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Il potere simbolico del corpo delle donne DONNE CHIESA MONDO MENSILE DELLOSSERVATORE ROMANO NUMERO 63 DICEMBRE 2017 CITTÀ DEL VATICANO

Il potere simbolico del corpo delle donne · donna è il titolo di un famoso libro di Adrienne Rich, ... mente pensante del femminismo ... Per tutta la vita e persino nella IL POTERE

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D ONNE CHIESA MOND OMENSILE DELL’OSSERVATORE ROMANO NUMERO 63 DICEMBRE 2017 CITTÀ DEL VAT I C A N O

Il potere simbolicodel corpo delle donne

D ONNE CHIESA MOND OMENSILE DELL’OSSERVATORE ROMANO NUMERO 63 DICEMBRE 2017 CITTÀ DEL VAT I C A N O

numero 63dicembre 2017

LE RUBRICHE

D ONNE CHIESA MOND O

Mensile dell’Osservatore Romanodiretto da

LU C E T TA SCARAFFIA

In redazioneGIULIA GALEOTTI

SI LV I N A PÉREZ

Comitato di redazioneCAT H E R I N E AUBIN

MARIELLA BALDUZZI

ELENA BUIA RUTT

ANNA FOA

RI TA MBOSHU KONGO

MA R G H E R I TA PELAJA

Progetto graficoPIERO DI DOMENICANTONIO

w w w. o s s e r v a t o re ro m a n o .v ad c m @ o s s ro m .v a

per abbonamenti:d o n n e c h i e s a m o n d o @ o s s ro m .v a

Vogliamo finire l’anno, un anno pieno di dolore soprattutto per ledonne, con una speranza. Queste immagini, in cui una donna, sola eindifesa, con la sua debolezza riesce a far fronte alla violenza di ungruppo di uomini armati, sembrano aprire nuove prospettive per ilfuturo. Prospettive di pace e di rispetto per i deboli, in nome diqualcosa che tutti condividiamo: essere nati da una donna, ed esserevivi perché una donna ci ha accettati nel suo ventre e ci ha accuditida piccoli, finché non siamo stati in grado di badare a noi stessi.

Questa caratteristica comune del genere umano non è solo un fat-to biologico, ma un’esperienza complessa che comprende dedizionegratuita, rinuncia a sé a favore di un altro, senza la prospettiva di al-cun compenso. Anzi, sapendo che chi abbiamo aiutato se ne andrà,necessariamente, per la sua strada.

Se, nella tradizione cristiana, siamo considerati tutti uguali perchétutti figli di Dio, possiamo aggiungere che nell’esperienza di tutti gliesseri umani, di qualsiasi etnia o religione essi siano, c’è l’origine daun corpo materno, dalla dedizione gratuita di una donna. Nato di

donna è il titolo di un famoso libro di Adrienne Rich, che ricorda atutti gli esseri umani questa comune origine.

Ogni donna, in quanto madre potenziale, rappresenta quindi lapossibilità, il ricordo, il simbolo, di questa dedizione gratuita — quasisempre l’unica di questo tipo che sperimentiamo nella vita — e pro-prio per questo la sua presenza fragile e disarmata è tanto potente dafermare gli eserciti.

Una psicanalista e scrittrice, Silvia Vegetti Finzi, una filosofa fem-minista, mente pensante del femminismo italiano, Luisa Muraro, euna grande giornalista, Lucia Annunziata, commentano queste im-magini e ci conducono a leggerle nella loro profonda realtà. Non ciresta che leggerle aprendo il cuore alla speranza, ricordando che nelcristianesimo la salvezza dipende dal sì di una ragazza giovanissima,incredibilmente coraggiosa. (lucetta scaraffia)

L’EDITORIALE

La santadel mese

PAGINA 26

Nel nuovotestamento

PAGINA 29

Artiste

PAGINA 36

Meditazione

PAGINA 39

SI LV I A VEGETTI FINZIa pagina 12

LUISA MURAROa pagina 17

LUCIA AN N U N Z I ATAa pagina 22

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L’INFERMIERA

Questa foto è stata scattata dalgiovane fotografo JonathanBachman nel 2016 a BatonRouge, in Louisiana, negli StatiUniti. Dopo l’uccisione di dueuomini afroamericani da partedella polizia e dopo la strageavvenuta a Dallas, in cuifurono uccisi cinque agenti daun cecchino durante unamanifestazione contro leviolenze della polizia, sono statinumerosi gli scontri tra le forzedell’ordine e la comunitàafroamericane. Tra imanifestanti si stacca unadonna Leshia L. Evans di 35anni, infermiera, che incurantedel pericolo, chiaramentedisarmata, si avvicina aipoliziotti per farsi arrestare. Ilsuo gesto calmo e sereno diporgere i polsi ai poliziotti èstato capace di rompere il climadi tensione tra i due blocchi.

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IN VIOLA

Minsk, 25 marzo 2017: nel corsodi una manifestazione contro ilpresidente una donna non silascia intimidire dagli uominiarmati. Elegante nei colori e neigesti, sembra contrapporsicome in una danza allapesantezza dei movimenti deisoldati. Non ha paura, tanto datessere un contrappunto quasiironico alla loro violenza astento compressa.

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LA MADRE

Una donna palestinese con ifigli incontra un posto diblocco: non sappiamo dove equando, ma certo è successomigliaia di volte.Come scrive Muraro, «va per lasua strada portandosi dietrodue creature, ma un uomo indivisa, piegato sulle gambe, lesbarra la strada puntandoleun’arma all’altezza del ventre.Per uno strano capovolgimentodei sensi, a me pare che lui lestia chiedendo l’elemosina, cheuna volta chiamavano la carità:lui le chiede la carità diriprenderlo con sé».

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L’AT T I V I S TA

Tess Asplund, 42 anni, è statafotografata con il pugno alzatoalla testa del corteo delMovimento di resistenzanordica (NRM). La donnasubito dopo il gesto è statasollevata di peso e fattasgombrare dalla polizia, per farproseguire la marcia deineonazisti. Ma le foto e il videosono state subito condivisevelocemente da milioni diutenti in tutto il mondo.Asplund è afro-svedese, come sidefinisce lei stessa, erappresenta la nuova Sveziamulticulturale, contrastata daimembri del NRM: «Il razzismoè stato normalizzato in Svezia,è ok dire quella parola con lan» racconta al giornale inglese«The Guardian». Il momento èstato immortalato il 3 maggio2016 dal fotografo DavidLagerlöf. Il Movimento diResistenza nordica è un partitodi stampo nazionalsocialistanato in Svezia ma checomprende organizzazionianche in Finlandia, Norvegia eDanimarca; si batte control’immigrazione e in alcuni testidel movimento viene esaltatoAdolf Hitler.

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LA SUORA

In un sabato di aprile del 2017si svolge a Caracas la marciadel silenzio per ricordare imorti nei recenti scontri.Mentre l’esercito sparalacrimogeni suor Esperanza, 78anni, si avvicina a un soldatodella Guardia nazionale: il suopasso non è fermo, ma le sueparole sì. «So che doveteobbedire agli ordini. Ma siamotutti venezuelani». Nella scenasuccessiva del video che ritraetutta la scena, il soldato le posauna mano sul capo: emanaforza e potere quella mano,eppure — guidata dalladeterminatezza dell’anziana —si rivela capace di grandedelicatezza. Quasi una carezza,quasi a chiedere scusa.

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di SI LV I A VEGETTI FINZI

Viviamo in un mondo dominato dall’angoscia del presente e dalla pau-ra del futuro, un mondo dove l’individualismo competitivo ha can-cellato la cifra del materno, la relazione che ci fonda.

Come scrive il grande psicoanalista inglese Donald W. Winnicott:«Mi sembra che nella società umana qualcosa vada perduto. I bam-bini crescono e diventano a loro volta padri e madri ma, nel com-plesso non crescono nella consapevolezza di ciò che le loro madrihanno fatto per loro all’inizio della vita (…) Ma non è proprio per-ché è immenso che questo contributo della madre devota non vienericonosciuto? (…) Senza un vero riconoscimento del ruolo della ma-dre, rimarrà una vaga paura della dipendenza. Questa paura prende-rà qualche volta la forma di paura della donna, o di paura di unadonna, e altre prenderà forme non facilmente riconoscibili, che inclu-dono sempre la paura di essere sopraffatti».

