodo di completa

ricostruzione in cui il mondo dell’architettura fu chiamato a ripensare fisicamente i paesaggi urbani

distrutti dal conflitto. Le posizioni difese dal movimento moderno, dai diversi congressi CIAM e

soprattutto da Le Corbusier trovarono una più ampia diffusione, ma la sensibilità degli architetti che

abbiamo analizzato sembra quasi esprimere sotto forma di proposte quelle che negli anni a venire

sarebbero state le maggiori lacune delle idee di quel periodo. La convinzione di dare importanza ai

vuoti, allo spazio pubblico e quindi alla vita dei cittadini non era soltanto una strategia progettuale,

ma una vera priorità: allargare il campo d’azione dell’architettura all’intera città per ricostruire una

forte identità urbana, capace di ricucire le relazioni tra le persone. Dopo il dramma della seconda

guerra mondiale questi architetti proposero una lettura contemporanea, figlia della modernità ma in

grado di andare oltre e di recepire le necessità urbane di un’epoca di forti trasformazioni.

La progettazione urbana e il pensiero architettonico subivano un ribaltamento e se i CIAM ,e molti

dei loro partecipanti, proponevano una pianificazione dall’alto verso il basso, questa generazione di

professionisti scelse di muoversi in senso inverso: partire dagli spazi interstiziali, dai luoghi di

risulta o semplicemente dalle strade, per ricostruire la città del dopoguerra. La realtà contemporanea

è estremamente distante da quell’epoca, ma esistono riflessioni che oggi mantengono la loro

attualità e attraverso le quali possiamo provare a costruire un parallelo. La sintesi delle proposte di

quel gruppo di professionisti fu una voluta attenzione a realtà minori che non vennero mai trattate in

termini progettuali dai congressi internazionali. Lo sviluppo urbano degli ultimi decenni si è

rivelato spesso sconsiderato, provocando la nascita di realtà urbane periferiche, completamente

slegate del tessuto urbano. Edifici di grande scala e interi quartieri hanno provocato espansioni

urbane illimitate ma soprattutto l’assenza di relazioni umane, di vita e di qualità pubbliche di cui

ogni cittadino ha diritto. Il perpetuarsi di questo sistema ha generato forti problematiche portando a

fenomeni di esclusione e di separazione sociale. Il ruolo dell’architettura e dell’urbanistica può

essere decisivo in questo sistema, capendo la necessità di frenare lo sviluppo incontrollato e

iniziando a ricostruire la città dal suo interno. Tale operazione può definirsi attraverso situazioni

diverse che possiamo raccontare con tre esempi distanti tra loro, ma legati dalla ritrovata attenzione

agli spazi della vita della città. Alvaro Siza dopo l’incendio che devastò i magazzini del Chiado di

Lisbona, intervenne nel corpo della capitale portoghese rifiutando ogni formalismo e ponendosi

come obiettivo la ricostruzione delle relazioni urbane di questa parte di Lisbona.

David Chipperfield affronta un interessante progetto a Berlino, definendo un progetto che parte

dalla sua facciata principale per ricostruire all’interno dell’isolato una serie di cortili e spazi aperti

dove pubblico e privato dialogano attraverso gli spazi vuoti. L’ultimo lavoro preso in

considerazione ci riporta a Londra con il progetto di St. Giles realizzato da Renzo Piano, nel quale

la città penetra nella trasparenza dell’edificio fino al grande patio centrale.

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Seguendo questo ideale parallelo ritroviamo il ruolo importante della fotografia, con la sua capacità

di cogliere indizi e impulsi che dirigono la nostra attenzione a realtà ignorate.

Se le fotografie di Henderson stimolarono l’attenzione degli Smithson con la loro rappresentazione

della vita collettiva per le strade di Londra, a partire dalla fine degli anni settanta una serie di attenti

fotografi iniziò a catturare una dimensione diversa delle grandi città del mondo.

Nelle immagini di personaggi come John Davies,Thomas Truth e Gabriele Basilico i protagonisti

che irrompono sulla scena sono gli spazi urbani vuoti, abbandonati, residuali che non appaiono più

parte della città. E’ una realtà che si fa sempre più urgente e che riguarda la dimensione urbana di

questi spazi che Ignasi de Solà-Morales definì “Terrain vague”, scegliendo l’espressione francese

perchè terrain assumesse il significato di una parte di territorio, precisa ma figlia di limiti

accumulatisi nel tempo e vague potesse riempirsi della sua complessità di significati. Vague è un

termine di cui Solà-Morales esalta la duplice radice latina che lo definisce prima come vuoto, non

occupato, disponibile e in secondo luogo come vago, indeterminato, incerto.22

La tensione tra questi significati definisce l’importanza di questi spazi la cui vacuità li riempie della

libertà di aspettative e di possibilità e rende il vuoto non solo un’assenza ma anche uno promessa di

incontri e opportunità future.

Le immagini fotografiche diventano ancora una volta dei ricettori di questa estraneità tra i Terrain

Vague e il corpo della città, marcando con evidenza come la mancanza di interventi progettuali

coinvolga anche le problematiche della vita sociale contemporanea.

