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letteratura italiana. evoluzione teatro in epoca barocca, molière, commedia dell'arte, goldoni.
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Il teatro in epoca barocca
Periodo artistico e letterario che va dal pieno classicismo del Cinquecento all'Arcadia e in
genere, al razionalismo del primo Settecento.
Panoramica
PANORAMICA
Un aspetto notevole del barocco è dato dal teatro, specialmente in Francia e, in parte, anche
in Italia: con ricerca di fasto, di sensualità, di passioni scatenate, di scene orrende, di effetti
mirabolanti, di sorprese.
Si sviluppano i motivi del teatro del Rinascimento con lo studio delle passioni e la ricerca di
effetti violenti, macabri o immorali anche in opere di tendenze moraleggianti.
Orgoglio politico, passione sfrenata (anche da parte di donne) portati agli estremi spesso in
uno scenario fastoso sono la “meraviglia” che deve tanto più “stupire” con lo spettacolo di teste
troncate sulla scena, di riconoscimenti inaspettati, ecc.
Tipiche opere teatrali barocche sono l'Ermenegildo di Emanuele Tesauro in Italia e, in
Francia, Scédase di A. Hardy, Charite di Poullet, La Machabée di Virey du Gravier e Saint
Vincent di Boissin de Gallardon.
All'effetto visivo s'accompagna il linguaggio barocco dei personaggi sulla scena, mentre in
opere più alte, con un linguaggio penetrante, seppure immaginifico, il tema centrale appare spesso
nel gioco dei contrasti tra finzione e realtà, fra sogno e vita. Si pensi alla tragedia elisabettiana,
a Shakespeare, a Racine, a Molière, a Calderón e alla sua celebre commedia La vida es sueño, e a
tutto il teatro spagnolo.
Dal nuovo mondo poetico e artistico sarebbero poi derivate regole per una nuova poetica; il
gusto, a ogni modo, avrebbe sempre anticipato le norme. In tal modo il barocco faceva sua
un'esigenza della poesia moderna, quella della creazione autonoma e spontanea, non escludeva nel
suo profondo senso della natura quel tanto di edonistico che si rivela anche nelle costruzioni e nelle
arti della casa e apriva la strada a tutte le esigenze della modernità, in una specie di lotta con il
tempo.
C'era la piena coscienza che anche le lettere e le arti fossero opera umana e, quindi,
connesse con le vicende del mondo, con lo splendore delle scoperte e con l'attesa di nuove glorie. In
tale esigenza il barocco è sentito dai moderni come un periodo storico che ha avuto nuovi sviluppi,
perfino nell'età romantica: molti aspetti del Romanticismo e della poesia moderna si spiegano solo
con le premesse del barocco.
La commedia dell’arte ha grande fortuna e ottiene risultati positivi nel campo della
recitazione e dell’evoluzione dell’attore, ad essa si accompagna un ritorno alla commedia
costruita, completamente scritta, che definisce i caratteri e rinuncia alle maschere, e che attua una
riforma artistica che portò nel teatro quel realismo già anticipato dal teatro di Molière fondendo la
comicità ‘improvvisata’ della commedia dell’arte con l’osservazione attenta e critica della realtà e lo
studio psicologico dei personaggi. Insistita passionalità di gusto barocco, unita a purezza formale
e ad ambientazione classica, caratterizza, negli stessi anni di Molière, il teatro di Racine, raffinata
espressione di un teatro colto e aristocratico.
Alla fine del Cinquecento si inaugura in Inghilterra la grande stagione del teatro
elisabettiano, caratterizzato da autori di eccezione quali B. Jonson, C. Marlowe e W. Shakespeare,
al cui genio drammatico e linguistico il teatro elisabettiano deve il suo massimo sviluppo, ma anche
dall’ampliamento del pubblico teatrale, che con il proprio gusto, le proprie fantasie e credenze
partecipa alla creazione e al successo dell’opera. Tra il Seicento e il Settecento il popolo diviene
G.F.
elemento preponderante nei corrales madrileni, nei teatri inglesi dell’epoca, e nelle sale parigine
miste, nei Théâtres de la Foire e in genere nelle rappresentazioni destinate alle classi più umili.
Il melodramma, nuova forma letteraria e musicale tipicamente italiana, si colloca nel teatro
settecentesco a palchetti, dove il pubblico si rinnova e amplifica, anche se rimangono sempre
divisioni gerarchiche e di casta, con la plebe in platea, i signori e gli assidui nei palchi, ai posti
d’onore e fin sul proscenio.
IN FRANCIA
Il teatro, che nella seconda metà del ‘600 conosce una delle sue più belle stagioni, ha grande
fortuna anche all’inizio. Nel 1637 P. Corneille rappresenta il Cid che, oltre a riportare un enorme
successo, provoca una celebre querelle poiché Corneille non ha impiegato le tre unità del teatro
classico (di tempo, di luogo e di azione). Nelle opere che seguono, Corneille si impegna a osservare
quelle regole, fino all’ultima, Suréna (1674). Fra i suoi contemporanei merita di essere ricordato
solo J. de Rotrou.
Il cosiddetto grand siècle, l’età di Luigi XIV, va collocato, per quanto riguarda la letteratura,
in un ventennio aureo (1660-80), in cui confluiscono e si saldano tutte le componenti che erano
venute delineandosi negli anni precedenti.
Le Fables di J. de La Fontaine, le commedie di Molière, le tragedie di J.-B. Racine, le
satire e le Epîtres di N. Boileau, i sermoni e le orazioni funebri di J.-B. Bossuet sono opere di
grandissimo rilievo.
Lo sfarzo e lo splendore di una società che ruota intorno alla reggia di Versailles
favoriscono l’osservazione dei costumi e dei sentimenti da parte dei moralisti, dei memorialisti e
di M.me de Sévigné (1626-1696). M.me de La Fayette crea con la Princesse de Clèves (1678) il
migliore romanzo del secolo e apre la strada al romanzo di analisi e psicologico; A.
Furetière (1620-1688) con il Roman bourgeois (1666) prelude al romanzo di costume e ‘borghese’,
insieme con P. Scarron e Cyrano de Bergerac.
