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Il teatro in epoca barocca Periodo artistico e letterario che va dal pieno classicismo del Cinquecento all'Arcadia e in genere, al razionalismo del primo Settecento. Panoramica PANORAMICA Un aspetto notevole del barocco è dato dal teatro, specialmente in Francia e, in parte, anche in Italia: con ricerca di fasto, di sensualità, di passioni scatenate, di scene orrende, di effetti mirabolanti, di sorprese. Si sviluppano i motivi del teatro del Rinascimento con lo studio delle passioni e la ricerca di effetti violenti, macabri o immorali anche in opere di tendenze moraleggianti. Orgoglio politico, passione sfrenata (anche da parte di donne) portati agli estremi spesso in uno scenario fastoso sono la “meraviglia” che deve tanto più “stupire” con lo spettacolo di teste troncate sulla scena, di riconoscimenti inaspettati, ecc. Tipiche opere teatrali barocche sono l' Ermenegildo di Emanuele Tesauro in Italia e, in Francia, Scédase di A. Hardy, Charite di Poullet, La Machabée di Virey du Gravier e Saint Vincent di Boissin de Gallardon. All'effetto visivo s'accompagna il linguaggio barocco dei personaggi sulla scena, mentre in opere più alte, con un linguaggio penetrante, seppure immaginifico, il tema centrale appare spesso nel gioco dei contrasti tra finzione e realtà, fra sogno e vita. Si pensi alla tragedia elisabettiana, a Shakespeare, a Racine, a Molière, a Calderón e alla sua celebre commedia La vida es sueño, e a tutto il teatro spagnolo. Dal nuovo mondo poetico e artistico sarebbero poi derivate regole per una nuova poetica; il gusto, a ogni modo, avrebbe sempre anticipato le norme. In tal modo il barocco faceva sua un'esigenza della poesia moderna, quella della creazione autonoma e spontanea, non escludeva nel suo profondo senso della natura quel tanto di edonistico che si rivela anche nelle costruzioni e nelle arti della casa e apriva la strada a tutte le esigenze della modernità, in una specie di lotta con il tempo. C'era la piena coscienza che anche le lettere e le arti fossero opera umana e, quindi, connesse con le vicende del mondo, con lo splendore delle scoperte e con l'attesa di nuove glorie. In tale esigenza il barocco è sentito dai moderni come un periodo storico che ha avuto nuovi sviluppi, perfino nell'età romantica: molti aspetti del Romanticismo e della poesia moderna si spiegano solo con le premesse del barocco. La commedia dell’arte ha grande fortuna e ottiene risultati positivi nel campo della recitazione e dell’evoluzione dell’attore, ad essa si accompagna un ritorno alla commedia costruita, completamente scritta, che definisce i caratteri e rinuncia alle maschere, e che attua una riforma artistica che portò nel teatro quel realismo già anticipato dal teatro di Molière fondendo la comicità ‘improvvisata’ della commedia dell’arte con l’osservazione attenta e critica della realtà e lo studio psicologico dei personaggi. Insistita passionalità di gusto barocco, unita a purezza formale e ad ambientazione classica, caratterizza, negli stessi anni di Molière, il teatro di Racine, raffinata espressione di un teatro colto e aristocratico. Alla fine del Cinquecento si inaugura in Inghilterra la grande stagione del teatro elisabettiano, caratterizzato da autori di eccezione quali B. Jonson, C. Marlowe e W. Shakespeare, al cui genio drammatico e linguistico il teatro elisabettiano deve il suo massimo sviluppo, ma anche dall’ampliamento del pubblico teatrale, che con il proprio gusto, le proprie fantasie e credenze partecipa alla creazione e al successo dell’opera. Tra il Seicento e il Settecento il popolo diviene G.F.

Il Teatro in Epoca Barocca

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letteratura italiana. evoluzione teatro in epoca barocca, molière, commedia dell'arte, goldoni.

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Il teatro in epoca barocca

Periodo artistico e letterario che va dal pieno classicismo del Cinquecento all'Arcadia e in

genere, al razionalismo del primo Settecento.

Panoramica

PANORAMICA

Un aspetto notevole del barocco è dato dal teatro, specialmente in Francia e, in parte, anche

in Italia: con ricerca di fasto, di sensualità, di passioni scatenate, di scene orrende, di effetti

mirabolanti, di sorprese.

Si sviluppano i motivi del teatro del Rinascimento con lo studio delle passioni e la ricerca di

effetti violenti, macabri o immorali anche in opere di tendenze moraleggianti.

Orgoglio politico, passione sfrenata (anche da parte di donne) portati agli estremi spesso in

uno scenario fastoso sono la “meraviglia” che deve tanto più “stupire” con lo spettacolo di teste

troncate sulla scena, di riconoscimenti inaspettati, ecc.

Tipiche opere teatrali barocche sono l'Ermenegildo di Emanuele Tesauro in Italia e, in

Francia, Scédase di A. Hardy, Charite di Poullet, La Machabée di Virey du Gravier e Saint

Vincent di Boissin de Gallardon.

All'effetto visivo s'accompagna il linguaggio barocco dei personaggi sulla scena, mentre in

opere più alte, con un linguaggio penetrante, seppure immaginifico, il tema centrale appare spesso

nel gioco dei contrasti tra finzione e realtà, fra sogno e vita. Si pensi alla tragedia elisabettiana,

a Shakespeare, a Racine, a Molière, a Calderón e alla sua celebre commedia La vida es sueño, e a

tutto il teatro spagnolo.

Dal nuovo mondo poetico e artistico sarebbero poi derivate regole per una nuova poetica; il

gusto, a ogni modo, avrebbe sempre anticipato le norme. In tal modo il barocco faceva sua

un'esigenza della poesia moderna, quella della creazione autonoma e spontanea, non escludeva nel

suo profondo senso della natura quel tanto di edonistico che si rivela anche nelle costruzioni e nelle

arti della casa e apriva la strada a tutte le esigenze della modernità, in una specie di lotta con il

tempo.

C'era la piena coscienza che anche le lettere e le arti fossero opera umana e, quindi,

connesse con le vicende del mondo, con lo splendore delle scoperte e con l'attesa di nuove glorie. In

tale esigenza il barocco è sentito dai moderni come un periodo storico che ha avuto nuovi sviluppi,

perfino nell'età romantica: molti aspetti del Romanticismo e della poesia moderna si spiegano solo

con le premesse del barocco.