22 Cfr. Ignasi de Solà-Morales, Territorios, Gustavo Gilli, Barcelona, 2002

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GABRIELE BASILICO La permanenza della città

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Nella crescente attenzione verso i vuoti, Gabriele Basilico è stato un personaggio dotato di

incredibile profondità, capace di esprimere una sintesi delle parole di Solà Morales, cogliendo gli

aspetti più interessanti delle realtà urbane meno fotogeniche. Il 1991 fu l’inizio di un reportage

molto diverso da quelli a cui Basilico aveva finora lavorato. L’attenzione del suo obiettivo era

ancora una città ma questa volta si trattava di una città semidistrutta come Beirut che ,a seguito di

una sanguinosa guerra civile durata quasi quindici anni, si trovò ad essere devastata in gran parte

delle sue aree centrali. La seconda parte di questo lavoro sui vuoti tratta della necessità di leggere

l’ampliamento delle nostre città ricostruendole dall’interno e tale volontà spesso viene a proporsi

come una necessità causata da eventi traumatici. Come Alvaro Siza ricostruisce il Chiado di

Lisbona dalle rovine di un incendio, così Gabriele Basilico compone nelle sue immagini della

capitale libanese un’idea basilare che unisce questi lavori: la permanenza della città.

A Beirut Basilico si trova di fronte le rovine di un mondo che fu splendido e che dopo molti anni

iniziava a svegliarsi dal lungo incubo della guerra. Un momento di attesa tra due tempi: tra le rovine

del passato e la preparazione del futuro, un momento fatto di silenzio, vacuità ed assenza.

Il fotografo milanese cattura questa realtà sospesa tra distruzione e rinascita, ponendosi con umiltà

di fronte al dramma del conflitto per raccontare il miracolo del ritorno alla vita .

Basilico compone le sue fotografie, senza lasciarsi attrarre dalla semplice componente drammatica,

ma bensì cercando di catturare la normalità quotidiana oltre le macerie, cogliendo la sensazione di

attesa del ritorno della vita e della normalità lungo queste strade.

“La mia impressione era che tutto si svolgesse come se la gente avesse abbandonato edifici e strade

per tornarci in futuro prossimo (…). Tutto sommato la situazione poteva sembrare quasi normale la

città era solo caduta in un lungo periodo di attesa.

Il vuoto per me non significa mai vera assenza: si tratta piuttosto di una fase di silenzio che mi

permette di instaurare un dialogo spero autentico con la città”23

23 Gabriele Basilico, Architetture, città, visioni, riflessioni sulla fotografia, Mondadori, Milano, 2007, pp 86

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Fig.21 Fotografia di Gabriele Basilico, tratta dal libro “Beirut 1991-2003”

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Dominique Eddè, scrittrice francese che seguì Basilico a Beirut, racconta che la svolta nel reportage

avvenne salendo sul tetto dell’albergo Holiday Inn dove alloggiavano; da quella prospettiva

Basilico capì che la città era ancora viva, che il dramma che l’aveva martoriata era soltanto una

malattia epidermica molto evidente che non era però riuscita a distruggere la struttura fisica della

città. La riflessione di Basilico è molto forte e lo spinge a recepire la complessità del tessuto urbano

attraverso la matrice dei vuoti di Beirut che sul tetto di quell’albergo fu in grado di comprendere.

Gli edifici erano sventrati e anneriti dal fumo ma il tessuto era integro e questo spinse Basilico a

fotografarne la permanenza, compiendo cosi un elogio alla resilienza della città che attraverso il

vuoto esprimeva la propria sopravvivenza.

“Mi sono reso conto che le parti interamente distrutte non erano molte(…). Ho cercato così di

assimilare la struttura della città (…) guardandola come avrei potuto guardare Roma o Milano”.24

24 Ibidem

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Fig.22 Fotografia di Gabriele Basilico, tratta dal libro “Beirut 1991-2003”

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ALVARO SIZA La ricostruzione del Chiado di Lisbona

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La notte del 25 agosto 1988 un grande incendio devastò i magazzini del quartiere Chiado di

Lisbona investendo ben diciotto edifici e presentando drammaticamente la vulnerabilità della città.

La parte di Lisbona coinvolta nell’incendio costituiva un elemento integrante del grande piano di

ricostruzione che il Marchese di Pombal realizzò a seguito di un altro momento drammatico come il

terremoto che nel 1775 rase al suolo gran parte della capitale. Il piano prevedeva di sostituire il

malsano groviglio di vicoli della parte bassa della città con un sistema di vuoti urbani ortogonali,

alternati ad un sistema di isolati rettangolari dotati di lunghe corti interne, in modo da controllare

l’occupazione e i rapporti volumetrici. Tre grandi piazze con destinazioni diverse venivano messe

in relazione per mezzo della nuova maglia ortogonale e il nuovo piano illuminista dovette la sua

forza proprio alla qualità e alla modularità di un sistema di spazi pubblici generatore non solo

dell’intero sistema urbano ma anche di un linguaggio di facciate che vennero rese tutte uniformi

secondo uno specifico disegno che caratterizza ancora oggi il centro della capitale portoghese e

l’intero quartiere devastato dall’incendio. I magazzini del Chiado da cui ebbe origine l’incendio si

trovano in un punto di limite tra l’area piatta della Baixa e la collina del Carmo, il cui dislivello

viene affrontato dalla sezione degli edifici e dalle ripide risalite delle vie posteriori. L’intervento

proposto da Pombal mirava alla rifondazione completa di una città secondo nuovi principi, mentre il

progetto di Alvaro Siza reagisce alla ferita urbana introducendo un sistema di aggiustamenti e

correzioni in grado di ristabilire la forza e la compiutezza del fabbricato urbano reso debole dal

grande incendio.

