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Dipartimento per la Funzione Pubblica Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione IL LINGUAGGIO DELLE ISTITUZIONI PUBBLICHE nei discorsi di insediamento Avvocatura dello Stato, Consiglio di Stato, Corte dei conti --------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- a cura di FEDERICO BASILICA e STEFANO SEPE

IL LINGUAGGIO DELLE ISTITUZIONI PUBBLICHE - SNA ITsna.gov.it/ · ad uso delle amministrazioni pubbliche, un lavoro organico sul linguaggio e sullo stile degli uffici pubblici, utilizzati

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Dipartimento per la Funzione Pubblica Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione

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IINNDDIICCEE PREFAZIONE di Federico Basilica

1. “PRODOTTI VINICOLI” O “FIASCHI DI VINO”? 2. IL CASO DELLE ALTE ISTITUZIONI: METODI E FINALITÀ DI QUESTA RICERCA PARTE PRIMA: PROFILI INTERPRETATIVI I - IL LINGUAGGIO DELLE ISTITUZIONI NELLA DINAMICA DEI RAPPORTI TRA AMMINISTRAZIONI PUBBLICHE E CITTADINI di Stefano Sepe

1. CITTADINI, ISTITUZIONI, COMUNICAZIONE 2. DALLO STATO "SEPARATO" ALL'AMMINISTRAZIONE "COMPRENSIBILE" 3. IMMAGINE DELLE AMMINISTRAZIONI E IDENTITÀ DELLE BUROCRAZIE 3.1. burocrazia e cittadini 3.2. “Reputazione” delle istituzioni e qualità dei servizi 4. IL LINGUAGGIO DELLE ISTITUZIONI: PROBLEMI DI LUNGA DURATA E PROSPETTIVE 4.1. La comprensibilità delle leggi come metro della democrazia 4.2. I diritti “negati” dei cittadini 4.3. I tentativi di innovazione: dal “Codice” al “Manuale” di stile 5. I NUOVI SCENARI DOPO LA LEGGE QUADRO SULLA COMUNICAZIONE E L’INFORMAZIONE DELLE PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI II - LE PROCEDURE DI NOMINA DEI VERTICI E LE CERIMONIE DI INSEDIAMENTO DELL’AVVOCATURA DELLO STATO, DEL CONSIGLIO DI STATO E DELLA CORTE DEI CONTI di Gabriella Palmieri Sandulli

1. LE PROCEDURE DI NOMINA 1.1. L’Avvocatura dello Stato 1.2. Il Consiglio di Stato 1.3. La Corte dei conti 2. LE CERIMONIE DI INSEDIAMENTO

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III - PER LEGGERE I DISCORSI DI INSEDIAMENTO di Elena Bertonelli e Giaime Rodano

1. I CRITERI DI MISURAZIONE: LA LEGGIBILITÀ E LA COMPRENSIBILITÀ 1.1. La leggibilità 1.2. La comprensibilità 2. I DISCORSI DI INSEDIAMENTO 2.1. Le ragioni di una scelta 2.2. Gli strumenti dell’analisi 2.2.1. Leggibilità e comprensibilità attraverso gli indici Gulpease e Guiraud 2.2.2. Leggibilità e comprensibilità: dagli indici statistici alla griglia di rilevazione

PARTE SECONDA: GLI ESITI DELLA RICERCA a cura di Carmen Andreuccioli, Elena Bertonelli, Majka Cortese, Irene Dessì, Gabriella Palmieri Sandulli, Giaime Rodano I - ANALISI DEI TESTI

1. AVVOCATURA DELLO STATO Giuseppe Manzari La figura del relatore Il contesto storico Il contesto giuridico-istituzionale L’impianto logico-concettuale L’articolazione dei contenuti La leggibilità e la comprensibilità Giorgio Azzariti La figura del relatore

Il contesto storico Il contesto giuridico-istituzionale L’impianto logico-concettuale L’articolazione dei contenuti La leggibilità e la comprensibilità Giorgio Zagari

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La figura del relatore Il contesto storico

Il contesto giuridico-istituzionale L’impianto logico-concettuale L’articolazione dei contenuti La leggibilità e la comprensibilità Plinio Sacchetto La figura del relatore Il contesto storico Il contesto giuridico-istituzionale L’impianto logico-concettuale L’articolazione dei contenuti La leggibilità e la comprensibilità Luigi Mazzella La figura del relatore Il contesto storico Il contesto giuridico-istituzionale L’impianto logico-concettuale L’articolazione dei contenuti La leggibilità e la comprensibilità

2. CONSIGLIO DI STATO Antonino Papaldo La figura del relatore Il contesto storico Il contesto giuridico-istituzionale L’impianto logico-concettuale L’articolazione dei contenuti La leggibilità e la comprensibilità Vincenzo Uccellatore La figura del relatore Il contesto storico Il contesto giuridico-istituzionale L’impianto logico-concettuale L’articolazione dei contenuti La leggibilità e la comprensibilità Lionello Levi Sandri La figura del relatore Il contesto storico Il contesto giuridico-istituzionale L’impianto logico-concettuale

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L’articolazione dei contenuti La leggibilità e la comprensibilità Renato Laschena La figura del relatore Il contesto storico Il contesto giuridico-istituzionale L’impianto logico-concettuale L’articolazione dei contenuti La leggibilità e la comprensibilità Alberto De Roberto La figura del relatore Il contesto storico Il contesto giuridico-istituzionale L’impianto logico-concettuale L’articolazione dei contenuti La leggibilità e la comprensibilità

3. CORTE DEI CONTI Raffaele Rossano La figura del relatore Il contesto storico Il contesto giuridico-istituzionale L’impianto logico-concettuale L’articolazione dei contenuti La leggibilità e la comprensibilità Eduardo Greco La figura del relatore Il contesto storico Il contesto giuridico-istituzionale L’impianto logico-concettuale L’articolazione dei contenuti La leggibilità e la comprensibilità Eugenio Campbell La figura del relatore Il contesto storico Il contesto giuridico-istituzionale L’impianto logico-concettuale L’articolazione dei contenuti La leggibilità e la comprensibilità Francesco Sernia La figura del relatore

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Il contesto storico Il contesto giuridico-istituzionale L’impianto logico-concettuale L’articolazione dei contenuti La leggibilità e la comprensibilità Francesco Staderini La figura del relatore Il contesto storico Il contesto giuridico-istituzionale L’impianto logico-concettuale L’articolazione dei contenuti La leggibilità e la comprensibilità II - I QUINDICI TESTI A CONFRONTO: ANALISI COMPARATA

1. L’INDICE GULPEASE 1.1. Il numero delle lettere 1.2. Il numero delle parole utilizzate 1.3. Il numero delle frasi 2. L’ANALISI LESSICALE E SINTATTICA 2.1. La lunghezza dei testi 2.2. Il numero delle frasi lunghe 2.3 La percentuale delle frasi lunghe all’interno dell’intero testo 2.4. Il numero delle frasi brevi 2.5. La percentuale delle frasi brevi all’interno dell’intero testo 3. LE SOLUZIONI ESPRESSIVE 3.1. Il numero dei paragrafi 3.2. La media delle frasi per paragrafo 3.3. La media delle parole per paragrafo 3.4. La media delle parole per frase 3.5. Il numero delle sillabe per parola 3.6. Il numero delle lettere per parola 3.7. Le “parole meno diffuse” 3.8. I termini ricorrenti 4. L’INDICE DI GUIRAUD 4.1. Il numero delle “parole diverse” 5. LA GRIGLIA DI RILEVAZIONE

IIII - I DISCORSI DI INSEDIAMENTO E I CITTADINI

1. LA TENTAZIONE DEL “FACILISMO” 2. LA NECESSITÀ DI FAR CAPIRE

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Bibliografia essenziale APPENDICE ANALISI DEL DISCORSO DI FERDINANDO CARBONE IN OCCASIONE DEL CENTENARIO DELLA CORTE DEI CONTI, SEGUITA DAL TESTO INTEGRALE TESTO INTEGRALE DEI QUINDICI DISCORSI DI INSEDIAMENTO ANALIZZATI NELLA RICERCA

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PPRREEFFAAZZIIOONNEE ddii FFeeddeerriiccoo BBaassiilliiccaa 1. “PRODOTTI VINICOLI” O “FIASCHI DI VINO”? “Ogni giorno [...] centinaia di migliaia di nostri concittadini traducono mentalmente con la velocità di macchine elettroniche la lingua italiana in un'antilingua inesistente. Avvocati e funzionari, gabinetti ministeriali e consigli d'amministrazione, redazioni di giornali e di telegiornali scrivono parlano pensano nell'antilingua”. Era il 1965 quando lo scrittore Italo Calvino così commentava, in Una pietra sopra, il paziente lavoro del brigadiere che trascrivendo le parole di un interrogato traduceva "stamattina" con "ore antimeridiane" o "fiaschi di vino" con "prodotti vinicoli". Il “burocratese”, cioè il ricorso dell’amministrazione ad un linguaggio oscuro e inaccessibile, è una realtà con cui i cittadini sono stati spesso e sono ancora costretti a misurarsi. A ciò si aggiunga che, come rilevano anche gli operatori economici, l’uso di un linguaggio astruso è motivo di ritardi, di inefficienze e di costi, che, a ben vedere, diminuiscono la competitività del sistema complessivo. Oggi lo scenario è mutato profondamente. Già a partire dagli anni Ottanta si hanno i primi studi del problema, che però rimangono ancora limitati al solo mondo universitario e scientifico. In anni più recenti si sono cominciati a realizzare importanti cambiamenti nel modo in cui le Pubbliche amministrazioni si confrontano con i cittadini. E questi, a loro volta, hanno acquistato una maggiore coscienza dei propri diritti, come dimostra - ad esempio - la diffusione delle associazioni di consumatori e utenti o le molteplici trasmissioni televisive di denuncia. Da qui una crescente sensibilità delle stesse amministrazioni pubbliche verso le cosiddette attività di servizio. In tal contesto, sempre più importante diventa rimuovere le barriere costituite dal linguaggio burocratico oscuro e farraginoso: si deve rendere cioè sistematico l’uso di un linguaggio chiaro, anche attraverso l’introduzione di regole e di criteri. Informazioni complete e comunicate con un linguaggio comprensibile non solo garantiscono una piena attuazione del principio di uguaglianza fra i cittadini, ma favoriscono anche il rispetto delle leggi. La trasparenza comunicativa consente di limitare l’arbitrarietà nell’interpretazione e nell’attuazione delle norme.

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A partire da un decennio il Dipartimento della Funzione Pubblica ha assunto un importante ruolo propulsore in questo processo di riforma.Il primo passo tangibile verso la semplificazione del linguaggio amministrativo è stato fatto nel 1993, con la pubblicazione del Codice di stile delle comunicazioni scritte ad uso delle amministrazioni pubbliche, un lavoro organico sul linguaggio e sullo stile degli uffici pubblici, utilizzati nei confronti del cittadino. Lo studio predetto si inseriva nella “più ampia riflessione sull’attuazione della Legge 7 agosto, n. 241”, la quale ricomprendeva fra i propri “principi ispiratori la pubblicità dell’azione amministrativa e il diritto di accesso, entrambi di grande rilievo per la qualità dei rapporti fra pubbliche amministrazioni e cittadini”. In tale codice - per la prima volta in una prospettiva istituzionale - si riconosceva lo stretto nesso fra democrazia e chiarezza del linguaggio: la semplificazione e l’unificazione linguistica si presentavano funzionali alla reale trasparenza ed accessibilità, e quindi alla reale democraticità dell’agire amministrativo. Il volume, edito appunto dal Dipartimento della Funzione Pubblica, si ispirava ad analoghe esperienze di altri paesi. Si apriva con un'ampia introduzione teorica, cui faceva seguito una serie di raccomandazioni per la redazione di testi amministrativi chiari e accessibili. Molteplici erano gli aspetti presi in esame: dall'impostazione grafica del documento alla forma linguistica vera e propria. Apparentemente avulsi dal tema della semplificazione, ma ugualmente utili, erano alcuni criteri da seguire per un uso non sessista e non discriminatorio della lingua. La ricerca era completata da esempi pratici: un'antologia di documenti autentici di vario genere (bandi, moduli, deliberazioni, circolari), con - a fronte - versioni riviste alla luce dei principi precedentemente enunciati. In appendice, poi, era allegato il vocabolario di base della lingua italiana di Tullio De Mauro: le 7.000 parole di uso più comune, note, almeno alla metà degli italiani, da impiegarsi nei testi amministrativi. Purtroppo, il Codice, che avrebbe dovuto circolare capillarmente nelle amministrazioni pubbliche, ha avuto, invece, una diffusione piuttosto circoscritta, tanto da risultare oggi quasi introvabile. Così, l’anno dopo, il ministro ha ritenuto di varare un ulteriore progetto diretto alla Semplificazione del linguaggio amministrativo, che ha portato alla redazione del Manuale di stile, curato da Alfredo Fioritto: esso va inteso come la naturale prosecuzione del Codice. Più essenziale rispetto al precedente testo, il Manuale contemplava limitate premesse teoriche. L'intento era infatti quello di fornire agli operatori della pubblica amministrazione un pratico strumento di lavoro, da utilizzare nella attività quotidiana. Il volume si componeva di tre parti. La prima forniva suggerimenti - semplici e mai tecnici, come si conviene in un libro non rivolto a specialisti del linguaggio

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- relativi all'organizzazione logico-concettuale del documento, alla costruzione delle frasi e alla scelta delle parole. La seconda era costituita da un glossario, volto a spiegare circa 500 termini che spesso ricorrono nei testi amministrativi. La terza era una guida all'impaginazione dei documenti. Il 2002, infine, ha visto il Dipartimento della Funzione Pubblica particolarmente attivo sul fronte della lotta al burocratese. È stata infatti emanata la Direttiva sulla semplificazione del linguaggio e dei testi amministrativi, che detta regole stilistiche simili a quelle già presenti nel Codice e nel Manuale. È evidente, tuttavia, che queste regole, ora che sono recepite in una vera e propria direttiva, acquistano un carattere più formale, e quindi - entro certi limiti, perché comunque non si tratta di una legge - più vincolante per le amministrazioni. Inoltre, ha preso l'avvio il progetto “Chiaro!”, nel cui ambito si sono poi sviluppate varie iniziative. Fra queste vi è stata la creazione di un apposito staff, presso il Dipartimento stesso, al fine di diffondere le tecniche di semplificazione del linguaggio amministrativo e di realizzare un sito web, attraverso cui offrire consulenza diretta per riscrivere gli atti e i documenti delle amministrazioni. È stata poi avviata anche la pubblicazione di un bollettino di informazione trimestrale, "SLAM notizie". Infine, per incentivare gli enti pubblici a migliorare l'efficacia della loro comunicazione, è stato ideato il premio "Chiaro!", destinato alle amministrazioni che realizzano i testi più comprensibili: gli enti vincitori possono porre sui propri documenti il logo del premio, una sorta di marchio che ne attesta la qualità. Tale premio ha ottenuto un ampio consenso e un’attenta rispondenza da parte delle amministrazioni. Tuttavia, malgrado gli innegabili progressi fatti, il quadro generale è tutt’altro che idilliaco. È possibile constatare, infatti come molti documenti amministrativi continuino a essere pieni di frasi incomprensibili e di tecnicismi astrusi. Espressioni vagamente arcaiche tendono, spesso, tuttora, a prevalere su forme di significato simile, ma di uso più comune Non si tratta solo di limare, “aggiustare” il burocratese; occorre rimuovere consuetudini linguistiche ormai radicate, fossilizzate da anni e anni di riproduzione passiva e acritica di frasi fatte, formule stereotipe, convenzioni linguistiche vecchie. Il difetto di base del linguaggio della pubblica amministrazione è che tende ad ignorare uno dei principi fondamentali della comunicazione: la necessità di adattare il messaggio al destinatario - in questo caso, il cittadino -, tenendo conto delle sue esigenze e delle sue capacità di comprensione. Il linguaggio delle PA, come dicono gli esperti di scrittura professionale, non è reader-focused, ma writer-focused: troppo di frequente coloro che si occupano della stesura dei documenti negli enti pubblici lo fanno in modo autoreferenziale, non tenendo conto di chi all'esterno è chiamato a leggerli.

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Per cambiare il modo di comunicare non è dunque sufficiente applicare delle regole astratte apprese da un prontuario: deve mutare la mentalità, la cultura sottostante di cui il linguaggio non è che un riflesso. 2. IL CASO DELLE ALTE ISTITUZIONI: METODI E FINALITÀ DI QUESTA RICERCA L’impegno per la semplificazione e la chiarezza del linguaggio comincia finalmente a diffondersi nel campo certo non esiguo delle molteplici amministrazioni nazionali e locali. Tale impegno, indubbiamente arduo per la molteplicità degli aspetti che investe, può e deve essere integrato da studi per così dire paralleli. Essi possono e devono fornire non solo nuovi punti di vista, ma anche di aprire orizzonti dai quali la riforma del linguaggio amministrativo può trovare utili stimoli e ulteriori suggestioni per modificare formae mentis da troppo tempo consolidate. Proprio per tali ragioni il Dipartimento per la funzione pubblica ha deciso di avviare con Scuola superiore della pubblica amministrazione una collaborazione che si è concretizzata in un Progetto di ricerca sul linguaggio di alcune “istituzioni pubbliche nelle cerimonie di insediamento dei vertici”. Come è chiaro, e come peraltro ha confermato la presente ricerca, il linguaggio dei vertici istituzionali si inserisce un contesto diverso da quello che è proprio delle Pubbliche Amministrazioni. Diverso è stato pertanto l’approccio del Gruppo di lavoro, che si è dovuto misurare non tanto con il tran tran burocratico della quotidianità amministrativa, ma piuttosto con momenti particolarmente significativi (e in qualche modo eccezionali) della vita del Paese. Alla base della ricerca vi è lo sforzo di avvicinare alcune alte articolazioni dello Stato ai cittadini, illustrando e rendendo note a questa ampia platea le loro indispensabili e complesse funzioni. La ricerca si basa sull’esame del “linguaggio delle istituzioni pubbliche nelle cerimonie di insediamento” dei Presidenti del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, nonché dell’Avvocato Generale, posto al vertice dell’Avvocatura dello Stato. L’importanza di tali discorsi deriva dal fatto che, attraverso di essi, le supreme cariche si esprimono pubblicamente in termini programmatici e generali, rendendo in tal modo, espliciti il ruolo e le funzioni degli organi istituzionali - i più vicini al potere esecutivo - da esse presieduti. L’analisi dei testi è stata condotta tenendo conto, da un lato, del contesto storico, culturale, giuridico nel quale i discorsi di insediamento si collocano e, dall’altro, considerando le loro caratteristiche espositive, sotto il punto di vista della loro “leggibilità” e della loro “comprensibilità”. I membri del Comitato hanno cioè intrecciato nel lavoro di analisi testo e contesto, attraverso strumenti che hanno potuto così integrare uno studio a

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tutto tondo di documenti assolutamente peculiari per la loro altezza culturale e tecnica: uno studio che fosse parimenti in grado di giungere a una valutazione certamente puntuale, ma scevra al possibile dal gusto individuale e dunque da condizionamenti soggettivi. Il lavoro del Comitato si è pertanto mosso lungo strade diverse, ma non divergenti da quelle battute in anni precedenti; così pure diversi, ma non divergenti sono gli esiti cui si è alla fine pervenuti. Non si trattava infatti di giungere a un codice né - meno che mai - a un manuale che pretendesse di suggerire linee guida per la preparazione e l’elaborazione dei discorsi di in insediamento. Sarebbe stato in questa particolare fattispecie un obiettivo davvero improprio e dunque del tutto inutile. Si trattava, al contrario, di vedere come - nel processo irreversibile di avvicinamento dello Stato ai cittadini - anche queste alte istituzioni potessero essere meglio apprezzate e conosciute. Al riguardo, le analisi, le valutazioni e le considerazioni raccolte in questa ricerca possono rappresentare un utile ausilio per quanti a vario titolo ci auguriamo vengano chiamati a rappresentare ai cittadini la ratio di fondo dei discorsi di insediamento e a illustrare alla platea più ampia possibile natura, ruolo e funzioni di fondamentali Istituzioni del Paese. In questa direzione il Gruppo di ricerca ha formulato in sede conclusiva una serie di proposte che, mentre non ignorano quanto in ciascuna delle tre alte Istituzioni già oggi si sta utilmente operando, si rifanno agli esiti dei più recenti studi sul linguaggio e la comunicazione. Al tempo stesso, la metodologia che ha orientato la ricerca del Comitato potrebbe rivelarsi utile anche per tutti coloro che, quotidianamente, si trovano a cimentarsi con la scrittura di testi, documenti e discorsi, diretti sia all’interno sia all’esterno delle amministrazioni pubbliche. Misurare se stessi, valutare quanto e come ciò che si scrive sia leggibile e comprensibile è una sfida che può e deve essere onorata. In tal senso, questo almeno è l’auspicio, lo studio che qui si presenta può avere anche un suo valore programmatico ed esemplificativo.

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II -- IIll LLIINNGGUUAAGGGGIIOO DDEELLLLEE IISSTTIITTUUZZIIOONNII NNEELLLLAA DDIINNAAMMIICCAA DDEEII RRAAPPPPOORRTTII TTRRAA AAMMMMIINNIISSTTRRAAZZIIOONNII PPUUBBBBLLIICCHHEE EE CCIITTTTAADDIINNII ddii SStteeffaannoo SSeeppee 1. CITTADINI, ISTITUZIONI, COMUNICAZIONE Comunicare è, nei sistemi pubblici che vogliano dirsi democratici, un elemento costitutivo (in senso strettamente giuridico) dell’azione delle amministrazioni pubbliche. Non si dà amministrazione democratica che non abbia tra le sue attività principali quella di dialogare costantemente (e proficuamente) con i destinatari dell’azione dei poteri pubblici. Senza un'adeguata attività di comunicazione e informazione - è stato scritto - "non si fanno servizi utili, non si promuove accesso alle istituzioni e neppure si assicura l'efficacia dei provvedimenti”1. La necessità di affrontare il tema della comunicazione pubblica e istituzionale emerge, infatti, tanto in relazione alle informazioni possedute e/o utilizzate dai poteri pubblici, quanto in rapporto all'esigenza di favorire la partecipazione dei cittadini (consentendo un reale accesso ai documenti amministrativi e fornendo loro informazioni sui servizi resi dalle amministrazioni pubbliche ed in generale sui servizi di pubblica utilità). Sotto il primo profilo basta riflettere sulla circostanza, apparentemente banale, che i poteri pubblici costituiscono - nelle società contemporanee - il più mastodontico bacino di informazioni. Ciò ha molteplici ricadute nei rapporti tra i cittadini e amministrazioni: molte informazioni, riguardando direttamente la sfera personale, necessitano di particolare tutela; nel contempo, il possesso aggiornato di tali informazioni permette ai poteri pubblici di assumere decisioni più mirate; d'altra parte, per gli stessi cittadini, è possibile accedere ad un gran numero di dati in possesso delle amministrazioni pubbliche. Quanto all'esigenza di favorire - attraverso forme di comunicazione promosse e/o gestite dai poteri pubblici - la partecipazione dei cittadini alla vita pubblica basta rilevare, a titolo puramente esemplificativo, due aspetti. Il principio di accesso ai documenti amministrativi scardina il fondamento della tradizionale segretezza dell'azione amministrativa. La "trasparenza", come principio ispiratore della legge 241, presuppone strumenti organizzatori per renderla operante. La molteplicità delle attività svolte dalle amministrazioni pubbliche,

1 S. ROLANDO, La capitale umorale, Milano edizioni Metropoli, Milano 1998, p. 71

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ovvero da gestori di pubblici servizi, è tale da rendere indispensabili specifiche azioni mirate a chiarire ai cittadini: le modalità di esercizio e di fruizione del servizio; la sua estensione (temporale, spaziale, ecc.). Le amministrazioni pubbliche sovente non sanno comunicare e troppo spesso "dimenticano" di farlo. Altre volte lo fanno male. Corollario di questa situazione è la cattiva stampa di cui godono gli apparati pubblici. Le non rare buone iniziative assunte dagli uffici pubblici non trovano adeguato spazio nei mezzi di comunicazione di massa. All’inizio del Novecento Karl Kraus racchiudeva l’essenza dei cattivi rapporti tra poteri pubblici e cittadini in un brillante aforisma. “Il pubblico - scriveva - è una istituzione creata per dar fastidio alla burocrazia”2. Nella paradossale affermazione dell’intellettuale austriaco si condensa un problema di indubbio spessore: quanto può dirsi realmente democratica una società nella quale l’amministrazione continua a mantenere un volto arcigno e nella quale i diritti di partecipazione sono tuttora materia di estenuante contrasto? In più: che profilo ideale e culturale (oltre che formale e organizzativo) ha un sistema amministrativo che dialoga con intermittenza con i cittadini e, in alcuni casi, non dialoga affatto? Di che stoffa (culturale, professionale, umana) sono gli oltre tre milioni di addetti al “settore pubblico allargato”? Come è evidente, la prima delle domande ha carattere essenzialmente retorico, mentre le altre - non soltanto sono di assai ardua decifrazione - ma escludono risposte univoche. Il nesso tra democraticità dell’ordinamento e carattere democratico dell’azione delle amministrazioni è oggi largamente acquisito. Fino ad alcuni decenni orsono tale rapporto era meno avvertito, o, comunque, non esplicitamente teorizzato. A partire dagli anni ’50 alcuni studiosi (Bachelet, Marongiu, prima ancora Carlo Esposito)3 cominciarono a porre il problema in maniera più diretta. Un passaggio forte nell’elaborazione teorica e nell’azione di governo si ebbe, alla fine degli anni ’70, per opera di Massimo Severo Giannini (allora ministro per la Funzione pubblica) con il suo Rapporto sui principali problemi della amministrazione dello Stato. Nel Rapporto il grande giurista individuava nell’assenza di canali di comunicazione una delle ragioni del distacco tra i poteri pubblici ed i cittadini. Lo Stato - scriveva - “non è un amico sicuro e autorevole, ma una creatura, ambigua, irragionevole, lontana”. L’immagine di uno Stato tanto estraneo dipendeva, in larga parte, dalle leggi, molte delle quali “non [erano] rispettose della garanzia della libertà dei cittadini, tra cui prima la libertà di essere informati circa i fatti dei poteri pubblici”. Da tali premesse una conseguenza: la fiducia dei cittadini nelle 2K. KRAUS, Aforismi in forma di diario, Newton Compton, Roma 1993. 3 Per entrambi si vedano due raccolte postume di scritti: V. BACHELET, L’amministrazione in cammino. Una guida alla lettura degli scritti giuridici di Vittorio Bachelet, Giuffrè, Milano,1984. G. MARONGIU, La democrazia come problema, il Mulino, Bologna 1994. Prima ancora, C. ESPOSITO, La Costituzione italiana. Saggi, Padova, Cedam, 1954.

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amministrazioni pubbliche - concludeva Giannini - “non si avrà finché non sia cancellata [….] l’odierna figura dello Stato”4. Sotto il profilo normativo - come si sa - la svolta in tutto questo groviglio di nodi (segretezza/trasparenza; unilateralità/partecipazione; autorità/libertà) è la legge n. 241 del 1990 che ha sancito, in via generale, il diritto di accedere agli atti dell’amministrazione, di conoscere i passaggi delle decisioni pubbliche, di sapere chi è responsabile di ogni atto emanato da un pubblico potere. Forse la legge del secolo (come è stato detto): certamente un elemento che ha cominciato a modificare, nell’immaginario collettivo prima ancora che nella realtà, il volto delle amministrazioni pubbliche. 2. DALLO STATO "SEPARATO" ALL'AMMINISTRAZIONE "COMPRENSIBILE" Il ruolo della comunicazione istituzionale si è modificata di pari passo con l'evoluzione delle funzioni pubbliche. Nella seconda metà dello scorso secolo, allorché lo Stato aveva funzioni essenzialmente "d'ordine", il problema non si poneva: i pubblici poteri non dialogavano con gli "amministrati" (i "sudditi"), ma esercitavano semplicemente il loro potere di imperium. La comunicazione era, sostanzialmente, unidirezionale e si esprimeva in ordini e divieti con relative sanzioni. Il messaggio implicito era che lo Stato "sorvegliava" perché nulla turbasse il buon andamento del vivere civile. Coerente a tale impianto delle funzioni statali era la quasi totale assenza della comunicazione, in quanto spiegazione dell'operato dei poteri pubblici. Il binomio logico (e normativo) imporre/vietare aveva, infatti, come unico risvolto l'obbligo di garantire l'informazione "legale" delle norme (gazzetta ufficiale, albo pretorio). L'assunzione da parte dello Stato della gestione di alcuni servizi essenziali per la collettività ha mutato il quadro di riferimento. Nei primi tre decenni del Novecento sono nate le aziende di Stato (Ferrovie, Telefoni, Poste) e si sono moltiplicate le aziende municipalizzate a livello locale. La nuova frontiera dell'azione dei poteri pubblici non ha, però, condotto a modifiche sostanziali dell'atteggiamento verso gli utenti dei servizi. Benché emergesse l'esigenza di politiche di comunicazione ed informazione, lo Stato ha continuato ad essere un comunicatore invisibile. O incomprensibile: si pensi alle difficoltà di decifrare i messaggi (scarsi, peraltro) rivolti agli utenti dei servizi di trasporto e di comunicazione. In questa fase il binomio gestione (pubblica) fruizione (collettiva) non ha modificato in modo significativo l'atteggiamento dei poteri pubblici che hanno continuato ad essere un comunicatore assente. Una radicale svolta si è avuta - come è noto - con il fascismo che ha usato in modo massiccio la comunicazione istituzionale come strumento delle politiche di regime. La gestione pubblica (servizi pubblici, assistenza, 4 M. S. GIANNINI, Rapporto sui principali problemi della amministrazione dello Stato, Tipografia del Senato, Roma 1979

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previdenza) diventava veicolo di "influenza", mentre la fruizione collettiva (in quel contesto) favoriva il consenso nei confronti dell'azione di governo. L'uso manipolativo dell'informazione di Stato ha, naturalmente, favorito la scelta dei governi repubblicani di tenere bassa (fino alla pratica invisibilità) la soglia della comunicazione istituzionale. Lo spettro del "minculpop" ha impedito lo sviluppo di forme di comunicazione di pubblico interesse. Negli ultimi decenni la prefigurazione - contenuta nell'articolo 98 della Costituzione - di un'amministrazione al servizio dei cittadini ha ulteriormente modificato il ruolo (possibile) della comunicazione nel settore pubblico. Le costanti difficoltà nel tradurre in fatti l'ideale dell'amministrazione "per i cittadini" ha contribuito a mettere questa in "mora": la collettività chiede in modo sempre più pressante che gli apparati pubblici sappiano fornire informazioni e riescano a facilitare il rapporto tra i cittadini ed uffici pubblici. In breve, che sappiano comunicare5. 3. IMMAGINE DELLE AMMINISTRAZIONI E IDENTITÀ DELLE BUROCRAZIE 3.1. burocrazia e cittadini Quale è l’immagine che i cittadini hanno dei pubblici poteri e di coloro che negli apparati pubblici lavorano? In merito vi sono state, sovente, indebite generalizzazioni e hanno proliferato i luoghi comuni. Lo notava acutamente, oltre quarant’anni orsono, Alberto Caracciolo, a giudizio del quale - a seguire la pubblicistica del periodo liberale - c’era “quasi da perdersi per le accuse contraddittorie alla burocrazia di essere troppo numerosa o troppo scarsa, malpagata o gonfia di privilegi, pigra o incompetente”6. Anche Arturo Carlo Jemolo - che proveniva dai ranghi dell’amministrazione - aveva sottolineato la sterilità dell’incessante polemica antiburocratica. Segno che le disfunzioni della macchina burocratica si ripercuotono - in termini di connotazione e di immagine socialmente percepita - sui pubblici impiegati7. Su questa “ripercussione” occorre riflettere. Le burocrazie pubbliche hanno avuto sempre - più di quanto non si creda normalmente - forti elementi di disomogeneità al loro interno in quanto a ruoli, mentalità, capacità (e questa è la differenza spaziale) ed hanno avuto, nel loro insieme, stagioni assai diverse in quanto immagine ed identità (e questa è la scansione temporale).

5 Sulla questione cfr. S. SEPE, M. R. NOCERA, R. REGA, La comunicazione istituzionale negli enti locali. Profili introduttivi, SSPAL, Roma 2000, pp. 15-20. 6A. CARACCIOLO, Stato e società civile, Einaudi, Torino 1977, p. 118. 7A. C. JEMOLO, La politica e l’amministrazione, in AA.VV. La crisi dello Stato moderno, Laterza, Roma-Bari 1954, p. 117.

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Il tema dell’identità burocratica deve essere analizzato da due angoli visuali. Da un lato guardare all’identità in quanto identificazione, dall’altro tentare di coglierne la sua traduzione in immagine. Entrambe possono essere viste tanto dall’interno quanto dall’esterno. L’identificazione interna rinvia alla consapevolezza dell’appartenere, che è l’aspetto esteriore dell’identificazione. A sua volta, l’immagine delle burocrazie contiene in sé tanto l’autopercezione da parte degli impiegati pubblici, quanto la percezione collettiva (“sociale”) del loro ruolo. L’insieme ha, evidentemente, forti connotati simbolici che rinviano, peraltro, a corpose realtà di fatto. Gli elementi sui quali riflettere sono raggruppabili in tre nessi: identità/capacità, identificazione/visibilità, appartenenza/coscienza di sé. Da questo quadro problematico si può partire per analizzare il ruolo specifico assunto dalle burocrazie pubbliche nel processo di costruzione dello Stato nazionale, in particolare da quella statale. La burocrazia statale fu, nell’insieme, elemento decisivo tanto nella costruzione dello Stato quanto nella sua tenuta. Il ruolo giocato dai funzionari fu, tra l’altro, ancor più forte in ragione della debolezza - in molte parti d’Italia - delle élites politiche e dello stesso tessuto civile. Non raramente la burocrazia statale svolse un vero e proprio ruolo di supplenza sia del governo nei confronti della società civile, sia di quest’ultima nel trasmettere al centro le esigenze locali. La burocrazia fu, quindi, in grado di “fare circuito”. Ciò funzionò, naturalmente, non necessariamente contro il “canale” rappresentato dal legame elettore/deputato/governo, ma in aggiunta ad esso. La trasmissione al centro, assicurata dai funzionari pubblici, servì ad alimentare, soprattutto nei primi decenni unitari, un insieme di rapporti che il solo circuito politico garantiva in modo parziale . Tale processo vide come protagonista la burocrazia che funse da potente elemento di nazionalizzazione “dal basso”. Di tale massa di pubblici ufficiali la letteratura ha fatto descrizioni colorite e, spesso, assai penetranti, mettendone in risalto i valori, per così dire, “unificanti”: rispetto dell’autorità, “senso dello Stato”, disciplina; nonché qualità personali come: riserbo, obbedienza, fedeltà. Nel monsû Travet di Bersezio si può, quindi, continuare ad identificare (con buona approssimazione) il prototipo del dipendente dello Stato nella seconda metà dell’Ottocento. Un’immagine pittorica assai efficace del ruolo avuto da questo “ceto di frontiera” nei primi cinquant’anni unitari venne - sulle colonne della gobettiana “Rivoluzione liberale” - dalla penna di Augusto Monti, il quale scriveva che la burocrazia aveva dovuto “fare lei da classe dirigente” e che “il prefetto e il segretario comunale” avevano “di fatto governato l’Italia”8. Nei primi decenni unitari, l’alta burocrazia statale fece stabilmente parte delle classi dirigenti del paese anche in virtù della consistente “osmosi” che contrassegnò le carriere amministrative e quelle 8A. MONTI, Note sulla burocrazia. Attivo e passivo della burocrazia, “La Rivoluzione liberale”, n. 14, 1922.

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politiche. I percorsi “misti” - che rappresentarono una costante dell’epoca - erano, ovviamente, resi possibili dalla ristrettezza numerica e dall’omogeneità culturale dei gruppi dirigenti dell’epoca. Essere prefetto in una grande città non era da meno che fare il ministro. Dalla fase di costruzione e consolidamento dello Stato uscito dal Risorgimento fino alla prima guerra mondiale - fase di immane rivolgimento nelle identità collettive dei paesi europei - le burocrazie pubbliche in Italia ebbero una identità partecipata con lo Stato e con il processo di “nazionalizzazione”. Ciò nel senso che i pubblici funzionari giocarono un ruolo di primo piano (al di là della loro consapevolezza individuale) nel trasmettere “identità” nazionale. Ad essi, infatti, si dovette non soltanto la diffusione di valori nazionali e di regole di “governo”, ma anche la creazione di tecniche e prassi comuni nell’organizzazione e nel funzionamento degli apparati pubblici. Nello stesso tempo - per intuibili ragioni di ordine politico/ideologico - le burocrazie pubbliche furono il veicolo di una forte identificazione cercata nello Stato. Attraverso di esse, infatti (oltre, naturalmente, che attraverso i rappresentanti in Parlamento) le élites borghesi locali creavano canali di collegamento con il potere centrale. Più in generale, l’identità cercata - propria degli anni susseguenti all’unificazione nazionale - andò trasformandosi in una identità accettata come indispensabile contropartita dell’essere parte dell’organizzazione statale: il servitore dello Stato da protagonista di un processo di “nuova frontiera” andava mutando il suo ruolo in quello di “esecutore fedele” delle leggi. Il fenomeno interessò prevalentemente gli strati medi della burocrazia, mentre per i funzionari di vertice si apriva una stagione di forte partecipazione ai processi di modernizzazione. La conquista del potere da parte del fascismo determinò, nel giro di pochi anni, un profondo mutamento nel rapporto tra burocrazia e Stato. Permanevano i “valori” che avevano connotato ruolo ed atteggiamenti dei pubblici funzionari in età liberale ma si rovesciò il significato della loro identificazione nello Stato. La tendenza del regime a dare veste pubblica ad una miriade di interessi particolari - mentre contribuì ad allargare a dismisura il numero di coloro che erano rivestiti di pubbliche funzioni - produsse una sorta di identificazione forzata: prima nello Stato e, successivamente, nel partito-Stato. L’identità imposta produceva, di conseguenza, una identificazione non partecipata, sorretta sovente soltanto da elementi esteriori. Nei primi venticinque anni di storia repubblicana si è assistito ad una progressiva negazione della tradizionale identificazione della burocrazia nello Stato. Uno dei processi più significativi nella fase di costruzione dell’Italia repubblicana è stato il progressivo appannamento delle élites burocratiche. Gli alti dirigenti hanno preferito - in larga misura - tenere un “basso profilo”

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rispetto al ceto politico, senza, peraltro, riuscire a mantenere una sufficiente identità come gruppo professionale. Alla scarsa identificazione si è, perciò, aggiunta una identità declinante. Il tramonto dell’identità burocratica - inteso come perdita di valori e “segni” unificanti - è stato favorito dalla progressiva frammentazione del sistema amministrativo verificatasi in conseguenza del trasferimento, a metà degli anni Settanta, di cospicue funzioni alle regioni. Da quel momento la nascita delle “burocrazie regionali” ha accelerato quel processo di perdita dell’identità che era cominciato alcuni decenni prima. Consumatasi la perdita di un centro di riferimento che costituisse anche un fattore di identità per i pubblici impiegati, è rimasta forte - a dispetto delle spinte centrifughe - l’identificazione da parte della collettività. I cittadini (e, ancor più, i mezzi di comunicazione di massa nella loro funzione di soggetti in grado di orientare l’opinione pubblica) hanno continuato a perpetuare la mitologia di una burocrazia uniforme, connotata da comportamenti omogenei, sostenuta da valori comuni. Quanto più si estendeva la tendenza alla diversificazione e “polverizzazione” delle identità burocratiche, tanto più si rafforzava lo stereotipo dell’impiegato “massa” (quindi, unificato)9. 3.2. “Reputazione” delle istituzioni e qualità dei servizi Le amministrazioni pubbliche hanno, innegabilmente, “cattiva stampa”. Ciò è frutto tanto della loro scarsa funzionalità, quanto della superficialità delle opinioni espresse dai mass-media. L’insieme tende a produrre una spirale perversa, a causa della quale - nonostante i miglioramenti presenti in parti del sistema pubblico e a dispetto degli sforzi degli addetti - qualunque esempio di disfunzione dell’amministrazione finisce per riprodurre all’infinito lo stereotipo dell’inefficienza burocratica. Al riguardo occorre chiedersi come mai l’osservazione (giusta) delle disfunzioni delle amministrazioni pubbliche abbia condotto ad un così radicato pregiudizio contro gli impiegati pubblici. E come mai tali giudizi negativi siano quasi sempre così generalizzati. Dall’altro, occorre provare a individuare quali possano essere le strade per invertire la tendenza. Il miglioramento della qualità dei servizi resi, o la semplificazione procedurale di un adempimento, o ancora la maggiore velocità di risposta ad una richiesta devono essere, ovviamente, gli elementi di partenza. Altrettanto importante è informare in modo costante ed esauriente i cittadini. Migliorare la soglia della qualità è il presupposto per una comunicazione efficace e convincente. Sia gli studiosi di comunicazione, sia gli scienziati di organizzazione hanno “codificato” i nessi, spesso particolarmente complessi, tra i due aspetti nel

9 Al riguardo, cfr. S. SEPE, Identità e “senso dello Stato” dei pubblici funzionari nella storia unitaria, “Studi parlamentari e di politica costituzionale”, nn. 132-1333, 2°/3° bimestre 2001, pp. 57-73.