La commedia dell’arte ha grande fortuna e ottiene risultati positivi nel campo della

recitazione e dell’evoluzione dell’attore, ad essa si accompagna un ritorno alla commedia

costruita, completamente scritta, che definisce i caratteri e rinuncia alle maschere, e che attua una

riforma artistica che portò nel teatro quel realismo già anticipato dal teatro di Molière fondendo la

comicità ‘improvvisata’ della commedia dell’arte con l’osservazione attenta e critica della realtà e lo

studio psicologico dei personaggi. Insistita passionalità di gusto barocco, unita a purezza formale

e ad ambientazione classica, caratterizza, negli stessi anni di Molière, il teatro di Racine, raffinata

espressione di un teatro colto e aristocratico.

Alla fine del Cinquecento si inaugura in Inghilterra la grande stagione del teatro

elisabettiano, caratterizzato da autori di eccezione quali B. Jonson, C. Marlowe e W. Shakespeare,

al cui genio drammatico e linguistico il teatro elisabettiano deve il suo massimo sviluppo, ma anche

dall’ampliamento del pubblico teatrale, che con il proprio gusto, le proprie fantasie e credenze

partecipa alla creazione e al successo dell’opera. Tra il Seicento e il Settecento il popolo diviene

G.F.

elemento preponderante nei corrales madrileni, nei teatri inglesi dell’epoca, e nelle sale parigine

miste, nei Théâtres de la Foire e in genere nelle rappresentazioni destinate alle classi più umili.

Il melodramma, nuova forma letteraria e musicale tipicamente italiana, si colloca nel teatro

settecentesco a palchetti, dove il pubblico si rinnova e amplifica, anche se rimangono sempre

divisioni gerarchiche e di casta, con la plebe in platea, i signori e gli assidui nei palchi, ai posti

d’onore e fin sul proscenio.

IN FRANCIA

Il teatro, che nella seconda metà del ‘600 conosce una delle sue più belle stagioni, ha grande

fortuna anche all’inizio. Nel 1637 P. Corneille rappresenta il Cid che, oltre a riportare un enorme

successo, provoca una celebre querelle poiché Corneille non ha impiegato le tre unità del teatro

classico (di tempo, di luogo e di azione). Nelle opere che seguono, Corneille si impegna a osservare

quelle regole, fino all’ultima, Suréna (1674). Fra i suoi contemporanei merita di essere ricordato

solo J. de Rotrou.

Il cosiddetto grand siècle, l’età di Luigi XIV, va collocato, per quanto riguarda la letteratura,

in un ventennio aureo (1660-80), in cui confluiscono e si saldano tutte le componenti che erano

venute delineandosi negli anni precedenti.

Le Fables di J. de La Fontaine, le commedie di Molière, le tragedie di J.-B. Racine, le

satire e le Epîtres di N. Boileau, i sermoni e le orazioni funebri di J.-B. Bossuet sono opere di

grandissimo rilievo.

Lo sfarzo e lo splendore di una società che ruota intorno alla reggia di Versailles

favoriscono l’osservazione dei costumi e dei sentimenti da parte dei moralisti, dei memorialisti e

di M.me de Sévigné (1626-1696). M.me de La Fayette crea con la Princesse de Clèves (1678) il

migliore romanzo del secolo e apre la strada al romanzo di analisi e psicologico; A.

Furetière (1620-1688) con il Roman bourgeois (1666) prelude al romanzo di costume e ‘borghese’,

insieme con P. Scarron e Cyrano de Bergerac.

L’età dell’oro si spegne progressivamente negli ultimi anni del secolo, anche per il rapido

cambiamento della situazione politica dopo la revoca dell’editto di Nantes.

IN SPAGNA

Nel Seicento la S., pur decadendo politicamente, si affranca dalla cultura italiana,

trasferendo i motivi rinascimentali sopravviventi, attraverso l’esperienza dell’età di Filippo II, nel

vivo di una forma barocca, che li restituisce, profondamente ispanizzati, a una vasta cerchia di

lettori europei.

La maturità della coscienza letteraria coincide con una delimitazione degli orizzonti

culturali: tramonto delle inquietudini eterodosse nell’irrigidirsi della Controriforma cattolica;

declino del neoplatonismo e dell’idealismo ascetico dinanzi al nuovo teologismo d’ispirazione

scolastica, con propaggini fino alla produzione teatrale e alla precettistica, che si fa tutta aristotelica;

ridimensionamento, infine, dell’utopia imperiale di Carlo V e del sogno di difesa armata della

cattolicità, che animava Filippo II.

La letteratura spagnola del Seicento è, nella maggioranza dei suoi aspetti, fondata

sull’intuizione di una crisi in atto.

Il teatro spagnolo del Seicento possiede anzitutto una straordinaria capacità assimilativa

rispetto agli altri generi letterari e nello stesso tempo esercita una grande funzione divulgatrice.

L’ampia fioritura teatrale del periodo è possibile perché non nasce solo dal dramma del

Cinquecento, ma dal concorso di tutti i generi e di ogni espressione letteraria tradizionale. In

questo senso, è assolutamente sorprendente in L. de Vega non solo la varietà e la molteplicità

dell’invenzione, ma anche la capacità continua della rifusione e dell’adattamento. Egli tuttavia

non elabora una vera e propria precettistica teatrale: il famoso poemetto sull’Arte nuevo de hacer

comedias en nuestro tiempo (1609) è più satira che teoria, testimonianza del bisogno di concretezza

e di contatto con il pubblico su cui si fonda l’intero teatro secentesco. Indubbiamente, il mondo

spirituale di L. de Vega è elementare, immobilmente dogmatico, la sua obbedienza ai principi della

Controriforma è istintiva e psicologica prima che religiosa e meditata. Ma L. de Vega e i suoi

imitatori trovano la loro indipendenza di poeti nell’immaginazione scenica, nel gusto delle grandi

ricostruzioni storiche, e perciò nella leggenda e nel mito liberamente rivissuti. Solo in un senso il

teatro secentesco può dirsi popolare: in quanto esso tende al leggendario, al religioso, all’eroico, e

sa coglierli nella loro elementarità; ma non è per questo meno intellettuale nell’ambizione letteraria

e nel gusto della rievocazione barocca. Quel L. de Vega che ha così vivo il senso della modernità

del dramma, non esita a immergersi nelle forme letterarie più accademiche, passando dalle più

fresche commedie (Fuenteovejuna, Peribánez, El Caballero de Olmedo) e dai romances alla poesia

epica della Dragontea (1598) o della Hermosura de Angélica (1602) e della Jerusalén conquistada

(1609). A questo profilo non si sottrae la sua grande produzione drammatica, altrettanto varia e

ambiziosa. Già a ridosso delle prime creazioni di L. de Vega, in L. de Vega stesso e nei suoi scolari,

buona parte del teatro spagnolo non è altro che mero intreccio, non vive che di continue variazioni

su tema. Fanno eccezione, per esempio, taluni entremeses, atti unici dall’azione rapida e

uniformemente impostata sul comico e talvolta sul farsesco, come quelli di Cervantes, e di L.