L’età dell’oro si spegne progressivamente negli ultimi anni del secolo, anche per il rapido
cambiamento della situazione politica dopo la revoca dell’editto di Nantes.
IN SPAGNA
Nel Seicento la S., pur decadendo politicamente, si affranca dalla cultura italiana,
trasferendo i motivi rinascimentali sopravviventi, attraverso l’esperienza dell’età di Filippo II, nel
vivo di una forma barocca, che li restituisce, profondamente ispanizzati, a una vasta cerchia di
lettori europei.
La maturità della coscienza letteraria coincide con una delimitazione degli orizzonti
culturali: tramonto delle inquietudini eterodosse nell’irrigidirsi della Controriforma cattolica;
declino del neoplatonismo e dell’idealismo ascetico dinanzi al nuovo teologismo d’ispirazione
scolastica, con propaggini fino alla produzione teatrale e alla precettistica, che si fa tutta aristotelica;
ridimensionamento, infine, dell’utopia imperiale di Carlo V e del sogno di difesa armata della
cattolicità, che animava Filippo II.
La letteratura spagnola del Seicento è, nella maggioranza dei suoi aspetti, fondata
sull’intuizione di una crisi in atto.
Il teatro spagnolo del Seicento possiede anzitutto una straordinaria capacità assimilativa
rispetto agli altri generi letterari e nello stesso tempo esercita una grande funzione divulgatrice.
L’ampia fioritura teatrale del periodo è possibile perché non nasce solo dal dramma del
Cinquecento, ma dal concorso di tutti i generi e di ogni espressione letteraria tradizionale. In
questo senso, è assolutamente sorprendente in L. de Vega non solo la varietà e la molteplicità
dell’invenzione, ma anche la capacità continua della rifusione e dell’adattamento. Egli tuttavia
non elabora una vera e propria precettistica teatrale: il famoso poemetto sull’Arte nuevo de hacer
comedias en nuestro tiempo (1609) è più satira che teoria, testimonianza del bisogno di concretezza
e di contatto con il pubblico su cui si fonda l’intero teatro secentesco. Indubbiamente, il mondo
spirituale di L. de Vega è elementare, immobilmente dogmatico, la sua obbedienza ai principi della
Controriforma è istintiva e psicologica prima che religiosa e meditata. Ma L. de Vega e i suoi
imitatori trovano la loro indipendenza di poeti nell’immaginazione scenica, nel gusto delle grandi
ricostruzioni storiche, e perciò nella leggenda e nel mito liberamente rivissuti. Solo in un senso il
teatro secentesco può dirsi popolare: in quanto esso tende al leggendario, al religioso, all’eroico, e
sa coglierli nella loro elementarità; ma non è per questo meno intellettuale nell’ambizione letteraria
e nel gusto della rievocazione barocca. Quel L. de Vega che ha così vivo il senso della modernità
del dramma, non esita a immergersi nelle forme letterarie più accademiche, passando dalle più
fresche commedie (Fuenteovejuna, Peribánez, El Caballero de Olmedo) e dai romances alla poesia
epica della Dragontea (1598) o della Hermosura de Angélica (1602) e della Jerusalén conquistada
(1609). A questo profilo non si sottrae la sua grande produzione drammatica, altrettanto varia e
ambiziosa. Già a ridosso delle prime creazioni di L. de Vega, in L. de Vega stesso e nei suoi scolari,
buona parte del teatro spagnolo non è altro che mero intreccio, non vive che di continue variazioni
su tema. Fanno eccezione, per esempio, taluni entremeses, atti unici dall’azione rapida e
uniformemente impostata sul comico e talvolta sul farsesco, come quelli di Cervantes, e di L.
Quiñones de Benavente, o autos dallo spunto religioso candidamente ripreso dalla tradizione
biblica, come quelli di J. de Valdivielso e dello stesso L. de Vega; o ancora, nella cerchia della
commedia storica più vicina al maestro, alcuni artisti che si svincolano felicemente da lui, pur
riprendendo suoi temi, come G. de Castro, L. Vélez de Guevara, F. de Rojas Zorrilla. Più
spiccatamente originale la breve produzione di J. Ruiz de Alarcón (Las paredes oyen, La verdad
sospechosa); e soprattutto la vasta opera di Tirso de Molina, celebre come autore del Burlador de
Sevilla (1627), con cui ha inizio il mito di don Giovanni.
Anche P. Calderón de la Barca prende le mosse da L. de Vega, ma ben presto se ne
discosta. C’è in lui una maggior precisione e stringatezza dell’architettura drammatica: il gusto
della singola caratterizzazione, debole in L. de Vega, pronunciato in Tirso de Molina, si fa
perentorio in ogni sua commedia. Nella sua maturità, ormai lontano da L. de Vega, Calderón tende a
cimentarsi con forme speculative intorno ai problemi fondamentali dell’uomo e della religione:
tipico l’impegno sul problema del peccato, del libero arbitrio e della grazia. La vida es sueño è il
dramma tipico di uno stato di coscienza che sottintende la crisi di una cultura e di un’epoca;
dramma nel quale i personaggi, i luoghi e gli elementi della natura assumono un valore simbolico
della condizione umana. Negli ultimi decenni della sua carriera, fino alla morte (1681), Calderón
non scrisse più che rappresentazioni sacre, generalmente in un atto, i famosi autos, caratterizzati
da una religiosità pensosa e predicatoria.
MOLIÈRE
Jean-Baptiste Poquelin, detto Molière (Parigi 1622 - ivi 1673) fu un commediografo.
Assunse il nome d'arte di Molière dopo essersi dato al teatro.
Studiò a Parigi nel collegio di Clermont retto dai gesuiti; fece in seguito, gli studi di
diritto e seguì con ogni probabilità le lezioni del filosofo Gassendi.
Legatosi alla famiglia Béjart, in cui brillava la giovane Madeleine con la quale egli strinse
intima amicizia, nel 1643 costituì una compagnia comica sotto il nome di "Illustre Théâtre": l'esito
dell'impresa fu mediocre; due anni dopo era per due volte imprigionato per debiti allo Châtelet.