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rapporto tra far bene e farlo sapere. Formula, di per sé, soltanto definitoria, ma in grado di evocare l’intreccio dei problemi. Se si assume tale schema logico come punto di arrivo del ragionamento, si può provare ad indicare - in via del tutto esemplificativa – due tipi di presupposti: la cause dell’immagine degradata delle burocrazie pubbliche e del funzionamento degli apparati; gli elementi sui quali intervenire per migliorare il giudizio degli utenti nei riguardi del sistema pubblico. Le prime - nell’immaginario collettivo - sono, fondamentalmente, l’inamovibilità e l’irresponsabilità dei funzionari, nonché il carattere “monopolistico” di gran parte delle funzioni pubbliche. La sicurezza del “posto fisso”, il fatto di non essere chiamati a rispondere dei risultati dell’attività svolta, la consapevolezza della mancanza di alternative per il cittadino hanno come conseguenza la scarsa produttività e la insoddisfacente qualità delle prestazioni dei dipendenti pubblici. Questi elementi sono stati largamente messi in discussione dalle riforme amministrative degli ultimi anni. Dalla legge 241 del 1990 che ha determinato l’obbligo per le amministrazioni pubbliche di indicare i responsabili dei procedimenti ed ha fissato anche termini per la loro conclusione. Alla riforma del pubblico impiego del 1993 (e le successive modifiche) che ha introdotto con forza il principio della responsabilità gestionale per i dirigenti pubblici, inserendo anche elementi per la valutazione delle prestazioni degli impiegati. Dalla direttiva del 1994 con la quale è stato fissato l’obbligo per i gestori di pubblici servizi di emanare le rispettive “carte dei servizi”, vere e proprie forme di obbligazione con determinazione degli standards qualitativi delle prestazioni. Alle norme che cominciano a rendere possibile l’uso di incentivi economici significativi a favore di coloro che lavorano di più e meglio. Sulla base dei principi e delle regole fissati nelle leggi (ma non soltanto in virtù di essi) molti passi avanti sono stati fatti nella concreta attività quotidiana. I comportamenti effettivi di molte amministrazioni pubbliche (o di segmenti di esse) sono cambiati, a volte in modo radicale. La circostanza, ovviamente, rafforza - anziché eliminare - l’esigenza di chiedersi come mai ciò non si sia tradotto (o si sia tradotto soltanto in maniera marginale) in miglioramento delle “quotazioni” delle amministrazioni pubbliche. Al riguardo, gli elementi sui quali è utile interrogarsi sono tre. Il primo è dato dalla persistenza di un forte scarto tra livelli medi di funzionalità degli apparati pubblici e percezione collettiva. Esso, a sua volta, tende a perpetuare la tendenza alla generalizzazione nei giudizi da parte degli utenti. Entrambi, inoltre, sono facilitati dal deficit di capacità di comunicazione da parte delle amministrazioni pubbliche. I tre aspetti sono, ovviamente, connessi. Il primo è determinato, in larga parte, dalla natura stessa del “luogo comune”, tanto più difficile da debellare, quanto più ha radici nel sentire collettivo. L’abuso di giudizi generalizzanti si

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spiega, a sua volta, come prodotto di pigrizia mentale ed, insieme, come frutto di osservazione superficiale. Infine, le carenze nella comunicazione da parte delle amministrazioni pubbliche dipendono, come è noto, da fattori molteplici: incertezza nelle politiche di comunicazione, conseguenti difficoltà a definire strategie, problemi di caratura professionale, poca attitudine (ed abitudine) a confezionare prodotti di comunicazione, scarsa cultura del marketing, insufficiente distinzione tra comunicazione politica e comunicazione di servizio. Provare a ragionare sulle connessioni tra “opacità” dell’immagine delle burocrazie, persistenza di stereotipi e livelli di funzionalità delle amministrazioni pubbliche può, forse, contribuire a capire - in una fase di intensa trasformazione del sistema amministrativo - quali strumenti e quali strategie adottare per migliorare il rapporto (non facile) tra cittadini e pubblici poteri nel nostro paese. Come pura indicazione di massima si può sottolineare l’esigenza di tener conto di due elementi. Da un lato delle crescenti aspettative dei cittadini e delle imprese (sia come singoli sia in forma organizzata): la customer satisfaction come presupposto e obiettivo dell’attività dei pubblici servizi. E, parallelamente, della progressiva scomparsa del carattere “autoritativo” delle attività pubbliche e della conseguente (seppur tendenziale) parificazione tra cittadini e pubblici poteri. L’esigenza, in altri termini, di far scendere lo Stato dal “piedistallo” come tratto caratteristico del nuovo rapporto tra amministrazioni e cittadini10. Per i pubblici funzionari l’impatto con i problemi posti dalla trasformazione dell’amministrazione comporta - in termini di recupero di immagine - una forte capacità di rinnovamento. Tre le frontiere sulle quali far valere una dimensione professionale che rinnovi il profilo delle dirigenze pubbliche. Frontiere definibili in tre endiadi: identità/ruolo, identificazione/visibilità, appartenenza/consapevolezza. Ognuna di esse rinvia, evidentemente, ad una capacità. Rispettivamente: saper essere - sulla base della qualità delle prestazioni fornite - uno degli “attori” del cambiamento in corso nell’amministrazione; essere “riconosciuti” come soggetti attivi della trasformazione; fare e saper essere “corpo”. Recuperare identità è, infatti, processo strettamente connesso all’esigenza di rivendicare autonomia ed alla correlata necessità di assicurare responsabilizzazione. È questo il circuito dal quale può emergere la capacità di collaborare in modo attivo alla riuscita dei tentativi di modernizzare il sistema amministrativo nel nostro paese. 10 Cfr. S. SEPE, Stato legale e Stato reale. Amministrazioni cittadini e imprese alla soglie del Duemila, edizioni “Il Sole 24 Ore”, Milano 2000.

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4. IL LINGUAGGIO DELLE ISTITUZIONI: PROBLEMI DI LUNGA DURATA E PROSPETTIVE 4.1. La comprensibilità delle leggi come metro della democrazia La chiarezza delle norme e del linguaggio delle istituzioni rimanda a problemi di lunga durata. Non a caso Montesquieu, - nel libro XXIX dell’Esprit des Lois - osservava: “le leggi non dovrebbero essere astruse; sono volte all’uomo d’intelligenza comune, non come esercizio dell’arte della logica, ma per la mente ordinaria del padre di famiglia”11. Se rovesciamo l’ottica, troveremo facilmente le tracce del percorso inverso: il carattere “convenzionale” delle prescrizioni normative e l’astrusità delle leggi sono un elemento funzionale al potere. Così come lo è l’oscurità del lessico utilizzato dalle burocrazie. Nei Lineamenti di filosofia del diritto Hegel osservava - a proposito delle abitudini dei funzionari dell’amministrazione della giustizia prussiana del ‘700 - che il “linguaggio strano” ed il “formalismo intricato” erano “istrumento di guadagno e di dominazione”12. Servivano a tenere sotto il giogo i sudditi. In generale, le leggi - pur dovendo rispettare il canone della generalità e dell’astrattezza - si sono fatte sempre più minuziose per evitare che gli interpreti potessero applicarle in modo troppo libero e discrezionale. Gli “interpreti” principali delle norme giuridiche sono i giudici ed i funzionari dell’amministrazione pubblica, per ognuno dei quali vale, con specifiche modalità, l’identico principio: essi devono applicare la legge e la loro possibilità di interpretarla è inversamente proporzionale alla minuziosità delle norme. Come osservava Montesquieu, “quando, in una legge, le eccezioni, le limitazioni, le modifiche non sono necessarie, è meglio non metterle: dettagli del genere ne generano altre”13. Esiste, evidentemente, un nesso causale tra i due elementi. La “diffidenza” degli estensori delle norme verso i suoi interpreti conduce ad un’esagerata minuziosità, determinando un circolo vizioso, il cui risultato ultimo è l’esasperazione dei vincoli contenuti in ogni disposto legislativo. In Italia il fenomeno è stato favorito proprio dalle burocrazie pubbliche che - per mettersi al riparo dalle pressioni politiche - predisponevano esse stesse, negli uffici legislativi dei ministeri, norme di dettaglio per ridurre gli spazi interpretativi e rendere “obbligata” una attuazione automatica della legge. Il fenomeno antico ma progressivamente più diffuso costituito da leggi confuse e scritte male è la causa di un disordine normativo giunto a livelli di evidente gravità. Tale fenomeno ha particolare incidenza sulla legislazione amministrativa e sui prodotti secondari (decreti, circolari), nonché sui testi 11 C. L. MONTESQUIEU, Le leggi della politica, Editori riuniti, Roma 1979, p. 515. 12 G. W. F. HEGEL, Lineamenti di filosofia del diritto, Laterza, Roma-Bari 1974, p. 295. 13 C.L. MONTESQUIEU, Le leggi della politica, cit., p. 515.

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interpretativi redatti dalle burocrazie. Al riguardo è significativa l’opinione espressa alla fine dell’ Ottocento da Attilio Brunialti, consigliere di Stato e ordinario di diritto costituzionale nell’università di Torino: “da alcuni anni le leggi che venivano davanti al Parlamento non solo facevano torto alla lingua e allo stile - a scriverle in italiano non si è imparato ancora - ma rivelavano una presunzione senza confini, una ignoranza la più sfacciata di tutti i nostri ordinamenti amministrativi. Erano brani di programmi politici o di articoli di giornale, annunciazioni di principi, abbozzi informi, non leggi”14. La comprensibilità delle leggi - in tale chiave - si dimostra una metafora dell’essenza stessa del potere e del rapporto tra Stato e cittadini. Il principio della certezza del diritto (cardine degli ordinamenti moderni) si è tramutata spesso in un groviglio fittissimo di prescrizioni legislative che - essendo, per loro natura, di difficile modifica - producono una tendenziale paralisi operativa delle amministrazioni pubbliche. La legislazione (in particolare quella amministrativa) è divenuta - come hanno evidenziato, con analisi comparate, numerosi giuristi - sempre più caotica. Fonte, quindi, di inevitabili sovrapposizioni normative e di crescente contenzioso, derivante dalla non facile interpretazione dei testi. A tenere elevato il distacco contribuisce la “mentalità autoritativa” della maggioranza dei funzionari pubblici. Essa ha due principali elementi. Il primo si concretizza nella vocazione ad “infliggere” ai cittadini la pena costituita dalla difficoltà di comprendere cosa voglia l’amministrazione. È bene che pochi sappiano, che pochi capiscano. Questo sembra essere il presupposto dei meccanismi di comunicazione tipici della burocrazia. Sociologicamente tale atteggiamento è spiegabile con la sensazione dei funzionari pubblici di essere divenuti il “capro espiatorio” della crisi di funzionalità dei servizi pubblici. La burocrazia si sente sempre più tallonata dai cittadini e, nel contempo, non può più far valere la tradizionale “superiorità” dell’amministrazione sugli “amministrati”. Sotto questo profilo, la riforma del pubblico impiego (messa in moto dal decreto legislativo n. 29 del 1993) ha reso la situazione ancora più critica. Oltretutto i funzionari scrivono avendo come universo di riferimento le norme (il “diritto positivo”) nelle quali la vita quotidiana dei cittadini - o, meglio, degli “amministrati” - ha un ruolo meramente accidentale. All’origine di tale mentalità vi è l’abitudine inveterata a muoversi nel circuito chiuso dell’amministrazione. Al riguardo, nei Quaderni del carcere Antonio Gramsci osservava come funzionari italiani - a differenza di quelli francesi ed inglesi, che scrivevano per il popolo - scrivevano per i loro superiori15.

14 A. BRUNIALTI, Alcune considerazioni sul sistema parlamentare in Inghilterra ed in Italia; a cura di Carlo Carini, Centro editoriale toscano, Firenze 2001. 15 A. GRAMSCI, Lettere del carcere, Einaudi, Torino 1975, p. 571

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Non minore importanza ha avuto, infine, nella costruzione dei modelli espressivi delle burocrazie pubbliche in Italia il “vizio travettistico” di “fare figura”, così descritto nel 1909 da Meuccio Ruini: “Ogni lettera, nota o provvedimento deve fare la storia di tutto l’affare; deve cominciare [...] dal giudizio universale; deve essere concepita in modo che, se per caso venisse arso o sparisse tutto il fascicolo, si possa in ogni modo dalla pagina sopravvissuta ricostruire tutti gli elementi perduti [...]. Bisogna fare relazioni lunghe lunghe su ogni questione. Un Ufficio ricopia quelle precedenti dall’altro, variando qua e là le parole [...]. È la smania grottesca del far figura. Il valore degli atti si misura dalla lunghezza. Proprio il contrario di ciò che avviene nel mondo commerciale ed industriale, ove bastano due righe: va bene, o va male, o badate a questo, per rispondere alle lettere più importanti. Il burocratico si vergognerebbe di preparare una nota che dica “grazie, sta bene”. La prolissità ed il gusto barocco dello scrivere burocratico sono vezzi radicati e difficili da modificare. Tenere “a posto le carte”, avere cura di lasciar traccia scritta di ogni passaggio procedurale, preoccuparsi di dare veste formale ad ogni passaggio sono tuttora i fondamenti della prassi burocratica. Paradossalmente, tale atteggiamento che viene considerato socialmente fenomeno deprecabile, sintomo peculiare della inefficienza della amministrazione pubblica, assume, per i responsabili degli uffici, il carattere di elemento di certezza del diritto e di salvaguardia dei cittadini. Evidentemente, una simile organizzazione del lavoro amministrativo tende a riprodurre all’infinito separatezza ed oscurità. Se non cambiano i contesti è molto difficile che si possano ottenere significative innovazioni nello stile. La burocrazia continua ad essere “tardigrafa” (come scriveva Massimo Severo Giannini nel suo Rapporto sui principali problemi della amministrazione dello Stato) perché tale atteggiamento è coerente con i modelli di organizzazione dell’attività. Soltanto se si incide profondamente su questi sarà ipotizzabile la modernizzazione dei modelli di comunicazione. 4.2. I diritti “negati” dei cittadini Tra oscurità delle leggi a scarsa comprensibilità del “lessico” burocratico vi sono, ovviamente, precisi nessi. Di fronte alla impronta vagamente sociologica di molte leggi ed alla crescente tortuosità delle norme legislative, i funzionari reagiscono con una chiusura ancora maggiore, rifugiandosi in paradigmi di scrittura ancorati a schemi “tradizionali”. Tutto ciò favorisce forme di linguaggio a “circuito chiuso “ nelle quali gli unici veri danneggiati sono i componenti della collettività. Infatti, la poca comprensibilità dei “messaggi” delle amministrazioni pubbliche si traduce in un quotidiano disagio per una larga fetta della società civile, poiché le comunicazioni

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predisposte dalle amministrazioni pubbliche pervengono direttamente alla quasi totalità dei cittadini. Dai modelli per il pagamento delle imposte, alla contravvenzioni sono relativamente rare le comunicazioni dirette ai cittadini sufficientemente chiare e, insieme, esaurienti. Al riguardo poco importa, naturalmente, che esse vengano da un ufficio comunale come quello dell’anagrafe o da una società per azioni come l’Enel: in entrambi i casi le comunicazioni inviate ai cittadini-utenti rappresentano l’esercizio di una pubblica funzione e, rispetto ad essa, i cittadini hanno eguale diritto di pretendere chiarezza e semplicità. Poiché il numero delle comunicazioni provenienti da pubbliche amministrazioni e da soggetti esercenti pubblici servizi è in costante aumento, la chiarezza assume i connotati di un vero e proprio diritto “di cittadinanza”. Al riguardo in Italia siamo ancora ben lontani dagli standards degli USA, che hanno - in ben 37 dei 51 Stati dell’unione - norme che fissano livelli minimi di leggibilità delle leggi e delle altre comunicazioni dei poteri pubblici indirizzate ai cittadini. Se la comprensibilità del linguaggio dei pubblici poteri è un aspetto cruciale per migliorare i rapporti Stato/cittadini, la capacità di “parlar chiaro” delle amministrazioni pubbliche è, di conseguenza, un elemento fondamentale della loro credibilità. La chiarezza del linguaggio dei pubblici poteri è, essa stessa, uno degli standards qualitativi del loro agire. Le amministrazioni si giudicano, principalmente, da quel che fanno e da come lo fanno. Ma anche da come riescono a dar conto di quello che fanno. Tale aspetto è, evidentemente, denso di implicazioni, poiché lo specialismo del lessico usato dalla burocrazia non può essere valutato alla stregua di uno dei tanti linguaggi “tecnici” di cui si nutrono le scienze. Questi sono giustificati perché diretti esclusivamente (o quasi) agli addetti ai lavori. Hanno, quindi, la funzione di dotare di astrazione e precisione analitica una comunicazione “interna”. Molto diversa è la questione, ovviamente, quando ci si rivolge alla generalità dei cittadini. Ancor più se essi hanno l’obbligo di “comprendere”. È quest’obbligo che fa nascere il diritto (speculare) alla comprensibilità. E, quindi, il dovere, per chi si rivolge ai cittadini-utenti, di usare un linguaggio chiaro. Al riguardo è innegabile che - nonostante Il panorama sia, negli ultimi tempi, in rapido mutamento - le pubbliche amministrazioni in Italia abbiano avuto (nel loro insieme) notevoli difficoltà ad adottare canoni di comunicazione adeguati alle esigenze della collettività. Le ragioni di tale fenomeno sono, sostanzialmente, di due tipi e rinviano, rispettivamente, alle logiche “autoritarie” dei pubblici poteri ed alle basi culturali delle burocrazie pubbliche. Il problema dello stile burocratico in Italia è stato fino ad ora largamente sottovalutato anche a causa della tradizionale “separatezza” dell’amministrazione pubblica rispetto ai cittadini, visti più come “sudditi” che come soggetti con i quali i poteri pubblici devono interagire in maniera

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paritaria. Il linguaggio oscuro è stata una delle conseguenze “logiche” di un’amministrazione autoritativa. Lo scarso livello di comprensibilità dei messaggi prodotti dagli uffici pubblici ha ricevuto, peraltro, indiretta legittimazione dal principio - vigente sostanzialmente fino a pochissimi anni fa nel nostro paese - della segretezza pressoché totale degli atti amministrativi. A funzioni di “controllo” degli amministrati si addiceva un vocabolario per “iniziati”. L’attitudine a scrivere in modo poco chiaro è stata favorita anche dai meccanismi di organizzazione delle pubbliche amministrazioni, nelle quali ha largamente dominato il principio non scritto che è meglio non assumersi nessuna responsabilità. Di fronte ad un precetto normativo poco chiaro, il funzionario che deve predisporre una circolare o inviare una comunicazione scritta ad un cittadino tende a riprodurre le espressioni contenute nelle leggi. Oscurare il linguaggio serve ad annebbiare le responsabilità. 4.3. I tentativi di innovazione: dal “Codice” al “Manuale” di stile Gran parte delle condizioni sulle quali si è costruito nel tempo un linguaggio burocratico sempre più impenetrabile ai non addetti ai lavori è profondamente mutata. Innanzitutto l’amministrazione pubblica è morfologicamente cambiata, essendosi trasformate in modo radicale le sue funzioni: l’aumento delle prestazioni che implicano un contatto diretto con gli utenti sono vertiginosamente aumentate. Le leggi di riforma che - dal 1990 hanno cominciato a dare un potente “scossone” al sistema amministrativo - hanno tradotto in norme positive il mutamento di funzioni. In tale linea vanno interpretate le norme della legge 241 del 1990 che - consentendo ai cittadini un largo potere di accesso agli atti amministrativi - costringono di fatto l’amministrazione a rivedere i suoi schemi di comunicazione scritta. Ancor più direttamente connessi al problema del “linguaggio” amministrativo sono gli articoli del decreto legislativo n. 29 del 1993 a norma dei quali occorre costituire in ogni ufficio pubblico una struttura adibita alla “comunicazione” con gli utenti. Nel dicembre del 1993 la pubblicazione - da parte del Dipartimento della Funzione pubblica - del Codice di stile delle comunicazioni scritte ad uso delle amministrazioni pubbliche, ebbe un immediato impatto sui mezzi di comunicazioni di massa. Il giorno successivo ben 11 tra i maggiori quotidiani italiani diedero ampio risalto al tema. Il singolare interesse per la vicenda ha confermato quanto sia diventata alta la soglia di attenzione alle disfunzioni delle amministrazioni pubbliche e quanto il loro operato sia ormai sotto il tiro della pubblica opinione. Ha dimostrato, altresì, come il raggiungimento di un

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livello soddisfacente di comunicazione da parte dei poteri pubblici corrisponda ad un’attesa generalizzata dei cittadini. L’argomento ha rari precedenti nell’azione dei governi ed, in particolare, dei ministri che si sono occupati della razionalizzazione dell’amministrazione. Negli studi condotti all’inizio degli anni Cinquanta dall’Ufficio della riforma burocratica il problema della “forma” degli atti amministrativi veniva analizzato esclusivamente in riferimento alla loro “titolarità”. Nella prima metà degli anni Sessanta - nei lavori della Commissione Medici, che mise a punto un articolato progetto di riforma amministrativa - il tema non fu nemmeno evocato. Soltanto Massimo Severo Giannini, nella sua esperienza di ministro per la Funzione pubblica, pose all’ordine del giorno la questione della scarsa chiarezza dei testi normativi. In nessuno dei progetti di riforma dell’amministrazione del periodo repubblicano è stato affrontato in modo diretto il problema del linguaggio burocratico. L’iniziativa - assunta nel 1993 dal Dipartimento della Funzione pubblica e riproposta tre anni più tardi - va valutata nel contesto dei progetti di riforma dell’amministrazione varati dai governi negli anni novanta. Non vi è dubbio che l’obiettivo di rendere meno oscuro il linguaggio delle burocrazie sia coerente con il disegno di modernizzazione delle amministrazioni pubbliche. E che favorisca un migliore rapporto tra cittadini ed amministrazioni. La pubblicazione del Codice e del Manuale di stile si connette strettamente alla filosofia generale dei tentativi di riforma messi in cantiere dal Dipartimento della Funzione pubblica: dare centralità al cittadino ed ai suoi diritti nei confronti delle amministrazioni pubbliche. Si tratta, evidentemente, di un mutamento tanto radicale da non poter essere compiuto senza contraccolpi. Le riforme amministrative degli anni Novanta hanno - nell’insieme - l’obiettivo di “far scendere lo Stato dal piedistallo”. Se i funzionari pubblici cominceranno ad usare un linguaggio più comprensibile, si saranno fatti importanti passi avanti verso una concezione autenticamente democratica del ruolo degli apparati amministrativi. In più l’uso dei modelli di comunicazione meno oscuri va vissuto dai funzionari pubblici come un “dovere morale” verso se stessi. Tanto nel progetto del Codice di stile quanto in quello del successivo Manuale sembra che si tenda ad aggredire il problema, intervenendo sul “prodotto”, invece che sui “produttori”. Piuttosto che impostare una riflessione sui presupposti del linguaggio oscuro dei funzionari si fornisce un diverso modello linguistico attraverso una esemplificazione che non può non suscitare qualche perplessità. Occorre, in primo luogo, tener conto della necessaria distinzione tra linguaggio comune e linguaggio tecnico. Collegato a ciò vi è l’altro aspetto, determinato dal rischi che la strada intrapresa con il Codice (“riscrivere” i testi e/o dettare minuziose norme da osservare per la loro redazione) porti a sostituire gli stereotipi del linguaggio

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burocratico con altri stereotipi. L’uso di modelli di comunicazione meno oscuri va vissuto dai funzionari pubblici come un “dovere morale” verso se stessi. Su questo terreno nulla può sostituire, evidentemente, la capacità autonoma e l’azione della burocrazia tese a ripristinare un suo maggiore prestigio sociale. Si tratta di un percorso certamente non facile e, oltretutto, di non breve durata. Ma è l’unico percorribile. Esso avrà, infatti, probabilità di successo se si eviterà di cercare pericolose scorciatoie: occorre che i pubblici funzionari siano pienamente convinti dell’importanza di un nuovo “stile”. Al riguardo molto potrà fare una mirata azione di formazione congiunta ad una serie di sperimentazioni. A queste sarà demandato il compito di “aprire la pista”, mentre l’attività di formazione potrà far accrescere la consapevolezza dell’importanza del problema. Il “pericolo” non arriva soltanto dagli stereotipi burocratici, ma anche dall’impoverimento del lessico comune determinato dal dilagare di forme di comunicazione sommamente massificate e, per ciò stesso, estremamente “povere”. Oggi non ci si deve guardare soltanto dalle astrusità sintattiche e dall’inguaribile arcaicità dello stile burocratico, ma anche dallo scadimento della lingua scritta e parlata. Il nemico numero uno è il linguaggio stereotipato. Il numero due è la scarsa dimestichezza con la sintassi. 5. I NUOVI SCENARI DOPO LA LEGGE QUADRO SULLA COMUNICAZIONE E L’INFORMAZIONE DELLE PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI Come era facile prevedere, la legge-quadro sull’informazione e la comunicazione delle amministrazioni pubbliche sta avendo un’applicazione largamente difforme. Accanto ad amministrazioni che hanno sviluppato, prima ancora che la legge 150 venisse emanata, una gamma assai vasta di servizi, ve ne sono altre che stanno mettendosi al passo, anche se con risultati meno brillanti. Una fetta consistente, però, fatica tuttora a trovare uno standard qualitativo adeguato nello sviluppare le iniziative di informazione e comunicazione. Le istituzioni che operano meglio riescono anche a comunicare in maniera più efficace con i cittadini e a dialogare efficacemente con i professionisti dell’informazione16. È cresciuta la consapevolezza dell’esigenza di strutturare in maniera più adeguata la funzione di comunicazione e di informazione. Ma spesso l’accresciuta consapevolezza dell’importanza dell’informazione e della comunicazione rimane un elemento epidermico nell’azione delle

16 Sul perimetro dei problemi della comunicazione pubblica nell’attuale fase, cfr. S. ROLANDO (a cura di), Teoria e tecniche della comunicazione pubblica, Etas, Milano 2001.

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amministrazioni. Più che l’autonoma iniziativa delle amministrazioni è la spinta dei cittadini a provocare un maggiore sforzo, da parte delle istituzioni, per comunicare con le collettività o con i fruitori di un servizio. Inoltre nelle attività di rapporto con i media continua prevalere una esigenza di consenso politico, che sovrasta, e sovente schiaccia, le connotazioni “di servizio” dell’informazione e dei rapporti con i mezzi di comunicazione di massa. Le difficoltà applicative della legge 150 confermano una regola tradizionale del nostro sistema amministrativo: quanto più le norme sono innovative, tanto più la loro applicazione sarà lenta, ardua, contraddittoria. Le ragioni sono molteplici: norme ambigue (o inapplicabili); inadeguatezza degli apparati a gestire nuove funzioni; resistenza contro le innovazioni; insufficiente preparazione tecnica degli addetti. Le questioni aperte sono molteplici17. La necessità di adeguato posizionamento di strutture che, in maniera integrata e coordinata, riescano a sviluppare una coerente azione nei confronti dei cittadini e dei mezzi di comunicazione di massa resta l’elemento fondamentale sotto il profilo delle dinamiche interne alle amministrazioni. L’esigenza di coordinamento tra i diversi segmenti che coprono i singoli “pezzi” dell’azione di rapporto con i cittadini non trova, come si sa, alcuna copertura nella legge. La direttiva del febbraio 2002 evoca il problema e indica anche possibili soluzioni organizzative, ma - come è ovvio - non risolve i problemi. È di fatto rimessa alla volontà e alla perspicacia dei vertici delle amministrazioni la scelta delle soluzioni più idonee. In alcun ministeri, così come in parecchie amministrazioni territoriali e di servizio, si è dato rango adeguato ai servizi di comunicazione e informazione. È già un buon passo avanti. Occorrerà poi misurare con il metro della qualità la bontà delle soluzioni adottate. C’è, evidentemente, l’esigenza di “andar oltre” la legge 150. In particolare occorre riuscire a trasformare una serie di iniziative importanti e meritorie - che molte amministrazioni sviluppano da tempo - in “politiche di comunicazione”. Dare valore strategico all’attività di comunicazione e informazione significa innervare l’azione quotidiana delle organizzazioni pubbliche della consapevolezza di dover dialogare costantemente con i cittadini, gli utenti, il mondo d’impresa, i media. Ma ciò necessita, nel contempo, di una particolare attenzione alla qualità delle performance delle amministrazioni, poiché nessuna attività di relazioni esterne potrà mai surrogare la scadente qualità delle prestazioni. Se si indebolisce il legame prestazione/comunicazione si rischia l’afasia o, peggio ancora, la propaganda. 17 Al riguardo, cfr. S. SEPE, Oltre la legge 150, “Rivista italiana di comunicazione pubblica”, n. 9, 2001, pp. 65-69.

IIII -- LLEE PPRROOCCEEDDUURREE DDII NNOOMMIINNAA DDEEII VVEERRTTIICCII EE LLEE CCEERRIIMMOONNIIEE DDII IINNSSEEDDIIAAMMEENNTTOO DDEELLLL’’AAVVVVOOCCAATTUURRAA DDEELLLLOO SSTTAATTOO,, DDEELL CCOONNSSIIGGLLIIOO DDII SSTTAATTOO EE DDEELLLLAA CCOORRTTEE DDEEII CCOONNTTII ddii GGaabbrriieellllaa PPaallmmiieerrii SSaanndduullllii 1. LE PROCEDURE DI NOMINA 1.1. L’Avvocatura dello Stato A differenza delle due magistrature, contabile e amministrativa, il complesso delle leggi che disciplinano l’Avvocatura dello Stato non contiene alcuna norma che consenta di ritenere impraticabile la soluzione “esterna” per il ruolo di vertice. L’art. 30 del R.D. 30.10.1933, n. 1611, T.U. delle leggi sull’Avvocatura, si limita a prevedere che l’Avvocato generale è nominato con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Presidente del Consiglio previa deliberazione del Consiglio dei ministri e quindi ne stabilisce le sole modalità procedimentali. In considerazione dello scopo del T.U. citato, che è quello di coordinamento e di completamento delle disposizioni sull’Avvocatura, il Consiglio di Stato, con la decisione n. 340 in data 14 aprile 1981, ha ritenuto che l’art. 30 si riferisca ad un tipo di “provvista della carica” diversa da quella del precedente art. 28, che disciplina le promozioni nel ruolo degli Avvocati dello Stato, e che riproduce sostanzialmente l’art. del R.D. 24 novembre 1913, n. 1304, il quale atteneva sia alla nomina interna sia a quella esterna. La pronuncia citata sottolinea anche la più ampia potestà discrezionale di scelta spettante al Governo in sede di relativa nomina e che l’assoluta peculiarità della posizione dell’Avvocato Generale vale a dimostrare l’improponibilità di un parallelismo tra la nomina dell’Avvocato generale dello Stato e quella dei Presidenti del Consiglio di Stato e della Corte dei conti. Questi ultimi, infatti, si trovano nella ben diversa situazione di essere destinati a presiedere, con una sfera di potestà del tutto differenti, organismi in ordine ai quali la Costituzione (art. 100) affida esplicitamente alla legge di garantirne l’indipendenza di fronte al Governo. In definitiva gli articoli 28 e 30 citati in ordine alla scelta dell’Avvocato Generale non privilegiano la scelta interna rispetto a quella esterna né subordinano quest’ultima al preventivo esito del procedimento interno, ponendole in una posizione di sostanziale equiordinazione; anche se, nel conferimento dell’Ufficio, il Governo è tenuto a manifestare chiaramente le

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ragioni della scelta compiuta, che non costituisce atto politico, specialmente se il soggetto nominato è esterno all’Istituto; poiché in tal caso si realizza una “deviazione dal diverso tipo di scelta - quello interno - suffragato da un canone orientativo di buona amministrazione”. Neanche la legge successiva di modifica dell’ordinamento dell’Avvocatura dello Stato, l. 3 aprile 1979, n. 103 ha introdotto norme specifiche per il procedimento di nomina dell’Avvocato Generale dello Stato. L’organo di autogoverno, il Consiglio degli Avvocati e Procuratori dello Stato è l’unico, tra gli Organismi similari, a non essere integrato da una componente “laica”, e, perciò, è composto solo da Avvocati e Procuratori dello Stato (art. 21), ma - a differenza del Consiglio di Presidenza del Consiglio di Stato e della Corte dei conti - non provvede ad esprimere alcun parere per il conferimento dell’incarico di Avvocato Generale dello Stato (art. 23 l. 3 aprile 1979, n. 103). 1.2. Il Consiglio di Stato La scelta del Presidente del Consiglio di Stato era in passato affidata all’assoluta discrezionalità del Governo (decreto del Capo dello Stato su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri) senza che fosse individuato alcun limite o requisito per la nomina. Ciò accadeva anche per la designazione dei Presidenti di Sezione e per i consiglieri di nomina Governativa. Era stata, perciò, da più parti rappresentata l’esigenza di assicurarne la completa indipendenza sottraendo l’istituzione dall’ingerenza del potere esecutivo. Peraltro, di fatto, il Governo ha sempre esercitato tale potere discrezionale con correttezza e sostanziale equilibrio, attenendosi alla prassi che restringeva il campo della scelta ai Presidenti di Sezione dello stesso Consiglio di Stato (rivestivano tale qualifica ben 18 sui 21 nominati nell’arco di tempo dal 1859 al 1982) ad esclusione di Carlo Cadorna (Ministro, Presidente della Camera, senatore), di Santi Romano (senatore, professore universitario di chiara fama) e di Raffaele Pio Petrilli. La legge 27 aprile 1982, n. 186 ha espressamente previsto che il Presidente del Consiglio di Stato sia nominato tra i magistrati amministrativi che abbiano effettivamente esercitato per almeno 5 anni le funzioni di Presidente di Sezione del Consiglio di Stato, o di Presidente del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Sicilia o di Presidente del Tar. L’esercizio delle funzioni direttive non deve essere continuativo, non valendo, peraltro, a tal fine i periodi di fuori ruolo o comunque di assenza dal servizio di istituto. È ormai definitiva, in conformità di una prassi consolidata, l’esclusione nella designazione di un esterno al Consiglio di Stato.