Certo non basta essere madri per essere materne, ma il paradigmarimane valido nonostante molte eccezioni e il termine m a t e r, con lasua radice materia, conserva il valore simbolico che la nostra storia gliha attribuito, anche oggi che molte cose sono cambiate.

Quanto ci rendedavvero umani

La madre, che Freud definisce «quel preistorico, indimenticabileAltro, che più tardi non sarà mai eguagliato da nessuno», è investitaal tempo stesso da pulsioni di amore e di odio ma di solito, graziealla sua dedizione, l’amore prevale e si proietta poi, non senzaambivalenze, sulla donna che l’uomo sceglie come compagna dellasua vita.

Alla luce di questa constatazione, il gesto delle donne che si op-pongono alla violenza maschile con l’unica risorsa del corpo femmi-nile e materno acquista una valenza nuova che interroga, oltre allanostra identità, la complessa relazione tra i sessi.

Osservando la sequenza delle immagini pubblicate, scorgiamo dauna parte un cupo, minaccioso carro blindato e, più frequentemente,un plotone antiguerriglia composto di militari in assetto di combatti-mento, espressione di un potere maschile violento, anonimo e imper-sonale. Dalla parte opposta si erge invece una donna sola che, avvol-ta in abiti leggeri, magari con il velo ma a volto scoperto, li fronteg-gia mostrando al mondo — i fotografi sono in agguato — la sua iden-tità e le sue emozioni. La dissimmetria è evidente e lo scontro, in ter-mini fattuali, già deciso.

Tuttavia la consapevolezza della nostra debolezza può tradursi inpotenza eversiva, come mostra il valore del martirio nella storia dellaChiesa. In quanto vittima designata della violenza maschile, la donnasi offre volontariamente all’assalto dell’aggressore ma la sua esposi-zione non esprime rassegnazione quanto resistenza e volontà di me-diazione. Ma che cosa può dire il silenzio femminile di fronte allaminaccia delle armi? Il suo corpo parla per lei evocando la dolcezzadell’amore — vi ricordate lo slogan «mettere fiori nei vostri cannoni»con cui una generazione si è opposta alla guerra in Vietnam? — e lapotenza della generazione. Come scrive Adrienne Rich negli anni incui i giovani erano veramente tali: «Tutta la vita umana nel nostropianeta nasce da donna. L’unica esperienza unificatrice, incontrover-tibile, condivisa da tutti, uomini e donne, è il periodo trascorso a for-marci nel grembo di una donna… Per tutta la vita e persino nella

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che ci attraversa. Il suo corpo, crogiuolo di materia e forma, parladue linguaggi: quello impersonale della Vita senza aggettivi e quellosimbolico della vita di relazione, della storia, della genealogia fami-liare, della bio-grafia che rende ciascuno un essere inconfrontabile einsostituibile.

Gli uomini che la fronteggiano muti, il volto oscurato dalla celatadell’elmo, temono la potenza di chi non ha paura per il solo motivoche si trova dalla parte giusta e, non sapendo come reagire, sono ten-tati di piegarla con la violenza che pertiene al loro genere, quella ses-suale. In fondo le donne sono sempre state messe a tacere con la pre-potenza del più forte. E nulla sembra essere cambiato stando alla tra-gedia del femminicidio che insanguina, dopo le tragedie del passato,un secolo che avrebbe voluto essere diverso. Eppure qualche cosa staaccadendo.

Di fronte alla coraggiosa esibizione di un corpo femminile ches’immola in nome dei valori in cui crede, per un momento, almenoper un momento, lo spazio si contrae, il tempo si ferma e, sulla con-citata, rumorosa scena del conflitto cala il severo silenzio del sacro.All’improvviso un vettore verticale scende a interrompere l’orizzonta-le, meccanico, ritmico, procedere del tempo cronologico. Un’inten-zionalità altra chiede tregua al precipitare degli eventi, alla imponde-rabile deriva dell’obbedienza obbligata, subita, mai pensata, comequella imposta agli eserciti.

Null’altro che un limite simbolico, una sospensione inattesa, ana-loga alla tensione spasmodica dell’equilibrista sospeso sulla corda cheoscilla, ma è proprio in quell’intervallo del tempo e dello spazio chel’attesa cede il posto all’inatteso lasciando libero accesso alla speran-za. Che cosa può fare il singolo, posto di fronte a eventi che noncontrolla, se non testimoniare?

Lei potrebbe parlare, suggestionare, convincere, sventolare unabandiera, proporre uno slogan. Invece il più delle volte preferisce af-fidarsi allo sguardo e al gesto, come conviene alla fase perinatale, al

morte conserviamo l’impronta di questa esperienza. Non a caso laprima e l’ultima parola sono appunto “mamma”».

Nella plurisecolare iconografia della Madonna, che ha plasmatol’inconscio femminile, l’immagine di Gesù bambino e di Cristo depo-sto dalla Croce, l’uno in braccio, l’altro in grembo alla Madre, si ri-chiamano specularmente, come la Vita e la Morte.

Questo non significa che tutte le donne debbano essere madri mache tutte sono potenzialmente tali, portatrici di un messaggio genera-tivo che può essere negato o espresso in vari modi.

Uno di questi è promuovere la giustizia e la pace, come testimo-niano le Donne in nero e le Madri di Plaza de Mayo. Là madri di fi-gli da strappare alla morte e all’oblio, qui donne che difendono la vi-ta e i diritti di tutti, donne che, contro la prepotenza del più forte,chiedono il riconoscimento di un altro diritto, quello della vita. Ache titolo si attribuiscono questo potere?

In virtù del corpo materno, della sua conformazione, della suafunzione. Un corpo cavo predisposto per recepire, contenere, nutrireil figlio e infine, come osserva Cacciari in Generare Dio, per parteci-pare simbolicamente al suo stesso andar via, fuori, lontano, al suoesodo da lei.

La madre è l’unico tiranno che emancipa spontaneamente il suosuddito, l’unico padrone che libera volontariamente il suo schiavo,l’unico carceriere che apre le porte al suo prigioniero.

Un “lasciar andare” che non rinuncia mai alla responsabilità e alladisp onibilità.

Ma non solo, il corpo materno ha rappresentato per secoli, primache il meccanicismo della modernità soppiantasse il vitalismo antico,la potenza della Madre Terra. Una metafora che connette la genera-zione dei figli alla raccolta delle messi, il ciclo della fecondità umanacon il ritmo astrale dell’universo. La donna che offre e chiede Pace sipresenta come simbolo della natura che ci contiene e della natura

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di LUISA MURARO

Da questa collezione d’immagini affiora un significato di tipo allegori-co, che non vuol dire nascosto, vuol dire che non si esaurisce nell’im-mediato e va oltre, in una profondità cui non si arriva con gli occhi.

Ai miei occhi le immagini mostrano donne che stanno forzandoun blocco. Più letture sono possibili, ovviamente. Io credo però chele diverse letture convergano verso l’allegoria di donne che sfidanol’uomo per rompere il regime d’irrealtà che si è creato con la subor-dinazione del femminile al maschile. In parole storiche, io ci vedoun’allegoria del femminismo della differenza, quello che ha fatto del-la differenza sessuale il varco per la presa di coscienza che tutto co-

mincia da dentro (come dicono in architettura), un dentro che rac-chiude il segreto della soggettività libera.

Subordinare gli altri a sé, a cominciare dalle donne, ha fatto crede-re alla più parte degli uomini di essere entità autosufficienti e di po-ter controllare e cambiare il mondo mettendolo in un’esteriorità og-gettiva. Con parole riprese dalla dottrina cristiana, le donne di questeimmagini stanno forzando il blocco che impedisce la circolazionedello Spirito santo.

due in uno che sta prima dell’inserzione del padre nella diade origi-naria. Ed è in quell’epoca preistorica che, con autorevolezza, lei con-voca il suo antagonista.

Intende ricordargli che tutti si nasce figli e che, ancor prima di ve-nire al mondo, prima di essere un bambino, anche lui ha soggiornatoper nove lune in un grembo materno. Come, per altro, faranno i suoifigli.