Quiñones de Benavente, o autos dallo spunto religioso candidamente ripreso dalla tradizione

biblica, come quelli di J. de Valdivielso e dello stesso L. de Vega; o ancora, nella cerchia della

commedia storica più vicina al maestro, alcuni artisti che si svincolano felicemente da lui, pur

riprendendo suoi temi, come G. de Castro, L. Vélez de Guevara, F. de Rojas Zorrilla. Più

spiccatamente originale la breve produzione di J. Ruiz de Alarcón (Las paredes oyen, La verdad

sospechosa); e soprattutto la vasta opera di Tirso de Molina, celebre come autore del Burlador de

Sevilla (1627), con cui ha inizio il mito di don Giovanni.

Anche P. Calderón de la Barca prende le mosse da L. de Vega, ma ben presto se ne

discosta. C’è in lui una maggior precisione e stringatezza dell’architettura drammatica: il gusto

della singola caratterizzazione, debole in L. de Vega, pronunciato in Tirso de Molina, si fa

perentorio in ogni sua commedia. Nella sua maturità, ormai lontano da L. de Vega, Calderón tende a

cimentarsi con forme speculative intorno ai problemi fondamentali dell’uomo e della religione:

tipico l’impegno sul problema del peccato, del libero arbitrio e della grazia. La vida es sueño è il

dramma tipico di uno stato di coscienza che sottintende la crisi di una cultura e di un’epoca;

dramma nel quale i personaggi, i luoghi e gli elementi della natura assumono un valore simbolico

della condizione umana. Negli ultimi decenni della sua carriera, fino alla morte (1681), Calderón

non scrisse più che rappresentazioni sacre, generalmente in un atto, i famosi autos, caratterizzati

da una religiosità pensosa e predicatoria.

MOLIÈRE

Jean-Baptiste Poquelin, detto Molière (Parigi 1622 - ivi 1673) fu un commediografo.

Assunse il nome d'arte di Molière dopo essersi dato al teatro.

Studiò a Parigi nel collegio di Clermont retto dai gesuiti; fece in seguito, gli studi di

diritto e seguì con ogni probabilità le lezioni del filosofo Gassendi.

Legatosi alla famiglia Béjart, in cui brillava la giovane Madeleine con la quale egli strinse

intima amicizia, nel 1643 costituì una compagnia comica sotto il nome di "Illustre Théâtre": l'esito

dell'impresa fu mediocre; due anni dopo era per due volte imprigionato per debiti allo Châtelet.

Liberato per l'intervento del padre, si recò con Madeleine a recitare in provincia, entrando in

contatto a Lione con le compagnie italiane che recitavano la commedia dell'arte. In quel periodo

scrisse molte farse, quasi per intero perdute, e due commedie, su modelli italiani,

L'étourdi (derivato dall'Inavvertito di M. Barbieri, detto Beltrame) e Le dépit amoureaux.

Nel 1658, tornato a Parigi con la sua compagnia, per la quale aveva ottenuto la protezione

del fratello di Luigi XIV, fu bene accolto dal pubblico, e rappresentò una commedia nuova, Les

précieuses ridicules (1659), vivace satira mondana e letteraria. Seguirono Sganarelle, ou Le cocu

imaginaire (1660), una commedia eroica che non ebbe successo, Dom Garcie de Navarre ou Le

prince jaloux (1661) e, lo stesso anno, L'école des maris e Les fâcheux.

Nel 1662, anno in cui sposò la ventenne Armande Béjart, sorella minore o forse figlia di

Madeleine (i nemici di Molière non esitarono a parlare di matrimonio incestuoso), portò sulle

scene L'école des femmes che è veramente il suo primo capolavoro, e suscitò, insieme con gli

applausi, un'ondata di critiche, libelli, parodie, cui replicò (1663) con la Critique de l'école des

femmes e con l'Impromptu de Versailles.

Ormai l'attività di M., come attore e poeta, si svolgeva sotto l'egida del Re Sole, che gli

dimostrò apertamente la sua benevolenza e la sua approvazione. Nel 1664 la corte applaudì due

"comédies-ballets" composte dal commediografo e, per la parte musicale, da G. B. Lulli, per ordine

del re: Le mariage forcé, rappresentato a Parigi, e La princesse d'Élide. Quest'ultima fu eseguita a

Versailles, nell'ambito dei festeggiamenti "Les plaisirs de l'île enchantée", affidati a Molière e alla

sua compagnia. In quell'occasione appare una commedia nuova, designata nelle relazioni del tempo

come Tartuffe o l'Hypocrite: la satira che l’autore rivolgeva contro i falsi devoti destò vive

opposizioni e la commedia non ebbe via libera se non nel 1669. Frattanto egli aveva fatto

rappresentare due commedie, Dom Juan ou le festin de pierre (1665) e Le misanthrope (1666),

un'altra comédie-ballet, L'amour médicin (1665) e la farsa Le médecin malgré lui (1666).

Col Tartuffe e il Misanthrope crea l'alta commedia di carattere e tocca il vertice della

sua arte; il Dom Juan, di un'andatura brusca, disuguale, talora persino sconnessa, ci lascia del

protagonista un'immagine statuaria, che s'accompagnò poi sempre alla fortuna di quella leggenda.

In seguito, prodigò la sua maestria in un teatro brillante, fantastico, sviluppando la

rappresentazione mitologica e la comédie-ballet, che riuscivano assai gradite al re, e nelle quali

sembrava egli stesso cercare una distrazione: Mélicerte, comédie pastorale héroïque e Le Sicilien

ou l'amour peintre (1666-67), l'elegante e spiritoso Amphitryon (1668). George Dandin (1668) è

una farsa in cui i tipi comici risultano incisi crudamente. L'Avare (1668), intessuto su uno dei

personaggi più fortunati della commedia classica, è scolpito con un rilievo possente e doloroso. E

sono di nuovo comédies-ballets: Monsieur de Pourceaugnac (1669), parodia della piccola nobiltà

provinciale, Les amants magnifiques (1670). Le bourgeois gentilhomme (1670), cui diede occasione

un'ambasciata orientale alla corte di Luigi XIV, delinea, in una delle più felici creazioni di Molière,

il ritratto di un mercante arricchito, di fondo bonario, ma tutto acceso di vanità. La "tragédie-

ballet" Psyché, verseggiata per gran parte da Corneille, si avvicina per il canto e le musiche, per la

varietà, la ricchezza delle scene e degli apparati, al nuovo teatro d'opera verso il quale già si

orientava il gusto del pubblico.