“La vulnerabilità è una condizione indissociabile dalle strutture urbane apparentemente solide e

durature e rappresenta al tempo stesso il motore possibile della loro trasformazione.

Nell’interpretazione costante tra la percezione di tale vulnerabilità e il processo progettuale, ossia

tra un’interpretazione rigorosa di ciò che precede e la trasformazione che il progetto veicola risiede

l’esemplarità del metodo di Alvaro Siza”25

Queste parole scritte nel testo dell’architetto Goncalo Byrne dal titolo “Lisbona, una città

vulnerabile” sintetizzano molto bene la strategia di recupero di un’identità urbana che Siza mette in

atto a Lisbona. Seguendo il testo, l’architetto portoghese, individua le tre strategie secondo cui la

ricostruzione del Chiado venne sviluppata.

25 Goncalo Byrne, Lisbona: una città vulnerabile, in Lotus International 64, 1989, pp 34

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Fig.23 Immagine aerea dell’area del Chiado dopo l’incendio, tratta dal libro “Chiado em Detalhe”

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Prima di tutto Byrne parla della capacità di Siza di conservare il sentimento della città anteriore,

operazione che si traduce nella conservazione formale delle volumetrie e delle facciate pombaline,

in secondo luogo viene esaltata la capacità ripristinare l’equilibrio funzionale della città, studiando

spazi che garantissero una varietà di usi dal commerciale, al residenziale fino ad attrezzature e

servizi. Il terzo punto che forse rappresenta la vera rivoluzione di questo progetto riguarda il

disimpegno strutturale di tutta l’area, con la creazione di una nuova stazione della metropolitana e

di un passaggio sotterraneo in grado di connettere la maglia ortogonale della Baixa con la ben più

alta piazza di Camoes26

Il progetto di Siza è un progetto che parte dal basso, dall’interpretazione di una situazione urbana e

di un sistema di spazi pubblici cui era necessario restituire una vita partendo dalle rovine.

Il fulcro dell’intervento non risiedeva secondo Siza nelle facciate ma nelle periferie e negli interstizi

dimenticati di quest’area della città, la dove si registrano le differenze temporali e dove ,secondo il

maestro di Porto, si può incontrare “una vocazione moltiplicata alle trasformazioni”27.

Ecco allora che Siza inizia a correggere allineamenti, ad aprire passaggi pedonali, a liberare antichi

cortili per offrirli alla città, andando a registrare, come afferma Byrne, le situazioni sospese, fugaci,

senza fissarsi in forme precipitose28. La ricostruzione del Chiado è un esemplare progetto di vuoti

in grado di coinvolgere non solo l’area oggetto della ricostruzione ma l’intera vita pubblica di

Lisbona. I momenti di transizione tra l’area di progetto e le parti della città colpiscono fortemente

l’attenzione di Siza che ne comprende la forza e la potenziale capacità di essere elementi di

fortissima trasformazione. La nuova apertura del passaggio sotterraneo ne è esemplare

dimostrazione ed è oggi un collegamento pedonale utilizzatissimo in grado sia di semplificare la

vita dei cittadini che di riqualificare, con il suo costante traffico giornaliero, la parte del quartiere

Baixa verso cui si apre. I nuovi cortili, un tempo stretti e residuali, ora resi pubblici e allargati nelle

loro dimensioni ospitano dehors e bar affollati. I nuovi collegamenti concedono nuove risalite per le

colline di Lisbona e nuovi “Miradouros” da cui godere dello splendido paesaggio della capitale

portoghese costruendo legami con il tessuto urbano circostante.

26 Cfr. Goncalo Byrne, Lisbona: una città vulnerabile, in “Lotus International” no. 64, 1989 27 Goncalo Byrne, Lisbona: una città vulnerabile, in “Lotus International” no. 64, 1989, pp 34 28 Ibidem pp 36

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Fig.24 Situazione urbanistica dell’area prima dell’incendio, tratta dal libro “Chiado em Detalhe”

Fig.25 Schema dell’operazione di svuotamento proposta da Siza, tratta dal libro “Chiado em Detalhe”

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Fig.26 Fotografia del lotto verso l’Igreja do Carmo dopo l’incendio, tratta dal libro “Chiado em Detalhe”

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Fig.27 Schizzo progettuale dell’arch. Alvaro Siza relativo alla medesima area della Fig.26, tratta no.64 della rivista Lotus anno 1989

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La dimensione del tempo è un altro elemento importante nel lavoro di Siza che parla di un “progetto

che potrà guadagnare spessore in seguito”29 con il coinvolgimento di altri attori e altri progettisti in

grado di integrare la ricostruzione che proprio nei due ingressi alla metropolitana ha il proprio

rituale di partenza e arrivo.