L’incontro promosso da una donna che non ha alcun titolo perfarlo se non una caparbia volontà, evoca storicamente un prima, unasocietà materna che non è mai esistita, un matriarcato mai realizzato.Eppure quell’epoca persiste nell’immaginario come un mondo di pa-ce, di eguaglianza, di giustizia, lo stesso che sottende ogni utopia.Nell’inquieto rapporto tra i sessi, nel loro dissimmetrico confronto,possiamo scorgere un desiderio di ricominciare, di stipulare una nuo-va alleanza, di dire “ancora”.

Ma la soluzione di tanti conflitti che turbano la nostra civiltà, cau-sati dalle pulsioni aggressive e autodistruttive dell’uomo, è un proble-ma che rischia di restare irrisolto.

Come scrive Freud in conclusione a Il disagio della civiltà: «E oradobbiamo aspettarci che l’altra “potenza celeste”, l’eterno Eros, facciauno sforzo per imporsi nella lotta contro il suo altrettanto immortaleavversario (Thanatos). Ma chi può prevedere quale sarà l’esito, e sesarà felice?».

Come sempre, posti di fronte ai quesiti più radicali, non ci restache appellarci all’educazione, alla possibilità di prevenire gli scontricostruendo una nuova umanità, capace di incanalare la naturaleaggressività verso ideali condivisi. A tal fine è ancora alla madre chespetta il compito fondamentale di sostituire al maschio virile, all’ero eviolento, all’individuo competitivo, un soggetto capace di affermarsiaccettando le componenti passive della sua identità, come ladipendenza, la vulnerabilità, la caducità: quanto ci rende davveroumani.

Tutto cominciada dentro

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dare ancora avanti con l’impostazione unilaterale maschile, arrivati«a questo punto di crisi e di spaccatura». Il discorso di Papa France-sco all’Accademia per la vita, il 5 ottobre 2017, sull’alleanza tra donnee uomini, le darà ragione: non è possibile.

In un testo precedente la stessa Lonzi aveva polemizzato con uncerto modo di rivolgersi agli uomini «come se fossero dei bambini acui le proprie verità bisogna porgerle adottando il linguaggio dei lo-ro libri di lettura». La questione ci riguarda. Ci adattiamo perché gliuomini capiscano, sarebbe la risposta, per restare cioè nella culturacomune. Ma è una trappola: la cultura comune, infatti, non offre alledonne il linguaggio per esprimersi come autonomi soggetti pensantie desideranti. Qual è allora la pratica che farà deperire l’imprigiona-mento simbolico delle donne? Risposta: «Fare tutti i gesti di espres-sione di sé e di riconoscimento dell’altra che aprono le porte del lim-bo in cui le donne cercano, senza trovarla, un’incarnazione reale».Che, per le vecchie femministe come me, è un chiaro riferimento allapratica dei gruppi separati di donne che, negli anni settanta, ha datoinizio al movimento femminista dotandoci di una lingua per signifi-care a noi stesse che esistiamo per noi stesse.

Molti, compresi uomini onesti e in buona fede, non hanno capitoil significato di questo affronto della separazione, né la sua necessità.E hanno criticato il femminismo — i pretesti si trovano sempre nelleimprese umane — senza capire che la rivolta e la sfida erano il prezzoda pagare a causa della loro stessa, di uomini, negazione dell’a l t rocon la a minuscola: la loro simile e differente. Se lei lascia perdere,lui non ci pensa e passa sopra.

Le immagini mostrano dunque donne che, uscite dal limbodell’inesistenza simbolica, si trovano la strada sbarrata e lì restanoimpavide con un gesto che sostituisce parole che non ci sono ancora.Per trovarle, continua Carla Lonzi, il blocco va forzato in prima perso-na: questo è il passaggio necessario per la nascita della nostra sogget-tività, il presupposto di qualsiasi cambiamento. Lei così ha fatto ed è

Non è nella dottrina cristiana che ho trovato la chiave di quest’al-legoria, ma in un testo apparso nel 1980, intitolato Vai pure (ripubbli-cato nel 2011 da ET AL.) Si tratta di un testo registrato e trascritto,per volontà di una lei, di un dialogo tra questa lei, Carla Lonzi, el’artista Pietro Consagra, che era allora il suo compagno di vita. Lon-zi è una delle iniziatrici del femminismo della differenza, tra gli annisessanta e settanta del secolo scorso.

A un certo punto dello scambio lui le dice: tu, a differenza di me,«ti presenti con le esigenze nuove». No, lo interrompe lei, sono mieesigenze e sono cose che le donne sanno ma vi hanno rinunciatomolto spesso, «perché se non cedi spacchi la tua vita». E spiega: ionon ho intenzione di cedere ma capisco perché una donna possa far-lo, «perché il bisogno di autonomia entra in un tale contrasto con ilbisogno di amore, e il bisogno di amore è sentito così forte che pren-de il sopravvento».

Segue, nella stessa pagina, come un lampo, la rivelazione del comesa amare una donna che non cede. Io, dice, ho accettato la tua con-traddizione di uomo integrandola nel nostro rapporto, tu invece pro-poni delle soluzioni preconfezionate che, in questo modo, negano ilsenso del nostro rapporto. Sa bene, lei, che ne va della sua vita e del-la condizione femminile, ma non soltanto. «Quello che proprio miscandalizza e che mi fa sentire estranea e ferita da questo mondo…»e parla della priorità che si dà, in questo mondo, alla produzione dicose, «a scapito dell’autenticità dei rapporti».

Lui tenta di capire, fa delle domande, ed è a questo punto che larisposta di lei fa pensare allo Spirito santo: «Io per rapporto intendouna coscienza della realtà che scorre tra le persone, e che per me èindispensabile a rimuovere i punti morti di una cultura che viaggiasolo sulla coscienza maschile. Questo per immettere me nel mondo,perché non vedo altra possibilità di una vita vivibile». Poi aggiunge:anche l’uomo risente negativamente di «questa mancanza di una co-scienza femminile» e chiede al suo compagno come sia possibile an-

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credibilità, scrisse allora una dichiarazione in cui non rinnega nientema rinuncia a tutto, tranne che a Dio che, però, nella «confusionedegli abissi» (parole sue), non si faceva trovare.

La sua vita ne fu spaccata, come ha detto Carla Lonzi parlando diquelle che difendono la loro autonomia nelle circostanze più difficili,donne che aprono nella strada bloccata varchi di libertà da cui pos-sono passare anche gli uomini che si arrendono, non dico alle donne,perché noi non chiediamo questo, intendo quelli che si arrendono al-lo Spirito santo… Chiamatelo come volete, purché non lo confondia-te con il vostro Ego o con qualche dottrina preconfezionata.

A proposito di dottrine. Per una fortuna così immeritata che misembrò una sfortuna, per alcuni anni ho fatto scuola a persone moltogiovani. A scuola, come noto, si insegna che la Terra è rotonda, chenon è propriamente una dottrina ma un fatto ricavabile, con il ragio-namento, dall’esperienza. Un giorno mi parve che una mia alunna,una ragazzina di undici anni, non avesse chiaro che la Terra è roton-da. Interrogata sul come sappiamo con certezza che la Terra è roton-da, lei alzò il braccio destro e, con un gesto che oltrepassava i muridella scuola, disegnò l’arco della volta celeste. Poi, davanti al miostupore, aggiunse: «Anche mia mamma la pensa così».

Sbagliava, scolasticamente parlando, ma il suo era un errore cheveicola un vero ancora indicibile. Io ho continuato a pensarci arri-vando a quella tappa (di più non è) della ricerca che ho riassuntonella formula: tutto comincia da dentro.

Dicendo “da dentro” si pensa per opposizione a un fuori e non èsbagliato, perché dal dentro del luogo materno, si viene fuori, almondo. Ma c’è un nascere ulteriore che viene grazie alla relazionematerna man mano che s’impara a parlare, e allora si scopre che ildentro si ricrea ed è sconfinato. È come un’altra dimensione in cui lecose prendono senso, le lingue annodate in gola si sciolgono e quelloche era muto, distante, minaccioso, diventa prossimo.

diventata un passaggio; da lì siamo passate e possono passare anchegli uomini.

Tra le immagini, colpisce quella della palestinese che va per la suastrada portandosi dietro due creature, ma un uomo in divisa, piegatosulle gambe, le sbarra la strada puntandole un’arma all’altezza delventre. Per uno strano capovolgimento dei sensi, a me pare che lui lestia chiedendo l’elemosina, che una volta chiamavano la carità: lui lechiede la carità di riprenderlo con sé.