Liberato per l'intervento del padre, si recò con Madeleine a recitare in provincia, entrando in
contatto a Lione con le compagnie italiane che recitavano la commedia dell'arte. In quel periodo
scrisse molte farse, quasi per intero perdute, e due commedie, su modelli italiani,
L'étourdi (derivato dall'Inavvertito di M. Barbieri, detto Beltrame) e Le dépit amoureaux.
Nel 1658, tornato a Parigi con la sua compagnia, per la quale aveva ottenuto la protezione
del fratello di Luigi XIV, fu bene accolto dal pubblico, e rappresentò una commedia nuova, Les
précieuses ridicules (1659), vivace satira mondana e letteraria. Seguirono Sganarelle, ou Le cocu
imaginaire (1660), una commedia eroica che non ebbe successo, Dom Garcie de Navarre ou Le
prince jaloux (1661) e, lo stesso anno, L'école des maris e Les fâcheux.
Nel 1662, anno in cui sposò la ventenne Armande Béjart, sorella minore o forse figlia di
Madeleine (i nemici di Molière non esitarono a parlare di matrimonio incestuoso), portò sulle
scene L'école des femmes che è veramente il suo primo capolavoro, e suscitò, insieme con gli
applausi, un'ondata di critiche, libelli, parodie, cui replicò (1663) con la Critique de l'école des
femmes e con l'Impromptu de Versailles.
Ormai l'attività di M., come attore e poeta, si svolgeva sotto l'egida del Re Sole, che gli
dimostrò apertamente la sua benevolenza e la sua approvazione. Nel 1664 la corte applaudì due
"comédies-ballets" composte dal commediografo e, per la parte musicale, da G. B. Lulli, per ordine
del re: Le mariage forcé, rappresentato a Parigi, e La princesse d'Élide. Quest'ultima fu eseguita a
Versailles, nell'ambito dei festeggiamenti "Les plaisirs de l'île enchantée", affidati a Molière e alla
sua compagnia. In quell'occasione appare una commedia nuova, designata nelle relazioni del tempo
come Tartuffe o l'Hypocrite: la satira che l’autore rivolgeva contro i falsi devoti destò vive
opposizioni e la commedia non ebbe via libera se non nel 1669. Frattanto egli aveva fatto
rappresentare due commedie, Dom Juan ou le festin de pierre (1665) e Le misanthrope (1666),
un'altra comédie-ballet, L'amour médicin (1665) e la farsa Le médecin malgré lui (1666).
Col Tartuffe e il Misanthrope crea l'alta commedia di carattere e tocca il vertice della
sua arte; il Dom Juan, di un'andatura brusca, disuguale, talora persino sconnessa, ci lascia del
protagonista un'immagine statuaria, che s'accompagnò poi sempre alla fortuna di quella leggenda.
In seguito, prodigò la sua maestria in un teatro brillante, fantastico, sviluppando la
rappresentazione mitologica e la comédie-ballet, che riuscivano assai gradite al re, e nelle quali
sembrava egli stesso cercare una distrazione: Mélicerte, comédie pastorale héroïque e Le Sicilien
ou l'amour peintre (1666-67), l'elegante e spiritoso Amphitryon (1668). George Dandin (1668) è
una farsa in cui i tipi comici risultano incisi crudamente. L'Avare (1668), intessuto su uno dei
personaggi più fortunati della commedia classica, è scolpito con un rilievo possente e doloroso. E
sono di nuovo comédies-ballets: Monsieur de Pourceaugnac (1669), parodia della piccola nobiltà
provinciale, Les amants magnifiques (1670). Le bourgeois gentilhomme (1670), cui diede occasione
un'ambasciata orientale alla corte di Luigi XIV, delinea, in una delle più felici creazioni di Molière,
il ritratto di un mercante arricchito, di fondo bonario, ma tutto acceso di vanità. La "tragédie-
ballet" Psyché, verseggiata per gran parte da Corneille, si avvicina per il canto e le musiche, per la
varietà, la ricchezza delle scene e degli apparati, al nuovo teatro d'opera verso il quale già si
orientava il gusto del pubblico.
La salute di Molière, che era afflitto da un male incurabile, veniva peggiorando: egli non
rallentò le sue fatiche di capocomico, di commediante e di autore: diede ancora alle scene le
vivacissime Fourberies de Scapin (1671), un abbozzo di commedia, La comtesse
d'Escarbagnas (1671), un nuovo capolavoro, Les femmes savantes (1672), poi l'ultima comédie-
ballet, Le malade imaginaire (1673): morì poche ore dopo aver recitato, in questa commedia, la
parte di Argan, alla quarta rappresentazione.
Molière ha l'innata capacità di discernere nella realtà umana le zone più varie e più
precise dell'illusione comica; così nel groviglio dell'azione più agitata e confusa, come negli intimi
riflessi di una passione o di una mania, l'occhio, l'intuizione dell’autore, giungono fino all'estremo
limite, alle venature più lievi e delicate in cui possono insinuarsi il riso e la beffa.
Dapprima egli colse i gruppi di persone comiche, abbozzate con brio fra i lazzi della
commedia italiana, e si compiacque del gioco delle scene, delle stesse volgarità della farsa, della
tradizione delle maschere, che gli consentiva, su una psicologia sommaria ed elementare, di trarre in
piena luce le situazioni comiche più intense e colorite. Nelle Précieuses ridicules si avverte
qualcosa di nuovo, che sta, più che nel proposito di satira letteraria e mondana, in un primo
tentativo di penetrare nei caratteri comici, determinati da una contraddizione interiore, da una
finzione di vanità, da un errore iniziale, e talora inconsapevole, nell'immagine che ciascuno si crea
di sé stesso.
I contrasti intimi trovano il loro campo naturale e prediletto nei casi d'amore, negli errori
sentimentali o viziosi, nelle brame e nelle gelosie. Il dominio di quello spirito comico è assoluto,
implacabile; il distacco dai personaggi che si dibattono, si urtano, si congiungono e si tradiscono, è
completo: e quella schiera di figurine ridicole è così nitida, perché lo sguardo che le contempla non
è velato da nessun proposito di guidarle a un suo fine, da nessun risentimento che le accusi o le
difenda.
LA COMMEDIA DELL’ARTE
Genere teatrale nato in Italia alla metà del Cinquecento, e vivo fino alla fine del
Settecento.