La salute di Molière, che era afflitto da un male incurabile, veniva peggiorando: egli non

rallentò le sue fatiche di capocomico, di commediante e di autore: diede ancora alle scene le

vivacissime Fourberies de Scapin (1671), un abbozzo di commedia, La comtesse

d'Escarbagnas (1671), un nuovo capolavoro, Les femmes savantes (1672), poi l'ultima comédie-

ballet, Le malade imaginaire (1673): morì poche ore dopo aver recitato, in questa commedia, la

parte di Argan, alla quarta rappresentazione.

Molière ha l'innata capacità di discernere nella realtà umana le zone più varie e più

precise dell'illusione comica; così nel groviglio dell'azione più agitata e confusa, come negli intimi

riflessi di una passione o di una mania, l'occhio, l'intuizione dell’autore, giungono fino all'estremo

limite, alle venature più lievi e delicate in cui possono insinuarsi il riso e la beffa.

Dapprima egli colse i gruppi di persone comiche, abbozzate con brio fra i lazzi della

commedia italiana, e si compiacque del gioco delle scene, delle stesse volgarità della farsa, della

tradizione delle maschere, che gli consentiva, su una psicologia sommaria ed elementare, di trarre in

piena luce le situazioni comiche più intense e colorite. Nelle Précieuses ridicules si avverte

qualcosa di nuovo, che sta, più che nel proposito di satira letteraria e mondana, in un primo

tentativo di penetrare nei caratteri comici, determinati da una contraddizione interiore, da una

finzione di vanità, da un errore iniziale, e talora inconsapevole, nell'immagine che ciascuno si crea

di sé stesso.

I contrasti intimi trovano il loro campo naturale e prediletto nei casi d'amore, negli errori

sentimentali o viziosi, nelle brame e nelle gelosie. Il dominio di quello spirito comico è assoluto,

implacabile; il distacco dai personaggi che si dibattono, si urtano, si congiungono e si tradiscono, è

completo: e quella schiera di figurine ridicole è così nitida, perché lo sguardo che le contempla non

è velato da nessun proposito di guidarle a un suo fine, da nessun risentimento che le accusi o le

difenda.

LA COMMEDIA DELL’ARTE

Genere teatrale nato in Italia alla metà del Cinquecento, e vivo fino alla fine del

Settecento.

Le sue caratteristiche, molto particolari, entusiasmarono il pubblico fin dalle origini: gli

attori professionisti non recitavano testi, ma improvvisavano i dialoghi in scena basandosi su

canovacci; vi erano 'tipi fissi', cioè personaggi che tornavano da uno spettacolo all'altro (come

Arlecchino, il Capitano, Brighella ecc.); alcuni dei personaggi portavano sul volto maschere di

cuoio e sulla scena si intrecciavano dialetti e lingue differenti.

IL 'COMMERCIO DEL TEATRO'

I primi esempi di cui rimanga testimonianza risalgono al 1550 ca. e sono atti di costituzione

di ‘compagnie dell’arte’ o notizie su spettacoli nelle corti venete o emiliane: è l'inizio di una

lunga storia che si prolungò non soltanto in Italia, ma anche in Francia, Spagna, Germania, Austria,

Inghilterra.

Precedentemente, gli spettacoli erano di tutt'altro tipo: acrobati, ciarlatani, narratori che

si esibivano in fiere o mercati, o durante il carnevale. Oppure si trattava di commedie o tragedie che

dilettanti colti (cioè persone che non vivevano del mestiere di attore) mettevano in scena cercando

di far rivivere il teatro greco e latino. A volte gli artisti erano giullari o buffoni, che vivevano nelle

diverse corti e coincidevano con il loro personaggio non per la durata di uno spettacolo, ma per tutta

la loro vita.

A metà del Cinquecento, persone di diversa provenienza sociale e con differenti

specializzazioni cominciarono a riunirsi per dar vita a spettacoli più complessi, che non erano

sostenuti da elargizioni e potevano essere 'comprati', non solo dall'aristocrazia ma anche da un

pubblico meno ricco, mediante la vendita di biglietti di ingresso.

Fu una grande rivoluzione, sia tecnica sia sociale: garantì alla gente di teatro una vita

dignitosa e costrinse a mettere a punto un modo nuovo di lavorare in scena.

TIPI FISSI E IMPROVVISAZIONE

Poiché il teatro dell'arte era in primo luogo un 'commercio', la necessità più importante

divenne quella di creare rapidamente spettacoli sempre diversi, improvvisando. A tal fine ogni

attore doveva raccogliere un insieme di battute, canzoni, brevi scenette comiche, monologhi, da

usare in più occasioni: un lavoro più facile se ogni attore si specializzava in un personaggio solo.

Questi tipi fissi erano costruiti in modo semplice: un costume, un dialetto, l'età e una condizione

sociale precisa, a volte il mestiere.

Non avevano la complessità dei personaggi inventati dagli scrittori, ma proprio per questo

potevano riapparire in storie sempre diverse, cambiando leggermente carattere.

Erano caratterizzazioni particolari che colpivano l'immaginazione del pubblico: costumi

bizzarri (come quello di Arlecchino), lingue non consuete (come lo spagnolo del Capitano), o

l'uso delle maschere, che li ricollegava a periodi di libertà come il carnevale.

DENOMINAZIONI

Per una più precisa definizione è opportuno registrare le varie denominazioni che questo

teatro ha avuto:

Commedia dell'Arte (arte nell'accezione medievale di mestiere): era un teatro di attori

professionisti, uomini e donne, organizzati in compagnie (i Gelosi, i Confidenti, gli Uniti, i

Desiosi, gli Accesi, i Fedeli, ecc.), protetti da nobili signori e maturati attraverso un duro periodo

di addestramento.

Commedia a soggetto (o all'improvviso), in cui non si recitavano commedie scritte, ma si

lavorava su uno scenario estremamente schematico (originale o derivato da un qualunque testo

letterario), da riempire con parole, gesti, movimenti (i cosiddetti lazzi, brevi scherzi mimici, che

erano i contributi estemporanei di maggiore efficacia dei singoli attori), qualche volta improvvisati

al momento, o più spesso elaborati nelle prove o nel quotidiano lavoro davanti ai pubblici più

diversi.