Non si arriva al senso libero della differenza sessuale che, è parteintegrante dell’essere umano, con meno del prezzo pagato da unaCarla Lonzi. E da una Maria Celeste Crostarosa. Di lei parlerò trapoco. Entrambe sono donne che hanno affrontato il blocco creato daun ordine simbolico che era anche disordine, l’hanno affrontato nelmodo giusto, pagando un prezzo ingiusto con la fermezza di chi nonnutre risentimenti.

Per due secoli e mezzo la storia ha ignorato la figura di Maria Ce-leste e i suoi grandi meriti. Sull’Osservatore Romano del 15 giugno2016 è stato scritto che suor Maria Celeste, oltre che santa, è stata fi-nalmente riconosciuta come fondatrice dell’ordine religioso del San-tissimo Redentore. È il felice esito di una vicenda che il giornale stes-so chiama “enigmatica”. A dire il vero, una volta ricostruita, la vicen-da non ha nulla di enigmatico, ma certamente lo è il suo significatoultimo.

In breve: Crostarosa, nata a Napoli nel 1696 da una famiglia delceto medio, in tutta libertà si fece suora; il cielo le ispirò una grandeimpresa che lei si dedicò a realizzare, insieme a un amico e compa-gno di prim’ordine, Alfonso de’ Liguori. Ma disse no al comando diun superiore che andava contro la sua libertà spirituale. Alfonso, cheaveva i mezzi e i motivi per difenderla, non capì che lei aveva ragio-ne e la giudicò male (ma, a riprova della sua buona fede, conservò leprove storiche del proprio errore, il che ha permesso poi di correg-gerlo). La riprovazione di Alfonso fu la fine per lei. Privata di ogni

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Su questo corpo infatti regna sovrano il sospetto dell’uomo — insi-nuatosi da sempre alle radici delle religioni — da quella ratifica di su-balternità che è la costola al velo con cui coprire la tentazione deldiavolo.

Guerre antiche e moderne, con una continuità storica che sgomen-ta, hanno sempre avuto nelle donne il loro centro di vendetta e re -

vanche — rapimenti, stupri, contaminazioni della razza, dissacrazionefinale del corpo femminile sono un rituale e una teoria che traccianouna drammatica linea unitaria fra passato e presente.

Con il risultato finale di un completo rovesciamento di logica: perdifendere la propria identità di cittadine, cioè la propria dignità intel-lettuale, le donne hanno nei secoli dovuto difendere soprattutto la li-bertà del proprio corpo.

Ed è forse in questo incrocio fra intelligenza e fisicità che le donnehanno sviluppato la loro terza lingua. La lingua parlata dal corpoanche senza che noi lo vogliamo. O ce ne accorgiamo.

Guardate ora queste due foto, o ogni altra foto di donna, in qua-lunque modo siano state riprese: di corsa, sfocate, da un cellulare oda una telecamera. Vedrete sempre un movimento, una piega dellelabbra, una occhiata, una curvatura di guancia, un modo di star fer-ma o seduta; vedrete sempre un dettaglio che racconta una idea, unaparola, una assoluta individualità di quella persona.

Guardate dunque queste due foto, e vedrete, appunto, queste asso-lute individualità, raccontate senza altra parola che quella del corpo.

A un primo sguardo non c’è nessuna relazione fra le due situazio-ni, se non il dramma di uno scontro.

In una c’è una giovane donna, araba sicuramente, identificata co-me tale per il lungo abito che copre tutto, dal velo sui capelli allostrascico a terra che svela poveri sandali su rozzi piedi nudi. Dietrodi lei due bambini guardano terrorizzati un soldato che, accucciato,

di LUCIA AN N U N Z I ATA

Le donne parlano con il corpo. Non sanno nemmeno di farlo. È il do-no più grande lasciatoci dalla natura, quella complessità di vuoti epieni, sporgenze e rientranze, così difficile da accettare quando dabambina diventi donna, quando realizzi che tu non hai quella sem-plice fisica in equilibrio che fino a un certo punto condividi con imaschi, la semplice triangolazione — testa-torso-gambe — che identi-fica gli uomini. In quel complicato giro di movimenti che diventa ilcorpo femminile c’è invece tanto più da gestire. Seduzione/paura,stanchezza/riposo, bellezza/bruttezza, morte e, infine, vita. La nasci-ta, i figli.

C’è tutto questo che il corpo dice, e il peggio è che lo fa anchecontro di te, o con te, o comunque anche se non lo vuoi. Perchéquella delle donne è una sorta di identità automatica, ampia, piùgrande anche di chi la abita, in quanto universale.

Sarà per questo che il corpo femminile è sempre stato consideratoun mistero?

Qualcosa con una radice più profonda e più sacra — perché cosìlegato alla rinascita del mondo generazione dopo generazione.

Cosa farà il soldatodi fronte alla madre

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co poliziotto della scena, si staglia come una fiamma una donna: pel-le nera, testa rasata, giacca di pelle, da cui pare fiorire una camiciarossa che la avvolge dai polsi al collo come una sciarpa.

È anche questa la foto di uno scontro. I tre hanno i modi e gliabiti dei suprematisti bianchi, e la donna sembra volerli fermare conla sua semplice presenza, semplicemente sbarrando loro il passaggio.Esattamente come fa la madre araba.

E questo è il legame fra due situazioni così diverse e così lontane:due donne affrontano il loro nemico, difendono la propria vita e lapropria libertà semplicemente schierando il proprio corpo.

E i loro corpi raccontano quello che sentono in questo momento.

La madre usa se stessa per fare da schermo ai bambini. Spinge perdistrarre l’uomo con il mitra, per intercettarne forse lo sguardo; il bu-sto è orgoglioso, combattivo, ma dalla vita in giù tutti i sui muscolisembrano arretrare. La sua intera figura si tira indietro, si piega, si faconvessa, dominata, a dispetto del coraggio, dalla paura.

La giovane donna di colore è invece tutta in avanti, il busto tesoin fuori, le spalle larghe, il pugno verso l’alto che trascina nella ten-sione il volto fino al mento alto. Una specie di lancia umana. Grida.Non sentiamo questi suoni, ma possiamo immaginarli dalla boccaaperta, dalla posizione del volto. La sua furia impatta, tuttavia, suuna scena ferma: la curiosità distaccata dei passanti, lo sguardo passi-vo del poliziotto e l’espressione svuotata dei tre uomini. Nessuno deitre la guarda negli occhi.

È imbarazzo, incredulità, fastidio, quello che traspare da tutti que-sti volti maschili? Non lo sapremo da questa immagine. Come nonsapremo cosa farà infine il soldato, di fronte alla madre. Ma, forse, aquesto punto, non ci interessa nemmeno saperlo.

ha puntato alla altezza del loro volto la bocca della canna del suomitra.

Il gruppo galleggia in una terra senza identità, quel vuoto dei luo-ghi di guerra, un alto muro grigio scrostato, un prato di terra brucia-ta, l’acciaio delle staccionate dei posti di blocco. È probabilmente laPalestina ma potrebbe essere ovunque nel mondo dove un conflitto èin corso — uomini armati, giganteschi nelle loro armature, di fronte auna esile umanità di deboli membra di bambini, e donne senza altronelle mani che le mani dei suoi figli a occhi sgranati.

La foto coglie un unico momento, quello in cui l’aggressione è ini-ziata ma non è ancora precipitata, nulla è stato ancora deciso dal fa-to. Cosa succederà ora fra tutti loro? La donna pregherà, urlerà, chie-derà pietà? I bambini urleranno, come pare inizi a fare il maschietto,stretto alla sorella, o perderanno la voce travolti dal terrore, come pa-re stia succedendo alla bambina? E il soldato di cui non vediamo ilvolto, sentirà queste voci, alzerà gli occhi per incontrare quelli dellamadre, cercherà di dire una parola per calmare le paure o griderà piùdi loro? O addirittura sparerà? Stiamo guardando, davvero, gli ultimisecondi di tre vite indifese, innocenti? Non si riesce a questo puntoche a distogliere gli occhi e abbassare la foto. Vi torneremo.