Byrne sottolinea ancora come questo progetto, capendo la propria dimensione urbana, sia capace di

“installarsi nella propria vulnerabilità cittadina, di scrutarne i limiti attraverso una trasformazione

che si verifica sulla base di un dialogo tra interventi specifici”30 : un dialogo attraverso i vuoti

liberati della città. L’ultimo tassello di questo lavoro è stato recentemente completato e aggiunge

allo svuotamento di un ampio patio interno, un sistema di perforazioni urbane a piccola scala in

grado di creare microambienti adatti a nuovi usi. A partire da questo spazio si collega un nuovo

percorso panoramico di scale e ascensori pubblici che legano questi luoghi alle rovine dell’antica

chiesa del Carmo costruendo oltre che nuovi spazi pubblici, alcuni momenti di tensione poetica tra

momenti drammatici di Lisbona dai quali la città è stata capace di rialzarsi attraverso le

trasformazioni sensibili della pratica progettuale. Questo ampio e complesso lavoro è esemplare

nell’ottica di una nuova maniera di vedere l’architettura nel nostro tempo.

La dove l’esasperata spettacolarizzazione dell’architettura contemporanea avrebbe potuto lasciare i

propri segni effimeri, Siza sceglie di capire con umiltà la memoria urbana, di fermarsi a ricucire le

ferite di un evento tragico, generando un lavoro di attenzione e miglioramento degli spazi della vita

condivisa. Un progetto di ricostruzione non solo fisica ma anche identitaria, in grado di migliorare

l’accessibilità allo spazio pubblico, al costruito e alle relazioni vitali tra questi elementi.

Siza disegna ogni singolo elemento di questo progetto, dalle maniglie alle finestre, dalle facciate

alle soglie, arrivando a definire ogni elemento degli spazi pubblici come ringhiere, scale o

pavimentazioni. Si tratta di un progetto di permeabilità e di relazioni che a più di vent’anni da quel

tragico evento dimostra ogni giorno il suo pieno successo, che l’architetto Byrne sintetizza in poche

righe concludendo il proprio testo:

“Alvaro Siza disegna l’essenziale, dal grande spazio pubblico, al mondo relazionale della

prossimità, dove le vite delle persone si uniscono o si relazionano ai propri luoghi attraverso

un’esperenzia sensoriale, visiva, olfattiva, sonora o tattile (...)

A venticinque anni dall’incendio, grazie al modo in cui il progetto procede ad una intelligente

rifondazione architettonica, approfondendo la logica Pombalina, arricchendone il linguaggio,

aggiungendo tensione poetica, Siza ha contribuito alla ricostruzione della centralità storica di

Lisbona”.31

29 Ibidem 30 Goncalo Byrne, in Chiado em detalhe, Alvaro Siza Vieira, Verbo editor, 2013, Lisbona, pp 15 31 Ibidem pp 17

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Fig.28 Schizzo dell’arch.Siza relativo alle perforazioni nel tessuto esistente, tratta dal libro “Chiado em Detalhe”

Fig.29 Fotografia del nuovo ingresso alla stazione metropolitana e passaggio urbano previsto del progetto, tratta dal libro “Chiado em Detalhe”

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“Quello che è:

Rovine, facciate vuote e aperture che liberano muri portanti antichissimi (...)

Uno scheletro bellissimo e incompleto, un oggetto freddo e astratto a rivelare Lisbona.

Sorta di specchio che non riflette, gente affrettata che guarda le pietre, le gru, gli operai.

Quello che può essere:

Basamento di distribuzione su cui tutti passano e si fermano,

un’apparizione da cui vedere un paesaggio.

Chiado essenziale, enorme, su Rua de Crucifixo.

Quello che non può essere:

Commovente, affascinante macchina in cui il passato è presente,

in cui tutto ha l’incanto di un vicolo, polvere dorata al giungere della sera,

graffiti consumati, bagliori e fratture,

l’incanto del Kitsch e del fuori moda, della spazzatura, della droga, di una conferenza sul Tejo.

Lapidi con nomi dimenticati, collages in stile vacillante,

androne abbandonato con piccole piante, decadenza.

Nostalgia di ciò che ho conosciuto male”.

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“Quello che sarà:

Uguale a ciò che era? C’è un tocco di falsità inevitabile.

Un aspetto consapevole, pronto a dissolversi, di maquette esposta al tempo.

In Rua Garret, a sinistra e arrivando in Rua do Carmo si nota un portale mangifico in calcare

metallo, legno, vetro e specchi. Questo portale apre su una galleria, al cui fondo c’è luce.

Invita a entrare, sebbene non vi siano neon, pannelli pubblicitari, altoparlanti, nè marce popolari.

La luce è naturale, irrompe la facciata del rigido disegno pombalino,

mentre le persone attraversano in controluce la galleria: penombre e riflessi.

In fondo riappare la facciata dell’hotel, ibrida e recentemente modificata.

Le finestre ripetute lottano da pari a pari con il muro rivestito di calcare, ci sono portieri vestiti di

livrea, clienti e uomini d’affari, coppie di sposi, stranieri, bar, ristoranti, musica sotto al silenzio.

Ai piani superiori le finestre non rivelano nulla,

se non un ospite che scosta le tende e spia con sguardo inquieto.

E di questo sguardo lo spazio si riempie.

In Rua Nova do Almada passano le folle, una moltitudine in movimento unisce la Escalada do San

Francisco alla Escalada Novissima, discende Rua Do Crocifixo, si divide nei pressi del portale

metropolitano, marmo nero e rosa sulle finestre spalancate, una porta che ora appare nuova,

frettolosamente opaca e comune.

Le vie della Baixa sottostante sono meno cinerine, ci sono antiquari, barbieri, fiorai e cartolerie. (...)