Commedia di maschere, in cui le situazioni svolte nei vari spettacoli erano quasi sempre

le stesse (fame e sesso come motivi dominanti), animate da un gruppo di personaggi più o meno

fissi. Si ebbero così due figure di vecchi: Pantalone, mercante veneziano moralista e segretamente

libidinoso, e il Dottore, pacioso bolognese con il gusto delle citazioni arzigogolate, della buona

cucina e delle donnine compiacenti; una servetta, Colombina, vispa e intrigante; il Capitano,

spesso di origine spagnola, spaccone e vigliacco; due coppie di innamorati eleganti e sospirosi; e

infine, e soprattutto, due servi, o zanni (Zanni, probabile corruzione di Giovanni, era il nome che si

dava a Venezia agli uomini di fatica, provenienti in genere dalle valli bergamasche). Erano questi

ultimi i motori autentici degli spettacoli dell'arte: acrobati abilissimi, inventori inesauribili di lazzi,

perennemente pronti a intrigare, a menare o ricevere botte, ad aguzzare l'ingegno per placare una

fame di generazioni. Col tempo si distinse lo zanni sciocco (Arlecchino) dallo zanni furbo

(Brighella), ma la distinzione non fu sempre valida, mentre si registrarono innumerevoli varianti:

da Brighella, per esempio, derivarono Pulcinella, Scapino e Pierrot. Alcuni di questi personaggi

ritornano anche in commedie scritte, in particolare in quelle di C. Gozzi e C. Goldoni.

Commedia all'italiana, infine, perché in

Italia nacque e qui cessò di esistere, nello

splendido tramonto settecentesco della

Serenissima, dopo aver improntato di sé due secoli

di teatro europeo.

MASCHERE

Pantalone:

Maschera veneziana fra le più antiche

della Commedia dell'Arte, testimoniata fin dalla

metà del Cinquecento, che trae forse il nome da S.

Pantaleone, uno dei patroni di Venezia.

In uno scenario del 1568 appare già col

cognome “de' Bisognosi”, ma inizialmente era

chiamato anche Magnifico. Il cognome esprime

uno dei lati del carattere della maschera: la

dipendenza dal danaro, che si manifesta sotto

forma di avarizia o più raramente di prodigalità, di

ricchezza, o, a volte, di povertà. Inoltre il vecchio

mercante Pantalone è pedante e conservatore,

dispotico, ancora pieno di sterili slanci amorosi:

è soprattutto un vecchio cadente che vuole simulare la gioventù. La sua comicità deriva proprio dal

contrasto fra l'età avanzata e gli inesprimibili aneliti giovanili.

Con il Goldoni la figura di Pantalone si umanizza, gli eccessi del carattere sono attenuati e

spesso il suo danaro può rimediare alle intemperanze dei giovani. I colori del costume severo sono

il rosso e il nero, concepiti quasi simbolicamente a esprimere la duplicità della maschera. Da

principio portava lunghi calzoni (che vennero appunto chiamati pantaloni), più tardi fermati al

ginocchio. Un lungo naso adunco e un'appuntita barbetta caratterizzano il suo volto.

Il primo Pantalone fu Giulio Pasquati (sec. XVI-XVII), cui seguirono, in Italia e in Francia,

altri importanti interpreti, fra cui Ricci, Braga (sec. XVII), D'Arbes (sec. XVIII) e, in tempi

moderni, Cesco Baseggio.

Arlecchino:

Le origini del nome sono incerte e su di esse

sono state formulate ipotesi disparate. Tra i possibili

punti di riferimento vi sono gli Herlequins o

Hellequins, diavoli-buffoni del teatro medievale

francese; ma si è ricordato fra l'altro anche il diavolo

dantesco Alichino.

L'introduzione in Italia del personaggio pare sia

dovuta ad Alberto Naselli, noto come Zan Ganassa, il

quale lavorando in Francia e in Spagna in qualità

di Zanni (tipo di servo ridicolo) vi raccolse la tradizione

del diavolo-buffone e la fuse con la tradizione italiana

dell'uomo selvatico, mescolante insieme “paganità e

natura” (M. Apollonio).

Il personaggio di Arlecchino è quello del servo

sciocco e linguacciuto, che “porta al mondo rumoroso e

carnascialesco nel quale viene inserito la semplicità e la

rozzezza della campagna, la furberia animalesca del

proprio cervello contadino, ma di quella campagna anche

il mistero e la naturalezza” (Vito Pandolfi). La sua balordaggine si accompagna tuttavia con

un'arguzia che si alimenta delle colorite risorse della parlata veneta, non priva di influenze del

contado bergamasco, con una ricchezza di giochi mimici e acrobatici e con movenze quasi da

balletto; caratterizzano esteriormente la sua figura l'abito a toppe multicolori, la maschera di

cuoio dall'espressione ghignante e la spatola. Tutti questi elementi hanno concorso a fare di

Arlecchino la più popolare e durevole delle maschere, ispiratrice, dopo la grande fioritura della

Commedia dell'Arte, di scrittori come Goldoni (Arlecchino servitore di due padroni, ecc.)

e Marivaux.

Se il contatto con la civiltà francese spinse il Biancolelli a rendere più aggraziata la

stilizzazione del personaggio, il Gherardi mirò invece a fare di Arlecchino il portavoce delle

preoccupazioni sociali che si andavano diffondendo. La tradizione arlecchinesca è stata prolungata

fino al sec. XX da attori come l'esemplare Marcello Moretti, che fu attivo al Piccolo Teatro di

Milano (del suo Arlecchino rimane testimonianza filmata).

Ispiratore anche di poeti e musicisti (F. Busoni), Arlecchino, quale maschera per eccellenza,

ha stimolato la fantasia di grandi pittori, da Watteau a Picasso e Severini.

Alla “famiglia” di Arlecchino appartengono numerose maschere minori (Truffaldino,

Traccagnino, ecc.).

Brighella:

D'origine bergamasca, deriva il nome da brigare: brigare in mille modi, ma sempre con furbizia e

senza cattiveria, è infatti il destino di Brighella, servo astuto e fedele.

Il costume, una specie di livrea bianca a righe verdi, discende da quello dello Zanni. La

maschera ebbe larga diffusione a partire dalla metà del Seicento e compare in molte commedie

di Goldoni.

È poi entrato nell’uso comune ad indicare persona astuta e intrigante; anche buffone,

pagliaccio: “non fare il brighella!”

Pulcinella:

Ebbe la sua maggior fortuna nei sec. XVII e

XVIII nei teatri napoletani e romani, nonché a Parigi.

Il nome sembra derivare dalla forma dialettale

napoletana “pollicino” (pulcino) con cui venivano

chiamati i giullari che si servivano di una pivetta per

rendere chioccia la voce.

La maschera nera adottata da Pulcinella, con il

naso adunco, può ricordare l'animale. Il costume

tradizionale è quello degli abitanti del contado

napoletano, costituito da un ampio camiciotto bianco,

stretto in vita e rimborsato sui fianchi, con larghi

pantaloni bianchi, cappello a cono, anch'esso bianco.