L’altra immagine ci porta invece al centro di una moderna situa-zione urbana. Spazio pienissimo, al posto del vuoto di quel posto diblocco dell’altra foto. Siamo in mezzo a una strada, di un’area certa-mente non benestante, dal marciapiede occhieggiano una pizzeria,un caffè, un portoncino senza pretese, e curiosi vestiti con quei pannidella uniformità cittadina, felpe, jeans, grembiuli di lavoro. In mezzoalla strada tre uomini, bianchi di camicia e di pelle, tre copie l’unodell’altro, con gli stessi occhiali e la stessa rasatura alta dei capelli. Inquesto ambiente quasi in bianco e nero, fuso nel grigio di quella cheè di sicuro una città inglese, come si riconosce dalla giubba dell’uni-

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LA S A N TA DEL MESE

Ecco una donna che ha compiutograndi cose in segreto. Hadewijchdi Anversa visse a metà del XIII se-colo, negli antichi Paesi Bassi, eproveniva da una famiglia nobile

che apparteneva al movimento delle beghine.Morì intorno ai sessant’anni, tra il 1260 e il

1269, dopo essere stata una maestra spiri-tuale. Ha scritto L e t t e re , Poesie e redat-

to Visioni, rivolgendosi in modoparticolare a laici. È stata citatae valorizzata dallo spirituale emistico Jan van Ruusbroec. Lasua esperienza mistica è statavissuta al di fuori dei mondi uni-versitari, clericali e maschili. Ineffetti il beghinismo, di cui in-dubbiamente Hadewijch ha fattoparte, è un movimento di reazionespirituale: si trattava di liberarsi dairigidi schemi della vita monastica.Le menti volevano sbarazzarsi delformalismo, seguire i consigli evan-gelici senza pronunciare voti, in pie-no mondo, al centro delle città. Il fi-

Che Dio ti sia Dioe che tu gli sia amore

Versi di Hadewijchin un testo del XIV secolo

ne era quello di ritornare alla vita delle donnedella Chiesa primitiva, fossero esse vergini o ve-dove. Il beghinismo fu un movimento moltofervente. I beghinaggi più celebri furono quellidi Bruges e di Gand, a Strasburgo si contavanosessanta case di beghine e nel 1240 a Cambraic’erano 1300 beghine. Meister Eckart predicòspesso a beghine. L’insegnamento di Hadewijchverte soprattutto sul cammino che l’anima devecompiere per somigliare a Dio. Questo consistenella comunione con Dio e soprattutto nel fattoche l’essere umano, colmato interamente daDio, diviene a lui simile. La similitudine conDio si definisce come amore. Il punto di par-tenza della sua mistica è dunque la conversioneverso la profondità dell’anima: spiega che è nelprofondo di sé che l’essere umano si scopre

slancio spontaneo verso Dio. Perciò spesso neisuoi scritti e nelle sue lettere raccomanda di di-ventare ciò che siamo nel profondo.

Hadewijch ci ha lasciato una raccolta di tren-tuno L e t t e re , di cui si pensa che lei stessa cono-scesse l’importanza. Non vi disserta, ma viesprime piuttosto i suoi sentimenti amichevoli,o meglio la sua amicizia, per le giovani donnealle quali si rivolge. Di fatto l’amicizia, così co-me lei la concepisce, non è fine a se stessa. Asuo parere è l’amore divino a sostenere questoamore umano e a farlo crescere. Inoltre il gene-re epistolare le consente di dare maggior spesso-re all’espressione diretta della sua esperienzaprofonda. Condivide così la sua testimonianzapersonale sulla sua vita d’innamorata e anche ilsuo insegnamento, che lei stessa dice di prende-

di CAT H E R I N E AUBIN

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re direttamente da Dio. Per questa mistica il fi-ne dell’esistenza umana consiste dunque nel fat-to che l’essere umano diventi amore come Dio èamore. In questo amore egli diviene una cosasola con Dio, e questa unità con Dio si crea conla mediazione di Cristo. Nella sua Lettera 18

scrive: «L’anima è per Dio una via libera, dovelanciarsi dalle sue profondità ultime; e Dio incambio è per l’anima la via della libertà, versoquel profondo dell’essere divino che nulla puòtoccare, se non il profondo dell’anima».

Come l’artista con il suo scalpello toglie dalblocco di marmo tutto ciò che è di troppo perrealizzare il capolavoro che ha in mente, così, inquesta prospettiva, la vita dell’anima non è con-quista, ma spogliamento liberatorio: «L’animadeve restare nuda davanti a Dio e spogliata diogni riposo che non sia il suo». Per ritrovare ilsuo vero essere in Dio, la creatura deve spo-gliarsi. Ecco cosa scrive nella Lettera 6: «Se vuoiraggiungere l’essere in cui Dio ti ha creata, devi,con grande nobiltà, non rifiutare alcun dolore».

Il cammino spirituale dell’anima è allora risco-perta, restituzione di quello che siamo in Dio, èdall’amore che l’anima viene liberata e raggiun-ge il suo vero essere, quello che Dio ha pensatoeternamente: perciò nella sua Lettera 22 conclu-de dicendo: «Essere quel che Lui è, niente dimeno».

In altre parole, mette in risalto la dottrina se-condo cui l’anima è in Dio in eterno e pertantooccorre ritrovare questo essere originario che èDio. Il suo insegnamento si fonda sulla Scrittu-ra; san Giovanni nel suo prologo lo esprime co-sì: «Tutto è stato fatto per mezzo di lui… In luiera la vita» (Giovanni 1, 3) e questa vita è il Ver-bo, Cristo. A sua volta san Paolo scrive: «Egli[Cristo] è immagine del Dio invisibile…, permezzo di lui sono state create tutte le cose…Egli è prima di tutte le cose e tutte sussistonoin lui» (Colossesi 1, 15-17). Tutte le creature sonocomprese, designate in anticipo, incorporate nelVerbo, che è l’archetipo della creazione. Ciò si-gnifica che l’archetipo divino è nel profondodell’anima, vi dimora. Nella sua Lettera 2, scri-ve: «Se vuoi infine ottenere ciò che è tuo, dona-ti a Dio, e divieni ciò che Lui è», poiché «chiama di un amore più ardente corre più veloce,arriva prima alla santità divina che è Dio stes-so» (Lettera 13). Si tratta per Hadewijch di spie-gare a quella giovane a cui la lettera è indirizza-ta che deve ritornare al suo essere eterno, quelloche abbiamo in Dio. Di fatto l’anima deve per-dersi per ritrovarsi Dio con Dio; si tratta diun’assimilazione a Dio, di una deificazione. Ec-co le sue parole nella Lettera 9: «Che Dio ti fac-cia sapere Chi è e che ti assorba in Lui stessonelle profondità della saggezza. Là in effetti tiinsegnerà ciò che Egli è e quanto dolce sia l’abi-tare dell’amato nell’amato». In questa prospetti-va, amare è essere, perché l’amore ci fa essere dipiù, ci riporta alla nostra origine. O, per dirlocon le sue parole: «Che Dio ti sia Dio e che tugli sia amore» (Lettera 12).

L’autriceSuor Catherine Aubin, domenicana, èdocente di teologia spirituale esacramentale alla Pontificia università SanTommaso d’Aquino, Angelicum, eall’istituto di vita consacrata Claretianum,a Roma, e professore ospite all’istitutopastorale dei domenicani a Montreal. Trale sue opere tradotte in diverse linguericordiamo: Prier avec son corps à la manière

de saint Dominique (Paris, Cerf, 2005); Les

fenêtres de l’âme (Paris, Cerf, 2010); Les

saveurs de la prière (Paris, Salvator, 2016);Prier avec son cœur, la joie retrouvée, (Paris,Salvator, 2017).

NEL NUOVO T E S TA M E N T O

Le donnedelle parabole

di CA R O LY N OSIEK

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Una panoramica delle donne nelle paraboledi Gesù ci mostra due tipi diversi di per-sonaggi femminili: le donne esplicitamen-te presenti nel racconto e quelle la cuipresenza è implicita, permettendoci ancheun rapido sguardo a un terzo tipo, ovveroquelle che dovrebbero esserci, ma chestranamente sono assenti. Prima di tutto

dobbiamo ricordare che le lingue più coniugate, tra cui il greco clas-sico, usano sostantivi e aggettivi plurali maschili per indicare non so-lo un gruppo di uomini, ma anche un gruppo misto di uomini edonne. Pertanto, in molti passi è difficile sapere se si parla di ungruppo di soli uomini o di un gruppo misto. Un esempio di ciò lotroviamo nella parabola degli operai della vigna (Ma t t e o 20, 1-16).Poiché a parlare sono uomini, presumiamo che tutti gli operai sianouomini. Ma la vendemmia era un lavoro che coinvolgeva l’intera fa-miglia. È quindi possibile che per vendemmiare sia stato ingaggiatoun gruppo misto di nuclei familiari, costituiti da uomini, donne ebambini.