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Sono state accresciute le garanzie formali della nomina, mantenendosi la veste provvedimentale del decreto del Capo dello Stato e la proposta (con assunzione di responsabilità ministeriale) del Presidente del Consiglio dei ministri, previa delibera del Consiglio dei ministri, e prevedendo il parere del Consiglio di Presidenza (la cui composizione è stata mutata da ultimo con l’art. 18 delle legge n. 205/2000) che assume in sostanza la funzione di designazione. Sin dalla nomina del primo Presidente dopo la riforma del 1982 la prassi si è consolidata in tal senso. Peraltro, va osservato che qualora il Presidente del Consiglio o il Consiglio dei ministri dovessero andare in contrario avviso rispetto alla scelta effettuata dal Consiglio di Presidenza, dovrebbero con richiesta motivata, sollecitare un nuovo parere, che sostituisca la designazione precedente, in quanto una “diversa nomina” risulterebbe effettuata senza il parere specifico del Consiglio di Presidenza su una determinata persona. La nomina del Presidente del Consiglio di Stato deve avere luogo entro e non oltre trenta giorni dalla vacanza del posto (art. 22, 3° comma, l. n. 186/1982 citata) per evitare i frequenti casi di organi di vertice rimasti scoperti per incertezza di scelte. Ciò consente di iniziare la procedura di nomina in un periodo immediatamente precedente alla prevista vacanza, affinché il Consiglio di Presidenza si possa pronunciare nel “plenum” della sua composizione, quando è ancora in carica il Presidente uscente (in effetti anche la Corte Costituzionale sta seguendo questo indirizzo per procedere alla nomina del suo Presidente eletto, appunto, fra i Giudici in carica). 1.3. La Corte dei conti La legge 21 luglio 2000, n. 202 ha introdotto sostanziali modifiche nella procedura di nomina del Presidente della Corte dei conti, omologandola per molti versi a quella del Presidente del Consiglio di Stato. Infatti, in precedenza, il Presidente della Corte poteva essere nominato anche fra persone non provenienti dalla Corte stessa. La nomina era disposta con decreto del Capo dello Stato, su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri, previa deliberazione del Consiglio stesso ed il Presidente era immesso nelle funzioni con deliberazione delle Sezioni Riunite su richiesta del Procuratore Generale (R.D. 12 luglio 1934, n. 1214). L’art. 1 della citata legge n. 202/2000 ha, invece, espressamente previsto che il Presidente della Corte dei conti è nominato tra i magistrati della stessa Corte che hanno effettivamente esercitato per almeno tre anni funzioni direttive ovvero funzioni equivalenti presso organi costituzionali nazionali ovvero di istituzioni dell’Unione Europea. La nomina è effettuata con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Presidente del Consiglio dei

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ministri, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, sentito il parere del Consiglio di Presidenza. In caso di vacanza del posto in applicazione dei principi generali di diritto pubblico applicabili alla fattispecie - le funzioni del Presidente della Corte dei conti sono esercitate dal Presidente di Sezione più anziano nella qualifica. La nomina del Presidente deve avvenire entro e non oltre trenta giorni dalla vacanza del posto. Com’è evidente, il procedimento è stato modellato su quello previsto per il Presidente del Consiglio di Stato con la citata legge n. 182/1986, riducendo, però, il tempo minimo necessario di esercizio di funzioni direttive (tre anni e non cinque), ed ampliando le Istituzioni presso le quali esse possano essere esercitate (non solo quelle interne della Corte, ma anche quelle costituzionali nazionali ed europee; basti pensare alla Corte dei conti europea). Ribadita la necessità che il Presidente sia un “interno” selezionato sulla base dell’effettivo svolgimento di funzioni direttive, si esalta il ruolo del Consiglio di Presidenza, organo di autogoverno della Corte dei conti, riconoscendo il carattere dell’obbligatorietà al parere - preventivo - sulla nomina in assenza del quale e, soprattutto, nel rispetto della sequenza logico-cronologica procedimentale, l’atto di nomina che ne prescindesse o non motivasse una eventuale scelta diversa sarebbe illegittimo per violazione di legge. 2. LE CERIMONIE DI INSEDIAMENTO Una vera e propria cerimonia di insediamento che suggella l’assunzione della carica di vertice istituzionale si svolge soltanto presso il Consiglio di Stato, la Corte dei conti e l’Avvocatura dello Stato, tre Istituti per i quali lo svolgimento della funzione giurisdizionale non rappresenta l’unica attività istituzionale (la Corte dei conti svolge anche funzioni di controllo; il Consiglio di Stato svolge anche funzioni consultive; l’Avvocatura dello Stato non è organo di rilievo costituzionale e svolge attività di difesa e consulenza della Pubblica Amministrazione e degli enti pubblici ammessi alla difesa). Si tratta, infatti, di organo ausiliario dell’Amministrazione (l’Avvocatura dello Stato), e di organi dello Stato-comunità che non fanno parte della pubblica Amministrazione anche se (Consiglio di Stato e Corte dei conti) sono inseriti organicamente, per sopravvivenza storica, nel suo apparato, pur essendo autonomi Poteri dello Stato, ovvero alle dirette dipendenze della Presidenza del Consiglio dei ministri (Avvocatura dello Stato), pur disponendo di notevoli poteri di autogoverno, autoamministrazione e autodichìa. Al nuovo Presidente della Corte Costituzionale - come ai nuovi Giudici - è riservato un saluto in udienza pubblica anche da parte degli Avvocati, che si

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risolve essenzialmente in un riepilogo dell’attività professionale svolta, segnalando le questioni o i casi più importanti che la personalità ha trattato. L’accentuazione nel profilo di terzietà della funzione svolta dal Consiglio di Stato, insieme al desiderio - neppure troppo nascosto - di assimilare quanto più possibile l’Istituzione al Giudice Ordinario costituisce la motivazione sottintesa alla scelta effettuata - sulla spinta della componente rappresentativa dei Tar e dell’ANMA - dall’organo di autogoverno della magistratura amministrativa (Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa) di introdurre analoga (a quella che si svolge presso la Corte di Cassazione e presso le singole Corti d’Appello) cerimonia di apertura dell’anno giudiziario dall’anno 2003. Per le tre Istituzioni summenzionate (Consiglio di Stato, Corte dei conti e Avvocatura dello Stato) la cerimonia di insediamento rappresenta un’occasione di grande visibilità all’esterno, per far conoscere l’Istituto anche sotto il profilo mediatico, peraltro in un contesto quasi “sacrale” perché caratterizzato - anche per la presenza del Presidente della Repubblica e delle più alte cariche dell’Ordinamento - e scandito da un estremo rigore formale. Nella cerimonia di insediamento il profilo pressoché assorbente è il rispetto assoluto delle regole del cerimoniale della Repubblica perché nessun errore, incidente diplomatico e nessuna carenza organizzativa deve turbare la “sacralità” del momento. Sembra quasi che anni o secoli di storia istituzionale non siano sufficienti a legittimare definitivamente la buona fama o il credito dell’Istituto, che viene valutato ancora una volta nel breve corso della cerimonia, e che, perciò, deve essere perfetta in ogni minimo particolare. Non è, quindi, superfluo ricordare che cosa sia il cerimoniale (rimandando per ogni dettaglio alla sorta di “bibbia” che è il libro di MASSIMO SGRELLI1). La cerimonia inizia quando la personalità di rango più elevato ha raggiunto il suo posto: essa, infatti, giunge per ultima e si congeda per prima. Nel caso di specie, il Presidente della Repubblica, se può essere al suo arrivo accolto o dall’organo di vertice o dal suo vicario, dev’essere imprescindibilmente riaccompagnato all’uscita dall’alta carica che si è insediata ufficialmente. Il numero di discorsi è fissato rigidamente: parla per primo il Presidente del Consiglio, poi la carica istituzionale che si insedia, mai il Presidente della Repubblica che ascolta soltanto (non si applica strettamente la regola generale che l’ordine dei discorsi è inverso al rango degli oratori) e senza che vi sia alcuna presentazione del programma. Questa assoluta mancanza non solo di uno speaker che illustri i momenti che scandiscono la cerimonia, ma anche della distribuzione di un programma scritto, e spesso anche del testo scritto del discorso dei due oratori, è

1 M. SGRELLI, Il cerimoniale, Master Edizioni, Roma 20023

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un’ulteriore conferma che si tratta di una cerimonia per “iniziati” dove ognuno sa già esattamente che cosa accadrà, dove non possono verificarsi imprevisti e dove non solo il linguaggio ma anche il “rito” è patrimonio comune e assimilato perfettamente dai partecipanti. Come qualunque manifestazione ufficiale ha una durata contenuta (dura all’incirca venti minuti ogni intervento dei due oratori) e, comunque, essendo presente il Presidente della Repubblica non può superare i 90 minuti (normalmente non supera i 60 minuti). Le regole del cerimoniale plasmano così l’attività di rappresentanza che è anche e soprattutto comunicazione all’esterno. La cerimonia, in particolare, è un momento altamente rappresentativo per quelle Istituzioni che non hanno altre occasioni di riti comuni o aperti all’esterno e può dare - soprattutto se coincide con un momento politico particolarmente vivace - risonanza mediatica dell’Istituzione stessa.

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IIIIII -- PPEERR LLEEGGGGEERREE II DDIISSCCOORRSSII DDII IINNSSEEDDIIAAMMEENNTTOO ddii EElleennaa BBeerrttoonneellllii ee GGiiaaiimmee RRooddaannoo 1. I CRITERI DI MISURAZIONE: LA LEGGIBILITÀ E LA COMPRENSIBILITÀ L’attuale interesse normativo per le diversificate forme comunicative della Pubblica Amministrazione si può in qualche modo inscrivere nell’incontro di due processi, legati entrambi allo sviluppo di una società di massa e alla crescita della dimensione democratica. Da una parte, quelli in cui si affrontano i nodi del rapporto tra Stato e cittadini; dall’altra quelli nei quali l’analisi del linguaggio si misura più intensamente con gli specifici e complessi temi della ricezione e della comprensione dei testi. È proprio lo iato che viene a determinarsi tra l’impetuoso sviluppo economico e sociale e il livello culturale di larghissime fasce di popolazione che spinge alcuni linguisti a interrogarsi sui diversi livelli di fruizione della lingua e a chiedersi se essi siano compatibili con l’esercizio di una piena cittadinanza. Lo stesso progressivo decrescere dell’analfabetismo non aveva infatti eliminato il problema della distanza tra il possesso della lingua garantito dalla prima alfabetizzazione scolastica e le molteplici e versatili funzioni linguistiche via via richieste dalla società moderna. In sostanza restava un nodo da sciogliere: non bastava saper leggere e scrivere per capire davvero.

In realtà, fino a quando la compagine sociale conservava le forme di una struttura fortemente gerarchizzata, le specifiche dimensioni del linguaggio potevano anche essere oggetto di scienza, potevano pure mettere in luce la loro oggettiva complessità, ma si dava comunque per scontato che la responsabilità del farsi capire non toccasse all’autore o all’oratore: si dava per

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scontato invece che capire fosse un problema solo del lettore o dell’ascoltatore1. Il decollo di una società fondata sulla partecipazione democratica ha invece modificato i termini del problema. Nasce così, per dirla con le parole di Tullio De Mauro, l’idea di “un’etica della comunicazione [che sia] appunto degna del suo nome: un modo, il più diffuso e primordiale e umano dei modi, per mettere in comune i sensi, le esperienze che ci è dato di cogliere nella nostra vita”2. Si acquisisce cioè il principio che anche chi scrive o parla ha il dovere di farsi capire. È da questa consapevolezza che comincia a svilupparsi l’esigenza di ripensare le forme della oralità e della scrittura3 in modo che queste considerino, finalmente, anche i destinatari e il loro diritto di intendere il senso delle parole. In sostanza, si squaderna il problema di quanto e come lettori e ascoltatori siano in grado di comprendere uno scritto o un discorso. Ed è proprio da una consapevolezza siffatta che nasce la necessità di individuare criteri di misurazione della chiarezza e dell’oscurità di un testo. La ricerca intorno a questi criteri ha ulteriormente evidenziato la problematicità del “comprendere” e quindi la necessità di tener conto degli ostacoli che possono rendere difficile o impossibile la comprensione. L’interesse si è quindi spostato sulle caratteristiche dei fruitori e sul contesto in cui avviene la comunicazione. I criteri di misurazione dei testi non vanno, infatti, considerati in astratto, come parametri validi per ogni luogo e ogni situazione. Al contrario essi devono essere posti in relazione alle finalità, ai contenuti, ai destinatari. Nell’ambito di questo complesso intreccio, che non va mai sottovalutato, hanno cominciato a essere applicati i due fondamentali criteri della leggibilità e della comprensibilità4. La leggibilità riguarda le caratteristiche intrinseche del testo, vale a dire la decifrabilità materiale dei suoi segni ovvero delle sue variabili linguistiche, lessicali e sintattiche. La comprensibilità riguarda invece il rapporto tra le caratteristiche intrinseche del testo, l’articolazione dei suoi contenuti e il contesto nel quale avviene la comunicazione. È del tutto evidente come leggibilità e comprensibilità siano le due facce di una medesima medaglia, come appunto lo sono il testo e il contesto. Tener conto del contesto in cui si presentano concretamente gli ostacoli a una piena comprensione, significa

1 Un problema - questo - che non a caso coinvolge sempre di più le scienze dell’educazione. Nella storia della nostra scuola, si pensi al passaggio dal modello della lezione di gentiliana memoria, attento a garantire livelli culturali alti, cui gli alunni erano chiamati ad adeguarsi, al modello delle “scuole nuove” aperte invece ai bisogni emotivi e cognitivi degli allievi. Ma si pensi pure al passaggio dalla pedagogia di Dewey, interessata ai processi di apprendimento dei discenti, alle teorie di Bruner più aperte a considerare gli sviluppi cognitivi degli studenti. 2 Cfr. T. DE MAURO, Capire le parole, Laterza, Roma-Bari 1994, pp. IX-X. 3 Cfr. W. J. ONG, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, trad. it. Il Mulino, Bologna 1986 e D. R. OLSON, N. TORRANCE, Alfabetizzazione e oralità, trad. it. Raffaele Cortina Editore, Milano 1995. 4 Cfr. M. E. PIEMONTESE, Capire e farsi capire. Teorie e tecniche della scrittura controllata, Tecnodid, Napoli 1996.

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riflettere anche sulle modalità di elaborazione dei testi e sulla loro efficacia comunicativa. Come si sa, gli studi recenti si avvalgono sempre più frequentemente di strumenti matematico-statistici favoriti dalla tecnologia informatica. La differenza tra leggibilità e comprensibilità non risiede però nell’uso o meno di questi strumenti: le opportunità offerte dalle rivelazioni di ordine statistico e dalla possibilità di servirsi di formule in grado di tradurre i dati in indici interpretativi, non si configurano, cioè, come una discriminante tra i due criteri appena ricordati, poiché tali opportunità possono essere messe al servizio tanto della leggibilità, quanto della comprensibilità, che peraltro sarebbe difficile separare con nettezza. Se i programmi informatici analizzano statisticamente un testo segnalando, ad esempio, la percentuale delle frasi esclamative o dei congiuntivi, essi possono statisticamente analizzare anche un contesto, ad esempio la composizione sociale, economica e culturale di una platea di ascolto. Se è possibile, come vedremo, dedurre attraverso una formula matematica un indice di leggibilità legato al titolo di studio, è anche possibile, con lo stesso sistema, rilevare un indice di ricchezza lessicale del testo capace di cogliere un aspetto del suo valore comunicativo. 1.1. La leggibilità Per dare attuazione a questo criterio, sono state compiute rilevazioni sulle concrete difficoltà mostrate da vari tipi di lettori. L’esito delle ricerche ha

messo in luce alcuni ostacoli alla comprensione come la lunghezza delle parole, misurata in numero di sillabe o, meglio, di lettere, o la lunghezza dei paragrafi e delle frasi misurata in numero di parole. Queste variabili possono essere ormai molto rapidamente individuate e analizzate grazie anche al supporto delle tecnologie informatiche e alla crescente duttilità degli strumenti della statistica linguistica. Tra tali strumenti quello oggi probabilmente più flessibile e più

efficace è l’indice Gulpesae5. Esso è stato definito nel 1988 presso l'Istituto di Filosofia dell'Università degli studi di Roma “La Sapienza” dal Gruppo universitario linguistico pedagogico (GULP). Si tratta di un’attenta e 5 Cfr. P. LUCISANO, M. E. PIEMONTESE, Gulpease: una formula per la predizione della difficoltà dei testi in lingua italiana, “Scuola e città”, XXXIX, 1988, pp. 110-124.

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ponderata revisione di un indice precedente, quello con cui Roberto Vacca6 aveva a sua volta adattato alla lingua italiana l’indice di leggibilità elaborato negli anni quaranta del secolo scorso da Rudolf Flesch per l’American English7. L’indice Gulpease si calcola applicando la seguente formula:8

89 - (Lp:10) + (3 x Fr) dove Lp = (numero delle lettere del testox100):numero delle parole del testo e Fr = (numero delle frasi del testotestoX100):numero delle parole del testo.

Questa formula, come si è sopra accennato, è stata determinata verificando, con una serie di test, la leggibilità di un corpus di documenti. La ricerca è stata condotta su lettori provvisti di diversi titoli di studio: licenza elementare, licenza media e diploma di scuola superiore. Si è giunti in tal modo non solo alla individuazione della formula, ma pure alla definizione di una scala interpretativa (tarata secondo valori di difficoltà da 0 a 100) dei parametri restituiti dalla formula stessa. Tale scala non ha cioè un valore assoluto, poiché gli indici vengono messi in relazione sia con il grado di scolarizzazione del lettore, sia con il tipo di impatto su di essi provocato da uno specifico testo. Il grafico seguente riassume la scala degli indici di leggibilità Gulpease in rapporto ai titoli di studio:

6 Le prime ricerche di Vacca datano dall’inizio degli anni ‘70. Esse sono state da lui perfezionate in collaborazione con Valerio Franchina a metà degli anni ’80. Cfr. V. FRANCHINA, R. VACCA, Taratura dell’indice di Flesch su un testo bilingue italiano-inglese di un unico autore, “Linguaggi”, anno III, n. 3. 7 Cfr. R. FLESCH, The Art of Readable Writing, Collier & Collier-Macmillan, New York-London 1949. 8 Cfr. M. E. PIEMONTESE, Capire e farsi capire. Teorie e tecniche della scrittura controllata, cit. p. 101.

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L’esame del grafico ci dice, solo per fare un esempio, che un testo con indice Gulpease 39 è “quasi incomprensibile” per chi ha la licenza elementare, “molto difficile” per chi possiede la licenza media, “difficile” per un diplomato di scuola superiore. Ci dice pure che un indice 39 comporta una lettura di tipo “frustrante” per la prima categoria, “scolastica” per la seconda e per la terza9. In sostanza, Gulpease - attraverso l’incrocio tra alcuni parametri linguistici e sintattici di un testo e gli standard scolastici necessari per la sua comprensione - definisce non solo un indice di leggibilità di un testo, ma anche l’ampiezza della platea di fruizione e l’impatto sul lettore. Il che sta a ribadire quanto si è poco sopra osservato: anche al primo livello di rilevazione matematico-statistica, il criterio della leggibilità si intreccia con il criterio della comprensibilità, poiché - attraverso il riferimento ai livelli di scolarizzazione e agli esiti di lettura - considera la prima e, forse, la più rilevante dimensione di contesto10: quella del livello culturale della platea di riferimento. 1.2. La comprensibilità Come ovvio, il criterio della leggibilità non costituisce l’unico mezzo per valutare il livello di fruibilità di un testo. Tale criterio non coglie, ad esempio, se in un “testo manca una informazione essenziale per la comprensione dell’argomento trattato”11, non riesce a valutare la connessione logica dell’impianto concettuale e la sua resa stilistica, né infine è in grado di ricostruire il complesso reticolo di inferenze e di relazioni esistente tra finalità, contenuti e destinatari. Per rilevare tali aspetti, lo si è accennato, occorre rifarsi al criterio della comprensibilità. Come si può immediatamente dedurre l’analisi di comprensibilità è ben più complessa di quella di leggibilità, che pure alla prima sgombra in qualche modo il terreno. Si pensi, ad esempio, alla sensibilità necessaria per valutare gli elementi fondamentali che definiscono la comprensibilità di un testo: stabilire cioè se i contenuti sono disposti secondo un ordine che facilita la comprensione del senso complessivo e se gli argomenti e le informazioni sono adeguatamente precisati o dati invece per risaputi. A questo proposito, bisogna in sostanza considerare se autore e fruitore si trovino su un piano di compatibilità poiché fanno riferimento a un medesimo universo di conoscenze o se invece si sia in presenza di una vera e propria

9 L’aggettivo “frustrante” non ha necessità di spiegazioni: è l’evidente atteggiamento di chi di fronte a un testo non ha compreso praticamente nulla. Per lettura scolastica si intende invece quella che richiede la presenza di un insegnante o l’assistenza di un tutor. Un testo risulta invece pienamente compreso quando prevede un livello di lettura del tutto autonomo, appunto - come il grafico puntualizza - “indipendente”. 10 Si noterà come tra i livelli di scolarizzazione previsti da Gulpease manchi quello del titolo di laurea. Discuteremo più avanti le ragioni di questa mancanza e i problemi che essa pone alla presente ricerca. 11Cfr. A. M. THORNTON, Gli studi sulla leggibilità e la riscrittura in Italia, in P. LUCISANO (a cura di), Misurare le parole, Kepos, Roma 1992, p. 50.

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asimmetria della comunicazione, dovuta allo iato - più o meno forte - tra chi parla o scrive e chi ascolta o legge. Qualora i fruitori di un testo o di un discorso non possedessero gli strumenti per coglierne i riferimenti impliciti o gli accenni e i sottintesi, lo scritto o il discorso risulterebbero per essi chiari (leggibili) sul piano della loro mera disposizione lessicale e sintattica, ma assai meno chiari (comprensibili) sul terreno dell’acquisizione e del padroneggiamento dei contenuti. Non si comprende senza leggere, ma è possibile leggere senza comprendere. Non a caso, gli studi sulla comprensione12 distinguono ormai gli ostacoli superficiali, relativi alle variabili sintattiche e lessicali (ad esempio la lunghezza dei paragrafi, delle frasi e delle parole, la forte presenza di termini “meno diffusi”) che possono essere colti attraverso il criterio della leggibilità, dagli ostacoli profondi (ad esempio il difettoso impianto logico-concettuale dei contenuti, l’abuso di riferimenti impliciti) che vanno invece colti attraverso il criterio della comprensibilità. Solo l’assenza nel testo di ostacoli di questo tipo può consentire al suo fruitore una effettiva comprensione, vale a dire una lettura sino in fondo compiuta. Sempre a proposito dello stretto legame esistente tra leggibilità e comprensibilità, occorre sottolineare come l’eliminazione degli ostacoli superficiali non implichi il superamento automatico degli ostacoli profondi; mentre non è possibile invece eliminare gli ostacoli profondi senza aver superato quelli superficiali13. Il terreno della comprensibilità può tuttavia anch’esso valersi di alcuni strumenti matematico-statistici. Ad esempio, la rilevazione del numero totale delle parole utilizzate e di quello delle parole diverse consente di valutare l’ampiezza del vocabolario di un determinato testo. In altri termini, è possibile giungere alla definizione di un indice - quello della “ricchezza lessicale” - che indubbiamente costituisce una spia significativa della resa stilistica e della pregnanza comunicativa di un testo.

La formula generalmente utilizzata per calcolare la “ricchezza lessicale” è data dal rapporto tra le parole diverse presenti nel testo (vale a dire l’insieme delle parole che compongono il vocabolario di un testo, designate con il simbolo V) sul totale delle parole che compongono il medesimo testo (N), moltiplicato per 100. Per testi dalle dimensioni ridotte è tuttavia consigliabile utilizzare un indicatore di “ricchezza lessicale” più complesso, introdotto da Pierre Guiraud14,

12 Cfr. ad esempio L. LUMBELLI, Fenomenologia dello scrivere chiaro, Editori Riuniti, Roma 1989. 13 Cfr. M. E. PIEMONTESE, cit., p. 104. 14: “Fondamentali sono i lavori di P. Guiraud negli anni cinquanta-sessanta sul carattere statistico-probabilistico del vocabolario delle lingue e le riflessioni sui connessi problemi metodologici. […] È, infatti, Guiraud a notare che con poche centinaia di parole si riesce a coprire oltre la metà e con poche migliaia oltre il 97,5% di qualsiasi tipo di testo. Questa osservazione, oltre a gettare luce sulla struttura e sul funzionamento del lessico delle lingue, appare immediatamente rilevante per la didattica delle lingue (materne e straniere) e per la verifica dei livelli di comprensione” (Cfr. M. E. PIEMONTESE, Capire e farsi capire…, cit. p. 86).

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che riduce l’effetto delle dimensioni di N ponendolo sotto radice (la formula così diventa V diviso radice quadrata di N)15.

Una altra indagine statistica utile a definire aspetti stilistico-espressivi di un testo è quella che calcola - sulla scorta del Vocabolario italiano di base (VdB) di Tullio De Mauro16 - la percentuale dei diversi tipi di parole utilizzate. Il VdB contiene infatti un elenco di lemmi elaborato prevalentemente secondo criteri statistici: esso rappresenta la porzione della lingua usata e compresa dalla maggior parte di coloro che parlano l’italiano. In particolare, i lemmi del VdB sono classificati in alcuni livelli principali, che possono essere così sintetizzati:

- “parole fondamentali”: sono circa 2000 lemmi (1991). Sono i termini più frequenti in assoluto della nostra lingua (compresi quindi gli articoli, le preposizioni, gli avverbi di quantità, tempo e luogo);

- “parole molto comuni”: sono circa 3000 lemmi (2750). Sono termini ancora molto frequenti sia nel linguaggio parlato, sia in quello scritto. Sono parole indispensabili per passare a testi più articolati e precisi.

- “parole comuni”: sono oltre 2000 lemmi (2337) spesso di umile riferimento, ma ben presenti nella nostra mente perché di uso quotidiano;

- “parole meno diffuse”: sono circa 8000 lemmi. Sono termini indispensabili per la comprensione di qualsiasi contesto specifico: sono non solo i vocaboli obsoleti, letterari, regionali, dialettali, ma anche quelli tecnico-specialistici.

È sin troppo evidente che una radiografia che ci faccia immediatamente conoscere come le categorie di lemmi appena citate si distribuiscano percentualmente in un testo, consente di individuare uno dei possibili ostacoli “profondi” per sua comprensione: la presenza consistente, ad esempio, delle “parole meno diffuse”. Queste rilevazioni d’ordine statistico sono certamente assai utili ai fini dell’analisi di comprensibilità di un testo. E tuttavia non si può non ribadire che restano centrali le ricerche in grado di ricostruire l’articolato e complesso rapporto che si stabilisce tra il testo e il suo fruitore. L’analisi di un testo finalizzata a definire la sua comprensibilità deve allora innanzitutto ricorrere ai ferri del mestiere della critica stilistica. Ma ciò non basta. Si deve altresì approfondire - con gli strumenti della critica storica e sociologica - da un parte il contesto specifico in cui il testo si colloca e, dall’altra, si devono considerare le caratteristiche dei “riceventi”, verificando se “emittenti” e “riceventi” appartengano o meno alla medesima koinè culturale.

15 Cfr. F. DELLA RATTA-RINALDI, L’analisi testuale, uno strumento per la ricerca qualitativa, in AA.VV., Strumenti per la ricerca qualitativa. Studio di caso e analisi testuale, Angeli, Milano 2002. 16 Cfr. anche T. DE MAURO, Guida all'uso delle parole, Editori Riuniti, Roma 1980, cap. 16.

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2. I DISCORSI DI INSEDIAMENTO 2.1. Le ragioni di una scelta Come hanno già osservato Federico Basilica e Stefano Sepe, il senso e le finalità di questa ricerca si inquadrano nel processo di avvicinamento tra Stato e cittadini. In tale contesto si è scelto di mettere per così dire sotto una lente di ingrandimento gli interventi con i quali i “vertici” dell’Avvocatura dello Stato, del Consiglio di Stato e della Corte dei conti si insediano nelle rispettive cariche perché, proprio in tale occasioni e proprio attraverso tali interventi, queste tre alte Istituzioni dello Stato hanno modo di “parlare”, di “comunicare”, di esprimersi insomma pubblicamente e in termini generali. Corre l’obbligo di un’osservazione in qualche modo preliminare. Il lavoro di analisi è stato compiuto sui testi a stampa, per cui non è stato possibile apprezzare quanto e come la resa oratoria abbia inciso o meno sull’impatto dei discorsi. Nell’universo dei discorsi di insediamento si è quindi operata un’ulteriore scelta. Essa è stata orientata dai seguenti motivi. In primo luogo si è voluto avere a disposizione un corpus di documenti che fosse equilibratamente diviso tra le tre Istituzioni al fine di poter operare pure qualche comparazione tra i rispettivi discorsi di insediamento. Si sono poi scelti quindici testi che coprissero un arco di almeno trent’anni (1968-2002) per verificare le eventuali variabili dovute al trascorrere del tempo. Infine si è ritenuto di avere a disposizione un materiale che, anche dal punto di vista quantitativo, consentisse un’analisi articolata e approfondita dei testi. 2.2. Gli strumenti dell’analisi 2.2.1. Leggibilità e comprensibilità attraverso gli indici Gulpease e Guiraud Abbiamo già osservato che i due criteri principali di analisi testuale - la leggibilità e la comprensibilità - devono essere strettamente intrecciati per consentire un esame a tutto campo del testo. Da un lato è necessario tener conto degli elementi linguistico-sintattici; dall’altro si deve valutare la successione logica degli argomenti, l’articolazione dei contenuti, la resa espressiva e il rapporto tra testo, contesto e fruitore. Per procedere alle analisi di leggibilità e di comprensibilità dei quindici discorsi si è proceduto nel seguente modo. Il Gruppo di lavoro ha innanzitutto provveduto a scansionare il testo a stampa dei discorsi, in modo da averli a disposizione con supporto digitalizzato. Si è

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proceduto quindi a utilizzare il programma Escogito17, che ha consentito di rilevare i seguenti dati:

- percentuali di frequenza delle parole utilizzate nel testo con riferimento al VdB;

- percentuale delle “parole meno diffuse”; - numero totale dei paragrafi; - numero medio delle frasi contenute in un paragrafo; - numero medio delle parole contenute in un paragrafo; - numero totale delle frasi contenute nel documento; - percentuale delle frasi lunghe (ovvero delle frasi con più di

quaranta parole); - percentuale delle frasi corte (ovvero delle frasi con meno di

quindici parole); - numero totale delle parole presenti nel documento; - numero delle parole diverse tra loro presenti nel documento; - numero medio delle lettere e delle sillabe contenute in una parola.

È stato così possibile sottoporre i testi dei quindici discorsi sia all’analisi Gulpease, sia all’analisi di Guiraud, utilizzando le formule matematiche che sono state citate nelle pagine precedenti. A proposito dell’analisi Gulpease va precisato quanto si è in precedenza sommariamente detto. Tanto gli indici Gulpease, quanto le elaborazioni grafiche Eulogos18, da essi derivate, incrociano i dati statistici di leggibilità con soli tre titoli di studio: la licenza elementare, la licenza media, il diploma di scuola secondaria. Mancano invece - come risulta dalla tabella che segue - gli incroci relativi a titoli di studio superiori a quello del diploma di scuola secondaria di II grado:

IINNDDIICCEE GGUULLPPEEAASSEE

LLIICCEENNZZAA EELLEEMMEENNTTAARREE LLIICCEENNZZAA MMEEDDIIAA DDIIPPLLOOMMAA SSUUPPEERRIIOORREE

fino a 5 quasi incomprensibile quasi incomprensibile Quasi incomprensibile Da 6 a 10 quasi incomprensibile quasi incomprensibile Quasi incomprensibile da 11 a 15 quasi incomprensibile quasi incomprensibile molto difficile da 16 a 20 quasi incomprensibile quasi incomprensibile molto difficile da 21 a 25 quasi incomprensibile quasi incomprensibile molto difficile da 26 a 30 quasi incomprensibile quasi incomprensibile molto difficile da 31 a 35 quasi incomprensibile quasi incomprensibile difficile da 36 a 40 quasi incomprensibile molto difficile difficile da 41 a 45 quasi incomprensibile molto difficile Facile da 46 a 50 quasi incomprensibile molto difficile Facile da 51 a 55 quasi incomprensibile difficile Facile da 56 a 60 molto difficile difficile Facile da 61 a 65 molto difficile Facile Facile

17 Cfr. ESCOGITO BAR, versione 2.0, Expert system S.p.A., Modena 1997-2002. 18 Riproduciamo lo schema con cui Eulogos CENSOR analizza la leggibilità di un testo secondo l’indice Gulpease e ne confronta le parole con il Vocabolario di base (VdB) di Tullio De Mauro grazie alla lemmatizzazione automatica. Cfr. www.eulogos.net/it/censor/default.htm

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da 66 a 70 molto difficile Facile Facile da 71 a 75 difficile Facile Facile da 76 a 80 difficile Facile molto facile da 81 a 85 facile molto facile molto facile da 86 a 90 facile molto facile molto facile da 90 a 95 facile molto facile molto facile

da 95 a 100 molto facile molto facile molto facile

Ai fini della nostra ricerca l’incrocio degli indici Gulpease con i tre titoli di studio appena richiamati è comunque prezioso, in quanto ci ha consentito di avanzare alcune ipotesi operative per divulgare i discorsi di insediamento a una platea più ampia, caratterizzata cioè anche da livelli di scolarizzazione inferiori a quelli posseduti dal pubblico delle cerimonie di insediamento19. Restava però pregiudiziale la necessità di valutare l’indice di leggibilità di discorsi i cui autori e i cui fruitori immediati possedevano una forte affinità culturale, in quanto appartenenti a una koinè piuttosto coesa, nella quale i titoli di studio in genere non si limitano a un diploma secondario. In tale contesto e in mancanza di rilevazioni scientifiche desunte da test empirici, affrontare l’analisi della leggibilità ha comportato quindi la necessità di provare a estrapolare dagli indici disponibili (naturalmente con la dovuta cautela) giudizi rapportabili anche a fruitori con titolo di laurea. In sostanza, ci si è limitati a rivedere verso l’alto le soglie previste per fruitori in possesso di diploma. La tabella che segue indica l’adeguamento, limitato alla fascia chiave compresa tra 26 e 45, che ha consentito di procedere nella ricerca:

INDICE GULPEASE DIPLOMA SUPERIORE LAUREA

da 26 a 30 molto difficile difficile da 31 a 35 difficile difficile da 36 a 40 difficile facile da 41 a 45 facile facile

2.2.2. Leggibilità e comprensibilità: dagli indici statistici alla griglia di rilevazione

19 L’assenza del riferimento al titolo di laurea è ben comprensibile se si considera che la ricerca condotta dal Gruppo universitario linguistico pedagogico della Sapienza ha come fine quello di fornire uno strumento utile alla semplificazione del linguaggio soprattutto nei confronti di quanti, per età o per livello culturale, rischiano di venire esclusi dalla comprensione piena dei linguaggi usati nella scuola e nella società civile. Non a caso questi strumenti della misurazione della leggibilità e della comprensibilità hanno trovato largo uso nello studio del linguaggio della Pubblica Amministrazione in vista della semplificazione dei suoi messaggi comunicativi verso i cittadini. Cfr., ad esempio, il volume - promosso dalla Presidenza del Consiglio e dal Dipartimento della Funzione Pubblica - A. FIORITTO (a cura di), Manuale di stile. Strumenti per semplificare il linguaggio delle amministrazioni pubbliche, Il Mulino, Bologna 1997. Particolarmente rilevante è alle pp. 1-60 del libro la “Guida alla redazione dei documenti amministrativi” di Maria Emanuela Piemontese. Si veda anche Come dialogare con i cittadini. Il linguaggio della comunicazione a stampa delle Pubbliche Amministrazioni, curato da un Gruppo di lavoro della Sspa (in corso di stampa).

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Concluse le rilevazioni d’ordine statistico si è predisposto lo strumento mirato in grado di connettere queste medesime rilevazioni con il contesto dei quindici discorsi di insediamento, nonché con le loro fondamentali connotazioni logiche, contenutistiche ed espressive. A tal fine è stata predisposta una griglia di rilevazione che tenesse conto della figura del relatore, del contesto storico, del contesto giuridico-istituzionale, dell’impianto logico-concettuale, dell’articolazione dei contenuti. Dai diversi contesti e dalle differenti connotazioni dei testi si è infine fatta derivare la complessiva analisi della leggibilità e della comprensibilità di ciascun discorso. Questa la griglia di rilevazione predisposta dal Gruppo di lavoro:

la leggibilità e la comprensibilità

Tale griglia ha corrisposto all’esigenza di considerare da una parte i

diversi aspetti del contesto in cui si colloca il discorso di insediamento e dall’altra le sue specifiche connotazioni testuali. Le ricerche sulle figure del relatori hanno messo in luce le personalità dei Presidenti e degli Avvocati Generali che sono saliti alla ribalta della cerimonia di insediamento: si sono cioè delineati di volta in volta il campo degli studi, le specifiche competenze, le esperienze professionali, gli incarichi ricoperti.

La ricostruzione del contesto storico ha collocato ciascun discorso nella temperie politica e culturale - nazionale e internazionale - coeva alla seduta di insediamento. A sua volta, la descrizione del contesto giuridico-istituzionale ha delineato lo sfondo per così dire tecnico di ogni intervento: vale a dire il quadro dei problemi specificamente relativi alle tre istituzioni come, ad esempio, riforme da poco avvenute o da avviare, aspettative di cambiamento o difficoltà organizzative. In questo modo si sono potuti esplicitare anche i riferimenti e le allusioni che nei discorsi restavano, per ovvie ragioni, soltanto impliciti.

L’individuazione del filo conduttore dei discorsi - del loro impianto concettuale e dello svolgimento dei contenuti - ne ha ulteriormente chiarito il complessivo contesto di riferimento e ha favorito l’analisi delle loro modalità espressive. È appunto questo complesso di rilevazioni - alle quali hanno contribuito tutti i membri del Gruppo di lavoro - che ha consentito sia di esplorare la natura dei quindici discorsi di insediamento, sia di metterli in relazione alla specifica platea di riferimento per considerarne la leggibilità e la comprensibilità.

la figura del relatore

l'impianto logico-concettuale l'articolazione dei contenuti

connotazioni del testo

il contesto storico il contesto giuridico-istituzionale

contesto

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A questo punto l’intreccio di tali analisi ha permesso un confronto dei testi, che ha fatto emergere a un tempo sia la peculiarità di ciascun intervento, sia la loro appartenenza a un genus dicendi sostanzialmente omogeneo nell’impianto, nella tessitura, nella platea a cui viene esplicitamente destinato. Ciò ha posto infine la questione nodale, affrontata al termine della ricerca, di come individuare - senza indulgere alla seduzione del facilismo semplificatorio - le modalità più idonee per avvicinare al largo pubblico dei cittadini le alte Istituzioni, i loro profili, il loro ruolo, le loro prospettive.

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1. LA FIGURA DEL RELATORE Nato a Bari il 28 novembre 1918, Giuseppe Manzari si laurea in giurisprudenza nel 1941 nell’Ateneo di Bari con il massimo dei voti, la lode e la dignità di pubblicazione della tesi. Iscritto all’albo dei Procuratori ed Avvocati di Bari, diventa assistente di Diritto Amministrativo in quella università, come volontario prima, come incaricato, poi. Vince da ultimo il relativo concorso. Entra nell’Avvocatura dello Stato nel 1946, come Procuratore, divenendo Sostituto Avvocato nel 1950 dopo la vittoria, come primo classificato, del relativo concorso pubblico. Dal 1955 in poi è chiamato a fare parte di numerose commissioni di studi legislativi, tra cui quella per la riforma del Codice di procedura civile. Nominato Consigliere di Stato nel 1959, diventa Presidente di Sezione nel 1973. È capo di Gabinetto dell’On. Moro al Ministero della pubblica istruzione nel 1957 e nel 1958; dal 1963 al 1968 e dal 1974 al 1976 torna ad essere Capo di gabinetto dell’On. Moro alla Presidenza del Consiglio dei ministri. Autore di numerosi studi e pubblicazioni giuridiche, ricopre dal 1969 al 1979 l’incarico di Capo del Servizio del Contenzioso Diplomatico e dei Trattati e degli Affari legislativi al Ministero degli affari esteri. È Avvocato Generale dello Stato dal 15 settembre 1979 fino al 28 novembre 1988. Muore a Roma il 6 maggio del 2000.

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2. IL CONTESTO STORICO Il clima generale è quello di pronunciata tensione e di forti preoccupazioni determinato dalla spirale terroristica. Esso aveva certamente raggiunto poco più di un anno prima il suo acme con l’assassinio di Aldo Moro e della sua scorta (e non manca nel discorso dell’Avvocato Manzari, già stretto collaboratore dell’illustre uomo politico, un commosso accenno al “senso di tragico incolmabile vuoto” provocato dalla scomparsa del leader trucidato dalle Brigate Rosse). Lo stillicidio di attentati ed esecuzioni sommarie pareva però non trovare requie. Qualche mese dopo sarà colpito a morte Vittorio Bachelet, ma il giorno stesso dell’insediamento dell’Avvocato Manzari è drammaticamente segnato dall’uccisione di due carabinieri a Sampierdarena: al doloroso episodio tanto il Presidente del Consiglio Francesco Cossiga, quanto l’Avvocato Generale dedicano forti parole di condanna nell’esordio dei loro rispettivi interventi. Sul piano della politica interna, il dato rilevante è quello dell’esaurimento della politica di “solidarietà nazionale”. Essa non ha prodotto il risultato da più parti auspicato di un processo di trasformazione sociale e di un risanamento della vita pubblica. Continuano a verificarsi, soprattutto negli enti locali e nelle imprese a partecipazione statale, episodi di lottizzazione, di cattiva gestione e di vera e propria corruzione. Gli scandali giungono a sfiorare la Presidenza della Repubblica nella persona di Giovanni Leone, che è costretto a dimettersi nel giugno 1978. A suo posto, nell’agosto viene eletto, con un larghissimo consenso, il socialista Sandro Pertini. Le elezioni anticipate del giugno 1979 segnano un mutamento del quadro politico. Mentre la DC resta stabile, il PCI scende al 30% dei consensi e vede frustrata la speranza di essere risospinto nell’area di governo dal voto popolare. Si chiude l’esperienza della “solidarietà nazionale” e si apre una fase di transizione caratterizzata da un ritorno alla formula di centro-sinistra (DC, PSI, PRI, PSDI) che darà vita, tra l’agosto 1979 e il settembre 1980, a due gabinetti Cossiga. Sul piano internazionale, gli eventi più significativi del 1979 riguardano l’entrata in vigore nella CEE dello SME (Sistema monetario europeo), gli accordi SALT con i quali USA e URSS riconoscono la reciproca parità nucleare, l’ascesa al potere in Gran Bretagna di Margaret Thatcher, il colpo di Stato in Afganistan e il ritorno di Khomeini in Iran.