Chi osserva megli nota i telai doppi e altre cose e soprattutto chi ci vive.

Chi vive meglio non nota nulla. Non è attento.

E questo portale?

Un foro violento, senza fronte nè modanatura, un foro improvviso, sorta di imbuto incompleto che

avvolge una scala preziosa, precedente al grande consumo, costruttore di rotondità incomparabili e

di strane macchie di intonaco.

Nell’aria il ponte dell’ascensore e la città alta indovinata.

E la luce in fondo alla galleria, piena di verde e di lillà, come in un quadro di Malhoa; e volti e sedie

di bambù e bevande di un colore squisito e il peso dei muri portanti.

Al tramonto le persone che abitano in alto aprono le finestre o attraversano il cortile del Carmo,

salgono le rampe, si fermano sui pianerottoli.

La città sale adagio, prima serata, poi improvvisamente spezza i muri,

Tejo, severi quartieri popolari, Castelo, Rossio. Esplodono gli archi del Carmo.

Qualcuno divertito ricorda, una previsione diversa”32.

Alvaro Siza Vieira 32 Alvaro Siza Vieira, Quello che è, in “Lotus International” no.64, 1989, pp 38

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DAVID CHIPPERFIELD

Joachimstrasse e i cortili di Berlino

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Il tema della rigenerazione della città a partire dal suo interno ha a che fare come abbiamo visto con

la condizione di vulnerabilità e trasformazione dei sistemi urbani. Lisbona ha dovuto le proprie

ricostruzioni a cataclismi naturali o a eventi accidentali come nel caso dell’incendio ai magazzini

del Chiado, ma anche la mano dell’uomo e gli eventi bellici possono obbligare una città ad

affrontare una forzata rinascita come nel caso eclatante di Berlino.

La capitale tedesca dal secondo dopoguerra in avanti, e a seguito poi della caduta del muro, ha

dovuto far fronte a numerosi processi di ricostruzione, nel tentativo di ridefinire un’identità civica

dopo gli orrori del secolo scorso. La dimensione progettuale può essere un mezzo per misurare le

diverse contemporaneità di una città e questo come abbiamo detto, può avvenire attraverso la

relazione dei vuoti con i pieni; esemplare in questo senso, appare il progetto dell’architetto inglese

David Chipperfiled presso JoachimStrasse proprio a Berlino. Il lavoro dell’architetto riguarda un

profondo lotto del centro della capitale, semidistrutto dai bombardamenti della seconda guerra

mondiale e successivamente frammentato e occupato in una confusa mescolanza tra edifici storici e

nuove strutture in calcestruzzo. A partire dal 1990 molti edifici dell’isolato vennero rinnovati e

nuove aree verdi invasero gli spazi interni di questi isolati, seguendo il parallelo ridisegno di patii e

aree pubblice interne al tessuto urbano. Il progetto di Chipperfield si inserisce in questo contesto di

ricostruzione e di riscoperta di valori urbani la cui bellezza risiede nell’irregolarità, nel confronto tra

tempi diversi, nello spazio lasciato all’appropriazione di chi ne fruirà. Il primo passo dell’architetto

inglese prevede la chiusura e la continuazione del fronte urbano esistente con un primo blocco

residenziale in calcestruzzo di quattro piani che ripropone le proporzioni del contesto circostante,

presentando però un’inaspettata perforazione che permette di intuire il fluire dello spazio urbano

verso l’interno dell’isolato. Chipperfield sceglie di proseguire il suo lavoro ricreando quella

sensazione di quiete e di allontamento parziale dal traffico urbano, definita con il termine Enclosure

da Gordon Cullen, attraverso un interessante sistema di cortili interni. Le visioni seriali del testo

Townscape, trovano qui un’ideale continuazione, che si concretizza in un’esperienza visiva che

parte dalla realtà urbana per passare poi all’oscurità compressa di un passaggio coperto al fondo del

quale si scopre il primo dei tre cortili interni disegnati da Chipperfield, che pone poi abilmente i

successivi due blocchi a una distanza sufficiente per intuire la presenza di un antico edificio in

mattoni e del terzo e più ampio cortile interno. Si tratta di un progressivo passaggio dalla

dimensione pubblica della strada a spazi via via più privati, all’interno di un mondo in cui la scala

degli edifici e dei passaggi è definita in relazione alla struttura del quartiere, nel tentativo di

“costruire un’ambivalenza tra la ristrutturazione dell’isolato precedente alla guerra e una nuova idea

contemporanea di cortile interno”.33

33 David Chipperfield Architects, descrizione progettuale tratta dal sito http://www.davidchipperfield.co.uk/project/joachimstrasse, 2013, Londra

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Fig.30 Pianta del piano terra del progetto, tratta dal sito “www.davidchipperfield.co.uk”

Fig.31 Planimetria generale del progetto, tratta dal sito “www.davidchipperfield.co.uk”

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Il progetto di Chipperfield si trova a poche centinaia di metri dal complesso di Hackesche Hofe,

edificato a partire dal 1700 nel quale 8 diversi cortili interni sono pedonalmente connessi l’uno

all’altro attraverso l’edificio. Questo luogo che caratterizza il quartiere di Mitte ha conosciuto

proprietà e occupazioni molto diverse fino all’ultimo restauro che a partire dal 1995 ha ridato luce

ad uno dei luoghi più vivi e più cosmopoliti della capitale tedesca. I cortili sono percorsi a partire

dal fronte urbano seguendo un percorso di scoperte continue fatto di ristoranti, atelier, associazioni

e teatri. Leggere il progetto di David Chipperfield in relazione a questa viva realtà urbana ne

aumenta il valore e la comprensione dell’importanza di questi vuoti interni al tessuto urbano.