La nascita di Pulcinella segnò l'avvento di una

comicità napoletana, contrapposta, in una felice e

dinamica libertà espressiva, a quella, che può dirsi

padana, delle altre maschere. Il carattere, infatti, si

presenta orientato piuttosto verso una comicità disincantata e spensierata, in cui notevole parte

viene lasciata alla mimica e alla danza.

Interessante è la straordinaria disponibilità verso il mondo esterno che Pulcinella esprime

passando attraverso i più complicati e paradossali avvenimenti.

Primo eccezionale interprete di Pulcinella fu Silvio Fiorillo. Altri famosi interpreti

furono Michelangelo Fracanzano, che probabilmente l'introdusse in Francia nel 1685, dove assunse

il nome di Polichinelle, e Andrea Calcese, detto Ciuccio, nel sec. XVII; Vincenzo, Filippo e

Giuseppe Cammarano, il romano Bartolomeo Cavallucci nel Settecento; Pasquale Altavilla,

Salvatore e Antonio Petito, Giuseppe de Martino

nell'Ottocento e, nel Novecento, Ettore

Petrolini, Achille Millo, Eduardo De Filippo.

Intorno alla maschera prese vita un tipo

di composizione detta “pulcinellata”,

difficilmente definibile sul piano letterario,

molto in voga dal Seicento all'Ottocento.

Pierrot:

Maschera teatrale francese, originata alla

fine del sec. XVII dalla trasformazione

di Pedrolino. Non porta maschera e indossa

un'ampia giacca bianca su calzoni bianchi.

Pierrot, la cui derivazione dallo Zanni è

evidente, nacque soprattutto dalla necessità di

contrapporre all'astuta e frenetica dialettica

dell'Arlecchino di D. Biancolelli un tipo di

servo ingenuo, moralista, sentimentale.

La fortuna di Pierrot fu viva fino alla

prima metà del sec. XIX, grazie a interpreti

d'eccezione, tra cui il mimo J.-B. Deburau, che

diede a Pierrot una dimensione umana e

romantica, accrescendone il fascino patetico e nostalgico, basato su una mimica dolce ed

espressiva. Altri interpreti di Pierrot furono P. Legrand, Kal pestri, Séverin e J. L. Barrault nel

film Amanti perduti di M. Carné.

CARLO GOLDONI

Commediografo (Venezia 1707 - Parigi 1793).

Mostrò assai presto una viva inclinazione per il teatro, componendo

verso i nove anni una commediola e prediligendo nelle sue letture gli autori

comici.

Nel 1719 seguì il padre, medico, a Perugia, ove studiò 3 anni nel

collegio dei gesuiti. Poi il padre passò a Chioggia e lasciò Carlo

a Rimini a studiare filosofia; ma il giovanetto tornò presto a casa al seguito

di una compagnia di comici (1721). Nel 1723 fu messo a Pavia nel collegio

Ghislieri per proseguire gli studi legali; ma nel terzo anno fu cacciato dal

collegio per una satira contro le ragazze pavesi, Il colosso; si laureò solo nel 1731, a Padova, dopo

aver occupato l'ufficio di coadiutore della Cancelleria criminale a Chioggia e a Feltre.

In attesa di clienti, scrisse un almanacco satirico e un melodramma (Amalasunta, 1732), che

poi bruciò. Dopo altre occupazioni e peregrinazioni in Lombardia e in Emilia, incontrò a Verona la

compagnia veneziana del teatro di San Samuele, diretta da G. Imer, col quale tornò a Venezia,

impegnandosi a scrivere per i teatri di proprietà del patrizio Michele Grimani.

Del 1734 è il suo primo trionfo scenico, col dramma popolare Belisario, cui seguirono altre

mediocri tragicommedie di soggetto popolare in endecasillabi, mentre nelle farse per musica che le

accompagnavano, e in alcuni "intermezzi" da lui in quegli anni composti, cominciava a

manifestarsi l'acutezza del suo spirito di osservazione.

Nel 1736, trovandosi a Genova, s'innamorò di Nicoletta Connio, giovane figlia di un notaio,

e la sposò: fu un matrimonio felice, anche se senza figli.

Del 1738 è Mòmolo cortesan, di cui scrisse soltanto la parte del protagonista: era il primo

passo verso quella riforma del teatro, che egli vagheggiava, e che tendeva a sostituire commedie

"di carattere" e di ambiente ai canovacci, spesso solo buffoneschi, della decaduta commedia

dell'arte.

Dal 1741 al 1743 ebbe anche l'incarico di console della repubblica di Genova a Venezia,

ch'egli disimpegnò con molta cura, ma che lo ingolfò in molte noie e spese, senza alcun compenso.

Al 1743 appartengono il dramma giocoso La contessina, una pungente rappresentazione

dell'albagia di certa nobiltà, e La donna di garbo, la prima commedia che scrisse interamente, nella

quale, se vivi ancora sono gli artifici della commedia dell'arte, la figura della protagonista ha già

una certa umana vitalità.

Afflitto da debiti e ingannato nella buona fede, fu costretto nello stesso anno a lasciare

Venezia e ad andar vagando qua e là, finché, accolto festosamente a Pisa, dove fu fatto pastore

d'Arcadia col nome di Polisseno Fegeio, s'indusse a esercitarvi dal 1745 al 1748 la professione di

avvocato: anni felici che più tardi rimpianse. Ma di quegli anni è anche la celebre commedia Il

servitore di due padroni, scritta per il famoso Truffaldino, G. A. Sacco.

Nel 1748 non seppe resistere agli inviti del capocomico G. Medebach, o, per dir meglio, alla

sua vocazione; tornato a Venezia, si diede tutto al teatro. Il 26 dic. di quello stesso anno

cominciava, al teatro Sant'Angelo, la serie dei suoi trionfi con La vedova scaltra; cui seguirono, tra

il 1748 e il 1753, alcune delle sue più note e felici commedie (Il cavaliere e la dama, La famiglia

dell'antiquario, Le femmine puntigliose, La bottega del caffè, Il bugiardo, I pettegolezzi delle

donne, La moglie saggia, Le donne gelose, Le donne curiose, La serva amorosa, La locandiera).

Al 1750 risale la ben nota promessa, poi mantenuta, di scrivere in un anno sedici commedie

nuove.

Nel 1753, separatosi da Medebach, firmò un nuovo contratto con A. Vendramin, proprietario

del teatro di San Luca. Medebach, divenutogli apertamente nemico, assunse per il Sant'Angelo

l'abate P. Chiari, che fin dal 1749 faceva rappresentare, con successo, al teatro San Samuele,

drammi raffazzonati da romanzi francesi e inglesi, e commedie veneziane che rubacchiava a

Goldoni col pretesto di correggerle.