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3. IL CONTESTO GIURIDICO-ISTITUZIONALE La nomina dell’avv. Manzari avviene non solo dopo tre anni di reggenza del Vice Avvocato Generale dello Stato Di Ciommo, ma anche a pochi mesi dall’approvazione della legge 3 aprile 1979, n. 103 contenente le modifiche dell’ordinamento dell’Avvocatura dello Stato. Tale complessa legge di riforma ha profondamente innovato la struttura portante dell’Istituto, ridisegnando le progressioni di carriera degli Avvocati e Procuratori dello Stato, le competenze degli organi collegiali (Comitato Consultivo e Consiglio degli Avvocati e Procuratori dello Stato). Nel programma normativo generale vanno ricordati il D.P.R. 24 luglio 1977, n. 616 emanato in attuazione della delega di cui all’art. 1 legge 22 luglio 1975, n. 382 che ha disposto il trasferimento alle Regioni delle funzioni amministrative nelle materie indicate dall’art. 117 Cost. esercitate dagli organi centrali; e la legge 9 dicembre 1977, n. 903 sulla parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro. 4. L’IMPIANTO LOGICO-CONCETTUALE 1. Riferimento all’atto terroristico 2. Importanza del vincolo di appartenenza 3. La legge 103/79: Modifiche all’ordinamento dell’Avvocatura 4. Vocazione, funzioni e nuovi compiti dell’Istituto 5. Allarmanti carenze 6. Proposte conclusive 5. L’ARTICOLAZIONE DEI CONTENUTI DRAMMATICA ATTUALITÀ I saluti e i ringraziamenti protocollari sono preceduti da una ferma condanna del fatto terroristico avvenuto la mattina stessa dell’insediamento. VINCOLO DI APPARTENENZA Con impegno ed entusiasmo si accettano le nuove responsabilità e i nuovi compiti e si riannoda quel vincolo di appartenenza all’Istituto contratto nel

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lontano 1946; dalla memoria del grande Arturo Carlo Jemolo all’attesa fiduciosa dei giovani colleghi si snodano commossi i ricordi personali. LEGGE 103/79 La risposta alle attese è offerta dalla legge n. 103 del 3 aprile 1979 che amplia i compiti dell’Istituto, ne ridisegna l’organizzazione e rimodula lo status giuridico degli Avvocati e dei Procuratori dello Stato. Ponendosi, ora, in posizione di autonomia ed indipendenza funzionale di fronte ad ogni singola amministrazione, l’Avvocatura realizza la giustizia nell’amministrazione facendo collimare gli interessi settoriali con quelli primari ed essenziali della Comunità. VOCAZIONE E FUNZIONI DELL’AVVOCATURA Questa vocazione legalitaria e giustiziale caratterizza l’Avvocatura, dalla sua nascita come “Avvocatura erariale”, fino alla Costituzione repubblicana e all’ordinamento interno ed internazionale del periodo postbellico potenziandosi ed istituzionalizzandosi. Nel rispetto della giustizia gli interessi di cui sono portatori gli organi della Pubblica Amministrazione possono essere tutelati soltanto dalla duplice, inseparabile funzione: contenziosa e consultiva. IMPEGNO E PROFESSIONALITÀ DELL’AVVOCATO DELLO STATO Il problema centrale dell’Avvocato dello Stato rimane quello di soddisfare in modo equilibrato tanto l’interesse pubblico secondario quanto quello primario di giustizia attraverso il quotidiano travaglio della sua scienza, della sua coscienza e del suo impegno professionale. POTENZIALITÀ INTRINSECA DELL’AVVOCATURA E DEI SUOI PRESTIGIOSI NUOVI COMPITI L’Avvocatura è stata concepita con una sua intrinseca potenzialità che la rende capace di crescere insieme con la società in modo da rispondere all’esigenza di difesa legale dell’apparato statale e alla domanda di giustizia nell’azione pubblica. L’attività di consulenza è un utile strumento per prevenire o ridurre la litigiosità e rendere più efficace la difesa dello Stato quando è inevitabile giungere alla contestazione; la funzione di consulenza dell’Avvocatura si diversifica dall’intervento consultivo di altri organi, primo fra tutti il Consiglio di Stato. In materia consultiva e contenziosa il parere tecnico–giuridico dell’Avvocato Generale deve prevalere su quello dell’Amministrazione interessata; ove permanga il dissenso, la decisione finale spetta al responsabile politico; infatti l’Avvocatura dello Stato dipende organizzativamente dalla Presidenza del Consiglio. La funzione dell’Avvocatura dello Stato, nel realizzare i fini primari

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di giustizia, si svolge anche davanti alla Corte Costituzionale e in alcuni giudizi davanti alla Corte di Giustizia delle Comunità Europee. ALLARMANTI CARENZE E NUOVA CONNOTAZIONE DELL’ISTITUTO La nuova legge, ad onta del riduttivo titolo, “Modifiche all’ordinamento dell’Avvocatura”, ha rinnovato l’Istituto dalle fondamenta; restano tuttavia allarmanti carenze (strumenti di supporto materiali e personali) che rischiano, insieme alla mancanza di tempestività ed efficienza, di vanificare la bontà del nuovo ordinamento il quale prevede con l’articolo 10 della nuova legge l’estendersi del patrocinio anche alle Regioni. L’assunzione necessaria della difesa dinanzi ai Collegi comunitari e internazionali richiede, inoltre, un maggiore impegno e una proficua collaborazione col Ministero degli esteri. DOVERI DELL’AVVOCATO GENERALE Nel rispetto della dignità e della deontologia professionale si dovranno favorire nuove forme di collegialità, promuovere la continuità di collegamento operativo tra Avvocati e Procuratori, stimolare lo spirito di solidarietà e colleganza. QUALCHE PROPOSTA a) Potenziare la funzione preventiva svolta in sede consultiva sull’esempio dell’Ombudsmann svedese; b) rendere concrete le garanzie formali offerte dalla legge: diritto alla difesa in giudizio degli indigenti ed effettivo godimento delle garanzie formali (nella prospettiva della consulenza gratuita, potrebbe essere ripreso in considerazione il vecchio istituto dei così detti “delegati”); c) favorire la collaborazione con tutti gli organismi che in altri Paesi svolgono funzioni analoghe a quelle dell’Avvocato Generale. 6. LA LEGGIBILITÀ E LA COMPRENSIBILITÀ LA LEGGIBILITÀ Secondo l’indice Gulpease la leggibilità del discorso dell’Avvocato Generale Manzari è di 40,28. Il dato ci dice che il documento è “facile” per un fruitore fornito di un diploma di scuola secondaria superiore. Esso sarà tanto più facile per un laureato1. L’indice di 40,28 relativo al discorso dell’Avvocato Manzari si colloca tuttavia appena al di sopra della soglia di 40 che - per i

1 Anche in questo caso, per completezza di informazione, riportiamo le valutazioni di leggibilità per gli altri due titoli di studio: il testo viene giudicato da Gulpease “quasi incomprensibile” per chi è fornito di una istruzione elementare e “molto difficile” per chi è fornito di una istruzione media.

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lettori forniti di istruzione secondaria superiore - separa la definizione di “facile” da quella di “difficile”. I parametri che determinano il livello di leggibilità del discorso dell’Avvocato Manzari sono i seguenti : le parole “fondamentali” sono il 72%, quelle molto “comuni”l’8%, quelle “comuni” l’1% e quelle “meno diffuse” il 19%. Il testo si compone di 68 paragrafi, ciascuno dei quali contiene in media poco più di 2 frasi e circa 67 parole. Le frasi lunghe (quelle con più di 40 parole) sono di numero superiore alle frasi corte (quelle con un massimo di 15 parole): le prime sono 41 (30,4% del testo), le seconde 26 (pari al 19,3%). Nonostante la significativa percentuale dei termini tecnico-specialistici (una caratteristica, peraltro, inevitabile data la natura del discorso e la platea cui esso viene rivolto), la valutazione di “facile” del discorso è determinata soprattutto da una percentuale ancora contenuta di frasi lunghe e da una presenza significativa di frasi brevi. LA COMPRENSIBILITÀ Pur seguendo sostanzialmente una linea protocollare, il discorso dell’Avvocato Manzari si discosta dai rituali toni celebrativi che caratterizzano questo tipo di cerimonie. Il riferimento agli eventi tragici dell’attualità, l’approfondimento delle trasformazioni conseguenti all’entrata in vigore della legge 103 e ancor più la programmazione del lavoro dell’Avvocato sulla base dei propositi costruttivi, tesi a eliminare le carenze e a migliorare la qualità del “servizio” dell’Avvocatura, introducono elemento di originalità. L’indice di Guiraud ci segnala la “ricchezza lessicale” del testo, attraverso la misurazione dell’uso diversificato delle parole. Nel caso in esame l’indice di 21,77 è superiore al valore medio di 20,16 – già qualitativamente alto - dei quindici discorsi di insediamento. Non a caso il parametro fondamentale da considerare (quello delle parole diverse rispetto alla somma di tutti i termini usati) ci dice che le prime sono ben 1469 su un totale di 4553. Una forte tensione etica è la dominante che accompagna tutto il discorso di insediamento. Tale tensione nasce fin dall’inizio, connotando fortemente l’intreccio fra i ricordi personali e le nuove responsabilità; pervade tutta la parte centrale dedicata alla “felice apertura” offerta dalla travagliata quanto lungamente attesa riforma; si rinnova nella conclusione dove il desiderio e la promessa di un impegno costruttivo si allargano in una visone non più limitata all’operato dell’Avvocatura nel nostro Paese, ma nell’Europa e oltre, visto che in numerosi paesi esistono organismi che svolgono analoghe funzioni. Questa tensione propria dell’uomo è amplificata sia dall’assunzione della nuova carica, sia dall’atto terroristico avvenuto la mattina stessa dell’insediamento. Sconvolgendo l’usuale andamento del discorso, ai saluti protocollari, l’Avvocato Manzari fa precedere il riferimento all’atto criminoso.

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L’accenno breve ai fatti - “l’efferato crimine oggi commesso” e “la più ferma condanna” per gli stessi - si presenta espresso in due soli brevi periodi chiari ed incisivi da un punto di vista lessicale nei sintagmi forti: “profonda commozione… vite umane stroncate” e nell’aggettivazione efficace: “eversive”, “insensate”, “sanguinarie”, “efferato”. L’accettazione di un così alto incarico richiede “nuove e maggiori responsabilità”, l’entusiasmo e l’impegno, invece, possono essere recuperati insieme con la “volontà” e la “fiducia”, in quelle esperienze vissute durante i primi anni di servizio nell’Istituto con il quale ora Manzari riannoda con “animo commosso” i vincoli di appartenenza. La struttura dei periodi mantiene le stesse caratteristiche di brevità e di chiarezza della prima parte. La scelta lessicale crea un’atmosfera in cui il momento affettivo si fonde con quello etico: “il mio animo è commosso”, il “mio ricordo si volge a tanti, il cui nome desidero custodire nella memoria”. I nuovi gravosi compiti e le attese dei giovani trovano per l’Avvocato Manzari una “felice apertura” proprio nella prospettiva offerta dalla legge 103. Per illustrare i nuovi compiti e le nuove attribuzioni dell’Avvocatura il discorso acquista una veste linguistica più specifica e tecnica: “l’Avvocatura non è più un complesso gerarchico di qualifiche… identità della funzione… nuove forme di collegialità… vincolo istituzionale del pubblico servizio… funzione consultiva… funzione contenziosa… vocazione giustiziale”. In tutta la parte del discorso inerente alle problematiche della riforma, l’esposizione dei contenuti si fa meno lineare; spesso alcuni concetti vengono brevemente esposti per essere ripresi nel capoverso successivo; meno chiara risulta la comprensione, anche a causa di una maggiore lunghezza e articolazione dei periodi in particolare di quelli nei quali il pensiero diventa più complesso. Anche quando la trattazione si fa per necessità più tecnica il tono e il taglio non mancano di un’impronta personale e sempre moralmente connotata: nei ringraziamenti rivolti al Presidente della Repubblica; nel riconoscere al Presidente del Consiglio la sensibilità di rilevare la necessità di revisione di un ordinamento legislativo ormai superato; nel ricordare la scomparsa di un illustre ”amico” che ha lasciato un senso di incolmabile vuoto. Un aspetto peculiare del suo stile sorprende il lettore proponendo alcuni riferimenti filosofici che chiarificano in modo originale la natura dell’Avvocatura, la “sua anima”, la “sua aristotelica entelechia” e le possibili, positive evoluzioni dei compiti e delle finalità dell’Istituto: riprendere “in considerazione… il vecchio istituito dei ‘delegati’, in tempi di rivalutazione di studi vichiani”, rappresenterebbe un “ricorso storico” che “potrebbe… accogliersi… nella visione di una dialettica di progresso…”, sottolineando con quest’ultima affermazione “la matrice lorenese… illuministica” dell’Avvocatura. Nella parte conclusiva il linguaggio si fa più chiaro perché chiaro vuole essere

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il messaggio da trasmettere: “quello dell’Avvocatura è un quotidiano travaglio nel quale si affinano la coscienza e l’impegno di chi dovrà usare la logica del sapere, l’onesta del volere, mai l’esercizio del potere”. La seguente tabella sintetizza visivamente le principali caratteristiche del testo appena esaminato:

DISCORSO DI INSEDIAMENTO DELL’AVVOCATO GENERALE GIUSEPPE MANZARI Indice Gulpease Numero dei

paragrafi Numero delle frasi Numero delle frasi

lunghe Numero delle frasi brevi

Media delle frasi per paragrafo

40,28 68 135 41 (30,4%) 26 (19,3%) 2 Totale delle parole

utilizzate Numero delle parole diverse

Media delle parole per paragrafo

Media delle parole per frase

Percentuale delle parole meno

diffuse

Ricchezza lessicale di

Guiraud

4453 1469 67 33,7 19% 21,77 I termini che più frequentemente ricorrono nel discorso di insediamento sono invece i seguenti:

21 funzione 14 legge 14 attività 14 professionale 13 giustizia 13 avvocato 12 compito 11 interesse 10 pubblico 10 difesa 7 giudizio

Quest’ultima scheda conferma come il discorso sia centrato sulle tematiche specifiche dell’Avvocatura dello Stato, con una particolare attenzione ai nuovi compiti dell’Istituzione al servizio degli interessi generali dei cittadini.

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1. LA FIGURA DEL RELATORE Nato a Roma il 31 gennaio 1923, si laurea in giurisprudenza all’Università di Roma nel 1944 ed entra giovanissimo in Avvocatura dello Stato (1946), prestando inizialmente servizio presso l’Avvocatura distrettuale di Milano e quindi, ininterrottamente presso l’Avvocatura Generale dello Stato. Pervenuto alla carica di Vice Avvocato Generale nel 1980, diviene il vicario dell’Avvocato Generale nel 1986 e consegue infine la nomina di Avvocato Generale dello Stato il 3 febbraio 1989. Ricopre la carica fino al 31 gennaio 1995. Nel primo governo di centro-sinistra, presieduto dall’On. Moro, è consulente giuridico del Vice Presidente del Consiglio dei ministri Pietro Nenni. È autore di apprezzati scritti apparsi sulle più importanti riviste giuridiche. Nei ruoli dell’Avvocatura dello Stato ha svolto la difesa degli interessi pubblici dello stato italiano dinnanzi a tutti gli organi giurisdizionali. Particolarmente assidua è stata la sua opera di fronte alla Corte Costituzionale, dove ha continuato a patrocinare anche dopo l’insediamento al vertice dell’Istituto e dove ha contribuito, dal suo banco di avvocato, alla formazione della giurisprudenza della Corte nelle varie materie. 2. IL CONTESTO STORICO L’anno in cui si insedia l’Avvocato Generale Azzariti è indubbiamente uno di quelli destinati a passare alla storia. Per esso si è difatti parlato di un “secondo ‘89”, quasi a sancirne una valenza di cesura epocale riconducibile per incidenza sugli eventi e per impatto sull’immaginario collettivo all’anno

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primo della Rivoluzione francese: il 9 novembre, il giorno della caduta del muro di Berlino, (a neppure due settimane dall’insediamento dell’Avvocato Azzariti) un po’ come il 14 luglio della presa della Bastiglia; l’avvio dello sfaldamento dell’ancien régime un po’ come l’inizio della precipitosa dissoluzione del cosiddetto “socialismo reale”. In Italia il quadro politico continua a essere contraddistinto dalle fibrillazioni determinate all’interno dell’alleanza del “pentapartito” (DC, PSI, PSDI, PRI, PLI) dal conflitto concorrenziale, ora endemico, ora esplosivo tra il leader del Partito socialista Bettino Craxi e quello della Democrazia cristiana Ciriaco De Mita. Proprio nel 1989 quest’ultimo è costretto alle dimissioni prima da Segretario del Partito (sostituito da Arnaldo Forlani, febbraio 1989) e poi da capo del Governo (sostituito da Giulio Andreotti, maggio 1989): inizia la fase detta del CAF, caratterizzata cioè dall’accordo (pur non privo di una sopita conflittualità e destinato a esplodere nel 1992 con l’elezione del Presidente della Repubblica) tra Craxi, Andreotti e Forlani. Sul fronte dell’opposizione l’evento dell’anno senza dubbio più significativo è l’annuncio fatto da Achille Occhetto nel novembre del cambiamento del nome del Partito comunista: inizia un tormentato iter che porterà nel giro di 14 mesi alla nascita del PDS, ma pure alla scissione di Rifondazione. Al tempo stesso si avvicina (elezioni amministrative del maggio 1990) il notevole successo della Lega di Umberto Bossi e si profila (referendum sulla preferenza unica del 1991, elezioni politiche del 1992, esplosione di “tangentopoli”) la crisi della cosiddetta prima Repubblica. 3. IL CONTESTO GIURIDICO-ISTITUZIONALE A dieci anni dall’approvazione della legge di riforma dell’Avvocatura (n. 103/1979 citata) può essere tracciato un breve bilancio; compito al quale l’Avv. Azzariti non si sottrae, sottolineando come la legge predetta abbia messo in luce le carenze della dotazione del personale togato ed amministrativo (un refrain che dura fino ad oggi). Sono nel frattempo intervenute delle profonde modifiche all’ordinamento della pubblica Amministrazione che si ripercuotono evidentemente anche sul lavoro professionale degli Avvocati e Procuratori dello Stato. Innanzi tutto la legge 29 marzo 1989, n. 93, legge quadro sul pubblico impiego che fra l’altro contiene la Istituzione del Dipartimento della Funzione Pubblica nell’ambito della Presidenza del Consiglio dei ministri delineandone le competenze (art. 27), la distinzione tra indirizzo politico (del Ministro) e attività di gestione (del dirigente pubblico), la devoluzione al giudice ordinario della trattazione delle controversie del pubblico impiego (con esclusione di alcune categorie come magistrati, prefetti, diplomatici).

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La legge 23 agosto 1988, n. 400 ha introdotto una nuova disciplina dell’attività di governo e dell’ordinamento della Presidenza del Consiglio dei ministri. La legge costituzionale 16 gennaio 1989, n. 1 ha modificato gli articoli 96, 134 e 135 della Costituzione e la legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1 in tema di reati commessi dal Presidente del Consiglio dei ministri e dai Ministri nell’esercizio delle loro funzioni, istituendo il Tribunale dei Ministri presso il Tribunale del capoluogo del distretto di Corte d’Appello competente per territorio. Infine, con la legge 9 marzo 1989, n. 86 sono state emanate le norme generali sulla partecipazione dell’Italia al processo normativo comunitario e sulle procedure di esecuzione degli obblighi comunitari 4. L’IMPIANTO LOGICO CONCETTUALE

1. Un “interno” alla guida dell’Avvocatura 2. L’attività dell’Avvocatura: supporto insostituibile, ma rigidamente separato dall’attività del Governo 3. Il “punto di equilibrio” fra principio di autorità e principio di libertà 4. Lo Stato in giudizio perde i suoi privilegi 5. La parità processuale tra Avvocati dello Stato e libero foro 6. La difficile realizzazione della riforma del ’79

5. L’ARTICOLAZIONE DEI CONTENUTI UN “INTERNO” ALLA GUIDA DELL’AVVOCATURA Particolare apprezzamento per la scelta operata dal Governo su chi ha trascorso un’intera vita di lavoro nell’Istituto; tale riconoscimento riafferma la peculiarità della natura e dei compiti dell’Avvocatura già definita da Cossiga: “corpo professionale di giuristi al servizio dello Stato, organo insostituibile per l’attività del Governo”. AVVOCATURA: UN CORPO A SÉ INSOSTITUIBILE PER L’ATTIVITÀ DEL GOVERNO L’insostituibilità dell’apporto dell’Avvocatura non deve però essere confusa con l’attività del Governo; da quest’ultima, infatti, tale apporto resta rigidamente separato secondo quanto la scienza del diritto amministrativo ha già stabilito con Giovanni Manna quasi centocinquanta anni fa. L’assistenza prestata dall’Avvocatura al Governo tende all’attuazione concreta del principio di legalità sia nella funzione di consulenza legale, sia nell’esercizio del controllo giurisdizionale. Per garantire alla sua attività unitarietà di

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indirizzo e autonomia, l’Avvocatura organizza i suoi Avvocati come un corpo a sé esterno alle varie amministrazioni. “PUNTO DI EQUILIBRIO” FRA PRINCIPIO DI AUTORITÀ E PRINCIPIO DI LIBERTÀ La garanzia che venga applicato il principio di legalità nell’azione amministrativa sta nella ricerca continua del “punto di equilibrio” fra principio di autorità e principio di libertà. L’imparzialità dell’Amministrazione, già garantita dall’articolo 97 della Costituzione, e ora, la piena applicazione del principio di legittimità amministrativa proclamata dagli articoli 24, 103 e 113, hanno eliminato progressivamente tutti i privilegi dei quali, per lungo tempo, ha goduto lo Stato in giudizio. PARITÀ PROCESSUALE TRA AVVOCATI DELLO STATO E LIBERO FORO L’Avvocato dello Stato, pur nella difesa dei pubblici interessi, non esercita poteri diversi da quelli dei colleghi del libero foro; questa assoluta parità processuale si riscontra anche nella tutela di interessi più ampi (giudizi che si svolgono davanti alla Corte Costituzionale, alla Corte di Giustizia della Comunità Europea e ai Collegi internazionali). Come afferma Piero Calamandrei, l’Avvocato dello Stato, quando difende in giudizio l’Amministrazione, è un difensore di parte, niente di più, niente di meno. I DATI DEL CARICO DI LAVORO EVIDENZIANO LA DIFFICILE REALIZZAZIONE DELLA RIFORMA Sul piano normativo la riforma del ’79 ha riaffermato il carattere professionale dell’Istituto disegnandone l’organizzazione secondo il modello di un grande ufficio legale al cui successo tutti i professionisti che lo compongono partecipano con pari dignità. Ma l’attuazione di questa riforma, di per sé non facile, è stata duramente ostacolata da un imprevisto aumento del carico di lavoro. Dai cento affari per Avvocato del ’79 si è passati ai quattrocentoventi del 1988 mentre l’incremento nei trenta anni precedenti il ’79 non era stato superiore all’80%. La legge 664 del 1986 ha provveduto ad adeguare le strutture dell’Istituto; ora si spera di trovare sollecito appoggio del Governo e del Parlamento alla recentissima iniziativa legislativa del Presidente del Consiglio che tende a ristabilire l’equilibrio fra volume di affari e organico professionale. SI RINNOVA L’IMPEGNO Pur in difficili condizioni, l’Avvocatura continuerà il suo lavoro sapiente ed appassionato in difesa degli interessi della collettività, conservando il prestigio acquisito in oltre cento anni di attività.

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6. LA LEGGIBILITÀ E LA COMPRENSIBILITÀ LA LEGGIBILITÀ Il discorso dell’Avvocato Generale Giorgio Azzariti ha un indice Gulpease di leggibilità di 37,08. Tale indice ci dice che il documento risulta sì “facile” per un pubblico fornito di laurea, ma si presenta come “difficile” per lettori in possesso del diploma secondario. Anzi, l’indice 37,08 è assai vicino alla fascia 31-35 che segnala testi “difficili” anche per i possessori di un titolo accademico. Questi alcuni dei parametri che determinano il livello di leggibilità del testo: le parole “fondamentali” sono il 75%, quelle molto “comuni” l’8%, quelle “comuni” l’1% e quelle “meno diffuse” il 16%. Il testo è composto da 26 paragrafi, ciascuno dei quali contiene in media una frase e mezza (1,5) e quasi 86 parole (85,8). Le frasi lunghe (vale a dire quelle con più di 40 parole) sono di numero significativamente superiore alle frasi corte (vale a dire quelle con un massimo di 15 parole): le prime sono difatti 21 (pari al 52,5% del testo), le seconde sono solo 2 (pari al 5%). Il tutto su un totale di 40 frasi. È evidente che la relativa “facilità” del testo dell’Avvocato Azzariti è provocata non tanto dalla percentuale (16%) dei termini tecnico-specialistici, quanto dalla schiacciante prevalenza delle frasi lunghe su quelle brevi. LA COMPRENSIBILITÀ L’indice di Guiraud si attesta sul valore di17,31, che pur segnalando nel discorso dell’Avvocato Generale una certa ricchezza lessicale, si colloca tuttavia all’ultimo posto (le parole diverse sono 819 su un totale di 2231) nella scala dei quindici discorsi considerati in questa ricerca. Il che non è necessariamente un appunto negativo: i concetti vengono espressi con una insistita sottolineatura dei termini, sicché ci troviamo di fronte a un elemento positivo di leggibilità, anche se a fronte di un minore contenuto informativo. Il discorso dell’Avvocato Giorgio Azzariti prende l’avvio seguendo il rituale percorso dei saluti e dei ringraziamenti rivolti alle più alte cariche presenti alla cerimonia. Successivamente, come da protocollo, celebra il “lavoro appassionato e qualificato” di tutti gli avvocati e procuratori e ripercorre le molteplici funzioni e le nuove attribuzioni dell’Avvocatura che la riforma del 1979 ha legittimato. Nota rilevante nella parte conclusiva dell’intervento è la speranza che l’iniziativa legislativa dell’Onorevole Presidente del Consiglio Giulio Andreotti possa ridare “serenità” all’attività dell’Istituto che ha

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incontrato seri ostacoli nel processo di trasformazione, primo fra tutti “l’improvviso aumento” del numero degli affari patrocinati. Tranne questo breve cenno all’attualità politica e il richiamo ai “sacri” principi della Rivoluzione francese di cui si celebra il bicentenario, non compaiono altri riferimenti alla contemporaneità. L’articolazione dei contenuti è in più punti strettamente correlata con l’intervento del Presidente del Consiglio, non soltanto quando ricorda l’anniversario della Rivoluzione francese o ricostruisce le origini e l’evoluzione storica dell’Istituto o ancora quando sottolinea le nuove misure legislative che il Governo sta per varare, ma anche nella puntualizzazione della natura e delle funzioni dell’Avvocatura, in particolare nell’individuazione del “punto di equilibrio” fra principio di libertà e principio di autorità. In correlazione, ma più estesi e dettagliati, si presentano i riferimenti alla Costituzione e l’elencazione dei dati relativi all’attività dell’Istituto nell’ultimo decennio, dati purtroppo poco confortanti che hanno rilevato un carico di lavoro triplicato, mettendo in crisi le strutture dell’Avvocatura e che hanno “duramente ostacolato” il raggiungimento degli obiettivi stabiliti dalla riforma. Fin dalle prime righe dell’intervento del nuovo Avvocato Generale emerge chiaro un tono celebrativo che non si limita ai ringraziamenti e ai sensi di personale gratitudine per la nomina, ma si estende all’esaltazione dell’Istituto, della sua natura e dei suoi compiti. L’Avvocato Azzariti di là da ogni valutazione personale, vede nella sua nomina il “meritato apprezzamento del lavoro appassionato e qualificato svolto in condizioni… difficili da tutti gli avvocati e procuratori dello Stato”. Simile tono si riscontra nella parte centrale quando vengono descritte le funzioni dell’Avvocatura, il suo rapporto con il Governo, con le altre istituzioni nazionali e con le Corti europee ed internazionali. Nella conclusione lo stile espositivo, già un po’ faticoso, si carica di accenti quasi sofferti per la preoccupazione che la “non facile” attuazione della riforma comporta e per la tensione che il dovere di conservare il prestigio acquisito e mantenuto di un lavoro “sapiente… duro… appassionato”, sebbene in “difficilissime condizioni”, crea. I periodi generalmente lunghi non facilitano un’immediata comprensione del testo. La scelta lessicale è del tutto rispondente al tono celebrativo che si rivela soprattutto nell’uso di un’aggettivazione e di espressioni a volte ridondanti, altre ripetitive nel significato. Adeguate al tono generale appaiono le citazioni del pensiero di eminenti studiosi quali Giovanni Manna, fondatore del diritto amministrativo, Piero Calamandrei, uno dei padri della Costituzione; particolare rilievo assume quella del Presidente della Repubblica Francesco Cossiga che dieci anni prima, come Presidente del Consiglio, in un’analoga cerimonia di insediamento aveva dato una felice quanto fortunata definizione dell’Avvocatura dello Stato: “… corpo professionale di giuristi al servizio dello Stato, … organo insostituibile per l’attività del Governo”.

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Nella tabella che segue si riassumono alcune delle principali caratteristiche del testo appena esaminato:

DISCORSO DI INSEDIAMENTO DELL’AVVOCATO GENERALE GIORGIO AZZARITI Indice Gulpease Numero dei

paragrafi Numero delle frasi Numero delle frasi

lunghe Numero delle frasi

brevi Media delle frasi

per paragrafo

37,08 26 40 21 (52%) 2 (5%) 1,5 Totale delle parole

utilizzate Numero delle parole diverse

Media delle parole per paragrafo

Media delle parole per frase

Percentuale delle parole meno

diffuse

Ricchezza lessicale di

Guiraud

2231 819 85,8 55,8 16% 17,31 I termini che più frequentemente ricorrono nel discorso di insediamento sono invece i seguenti:

26 amministrazione 23 avvocato 10 giudizio 12 ricorso 9 pubblico 9 interesse 9 funzione 8 parte 8 giudice 7 professionale 5 procuratore 5 difensore

Quest’ultima tabella ribadisce quanto si è osservato nell’impianto logico-concettuale: le scelte lessicali sono una significativa spia di un contenuto fortemente ancorato allo specifico ruolo dell’Avvocatura.

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1. LA FIGURA DEL RELATORE Nato a Roma il 27 aprile del 1927 e laureatosi in giurisprudenza presso l’Università di Roma, nel 1953 entra per concorso nell’Avvocatura dello Stato, assumendo servizio quale procuratore dello Stato presso la Distrettuale di Torino. Classificatosi primo nel concorso per Avvocato dello Stato, è stato chiamato nel 1959 all’Avvocatura Generale, dove ha svolto la propria attività dinnanzi a tutte le giurisdizioni, in particolare dinnanzi alla Corte Costituzionale, alla Corte di Cassazione e alla Corte di Lussemburgo, dove ha rappresentato per anni il governo italiano nelle cause concernenti il nostro Paese. Quale Avvocato dello Stato, viene chiamato a fare parte delle delegazioni governative costituite per la risoluzione del contenzioso post-bellico con i vari paesi dell’Est e con il Giappone. È stato consigliere giuridico della Delegazione italiana presso la Commissione Europea del Danubio nonché, per vari anni, presso la delegazione italiana all’Assemblea delle Nazioni Unite. Nel 1975 è stato nominato componente del Collegio Sindacale dell’IRI, mantenendo l’incarico fino al 1988. Ha seguito in particolare i problemi delle partecipazioni statali anche per quanto concerne i profili comunitari. Nel 1975 è stato nominato Segretario Generale dell’Avvocatura dello Stato, divenendo successivamente, nel 1986, Vice Avvocato Generale dello Stato. In tale veste ha seguito diversi settori di attività dell’istituto e, in particolare, quello relativo ai lavori pubblici e agli affari comunitari. Ha pubblicato diversi scritti concernenti vari settori del diritto.

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Il 9 giugno 1995 è stato nominato Avvocato Generale dello Stato e ha ricoperto la carica fino al 1999. 2. IL CONTESTO STORICO Nel gennaio 1995 un governo presieduto da Lamberto Dini sostituisce il gabinetto Berlusconi uscito dalla vittoria del “Polo delle libertà” nelle elezioni politiche dell’aprile dell’anno precedente, ma caduto a seguito (23 dicembre 1994) dell’abbandono della coalizione da parte della Lega Nord: un abbandono che innesca sin da allora la polemica - poi più volte reiterata sino a divenire questione di rilevanza istituzionale - del cosiddetto “ribaltone”. La compagine presieduta da Dini, già ministro del Tesoro nel precedente esecutivo si presenta come un governo a tempo per preparare una nuova consultazione elettorale. Questa verrà tenuta - con alcuni mesi di ritardo rispetto alle attese e alle previsioni - il 21 aprile 1996, facendo segnare il successo delle liste dell’Ulivo. Sempre nel corso del 1995 (27 gennaio) si tiene l’ultimo congresso del MSI e con la “svolta di Fiuggi” Gianfranco Fini fonda Alleanza Nazionale e si svolgono (23 aprile) le elezioni regionali che segnano un successo del centro-sinistra. Sul piano internazionale il 1995 è contraddistinto dall’entrata in vigore degli accordi di Schengen per la libera circolazione all’interno della Comunità europea (26 marzo 1995) e di quelli di Dayton (21 novembre), frutto della mediazione del Presidente Clinton con i quali si tenta di risolvere l’intricato dramma dell’ex Jugoslavia. Un altro accordo - destinato come il precedente a essere contrastato e contraddetto - è quello stretto a Washington (28 settembre) da Arafat per i palestinesi e da Rabin per lo Stato ebraico. Meno di due mesi dopo (4 novembre) quest’ultimo rimarrà vittima - proprio al termine di una manifestazione per la pace - di un attentato compiuto da un giovane estremista israeliano. 3. IL CONTESTO GIURIDICO-ISTITUZIONALE Nell’anno 1995 è stato approvato il nuovo ordinamento giudiziario e contabile degli enti locali con decreto legislativo 25.2.1995, n. 77. Sono stati poi emanati i due decreti legislativi per l’attuazione della direttive 92/50/CEE in materia di appalti pubblici di servizi, 17.3.1995, n. 157, e per le direttive 90/531/CEE e 93/38/CEE relative alle procedure di appalti pubblici nei settori esclusi, 17.3.1995, n. 158.