Le sue caratteristiche, molto particolari, entusiasmarono il pubblico fin dalle origini: gli
attori professionisti non recitavano testi, ma improvvisavano i dialoghi in scena basandosi su
canovacci; vi erano 'tipi fissi', cioè personaggi che tornavano da uno spettacolo all'altro (come
Arlecchino, il Capitano, Brighella ecc.); alcuni dei personaggi portavano sul volto maschere di
cuoio e sulla scena si intrecciavano dialetti e lingue differenti.
IL 'COMMERCIO DEL TEATRO'
I primi esempi di cui rimanga testimonianza risalgono al 1550 ca. e sono atti di costituzione
di ‘compagnie dell’arte’ o notizie su spettacoli nelle corti venete o emiliane: è l'inizio di una
lunga storia che si prolungò non soltanto in Italia, ma anche in Francia, Spagna, Germania, Austria,
Inghilterra.
Precedentemente, gli spettacoli erano di tutt'altro tipo: acrobati, ciarlatani, narratori che
si esibivano in fiere o mercati, o durante il carnevale. Oppure si trattava di commedie o tragedie che
dilettanti colti (cioè persone che non vivevano del mestiere di attore) mettevano in scena cercando
di far rivivere il teatro greco e latino. A volte gli artisti erano giullari o buffoni, che vivevano nelle
diverse corti e coincidevano con il loro personaggio non per la durata di uno spettacolo, ma per tutta
la loro vita.
A metà del Cinquecento, persone di diversa provenienza sociale e con differenti
specializzazioni cominciarono a riunirsi per dar vita a spettacoli più complessi, che non erano
sostenuti da elargizioni e potevano essere 'comprati', non solo dall'aristocrazia ma anche da un
pubblico meno ricco, mediante la vendita di biglietti di ingresso.
Fu una grande rivoluzione, sia tecnica sia sociale: garantì alla gente di teatro una vita
dignitosa e costrinse a mettere a punto un modo nuovo di lavorare in scena.
TIPI FISSI E IMPROVVISAZIONE
Poiché il teatro dell'arte era in primo luogo un 'commercio', la necessità più importante
divenne quella di creare rapidamente spettacoli sempre diversi, improvvisando. A tal fine ogni
attore doveva raccogliere un insieme di battute, canzoni, brevi scenette comiche, monologhi, da
usare in più occasioni: un lavoro più facile se ogni attore si specializzava in un personaggio solo.
Questi tipi fissi erano costruiti in modo semplice: un costume, un dialetto, l'età e una condizione
sociale precisa, a volte il mestiere.
Non avevano la complessità dei personaggi inventati dagli scrittori, ma proprio per questo
potevano riapparire in storie sempre diverse, cambiando leggermente carattere.
Erano caratterizzazioni particolari che colpivano l'immaginazione del pubblico: costumi
bizzarri (come quello di Arlecchino), lingue non consuete (come lo spagnolo del Capitano), o
l'uso delle maschere, che li ricollegava a periodi di libertà come il carnevale.
DENOMINAZIONI
Per una più precisa definizione è opportuno registrare le varie denominazioni che questo
teatro ha avuto:
Commedia dell'Arte (arte nell'accezione medievale di mestiere): era un teatro di attori
professionisti, uomini e donne, organizzati in compagnie (i Gelosi, i Confidenti, gli Uniti, i
Desiosi, gli Accesi, i Fedeli, ecc.), protetti da nobili signori e maturati attraverso un duro periodo
di addestramento.
Commedia a soggetto (o all'improvviso), in cui non si recitavano commedie scritte, ma si
lavorava su uno scenario estremamente schematico (originale o derivato da un qualunque testo
letterario), da riempire con parole, gesti, movimenti (i cosiddetti lazzi, brevi scherzi mimici, che
erano i contributi estemporanei di maggiore efficacia dei singoli attori), qualche volta improvvisati
al momento, o più spesso elaborati nelle prove o nel quotidiano lavoro davanti ai pubblici più
diversi.
Commedia di maschere, in cui le situazioni svolte nei vari spettacoli erano quasi sempre
le stesse (fame e sesso come motivi dominanti), animate da un gruppo di personaggi più o meno
fissi. Si ebbero così due figure di vecchi: Pantalone, mercante veneziano moralista e segretamente
libidinoso, e il Dottore, pacioso bolognese con il gusto delle citazioni arzigogolate, della buona
cucina e delle donnine compiacenti; una servetta, Colombina, vispa e intrigante; il Capitano,
spesso di origine spagnola, spaccone e vigliacco; due coppie di innamorati eleganti e sospirosi; e
infine, e soprattutto, due servi, o zanni (Zanni, probabile corruzione di Giovanni, era il nome che si
dava a Venezia agli uomini di fatica, provenienti in genere dalle valli bergamasche). Erano questi
ultimi i motori autentici degli spettacoli dell'arte: acrobati abilissimi, inventori inesauribili di lazzi,
perennemente pronti a intrigare, a menare o ricevere botte, ad aguzzare l'ingegno per placare una
fame di generazioni. Col tempo si distinse lo zanni sciocco (Arlecchino) dallo zanni furbo
(Brighella), ma la distinzione non fu sempre valida, mentre si registrarono innumerevoli varianti:
da Brighella, per esempio, derivarono Pulcinella, Scapino e Pierrot. Alcuni di questi personaggi
ritornano anche in commedie scritte, in particolare in quelle di C. Gozzi e C. Goldoni.
Commedia all'italiana, infine, perché in
Italia nacque e qui cessò di esistere, nello
splendido tramonto settecentesco della
Serenissima, dopo aver improntato di sé due secoli
di teatro europeo.
MASCHERE
Pantalone:
Maschera veneziana fra le più antiche
della Commedia dell'Arte, testimoniata fin dalla
metà del Cinquecento, che trae forse il nome da S.
Pantaleone, uno dei patroni di Venezia.