Questo intervento nel corpo della città consolidata ha molto a che fare con il progetto che gli

Smithson costruirono per la sede dell’Economist a Londra e questa condizione rafforza il potenziale

parallelo tra due epoche storiche apparentemente distanti. La città entra all’interno dell’edificio, lo

feconda e acquisisce importanza proprio a partire dalla mutua relazione tra la dimensione pubblica e

la dimensiona privata del progetto.

Peter Smithson sostenne più volte che gli edifici generano un’energia relazionale sullo spazio che li

circonda e questo progetto di Chipperfield catalizza tale energia concretizzandola nei tre vuoti che

scandiscono il disegno progettuale.

Lo spazio “in-between” non ha qui la stessa condizione urbana di Regent’s street a Londra ma la

porosità e la qualità degli spazi che si vengono a creare è ugualmente forte. Questa nuova visione

permette anche di vedere nel sistema dei vuoti un momento per misurare i tempi della città e al

centro dell’isolato di Joachimstrasse, Chipperfield pone i suoi blocchi in relazione con una

presistenza di valore.

Un antico edificio in mattoni diviene un elemento con cui l’architetto inglese sceglie di dialogare,

costruendo attraverso i cortili, le strettoie e gli scorci una relazione interessante tra il

contemporaneo e l’antico. Senza uno spazio pubblico, senza lo svuotamento messo in atto da

Chipperfield il rapporto con questo edificio non potrebbe essere altrettanto profondo e anche in

questo caso il collegamento all’Economist building si fa molto stretto. Il lungo muro in mattoni del

Boodle’s club rimanda anche matericamente a questo antico edificio berlinese, che qui come a

Londra viene inglobato nel nuovo progetto di ricostruzione dell’isolato.

I legami tra l’epoca contemporanea e la generazione del Team X sono qui ancora piu evidenti che

nel precedente caso e testimoniano come il valore umano di percezione e comprensione del

paesaggio urbano sia assolutamente centrale e possa essere affrontato con la precisa progettazione

di spazi condivisi di qualità nei quali l’architettura stessa possa definire il proprio significato.

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Fig.32 Immagine del primo cortile interno del progetto, tratta dal sito “www.davidchipperfield.co.uk”

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RENZO PIANO

I nuovi edifici di St. Giles a Londra

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Ritorniamo nel centro di Londra, non troppo distanti dalla sede dell’Economist building, con un

lavoro inaugurato nel 2010 e progettato dall’architetto genovese Renzo Piano. Tra l’area di Covent

Garden ed Oxford street un colorato ed ampio edificio interrompe il susseguirsi di grigi condomini

terziari e residenziali. Il nuovo edificio prende il posto di una preesistenza molto poco accessibile

che la città scelse di demolire per i diversi problemi sociali che provocava. Piano si trovò ad

affrontare una situazione non facile dovuta all’ingente volumetria prevista per l’area e la vicinanza

con una delle aree più tradizionali di Londra, con le quali era importante costruire un dialogo per

evitare di ricadere nelle difficoltà dell’edificio preesistente. L’approccio di Piano fu quello di non

rinunciare alla densità urbana tipica di questa zona della città, scegliendo però di frammentare il

perimetro dell’edificio in una serie di facciate con angolazioni diverse per ridurre l’impatto sul

quartiere. L’aspetto di questo grande progetto che può essere davvero interessante per leggere

questo lavoro nel tessuto complesso della capitale inglese, è sicuramente la scelta dell’architetto di

tagliare con un’operazione quasi scultorea il volume dell’edificio in corrispondenza delle principali

direttrici circostanti. Piano vuole che il suo edificio partecipi alla vita della città e rifiuta la

possibilità di riempire completamente il lotto che gli venne affidato, preferendo l’idea di svuotare la

massa costruita per offrire un nuovo spazio pubblico in questa zona centrale di Londra. I temi di

accessibilità e fruibilità dell’edificio erano assolutamente centrali in questo lavoro e molto dello

sforzo dell’architetto genovese fu speso nella comprensione dei collegamenti pedonali che

attraversano quest’area di confine tra i diversi quartieri. Seguendo gli schizzi e il gran numero di

modelli volumetrici prodotti nella fase progettuale, è possibile rendersi conto che il disegno stesso

degli edifici è stato definito a partire dal vuoto centrale, una piazza pensata come un momento di

pausa all’interno di un percorso pedonale che fino ad allora non esisteva. Le colorate facciate in

elementi ceramici non toccano mai il livello del terreno ma si muovono ad un altezza variabile dai

quattro ai sei metri conferendo totale trasparenza al piano terra degli edifici dove Piano sceglie di

ubicare tutte le funzioni pubbliche e di accesso per quanto riguarda gli edifici destinati ad uffici

oltre a bar e ristoranti che potranno affacciarsi sul patio centrale oltre che sul fronte stradale.34

Una grande quercia destinata a crescere nel tempo è posta al centro dell’isolato quasi a sottolineare

il distacco dalla convulsa realtà urbana che Piano cerca in questo suo lavoro. Molti aspetti del

complesso di St. Giles rimandano alla sede dell’Economist degli Smithson, soprattutto il tentativo

riuscito di costruire un edificio in grado di scomporsi in unità diverse per definire un luogo

permeabile, fruibile e per questo legato alla vita dei cittadini. Il progetto di Piano è un esempio

chiarissimo dell’utilità che un vuoto può esprimere e dell’importanza che tale consapevolezza

ricopre nella ricostruzione delle nostre città.