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Sono state istituite le Autorità di regolazione dei servizi di pubblica utilità (energia elettrica, gas e telecomunicazioni) ed emanate le norme per la concorrenza e la regolazione dei servizi predetti con la legge 14 novembre 1995, n. 481, dettandone i principi generali (art. 2). Si inaugura così la “stagione” delle Autorità, destinate ad aumentare di numero ed assumere sempre più importanza. 4. L’IMPIANTO LOGICO-CONCETTUALE

1. Adeguamento dell’Avvocatura alle trasformazioni economiche, politiche e sociali 2. Nuovo rapporto tra Stato e cittadini 3. Complessità dei compiti e delle finalità dell’Avvocato dello Stato 4. Contenzioso nazionale e contenzioso comunitario 5. Risposte alla crescente domanda di giustizia 6. Tradizione e forze nuove nell’Avvocatura

5. L’ARTICOLAZIONE DEI CONTENUTI ATTRAVERSO IL RICORDO DEI PREDECESSORI L’ADEGUAMENTO DELL’AVVOCATURA AI TEMPI Dall’Avvocato Generale, un “interno”, vengono ricordati tutti i predecessori ripercorrendo proprio dall’interno le trasformazioni più importanti che hanno consentito all’Avvocatura di adeguarsi ai processi di mutamento economico, politico e sociale del Paese e di completare il disegno intrapreso da altri due grandi Avvocati Generali Giuseppe Mantellini e Gaetano Scavonetti. L’aver affidato la difesa degli interessi pubblici ad un unico corpo di avvocati specializzati e l’aver costituito, come tratto essenziale dell’Avvocatura, l’unità e l’organicità di indirizzo sono state le felici intuizioni che hanno consentito all’Istituto di rispondere alle moderne esigenze dell’Amministrazione costruendo gradualmente quel nuovo rapporto tra Stato e cittadini consacrato, fin dal 1948, dalla Carta Costituzionale. IL NUOVO RAPPORTO TRA STATO E CITTADINI SOLLECITA IL RINNOVAMENTO DELL’AVVOCATURA Nel nuovo rapporto con i cittadini lo Stato perde definitivamente ogni prerogativa e privilegio processuale. In questa prospettiva, sempre più opportuno, appare l’affidamento del contenzioso dello Stato ad un organo

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pubblico, legale, unitario e specializzato, un corpo a sé di professionisti, capace di confrontarsi con i grandi studi legali associati. COMPLESSITÀ DEI COMPITI DELL’AVVOCATO DELLO STATO Le trasformazioni sociali ed economiche ed il succedersi di mutamenti normativi (si pensi ai problemi applicativi nati dall’entrata in vigore della legge 241/90 sul procedimento amministrativo) hanno determinato la necessità, per i soggetti pubblici, di essere adeguatamente assistiti sul piano giuridico. La complessità dei compiti e delle finalità connota perciò in ogni momento l’attività dell’Avvocato dello Stato. In questo senso l’idea formulata alla fine dell’Ottocento, secondo cui gli Avvocati dello Stato sono avvocati, funzionari e sotto un certo profilo anche magistrati, conserva tutta la sua attualità. DIFESA DEI VALORI E DEI PRINCIPI COSTITUZIONALI I compiti e le attribuzioni dell’Istituto si sviluppano in ogni settore in cui vi è un intervento pubblico, sia dinanzi ai giudici nazionali sia dinanzi alle Corti comunitarie e internazionali. Un particolare sviluppo ha avuto in quest’ultimo decennio l’attività svolta presso la Corte Costituzionale; il patrocinio del Governo in conflitto con altri organi costituzionali mette in evidenza lo stretto legame tra l’Istituto e l’esecutivo e assume la particolare funzione di tutela dei valori e dei principi costituzionali. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO Anche il contenzioso dinanzi alla Corte di Giustizia delle Comunità europee è aumentato in misura imprevedibile. La dimensione assunta dalla realtà europea ha prodotto profondi mutamenti nell’ordinamento giudiziario del nostro e degli altri paesi europei richiedendo all’Avvocatura una particolare attenzione all’interpretazione dei Trattati. In tal senso l’Avvocatura ha già avviato proficui contatti con il servizio del contenzioso diplomatico del Ministero degli affari esteri e con il Dipartimento per il coordinamento delle Politiche dell’Unione Europea. LA FUNZIONE CONSULTIVA LIMITA IL CONTENZIOSO La domanda di giustizia che cresce è la radice del sensibilissimo aumento del contenzioso; il potenziamento della funzione consultiva è l’unica risposta possibile per evitare che vengano danneggiati il cittadino, l’Amministrazione e la Giustizia. Un’ulteriore possibilità è offerta dall’articolo 15 della legge di riforma del ’79 che consente all’Avvocato Generale di segnalare al Capo del Governo le esigenze di intervento legislativo. NUOVE ENERGIE NELL’AVVOCATURA

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Il futuro dell’Avvocatura è affidato ai giovani colleghi nei quali gli avvocati più esperti sapranno trasfondere esperienza, professionalità e senso dello Stato; alle donne che rappresentano nuove preziose energie, la loro intelligenza, operosità, cultura e versatilità ora, come negli altri paesi europei, sono anche per noi componenti essenziali; agli impiegati che costituiscono, preziosi e insostituibili, una grande riserva di qualità professionali ed umane. Questo particolare momento storico richiede un impegno concreto nell’azione quotidiana delle funzioni affidate a ciascuno per corrispondere al concreto realismo del Governo. Soltanto così i cittadini trarranno sicuro profitto. 6. LA LEGGIBILITÀ E LA COMPRENSIBILITÀ LA LEGGIBILITA Il discorso dell’Avvocato Generale Zagari presenta un indice di leggibilità Gulpease pari a 38,05. Questo indice segnala un documento “facile”, ma solo per lettori forniti di un titolo accademico. Esso è infatti - pour cause - “quasi incomprensibile” per chi è fornito di una istruzione elementare, “molto difficile” per chi è fornito di una istruzione media e “difficile” per chi è fornito di una istruzione superiore. Non a caso, quanto agli effetti sul lettore, il testo corrisponde a un livello di lettura “indipendente” solo per i laureati, mentre consente una lettura “scolastica” per i possessori di licenza media e superiore. In realtà, l’indice di 38,05 si colloca non troppo lontano dalla fascia 31-35 che corrisponde a un livello di “difficile” leggibilità per gli stessi laureati. I parametri che incidono sulla leggibilità del discorso dell’Avvocato Giorgio Zagari sono i seguenti: le parole “fondamentali” sono il 73%, quelle molto “comuni” il 9%, quelle “comuni” l’1% e quelle “meno diffuse” il 17%. Questa invece la struttura del testo: i paragrafi sono 59, ciascuno dei quali contiene in media poco più di una frase (1,2) e 56 parole. Le frasi lunghe (vale a dire quelle con più di 40 parole) sono di numero significativamente superiore alle frasi corte (vale a dire quelle con un massimo di 15 parole): le prime sono difatti 34 (pari al 47,9% del testo), le seconde 7 (pari all’9,9%). La relativa facilità del testo dell’Avvocato Generale Zagari sembra dunque determinata in maniera prevalente dalla rilevante presenza di frasi lunghe (quasi la metà dell’intero discorso); meno incidente è la percentuale (17%) dei termini tecnico-specialistici, inferiore al valore medio di 18% dei quindici discorsi di insediamento. LA COMPRENSIBILITÀ L’indice di Guiraud si attesta su valore di 19,36 che segnala - attraverso la misurazione dell’uso diversificato delle parole - un testo lessicalmente

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piuttosto articolato. Il principale dei parametri considerati (quello delle parole diverse rispetto alla somma di tutti i termini usati) ci dice che le prime sono 1114 su un totale di 3311. In sostanza, l’indice di 19,36 attesta che il discorso di insediamento dell’Avvocato Generale Giorgio Zagari si colloca a un livello informativo abbastanza alto. La formula fissa protocollare apre l’intervento. Dopo il saluto rivolto al Capo dello Stato nella persona del Presidente Oscar Luigi Scalfaro, “insigne giurista”, i saluti e i ringraziamenti, seppure in forma abbreviata, si estendono a tutte le altre cariche dello Stato presenti. Dalla nota particolare rivolta all’indirizzo del Presidente del Consiglio dei ministri Lamberto Dini parte uno stretto collegamento fra i due interventi che risultano in sintonia nei toni e complementari nei contenuti. Pur non essendo presenti riferimenti diretti e puntuali alla contemporaneità, alcune espressioni e l’uso di determinati vocaboli rivelano la chiara consapevolezza che il Paese sta attraversando un “particolare momento storico” e che “lo stesso intenso succedersi di mutamenti normativi” della Pubblica Amministrazione insieme ai molteplici impegni e alle proficue “forme di collaborazione” con le Corti europee, soprattutto dopo i nuovi Trattati, richiedono l’incremento dell’impegno e nuove energie per adeguare il servizio dell’Avvocatura alle mutate esigenze. Sono proprio i temi di questa contemporaneità che inducono il relatore ad evitare “toni paludati e retorici” e a dare al discorso un taglio concreto e realistico. L’intervento del nuovo Avvocato Generale prende le mosse dalla “profonda ricostruzione” che il Presidente del Consiglio ha fatto dei compiti e delle funzioni dell’Avvocatura. Se il Presidente Dini ricostruisce in modo chiaro ed esauriente i compiti e le funzioni dell’Istituto dall’esterno, l’avvocato Zagari presenta le figure più significative degli Avvocati Generali che lo hanno preceduto, a partire dagli anni difficili del dopoguerra. I periodi, equilibrati nella lunghezza, sono scorrevoli e di chiara comprensione; la scelta lessicale si avvale di un’aggettivazione ricca e puntuale che diventa più sobria quando, entrando nell’ambito del “personale ricordo”, tratteggia il profilo delle grandi figure “indimenticabili”, “autorevoli” e “luminose” che lo hanno preceduto nell’incarico. E qui il tono si colora di affettuosa stima. La nuova e più giusta concezione fra cittadino e Stato, già sottolineata dal Presidente Dini, viene ripresa e concretamente esaminata dall’Avvocato Zagari. Sia l’articolazione dei contenuti che la struttura del discorso si presentano espressi in modo chiaro e logico; il linguaggio assume una connotazione più tecnica senza nulla togliere alla chiarezza e alla comprensione. La scelta lessicale, sempre appropriata, esprime bene le

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trasformazioni in atto, soprattutto quelle relative allo “sviluppo della cultura” e alla “maturazione della coscienza civile” del Paese. Più frequente, infatti, è l’uso di vocaboli quali “cittadini”, “amministrati”, “contribuenti”, protagonisti, soggetti attivi di una società che necessita di risposte concrete e di servizi che soltanto uno Stato modernamente organizzato può dare. Alla “domanda di giustizia che cresce” non possono essere più date risposte “autoritarie”. Le trasformazioni economiche, politiche e sociali avvenute nel nostro Paese e la prospettiva di una “Comunità sovranazionale” che curi gli interessi di diversi paesi con le stesse “radici” e le stesse “tradizioni” hanno prodotto “profondi mutamenti nell’ordinamento giuridico” e ha rafforzato l’impegno dell’Avvocatura per un continuo adeguamento delle sue funzioni. I contenuti relativi a questa parte del discorso, pur riferendosi a questioni tecniche di giustizia amministrativa, sono espressi con un linguaggio semplice e piano che si avvale dell’uso di una metafora ulteriormente chiarificatrice: “se la migliore cura è la prevenzione”, afferma Zagari, “un parere giuridico che consenta… di agire tempestivamente…, può … impedire… la patologia del processo”. Si sfiora nuovamente il protocollo quando l’Avvocato Generale porge il saluto finale ai presenti, ma anche questo è personalizzato da Zagari che si rivolge particolarmente ai giovani tutti: a quelli che da poco operano nell’Istituto, a quelli “sempre più numerosi” che svolgono lì la pratica forense nella certezza che a fianco dei loro colleghi più esperti essi troveranno “una vera e propria “scola juris” che affini la professionalità e temperi le ambizioni. Sottolineare l’importanza di trasfondere nei giovani professionalità e senso dello Stato non è un esercizio retorico, “ma è espressione di realismo e concretezza”, è riconoscere nei giovani una forza nuova. Ma Zagari saluta un’altra forza emergente, e qui il discorso si fa del tutto originale, rivolgendosi alle donne avvocato e procuratore che rappresentano “nuove preziose energie”. La conclusione mantiene il tono di realismo e concretezza confermato dai saluti inusuali rivolti agli impiegati dell’Avvocatura ai quali vengono riconosciute qualità professionali e umane. Ulteriore conferma di concretezza è rappresentata dall’assicurazione di massimo impegno dell’Avvocatura data da Zagari non soltanto alle autorità, ma “ai cittadini tutti”, ai “contribuenti” e ai “destinatari dei pubblici servizi”. La tabella seguente riassume alcune delle principali caratteristiche del testo appena esaminato:

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DISCORSO DI INSEDIAMENTO DELL’AVVOCATO GENERALE GIORGIO ZAGARI Indice Gulpease Numero dei

paragrafi Numero delle frasi Numero delle frasi

lunghe Numero delle frasi brevi

Media delle frasi per paragrafo

38,05 59 71 34 (47,9%) 7 (9,9%) 1,2 Totale delle parole

utilizzate Numero delle parole diverse

Media delle parole per paragrafo

Media delle parole per frase

Percentuale delle parole meno

diffuse

Ricchezza lessicale di

Guiraud

3311 1114 56,1 46,6 17% 19,36 I termini che più frequentemente ricorrono nel discorso di insediamento sono invece i seguenti:

16 pubblico 15 attività 14 contenzioso 13 avvocato 12 amministrazione 10 professionale 10 interesse 9 nuovo 9 funzione 9 esigenza 7 ordinamento

Tanto la struttura, quanto il linguaggio dell’intervento dell’Avvocato Generale Zagari rispondono alla necessità di sottolineare le questioni più importanti (e spesso più complesse) che caratterizzano l’azione dell’Avvocatura dello Stato. Anche quest’ultima scheda ribadisce come si tratti di un intervento denso e puntuale, decisamente calibrato per un selezionato uditorio di addetti ai lavori.

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1. LA FIGURA DEL RELATORE Nato a Padova il 18 dicembre 1929, si è laureato in giurisprudenza presso l’Università di Roma con una tesi di diritto internazionale sulle Nazioni Unite, con il prof. Perassi. Entrato in Avvocatura dello Stato nel 1956 come Procuratore, è divenuto Avvocato dello Stato, a seguito del relativo concorso, nel 1960. Ha prestato servizio a Venezia e a Roma in successivi periodi. Dal 1 marzo 1970 ha esercitato a Venezia le funzioni di Avvocato Distrettuale dello Stato e quindi dal 1 giugno 1991, quelle di Vice Avvocato Generale dello Stato. Ha insegnato Istituzioni di diritto pubblico nelle Università di Venezia dal 1974 al 1986 e di Udine dal 1988 al 1990, nonché Diritto dell’ambiente alla LUMSA, di Roma dal 1998 al 2000, tenendo anche numerosi seminari su temi di diritto costituzionale. Ha ricoperto per lunghi anni le funzioni di componente e presidente della Commissione di consulenza legislativa del Consiglio regionale del Veneto e da ultimo, fino alla privatizzazione dell’istituto, è stato sindaco dell’IRI. È stato inoltre componente del Comitato direttivo della Sspa e del Consiglio consultivo degli Utenti presso il Garante per la Radiodiffusione e l’Editoria, nel quadro delle cui iniziative ha recentemente pubblicato uno scritto su “Cultura e televisione”. Ha al suo attivo varie pubblicazioni giuridiche, particolarmente nel campo dell’ordinamento regionale, dei beni culturali ed ambientali, della laguna di

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Venezia e della giustizia amministrativa, dedicandosi anche a interessi letterari con studi su Manzoni e su Nievo. Il 28 aprile 1999 ha assunto le funzioni di Avvocato Generale dello Stato, incarico ricoperto fino al 19 dicembre 2001. 2. IL CONTESTO STORICO La sterile consumazione dell’esperienza della Bicamerale (giugno 1998), la scissione di Rifondazione comunista, il ribadito primato dei “professionisti della politica” avevano portato alla caduta del gabinetto Prodi (7 ottobre 1998) e aperto le porte al primo governo D’Alema (22 ottobre 1998), innescando da subito le vivaci polemiche sul cosiddetto “ribaltone”. Sono fatti che inevitabilmente condizionano il successivo anno 1999, caratterizzato a sua volta da una serie di eventi significativi sul piano interno e sulla scena estera. In Italia il referendum per l’abolizione della quota proporzionale fallisce per un soffio il raggiungimento del quorum (18 aprile) e Carlo Azeglio Ciampi viene eletto al primo scrutinio e con un accordo bipartisan Presidente della Repubblica (13 maggio). Ritorna intanto l’incubo del terrorismo: le Brigate Rosse assassinano il professor D’Antona (20 maggio). Il 13 giugno si vota per il Parlamento Europeo: le elezioni fanno registrare un netto successo di Forza Italia che torna a essere il primo partito del Paese e pochi giorni dopo (28 giugno) Guazzaloca sostenuto dal Polo diventa a sorpresa sindaco di Bologna. A fine anno una crisi lampo (19-23 dicembre) conduce alla formazione del secondo Governo D’Alema. Nel contesto internazionale, mentre Prodi viene designato (24 marzo) alla Presidenza della Commissione Europea, l’evento dell’anno è senza dubbio quello della guerra che, a seguito della questione kossovara, la Nato conduce vittoriosamente contro la Sebia di Milosevic (18 marzo-10 giugno). 3. IL CONTESTO GIURIDICO-ISTITUZIONALE Si va delineando sempre più chiaramente il meccanismo di riforma radicale della pubblica Amministrazione. Con la legge 15 marzo 1997, n. 59 è stata data la delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali per la riforma della pubblica Amministrazione e per la semplificazione amministrativa. Con la legge 15.5.1997, n. 127 sono state dettate le misure urgenti per lo snellimento dell’attività amministrative. Vanno infine ricordate le leggi Bassanini sia per gli enti locali n. 59 del 1997, sia per le Amministrazioni centrali, il d.lgs. n. 80/1998, il d.lgs.n. 183/1999 sul federalismo fiscale.

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4. L’IMPIANTO LOGICO-CONCETTUALE

1. Identità dell’Avvocatura 2. Esperienze e possibilità future 3. Legge Bassanini e successivi Decreti 4. Federalismo fiscale e unitarietà di indirizzo 5. Unione Europea, snodo verso il futuro

5. L’ARTICOLAZIONE DEI CONTENUTI IDENTITÀ ATTUALE E POSSIBILITÀ FUTURE DELL’ISTITUTO ILLUSTRATE DALL’AVVOCATO GENERALE “IN SERVIZIO DA QUARANTRE ANNI” Premessa L’evoluzione e l’adeguamento dell’Avvocatura ai fatti politici e sociali in continua trasformazione sono possibili proprio perché l’Istituzione è incardinata in un sistema solido e ben articolato che rappresenta la migliore garanzia per un efficace sviluppo. L’Avvocatura, nata nel 1875, è sempre stata uno strumento preparato ed attento a far corrispondere il comportamento della Pubblica Amministrazione all’Ordinamento voluto dal legislatore e alla linea indicata dal Governo. All’origine, organo di tutela degli interessi dell’Erario, si è trasformata in organo di consulenza e patrocinio di tutte le amministrazioni; in seguito è stata ricondotta nella sfera della Presidenza del Consiglio assicurando così il suo perseguimento dell’interesse generale. La funzione dell’Avvocatura non può prevedere, in sede giudiziaria, la difesa ad oltranza del potere pubblico; essa deve portare l’Amministrazione a mettere meglio a fuoco la sua azione e i suoi procedimenti secondo un iter di assistenza legale che tenga presente la priorità dell’azione consultiva, per cui, come Mantellini la definì, l’Avvocatura è prima Giudice poi Avvocato. Quest’ultima è ancora la peculiarità dell’Istituto. Non esiste altra istituzione che abbia un patrimonio di esperienze delle problematiche giuridiche relative al pubblico interesse così ampia e diffusa come quella dell’Avvocatura; infatti, contrariamente alle altre presenze fondamentali nelle Istituzioni, essa da un lato si estende a tutti i settori dell’esperienza giuridica e giudiziaria della Pubblica Amministrazione, dall’altro è innestata sulle sue stesse radici. UNA SVOLTA DECISIVA Per ovviare alle difficoltà create dalla progressiva ripartizione delle competenze istituzionali, si è avvertita la necessità di operare una profonda

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riforma dell’Amministrazione centrale e periferica e una radicale ristrutturazione dei Ministeri finora esistenti (legge 59/97 legata al nome del professor Bassanini). Pur nel conferimento di poteri e funzioni alle regioni e agli enti locali, restano punti fermi l’unità e l’indivisibilità della Repubblica, perciò in questo contesto è essenziale che l’omogeneità dei fini generali e la coerenza dei principi siano garantiti sul piano tecnico-giuridico dall’unitarietà dell’azione legale: questo è il compito dell’Avvocatura. Questo ruolo unitario e unificante è riconfermato da due recenti disposizioni contenute nel Decreto legislativo 80/98 e nella legge 133/99. Le due disposizioni confermano all’Istituto l’impegnativo compito di ultimo filtro interpretativo, garante di quella legalità che assicura con l’uniformità dei comportamenti, il fondamentale precetto costituzionale dell’uguaglianza. EVOLUZIONE DELL’ATTIVITÀ CONSULTIVA L’attività consultiva ora si va evolvendo in attività di assistenza dove la legalità della condotta si trasfonde nella legittimità dei singoli atti che ogni giorno vengono adottati. FEDERALISMO FISCALE E AUTORITÀ EMERGENTI La nuova materia tributaria regolata dalla legge 133, rafforza l’esigenza di un indirizzo unitario, attuato da un organo di consulenza che, evitando frammentazioni e dispersioni, sia in permanente confronto con la massima Autorità Giudiziaria. Deve considerarsi importante anche l’attenzione che l’Avvocatura presta alle Autorità emergenti. UNIONE EUROPEA SNODO VERSO IL FUTURO L’Avvocatura dello Stato assicura dinanzi alla Corte di Giustizia, che ha una posizione centrale nell’ordinamento giuridico della Comunità Europea, oggi snodo fondamentale verso il futuro, la difesa e la tutela degli interessi della Repubblica Italiana. Non meno attiva è la partecipazione dell’Istituto all’interpretazione delle norme comunitarie né secondario il “ruolo propulsore” nel processo evolutivo del diritto comunitario. Deriva da ciò una proficua collaborazione col Ministero degli affari esteri. INSUFFICIENZA DELLE FORZE L’Avvocatura, consapevole della insufficienza delle sue forze, nutre la fiducia che i nuovi impegni potranno essere affrontati e le difficoltà ridotte con un’azione del Governo diretta a privilegiare un tipo di lavoro organico, articolato e mirato su obiettivi chiari e puntuali.

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6. LA LEGGIBILITÀ E LA COMPRENSIBILITÀ LA LEGGIBILITÀ Secondo l’indice Gulpease la leggibilità del discorso dell’Avvocato Generale Plinio Sacchetto tocca l’indice di 35,71. Il dato segnala che ci troviamo di fronte a un documento appena “facile” per un fruitore fornito di laurea, ma che risulta già “difficile” per chi possieda solo un diploma di scuola superiore. L’indice di 35,71 si colloca infatti proprio a ridosso della fascia 31-35 che individua testi “difficili” anche per i laureati. Questi i parametri che determinano il livello di leggibilità del discorso: le parole “fondamentali” sono il 72%, quelle molto “comuni” il 8%, quelle “comuni” l’1% e quelle “meno diffuse” il 19%. Quanto alla struttura del testo, esso si snoda lungo 42 paragrafi, ciascuno dei quali contiene in media poco più di una frase (1,2) e circa 63 parole (63,4). Le frasi lunghe (vale a dire quelle con più di 40 parole) sono di numero di gran lunga superiore a quello delle frasi corte (vale a dire quelle con un massimo di 15 parole): le prime sono difatti 30 (pari al 60% del testo), le seconde soltanto 3 (pari al 6%). Non è tanto la pur significativa percentuale dei termini tecnico-specialistici (superiore peraltro di un punto rispetto alla media dei quindici discorsi) a determinare un livello “appena facile” per dei laureati e dunque oggettivamente non semplice. A incidere è piuttosto la struttura del periodo - contraddistinta da una larghissima prevalenza di frasi lunghe a fronte di quelle brevi. LA COMPRENSIBILITÀ L’assenza di un iter protocollare relativo ai saluti e ai ringraziamenti, fatta eccezione per quelli rivolti al Presidente della Repubblica presente alla cerimonia “solo a pochi giorni di distanza” dalla sua elezione, snellisce l’impostazione del discorso dell’Avvocato Generale Plinio Sacchetto, il quale si immerge senza esitazione nel vivo e nel merito delle questioni. Dalla rilettura degli interventi dei suoi predecessori nascono la “personale preoccupazione” e il “disagio” per la difficoltà di proporre qualcosa di “originale”, disagio accresciuto dal fatto che il Presidente del Consiglio Massimo D’Alema ha già chiaramente illustrato natura, compiti e prospettive dell’Istituto. L’occasione dell’insediamento e soprattutto la lunga appartenenza, ben quarantatre anni di servizio nell’Avvocatura, impongono all’Avvocato Sacchetto il compito di integrare con “qualche nota a margine” le affermazioni del Presidente del Consiglio, ma anche di “aggiungere qualcosa” sulla “identità attuale” e sulle “possibilità future” nella speranza che l’attaccamento all’Istituto non gli “faccia velo”.

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L’articolazione dei contenuti mantiene un ritmo più serrato nella prima parte in cui viene riproposta la storia dell’Avvocatura, si distende nel momento in cui il relatore affronta i temi dell’attualità: la “svolta decisiva” degli ultimi anni ora perfezionata nella riforma dell’Amministrazione centrale e periferica dello Stato e lo “snodo fondamentale verso il futuro”, la nuova fase di evoluzione verso la piena realizzazione dell’Unione Europea. L’indice di Guiraud ci segnala la “ricchezza lessicale” del testo, attraverso la misurazione dell’uso diversificato delle parole. Per il testo dell’Avvocato Sacchetto tale indice è di 20,32; esso è superiore al valore medio di 20,16 dei quindici discorsi di insediamento, che già individua testi con un alto valore comunicativo. Non a caso il parametro fondamentale da considerare (quello delle parole diverse rispetto alla somma di tutti i termini usati) ci dice che le prime sono 1049 su un totale di 2664. L’uso di alcuni particolari costrutti, l’aggettivazione a volte ridondante, l’utilizzo frequente della lingua latina: espressioni, massime e perfino motti gesuitici “perinde ac cadaver” conferiscono al discorso un tono spesso retorico che connota lo stile espositivo. Tale retoricità, però, trova compensazione nella spinta etica e nel forte coinvolgimento dovuto al lungo e saldo legame con un’Istituzione che viene presentata come unica, per l’Avvocato Generale non esiste “altra Istituzione che abbia un patrimonio di esperienza… così ampia e diffusa”. Quando il relatore ripercorre la storia e le tappe evolutive dell’Avvocatura, delineandone l’identità, i toni retorici s’intensificano per sfumare nel momento in cui vengono trattati i temi delle modificazioni più attuali determinate dalle nuove leggi, in particolare dalla legge Bassanini del 1997. Un’esigenza di maggiore concretezza spinge l’Avvocato Sacchetto ad esprimersi con periodi più scorrevoli e più chiari, nonostante la specificità del linguaggio. Questa esigenza di concretezza è fortemente motivata dalle aspettative nate intorno alle riforme istituzionali alle quali il Presidente del Consiglio ha già fatto riferimento, riforme che rappresentano per il Paese e per l’Istituto l’apertura verso nuove prospettive non solo all’interno, ma anche verso l’Europa; l’Avvocatura infatti svolge, il relatore afferma, con partecipazione attiva “un ruolo propulsore” nel processo “fortemente evolutivo” del diritto comunitario. I saluti finali, previsti dal protocollo, restituiscono al discorso il tono retorico che ricrea equilibrio nello stile espositivo. Nella tabella che segue vengono riassunti visivamente alcune delle principali caratteristiche del testo appena esaminato:

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DISCORSO DI INSEDIAMENTO DELL’AVVOCATO GENERALE PLINIO SACCHETTO Indice Gulpease Numero dei

paragrafi Numero delle frasi Numero delle frasi

lunghe Numero delle frasi

brevi Media delle frasi

per paragrafo

35,71 42 50 30 (60%) 3 (6%) 1,2 Totale delle parole

utilizzate Numero delle parole diverse

Media delle parole per paragrafo

Media delle parole per frase

Percentuale delle parole meno

diffuse

Ricchezza lessicale di

Guiraud

2664 1049 63,4 53,3 19% 20,32

I termini che più frequentemente ricorrono nel discorso di insediamento sono invece i seguenti:

12 interesse 11 azione 8 esperienza 7 funzione 5 pubblico 5 nazionale 5 istituzionale 5 giudizio 5 giudiziario 5 amministrativo 4 prospettiva

Quest’ultima scheda sottolinea come il discorso tenda a privilegiare la doverosa trattazione delle tematiche specifiche dell’Avvocatura dello Stato, con una particolare attenzione al ruolo da essa svolto - in calibrato equilibrio tra continuità e innovazione - al servizio dei cittadini.

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1. LA FIGURA DEL RELATORE Nato a Salerno e laureatosi in Giurisprudenza, dopo aver vinto il concorso per l'Avvocatura dello Stato, viene assegnato all'Avvocatura Generale dello Stato di Roma, dove ha prestato costantemente servizio, con una breve parentesi triennale all'Avvocatura Distrettuale dello Stato di Napoli. Componente per molti anni del Comitato Consultivo dell'Avvocatura dello Stato, massimo organo di consulenza dell'Istituto, è stato Direttore per diversi anni della “Rassegna di dottrina della Rivista giuridica dell'Avvocatura dello Stato”. Ha trattato numerosi affari contenziosi e consultivi di rilevante importanza per la tutela degli interessi della Pubblica Amministrazione. È Avvocato Generale dello Stato dal 2001. È iscritto all'albo dei giornalisti pubblicisti (ordine interregionale del Lazio e del Molise) dal 1992. Nel settore delle attività culturali della città di Roma, è Accademico dell'Accademia Filarmonica Romana, prestigiosa e plurisecolare istituzione musicale di rilevanza nazionale e vi ricopre la carica di Vice Presidente. Ha svolto varie attività in modo autonomo e con dirette e personali responsabilità di gestione (Commissario Straordinario alla gestione autonoma dei concerti dell'Accademia Nazionale di Santa Cecilia dal 1974 al 1978, Commissario Governativo dell'Accademia Nazionale d'Arte Drammatica "Silvio D'Amico" dal 1979 al 1986, Commissario Straordinario dell'IDISU (poi ADISU) dell'Università di Tor Vergata di Roma dal 1993 al 1997, Vice Presidente del Consiglio di Amministrazione della Banca Nazionale del Lavoro, Sezione Autonoma di Credito Cinematografico (SACC) dal 1984 al 1990), ricoprendo altresì vari incarichi direttivi in Gabinetti Ministeriali, nonché in organismi internazionali ed interni.

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È Autore di saggi ed articoli su Riviste Giuridiche (“Rassegna dell'Avvocatura dello Stato” e numerose altre) e su Riviste di studi politici e di cultura ("Lo specchio economico", "Minerva" ed altre) nonché Autore di libri: Cinquanta proposte di Buon governo, Marsilio Editore; L'irresistibile vento dell'Ovest, Minerva Editrice - Menzione speciale al Premio Internazionale di Saggistica "Salvatore Valitutti"; Il bello nel cinema, Seam Editrice - saggi di estetica cinematografica; Il leone e gli Oscar, Eagles Picture Production editrice - saggi di estetica cinematografica; Fermo Immagine, Minerva Editrice - saggi di estetica cinematografica. È insignito dell'onorificenza di "Cavaliere di Gran Croce" della Repubblica Italiana. È attualmente Ministro per la Funzione pubblica. 2. IL CONTESTO STORICO L’anno si apre con il passaggio della moneta e l’entrata in circolazione dell’euro. La situazione politica interna è contraddistinta dal secondo anno del governo Berlusconi, che il 5 luglio firma con le parti sociali (CGIL esclusa) il Patto per l’Italia. Sul fronte dell’opposizione si manifesta la protesta dei cosiddetti “girotondi” e si afferma, anche attraverso manifestazioni di massa (23 marzo) e scioperi generali (23 aprile), la figura di Sergio Cofferati. Sul terreno dell’economia la nota più preoccupante è quella della crisi della FIAT. Si rinnova intanto la minaccia terroristica delle Brigate Rosse con l’assassinio a Bologna (19 marzo) dello studioso e consulente del Ministero del welfare Marco Biagi. La scena internazionale registra tra gli eventi più significativi la rielezione di Chirac in Francia (maggio) e di Schroeder in Germania (settembre). Il 12 e 13 dicembre si svolge il vertice Copenaghen. Vengono invitati a entrare nell'Unione Europea dal 1 maggio 2004 dieci Stati: Cipro, Repubblica Ceca, Estonia, Ungheria, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Slovacchia e Slovenia. Il 14 dicembre dopo 11 mesi (Renato Ruggero si è dimesso nel gennaio), il Presidente Silvio Berlusconi che aveva assunto ad interim l’incarico di Ministro degli Esteri lascia la Farnesina all’on. Franco Frattini. Gli subentra alla Funzione Pubblica l’Avvocato Generale Luigi Mazzella. 3. IL CONTESTO GIURIDICO-ISTITUZIONALE Il Presidente del Consiglio dei ministri Berlusconi riflette sul momento storico e sui grandi mutamenti istituzionali in corso. Vi sono riferimenti precisi sia ad eventi politici sia alle modifiche costituzionali intervenute, con particolare riguardo al federalismo, e ad eventi internazionali

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(il ricordo dell’11 settembre è ancora vivo e recente): tali riferimenti sono ripresi anche nel discorso dell’Avvocato Generale. Nel periodo immediatamente precedente l’insediamento dell’Avvocato Mazzella sono state emanate leggi fondamentali che hanno determinato un nuovo assetto anche costituzionale; la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 ha modificato il titolo V della Carta Costituzionale; la legge 24 marzo 2001, n. 89, c.d. Legge Pinto, in materia di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo; il decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, testo unico sulle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità. La materia dell’impiego pubblico è stata poi organicamente, disciplinata dal decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, di soli tre giorni successivo alla legge 27 marzo 2001, n. 97 che ha regolato un profilo particolarmente delicato perché attinente al rapporto fra procedimento penale e procedimento disciplinare ed agli effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti pubblici. È stata riordinata, con l’emanazione dei due Testi unici sia la materia edilizia, con il dpr 6 giugno 2001, n. 380, sia l’espropriazione per pubblica utilità, con il dpr 8 giugno 2001, n. 327. La struttura governativa è stata riorganizzata con la legge 3 agosto 2001, n. 317 e con dpcm 27 settembre 2001 è stato istituito il Dipartimento per l’innovazione e le Tecnologie, in linea con l’intento del Governo in carica di promuovere l’informatizzazione della pubblica Amministrazione. Infine, la direttiva del Presidente del Consiglio in data 7 febbraio 2002 ha regolato la attività di comunicazione delle pubbliche amministrazioni coerentemente con l’ammodernamento delle strutture generali della Presidenza del Consiglio, organizzando fra l’altro l’Ufficio Stampa del Presidente con il dpcm 21 dicembre 2001. 4. L’IMPIANTO LOGICO-CONCETTUALE

1. Le cerimonie di insediamento 2. La storia dell’Avvocatura attraverso le leggi 3. Il nuovo scenario economico, politico e sociale, nazionale e internazionale 4. Le nuove esigenze e i nuovi compiti

5. L’ARTICOLAZIONE DEI CONTENUTI

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DISCORSO DI INSEDIAMENTO FRA TRADIZIONE E INNOVAZIONE Le cerimonie di insediamento delle cariche dello Stato hanno forma e contenuto protocollari e l’insediato, astenendosi dall’affrontare le tematiche più vive che riguardano le istituzioni si limita ad illustrare caratteristiche, benemerenze e prestigio del proprio Istituto. Nella sostanza tale prassi sarà rispettata, ma sarà fatto anche un chiaro discorso sullo scenario in cui si dovrà collocare l’Avvocatura dello Stato degli anni Duemila. Sarà necessario riconsiderare natura, collocazione e assetto dell’Istituto che, ideato nel periodo preunitario, ha saputo adeguarsi alle trasformazioni che il Paese ha subito e che sta ancora subendo. Sia il piano internazionale che quello interno impongono infatti ulteriori adattamenti ai complessi fenomeni in atto. STORIA DELL’AVVOCATURA La l. 20 marzo 1865, n. 2248 allegato E che abolisce il sistema del contenzioso amministrativo contribuisce a creare le condizioni per una nuova sistemazione del patrocinio dello Stato. Intorno al 1870, l’esigenza di una riforma produce due tesi contrastanti: costituire un corpo di avvocati specializzati alle dipendenze dello Stato o attribuire la difesa dello Stato al Pubblico Ministero. Un sorta di compromesso tra le due tesi fa sì che l’Avvocatura dello Stato nasca da una “costola” del Pubblico Ministero. Infatti la l. 28 novembre 1875, n. 2781, limitando le competenze del Pubblico Ministero, delega al Governo l’emanazione di un regolamento che apre la strada all’attuale sistema di difesa dello Stato. Il legislatore italiano segue una via in qualche modo opposta a quella degli altri paesi occidentali. Con l’emanazione del regolamento del 16 gennaio 1876, n. 2914, si istituisce la Regia Avvocatura Erariale. Inquadrato nel Ministero delle finanze, nel 1930 l’Istituto cambia denominazione in Regia Avvocatura dello Stato. Nel 1931 è inquadrato nella Presidenza del Consiglio dei ministri. Nel periodo compreso fra le due guerre, accentuandosi la tendenza ad una visione unitaria e accentrata della Pubblica Amministrazione, il R. D. 30 ottobre 1933, n. 1611, realizza un disegno giuridico di difesa dello Stato coerente con i principi all’epoca vigenti. Quel rapporto troppo saldo tra ente difeso, Avvocatura dello Stato e Stato-organizzazione generale sembra incompatibile con la nuova Costituzione repubblicana. Nonostante la consapevolezza di appartenere ad un’Istituzione di grande prestigio e di straordinaria validità professionale, gli Avvocati dello Stato, per primi, avvertono la necessità di adeguamenti normativi. La legge 103/79, fortemente sollecitata, modifica le linee dell’Avvocatura adeguandole alle nuove esigenze insorte anche per effetto dell’introduzione dell’ordinamento regionale. ATTUALITÀ DELL’AVVOCATURA E NUOVE ESIGENZE

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La fase di ulteriore trasformazione in cui è entrato il Paese, sia all’interno del proprio ordinamento che in rapporto all’Europa, fa sì che l’Avvocatura senta l’esigenza di un ulteriore ripensamento legislativo, che ora viene sollecitato agli organi politici da istanze fortemente sentite. Già nel 1991 Massimo Severo Giannini rileva che lo Stato non è più il solo pubblico potere; a soli dieci anni di distanza ci si è resi conto di tutta l’esattezza di quell’analisi. Il concetto di nazione è toccato da eventi che portano gli Stati a cedere quote di sovranità sempre più ampie, ci si riferisce al federalismo sia interno che esterno. Anche il contesto internazionale è complesso ed oggi ancor più mutato in seguito alla tragedia dell’11 settembre. NUOVI COMPITI In un quadro che presenta la trasformazione dello Stato in senso federale, manca una struttura centrale in grado di monitorare e rappresentare nelle giuste sedi gli eventuali conflitti fra l’ordinamento federalistico e quello nazionale. L’Avvocatura, per la sua alta competenza professionale, potrebbe essere preziosa per la creazione di un Centro composito e territorialmente articolato, di consultazione. Questo ruolo di “cerniera” nel rapporto tra Stato e Regioni, potrebbe ripetersi analogamente nel rapporto tra Stato e Unione Europea, rendendo più equilibrato ed armonico il progredire dell’unificazione. Un altro possibile compito al quale l’Avvocatura è chiamata potrebbe essere quello di risolvere i conflitti tra Autorità indipendenti e Amministrazione dello Stato. Poiché oggi gli studi privati sono “mega” e transnazionali, l’Avvocatura deve essere messa in grado di offrire alla collettività prestazioni sempre più utili ed adeguate. 6. LA LEGGIBILITÀ E LA COMPRENSIBILITÀ LA LEGGIBILITÀ L’indice Gulpease del discorso dell’Avvocato Generale Luigi Mazzella raggiunge il valore di 37,56. Questo valore segnala che il testo risulta “facile” per lettori forniti di laurea e consente loro un tipo di lettura “indipendente”, che non richiede cioè, per la piena fruizione dei contenuti, l’assistenza di un esperto2. Questi i principali parametri che determinano il livello di leggibilità del discorso dell’Avvocato Generale Mazzella. 2. Il testo risulta invece “difficile” per i lettori forniti di diploma superiore, per i quali la comprensione del discorso viene definita“scolastica”, in quanto - ai fini di una piena comprensione - richiede l’assistenza di un docente.

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Le parole “fondamentali” sono il 69%, le molto “comuni” l’8%, le “comuni” il 2% e le “meno diffuse” il 21%. La struttura del testo si articola lungo 52 paragrafi, ciascuno dei quali contiene in media quasi una frase e mezzo (1,3) e circa 53 parole (53,10). Le frasi lunghe (quelle con più di 40 parole) sono 28 e corrispondono al 41,8% del testo; le brevi (quelle con un massimo di 15 parole) sono solo 4, pari al 6% del discorso. Oltre la metà dell’intervento (52,2%) è costituita dunque da frasi medie, composte da un minimo di 16 a un massimo di 39 parole. Tra le ragioni che rendono “facile” solo per i laureati il testo dell’Avvocato Generale Mazzella vi sono sia la presenza abbastanza consistente di frasi lunghe (il 41,6% del testo) sia la percentuale del 21% dei lemmi tecnico-specialistici: elementi entrambi, del resto, che appaiono coerenti con la natura del discorso e con la platea cui esso viene rivolto. Il discorso dell’Avvocato generale Mazzella è calibrato per un pubblico altamente selezionato. E tuttavia, pur negli oggettivi limiti di un genere dicendi contraddistinto da regole consolidate, il testo (vedi ad esempio l’uso prevalente di frasi “medie” dai contenuti densi e puntuali) risulta chiaro e scorrevole nonostante l’indubbia “tecnicalità” del lessico e dell’argomentazione. LA COMPRENSIBILITÀ All’interno di una cornice tradizionale l’Avvocato Generale Luigi Mazzella sviluppa difatti i temi di una relazione nuova nelle prospettive e negli intenti. L’indice di Guiraud raggiunge il valore di 20,08. Tale l’indice valuta la “ricchezza lessicale” di un testo attraverso la misurazione dell’uso diversificato delle parole. Ebbene, l’indice Guiraud del discorso dell’Avvocato Generale Mazzella ribadisce come il vocabolario sia certamente ricco e articolato e denso di valore comunicativo. Non a caso parole diverse sono 1055 su 2760, vale a dire il 38,22% del totale. L’andamento del discorso, dopo l’esordio protocollare, muta completamente proponendo con chiarezza concettuale ed efficacia linguistica una diversa formula di comunicazione fra istituzioni e collettività. L’Avvocato Mazzella, infatti, sa, per avervi assistito, che gli interventi nelle cerimonie ufficiali di insediamento hanno forma e contenuto “molto protocollari” e che la loro funzione è quella di delineare con toni più o meno celebrativi caratteristiche, benemerenze e prestigio dell’istituzione rappresentata. Ma sa ancora meglio quanto sia importante per riconsiderare e far conoscere “natura”, “collocazione” e “assetto” di un’istituzione, in questo caso dell’Avvocatura, saper “prospettare… lo scenario” di un’attualità politica, economica e sociale in continua evoluzione e rapportarvi l’operato dell’Istituzione che, adeguandosi, modifica e migliora se stessa e lo “scenario” in un continuo processo di interattività.