In uno scenario del 1568 appare già col
cognome “de' Bisognosi”, ma inizialmente era
chiamato anche Magnifico. Il cognome esprime
uno dei lati del carattere della maschera: la
dipendenza dal danaro, che si manifesta sotto
forma di avarizia o più raramente di prodigalità, di
ricchezza, o, a volte, di povertà. Inoltre il vecchio
mercante Pantalone è pedante e conservatore,
dispotico, ancora pieno di sterili slanci amorosi:
è soprattutto un vecchio cadente che vuole simulare la gioventù. La sua comicità deriva proprio dal
contrasto fra l'età avanzata e gli inesprimibili aneliti giovanili.
Con il Goldoni la figura di Pantalone si umanizza, gli eccessi del carattere sono attenuati e
spesso il suo danaro può rimediare alle intemperanze dei giovani. I colori del costume severo sono
il rosso e il nero, concepiti quasi simbolicamente a esprimere la duplicità della maschera. Da
principio portava lunghi calzoni (che vennero appunto chiamati pantaloni), più tardi fermati al
ginocchio. Un lungo naso adunco e un'appuntita barbetta caratterizzano il suo volto.
Il primo Pantalone fu Giulio Pasquati (sec. XVI-XVII), cui seguirono, in Italia e in Francia,
altri importanti interpreti, fra cui Ricci, Braga (sec. XVII), D'Arbes (sec. XVIII) e, in tempi
moderni, Cesco Baseggio.
Arlecchino:
Le origini del nome sono incerte e su di esse
sono state formulate ipotesi disparate. Tra i possibili
punti di riferimento vi sono gli Herlequins o
Hellequins, diavoli-buffoni del teatro medievale
francese; ma si è ricordato fra l'altro anche il diavolo
dantesco Alichino.
L'introduzione in Italia del personaggio pare sia
dovuta ad Alberto Naselli, noto come Zan Ganassa, il
quale lavorando in Francia e in Spagna in qualità
di Zanni (tipo di servo ridicolo) vi raccolse la tradizione
del diavolo-buffone e la fuse con la tradizione italiana
dell'uomo selvatico, mescolante insieme “paganità e
natura” (M. Apollonio).
Il personaggio di Arlecchino è quello del servo
sciocco e linguacciuto, che “porta al mondo rumoroso e
carnascialesco nel quale viene inserito la semplicità e la
rozzezza della campagna, la furberia animalesca del
proprio cervello contadino, ma di quella campagna anche
il mistero e la naturalezza” (Vito Pandolfi). La sua balordaggine si accompagna tuttavia con
un'arguzia che si alimenta delle colorite risorse della parlata veneta, non priva di influenze del
contado bergamasco, con una ricchezza di giochi mimici e acrobatici e con movenze quasi da
balletto; caratterizzano esteriormente la sua figura l'abito a toppe multicolori, la maschera di
cuoio dall'espressione ghignante e la spatola. Tutti questi elementi hanno concorso a fare di
Arlecchino la più popolare e durevole delle maschere, ispiratrice, dopo la grande fioritura della
Commedia dell'Arte, di scrittori come Goldoni (Arlecchino servitore di due padroni, ecc.)
e Marivaux.
Se il contatto con la civiltà francese spinse il Biancolelli a rendere più aggraziata la
stilizzazione del personaggio, il Gherardi mirò invece a fare di Arlecchino il portavoce delle
preoccupazioni sociali che si andavano diffondendo. La tradizione arlecchinesca è stata prolungata
fino al sec. XX da attori come l'esemplare Marcello Moretti, che fu attivo al Piccolo Teatro di
Milano (del suo Arlecchino rimane testimonianza filmata).
Ispiratore anche di poeti e musicisti (F. Busoni), Arlecchino, quale maschera per eccellenza,
ha stimolato la fantasia di grandi pittori, da Watteau a Picasso e Severini.
Alla “famiglia” di Arlecchino appartengono numerose maschere minori (Truffaldino,
Traccagnino, ecc.).
Brighella:
D'origine bergamasca, deriva il nome da brigare: brigare in mille modi, ma sempre con furbizia e
senza cattiveria, è infatti il destino di Brighella, servo astuto e fedele.
Il costume, una specie di livrea bianca a righe verdi, discende da quello dello Zanni. La
maschera ebbe larga diffusione a partire dalla metà del Seicento e compare in molte commedie
di Goldoni.
È poi entrato nell’uso comune ad indicare persona astuta e intrigante; anche buffone,
pagliaccio: “non fare il brighella!”
Pulcinella:
Ebbe la sua maggior fortuna nei sec. XVII e
XVIII nei teatri napoletani e romani, nonché a Parigi.
Il nome sembra derivare dalla forma dialettale
napoletana “pollicino” (pulcino) con cui venivano
chiamati i giullari che si servivano di una pivetta per
rendere chioccia la voce.
La maschera nera adottata da Pulcinella, con il
naso adunco, può ricordare l'animale. Il costume
tradizionale è quello degli abitanti del contado
napoletano, costituito da un ampio camiciotto bianco,
stretto in vita e rimborsato sui fianchi, con larghi
pantaloni bianchi, cappello a cono, anch'esso bianco.
La nascita di Pulcinella segnò l'avvento di una
comicità napoletana, contrapposta, in una felice e
dinamica libertà espressiva, a quella, che può dirsi
padana, delle altre maschere. Il carattere, infatti, si
presenta orientato piuttosto verso una comicità disincantata e spensierata, in cui notevole parte
viene lasciata alla mimica e alla danza.
Interessante è la straordinaria disponibilità verso il mondo esterno che Pulcinella esprime
passando attraverso i più complicati e paradossali avvenimenti.
Primo eccezionale interprete di Pulcinella fu Silvio Fiorillo. Altri famosi interpreti
furono Michelangelo Fracanzano, che probabilmente l'introdusse in Francia nel 1685, dove assunse
il nome di Polichinelle, e Andrea Calcese, detto Ciuccio, nel sec. XVII; Vincenzo, Filippo e
Giuseppe Cammarano, il romano Bartolomeo Cavallucci nel Settecento; Pasquale Altavilla,
Salvatore e Antonio Petito, Giuseppe de Martino
nell'Ottocento e, nel Novecento, Ettore
Petrolini, Achille Millo, Eduardo De Filippo.
Intorno alla maschera prese vita un tipo
di composizione detta “pulcinellata”,
difficilmente definibile sul piano letterario,
molto in voga dal Seicento all'Ottocento.