Si formarono allora due partiti teatrali, dei chiaristi e dei goldonisti; e Goldoni, per

accontentare il pubblico, fu costretto per qualche tempo, con sua grande amarezza, a ricercare

continue e bizzarre novità, nelle commedie storiche e in quelle orientali (Terenzio, Torquato

Tasso, Il filosofo inglese, Il medico olandese, La dalmatina, La bella selvaggia, La peruviana, La

sposa persiana, ecc.: quest'ultima specialmente applaudita); ma ogni carnevale Goldoni portava sul

palcoscenico una commedia veneziana. E in quel mondo pittoresco dei gondolieri, delle lavandaie,

dei "paroni di tartana", delle "massère" (serve di casa), delle rivendugliole, delle "rampignone"

(donne che risparmiano), dei merciai, si dispiega sovrana l'arte di Goldoni: ricordiamo alcune

mirabili scene delle Massere, delle Donne de casa soa e del Campiello.

Ormai la gloria di Goldoni era assicurata: le edizioni delle sue commedie si esaurivano

rapidamente; si cominciava a tradurlo e recitarlo anche all'estero; riconoscimenti gli venivano da

principi e letterati italiani. Ma non erano cessate per lui le lotte e le amarezze.

Nel 1757 C. Gozzi, e per estrosità di carattere e per amore del passato, sorse contro Chiari e

Goldoni con l'almanacco satirico La tartana degl'influssi per l'anno bisestile 1756, accusandoli di

essere cattivi scrittori e autori di testi immorali.

Nel novembre del 1758, su invito dell'impresario del teatro di Tordinona, Goldoni si recò

a Roma; ma dopo 7 mesi tornò deluso in patria. E qui tra la fine del 1759 e il febbraio del 1762,

malgrado la lotta dei suoi nemici, con inesauribile ricchezza di vena continuò a creare altre

commedie famose e alcuni capolavori (Gl'innamorati, I rusteghi, Un curioso accidente, la trilogia

della Villeggiatura, La casa nuova, Sior Tòdero brontolon, Le baruffe chiozzotte).

Decise di lasciare Venezia nell'aprile del 1762 per Parigi, dove era stato chiamato per

sollevare con nuove produzioni le sorti del teatro della Comédie-Italienne, che andava decadendo.

Ma anche lì dovette lottare con i comici che non volevano imparare le commedie scritte e

col pubblico affezionato al gioco buffonesco delle maschere, onde fu costretto a scrivere per lo

più degli scenari.

Liberatosi da questo impegno, Goldoni ottenne l'incarico di insegnante di lingua italiana

della figlia di Luigi XV, e poi delle sorelle di Luigi XVI. Ne ricavò una modesta pensione.

Nel 1771 fece recitare alla Comédie-Française Le bourru bienfaisant, ch'ebbe notevolissimo

successo.

Ma soffriva di vari acciacchi, era quasi cieco, e la pensione appena gli bastava. E anche

questa gli fu tolta nel 1792; ammalatosi, morì nella miseria.

Solo il giorno dopo la sua morte un decreto della Convenzione, su proposta di J.-M. Chénier,

gli restituiva, troppo tardi, la pensione. Le sue ossa andarono disperse.

Nell'opera riformatrice di Goldoni riconosciamo la presenza di una gioconda fantasia e di

un sicuro istinto teatrale, ma nella sua arte si riflettono gli echi della profonda crisi che travaglia

la civiltà settecentesca, sia che egli metta in scena le consuetudini e i contrasti delle diverse classi

sociali, sia che tragga ispirazione dalla vita della sua Venezia e dai costumi del suo popolo laborioso

e "civil", ma anche amante delle burle e dei divertimenti.

Scrisse più di 200 tra commedie, tragedie, tragicommedie, intermezzi, melodrammi

(musicati da Galuppi, Piccinni, Paisiello, Mozart, Haydn, Sacchini, ecc.), ma la sua gloria è legata

solo alle commedie. Importanti però sono anche i suoi Mémoires, che cominciò a scrivere nel 1784

e compì e pubblicò nel 1787, uno dei più piacevoli libri del sec. 18°.

La personalità e l'ambiente di Goldoni attorno al 1749-50 furono abilmente rievocati da P.

Ferrari nella commedia, divenuta presto popolare, Goldoni e le sue sedici commedie nuove (1852).

LA RIFORMA DEL TEATRO COMICO

Nel processo di valorizzazione della lingua italiana che caratterizza il Settecento un ruolo

importante è svolto dal teatro per la centralità sociale, mondana e culturale che esso acquista nel

corso del secolo.

Il rinnovamento portato dall’Arcadia rispetto alle proliferazioni del teatro barocco aveva

interessato soprattutto il melodramma e la tragedia; nel teatro comico invece faceva ancora presa sul

pubblico la commedia dell’arte con «le sue sconce arlecchinate, laidi e scandalosi amoreggiamenti e

motteggi; favole mal inventate e peggio condotte, senza costume, senza ordine» (Goldoni,

Prefazione alla prima raccolta delle sue Commedie, in Tutte le opere, vol. 3°, p. 1252).

Di qui la necessità di una riforma che mettesse al centro dello spettacolo il testo e i

caratteri sulla base del «vero» e della «naturalezza del dire».

Un problema dunque di forma e di linguaggio: se nel melodramma la parola è assistita

dalla musica, e se la tragedia può contare su un linguaggio aulico adeguato al suo registro elevato,

la commedia manca ancora di un linguaggio atto a raccontare il quotidiano.

La sfida goldoniana fu quella di costruire un linguaggio drammatico che fosse «imitazione

delle persone che parlano», un linguaggio da costruire rivoluzionando le regole e la pratica del

genere comico, affidando la commedia non più al mero intreccio e ai facili effetti della recitazione

all’improvviso, ma al ‘carattere’ del personaggio e alla verosimiglianza delle situazioni,

innovando in questo modo il rapporto tra autore e pubblico e tra autore e scena.

Per raggiungere lo scopo, occorreva sottrarre la materia alla libera gestione dei comici,

imponendo il rispetto di un testo scritto e rinnovando la materia, andando ad attingere

«direttamente all’immenso serbatoio della vita reale di uomini comuni, traendo spunto dai loro

particolari caratteri […] come dalle effimere burrasche della vita quotidiana» (Stussi 1998: 887).