34 Informazioni relative al progetto riferite alla conferenza tenutasi in occasione del cersaie di Bologna 2010 e disponibile attraverso il realtivo canale Youtube.

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Fig.33 Schizzo dell’arch. Piano relativo alla frammentazione del volume di progetto, tratto dal sito “www.rpbw.com”

Fig.34 Immagine del cortile interno, tratto dal sito “www.rpbw.com”

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CONCLUSIONI

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Non è pretesa di questo testo giungere a conclusioni definitive o chiarire una maniera corretta di

comprendere e analizzare la dimensione urbana del vuoto. Nello scorrere di soli sei esempi abbiamo

percepito la molteplicità di circostanze che questo tipo di lettura può generare.

Il vuoto come conquista di uno spazio umano nel caso degli Smithson, il vuoto come risposta ai

luoghi residuali e dimenticati come nel caso di Van Eyck e Chipperfield ed il vuoto come mezzo di

relazione visiva e culturale come nel caso di Cullen e Siza.

L’idea è quella di raggiungere una presa di coscienza che ci permetta di comprendere la qualità

degli spazi vuoti evitando di commettere uno degli errori più frequenti della pianificazione

contemporanea che ha spesso affrontato il disegno urbano con fitte distese di edifici incapaci di

generare un vero insieme urbano. Le città, come afferma Renzo Piano nell’intervista che introduce

al catalogo della mostra “Le città Visibili”, hanno nelle sorprese, in ciò che non ci aspettiamo e in

quello che non è stato completamente pianificato, alcune delle loro più affascinanti qualità.

“Quando si progetta una piazza in una città , non la si deve progettare in maniera troppo precisa,

perché la piazza è uno spazio vuoto e sono proprio questi spazi vuoti che nella realtà della vita

vengono riempiti con l’inaspettato, con le sorprese, con l’effimero e con i momenti delle

relazioni”35.

Piano insiste ancora sottolineando poi come la scelta di non progettare troppo i vuoti delle città

risponda alla natura stessa dei centri urbani, cosi da permettere a questi spazi di mutare nel tempo,

di rispondere alle nuove necessità e di consentire una delle principali azioni umane che sta nel

reciproco scambio tra le persone.36Oggi queste qualità degli spazi urbani sono più rarefatte e meno

leggibili; la società contemporanea non esprime più, come in passato, un modello culturale

preponderante traducibile nel costruito, ma al contrario risponde in modo disordinato alla

moltitudine culturale tipica del mondo globalizzato. Rifiutando, come espresso all’inizio, una

lettura nostalgica della questione urbana, tale diversificata e confusa dimensione culturale va

assunta come condizione con cui confrontarsi e a cui trovare adeguate risposte.

“Le nuove terminologie che si affacciano nel panorama culturale per descrivere le agglomerazioni,

quelli di città diffusa o di città continua, sono espressioni segnate dal disagio verso questa nuova

condizione”37.

35 Renzo Piano, Dialogo sulle città: un intervista tra Fulvio Irace e Renzo Piano, in “Le Città Visibili”, TriennaleElecta, Milano 2007 36 Ibidem 37 Mario Botta, Quasi un diario, Le lettere editore, Firenze, 2013, pp 28

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L’architetto Mario Botta riflette qui sulle città contemporanee, chiarendo che il vero problema di

questi nuovi modelli sta nel non rispondere alle caratteristiche basilari di una città, generando

paesaggi urbani nei quali si stanno erodendo i concetti di centro e contemporaneamente quello di

limite, inteso come definizione fisica chiara degli spazi di vita dell’uomo38. La città è lo spazio

della vita comunitaria, uno spazio sempre in trasformazione attraverso il tempo ma che oggi sta

perdendo la propria capacità di essere interprete delle condizioni del vivere contemporaneo. Tale

perdita ha tra le proprie cause l’erosione dei limiti di cui diceva Botta, una perdita che coinvolge

soprattutto lo spazio pubblico senza il quale una città perde la propria identità. Lo spazio pubblico

si costruisce proprio nella matrice dei vuoti e coglierne l’importanza e le potenzialità può essere una

opportunità molto forte per affrontare la costruzione delle città nel tempo della globalizzazione.