Un altro esempio è il racconto degli ospiti invitati alla festa (Ma t -

teo 22, 1-14; Luca 14, 15-24). La cultura della Galilea rurale del primosecolo non era così dominata dagli uomini da non consentire alledonne di partecipare ai pranzi nelle occasioni importanti.

Per loro stessa natura, le parabole prendono le cose comuni dellavita ma le girano leggermente, in modo che riverberino in una di-mensione diversa, con un nuovo significato. Di solito, nelle parabolele donne, come anche gli uomini, fanno ciò che fanno normalmente:in questo caso, preparare cibo, partecipare a un matrimonio, partoriree gestire le finanze della famiglia. Prima di poter fare il pane, il gra-no raccolto deve essere macinato con mortaio e pestello per farnedella farina, il che è senz’altro compito delle donne. Quindi duedonne macinano il grano insieme, preparando la farina per il loro pa-ne quotidiano. Ma, come illustrazione escatologica, ne rimane solouna dopo che l’altra è stata portata via in un istante apocalittico(Ma t t e o 24, 41; Luca 17, 35). Quella rimasta sa che cosa è accaduto?Ha pianto per la perdita della compagna o ha gioito per la sua nuo-va identità?

Una donna prepara il pane mettendo il lievito in una massa di fa-rina inumidita, gesto che le donne nelle società mediterranee compi-vano ogni giorno. Ma invece di limitarsi a mescolarlo, lo nasconde inmezzo a una quantità considerevole di farina, ovvero tre misure,l’equivalente di circa 25 chili attuali. La stranezza della piccola quan-

Domenico Feti«Parabola della dracmaperduta» (1618-1622)

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Ma ognuno ha i propri limiti, e la vedova sa come spingerlo oltre isuoi. Pur essendo privo di qualsiasi valore morale, farà ciò che ladonna chiede solo per liberarsi di lei. Egli non teme Dio e non hariguardo per le persone, ma ha paura del danno che questa vedovainsistente potrebbe arrecargli. La maggior parte delle traduzionisuggerisce, al verso 5, che lei lo logorerà o lo sfinirà. La parola usataqui, hypopiàzein, può significare tormentare, ma ha connotazioni piùforti, ossia di una vera e propria aggressione fisica o di un colpo infaccia. Forse egli teme che la vedova finisca con l’essere tanto esaspe-rata da aggredirlo, da schiaffeggiarlo in pubblico, di essere messo inimbarazzo e di sembrare ridicolo nel doversi difendere contro unasemplice donna. È un racconto piuttosto insolito per parlare dip re g h i e r a !

La parabola delle giovani che partecipano alle nozze è oscura perquel che riguarda il modo in cui rispecchia le pratiche effettive del ri-to nuziale, ma una cosa è evidente: cinque di queste giovani non sisono preparate come avrebbero dovuto. Come tutti coloro, in qual-siasi cultura, che non guardano avanti, esse vengono lasciate indietroper la loro mancanza di preparazione. La loro sprovvedutezza contie-ne una dimensione di prospettiva escatologica: siate pronte quandolo sposo arriverà! Ma alle parabole ci si può avvicinare da molti lati,e quindi vale la pena interrogarsi anche sul contesto più ampio e do-mandarsi se le altre cinque, che di olio ne avevano portato abbastan-za, non avrebbero potuto condividerne un po’, arrivando comunquedove volevano andare. Non sono generose poiché temono di rimane-re senza olio e quindi si preoccupano solo di se stesse. Al posto diun gruppo messo contro l’altro, forse uno spirito di cooperazioneavrebbe permesso a tutte di partecipare insieme alla festa. Questa pa-rabola (Ma t t e o 25, 1-13) riguarda la preparazione escatologica, la man-canza di generosità o entrambe?

Il vangelo di Giovanni non contiene lunghe parabole, ma è riccodi immagini e metafore: acqua, pane di vita, buon pastore e portadelle pecore, vite e tralci. Una breve allusione attinge all’esp erienzafondamentale delle donne di dare la vita. La donna che sta per par-torire è mesta perché sa che l’attende molto dolore. Ma una voltapassato il dolore, la sua tristezza si trasforma in gioia perché è venutaal mondo una nuova vita (Giovanni 16, 21). Quell’evento ordinario,quotidiano e tuttavia rischioso per la vita che è il parto, come spessoaccade nella fantasia umana diventa l’alba di una nuova vita e dinuove prospettive, un nuovo inizio.

Quindi finora abbiamo donne che macinano il grano, che impasta-no il pane o che custodiscono monete, giovani vergini a un matrimo-

Carolyn Osiek haconseguito undottorato in NuovoTestamento e originicristiane pressol’università diHarvard. Per trentadueanni è stata docente diNuovo Testamentopresso la CatholicTheological Union diChicago e presso laBrite Divinity Schooldella Texas Christian

tità di lievito nascosta nella grande massa di pasta diventa il lavoromisterioso nascosto del Regno (Ma t t e o 13, 33; Luca 13, 21). È possibileche la donna che fa il pane sia addirittura un’immagine di Dio cheinfonde nuova vita alle cose ordinarie?

E ora passiamo alle feste. Un pastore lascia novantanove pecoreper andare a cercare quella smarrita e poi gioisce con i suoi amici evicini perché è stata ritrovata (Luca 15, 3-6). Allo stesso modo, unadonna che ha perso una moneta spazza e cerca fino a quando non latrova, e poi festeggia con le sue amiche e le sue vicine perché la mo-neta è stata ritrovata (Luca 15, 8-10); infine, il padre gioisce per il ri-torno del figliol prodigo e organizza un banchetto per fare festa, condisappunto del figlio maggiore (Luca 15, 11-32). Mentre Matteo ciparla solo del pastore che cerca la pecorella smarrita (Ma t t e o 18, 12-13), Luca crea un equilibrio tra i generi aggiungendo tale racconto aquello della donna che ha perso la moneta. La parabola della donnache ha perso la moneta è l’elemento centrale della trilogia su ciò cheè smarrito e viene ritrovato.

Nelle intenzioni di Luca è importante l’equilibrio dei generi tral’uomo pastore e la donna casalinga. Dobbiamo però ricordare che ipastori non erano solo uomini. La parabola del pastore viene inter-pretata così intensamente a partire dall’autoidentificazione di Gesùcome pastore in Giovanni 10, da renderci difficile ricordare che anchele donne, perfino le giovani erano pastori, come per esempio Rachele(Genesi 29, 5-9) o le figlie di Ietro (Esodo 2, 16). Mentre questo pasto-re è intenzionalmente uomo, altri testi ci dicono che i pastori sono dientrambi i sessi.

Nel vangelo di Luca, Gesù ricorre alla storia di una donna chenon si arrende per illustrare la necessità di persistere nella preghiera(Luca 18, 1-8). Una vedova cerca giustizia nei confronti di una perso-na che l’ha sfruttata e non dà pace al giudice fino a quando questinon le dà ciò che chiede. Forse però “giustizia” è la traduzione erratadi ekdikèin. Ciò che essa vuole nei confronti del suo avversario asso-miglia più a una rivalsa: chiede che le sia data ragione e desideral’indennizzo che le spetta. È un racconto strano che non si prestaall’allegoria, sebbene l’introduzione (v. 1) suggerisca che la vedova èun modello di preghiera e una persona che implora la potente figuradell’autorità, quindi Dio. Ma lo stesso non vale per il giudice! Eglinon teme Dio, né rispetta l’autorità umana; non è certo un modellod’onore. Malgrado le numerose ingiunzioni bibliche a trattare le ve-dove con giustizia (per esempio Esodo 22, 22-24 e D e u t e ro n o m i o 10,18), lui intende ignorarla, nella speranza che rinunci e vada via. Difatto, il giudice vive ingiustamente non rendendo un giusto giudizio.