Pierrot:
Maschera teatrale francese, originata alla
fine del sec. XVII dalla trasformazione
di Pedrolino. Non porta maschera e indossa
un'ampia giacca bianca su calzoni bianchi.
Pierrot, la cui derivazione dallo Zanni è
evidente, nacque soprattutto dalla necessità di
contrapporre all'astuta e frenetica dialettica
dell'Arlecchino di D. Biancolelli un tipo di
servo ingenuo, moralista, sentimentale.
La fortuna di Pierrot fu viva fino alla
prima metà del sec. XIX, grazie a interpreti
d'eccezione, tra cui il mimo J.-B. Deburau, che
diede a Pierrot una dimensione umana e
romantica, accrescendone il fascino patetico e nostalgico, basato su una mimica dolce ed
espressiva. Altri interpreti di Pierrot furono P. Legrand, Kal pestri, Séverin e J. L. Barrault nel
film Amanti perduti di M. Carné.
CARLO GOLDONI
Commediografo (Venezia 1707 - Parigi 1793).
Mostrò assai presto una viva inclinazione per il teatro, componendo
verso i nove anni una commediola e prediligendo nelle sue letture gli autori
comici.
Nel 1719 seguì il padre, medico, a Perugia, ove studiò 3 anni nel
collegio dei gesuiti. Poi il padre passò a Chioggia e lasciò Carlo
a Rimini a studiare filosofia; ma il giovanetto tornò presto a casa al seguito
di una compagnia di comici (1721). Nel 1723 fu messo a Pavia nel collegio
Ghislieri per proseguire gli studi legali; ma nel terzo anno fu cacciato dal
collegio per una satira contro le ragazze pavesi, Il colosso; si laureò solo nel 1731, a Padova, dopo
aver occupato l'ufficio di coadiutore della Cancelleria criminale a Chioggia e a Feltre.
In attesa di clienti, scrisse un almanacco satirico e un melodramma (Amalasunta, 1732), che
poi bruciò. Dopo altre occupazioni e peregrinazioni in Lombardia e in Emilia, incontrò a Verona la
compagnia veneziana del teatro di San Samuele, diretta da G. Imer, col quale tornò a Venezia,
impegnandosi a scrivere per i teatri di proprietà del patrizio Michele Grimani.
Del 1734 è il suo primo trionfo scenico, col dramma popolare Belisario, cui seguirono altre
mediocri tragicommedie di soggetto popolare in endecasillabi, mentre nelle farse per musica che le
accompagnavano, e in alcuni "intermezzi" da lui in quegli anni composti, cominciava a
manifestarsi l'acutezza del suo spirito di osservazione.
Nel 1736, trovandosi a Genova, s'innamorò di Nicoletta Connio, giovane figlia di un notaio,
e la sposò: fu un matrimonio felice, anche se senza figli.
Del 1738 è Mòmolo cortesan, di cui scrisse soltanto la parte del protagonista: era il primo
passo verso quella riforma del teatro, che egli vagheggiava, e che tendeva a sostituire commedie
"di carattere" e di ambiente ai canovacci, spesso solo buffoneschi, della decaduta commedia
dell'arte.
Dal 1741 al 1743 ebbe anche l'incarico di console della repubblica di Genova a Venezia,
ch'egli disimpegnò con molta cura, ma che lo ingolfò in molte noie e spese, senza alcun compenso.
Al 1743 appartengono il dramma giocoso La contessina, una pungente rappresentazione
dell'albagia di certa nobiltà, e La donna di garbo, la prima commedia che scrisse interamente, nella
quale, se vivi ancora sono gli artifici della commedia dell'arte, la figura della protagonista ha già
una certa umana vitalità.
Afflitto da debiti e ingannato nella buona fede, fu costretto nello stesso anno a lasciare
Venezia e ad andar vagando qua e là, finché, accolto festosamente a Pisa, dove fu fatto pastore
d'Arcadia col nome di Polisseno Fegeio, s'indusse a esercitarvi dal 1745 al 1748 la professione di
avvocato: anni felici che più tardi rimpianse. Ma di quegli anni è anche la celebre commedia Il
servitore di due padroni, scritta per il famoso Truffaldino, G. A. Sacco.
Nel 1748 non seppe resistere agli inviti del capocomico G. Medebach, o, per dir meglio, alla
sua vocazione; tornato a Venezia, si diede tutto al teatro. Il 26 dic. di quello stesso anno
cominciava, al teatro Sant'Angelo, la serie dei suoi trionfi con La vedova scaltra; cui seguirono, tra
il 1748 e il 1753, alcune delle sue più note e felici commedie (Il cavaliere e la dama, La famiglia
dell'antiquario, Le femmine puntigliose, La bottega del caffè, Il bugiardo, I pettegolezzi delle
donne, La moglie saggia, Le donne gelose, Le donne curiose, La serva amorosa, La locandiera).
Al 1750 risale la ben nota promessa, poi mantenuta, di scrivere in un anno sedici commedie
nuove.
Nel 1753, separatosi da Medebach, firmò un nuovo contratto con A. Vendramin, proprietario
del teatro di San Luca. Medebach, divenutogli apertamente nemico, assunse per il Sant'Angelo
l'abate P. Chiari, che fin dal 1749 faceva rappresentare, con successo, al teatro San Samuele,
drammi raffazzonati da romanzi francesi e inglesi, e commedie veneziane che rubacchiava a
Goldoni col pretesto di correggerle.
Si formarono allora due partiti teatrali, dei chiaristi e dei goldonisti; e Goldoni, per
accontentare il pubblico, fu costretto per qualche tempo, con sua grande amarezza, a ricercare
continue e bizzarre novità, nelle commedie storiche e in quelle orientali (Terenzio, Torquato
Tasso, Il filosofo inglese, Il medico olandese, La dalmatina, La bella selvaggia, La peruviana, La
sposa persiana, ecc.: quest'ultima specialmente applaudita); ma ogni carnevale Goldoni portava sul
palcoscenico una commedia veneziana. E in quel mondo pittoresco dei gondolieri, delle lavandaie,
dei "paroni di tartana", delle "massère" (serve di casa), delle rivendugliole, delle "rampignone"
(donne che risparmiano), dei merciai, si dispiega sovrana l'arte di Goldoni: ricordiamo alcune
mirabili scene delle Massere, delle Donne de casa soa e del Campiello.