Il vuoto assume la propria qualità se definito da un chiaro sistema di pieni, per questo la reazione

alla perdita di tale comprensibilità portata dalla città diffusa, può ritrovarsi in un ritorno ai temi di

densità e compattezza. Costruire una nuova prossimità urbana, rifiutando la dispersione che la

nostra cultura oggi veicola, può essere un interessante elemento con cui lavorare per ritrovare una

vera qualità degli spazi di vita delle città. Gli spazi vuoti rappresentano uno degli ambiti progettuali

nei quali risiede il maggior potenziale di trasformazione delle condizioni urbane ed oltre ai temi di

qualità e di sviluppo delle città, questi possono essere uno strumento molto forte anche per ridurre i

fenomeni sempre più frequenti di disuguaglianze sociali, nelle quali un’attenta progettazione degli

spazi comunitari può giocare un ruolo molto importante. Come detto non si tratta di esprimere

soluzioni che da sole siano in grado di risolvere ogni questione, ma piuttosto di provare a

comprendere su quali basi costruire la nuova realtà che abbiamo davanti. L’ossessione

contemporanea di un risultato definitivo deve piuttosto essere sostituita dall’idea di sommare una

serie di trasformazioni coerenti che vadano tutte nella direzione di un progressivo miglioramento

della qualità dei nostri spazi di vita in comune. Una visione di questo genere ci può portare ad

affrontare i problemi delle nostre periferie, i drammi sociali delle megalopoli dei paesi emergenti e

l’anonimato di tutti quei luoghi dimenticati e degradati di qualunque città contemporanea.

L’interesse nei vuoti urbani risiede esattamente nella presa di coscienza che la comprensione della

loro importanza possa essere un fortissimo veicolo di trasformazione, basato su una maggiore

attenzione alle realtà meno evidenti ma in grado di migliorare davvero la vita delle persone.

“ Ci sono frammenti di città felici

che continuamente prendono forma e svaniscono, nascoste nelle città infelici ”39

38 Ibidem 39 Italo Calvino, Le città invisibili, Mondadori, Milano, 1996, pp 10

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TRE POSSIBILI PRINCIPI PROGETTUALI

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DENSITA’ e COMPATTEZZA

Aree di nuova urbanizzazione

PERMEABILITA’ e RELAZIONI

Interventi nel tessuto esistente

ORDINARE e LIBERARE

Aree sovrappopolate

Densità e prossimità rispetto alla generica dispersione provocata dall’urbanizzazione puntuale della città diffusa. Tale approccio permette di ripensare a una relazione tra i vuoti urbani in grado di riproporre le qualità spaziali che definiscono una città dalla dimensione rurale.

Intervenire sul tessuto ricostruendo le relazioni umane attraverso nuove aree verdi in grado di svelare la potenzialità di aree destinate a parcheggi o dimenticate. Un puntuale svuotamento di passaggi nel costruito può inoltre migliorare la circolazione perdonale esistente e l’inserimento di attività pubbliche come biblioteche o case di quartiere per attivare il vuoto.

Il vuoto può aiutare la vivibilità di insediamenti difficili come le favelas e gli slums, ad esempio per mezzo della conquista di aree libere ottenibili tramite la sovrapposizione in altezza delle attuali abitazioni poste una a fianco all’altra senza soluzione di continuità nella struttura dell’insediamento.

Città diffusa dispersione e assenza di spazi pubblici

Città compatta minor consumo di suolo e definizione di spazi comuni

Periferie urbane Blocchi dormitorio – vuoti come strade e parcheggi

Diffusione di nuove aree verdi e relazionali Perforazione precisa del tessuto per migliorarne la permeabilità

Inserimento di funzioni pubbliche Attivazione del vuoto – Pluralità di funzioni

Sovrapposizione e svuotamento delle unità Creazione di spazi di permeabilità e relazione

Decompressione del tessuto Puntuale liberazione di aree pubbliche

Insediamenti spontanei Densità eccessiva, insalubrità e poca vivibilità

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BIBLIOGRAFIA

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TESTI

- Basilico, Gabriele, Architetture, città, visioni, riflessioni sulla fotografia,

(Mondadori, Milano, 2007);

- Botta, Mario, Quasi un diario 2003-2013 (Firenze, Le Lettere, 2013);

- Byrne, Goncalo, Urbanidades,

(Madrid,Conde de fenosa Fund. Pedro Bairre de la Maza, 2009)

- Calvino, Italo, Le Città invisibili, (Milano, Mondadori, 1996);

- Calvino, Italo, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio,

(Milano, Mondadori, 2002);

- Cullen, Gordon, Townscape,(The Architectural Press, Londra, 1961);

- Espuelas.Fernando, Il vuoto riflessioni sullo spazio in architettura,

(edizioni Marinotti ,Milano 2004)

- Hobhouse,Nial e Hutton ,Louisa e Krucker, Bruno, Architecture is not made with the brain,

(Architectural Association, Londra, 2005);

- Nunes, Joao, Proap. Architettura del Paesaggio, (Note, Lisbona, 2010);

- Piano, Renzo, Le Città visibili, (TriennaleElecta, Milano, 2007);

- Siza, Alvaro, Chiado em Detalhe, (Verbo, Lisbona, 2013);

- Smithson,Allison and Peter, The Charged Void, (The Monacelli Press, New York, 2005);

- Solà-Morales, Ignasi, Territorios, (Gustavo Gilli, Barcelona, 2002);

RIVISTE E ARTICOLI

- Lotus International, no. 64, anno 1989, Milano

- Forum, no. 7, anno 1959, Amsterdam

- Arquitectura no 261, Madrid

- Irace, Fulvio, Learning from the Street, Politecnico di Milano

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Io sottoscritto studente PAOLO CATRAMBONE dichiaro che il presente elaborato teorico

è originale e che in esso sono state rispettate le norme della proprietà intellettuale.

Mendrisio, lì 25 Gennaio 2016