L’autrice

University, a FortWorth, in Texas, doveè ormai docenteemerita. È autricedi numerosi libri earticoli.Attualmente èarchivista provincialedella Società del SacroCuore per la provinciadegli Stati Uniti eCanada.

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durlo al silenzio. Gesù invece trasforma l’intero incontro in un inse-gnamento sulla trascendenza della vita risorta al di là delle istituzioniumane, e la donna non deve più confrontarsi con un simile dilemma.

Ci sono anche strane assenze di donne in alcune delle parabolepiù note. In Luca 11, 5-8, un padrone di casa ha un vicino amico chericeve ospiti a tarda ora e non ha provviste sufficienti, quindi bussaalla porta accanto per chiedere in prestito un po’ di pane. All’inizioil vicino rifiuta perché la porta è chiusa a chiave e lui e i suoi figlisono a letto. Tuttavia, data l’insistenza del vicino che sta alla porta sialza e, come il giudice ingiusto, gli dà ciò che chiede solo per libe-rarsene. Ma dov’è sua moglie, che dovrebbe essere la persona che infamiglia decide se dare via del cibo? Sarebbe altrettanto restia adaiutare un vicino nel bisogno? È questa la ragione per cui non vienemenzionata nel racconto?

Un’altra strana assenza di una donna la si trova nella parabola delfigliol prodigo, o dei due figli, o del padre misericordioso (Luca 15,11-32), il terzo racconto della trilogia di Luca su ciò che è smarrito eviene ritrovato. Il racconto stesso appare come uno sviluppo, da par-te dell’evangelista, della più semplice parabola di Matteo su un pa-dre e i suoi due figli che rispondono in modo differente, l’uno dicen-do “sì” e non facendo ciò che gli viene chiesto, l’altro dicendo “no”,ma facendolo comunque (Ma t t e o 21, 28). Leggendo il racconto, ci sidomanda quale ruolo potrebbe avere avuto la madre nel permettereal giovane di andarsene stupidamente per i fatti suoi e nel convincereil figlio maggiore a essere meno restio a dover di nuovo dividerel’amore dei genitori. Nel famoso dipinto di Rembrandt, dove il figliominore è inginocchiato ai piedi del padre e chiede di essere nuova-mente accolto, sullo sfondo c’è una figura indistinta non identificabi-le, che alcuni hanno interpretato come la madre mancante.

Delle donne mancanti potremmo continuare a chiedere: c’eranotra gli ospiti e anche tra i passanti invitati al grande banchetto (Ma t -

teo 22, 1-10), o tra i poveri, gli storpi, i ciechi e gli zoppi (Luca 14, 16-24)? Di certo sono tra la folla di tutte le nazioni che alla fine deitempi dovrà essere giudicata per come ha trattato gli altri: dando damangiare agli affamati, accogliendo gli stranieri, vestendo gli ignudi,visitando gli infermi e i carcerati; e certamente ci sono delle donnetra gli affamati, gli assetati, i senzatetto, gli ignudi, gli infermi e icarcerati, tra quanti hanno ricevuto la loro misericordia.

A volte è solo la nostra immaginazione a escludere le donne dauna presenza più piena nelle parabole di Gesù.

nio, una vedova insistente e una donna che sta per partorire. Se pas-siamo a esaminare i personaggi femminili che non hanno un ruolo daprotagoniste dirette nelle parabole, troviamo il brutto volto dellaschiavitù, così come veniva praticata nel mondo romano. La paraboladel servo spietato (Ma t t e o 18, 23-35) è drammatica. A causa di un de-bito crescente che non è in grado di restituire, un servo al quale era-no state affidate le ricchezze di un re e che le aveva gestite male si ri-trova a rischiare di essere venduto insieme alla moglie, ai figli e a tut-ti i suoi beni per ripagare il debito (v. 25). La sua famiglia si trova adaffrontare lo sradicamento e l’incertezza circa il suo destino. Qui laserva, della quale non viene detto il nome, è una vittima innocentedegli errori di suo marito. Si sarebbe rallegrata con lui per la miseri-cordia del re e gli avrebbe chiesto di comportarsi allo stesso modocon il suo debitore. Viene lasciata nella disperazione insieme ai figli,poiché invece la storia si conclude con il marito che viene gettato inprigione e torturato.

La storia che i sadducei propongono a Gesù per mettere alla pro-va la sua interpretazione della cosiddetta legge del levirato (Ma t t e o

22, 23-28; Ma rc o 12, 18-23; Luca 20, 27-33; D e u t e ro n o m i o 25, 5-6) parladi una donna che è stata moglie di sette fratelli, i quali, uno dopo

C’erano le donne tra gli ospiti e anche tra i passantiinvitati al grande banchetto o tra i poveri, gli storpi, i ciechi

e gli zoppi ricordati nelle parabole?Di certo sono tra la folla di tutte le nazioni che alla fine dei tempi

dovrà essere giudicata per come ha trattato gli altri

l’altro, sono stati suoi mariti. Dal secondo al settimo, i matrimoniavevano lo scopo di generare figli per dare una discendenza al primomarito. Abbiamo qui una donna intrappolata tra dovere familiare euna serie disorientante di uomini. Qualcuno le avrà mai chiesto qualera la sua volontà in tutto questo? Secondo la legislazione del Deute-

ro n o m i o , è la donna a prendere l’iniziativa per il matrimonio successi-vo se il fratello è riluttante (D e u t e ro n o m i o 25, 7-10). La parabola ovvia-mente è un trabocchetto degli avversari di Gesù, i sadducei, i qualinegavano la risurrezione dopo la morte, per vedere se riuscivano a ri-

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Donne di diversa età,provenienza ed estra-zione sociale si raccon-tano e si offrono allosguardo dell’obiettivosenza paura di mostra-re occhiaie, smagliatu-re, cicatrici e chili di

troppo: donne normali, colte in pose naturalisono le protagoniste del progetto fotografico in-titolato The Honest Body Project e nato nel 2015,in una piccola città della Florida, da un’ideadella fotografa Natalie McCain.

Donne, provenienti inizialmente dalla comu-nità di McCain in Florida, hanno raccontato al-la fotografa le loro storie di maternità gioiosa osofferta, di riscatto dalla violenza subita, di resi-stenza alla malattia attraversata, di depressioneda poco lasciata alle spalle, di lutto, di vergo-gna, di lotta contro le convenzioni sociali: leimperfezioni fisiche mostrate, la storia che le ac-compagna vengono a costituire stavolta il loropunto di forza, in quanto cifra di unicità e one-stà, da cui il titolo del progetto. I corpi delle

che la rappresentazione sprigiona. I corpi, foto-grafati nella loro “naturale imperfezione”, anzi-ché fisicità deformate si presentano come dei ve-ri e propri “romanzi di formazione”, testimo-nianze di un vissuto spesso dolente e contrasta-to, ma sempre “in divenire”, dunque combattivoe fiducioso.

The Honest Body Project dà dunque voce allareazione delle donne alla tirannia della sperso-nalizzazione, dell’uniformità pena l’esclusione,sottolineando invece, come decisiva, la sceltapersonale, la sfida alle convenzioni, la faticaquotidiana di realizzare contro tutto e contro

ARTISTE

Corpiche parlanodi ELENA BUIA RUTT

donne fotografate, mostrando una bellezza alnaturale, rifuggono da ogni “dover essere”, daogni standard di bellezza imposto da una socie-tà controllata da un potere per lo più maschile,forti di un vissuto di cui la fisicità è specchio.

È proprio dal racconto delle donne che l’han-no contattata che Natalie McCain è partita e siè lasciata ispirare, per iniziare a visualizzare in-teriormente il ritratto fotografico che sarebbeandata a scattare: il successo della foto risultaquindi determinato dalla riuscita o meno diquesta connessione emozionale tra parola e im-magine. McCain si è rifatta alla fotografia di

Brandon Stenton, autore del popolarissimo blogHumans of New York, per l’impatto emozionale,per l’intenzione di raccontare il vissuto autenti-co della gente comune, per l’intuizione artisticadell’associare immagine e testo.