Occorreva poi difendere il testo della commedia e la sua autorialità, fissandolo nella

forma stabile del libro: operazione che comportava una sua revisione nel passaggio dal copione per

la scena al libro per la lettura (Pieri 1995: 904). E attraverso le successive edizioni delle commedie,

dalla prima raccolta (Venezia, Bettinelli, 1750-1752), alla successiva (Firenze, Paperini, 1753-

1755), fino alla stampa definitiva (Venezia, Pasquali, 1761-1778), Goldoni procedette a una

progressiva decantazione degli elementi scenici più condizionati dalla rappresentazione in vista di

una destinazione per un pubblico il più possibile italiano ed europeo (Pieri 1991; Scannapieco

2001): oltre a eliminare o attenuare le forme dialettali o a dotarle di chiose, intervenne

sull’italiano per correggerne certi tratti morfologici dell’uso corrente e sostituirli con quelli dell’uso

letterario; per es., sistematico è il passaggio da -o ad -a della desinenza della prima persona

dell’imperfetto indicativo (avevo → aveva), e la sostituzione dei pronomi soggetto lui, lei con egli,

ella, due fenomeni tipici nella differenziazione dei livelli di italiano a partire dal Cinquecento.

Nel passaggio alla stampa i testi vedono dunque una rielaborazione in direzione più

letteraria, ma, per la natura stessa del teatro, di una letterarietà distinta dal linguaggio

umanistico della letteratura, perché la commedia appunto è «una imitazione delle persone, che

parlano, più di quelle che scrivono», come afferma lo stesso Goldoni nella presentazione

all’edizione Paperini, destinata a esporre la sua riforma a livello nazionale. Qui rivendica di essere

«un poeta comico» e non un «accademico della Crusca» e di essersi pertanto «servito del linguaggio

più comune, rispetto all’universale italiano» (Teatro, vol. 3°, p. 1285), dove per «universale

italiano» s’intende l’italiano degli scrittori, la lingua illuministica governata dai dotti. E, nella

definitiva edizione Pasquali, nel presentare le commedie dichiara di «purgarle, per quanto può, dai

difetti di lingua», ma di scrivere «quel Toscano che usavasi a’ tempi del Boccaccio, del Berni e

d’altri simili di quella classe, ma come scrivono i Toscani de’ giorni nostri, quali si

vergognerebbono di usare que’ riboboli che sono rancidi e della plebe, e abbisognano di commento

e di spiegazione per gli stranieri non solo, ma ancora per la maggior parte degl’Italiani» (Tutte le

opere, vol. 1°, pp. 621-757).

Si avverte in questa dichiarazione un riflesso delle contemporanee polemiche sulla norma

della lingua nazionale tra puristi e modernisti o liberisti, i quali ultimi difendono il principio di

comprensibilità dell’italiano, cui si attiene Goldoni nel voler «essere inteso in Toscana, in

Lombardia, in Venezia», e da spettatori colti e incolti.

La ricerca della naturalezza espressiva cui mirava Goldoni andava realizzata non

ripudiando della commedia dell’arte il patrimonio di esperienze ancora vive (Romagnoli 1983:

130), ma rinnovandolo dall’interno, trasformando le vecchie maschere in personaggi dai

connotati sociali e umani riconoscibili.

Riguardo alla lingua, dalle «meccaniche caratterizzazioni plurilinguistiche» si passa «a una

libera scelta, come tra pari, dell’italiano o del veneziano, in funzione degli ambienti rappresentati e

della destinazione delle commedie» (Stussi 1998: 927).

Il programma riformatore di Goldoni occupò tutta la sua esistenza, una vita per il teatro, da

lui stesso narrata nei tardi Mémoires in un’idealizzazione della propria vicenda teatrale. Dopo un

lungo apprendistato di canovacci, tragedie e testi per musica, intermezzi e drammi giocosi, musicati

da insigni compositori (Galuppi, Paisiello, Cimarosa, Mozart), che fecero di Goldoni il più influente

librettista comico del Settecento, approdato al suo primo impegno stabile con il teatro Sant’Angelo,

Goldoni avviò dunque quella riforma del teatro maturata anche durante il soggiorno in Toscana,

dove aveva assistito alle commedie di Fagiuoli, di Gigli e di Nelli, opere certo di respiro

provinciale, ma che egli considerava «testi vivi della buona lingua toscana».

Nella Prefazione alla prima edizione delle sue commedie l’autore affermò di aver preso a

«Maestri» il Mondo e il Teatro, l’uno per i tanti e vari caratteri, l’altro per i «colori» con i quali «si

debban rappresentar sulle scene i caratteri, le passioni, gli avvenimenti che nel libro del Mondo si

leggono». E continuava: «Quanto alla lingua ho creduto di non dover farmi scrupolo d’usar molte

frasi e voci Lombarde, giacché ad intelligenza anche della plebe più bassa che vi concorre,

principalmente nelle Lombarde città dovevano rappresentarsi le mie Commedie». Inoltre, diceva di

avere aggiunto «qualche noterella» ad «alcuni vernacoli Veneziani» nelle commedie «scritte

apposta per Venezia mia Patria» e che «il Dottore che recitando parla in lingua Bolognese, parla qui

nella volgare Italiana» (Teatro, vol. 3°, pp. 1255-1258).

LA SCELTA DEL FRANCESE

Nei Mémoires l’autore trova «una sua perfetta misura comunicativa» (Folena 1983: 367),

grazie a quel francese che, impostosi nel corso del Settecento come lingua internazionale ed

entrato nel parlato familiare delle classi nobili e borghesi in Lombardia e nel Veneto, si

presentava come lingua per eccellenza della prosa e della conversazione.

Nel teatro di Goldoni il francese compare accanto all’italiano e al veneziano ora in

funzione giocosa e parodica, ora nel rendere i modi della conversazione mondana.

La sua presenza interferisce con l’italiano teatrale goldoniano, modellandone l’impianto

dialogico, fortemente paratattico, agile e sciolto, e il lessico, con l’assunzione di francesismi più o

meno adattati a seconda dei contesti borghesi o popolari.

La competenza goldoniana del francese, soprattutto orale ed esente da preoccupazioni

ortografiche o letterarie, si perfeziona nel soggiorno parigino, come mostrano le commedie in

francese, in particolare il Bourru bienfaisant, «veramente pensate secondo lo spirito francese» e

scritte in un francese «sincronico, sensibile all’uso» (Folena 1983: 385).

E anche nei Mémoires, composti a partire dal 1783, la scelta del francese – un francese

colloquiale, disinvolto, ma anche approssimativo – risponde alla volontà di rivolgersi al pubblico

del momento nella sua propria lingua, secondo quella esigenza pragmatica di comunicatività che

ha sempre guidato Goldoni.

Da: http://www.treccani.it/enciclopedia

e http://www.sapere.it/enciclopedia