Ormai la gloria di Goldoni era assicurata: le edizioni delle sue commedie si esaurivano
rapidamente; si cominciava a tradurlo e recitarlo anche all'estero; riconoscimenti gli venivano da
principi e letterati italiani. Ma non erano cessate per lui le lotte e le amarezze.
Nel 1757 C. Gozzi, e per estrosità di carattere e per amore del passato, sorse contro Chiari e
Goldoni con l'almanacco satirico La tartana degl'influssi per l'anno bisestile 1756, accusandoli di
essere cattivi scrittori e autori di testi immorali.
Nel novembre del 1758, su invito dell'impresario del teatro di Tordinona, Goldoni si recò
a Roma; ma dopo 7 mesi tornò deluso in patria. E qui tra la fine del 1759 e il febbraio del 1762,
malgrado la lotta dei suoi nemici, con inesauribile ricchezza di vena continuò a creare altre
commedie famose e alcuni capolavori (Gl'innamorati, I rusteghi, Un curioso accidente, la trilogia
della Villeggiatura, La casa nuova, Sior Tòdero brontolon, Le baruffe chiozzotte).
Decise di lasciare Venezia nell'aprile del 1762 per Parigi, dove era stato chiamato per
sollevare con nuove produzioni le sorti del teatro della Comédie-Italienne, che andava decadendo.
Ma anche lì dovette lottare con i comici che non volevano imparare le commedie scritte e
col pubblico affezionato al gioco buffonesco delle maschere, onde fu costretto a scrivere per lo
più degli scenari.
Liberatosi da questo impegno, Goldoni ottenne l'incarico di insegnante di lingua italiana
della figlia di Luigi XV, e poi delle sorelle di Luigi XVI. Ne ricavò una modesta pensione.
Nel 1771 fece recitare alla Comédie-Française Le bourru bienfaisant, ch'ebbe notevolissimo
successo.
Ma soffriva di vari acciacchi, era quasi cieco, e la pensione appena gli bastava. E anche
questa gli fu tolta nel 1792; ammalatosi, morì nella miseria.
Solo il giorno dopo la sua morte un decreto della Convenzione, su proposta di J.-M. Chénier,
gli restituiva, troppo tardi, la pensione. Le sue ossa andarono disperse.
Nell'opera riformatrice di Goldoni riconosciamo la presenza di una gioconda fantasia e di
un sicuro istinto teatrale, ma nella sua arte si riflettono gli echi della profonda crisi che travaglia
la civiltà settecentesca, sia che egli metta in scena le consuetudini e i contrasti delle diverse classi
sociali, sia che tragga ispirazione dalla vita della sua Venezia e dai costumi del suo popolo laborioso
e "civil", ma anche amante delle burle e dei divertimenti.
Scrisse più di 200 tra commedie, tragedie, tragicommedie, intermezzi, melodrammi
(musicati da Galuppi, Piccinni, Paisiello, Mozart, Haydn, Sacchini, ecc.), ma la sua gloria è legata
solo alle commedie. Importanti però sono anche i suoi Mémoires, che cominciò a scrivere nel 1784
e compì e pubblicò nel 1787, uno dei più piacevoli libri del sec. 18°.
La personalità e l'ambiente di Goldoni attorno al 1749-50 furono abilmente rievocati da P.
Ferrari nella commedia, divenuta presto popolare, Goldoni e le sue sedici commedie nuove (1852).
LA RIFORMA DEL TEATRO COMICO
Nel processo di valorizzazione della lingua italiana che caratterizza il Settecento un ruolo
importante è svolto dal teatro per la centralità sociale, mondana e culturale che esso acquista nel
corso del secolo.
Il rinnovamento portato dall’Arcadia rispetto alle proliferazioni del teatro barocco aveva
interessato soprattutto il melodramma e la tragedia; nel teatro comico invece faceva ancora presa sul
pubblico la commedia dell’arte con «le sue sconce arlecchinate, laidi e scandalosi amoreggiamenti e
motteggi; favole mal inventate e peggio condotte, senza costume, senza ordine» (Goldoni,
Prefazione alla prima raccolta delle sue Commedie, in Tutte le opere, vol. 3°, p. 1252).
Di qui la necessità di una riforma che mettesse al centro dello spettacolo il testo e i
caratteri sulla base del «vero» e della «naturalezza del dire».
Un problema dunque di forma e di linguaggio: se nel melodramma la parola è assistita
dalla musica, e se la tragedia può contare su un linguaggio aulico adeguato al suo registro elevato,
la commedia manca ancora di un linguaggio atto a raccontare il quotidiano.
La sfida goldoniana fu quella di costruire un linguaggio drammatico che fosse «imitazione
delle persone che parlano», un linguaggio da costruire rivoluzionando le regole e la pratica del
genere comico, affidando la commedia non più al mero intreccio e ai facili effetti della recitazione
all’improvviso, ma al ‘carattere’ del personaggio e alla verosimiglianza delle situazioni,
innovando in questo modo il rapporto tra autore e pubblico e tra autore e scena.
Per raggiungere lo scopo, occorreva sottrarre la materia alla libera gestione dei comici,
imponendo il rispetto di un testo scritto e rinnovando la materia, andando ad attingere
«direttamente all’immenso serbatoio della vita reale di uomini comuni, traendo spunto dai loro
particolari caratteri […] come dalle effimere burrasche della vita quotidiana» (Stussi 1998: 887).
Occorreva poi difendere il testo della commedia e la sua autorialità, fissandolo nella
forma stabile del libro: operazione che comportava una sua revisione nel passaggio dal copione per
la scena al libro per la lettura (Pieri 1995: 904). E attraverso le successive edizioni delle commedie,
dalla prima raccolta (Venezia, Bettinelli, 1750-1752), alla successiva (Firenze, Paperini, 1753-
1755), fino alla stampa definitiva (Venezia, Pasquali, 1761-1778), Goldoni procedette a una
progressiva decantazione degli elementi scenici più condizionati dalla rappresentazione in vista di
una destinazione per un pubblico il più possibile italiano ed europeo (Pieri 1991; Scannapieco
2001): oltre a eliminare o attenuare le forme dialettali o a dotarle di chiose, intervenne
sull’italiano per correggerne certi tratti morfologici dell’uso corrente e sostituirli con quelli dell’uso
letterario; per es., sistematico è il passaggio da -o ad -a della desinenza della prima persona
dell’imperfetto indicativo (avevo → aveva), e la sostituzione dei pronomi soggetto lui, lei con egli,
ella, due fenomeni tipici nella differenziazione dei livelli di italiano a partire dal Cinquecento.