La tecnica del bianco e nero usata per i ri-tratti dell’Honest Body Project, oltre al nero scel-to come unico colore degli indumenti intimi,compone una sorta di affreschi caravaggeschi,in cui la luce scolpisce e fa emergere la figurache si staglia sempre e solo su sfondo scuro:l’attenzione dello spettatore si concentra non suiparticolari anatomici, ma sull’energia emotiva

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tutti ciò che in cuore proprio si ritiene giusto.Come ad esempio nel caso dei ritratti, con ilbambino al seno, di donne che hanno deciso diprolungare l’allattamento, sfidando un ormaitristemente diffuso imbarazzo sociale; o nel casodi giovanissime che, abbandonate incinte dalpartner, hanno scelto di non abortire e di com-battere per allevare sole il proprio figlio; o nelcaso dei ritratti di mamme fuori forma dopo lamaternità, comunque realizzate e sorridenti.Proprio a questo riguardo Natalie McCain insi-ste, per contrastare la pressione irrealistica edannosa che grava sulle donne perché “torninocome prima”, come a voler cancellare con uncolpo di spugna i segni un’esperienza radicale,fisica e mentale come la gravidanza. Sta final-mente alle madri trasmettere ora immagini sanedel corpo alla prossima generazione di donne euomini che stanno crescendo, per educarli amostrare senza timore la propria verità, per alle-varli in tal modo nel rispetto dell’alterità.

Del progetto, infatti, diviso in varie sezioni,ognuna delle quali riguarda un argomento spe-cifico, colpiscono soprattutto le foto delle mam-me, ritratte in bianco e nero, accanto ai loro fi-gli: donne che non nascondono all’obiettivo leferite dei tagli cesarei, le smagliature, il sovrap-peso causato dalla gravidanza, la stanchezza do-vuta all’accudimento quotidiano. Eppure queste“mamme normali” appaiono raggianti anche sela loro storia narra il dolore attraversato; la foto“non patinata” le ritrae cariche di bellezza e dienergia accanto ai loro bambini, mentre le posenaturali, la mancanza di trucco o di un partico-lare abbigliamento fanno detonare l’energia po-

sitiva di un vissuto finalmente legittimato e nonpiù censurato.

Questo vale anche per il ritratto di una don-na che racconta la sua lotta contro il cancro enon ha temuto di essere fotografata con il senosfregiato in posa con i suoi figli, in nome deiquali racconta di aver combattuto la malattia:bambini che posano con lei e la guardano sere-ni e pieni di vita. Lo stesso si dica per i ritrattidi mamme e bambini autistici, con sindrome didown, con ritardo mentale o fibrosi cistica: ma-dri e figli che escono finalmente dall’anonimatoin cui la vergogna, la fatica, la paura li avevanocostretti e si mostrano all’obiettivo liberi di esse-re quello che sono.

La sezione più toccante della serie The Honest

Body Project è sicuramente quella delle mammeche hanno perso il proprio bambino. NatalieMcCain ha fotografato il loro dolore, di solitotaciuto dai media, consapevole dell’imp ortanzadel condividerlo: moltissime donne, infatti, sisono ritrovate in questa esperienza di lutto e, la-sciando un commento al termine delle serie fo-tografiche, hanno iniziato ad affrontare l’isola-mento, il dolore, il tabù stesso di parlare dellamorte.

Il successo di questo progetto fotografico èstato così rilevante che nell’agosto scorso è usci-ta la pubblicazione intitolata The Honest Body

Project: Real Stories and Untouched Portraits of

Women & Motherhood, in cui, in 234 pagine difoto e racconti, le “donne reali” hanno iniziato ariappropriarsi, senza censura e ritocco alcuno,del proprio corpo e della propria esperienza.

GI O VA N N I 1, 1-18

«In principio»: lasciamoci stupire ancora e dinuovo dall’inno poetico che dischiude il quartovangelo. L’intera Bibbia si apre con un «inprincipio». Nei primi versetti della Genesi leg-giamo infatti che «in principio Dio creò il cieloe la terra», chiamò all’esistenza la luce, che si ir-radia, si dipana e riempie ogni piega del creatocon armonia, ordine e bellezza, concedendo allavita di poter germogliare, di poter fiorire.

«In principio era la Parola» (Giovanni 1, 1).Prima di ogni cosa, di ogni pensiero o preoccu-pazione, di ogni presenza o assenza, il vangelosecondo Giovanni ci annuncia una parola, ilDio-con-noi che ci viene incontro come parola,la Parola, come relazione, luce e vita. «La Paro-la era presso Dio e la Parola era Dio» (Giovanni

1, 1). La Parola, il Verbo, da cui tutto dipende,da cui tutto è sostenuto, nella vita come in unaproposizione. Senza Verbo non c’è comunica-zione, non c’è dialogo, non c’è vita. Occorrequalcuno che desideri stare in comunicazione,

ME D I TA Z I O N E

Pa ro l avita e luce

a cura delle sorelle di Bose

Paul Klee «Al centro» (particolare, 1935)Nella pagina seguente:

Anthony McCall «You and I Horizontal»(particolare, 2005)

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che pronunci parole, e qualcuno che osi acco-glierle, che vi corrisponda con fiducia, con slan-cio. Così, per grazia, ci sarà terra per la comu-nione. Dio ci viene incontro perché è da semprein attesa di noi. Ci viene incontro come Parolaper mezzo della quale tutto è stato fatto, princi-pio vitale per cui tutto viene all’esistenza — chenoi lo riconosciamo o no, che noi accogliamoquesta luce o rimaniamo nelle tenebre, nell’indi-stinto.

La Parola che era dal principio non esita amanifestarsi nella storia, nello scorrere terrosodei giorni. L’evangelista ci presenta «un uomomandato da Dio» (Giovanni 1, 6) il cui nomeera Giovanni, il testimone venuto «per renderetestimonianza alla luce, perché tutti credesseroper mezzo di lui» (Giovanni 1, 7). Giovanni ilPrecursore, colui che è capace di indicare Gesùdi Nazaret quale Parola eterna del Padre, che hail coraggio di farsi da parte, di stare ai marginiper lasciare spazio a lui, lui del quale può affer-mare che gli è passato davanti perché era primadi lui (cfr. Giovanni 1, 15). Gesù è la luce veravenuta nel mondo, luce venuta da Dio essendonel seno del Padre, venuta per illuminare ogniuomo, per rischiarare e riscaldare chi giace nelletenebre della morte, per orientare i passi sullavia della pace (cfr. Luca 1, 79). Lui stesso, luceche si irradia, è la pace, chiamata a risplenderein ciascuno e in tutti, perché per questo era edè dal principio.

La luce, come la Parola, come la vita, chiededi essere accolta, non si impone. Viene nella li-

bertà e lascia liberi, liberi di riconoscerla nei no-stri frammenti. «E la Parola si fece carne e ven-ne ad abitare in mezzo a noi» (Giovanni 1, 14):il Verbo che era presso Dio si dona, osa veniretalmente vicino all’uomo da divenire la sua stes-sa carne, la sua stessa fragilità. L’uomo divienela dimora della Parola, ne diventa suo irradia-mento — se solo le concedessimo spazio, se soloce ne lasciassimo rivestire dall’interno! L’uomopuò riconoscersi generato da Dio, figlio stessodi Dio, di quel Dio Padre che nessuno ha maivisto né può vedere, ci dice la Scrittura, eppureche nel Figlio unigenito si rivela, si rende narra-zione. Il Figlio ci viene incontro «pieno di gra-zia e di verità», colmo di splendore e di fedeltà,ricapitolando in sé l’intera storia di ciascuno edell’umanità tutta, la storia dell’Alleanza che inMosè ha fondamento amico e certo. Nel Figlio,Parola che era dal principio, possiamo ricono-scere la pienezza di ogni grazia, di ogni benedi-zione, anche al di là, oltre e attraverso le pieghedel male di cui è segnata la storia, ogni nostraesistenza contrassegnata dal limite, dall’enigma-tico, dall’incomprensibile, dalla paura, da ognimorte. «In principio era la Parola», è la vita: ese è dal principio non può che essere sino allafine, sino alla fine dei nostri giorni, di ogni no-stra attesa e speranza, di ogni nostra parola,pronunciata o solo immaginata, ascoltata o sfio-rata, desiderata o elusa, anelata e pregata.

Vieni in mezzo a noi, Parola di vita, luce in-vocata, e rendici capaci di divenire tuo river-b ero!