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L’obiettivo che il relatore si è prefissato viene raggiunto attraverso l’uso di uno stile espositivo omogeneo linguisticamente, incalzante nel ritmo e sempre attento ad una comunicazione chiara dei contenuti. Nella parte iniziale del discorso l’Avvocato Luigi Mazzella, rifacendosi allo schema concettuale seguito dal Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi nel suo intervento, ripropone la presentazione di un quadro politico, economico e legislativo in pieno fermento, distinguendo e analizzando il “piano internazionale” e quello “interno”. L’analisi risulta effettuata attraverso l’uso di periodi chiari che mettono in evidenza, proprio per la loro pregnanza, nuovi concetti espressi con vocaboli nuovi come sussidiarietà e devoluzione. Anche quando il relatore si propone di ripercorrere in senso diacronico, in un “excursus”, la storia dell’Avvocatura e dei suoi “aggiustamenti di tiro”, ci troviamo di fronte a uno stile regolato da periodi sempre equilibrati nella lunghezza e articolati, da un punto di vista logico, secondo una chiara conseguenzialità. La scelta lessicale è indubbiamente specifica, ma accessibile, corredata da un’aggettivazione misurata e curata che mira ad evidenziare i punti salienti determinati dalle leggi e dalle riforme che vengono scandite con estrema chiarezza e precisione nei tempi e nei contenuti, senza che il discorso risulti pesante o dispersivo. Le modificazioni avvenute nell’Istituto nel loro susseguirsi, sono concetti più importanti dell’elencazione delle leggi stesse, perché vanno a creare l’immagine di un’Avvocatura come una “struttura di collegamento e di intermediazione” in una posizione di “indipendenza funzionale”. Quando poi nel discorso viene urgentemente proposto un “ulteriore ripensamento legislativo”, richiesto agli organi competenti dietro la spinta delle pressanti “esigenze” avvertite dall’Istituto, il tono diventa addirittura deciso e risolutivo e in quanto meno tecnico, più chiaro ed incisivo, soprattutto quando indica in un quadro nazionale ed internazionale il ruolo di “cerniera” dell’Avvocatura. I periodi, nonostante siano leggermente più lunghi, appaiono velocizzati nel ritmo e sostenuti da un linguaggio più concreto. I toni conclusivi acquistano gradualmente rilevanza politica; la comunicazione diventa ancor più chiara ed efficace. Le battute finali, con il richiamo al Presidente del Consiglio, sembrano ripetere la consueta formula protocollare, in realtà questa stessa va a completare quella “tradizionale cornice” che racchiude un possibile nuovo “scenario” per l’Avvocatura ed un nuovo modello di comunicazione. Qui di seguito una tabella riassume visivamente alcune delle principali caratteristiche del testo appena esaminato:

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DISCORSO DI INSEDIAMENTO DELL’AVVOCATO GENERALE LUIGI MAZZELLA

Indice Gulpease Numero dei paragrafi

Numero delle frasi Numero delle frasi lunghe

Numero delle frasi brevi

Media delle frasi per paragrafo

37,56 52 67 28 (41,8%) 4 (6%) 1,3 Totale delle parole

utilizzate Numero delle parole diverse

Media delle parole per paragrafo

Media delle parole per frase

Percentuale delle parole meno

diffuse

Ricchezza lessicale di

Guiraud

2760 1055 53,10 41,20 21% 20,08 I termini che più frequentemente ricorrono nel discorso di insediamento sono invece i seguenti:

11 professionale 8 pubblico 8 nuovo 8 attività 7 esigenza 6 ordinamento 6 compito 5 europeo 5 politico 4 riforma 4 statale

Quest’ultima scheda è particolarmente significativa: gli indici abbastanza piccoli delle ricorrenze (il tetto di 11 è in termini relativi il più basso tra tutti i discorsi analizzati in questa ricerca) ribadisce la ricchezza lessicale del discorso e suo alto valore informativo.

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1. LA FIGURA DEL RELATORE Nato a Pedara (Catania) il 10 aprile 1899, laureatosi in giurisprudenza all’Università di Catania nel 1922, inizia la carriera nella magistratura ordinaria passando, nel 1924, all’Avvocatura di Stato come sostituto. Nel 1930 entra nel Consiglio di Stato come Referendario; nel 1934 è nominato Consigliere e nel 1947 Presidente della IV Sezione dell’Organo dei magistrati amministrativi, viene da essi eletto il 19 marzo 1953 alla Corte Costituzionale, ricoprendone la carica di giudice fino al 1967. Cessato dalla carica il 15 dicembre del 1967, corona la propria carriera con la nomina a Presidente del Consiglio di Stato il 30 maggio 1968. Ma i limiti di età sono ormai prossimi, sicché il discorso - come si vedrà più avanti - si presenta volutamente con toni di garbato ed accorato distacco: “questa cerimonia, dice Papaldo, è singolare perché in essa si tratta più di un commiato che di un insediamento”. Nel 1969, infatti, è messo a riposo, per raggiunti limiti di età. Avvocato, giurista autorevole e impegnato1, nella sua lunga carriera ha partecipato a diverse commissioni per la riforma della Pubblica Amministrazione. Alla sua attività ha accompagnato la libera docenza in diritto amministrativo presso l’Università di Roma. A riconoscimento del suo operato è stato insignito delle medaglie d’oro al merito della Sanità Pubblica, dei Benemeriti della Scuola, della Cultura e dell’Arte e dei Benemeriti della Pubblica Finanza. Tra i suoi scritti significativi ricordiamo Il Consiglio di Stato. La giustizia nella Pubblica Amministrazione, Giuffrè, Milano 1959. Si è spento a Roma nel 1997, a 98 anni.

1 Cfr. AA.VV., Studi in onore di Antonino Papaldo, Milano 1975

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2. IL CONTESTO STORICO L’intervento del Presidente Papaldo sembra quasi rappresentare, nello stile espositivo e negli stessi contenuti una sorta di passaggio d’epoca. Il che non può sorprendere, se solo si guarda alla data del suo insediamento (16 dicembre 1968, tre giorni prima Roma è letteralmente invasa da giovani di tutta Italia): nel pieno dunque di quel biennio segnato dalla esplosione dei movimenti studenteschi e dalle impetuose lotte sindacali destinati a cambiare il clima politico e sociale del Paese. Nel decennio successivo si sarebbe aperta una fase in cui la crisi economica, il logoramento sempre più accentuato della formula del centrosinistra, la terribile e sanguinosa fase terroristica ci avrebbero restituito il volto di una nazione cambiata nel profondo e in quasi tutti i suoi aspetti, da quelli delle dinamiche sociali e politiche a quelli dei rapporti interpersonali pubblici e privati. 3. IL CONTESTO GIURIDICO-ISTITUZIONALE Va sottolineato che il Consiglio di Stato viene descritto nel discorso di insediamento del Presidente Papaldo esaltandone le due “anime”, consultiva e giurisdizionale e soprattutto la caratteristica dell’indipendenza, commentando l’art. 100 della Costituzione e sottolineando l’importanza di una rapida approvazione della legge istitutiva dei Tar, che sarà poi varata tre anni dopo, (l. 6 dicembre 1971, n. 1034). Mutamenti di rilievo costituzionale peraltro erano stati già apportati con la legge 22 novembre 1967, n. 2 che ha modificato l’art. 135 della costituzione (che disciplina la composizione della Corte Costituzionale). 4. L’IMPIANTO LOGICO-CONCETTUALE 1. Attività giurisdizionale e attività consultiva. 2. Gli elementi caratterizzanti il lavoro del Consiglio di Stato: collegialità, complessità, composizione mista, indipendenza rispetto al Governo, collaborazione con esso. 3. Il rapporto con l’Amministrazione: contatto diretto e conoscenza dal vivo. 4. Prospettive e proposte di intervento innovatore.

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5. L’ARTICOLAZIONE DEI CONTENUTI LE DUE FUNZIONI DEL CONSIGLIO DI STATO: GIURISDIZIONALE E CONSULTIVA Sono note le funzioni del Consiglio di Stato: dare pareri all’Amministrazione, giudicare nei confronti dell’Amministrazione. Molti credono che l’attività giurisdizionale abbia soverchiato quella consultiva. È vero che il lavoro giurisdizionale è gravosissimo e crescente: i ricorsi depositati nel 1967 sono 4954, quelli pervenuti sino allo scorso novembre sono 4873; le decisioni sono state 3745 nel 1967, 3208 quelle dell’anno in corso. Ma resta il fatto che l’attività consultiva rappresenta la piattaforma della vita dell’Istituto: 6740 sono stati i pareri richiesti nel 1967, 7388 quelli pervenuti al 30 novembre di quest’anno. Del resto consigliare con consapevolezza è la base del giudicare con giustizia. Nel dare pareri il Consiglio offre una consulenza giuridico-amministrativa: quando interpretiamo norme giuridiche ci ispiriamo a una visione superiore dei fini della Pubblica Amministrazione. Ma anche in sede giurisdizionale il nostro fine è quello di individuare la linea di mediazione tra gli interessi pubblici e quelli privati: uno degli strumenti per entrare nel vivo dell’attività amministrativa è quello del giudizio sull’eccesso di potere. Insomma il Consiglio di Stato è un organo consultivo investito anche di funzioni giurisdizionali. In quanto tale è - e deve essere - un organo collegiale, complesso nelle sue attribuzioni, composito nella sua formazione, unitario nelle sue funzioni, al centro dello Stato e accanto al Governo. COLLEGIALITÀ, COMPLESSITÀ, COMPOSIZIONE MISTA, INDIPENDENZA E COLLABORAZIONE: ELEMENTI ESSENZIALI DEL CONSIGLIO DI STATO Sbagliato sarebbe scindere il Consiglio in due tronconi: consigliare e giudicare sono due attività che si integrano reciprocamente. La formazione composita (per nomina esterna e per concorso) porta nel Collegio mentalità, preparazioni, attitudini ed esperienze diverse che si fondono rapidamente e positivamente. Esiziale sarebbe pertanto il solo reclutamento per concorso. Ma la nomina del 50 per cento dei membri dall’esterno non deve essere affidata all’arbitrio del Governo. L’indipendenza dell’Istituto è sancita dall’articolo 100 della Costituzione: la scelta deve dunque cadere su uomini per i quali la nomina non deve essere solo il premio per i servizi resi all’Amministrazione, bensì il risultato di una valutazione delle attitudini alla funzione. Il Consiglio di Stato è secondo la nostra Carta fondamentale organo ausiliario del Governo. C’è contraddizione con l’autonomia del Consiglio? Indipendenza non significa distacco dal Governo, come collaborazione con il Governo non

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significa dipendenza. Il Consiglio auspica una più intensa e incisiva azione regolamentare dell’Esecutivo ed è pronto a dare il proprio contributo. IL RAPPORTO CON L’AMMINISTRAZIONE Per conoscere l’Amministrazione non basta conoscere il diritto amministrativo: occorre conoscere la vita dell’Amministrazione nella sua attualità e nel suo quotidiano evolversi. Per questo motivo non si deve impedire ai consiglieri di Stato il temporaneo esercizio di funzioni presso l’Amministrazione attiva. LE PROSPETTIVE DI LAVORO Immane è il carico di lavoro. Ma all’Istituto non servono né radicali riforme, né aumenti di organico. Si tratta semmai di rinnovare le strutture tecniche assai arretrate e scadenti. Occorrono certo uomini di qualità, ma la riforma urgente è quella della procedura, vecchia e piena di formalismi. Una spinta notevole alla semplificazione del lavoro potrà venire con l’approvazione del disegno di legge sui Tribunali regionali amministrativi. 6. LA LEGGIBILITÀ E LA COMPRENSIBILITÀ LA LEGGIBILITÀ La leggibilità del discorso del Presidente Papaldo raggiunge l’indice Gulpease di 45,75, il più alto tra tutti quelli dei quindici discorsi considerati in questa ricerca. L’indice si colloca addirittura al di sopra di quella fascia 41-45 nel cui ambito sono contenuti i testi di agevole leggibilità per una platea abbastanza ampia di fruitori. Tale valore segnala cioè che il documento è indubbiamente “facile” non solo per i lettori forniti di laurea, ma anche per quelli dotati di un diploma secondario superiore2. E difatti, per quanto riguarda gli effetti sul lettore, il testo corrisponde a un livello di “lettura indipendente” (che non richiede cioè alcun intervento di sostegno esterno) sia per i laureati, sia per i diplomati. I principali parametri che determinano la leggibilità del discorso sono i seguenti: le parole “fondamentali” sono il 75% (la percentuale più alta tra i discorsi esaminati), quelle molto “comuni” l’8%, quelle “comuni” il 2% e quelle “meno diffuse” il 15%. Quanto alla struttura del testo, si rileva che esso si articola in 72 paragrafi, costituiti in media da 2 frasi e da circa 50 parole (50,6).

2 L’indice di 45,75 ci avverte altresì che il testo è “molto difficile” per chi abbia assolto solo l’obbligo della scuola media - come peraltro è ovvio - “quasi incomprensibile” per un licenziato elementare.

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È evidente che nel caso in questione la sostanziale “facilità” del testo (il più semplice tra tutti i discorsi esaminati) è la risultante di varie componenti. Il Presidente Papaldo ricorre largamente all’uso delle “parole fondamentali” (72%), mentre ricorre in modo più parco a quello dei termini specialistici (15%, di nuovo la più bassa percentuale tra l’universo dei testi esaminati). Inoltre il rapporto tra le “frasi lunghe” e le “frasi brevi” risulta fortemente rovesciato rispetto alla media degli altri discorsi: le prime sono infatti solo 22 (pari al 15,2% del testo) a fronte di 51 frasi corte (pari al 32,2% del testo). LA COMPRENSIBILITÀ L’intervento del presidente Papaldo, ormai vicinissimo ai limiti di età, ha un taglio particolare, segnato da un certo distacco rispetto alla immediatezza delle questioni e portato a valutazioni d’insieme che ricostruiscono, in una dimensione ideale, il ruolo, le funzioni e i meriti non solo tecnici, ma anche etici della magistratura amministrativa. Si è già ricordato come gli echi tempestosi della contemporaneità siano del tutto assenti: a fronte di un’attualità bruciante fa quasi da velo uno stile espositivo volutamente pacato, ispirato agli stilemi tipici della lectio aulica e magistrale, segnata dalla ricercatezza della concinnitas del costrutto sintattico ciceroniano e dalla ricchezza, talora persino insistita, della figurazione retorica: “la vita di alcuni istituti è come quella di certe piante secolari, i cui ceppi, sempre sani, cacciano nuovi polloni quando le vicissitudini dell’ambiente esterno abbiano fatto cadere la chioma e anche il tronco”. L’indice di Guiraud che pondera la “ricchezza lessicale” del testo, misurandone l’uso diversificato delle parole, tocca il valore di 19,86. Esso ribadisce quanto si è appena osservato. Il discorso di insediamento del Presidente Papaldo, denso di pathos e distinto da un notevole apparato retorico, presenta anche un vocabolario indubbiamente articolato: le “parole diverse” sono circa il 33% del totale. “Pochissime”, per asserita mancanza di tempo, sono invece le cifre fornite: i dati si limitano tanto in sede giurisdizionale quanto in quella consultiva al 1967 e ai primi undici mesi del 1968. In conclusione, il discorso del presidente Papaldo si presenta costruito con una indubbia saldezza concettuale e con un ordine logico sostanzialmente rigoroso. La tabella che segue riassume le principali caratteristiche del testo appena esaminato:

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DISCORSO DI INSEDIAMENTO DEL PRESIDENTE ANTONINO PAPALDO

Indice Gulpease Numero dei paragrafi

Numero delle frasi Numero delle frasi lunghe

Numero delle frasi brevi

Media delle frasi per paragrafo

45,75 72 145 22 (15,2%) 51 (32,2%) 2 Totale delle parole

utilizzate Numero delle parole diverse

Media delle parole per paragrafo

Media delle parole per frase

Percentuale delle parole meno

diffuse

Ricchezza lessicale di

Guiraud

3645 1199 50,60 25,10 15% 19,86 I termini che più frequentemente ricorrono nel discorso di insediamento sono invece i seguenti:

16 organo 15 legge 14 giustizia 13 giurisdizionale 12 consultivo 12 amministrativo 12 anno 10 lavoro 9 uomo 9 magistrato 8 parere

La scheda conferma come il discorso di insediamento del Presidente Papaldo, mentre esprime con fermezza alcuni punti di vista sui problemi all’ordine del giorno del Consiglio di Stato (si noti il ricorrere di termini propri dell’universo della magistratura amministrativa), non rinunci a considerazioni ispirate a squarci di taglio storico (cfr. la forte ricorrenza del lemma “anno”) ed etico (cfr. ad esempio la significativa e inusuale presenza della parola “uomo”).

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1. LA FIGURA DEL RELATORE Nato a Biancavilla, in provincia di Catania, il 16 aprile 1909, consegue la laurea in giurisprudenza nel 1930 all’Università di Catania con 110 e lode. L’anno seguente entra in magistratura, come uditore giudiziario, a seguito di concorso per esami nel quale si classifica al primo posto. Nel 1933 viene nominato aggiunto giudiziario. Nel 1939 vince, unico, il concorso a referendario del Consiglio di Stato, passando quindi alla magistratura amministrativa. Diviene nel 1942 primo referendario e due anni più tardi Consigliere di Stato. Fra il 1949 e il 1954 svolge la sua attività di giudice anche presso il Tribunale superiore delle Acque Pubbliche. Negli anni 1947 e 1948 fa parte della I Commissione paritetica per l’attuazione dello Statuto della Regione Siciliana. Accanto a numerosi incarichi nelle commissioni di studio ricopre anche importanti ruoli di capo gabinetto in vari governi presso i Ministeri dei trasporti, delle poste e delle comunicazioni, della marina mercantile, della sanità, dell’organizzazione amministrativa. E proprio per tutti questi contributi e per il suo impegno al servizio delle istituzioni è insignito di diploma con medaglia d’oro quale benemerito della Finanza pubblica e di medaglia d’oro quale benemerito della Sanità pubblica. Nel 1956 diventa Presidente di sezione del Consiglio di Stato e nel settembre 1976 Presidente del Consiglio di Stato. Dopo 39 anni di servizio, il 17 aprile 1979 Uccellatore si congeda dal Supremo Consesso, mantenendo, comunque, fino ai primi anni Ottanta l’incarico di Presidente di sezione della Commissione centrale tributaria. Muore a Roma il 21 luglio 1987.

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2. IL CONTESTO STORICO I risultati delle elezioni del giugno 1976 (nelle quali, pur non verificandosi il “sorpasso” del PCI nei confronti della DC, si avverte comunque l’onda lunga degli esiti positivi per la “sinistra” legati al referendum sul divorzio e al voto amministrativo del 1975) lasciano aperto il problema di una nuova formula di governo. I socialisti, usciti ridimensionati dalle urne, non sono disponibili a una riedizione del centrosinistra; al tempo stesso non esistono i margini numerici per un ritorno al centrismo e politici per un governo di “compromesso storico”. Si giunge così a un gabinetto monocolore democristiano, guidato da Giulio Andreotti, passato alla storia come il “governo delle astensioni” perché sorretto in Parlamento dalle astensioni di tutti gruppi, missini e radicali esclusi. Si tratta di una risposta unitaria da un lato alla crisi economica, dall’altro all’acuirsi sempre più drammatico del fenomeno terrorista (nel 1976 le BR uccidono il procuratore Coco e sequestrano il giudice Sossi. Due anni dopo, con un terribile salto di qualità, rapiranno e assassineranno Aldo Moro). Il tutto in un clima avvelenato da sospetti e scandali che porteranno nel giugno 1978 alle dimissioni di Giovanni Leone e alla successiva elezione di Sandro Pertini. 3. IL CONTESTO GIURIDICO-ISTITUZIONALE Il dato normativo più rilevante è senz’altro l’istituzione dei tribunali amministrativi regionali, quali giurisdizioni amministrative di legittimità di primo grado, considerata come “la prima sostanziale innovazione attuativa della Costituzione in questo settore, che ha incontrato il favore e la fiducia del pubblico”. 4. L’IMPIANTO LOGICO-CONCETTUALE 1. Il Consiglio di Stato tra Statuto albertino e Costituzione repubblicana 2. Le ragioni dell’adeguamento ai principi costituzionali 3. Le urgenze imposte dall’organizzazione regionale e dalla istituzione dei Tar 4. I nodi da sciogliere per allargare la partecipazione del cittadino 5. L’ARTICOLAZIONE DEI CONTENUTI

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CONSIDERAZIONI GENERALI In occasione delle cerimonie di insediamento di solito si offrono all’attenzione del pubblico i dati più salienti del lavoro svolto dal Consiglio negli ultimi anni. Questi dati sono però molto spesso già noti ai presenti. Sembra allora più opportuno esporre alcune considerazioni sulla posizione e sulla funzione del Consiglio di Stato nei tempi presenti. QUALCHE DATO STORICO Come si sa il Consiglio di Stato non è stato creato dalla Costituzione, né in questa occasione è stato trasformato nelle sue strutture di base. Esso è stato recepito nell’ordinamento repubblicano con le stesse strutture e le stesse attribuzioni che lo avevano caratterizzato nella sua storia ultrasecolare. Non si è trattato però di un pigro conservatorismo, ma piuttosto di una ponderata convinzione: si riconosceva cioè che le funzioni storicamente attribuite al Consiglio di Stato restavano quelle di quasi tutti gli Stati moderni. Per quanto riguarda l’Italia, il Consiglio di Stato - nato in un regime assoluto - è stato conservato in tutte le successive trasformazioni prima come organo di temperamento del potere assoluto del Capo dello Stato e successivamente come organo indipendente nelle varie forme dello Stato di diritto per la tutela dei cittadini. Con la Costituzione della Repubblica e le successive leggi di attuazione il Consiglio è stato inserito nella realtà nuova dello Stato regionale attraverso due modifiche: l’istituzione del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana con funzioni consultive e giurisdizionali e l’istituzione dei Tribunali Amministrativi Regionali quali organi di giustizia amministrativa di primo grado. IL DIBATTITO ODIERNO Molti magistrati e giuristi ritengono che il sistema regga ancora oggi, salva la necessità di coordinare varie norme. Altri invece, più sensibili ai problemi sociali, sostengono che il complesso delle norme vada modificato per ispirarlo ai principi della Costituzione. Ci si riferisce al principio della partecipazione diffusa, alla rilevanza dei gruppi intermedi, al pluralismo sociale e giuridico, al principio di uguaglianza dei cittadini e al riconoscimento dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi contro tutti gli atti della pubblica Amministrazione. In effetti le norme del Consiglio di Stato, pur non essendo in contrasto con i principi costituzionali, non possono ritenersi ispirate a criteri che non potevano trovare posto nell’ ordinamento dello Stato ottocentesco. Non riconoscendo il suffragio universale, tale Stato non poteva che essere espressione di una classe politica ristretta; la sua legislazione, sotto l’assillo dell’esigenza dell’unità politica non poteva non ispirarsi ai principi del

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centralismo e dell’autoritarismo: in queste forme infatti venivano regolati i rapporti dello Stato con i cittadini. La trasformazione però non può implicare un rigetto completo che costituirebbe un salto nel buio, ma piuttosto implica la necessità di procedere per gradi. I PUNTI PIÙ RILEVANTI DEL CAMBIAMENTO La prima esigenza di adeguamento normativo riguarda la funzione consultiva obbligatoria - la più antica delle funzioni attribuite al Consiglio - che deve tener conto dei nuovi rapporti tra Stato e Regioni. Esiste attualmente infatti una lacuna nell’ordinamento: molti provvedimenti per i quali si prevede un parere obbligatorio non vincolante del Consiglio di Stato vengono emanati dalle Regioni senza alcun parere. La deficienza investe anche i ricorsi straordinari al Capo dello Stato contro gli atti definitivi delle Regioni. L’istruttoria, che non può essere affidata alle Regioni, viene affidata ai Ministeri con grande ritardo e danno per i cittadini. La situazione è la medesima per la consultazione facoltativa: un adeguamento anche parziale della funzione di consulenza in favore delle Regioni potrebbe prevenire molti conflitti di giurisdizione fra Stato e Regioni e fra le stesse Regioni. Questi adeguamenti costituirebbero uno sviluppo logico del decentramento alle Regioni di altre funzioni amministrative. La seconda istanza di adeguamento riguarda l’oggetto della funzione di consulenza del Consiglio di Stato. Le norme escludono da questa funzione le concessioni di beni e servizi pubblici fatte dalle Amministrazioni autonome dello Stato che sono sottoposte al parere dei rispettivi Consigli di amministrazione. La recente legge sui Tar ha attribuito agli organi di giustizia amministrativa la giurisdizione su tali questioni. Questa innovazione implica il riconoscimento della idoneità degli organi di giustizia amministrativa a trattare questa delicata materia. Da qui l’esigenza di far intervenire il Consiglio di Stato con il suo preventivo parere di legittimità in questi casi. L’altro oggetto che renderebbe opportuna la consulenza del Consiglio è l’attività normativa del Governo. Ciò per prevenire i vizi di incostituzionalità. Si pensi in proposito che davanti alla Corte Costituzionale pendono oggi circa 1200 giudizi. Per quanto riguarda la funzione giurisdizionale si può dire che l’istituzione dei Tar ha incontrato il favore e la fiducia del pubblico. Una conferma può essere ritrovata nel fatto che poco più del 10% delle decisioni dei Tar viene impugnato davanti al Consiglio di Stato. È opportuno però che le giurisdizioni di primo grado vengano difese dal pericolo di un prossimo decadimento. Un elemento negativo riguarda la carriera dei giudici che non possono aspirare alla carica di presidente. A questo bisogna aggiungere che il sistema, come già sottolineato, è rimasto ancorato ai criteri dello stato liberale ottocentesco senza tener conto dei nuovi principi della Costituzione repubblicana.

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Dalle difficoltà di interpretazione e di applicazione sono nati gravi problemi sia per il legislatore, sia per i giudici: la determinazione dell’oggetto del processo amministrativo; i suoi presupposti e le sue condizioni; l’efficacia e i limiti del giudicato amministrativo. Si tratta in sintesi della funzione stessa del processo amministrativo che, operando sull’esercizio del potere pubblico, investe non solo il campo del diritto, ma anche quello socio-politico. Alcuni tra questi problemi: innanzi tutto la determinazione dei soggetti che sono legittimati a ricorrere davanti agli organi di giustizia amministrativa e degli interessi legittimi dei quali si può chiedere la tutela. Il ricorso alle giurisdizioni amministrative può costituire un mezzo indiretto per allargare la partecipazione del cittadino all’esercizio del potere pubblico. Il principio potrebbe essere potenziato estendendo la partecipazione dei cittadini alla formazione dei procedimenti di attuazione dell’esercizio del potere. Un grande apporto verrà dai consigli circoscrizionali. Oltre all’estensione dei soggetti legittimati a ricorrere e degli interessi da tutelare, si dovrebbe arrivare alla tutela dei gruppi intermedi. La garanzia di questi gruppi, costituzionalmente riconosciuta, dovrebbe portare a estendere la sfera di applicazione della tutela giurisdizionale amministrativa tanto nei riguardi dei soggetti che dell’oggetto. Un altro problema è quello della cosiddetta esecuzione del giudicato: il problema consiste nello stabilire se l’esecuzione deve portare alla concreta realizzazione dell’interesse legittimo leso o deve limitarsi invece alla correzione del potere illegittimamente esercitato dall’Amministrazione. Questo problema diventerebbe meno grave se le decisioni fossero prese sempre con tempestività. Non sempre ciò accade. Alle due funzioni essenziali del Consiglio di Stato sono collegati il problema della indipendenza dell’Istituto, quello delle nomine dirette e quello degli incarichi presso Amministrazioni pubbliche. Per quanto riguarda le nomine è auspicabile che il legislatore provveda a una disciplina completa della materia che tenga conto che la migliore tradizione del Consiglio di Stato è basata sul sistema misto. CONCLUSIONE Le norme che regolano l’esercizio delle funzioni del Consiglio di Stato si inseriscono nel più generale problema della riforma dello Stato e della Pubblica Amministrazione. L’adeguamento invocato per il Consiglio di Stato non è certo compito facile: l’Istituto sarebbe onorato di dare il proprio contributo al Governo per la predisposizione degli schemi normativi opportuni. Si ripeterebbe quanto si verificò nel 1865 quando il Governo affidò al proprio Consiglio di Stato la predisposizione delle norme fondamentali per l’adeguamento del vecchio ordinamento. Come allora l’opera di rinnovamento

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rafforzerebbe la fiducia del popolo italiano nella vitalità dello Stato democratico. 6. LA LEGGIBILITÀ E LA COMPRENSIBILITÀ LA LEGGIBILITÀ Il discorso del Presidente Uccellatore presenta un indice Gulpease pari a 37,33. Questo valore ci segnala che il documento è sostanzialmente “facile” per un pubblico fornito di laurea, ma ci avverte pure come esso possa risultare piuttosto “difficile” per lettori con un diploma secondario superiore3. Quanto agli effetti sul lettore, il discorso corrisponde per il primo tipo di fruitore a un livello di “lettura indipendente” - che consente di orientarsi nel testo senza particolari problemi - mentre il secondo tipo di fruitore si dovrebbe limitare a una “lettura scolastica”, assistita cioè dalla presenza di un docente e/o di un esperto. L’indice di 37,33 relativo al discorso del Presidente Uccellatore si colloca infatti abbastanza vicino a quella soglia di 35 che - anche per lettori laureati - individua l’area (31-35) di una leggibilità “difficile”. I parametri che determinano l’indice di leggibilità del discorso del PresidenteUccellatore risultano i seguenti:

• le parole “fondamentali” sono il 73%, quelle molto “comuni” il 9%, quelle “comuni” l’1% e quelle “meno diffuse” il 17%; • i paragrafi sono 80, ciascuno dei quali contiene in media una frase e mezza (1,5) e circa 79 parole (78,90); • le frasi lunghe (vale a dire quelle con più di 40 parole) sono di numero significativamente superiore alle frasi corte (vale a dire quelle con un massimo di 15 parole): le prime sono difatti 72 (pari al 58,1% del testo), le seconde 11 (pari all’8,9%).

La relativa “facilità” del testo del Presidente Uccellatore sembra dunque determinata in maniera prevalente dalla rilevante presenza di frasi lunghe (ben oltre la metà dell’intero discorso) e in misura in qualche modo incidente dalla percentuale (17%) dei termini tecnico-specialistici. In sostanza, tanto la struttura, quanto il linguaggio dell’intervento del Presidente Uccellatore rispondono alla necessità di sottolineare le questioni più importanti (e spesso più complesse) che caratterizzano l’azione del Consiglio di Stato: un intervento, dunque, che appare decisamente calibrato per un riservato uditorio di addetti ai lavori. LA COMPRENSIBILITÀ

3 E difatti il testo sarebbe “molto difficile” per il licenziati dell’obbligo e “quasi incomprensibile” per chi avesse concluso solo la scuola elementare.

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Come risulta da quanto si è rapidamente ricordato nel “contesto storico” il discorso del presidente Uccellatore si colloca in una fase particolarmente tesa e drammatica della nostra storia nazionale. Il linguaggio assolutamente sobrio e privo di qualsiasi concessione alla retorica potrebbe indurre a giudicare il discorso come un contributo meramente “tecnico”. L’aggettivazione volutamente scabra, la rinuncia sostanziale a figurazioni retoriche ed esornative, un periodare rigoroso (e mai involuto) porterebbero a confermare un tale giudizio. Il valore dell’indice di Guiraud relativo alla ricchezza lessicale è in questo caso di 20,15 (vicinissimo alla media di 20,16 di tutti e quindici i discorsi). Tale valore ribadisce il livello qualitativamente alto del discorso di insediamento del Presidente Uccellatore: il principale dei parametri considerati (quello delle parole diverse rispetto alla somma di tutti i termini usati) ci dice che le prime sono 1097 su un totale di 2992. In realtà, struttura e linguaggio dell’intervento rispondono al dichiarato intento di Vincenzo Uccellatore di sottolineare i nodi più aggrovigliati dell’Istituzione che egli è chiamato a presiedere e di suggerire possibili soluzioni. Non a caso, la terminologia giuridica sfugge ai rischi del manierismo, poiché viene puntualmente utilizzata là dove i problemi acquistano uno spessore specificatamente tecnico. Una tale scelta - connotata anche dall’assenza di ogni riferimento a una cronaca allora particolarmente incandescente - non deve far credere però che l’intervento del Presidente Uccellatore sia insensibile al clima nuovo attraversato dal Paese. Infatti la cifra “politica” del discorso è quella della necessità di attuare la Costituzione anche in rapporto a un Istituto di antica e consolidata tradizione, in modo da allargare i diritti dei cittadini e di favorirne la partecipazione. Il paragone storico tra Stato ottocentesco e Stato repubblicano si muove tutto all’interno di questa visione. La tabella che segue sintetizza le principali caratteristiche del testo appena esaminato:

DISCORSO DI INSEDIAMENTO DEL PRESIDENTE VICENZO UCCELLATORE Indice Gulpease Numero dei

paragrafi Numero delle frasi Numero delle frasi

lunghe Numero delle frasi

brevi Media delle frasi

per paragrafo

37,33 88 124 72 (58,1%) 11 (8,9%) 1,5 Totale delle parole

utilizzate Numero delle parole diverse

Media delle parole per paragrafo

Media delle parole per frase

Percentuale delle parole meno

diffuse

Ricchezza lessicale di

Guiraud

6316 1602 78,90 50,90 17% 20,15 I termini che più frequentemente ricorrono nel discorso di insediamento sono invece i seguenti:

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41 amministrativo 35 funzione 28 legge 25 pubblico 25 nuovo 22 interesse 19 norma 19 cittadino 18 problema 17 organo 17 ordinamento

Quest’ultima scheda sottolinea come nel discorso del Presidente Uccellatore il merito vivo delle questioni faccia decisamente premio sull’apparato retorico e sulla articolazione del lessico. Particolarmente significative sembrano le frequenze di lemmi come “funzione” (del Consiglio, 35 volte), “nuovo” (25 volte) e “cittadini” (19 volte) a testimoniare l’attenzione al processo di trasformazione dell’ordinamento giuridico-istituzionale in rapporto a una società civile in movimento.

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DDiissccoorrssoo ddii iinnsseeddiiaammeennttoo ddeell PPrreessiiddeennttee LLiioonneelllloo LLeevvii SSaannddrrii

1144 sseetttteemmbbrree11997799

1. LA FIGURA DEL RELATORE Nato a Milano il 5 ottobre 1910 e conseguita nel 1932 la laurea in giurisprudenza, entra a far parte dell’Amministrazione dello Stato presso il Ministero delle corporazioni. Nel 1939 consegue la libera docenza in diritto del lavoro nella facoltà di Economia e Commercio dell’Università La Sapienza di Roma. Al termine della guerra viene destinato al Ministero del lavoro e della previdenza sociale, divenendone fra l’altro Capo di Gabinetto dal 1946 al 1948. Con decreto del Presidente della Repubblica del 1 giugno 1948 è nominato Consigliere di Stato, conseguendo nel 1964 la qualifica di Presidente di Sezione. Quale magistrato amministrativo svolge le sue funzioni presso le Sezioni I, III e VI, nonché presso la Sezione speciale per l’epurazione. Nel corso della sua carriera ricopre numerosi incarichi fra i quali quello di delegato italiano alla Conferenza preparatoria del Piano Marshall a Parigi (1947); di Capo di Gabinetto del Ministro dei Trasporti (1950-1951); di Capo di Gabinetto del Ministro del Lavoro e della Previdenza Sociale (1954-1957); di Commissario e di Vice-Presidente della CEE (1961-1970), occupandosi in particolare della politica sociale comunitaria; di Presidente della commissione di tutela sugli Istituti Fisioterapici Ospedalieri di Roma. Fra il 1970 e il 1979 presiede varie commissioni speciali incaricate di predisporre il testo di provvedimenti legislativi e regolamentari. È Presidente del Consiglio di Stato dal 14 settembre 1979, fino alla data del suo collocamento a riposo (1980). Per i meriti acquisiti nel corso del servizio prestato gli viene conferito il titolo onorifico di Presidente emerito del Consiglio di Stato. È autore di numerose pubblicazioni in materia di diritto del lavoro, diritto della

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sicurezza sociale, diritto amministrativo e diritto sanitario; di scritti e discorsi in materia politica e di politica comunitaria europea. Muore all’età di 81 anni, l’11 aprile del 1991. 2. IL CONTESTO STORICO Sul piano interno, il dato rilevante è quello dell’esaurimento della politica di “solidarietà nazionale”. Essa non ha prodotto il risultato da più parti auspicato di un processo di trasformazione sociale e di un risanamento della vita pubblica. Continuano a verificarsi, soprattutto negli enti locali e nelle imprese a partecipazione statale, episodi di lottizzazione, di cattiva gestione e di vera e propria corruzione. Gli scandali giungono a sfiorare la Presidenza della Repubblica nella persona di Giovanni Leone, che è costretto a dimettersi nel giugno 1978. A suo posto, nell’agosto viene eletto, con un larghissimo consenso, il socialista Sandro Pertini. Le elezioni anticipate del giugno 1979 segnano un mutamento del quadro politico. Mentre la DC resta stabile, il PCI scende al 30% dei consensi e vede frustrata la speranza di essere risospinto nell’area di governo dal voto popolare. Si chiude l’esperienza della “solidarietà nazionale” e si apre una fase di transizione caratterizzata da un ritorno alla formula di centro-sinistra (DC, PSI, PRI, PSDI) che darà vita, tra l’agosto 1979 e il settembre 1980, a due gabinetti Cossiga. Sul piano internazionale, gli eventi più significativi del 1979 riguardano l’entrata in vigore nella CEE dello SME (Sistema monetario europeo), gli accordi SALT con i quali USA e URSS riconoscono la reciproca parità nucleare, l’ascesa al potere in Gran Bretagna di Margaret Thatcher, il colpo di Stato in Afganistan e il ritorno di Khomeini in Iran. 3. IL CONTESTO GIURIDICO-ISTITUZIONALE L’elemento di spicco nel panorama giuridico è ancora una volta il profilo attinente all’istituzione dei Tar ed al reclutamento e alla carriera dei magistrati amministrativi. Sono state, però, emanate anche le norme sull’ordinamento regionale e sull’organizzazione della pubblica amministrazione, con la legge 22 luglio 1975, n. 382 ed attuata la delega di cui all’art. 1 della legge 22.7.1975, n. 382 con il dpr 24 luglio 1977, n. 616, che ha trasferito le funzioni amministrative nelle materie indicate dall’art. 117 della Costituzione.