Nel passaggio alla stampa i testi vedono dunque una rielaborazione in direzione più
letteraria, ma, per la natura stessa del teatro, di una letterarietà distinta dal linguaggio
umanistico della letteratura, perché la commedia appunto è «una imitazione delle persone, che
parlano, più di quelle che scrivono», come afferma lo stesso Goldoni nella presentazione
all’edizione Paperini, destinata a esporre la sua riforma a livello nazionale. Qui rivendica di essere
«un poeta comico» e non un «accademico della Crusca» e di essersi pertanto «servito del linguaggio
più comune, rispetto all’universale italiano» (Teatro, vol. 3°, p. 1285), dove per «universale
italiano» s’intende l’italiano degli scrittori, la lingua illuministica governata dai dotti. E, nella
definitiva edizione Pasquali, nel presentare le commedie dichiara di «purgarle, per quanto può, dai
difetti di lingua», ma di scrivere «quel Toscano che usavasi a’ tempi del Boccaccio, del Berni e
d’altri simili di quella classe, ma come scrivono i Toscani de’ giorni nostri, quali si
vergognerebbono di usare que’ riboboli che sono rancidi e della plebe, e abbisognano di commento
e di spiegazione per gli stranieri non solo, ma ancora per la maggior parte degl’Italiani» (Tutte le
opere, vol. 1°, pp. 621-757).
Si avverte in questa dichiarazione un riflesso delle contemporanee polemiche sulla norma
della lingua nazionale tra puristi e modernisti o liberisti, i quali ultimi difendono il principio di
comprensibilità dell’italiano, cui si attiene Goldoni nel voler «essere inteso in Toscana, in
Lombardia, in Venezia», e da spettatori colti e incolti.
La ricerca della naturalezza espressiva cui mirava Goldoni andava realizzata non
ripudiando della commedia dell’arte il patrimonio di esperienze ancora vive (Romagnoli 1983:
130), ma rinnovandolo dall’interno, trasformando le vecchie maschere in personaggi dai
connotati sociali e umani riconoscibili.
Riguardo alla lingua, dalle «meccaniche caratterizzazioni plurilinguistiche» si passa «a una
libera scelta, come tra pari, dell’italiano o del veneziano, in funzione degli ambienti rappresentati e
della destinazione delle commedie» (Stussi 1998: 927).
Il programma riformatore di Goldoni occupò tutta la sua esistenza, una vita per il teatro, da
lui stesso narrata nei tardi Mémoires in un’idealizzazione della propria vicenda teatrale. Dopo un
lungo apprendistato di canovacci, tragedie e testi per musica, intermezzi e drammi giocosi, musicati
da insigni compositori (Galuppi, Paisiello, Cimarosa, Mozart), che fecero di Goldoni il più influente
librettista comico del Settecento, approdato al suo primo impegno stabile con il teatro Sant’Angelo,
Goldoni avviò dunque quella riforma del teatro maturata anche durante il soggiorno in Toscana,
dove aveva assistito alle commedie di Fagiuoli, di Gigli e di Nelli, opere certo di respiro
provinciale, ma che egli considerava «testi vivi della buona lingua toscana».
Nella Prefazione alla prima edizione delle sue commedie l’autore affermò di aver preso a
«Maestri» il Mondo e il Teatro, l’uno per i tanti e vari caratteri, l’altro per i «colori» con i quali «si
debban rappresentar sulle scene i caratteri, le passioni, gli avvenimenti che nel libro del Mondo si
leggono». E continuava: «Quanto alla lingua ho creduto di non dover farmi scrupolo d’usar molte
frasi e voci Lombarde, giacché ad intelligenza anche della plebe più bassa che vi concorre,
principalmente nelle Lombarde città dovevano rappresentarsi le mie Commedie». Inoltre, diceva di
avere aggiunto «qualche noterella» ad «alcuni vernacoli Veneziani» nelle commedie «scritte
apposta per Venezia mia Patria» e che «il Dottore che recitando parla in lingua Bolognese, parla qui
nella volgare Italiana» (Teatro, vol. 3°, pp. 1255-1258).
LA SCELTA DEL FRANCESE
Nei Mémoires l’autore trova «una sua perfetta misura comunicativa» (Folena 1983: 367),
grazie a quel francese che, impostosi nel corso del Settecento come lingua internazionale ed
entrato nel parlato familiare delle classi nobili e borghesi in Lombardia e nel Veneto, si
presentava come lingua per eccellenza della prosa e della conversazione.
Nel teatro di Goldoni il francese compare accanto all’italiano e al veneziano ora in
funzione giocosa e parodica, ora nel rendere i modi della conversazione mondana.
La sua presenza interferisce con l’italiano teatrale goldoniano, modellandone l’impianto
dialogico, fortemente paratattico, agile e sciolto, e il lessico, con l’assunzione di francesismi più o
meno adattati a seconda dei contesti borghesi o popolari.
La competenza goldoniana del francese, soprattutto orale ed esente da preoccupazioni
ortografiche o letterarie, si perfeziona nel soggiorno parigino, come mostrano le commedie in
francese, in particolare il Bourru bienfaisant, «veramente pensate secondo lo spirito francese» e
scritte in un francese «sincronico, sensibile all’uso» (Folena 1983: 385).
E anche nei Mémoires, composti a partire dal 1783, la scelta del francese – un francese
colloquiale, disinvolto, ma anche approssimativo – risponde alla volontà di rivolgersi al pubblico
del momento nella sua propria lingua, secondo quella esigenza pragmatica di comunicatività che
ha sempre guidato Goldoni.
Da: http://www.treccani.it/enciclopedia
e http://www.sapere.it/enciclopedia