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4. L’IMPIANTO LOGICO-CONCETTUALE 1. Funzione consultiva e giurisdizionale: distinzione solo formale 2. Allargamento della partecipazione e complessità del provvedimento amministrativo 3. Maggiore necessità della funzione consultiva del Consiglio di Stato 4. Esigenze rispetto al disegno di legge sull’ordinamento della giurisdizione amministrativa 5. L’ARTICOLAZIONE DEI CONTENUTI IL SALUTO E GI INTENTI AFFIDATI AL DISCORSO Il saluto è rivolto in primo luogo al Presidente della Repubblica (Sandro Pertini) che - si sottolinea -“alla intransigente difesa della libertà e della giustizia ha consacrato l’intera sua vita”. Il programma di lavoro e i criteri cui un Presidente del Consiglio di Stato deve ispirare la propria attività sono in qualche modo già indicati dalle norme. Oltre al doveroso richiamo a questi compiti, la cerimonia dell’insediamento del Presidente offre anche l’occasione perché egli esprima il proprio punto di vista sui più importanti problemi che si pongono al Consiglio di Stato e alla giustizia amministrativa nel presente. I PROBLEMI DELLA GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA Tali problemi hanno assunto in questi anni un particolare rilievo per l’istituzione dei Tribunali Amministrativi Regionali e per il processo di decentramento regionale che ha investito la funzione consultiva dell’Istituto. Per quanto riguarda questa funzione, è opportuno sottolineare come la distinzione con quella giurisdizionale possa considerarsi puramente formale in quanto entrambe mirano ad assicurare - l’una in via preventiva e l’altra in via successiva - la giustizia nell’amministrazione: in questo senso è impossibile fare una graduatoria di importanza tra le due funzioni. Anche la consulenza giuridico-amministrativa può essere di ausilio all’Amministrazione attiva solo se esercitata da una magistratura indipendente. Recenti sviluppi hanno portato a eliminare il parere del Consiglio di Stato in materie per le quali era ritenuto indispensabile: si propone, come altri hanno già fatto, di assicurare, attraverso la consultazione facoltativa, il concorso del Consiglio di Stato nella formazione delle norme sulla organizzazione della pubblica amministrazione, nella predisposizione di regolamenti ministeriali e, infine, nella preparazione di atti regionali in materie trasferite a esse dallo Stato.

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LA FUNZIONE CONSULTIVA Il problema dell’opportunità di ricorrere alla consulenza del Consiglio di Stato si pone nel presente in termini più ampi. L’odierno ordinamento è infatti caratterizzato da una sempre più estesa partecipazione degli interessati alla definizione dei problemi che li concernono. Questa partecipazione non si esaurisce in mere consultazioni, ma porta generalmente alla conclusione di accordi formali tra le parti interessate che costituiscono poi la base dei relativi provvedimenti amministrativi. Spesso questi provvedimenti hanno carattere settoriale e non sempre risulta chiara la catena di implicazioni (quasi reazioni nucleari) che ne deriva con il rischio di incorrere in una violazione dell’art. 3 della Costituzione. Un’analisi preventiva della compatibilità delle soluzioni proposte con l’ordinamento già accolto o delle difficoltà, che in sede di attuazione possono presentarsi, sarebbe certamente utile al Governo e al Parlamento. In questo campo il Consiglio di Stato potrebbe offrire il suo contributo. LA NECESSITÀ DELL’AMMODERNAMENTO DELLE PROCEDURE L’attuazione della legge istitutiva dei Tar del 1971 ha coinciso con un notevole incremento dei ricorsi. Nel 1978 sono stati presentati quasi 36.000 ricorsi. Gli appelli proposti al Consiglio sono stati 2.119. Questo incremento si deve non solo all’avvicinamento del giudice ai cittadini, ma anche a un peggioramento della qualità dell’azione amministrativa dovuta in parte anche alla minore preparazione dei funzionari: sempre nel 1978 oltre il 60% dei ricorsi in primo grado è stato accolto. Questi pochi dati [v. il discorso integrale per altri dati, n.d.r.] sono sufficienti a dimostrare la necessità di un ammodernamento delle procedure. Il Consiglio ha predisposto da tempo uno schema di testo legislativo per una organica riforma del procedimento, i cui criteri sono stati accolti da un disegno di legge delega sottoposto al Consiglio dei Ministri dal Ministro Giannini. Ma il problema del numero dei ricorsi non può essere risolto solo dallo snellimento delle procedure: occorre anche che l’organico sia completo. Si propone che in attesa dello svolgimento dei concorsi, si integri la composizione dei singoli tribunali con giudici in possesso dei titoli di competenza nominati su designazione delle Regioni per un periodo determinato. Per quanto riguarda il Consiglio, sarebbe opportuno ampliare, entro certi limiti, la scelta di membri che abbiano acquisito, attraverso altre esperienze, la conoscenza approfondita dei fenomeni che sono alla base dei provvedimenti da adottare. Il caso francese di Consiglieri in servizio straordinario (nominati in numero ristretto e per tempi determinati) provenienti dai più vari settori della vita - sociale, culturale, economica, sindacale - potrebbe essere considerato.

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CENNI ALL’ITER DELLA RIFORMA E AUSPICI I problemi cui si è fatto cenno sono insieme ad altri all’esame del Parlamento e sono oggetto di quel disegno di legge sull’ordinamento della giurisdizione amministrativa di cui si parlava. Il testo aveva destato qualche perplessità: in proposito, le due associazioni dei magistrati dei Tar e del Consiglio di Stato si sono incontrate e si sono trovate d’accordo sui punti più controversi. Spetterà al Governo e al Parlamento decidere. Perché non sorgano equivoci sembra opportuno sottolineare come il Consiglio di Stato sia favorevole agli sviluppi di carriera dei giudici dei Tar. Per quanto riguarda il Consiglio di Stato si formulano due auspici: che il suo organo di autogoverno (il Consiglio di presidenza) sia posto in grado di far fronte ai complessi compiti attribuitigli; che la scelta dei Consiglieri cada sempre su elementi altamente qualificati. 6. LA LEGGIBILITÀ E LA COMPRENSIBILITÀ LA LEGGIBILITÀ L’indice Gulpease del testo tocca il valore di 40,26. Questo valore indica che ci troviamo di fronte a un documento “facile” non solo per un pubblico in possesso del titolo di laurea, ma anche per chi sia fornito di un diploma di scuola secondaria superiore4. L’indice di 40,26 segnala altresì che tanto la prima, quanto la seconda categoria di potenziali lettori andrebbe incontro a un livello di “lettura indipendente” (che non richiede cioè azioni di tutoraggio per orientarsi all’interno del testo). Va precisato tuttavia come l’indice di 40,26 del discorso del Presidente Levi Sandri si collochi sì ben al di sopra della soglia di 35 che - per i lettori forniti di formazione accademica - separa la definizione di “difficile” da quella di “facile”, ma sia vicinissimo al valore di 40 che per un pubblico di diplomati già segnala una leggibilità “difficile” e un impatto di lettura di taglio solo “scolastico”. Questi i parametri che determinano l’indice di leggibilità del discorso del PresidenteLevi Sandri: le parole “fondamentali” sono il 73%, quelle molto “comuni” il 9%, quelle “comuni” il 2% e quelle “meno diffuse” il 16%. Il testo si snoda lungo 38 paragrafi, ciascuno dei quali contiene in media oltre 2 frasi (2,30) e circa 97 parole (96,70). Le frasi lunghe (vale a dire quelle con più di 40 parole) sono 32, quelle corte (vale a dire quelle con un massimo di 15 parole) 11: le prime occupano il 36,4% del discorso, le seconde il 12,5%. La sostanziale facilità del testo del Presidente Levi Sandri sembra dunque da

4 Il discorso viene invece considerato “quasi incomprensibile” per chi è fornito di una istruzione elementare e “molto difficile” per chi è fornito di una istruzione media.

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ascrivere sia a una percentuale non molto alta di frasi lunghe, sia a un uso parco dei termini tecnico-specialistici (16%, tra i più bassi dell’insieme dei discorsi esaminati). In sostanza, tanto la struttura, quanto il linguaggio dell’intervento del Presidente Levi Sandri sembrano ribadire la volontà dell’autore di affrontare i temi della sua relazione in modo al possibile piano, pur mantenendo il registro complessivo all’altezza del suo particolare uditorio. LA COMPRENSIBILITÀ L’indice di Guiraud, che valuta la “ricchezza lessicale” del testo, risponde per il discorso del Presidente Levi Sandri al valore di 19,86. Esso segnala una scelta lessicale abbastanza articolata: il principale dei parametri considerati dalla formula di Guiraud (quello delle parole diverse rispetto alla somma di tutti i termini usati) ci dice che le prime sono 1024 su un 3673, vale a dire il 32,77% del totale. Il testo si presenta difatti scorrevole e chiaro anche nei passaggi più tecnici. Non manca la presentazione di alcuni dati - volutamente riportati in misura contenuta - tesi a sostenere la necessità di un ammodernamento delle procedure. In un discorso complessivamente sobrio, l’unica concessione alla mozione degli affetti si trova nel saluto iniziale: innanzi tutto al Presidente Pertini che “alla intransigente difesa della libertà e della giustizia ha consacrato l’intera sua vita” e quindi ai suoi maestri Ranelletti e Zanobini al cui insegnamento, fatto di metodo e di obiettività, ha ispirato - “come modesto e devoto allievo” - il suo impegno “di studioso, di funzionario e di magistrato”. Due le citazioni: la prima un precetto di Bernardino Ramazzini riportato in latino e la seconda di Carnelutti, due volte parafrasata nel testo. Sintetica, ma efficace la similitudine “reazioni a catena, come quelle nucleari” a proposito della ripercussione di provvedimenti circoscritti su ambiti di più ampia portata. Desta una certa sorpresa che nella conclusione di un discorso tenuto su un piano di alte considerazioni di carattere generale il Presidente dichiari di “accorgersi” come i temi da lui toccati siano oggetto di un disegno di legge in discussione e cominci a parlarne in termini dettagliati. La tabella seguente riassume le principali caratteristiche del testo:

DISCORSO DI INSEDIAMENTO DEL PRESIDENTE LIONELLO LEVI SANDRI Indice Gulpease Numero dei

paragrafi Numero delle frasi Numero delle frasi

lunghe Numero delle frasi

brevi Media delle frasi

per paragrafo

40,26 38 88 32 (36,4%) 11 (12,5%) 2,30 Totale delle parole

utilizzate Numero delle parole diverse

Media delle parole per paragrafo

Media delle parole per frase

Percentuale delle parole meno

diffuse

Ricchezza lessicale di

Guiraud

3673 1024 96,70 41,70 16% 19,86

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I termini che più frequentemente ricorrono nel discorso di insediamento sono invece i seguenti:

23 amministrativo 17 ricorso 15 legge 14 problema 12 giustizia 10 consuntivo 8 funzione 7 procedura 7 magistrato 7 lavoro 6 regionale

Quest’ultima scheda conferma il taglio tecnico del discorso, che tende a coniugare la doverosa trattazione delle tematiche specifiche del Consiglio di Stato con una particolare attenzione al ruolo da esso svolto.

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Discorso di insediamento del Presidente Renato Laschena

30 agosto 1996

1. LA FIGURA DEL RELATORE Nato a Roma il 14 giugno 1929, e laureatosi giovanissimo in giurisprudenza, nonché in diritto canonico, entra nel 1952 nell’Avvocatura dello Stato come Procuratore, divenendo Sostituto Avvocato nel 1956. Nel 1960 vince il concorso per Referendario, iniziando così la sua carriera presso il Consiglio di Stato. Diventa Consigliere di Stato nel 1964 e Presidente di Sezione nel 1977. Presiede dal 1978 al 1987 il Tribunale amministrativo regionale della Puglia. Corona la propria carriera con la nomina a Presidente del Supremo organo di giustizia amministrativa nell’agosto del 1996, incarico ricoperto fino al 14 giugno 2001. È autore di numerosi studi e pubblicazioni giuridiche principalmente di diritto amministrativo. Ha ricoperto vari incarichi di carattere amministrativo, tra i quali quello di membro esperto della Commissione Centrale di Vigilanza per l’edilizia, di componente della Commissione di vigilanza sulla Cassa Depositi e Prestiti e sugli Istituti di Previdenza, di membro effettivo del Consiglio di Amministrazione dell’ANAS. Si è dedicato altresì all’insegnamento del diritto amministrativo presso l’Università La Sapienza di Roma. 2. IL CONTESTO STORICO Dopo che l’11 gennaio 1996 Lamberto Dini ha ribadito le dimissioni del suo esecutivo “tecnico” già rassegnate nel dicembre precedente e dopo che - attraverso una crisi di governo piuttosto tormentata e convulsa fallisce il tentativo di Antonio Maccanico di dar vita a una coalizione di “larghe intese” - il Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro scioglie le Camere e fissa

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la data delle elezioni al 21 aprile. La campagna elettorale - contraddistinta anche dalla polemica sulla “Par condicio” - è particolarmente tesa: si confrontano ben 120 partiti, ma in realtà, secondo una logica ormai chiaramente bipolare, la partita vera si gioca tra il Polo delle Libertà (Forza Italia, Alleanza Nazionale, CCD e CDU) di cui è leader indiscusso Silvio Berlusconi e l’Ulivo (Partito democratico di sinistra, Partito popolare, il neonato “Rinnovamento” di Dini, Unione democratica e Verdi) alla cui testa è Romano Prodi. Mentre Rifondazione Comunista stringe un “accordo di desistenza” con l’Ulivo, la Lega Nord decide di correre da sola. L’Ulivo esce vittorioso dal confronto con il 43,4 dei suffragi e Romano Prodi forma il nuovo Governo che vede per la prima volta tra i suoi membri otto esponenti postcomunisti. L’esecutivo ha una sua maggioranza autonoma al Senato, ma dipende alla Camera dai voti di Rifondazione. Negli ultimi mesi dell’anno comincia a delinearsi il dibattito intorno all’ipotesi di una Commissione bicamerale per le riforme istituzionali. 3. IL CONTESTO GIURIDICO-ISTITUZIONALE Più che su nuovi provvedimenti legislativi (per tutti va segnalato il D.P.R. 9.5.1994, n. 608 contenente il regolamento e le norme sul riordino degli organi collegiali dello Stato), l’attenzione è puntata sui cambiamenti intervenuti nel rapporto fra Amministrazione e giurisdizione amministrativa e sull’evoluzione concettuale dei vizi di legittimità dell’atto amministrativo; nonché sull’istituzione dei Tar con riferimento ai mutamenti della struttura dello Stato non più centralizzata. 4. L’IMPIANTO LOGICO-CONCETTUALE 1. Il nuovo rapporto tra i cittadini e una Pubblica Amministrazione ispirata a criteri di efficienza piuttosto che di legittimità formale. 2. Funzione consultiva e problemi tecnici: non basta la sola preparazione giuridica. 3. La trasparenza della funzione pubblica per consolidare il tessuto sociale. 4. La consultazione assicura trasparenza e imparzialità e cioè il buon andamento dell’azione amministrativa. 5. Giudicare è anche amministrare. 6. La sinergia tra i due gradi della giustizia amministrativa. 7. La ricostruzione del fatto è cruciale.

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8. Allargare il campo di osservazione a precetti e ordinamenti giuridici da cui derivano nuove istanze di giustizia. 9. Un giudizio non solo di corrispondenza tra norma e atto, ma anche di idoneità tra mezzi e risultati. 10. La proposta di istituire tre/quattro Corti amministrative di appello con competenze pluriregionali. 5. L’ARTICOLAZIONE DEI CONTENUTI IL CONSIGLIO DI STATO DI FRONTE ALLE TRASFORMAZIONI IN ATTO La cerimonia dell’insediamento è una occasione per riferire alle massime autorità dello stato le condizioni della giustizia amministrativa e segnalare a esse i maggiori problemi in rapporto allo sviluppo della società. Ciò nella consapevolezza del ruolo del Consiglio di Stato e dei limiti a esso connessi. Le maggiori trasformazioni di cui occorre tener conto sono: a) un rapporto tra cittadini e Pubblica Amministrazione sempre più aperto e partecipato; b) un’azione amministrativa sempre più ispirata a criteri di efficienza piuttosto che di legittimità. Il Consiglio di Stato si inserisce in questo processo istituzionale attraverso la complementarità tra funzione consultiva e giurisdizionale. Ciò al fine di assicurare un assetto amministrativo moderno e un controllo reale sulla efficacia e la correttezza della attività della Pubblica Amministrazione. Il sindacato giurisdizionale sull’Amministrazione è peculiare: basti pensare che il giudizio sulla ragionevolezza e sulla congruità dell’azione amministrativa può tener conto dei concreti risultati raggiunti. La complementarietà tra funzioni consultiva e giurisdizionale collega il momento procedimentale - nel quale si inserisce la consultazione - a quello successivo del conflitto dinanzi al giudice. Si delinea così un modello di giudice amministrativo conoscitore dei problemi dell’Amministrazione e dell’ordinamento dello Stato. È proprio questo modello che offre al cittadino la necessaria tutela e all’Amministrazione la garanzia della prevalenza dell’interesse pubblico. FUNZIONE CONSULTIVA E FUNZIONE GIURISDIZIONALE Non si può parlare di una prevalenza di una funzione sull’altra: il Consiglio di Stato presenta una natura composita, caratterizzata appunto dalle due funzioni. La difficoltà della funzione consultiva consiste nella necessità di considerare problemi anche tecnici per poter individuare soluzioni rispondenti non solo al dettato della legge, ma anche al principio del buon andamento

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dell’azione amministrativa. È evidente che per assumere una posizione imparziale di fronte alle organizzazioni economiche interessate è necessaria una preparazione non solo giuridica. Lo svolgimento della funzione consultiva implica infatti la necessità di penetrare nel vivo degli affari per individuare i punti di frizione ed elaborare possibili equilibri in una società che si evolve e si involve. La consultazione sugli atti di normazione secondaria riveste un ruolo centrale. La legge 400/88 ha generalizzato la consultazione obbligatoria su tutti gli schemi di regolamento sia governativi sia ministeriali. Nel quadro della c.d. delegificazione la consultazione obbligatoria avrà un ulteriore sviluppo: si pone quindi il problema di accelerare i tempi di pronunzia. Per la fine anticipata della legislatura l’apposito disegno di legge - che prevedeva una specifica sezione per gli affari normativi e il doppio esame solo per i regolamenti normativi - non ha avuto seguito. L’istituzione di una sezione ad hoc ha dei precedenti storici: la commissione temporanea di legislazione del 24 giugno 1860 e i lavori preparatori per l’Assemblea Costituente. FUNZIONE CONSULTIVA E FUNZIONE DI INDIRIZZO La funzione consultiva dovrà affiancare - nel quadro della prevedibile nuova articolazione organizzativa dello Stato - le amministrazioni più diverse, statali e non. Occorre allora aver presenti la varietà delle materie da affrontare, le situazioni concrete e i fatti, soprattutto quando si dovranno interpretare fonti pattizie e non solo leggi e regolamenti. Quando i pareri fondano l’azione amministrativa, la funzione consultiva finisce per assumere anche una vera e propria funzione di indirizzo. Alla funzione consultiva si chiede in genere conforto per affrontare il problema della responsabilità contabile e penale. In questo quadro di insieme - cui deve aggiungersi anche l’incidenza della legge 241/90 - si accrescono i compiti del Consiglio di Stato. Il materiale raccolto nell’esercizio della funzione consultiva, se opportunamente coordinato, può fornire indicazioni di carattere programmatorio o correttivo particolarmente utili per raggiungere l’obiettivo del buon andamento e dell’imparzialità. In questo lavoro è indispensabile un diffuso e continuo colloquio, innanzi tutto all’interno dello stesso Consiglio. Il patrimonio dei tanti apporti - anche comunitari - potrà accrescere la credibilità e il prestigio della Istituzione. LA FUNZIONE GIURISDIZIONALE E LA RIDEFINIZIONE DEL PARAMETRO DI LEGITTIMITÀ Per introdurre il discorso sulla funzione giurisdizionale occorre distinguere la posizione del cittadino da quella dell’Amministrazione. Il primo problema per il cittadino è quello dei tempi della giustizia amministrativa. Per quanto riguarda

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l’Amministrazione e il giudicato del giudice amministrativo bisogna sottolineare che la legittimità, come parametro del controllo, è stata ridefinita oltre i confini del canone di legalità e del conseguente accertamento della corrispondenza fra la volontà espressa dalla legge e la volontà espressa dall’atto amministrativo. Questa ridefinizione sta nel riconoscimento dell’esistenza nell’ordinamento di fonti diverse, a volte sovraordinate alla legge: norme costituzionali, principi generali, diritto comunitario. L’azione amministrativa non è più concepita come espressione di volontà, ma come attività conoscitiva, di valutazione e di scelta diretta al raggiungimento di un fine mediante la predisposizione dei mezzi più idonei: i principi di celerità, snellezza, efficacia, efficienza, economicità operano come canoni integrativi del parametro di legittimità dell’azione amministrativa e richiedono che il giudizio non sia soltanto un giudizio di corrispondenza fra norma e atto, ma anche un giudizio di idoneità tra mezzi e risultati. LE INIZIATIVE DI RIFORMA DEL PROCESSO AMMINISTRATIVO La disciplina del processo amministrativo è chiarita dalla giurisprudenza dell’Adunanza plenaria delle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato. Le esperienze delle iniziative di riforma del processo amministrativo maturate negli ultimi decenni non sono state positive. Perplessità e dubbi nel merito sarebbero stati attenuati, se non del tutto eliminati, seguendo il metodo del miglioramento dell’esistente. I problemi della giustizia amministrativa si risolvono non optando per altri tipi di processi, ma optando per un indirizzo di semplificazione dell’esistente. Si tratta tra l’altro di aggiustamenti a costo zero. A Costituzione vigente si potrebbe valorizzare la giurisdizione così detta esclusiva razionalizzando il criterio di riparto delle giurisdizioni per materia o per settori organici di attività. In tal senso va il disegno di legge governativo che elimina l’istituto arbitrale per le controversie in tema di opere pubbliche, affidando il compito allo stesso giudice. Altra questione è quella della responsabilità civile conseguente all’annullamento di atti illegittimi. Si supererebbe l’incomprensibile situazione per la quale il giudice è giudice dell’illegittimità del provvedimento e non delle conseguenze dell’illegittimità. IL DOPPIO GRADO Il doppio grado è stato previsto in sede costituente insieme con il potenziamento dell’amministrazione locale. La giurisdizione locale, attingendo alle multiformi realtà dei luoghi in cui opera, può non solo fornire al giudice di appello - eventualmente adito - elementi utili per la pronunzia, ma anche arricchire le sue esperienze.

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Si prospetta così un notevole sinergismo di azione tra i due gradi che supera la configurazione del secondo grado come controllo, per configurare la giurisdizione amministrativa come manifestazione di possibili convergenze e sviluppi. Si prospetta quindi anche un chiarimento delle richieste contenute nell’art. 44 TU 1054/1929. RAPPORTO TRA GIURISDIZIONE AMMINISTRATIVA E AMMINISTRAZIONE I pubblici uffici e i pubblici impiegati trovano nell’art. 97 della Costituzione il fondamento per amministrare secondo giustizia. Ma la realtà offre frequenti deviazioni che devono essere corrette a tutela dei cittadini e degli apparati di potere. In questo quadro, la maggiore preoccupazione deve essere la trasparenza della funzione pubblica per consolidare il tessuto sociale. Si tratta di un consolidamento possibile se il cittadino è posto in grado di intendere le motivazioni e i fini dell’attività pubblica. Una volta che il dissenso sia pervenuto in sede giudiziaria, la prima forma di collaborazione tra le parti deve essere quella di mettere a diposizione tutti gli elementi che sono alla base del provvedimento controverso (rif. art. 21, L. 1034/71 e art. 44 T.U. 1054/24). La trasparenza consente la riconduzione alla legge sia delle censure del cittadino, sia delle riserve dell’amministrazione. La trasparenza consente di pervenire dalla norma all’interesse tutelato, adattando la regola che può essere interpretata, al fatto che non può essere alterato ma solo disciplinato dalla norma. LA FUNZIONE GIUDIZIARIA IN UNO STATO MODERNO I coefficienti di elasticità vanno potenziati per dare ingresso alle nuove esperienze di trasparenza e partecipazione. Si tratta in effetti di far rivivere in sede giudiziaria la formazione del provvedimento contestato. Si delinea così la funzione giudiziaria in uno Stato moderno: una funzione esplicata come luogo di chiarificazione, razionalizzazione, eliminazione dei dissensi attraverso il confronto tra le parti. La funzione del giudice eccede i limiti del rapporto processuale perché la parte pubblica sta in giudizio come rappresentante di interessi di comunità più o meno estese. Il giudice, risolvendo la controversia, emette una pronunzia che, per la natura stessa dell’interesse trattato, va oltre la sfera intersoggettiva. Nel campo della giustizia amministrativa giudicare è amministrare, o almeno, è anche amministrare. Considerando la sua posizione di giudice di appello, al Consiglio di Stato vengono affidate funzioni di alta amministrazione. Dopo l’istituzione dei Tar, la risposta conclusiva alle istanze delle parti consente più immediati confronti tra pubblico e privato. Se si arriverà ad approntare mezzi idonei per rapide soluzioni, tali confronti potranno migliorare non poco l’ordinamento della Amministrazione.

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LA RICOSTRUZIONE DEL FATTO NELLA FASE GIUDIZIARIA L’indagine giudiziaria, come si è detto, non si esaurisce nell’accertamento della conformità alla legge. La tripartizione dei vizi di legittimità ha senso se indica la via di una loro integrazione. Si spiega così quella giurisprudenza più liberale che già da tempo ricerca i motivi del ricorso anche nell’esposizione del fatto e dei vizi in esso contenuti. Le deviazioni non sono di per sé adatte alla tipizzazione; la tipizzazione deve essere intesa come un affinamento di esperienze capaci di aiutare a cogliere malizia e abuso per ricondurli poi a forme che consentano l’applicazione delle misure sanzionatorie. In tal modo il giudizio amministrativo esprime una tensione alla ricostruzione della verità non minore di quella che si riscontra nel giudizio penale. La ricerca delle prove delimita causa petendi e petitum consentendo un contraddittorio adeguato e vincolando il thema decidendum. Si tratta di prospettive ancora più valide nella giustizia amministrativa decentrata: l’indirizzo formalistico spesso si associa all’accentramento del potere, mentre il colloquio, il confronto, l’arricchimento dei metodi viene favorito dal decentramento. Ritorna l’esigenza fondamentale di un adeguato approfondimento dei fatti e delle relative cause ed effetti: il tema di fondo della fase giudiziaria è il fatto nel cui ambito sorge la controversia. Essa è spesso motivata da contrastanti interpretazioni della norma che derivano anche da parziale o difettosa identificazione dei fatti. L’eccesso di potere si atteggia oggi sempre di più come vizio più che dell’atto o del provvedimento, della stessa attività amministrativa. LE NUOVE ISTANZE DI GIUSTIZIA I costituenti riaffermano, in polemica con l’ordinamento precedente, la onnicomprensività del ricorso al giudice come diritto fondamentale del cittadino. Questa prospettiva ha influito sugli orientamenti della giurisprudenza per l’ammissibilità dei mezzi di tutela; quanto ai contenuti si sono conservati gli orientamenti tradizionali che, del resto, la stessa Costituzione aveva recepito mantenendo la bipartizione tra diritti soggettivi e interessi legittimi. A 50 anni dalla Costituzione l’interesse pubblico, specie per effetto delle direttive comunitarie, è stato affiancato dagli interessi del mercato comune, per non parlare degli interessi diffusi e degli interessi di minoranze attive. Chi si propone di cogliere nella sua interezza l’oggetto della giustizia amministrativa deve allargare il campo di osservazione al metro di precetti che formano ordinamenti giuridici tra loro variamente coordinati dai quali derivano ineludibili istanze di giustizia. L’indagine del giudice amministrativo ha come suo oggetto la funzione pubblica e trae occasione dalle iniziative di coloro che se ne ritengono

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danneggiati ingiustamente. Tale indagine ha come parametro di riferimento principi e norme validi secondo fonti di legittimazione tendenti a moltiplicarsi che regolano tuttavia le relazioni tra amministratori e amministrati. L’ASSETTO ORDINAMENTALE DELLA GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA Al centro della giustizia amministrativa si trova il Consiglio di Stato con la sua duplice funzione che trova fondamento nella Costituzione (artt. 100 e 103). In attuazione dell’art. 125 con la legge 6 dicembre 1971, n. 1034 sono stati istituiti i Tar. Si è trattato di una riforma di struttura che ha inciso profondamente sui rapporti tra cittadino e pubblica amministrazione. Su questo assetto una riflessione si presenta spontanea in rapporto all’ampio dibattito si corso sulla forma dello Stato. In una struttura in cui le autonomie locali trovassero la più ampia realizzazione, sarebbe richiesta, come in altri ordinamenti europei, l’istituzione di Corti di appello (3 o 4) con competenze pluriregionali e con ricorso al Consiglio di Stato per motivi di legittimità. IL PERSONALE L’ultima osservazione è rivolta “agli uomini”. Il personale di magistratura adempie con onore le proprie funzioni: si tratta del resto di personale di elevata professionalità che accede ai due gradi con prove - e per il Consiglio di Stato anche con nomine - molto impegnative. Il Consiglio di Stato e i Tar sapranno svolgere anche in futuro il proprio ruolo di garanzia al servizio, come sempre, delle Istituzioni e del Paese. 6. LA LEGGIBILITÀ E LA COMPRENSIBILITÀ Il discorso del Presidente Laschena ha un indice di leggibilità di 37,86. Tale indice ci dice che si tratta di un documento “facile” per una platea di lettori forniti di laurea, ma già “difficile” per un pubblico fornito di diploma superiore5. Quanto agli effetti sul lettore, per il primo tipo di fruitore viene previsto un livello di lettura “indipendente” (cioè criticamente rielaborata), mentre per il secondo tipo ci si limita a un livello di “lettura scolastica” (quella per cui occorre un sostegno esterno). I parametri che determinano un tale indice di leggibilità sono i seguenti:

- le parole “fondamentali” sono il 72%, quelle molto “comuni” il 10%, quelle “comuni” l’1% e quelle “meno diffuse” il 17%;

5 E difatti il discorso risulta senz’altro “molto difficile” per i possessori di licenza media e “quasi incomprensibile” per quelli forniti della sola licenza elementare.

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- il testo è composto da 91 paragrafi, ciascuno dei quali contiene in media più di una frase e mezza (1,70) e circa 62 parole (62,20);

- le frasi lunghe (vale a dire quelle con più di 40 parole) sono 54, pari al 35,5% del discorso; le frasi brevi (vale a dire quelle con un massimo di 15 parole) sono 29, il 19,1% dell’intero testo.

La relativa “facilità” del discorso del Presidente Laschena è quindi ascrivibile non tanto alla percentuale di lemmi tecnico-specialistici (17%), quanto piuttosto alla complessiva tessitura dell’impianto, nel quale resta abbastanza consistente il numero delle frasi lunghe. In sostanza il Presidente Laschena si esprime con un linguaggio piano, ma in un contesto concettualmente complesso, in cui sia le scelte sintattiche, sia l’articolazione delle frasi contribuiscono a costruire un testo certamente coeso, ma anche non semplicissimo. LA COMPRENSIBILITÀ Il discorso del Presidente Laschena inizia con saluti molto sobri rivolti alle autorità presenti e con “affettuosi” pensieri indirizzati ai predecessori e in particolare al “vegliardo Presidente Papaldo”. L’intervento appare dispiegato - con un interno filo conduttore che ne collega gli undici “capitoli” - attorno a un obiettivo preciso: quello di delineare un nuovo ruolo della giustizia amministrativa, nel quadro di un processo di innovazione teso a consolidare nella Pubblica Amministrazione, di là del rispetto della legittimità formale, criteri di efficienza e di buon andamento amministrativo. Il linguaggio risulta piano e lineare, anche se in alcuni passaggi la complessità dei concetti esposti non riesce a dipanarsi compiutamente. Il discorso cerca di delineare infatti gli atteggiamenti e i comportamenti richiesti al giudice dalla nuova situazione. Essi implicano da parte del giudice un approccio diverso alle due funzioni (consultiva e giurisdizionale) viste in un rapporto di stretta sinergia e soprattutto di organico collegamento all’azione amministrativa. Il lessico utilizzato per tratteggiare queste articolate esigenze oscilla tra la volontà di facilitare la comprensione del contesto innovativo e la necessità di ridefinire, anche in termini tecnici, la nuova professionalità richiesta. L’indice di Guiraud si attesta difatti sul valore di 23,65. Tale valore sottolinea come il discorso del Presidente Laschena sia contraddistinto da una indubbia “ricchezza lessicale”, tra le più significative dell’intero universo dei testi considerati in questa ricerca. E difatti uno dei parametri principali considerati dall’indice di Guiraud (il numero delle “parole diverse” rispetto a quello di tutti i termini usati) ci dice che le prime sono 1708 su un totale di 5658. La sollecitazione al cambiamento non è astratta, ma articolata attraverso il riferimento a puntuali snodi giuridici, sicché il merito dell’intervento risulta

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impegnativo non tanto per l’uso di termini specialistici, quanto per la densità dei contenuti che intende trasmettere. L’assenza di figure retoriche e di citazioni esornative contribuisce a esaltare l’aspetto propositivo e sostanziale del discorso. Di conseguenza lo stesso schema logico dell’intervento del Presidente Laschena risulta in qualche modo inconsueto per la sua determinazione a illustrare le trasformazioni indotte nelle funzioni del giudice amministrativo sia dal processo innovativo della P.A., sia dal dibattito in corso sulla forma dello Stato e sul decentramento dei poteri. In coerenza con il tratto dominante dell’intervento mancano del tutto dati statistici e analisi delle carenze organizzative della magistratura amministrativa presenti in molti altri discorsi di insediamento. Il breve cenno ai tempi delle pronunzie viene fatto per sottolineare le aspettative dei cittadini nei confronti della giustizia amministrativa e per proporre possibili correttivi. I riferimenti storici (la legge del 24 ottobre 1860 e i lavori preparatori per l’Assemblea Costituente) sono funzionali a rafforzare la proposta dell’istituzione di una Sezione per gli Affari normativi. La tabella sintetizza visivamente alcune delle principali caratteristiche del testo appena esaminato:

DISCORSO DI INSEDIAMENTO DEL PRESIDENTE RENATO LASCHENA Indice Gulpease Numero dei

paragrafi Numero delle frasi Numero delle frasi

lunghe Numero delle frasi

brevi Media delle frasi

per paragrafo

37,86 91 152 54 (35,5 %) 29 (19,1%) 1,7 Totale delle parole

utilizzate Numero delle parole diverse

Media delle parole per paragrafo

Media delle parole per frase

Percentuale delle parole meno

diffuse i

Ricchezza lessicale di

Guiraud

5658 1708 62,20 37,20 17% 23,65 I termini che più frequentemente ricorrono nel discorso sono invece i

seguenti:

61 amministrativo 39 funzione 27 legge 27 amministrazione 24 giustizia 22 giudice 17 pubblico 16 norma

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16 consultivo 15 giurisdizione 14 problemi

Quest’ultima scheda sottolinea come le frequenze lessicali

contribuiscano a restituire il volto di un discorso centrato senza diversioni sulle questioni più rilevanti dell’ordinamento e delle prospettive del Consiglio di Stato.

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DDiissccoorrssoo ddii iinnsseeddiiaammeennttoo ddeell PPrreessiiddeennttee AAllbbeerrttoo DDee RRoobbeerrttoo

2277 sseetttteemmbbrree 22000011

1. LA FIGURA DEL RELATORE Ha iniziato la carriera giudiziaria nella magistratura ordinaria. Nel 1962 ha svolto attività di istituto nelle sezioni giurisdizionali e consultive del Consiglio di Stato. Nel 1974 è stato nominato Presidente del Tar dell'Umbria e, successivamente, nel 1978, del Tar della Lombardia. Rientrato al Consiglio di Stato ha presieduto la prima e la seconda sezione consultiva e la quarta sezione giurisdizionale. Nel 1987 è stato nominato Presidente Capo del Tar del Lazio, incarico che ha ricoperto fino al 1991. Il Presidente de Roberto ha espletato importanti incarichi in Uffici di collaborazione con organi di Governo. Dal 1993 al 1996 ha diretto il Dipartimento degli Affari giuridici e legislativi della Presidenza del Consiglio dei ministri. Ha svolto un'intensa attività di insegnamento e di studio, sia presso scuole della Pubblica Amministrazione (Scuola superiore della pubblica amministrazione, Scuola tributaria Vanoni, Scuola ufficiali carabinieri, Scuola superiore dell'Amministrazione interni etc.) che nelle università italiane di Salerno, Perugia, Roma La Sapienza, Roma Tor Vergata e LUISS. È autore di numerosi volumi e saggi dedicati, prevalentemente, a temi di giustizia amministrativa, tutela ambientale, urbanistica, lavori pubblici. Già Presidente della sesta sessione, ha assunto la carica di Presidente del Consiglio di Stato il 27 settembre 2001. È docente di diritto amministrativo presso l’Università degli studi di Teramo. 2. IL CONTESTO STORICO Siamo a ridosso dell’attentato (11 settembre) delle Torri Gemelle di New York. E il Presidente non manca di richiamare proprio all’inizio del suo

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discorso il clima che “vede sconvolta la serenità del vivere civile dopo il barbaro eccidio”. Quanto alla situazione politica italiana, l’insediamento del Presidente de Roberto si colloca nella primissima fase del nuovo governo Berlusconi, leader della Casa delle Libertà uscita vincitrice dalle elezioni politiche del maggio 2001. 3. IL CONTESTO GIURIDICO-ISTITUZIONALE La vicinanza nel tempo della cerimonia di insediamento con il tragico evento dell’11 settembre 2001 domina la scena: esso è citato nell’apertura del discorso di insediamento. Ma molti cambiamenti sono avvenuti in campo normativo. La legge 15 maggio 1997, n. 127, contenente le misure urgenti per lo snellimento dell’attività amministrativa e dei procedimenti di decisione e di controllo ha soppresso tutte le ipotesi di consultazione obbligatoria del Consiglio di Stato, salvo quelle attinenti alla normativa statale regolamentare (regolamenti governativi e ministeriali), agli accordi-tipo e al ricorso straordinario (art. 25) ed è stata perciò istituita la Sezione normativa del Consiglio di Stato. La legge 21 luglio 2000, n. 205, che detta disposizioni in materia di giustizia amministrativa, è certamente l’innovazione più significativa introdotta nel processo amministrativo, codificando orientamenti giurisprudenziali consolidati (come in tema di sentenze brevi) o in via di formazione (provvedimenti presidenziali e monocratici) ed introducendo norme in tema di giurisdizione e di pubblicità dei pareri del Consiglio di Stato. 4. L’IMPIANTO LOGICO-CONCETTUALE 1. Il Consiglio di Stato al servizio dei cittadini tra continuità e innovazione. 2. L’importanza del nuovo campo di azione assegnato alla giurisdizione amministrativa a partire dall’istituzione negli anni ’70 del giudice di primo grado distribuito su tutto il territorio. 3. Le recenti innovazioni relative all’ordinamento e all’organizzazione del Consiglio di Stato. 4. I maggiori problemi che accompagnano da tempo l’attività del Consiglio e alcune possibili soluzioni.

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5. L’ARTICOLAZIONE DEI CONTENUTI CONSIDERAZIONI GENERALI La cerimonia dell’insediamento - in un istituto “parco di riti” come il Consiglio di Stato - rappresenta l’occasione più adatta per rendere conto di eventi e innovazioni e per rappresentare i problemi più pressanti della giustizia amministrativa. L’affidamento al Consiglio di Stato di due distinte attribuzioni - quella giurisdizionale e quella consultiva - è un tratto comune a molti Consigli di Stato europei. In sede consultiva esso opera come soggetto in posizione di neutralità e indipendenza, come Stato ordinamento e non come Stato apparato. Il che garantisce l’autonomia di giudizio del Consiglio di Stato anche in sede giurisdizionale. Dapprima il solo Consiglio di Stato, poi - dagli anni ’70 - il Consiglio di Stato e i Tribunali amministrativi hanno svolto e svolgono un’azione di raccordo sistematico nell’interpretazione delle norme vigenti in vista di assicurare la giustizia nell’amministrazione e la tutela del cittadino. L’ATTRIBUZIONE ALLA GIURISDIZIONE AMMINISTRATIVA DI ULTERIORI MATERIE L’istituzione negli anni ‘70 del giudice di primo grado distribuito su tutto il territorio già aveva cominciato a rispondere con maggiore efficacia alle esigenze di giustizia dei cittadini. Ma recenti disposizioni hanno conferito ulteriori attribuzioni al giudice amministrativo, estendendo la sua giurisdizione anche a controversie che non coinvolgono interessi legittimi. Un ampliamento compensato però dalla sottrazione di larga parte del contenzioso riguardante il pubblico impiego. LA MODIFICAZIONE DELLE COMPETENZE DEL CONSIGLIO DI STATO IN SEDE CONSULTIVA La Legge 127/97 ha soppresso tutte le ipotesi di consultazione obbligatoria tranne che per i Regolamenti, i Testi unici e le Convenzioni tipo. La stessa legge prevede per il Consiglio di Stato anche una attività di elaborazione per la quale è stata istituita una sezione consultiva per gli atti normativi. Nel merito sono stati espressi già 1150 pareri in termini di legge. I NUOVI TRATTI DELLA ORGANIZZAZIONE DELLA MAGISTRATURA AMMINISTRATIVA Una prima novità si riferisce alla nuova composizione del Consiglio di presidenza, per il quale la legge 205/2000 ha previsto che insieme ai membri togati siano presenti quattro personalità espresse dal Parlamento tra docenti universitari ordinari di materie giuridiche e avvocati con venti anni di attività professionale. Peraltro la legge 205/2000 ha preannunziato un generale

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riordino della Magistratura amministrativa, aprendo una fase che pare preludere a iniziative tese a rafforzarne l’unità e il livello qualitativo. Un secondo aspetto saliente - di rilievo europeo - riguarda l’informatizzazione della giustizia amministrativa e la conseguente possibilità di far conoscere le decisioni del Consiglio anche attraverso la rete Internet. PROBLEMI E SOLUZIONI La questione aperta più rilevante consiste nell’arretrato giurisdizionale accumulatosi in oltre trent’anni: oltre 900.000 ricorsi pendono presso i Tar e quasi 27.000 presso il Consiglio di Stato. Il fatto è dovuto alla istituzione del giudizio di primo grado che, favorendo un più facile accesso alla tutela giurisprudenziale, ha allargato le proporzioni del contenzioso. Da qualche tempo, però, l’arretrato non è più esposto alla crescita progressiva degli anni passati. Una certa flessione si è prodotta anche perché il pubblico impiego è stato sottratto alla giurisdizione amministrativa. Si può sperare nel raggiungimento di un pareggio tra ricorsi in entrata e ricorsi in uscita e su una pur limitata riduzione dell’arretrato. Sta maturando infatti una più alta produttività dovuta sia all’uso sempre più largo di strumenti informatici, sia alle misure di semplificazione del processo introdotte dalla legge 205/2000. Resta il fatto che con le forze attuali appare impossibile eliminare in tempi ragionevoli l’arretrato pregresso. Si propone perciò:

- l’istituzione di sezioni stralcio per l’arretrato meno prossimo; - l’incremento, sia pur modesto, del personale della Magistratura; - la definizione di un’ampia dotazione organica del personale amministrativo; - l’assegnazione di adeguate risorse finanziarie.

6. LA LEGGIBILITÀ E LA COMPRENSIBILITÀ LA LEGGIBILITÀ Secondo l’indice Gulpease la leggibilità del discorso del Presidente De Roberto tocca l’indice di 41,43. Il dato segnala che ci troviamo di fronte a un documento “facile” per un fruitore fornito di un diploma di scuola secondaria superiore. Esso sarà tanto più facile per un laureato6. È bene notare però che l’indice di 41,43 relativo al discorso del Presidente De Roberto si colloca

6 Anche in questo caso, per completezza di informazione, riportiamo le valutazioni di leggibilità per gli altri due titoli di studio: il testo viene giudicato da Gulpease “quasi incomprensibile” per chi è fornito di una istruzione elementare e “molto difficile” per chi è fornito di una istruzione media.

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appena al di sopra della soglia di 40 che - per i lettori forniti di istruzione secondaria superiore - separa la definizione di “facile” da quella di “difficile”. Questi i parametri che determinano il livello di leggibilità del discorso del Presidente De Roberto: le parole “fondamentali” sono il 70%, quelle molto “comuni” il 10%, quelle “comuni” l’1% e quelle “meno diffuse” il 19%. Quanto alla struttura del testo, esso si snoda lungo 88 paragrafi, ciascuno dei quali contiene in media poco più di una frase (1,1) e circa 34 parole. Le frasi lunghe (vale a dire quelle con più di 40 parole) sono di numero significativamente inferiore alle frasi corte (vale a dire quelle con un massimo di 15 parole): le prime sono difatti 20 (pari al 19,8% del testo), le seconde 26 (pari al 25,7%). È evidente che, nonostante la significativa percentuale dei termini tecnico-specialistici (una caratteristica, peraltro, inevitabile data la natura del discorso e la platea cui esso viene rivolto), la valutazione di “facile” del discorso è determinata soprattutto dalla struttura del periodo contraddistinta da frasi dalla lunghezza mediamente contenuta. In sostanza il testo del Presidente De Roberto mira a fissare i concetti in uno spazio breve e si propone in questo modo di rendere più netto e incisivo il taglio del suo discorso. LA COMPRENSIBILITÀ Il discorso del Presidente De Roberto ha un taglio tecnico-giuridico, che - al di là dei ringraziamenti formulati nell’esordio - tende a sottrarsi ai manierismi e alle ritualità dell’occasione. L’indice di Guiraud ci segnala la “ricchezza lessicale” del testo, attraverso la misurazione dell’uso diversificato delle parole. Nel caso in esame l’indice di 20,05 è assai vicino al valore medio di 20,16 -qualitativamente alto - dei quindici discorsi di insediamento. Non a caso il parametro fondamentale da considerare (quello delle parole diverse rispetto alla somma di tutti i termini usati) ci dice che le prime sono 1097 su un totale di 2992. Proprio la stagione di riforme da cui è stata investita nell’ultimo decennio la Pubblica Amministrazione, induce il relatore a considerare e valutare il ruolo e le funzioni del Consiglio di Stato alla luce di queste innovazioni, connettendo così l’attività dell’organo della magistratura amministrativa al più generale contesto politico, sociale e normativo. Il ricorso ai dati si limita alla definizione dell’arretrato giudiziario, sia dei Tar, sia del Consiglio di Stato. Del tutto assenti invece sia il richiamo a citazioni dotte, sia l’uso di figurazioni esornative. La limpidezza dell’articolazione dei contenuti, espressi con un linguaggio indubbiamente asciutto e puntuale, rischia però di venir in qualche modo appannata da una scansione per punti alfanumerici non sempre del tutto coerenti con la connessione logica dei diversi argomenti. Questo giudizio è peraltro legato all’esame del testo scritto, in cui le incongruenze della

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paragrafazione appaiono più evidenti. È del tutto probabile invece che, all’ascolto, il discorso sia suonato più fluido e connesso. La tabella seguente riassume visivamente alcune delle principali caratteristiche del testo appena esaminato:

DISCORSO DI INSEDIAMENTO DEL PRESIDENTE ALBERTO DE ROBERTO Indice Gulpease Numero dei

paragrafi Numero delle frasi Numero delle frasi

lunghe Numero delle frasi

brevi Media delle frasi

per paragrafo

41,43 88 101 20 (19,8%) 26 (25,7%) 1,10 Totale delle parole

utilizzate Numero delle parole diverse

Media delle parole per paragrafo

Media delle parole per frase

Percentuale delle parole meno

diffuse

Ricchezza lessicale di

Guiraud

2992 1097 34 29,6 19% 20,05 I termini che più frequentemente ricorrono nel discorso di insediamento sono invece i seguenti:

29 amministrativo 16 consultivo 13 pubblico 12 ricorso 8 giurisdizionale 8 parere 8 giustizia 7 tempo 7 norma 4 ricorso 4 innovazione

Quest’ultima scheda ribadisce ancora una volta il fatto che il discorso tende a coniugare la doverosa trattazione delle tematiche specifiche del Consiglio di Stato con una particolare attenzione al ruolo da esso svolto - in calibrato equilibrio tra continuità e innovazione - al servizio dei cittadini.

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1. LA FIGURA DEL RELATORE Nato il 18 marzo 1901 a Castelvetrano in provincia di Trapani, consegue a soli 23 anni la Laurea in Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Palermo. La sua vita professionale nella P.A. inizia quando nel 1924 viene nominato Volontario nel Ministero delle finanze e destinato all’Agenzia delle imposte di Piombino. Successivamente viene nominato Procuratore di seconda classe. Vince quindi il Concorso pubblico per esami a 20 posti di Vice Segretario della Corte dei conti, collocandosi al 5° posto in graduatoria e prosegue la sua carriera presso la Corte con la successiva nomina a Volontario nella Corte stessa. Radiato dai ruoli del Ministero delle finanze in seguito a tale nomina, si concentra nella sua carriera, conseguendo la promozione al grado di Primo Segretario. Il 1° gennaio del 1938 è destinato a svolgere la sua attività presso gli Uffici della Delegazione di Harrar con il grado di Referendario; successivamente è assegnato alla Delegazione di Tripoli e contemporaneamente aggregato alla sezione Giurisdizionale. Cessa di essere assegnato agli Uffici di Tripoli e riprende servizio nel Regno con le funzioni di Referendario per poi trasferirsi al nord, nel 1943. Nel 1953 diventa Consigliere della Corte. Nel 1969 partecipa al Collegio dei Revisori del Fondo Siciliano per l’Assistenza ed il Collocamento dei lavoratori disoccupati, divenendo poi componente effettivo del Collegio dei Revisori dell’Azienda Autonoma per la gestione del patrimonio turistico alberghiero della Regione Siciliana. Raggiunge il coronamento della sua carriera nel 1970, quando viene nominato Presidente della Corte dei conti, esercitando le relative funzioni sino alla data di collocamento a riposo, per raggiunti limiti di età, nel 1971.

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2. IL CONTESTO STORICO Il discorso di insediamento del Presidente Rossano cade in una fase particolarmente mossa, e per certi aspetti traumatica, della storia recente del nostro Paese. Siamo difatti non solo all’immediato ridosso del biennio 1968-69 segnato dall’esplosione del movimento giovanile e dall’autunno caldo operaio, ma pure agli inizi di quegli anni Settanta che saranno contraddistinti non solo e non tanto dalla progressiva crisi dell’esperienza del primo centro-sinistra, quanto dalla crescente e drammatica deriva del terrorismo. A fronte di una società sempre più articolata e percorsa da una elevata conflittualità politica e sindacale, l’intero quadro politico entra in fibrillazione: nel giro di otto anni si avranno due elezioni anticipate, più di dieci governi dalle più diverse formule di centrosinistra e di neocentrismo, il tesissimo referendum sul divorzio, il radicarsi dell’unità d’azione dei sindacati, l’affermazione crescente dell’opposizione comunista culminata nel “sorpasso” alle amministrative del 1975. Certo, alla fine del 1970, un tale processo è ancora soltanto ai suoi inizi, anche se vicinissimi sono gli echi e le ricadute del nuovo protagonismo di giovani, donne e operai e se il terrorismo ha già fatto le sue prime, cruente prove. Meno di un anno prima del discorso di Rossano, l’Italia è stata sconvolta (12 dicembre 1969) dall’attentato alla Banca dell’Agricoltura di Milano, con cui si apre una spirale destinata a culminare - lungo una quasi ininterrotta scia di sangue - nel 1978 con l’assassinio di Aldo Moro. Ma quando Raffaele Rossano si insedia, il fatto del giorno è la recentissima (luglio 1970) approvazione - dopo un lungo e teso itinerario parlamentare - dell’ordinamento regionale a suo tempo previsto dalla Costituzione. E difatti il discorso del Presidente non manca di dedicare ampio spazio alla novità intervenuta e alle sue conseguenze sul ruolo specifico della Corte dei conti. 3. IL CONTESTO GIURIDICO-ISTITUZIONALE Il 1970 è l’anno in cui viene approvato il cosiddetto “Statuto dei lavoratori” con la legge 20 maggio 1970, n. 300, che pone l’Italia al passo con i più avanzati paesi europei, come per la innovativa legge sul diritto di famiglia. Il profilo normativo che viene considerato nel discorso è però solo quello attinente ai controlli di competenza della Corte dei conti esercitate anche nei confronti delle Regioni a Statuto Speciale come la Valle d’Aosta.

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4. L’IMPIANTO LOGICO-CONCETTUALE 1. Il saluto 2. La funzione del controllo esterno 3. Il nuovo ordinamento delle Regioni: rivendicazione alla Corte del ruolo di controllo sui loro atti 4. La giurisdizione contabile: la necessità di aggiornamenti, ma prudentemente meditati 5. Perorazione conclusiva 5. L’ARTICOLAZIONE DEI CONTENUTI IL SALUTO Ringraziamento per aver finalmente nominato il Presidente dopo vari mesi di sede vacante1 e di averlo scelto secondo un principio “saggio e opportuno” all’interno della Corte. Un saluto “tanto più affettuoso” perché fatto da un magistrato che nella Corte “ha servito per più di 44 anni”. Particolare è il ricordo a Ferdinando Carbone “eletta figura di magistrato” che ha retto la corte per “tre lustri”. Ma egli pure si avvicina alla pensione, per cui le sue “brevi parole” avranno anche il “sapore del commiato”2. E tuttavia non si esimerà dal compiere una “rapida rassegna” sulle funzioni della Corte e sui problemi aperti. IL RUOLO DELLA CORTE DEI CONTI Le funzioni di questa “suprema Magistratura” sono di grande rilievo e trovano “riconoscimento ed esaltazione” nella Costituzione. La funzione del “controllo esterno, pubblico, indipendente” è quella con cui la Corte assicura la legalità della gestione del bilancio dello Stato. È una funzione di cooperazione e di indipendenza nei confronti del Parlamento: funzione che diviene ancora più significativa ora che, oltre alle Regioni a statuto speciale, si è appena giunti all’integrale attuazione dell’ordinamento regionale. IL PROBLEMA POSTO DAL NUOVO ORDINAMENTO REGIONALE: RIVENDICAZIONE ALLA CORTE DEL RUOLO DI CONTROLLO SUI LORO ATTI

1 Dal 5 aprile 1970 al 27 agosto 1970. 2 Il mandato presidenziale di Raffaele Rossano scadrà il 18 marzo 1971.

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Si tratta di considerare se il controllo su atti di enti dotati di autonomia legislativa quali le Regioni possa essere devoluto - come prevede la legge n. 62/53 e come già avviene per la Valle d’Aosta - a una apposita Commissione che per la sua stessa “promiscua composizione” non ha carattere di neutralità. O se invece non convenga prevedere - come peraltro già accade per le altre Regioni a statuto speciale e come pare suggerire l’articolo 125 della Costituzione - che il controllo spetti alla Corte “organo di antica tradizione e di rilevanza costituzionale”: tutto questo, naturalmente, riferendo, come già si fa al Parlamento per gli atti dello Stato, ai Consigli regionali. LA GIURISDIZIONE CONTABILE A essa la Costituzione ha dato nuova dimensione, allargandola “a tutte le gestioni pubbliche”. Resta naturalmente in tutto il suo rilievo la giurisdizione delle pensioni ordinarie e speciali. È vero, c’è una certa usura del tempo di tali funzioni, ma si può porre rimedio con “nuovi modelli di maggiore efficienza”. E tuttavia occorre su questo terreno muoversi con cautela, per non entrare in collisione con le funzioni assegnate alla Corte. Quindi attenta verifica della normativa esistente prima di procedere a eventuali snellimenti. Non a caso sono in corso presso la Corte studi in fase ormai avanzata. È comunque auspicabile “razionalizzare l’esercizio della giurisdizione contabile attraverso un adeguato decentramento regionale”, nella previsione che già nella prima fase del nuovo ordinamento regionale si presume che “ben 150mila conti” affluiranno alla Corte. Non si sofferma, perché ben note e più volte pubblicamente ribadite, sulle ragioni dell’arretrato. RAPIDA PERORAZIONE CONCLUSIVA Ha parlato con “brevissimi cenni, come è [suo] costume, assai semplicemente”. Invito finale a lavorare con dedizione al servizio del Paese. 6. LA LEGGIBILITÀ E LA COMPRENSIBILITÀ LA LEGGIBILITÀ Il discorso del Presidente Rossano ha un indice Gulpease di 41,83. Il dato segnala che ci troviamo di fronte a un documento “facile” per un fruitore fornito di un diploma di scuola secondaria superiore. Esso sarà tanto più facile per un laureato3. Va tuttavia osservato come l’indice di 41,83 si collochi 3 Si riportano per completezza di informazione le valutazioni di leggibilità per gli altri due titoli di studio: il testo viene giudicato da Gulpease “quasi incomprensibile” per chi è fornito di una istruzione elementare e “molto difficile” per chi è fornito di una istruzione media.

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non troppo lontano dalla soglia di 40 che - per i lettori forniti di istruzione secondaria superiore - separa la definizione di “facile” da quella di “difficile”. Questi i parametri che determinano il livello di leggibilità del discorso del Presidente Rossano: le parole “fondamentali” sono il 72%, quelle molto “comuni” il 10%, quelle “comuni” il 2% e quelle “meno diffuse” il 16%. Quanto alla struttura del testo, esso è composto da 50 paragrafi, formati in media da quasi una frase e mezza (1,3) e da 48,4 parole. Si può quindi dedurre che il testo del Presidente Rossano privilegia uno stile espositivo articolato, distinto da una ipotassi piuttosto pronunciata. È evidente che nel caso in questione la relativa difficoltà del testo è provocata non tanto dalla percentuale (16%) di termini tecnico-specialistici (tra le più basse dell’universo dei documenti esaminati in questa ricerca), quanto piuttosto dalla presenza abbastanza pronunciata di frasi lunghe. Queste sono difatti 24 (pari al 36,9% del testo) a fronte di 13 frasi corte (pari al 20% del testo). Rossano, dopo una non breve vacanza della presidenza della Corte, subentra a una figura autorevole e prestigiosa come quella di Ferdinando Carbone. Anch’egli però è alla vigilia del raggiungimento dei limiti di età. Il discorso ha pertanto un taglio segnato da un voluto understatement, nella misurata consapevolezza dei tempi ristretti del suo incarico. Rossano non manca tuttavia di esprimere con garbo il suo punto di vista su alcuni dei problemi all’ordine del giorno della Corte, primo fra tutti quello del neo ordinamento regionalistico, rispetto al quale rivendica con una certa fermezza ruolo e competenze dell’Istituzione da lui presieduta. LA COMPRENSIBILITÀ L’indice di Guiraud segnala la “ricchezza lessicale” del testo, misurandone l’uso diversificato delle parole. Nel caso in esame il valore di 17,64 sta a ribadire come il discorso di insediamento del Presidente Rossano, pur di livello qualitativamente alto, sia tra quelli che presentino un labor limae meno insistito. Su un totale di 2421 parole, quelle diverse sono infatti 868. Linguaggio e cifra espositiva sono non a caso omogenei a un impianto concettuale certamente non dimesso e tuttavia consapevole dell’orizzonte necessariamente limitato del mandato presidenziale. Il lessico è tecnico, ma senza indulgenze tecnicistiche, la figurazione retorica ridotta all’essenziale, pur con qualche compiacimento per il chiasmo e la dittologia sinonimica. La tabella seguente sintetizza le principali caratteristiche del testo appena esaminato:

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DISCORSO DI INSEDIAMENTO DEL PRESIDENTE RAFFAELE ROSSANO

Indice Gulpease Numero dei paragrafi

Numero delle frasi Numero delle frasi lunghe

Numero delle frasi brevi

Media delle frasi per paragrafo

41,83 50 65 24 (36,9%) 13 (20%) 1,3 Totale delle parole

utilizzate Numero delle parole diverse

Media delle parole per paragrafo

Media delle parole per frase

Percentuale delle parole meno

diffuse

Ricchezza lessicale di

Guiraud

2421 868 48,4 37,2 16% 17,64 I termini che più frequentemente ricorrono nel discorso di insediamento sono invece i seguenti:

17 funzione 12 pubblico 10 statuto 9 problema 9 atto 8 magistrato 6 pensione 6 contabile 5 procedimento 4 costituzione 3 tradizione

La tabella sta a confermare come il discorso di insediamento del Presidente Rossano, pur segnato dalla consapevolezza dei tempi ristretti del suo incarico, non rinunci a esprimere alcuni punti di vista sui problemi all’ordine del giorno della Corte, a cominciare da quello già allora in qualche modo tradizionale dell’arretrato pensionistico.

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1. LA FIGURA DEL RELATORE Nato a Castellamare di Stabia, in provincia di Napoli, il 28 giugno 1903, consegue la Laurea in Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Roma. Il suo percorso professionale lo vede ben presto partecipare ad arbitrati e a svolgere incarichi peculiari, inizialmente per conto della Prefettura, in materia esattoriale e di imposte di consumo. Viene poi nominato Volontario presso la dogana di Campobasso, poi Sottoispettore Aggiunto e subito dopo presta servizio all’Ufficio Statistico di Roma. Nel 1928, in seguito a nomina, svolge le funzioni di Vice Segretario nell’Amministrazione Centrale e presso le Intendenze. Le sue doti e le sue abilità professionali determinano in breve tempo la promozione prima a Segretario e poi a Primo Segretario; nel 1934 viene cancellato dai Ruoli dell’Amministrazione Centrale e dalle Intendenze di Finanze, perché vince, collocandosi al 13° posto in graduatoria, il concorso di Aiuto Referendario nella Corte dei conti. Nel 1947, per merito comparativo, viene promosso Referendario con compiti di Sostituto Procuratore Generale della Corte dei conti. Nominato Direttore presso l’Ufficio di Controllo P.P.O.O, presiede al coordinamento e al controllo rendiconti e contabilità delle Amministrazioni Statali. La sua carriera professionale prosegue con la promozione a Primo Referendario nel 1952 e, dopo quattro anni, con la nomina a Consigliere della Corte dei conti. Le funzioni di Capo di Gabinetto del Ministero del tesoro lo portano provvisoriamente distante dalla Corte.

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Terminata questa esperienza nel 1966, rientra alla Corte con la nomina di Presidente di Sezione. Associa agli incarichi istituzionali la partecipazione a numerose Commissioni esaminatrici dei Concorsi nel Ministero dei trasporti, nel Ministero degli interni, nella Corte dei conti, nelle Dogane e nella Ragioneria generale dello Stato. Ha collaborato, in seno alla Commissione Ministeriali di studio-aggiornamento delle tabelle di equiparazione dei gradi civili e militari, ed ha apportato un contributo attivo in seno alla Commissione Interministeriale in materia di indennizzi per beni perduti in Etiopia. Fra gli incarichi rilevanti, è stato membro del Consiglio di amministrazione dell’ENI e Segretario del Consiglio di amministrazione del personale della Corte dei conti. Nel 1971 viene nominato Presidente della Corte dei conti, fino al suo collocamento riposo, nel 1973. 2. IL CONTESTO STORICO Il Presidente Greco subentra dopo appena un anno al Presidente Rossano. Il contesto di medio-lungo termine è quindi nella sostanza quello già precedentemente ricordato. Si può qui precisare, per quanto riguarda il breve periodo, che - mentre nel paese perdurano strascichi ed echi della cosiddetta “strategia della tensione” - si accentua lungo la vita pur non brevissima del ministero Colombo (6 agosto 1970 - 15 gennaio 1972) la crisi della prima stagione del centro-sinistra. La coalizione - condizionata da una congiuntura economica che comincia a dare segni importanti di sofferenza, stretta tra le spinte divaricate di manifestazioni inedite nella vita repubblicana quali quelle delle “maggioranze silenziose” e delle spinte del Partito socialista verso “equilibri più avanzati” - si logora giorno dopo giorno. La crisi, anticipata dalla contrastata elezione di Giovanni Leone alla Presidenza della Repubblica il 24 dicembre 1971 dopo 24 scrutini e con una maggioranza assai ristretta, è destinata a sfociare nelle elezioni politiche anticipate del maggio 1972. Pur non segnando una modifica significativa dei rapporti numerici tra i partiti (a parte un certo rafforzamento del Movimento Sociale Italiano), il voto determina la formazione di un gabinetto che esclude dal ministero i socialisti: è il cosiddetto governo Andreotti-Malagodi (26 giugno 1972 - 12 giugno 1973). Peraltro, l’unico accenno di attualità del discorso riguarda - pour cause - le conseguenze dell’ancora fresca costituzione dell’ordinamento regionale sulle funzioni della Corte.

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3. IL CONTESTO GIURIDICO-ISTITUZIONALE Emerge pressante l’esigenza di un provvedimento legislativo che riordini e aggiorni le norme di contabilità di Stato e, più in generale, l’azione amministrativa per portare a esecuzione il processo di ammodernamento della pubblica amministrazione; sottolineandosi la necessità di utilizzare gli studi avviati dai predecessori in tema di controllo (esterno, preventivo e indipendente) effettuato dalla Corte dei conti, anche con riferimento a quello sugli atti delle Regioni. Per quanto riguarda il profilo giurisdizionale si evidenzia la necessità di istituire Sezioni Regionali (che diventeranno una realtà quasi venti anni dopo) al fine di completare il processo di decentramento amministrativo con il decentramento delle funzioni giurisdizionali. 4. L’IMPIANTO LOGICO-CONCETTUALE 1. Saluti e ringraziamenti 2. L’adeguamento alla Costituzione: il sindacato di controllo tra aggiornamento e continuità 3. La funzione giurisdizionale: il “doloroso problema” delle pensioni 4. Meccanizzazione e più attento utilizzo del personale 5. La “novella garanzia” per l’autonomia della Corte e la collaborazione (un “possibile filtro”) con la Corte Costituzionale. 6. La Corte nelle organizzazioni internazionali 5. L’ARTICOLAZIONE DEI CONTENUTI SALUTI E RINGRAZIAMENTI Particolarmente calorosi - “questo sentimento anche mio personale voglio primieramente esprimere” - quelli al Presidente della Repubblica [Giuseppe Saragat ormai alla vigilia del “semestre bianco, n.d.r.] e quelli al presidente emerito della Corte Ferdinando Carbone e al predecessore Raffaele Rossano. Le parole “che si è compiaciuto di pronunciare il signor Presidente del Consiglio” [Emilio Colombo, n.d.r.] costituiscono “nuova testimonianza” della sensibilità del governo verso le esigenze della Corte.

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La “dignitosa e insigne tradizione (ammonitrice) della Corte non è statica immobilità, bensì continuità ideale di principi”. L’emozione per un incarico che comporta di avviare a compimento “concrete proposte di riforma dell’ordinamento” della Corte. IL SINDACATO DI CONTROLLO TRA AGGIORNAMENTO E CONTINUITÀ La Corte è ben consapevole di quanto comporti nel suo ruolo di controllo e nell’esigenza di riordino della pubblica Amministrazione l’attuazione dei precetti costituzionali. Fra i provvedimenti da tempo auspicati vi sono l’aggiornamento delle norme di contabilità dello Stato e la disciplina generale dell’azione amministrativa. Gli studi avviati da Ferdinando Carbone, proseguiti da Raffaele Rossano sono maturi per essere affidati alla valutazione del Parlamento e del Governo. Ma la Corte può assumere - a fronte dell’inadeguatezza del controllo meramente documentale - schemi nuovi senza perdere il suo tradizionale connotato di controllo esterno, pubblico e indipendente: un sindacato di controllo che si deve riferire all’attività amministrativa nel suo complesso. Si rinnova l’auspicio a che Parlamento e Governo riesaminino il problema del controllo degli atti delle Regioni. LA FUNZIONE GIURISDIZIONALE È ormai confermato (Cassazione, Corte Costituzionale) che tale funzione è estesa a tutta la pubblica finanza. Si augura che divenga presto legge dello Stato l’istituzione delle Sezioni regionali. Il “doloroso problema” della “notevole pendenza di ricorsi in materia di pensioni di guerra e ordinarie”: carenze di procedura, ma anche “alto livello di litigiosità proprio del settore”. E tuttavia pure per questa materia uno snellimento può essere reso possibile dal decentramento delle funzioni giurisdizionali. I SISTEMI DI RILEVAZIONE ED ELABORAZIONE ELETTRONICI Alla Corte è in atto un attento studio che dura da anni. Positivi sono gli effetti della meccanizzazione, che possono essere di ausilio alla maggiore funzionalità degli uffici, anche con un “più accorto impiego” del personale che sussidia l’opera dei magistrati. Sarà istituito un “asilo-nido, utile, edificante ed inderogabile conquista della moderna civiltà del lavoro”. LE MODIFICHE ALLA LEGISLAZIONE VIGENTE “Inderogabile!” è l’adeguamento ai precetti costituzionali della nostra magistratura e al suo stato giuridico tuttora regolato da leggi che risalgono al 1862 e al 1933. Sono necessarie “novelle garanzie” per nomine,

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assegnazioni, provvedimenti e promozioni al fine di rafforzare indipendenza, neutralità ed equidistanza della Corte. Possibile affiancamento alla Corte Costituzionale come “filtro” per materie quali quelle della spesa pubblica che più raramente - sotto il riguardo della legittimità costituzionale - emergono nell’ambito giurisdizionale. LA DIMENSIONE “SOPRANNAZIONALE” Merita infine dare impulso alla presenza della Corte in seno agli organi di controllo delle varie Comunità internazionali. 6. LA LEGGIBILITÀ E LA COMPRENSIBILITÀ LA LEGGIBILITÀ Il discorso del Presidente Greco ottiene un indice di leggibilità pari a 37,88. Questo valore precisa che il documento è sostanzialmente “facile” per un pubblico fornito di laurea, ma precisa anche come esso possa risultare piuttosto “difficile” già per dei lettori in possesso un diploma secondario superiore4. L’indice di 37,88 segnala altresì che soltanto la prima categoria di potenziali fruitori andrebbe incontro a un livello di “lettura indipendente” (che non richiede cioè la presenza di un docente o di un esperto per orientarsi all’interno del documento), mentre la seconda dovrebbe limitarsi a una lettura scolastica (assistita cioè da un docente e/o da un esperto). Va infatti sottolineato come l’indice di 37,88 del discorso del Presidente Greco si collochi infatti abbastanza vicino a quella soglia di 35 che - anche per lettori laureati - individua l’area (31-35) di una leggibilità “difficile”. Questi i parametri che determinano l’indice di leggibilità del discorso del Presidente:

- le parole “fondamentali” sono il 70%; - le “molto comuni” il 10%; - le “comuni” l’1%; - le “meno diffuse” il 19%.

Il discorso si articola in 56 paragrafi, ciascuno formato mediamente da 1,3 frasi di 44,1 parole. Le frasi lunghe - vale a dire quelle con più di 40 parole - sono 29 (il 43,3% dell’intero testo) e le frasi brevi - vale a dire quelle con un massimo di 15 parole - 6 (il 9%). È evidente che a incidere sulla relativa “facilità” del testo del Presidente

4 Un indice Gulpease di 37,88 individua un testo “molto difficile” per il licenziati dell’obbligo e “quasi incomprensibile” per chi avesse concluso solo la scuola elementare.

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Greco sono sia la forte presenza di frasi lunghe (quasi metà del discorso è contraddistinta da esse), sia la significativa percentuale (superiore a quella media dell’universo dei quindici discorsi) della terminologia tecnico- specialistica. In sostanza, l’intervento del Presidente Greco si presenta per durata temporale, impianto concettuale e scelta espositiva con tutte le caratteristiche di un tradizionale discorso di insediamento. Garbato nei toni, fermo in alcune affermazioni di principio ma volutamente (e in qualche modo, stante la sede ufficiale, necessariamente) generico nelle proposte innovative. Il linguaggio è sostanzialmente piano, con poche indulgenze al lemma classicheggiante (“primieramente”). La cifra stilistica si distingue per un uso parco del giro di frase retorico (“dignitosa e insigne tradizione ammonitrice”), della reiterazione degli aggettivi (pur presenti in numero cospicuo) e delle endiadi. Assenti invece non solo le citazioni, ma anche le allegorie e le diverse forme di metafora. Per concludere, il testo del Presidente Rossano tende a enunciare i concetti in uno spazio piuttosto disteso e articolato: in sintonia, del resto, con il gusto e i canoni del suo tempo. LA COMPRENSIBILITÀ L’indice di Guiraud ci segnala la “ricchezza lessicale” del testo, attraverso la misurazione dell’uso diversificato delle parole. Nel caso in esame l’indice di 20,14 conferma che il discorso di insediamento del Presidente Greco è di livello qualitativamente alto. Non a caso uno dei parametri considerati (quello delle parole diverse rispetto al totale di tutti i termini usati) ci dice che le prime sono 1095 rispetto a un totale di 2956. La tabella seguente riassume alcune delle principali caratteristiche del testo appena esaminato:

DISCORSO DI INSEDIAMENTO DEL PRESIDENTE EDUARDO GRECO Indice Gulpease Numero dei

paragrafi Numero delle frasi Numero delle frasi

lunghe Numero delle frasi

brevi Media delle frasi

per paragrafo

37,88 56 67 29 (43,3%) 6 (9%) 1,3 Totale delle parole

utilizzate Numero delle parole diverse

Media delle parole per paragrafo

Media delle parole per frase

Percentuale delle parole meno

diffuse

Ricchezza lessicale di

Guiraud

2956 1095 55,8 44,1 19% 20,14 I termini che più frequentemente ricorrono nel discorso di insediamento sono invece i seguenti:

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19 controllo 13 pubblico 12 ordinamento 12 funzione 12 legge 9 esigenza 9 costituzionale 8 norma 7 amministrativo 6 provvedimento 6 procedura 4 innovazione

Quest’ultima tabella sta a confermare come il discorso del Presidente Greco ricorra a linguaggio piano, distinto da una terminologia sostanzialmente tecnica e da una scarsa indulgenza per il lemma aulico o retoricamente ridondante.

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1. LA FIGURA DEL RELATORE Nato a Sora ( FR ) il 2 maggio del 1908, si laurea in Giurisprudenza e consegue l’abilitazione alla professione forense. Esercita l’attività legale soprattutto presso il Tribunale di Napoli, essendo ripetutamente nominato Commissario giudiziale per la sezione fallimentare. Il suo iter professionale nella P.A inizia nel 1935, quando entra nell’Amministrazione Finanziaria, essendosi classificato 6° nel concorso a 100 posti di Vicesegretario. Presta servizio presso la R. Intendenza di Finanza di Salerno. La competenza giuridica in campo tributario e procedurale, gli consente di affrontare vertenze complesse, anche in materia relativa alle tasse sugli affari. Trasferito, in seguito a concorso per titoli, nel Sottosegretariato per gli Scambi e per le Valute, viene promosso al grado 9° con la qualifica di Primo Segretario. Vincitore del concorso per esami di merito a 12 posti di Consigliere e promosso a tale grado dal 14 marzo 1941, approfondisce i suoi studi ed è autore di numerose pubblicazioni in materia di giurisdizione speciale della Corte dei conti, sul nuovo statuto dei funzionari pubblici in Francia e in Germania, sulla proposta di riforma dell’ordinamento gerarchico, relativamente all’avventiziato. Viene promosso, per merito comparativo, a Caposezione (gr.VII). Nel 1946 è collocato fuori ruolo per prestare la propria opera presso la Presidenza del Consiglio dei ministri. Successivamente è promosso per merito comparativo al grado di Ispettore Generale nel Ministero del commercio con l’estero. Fra i diversi incarichi ricoperti, partecipa come componente di Commissioni esaminatrici di concorso presso i ministeri della Difesa Marina, dell’Aeronautica, della Pubblica istruzione, della Sanità, del Tesoro e presso l’Inps.

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Nel 1967 diventa Presidente di Sezione della Corte e dal 21 settembre 1976 viene nominato Presidente della Corte dei conti sino alla data del suo collocamento a riposo, per raggiunto limite di età, nel maggio del 1978. Muore a Roma il 12 ottobre del 2003. 2. IL CONTESTO STORICO I risultati della consultazione elettorale del giugno 1976 sono contraddistinti da una forte affermazione delle due maggiori formazioni politiche, la Democrazia cristiana e il Partito comunista, il quale peraltro manca quel “sorpasso” che pure il recente voto amministrativo del 1975 aveva in qualche modo prefigurato come possibile. Il nuovo quadro parlamentare lascia a questo punto aperto il problema di delineare una nuova formula di governo. I socialisti usciti ridimensionati dalle urne non sono infatti disponibili a una riedizione del centrosinistra; al tempo stesso non esistono i margini numerici per un ritorno al centrismo, né quelli politici per un esecutivo di “compromesso storico”. Si giunge così a un gabinetto monocolore democristiano, guidato da Giulio Andreotti, passato alla storia come il “governo delle astensioni” perché sorretto in Parlamento dalle astensioni di tutti gruppi, missini e radicali esclusi. Si tratta di una risposta unitaria da un lato alla crisi economica (cui il Presidente Campbell fa un puntuale riferimento nel suo discorso), dall’altro all’acuirsi sempre più drammatico del fenomeno terrorista: nel 1976 le BR uccidono il procuratore Coco e sequestrano il giudice Sossi. 3. IL CONTESTO GIURIDICO-ISTITUZIONALE L’insediamento avviene a pochi giorni dalla pubblicazione della pronuncia della Corte Costituzionale che, con sentenza n. 226 in data 18.11.1976, ha riconosciuto definitivamente natura magistratuale alla Corte dei conti anche nell’esercizio della funzione di controllo ad essa attribuita dalla Costituzione. Il sistema di controlli (preventivo, successivo e consuntivo) deve essere snellito e semplificativo, migliorando il coordinamento funzionale fra il procedimento di controllo ed il giudizio di responsabilità; mentre vanno velocizzati i procedimenti giurisdizionali. 4. L’IMPIANTO LOGICO-CONCETTUALE

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1. Il controllo preventivo non deve determinare ritardi inammissibili per il prestigio dell’Istituto. 2. Evitare la tendenza a sostituire il controllo successivo a quello preventivo. 3. La lentezza del contenzioso si oppone alla “sete di giustizia” dei cittadini. 5. L’ARTICOLAZIONE DEI CONTENUTI LA CONNOTAZIONE MAGISTRATUALE DELLA CORTE E LO SNELLIMENTO DELLE PROCEDURE Subito dopo i saluti di rito, il Presidente Campbell ritiene opportuno ricordare il recente riconoscimento da parte della Corte Costituzionale, (sentenza n. 226 del 18 novembre 1976) della connotazione magistratuale della Corte dei conti. Proprio dal pieno riconoscimento della sua specifica connotazione la Corte trarrà “maggior motivo” per svolgere, con un impegno responsabile e consapevole, l’esercizio del controllo. Un compito questo da realizzare in sintonia con la moderna esigenza di speditezza dell’azione amministrativa, con piena dedizione, con l’orgoglio di adempiere bene il proprio dovere e con l’umiltà di chi antepone “ad ogni altro” il superiore interesse dello Stato: tanto più in una situazione, come la presente, caratterizzata dal deterioramento della finanza pubblica e dell’economia in generale, così “duramente percossa dall’inflazione”. Un costruttivo snellimento delle procedure del controllo implica una definizione dei quadri organici, un coordinamento del controllo preventivo e successivo sugli atti e di quello consultivo sulle contabilità e sui rendiconti. Un riassetto della vigente legislazione in materia sarebbe auspicabile. In proposito la Corte ha già presentato le proprie proposte al Governo, mostrando la sua meditata disponibilità nel merito. È doveroso inoltre segnalare all’attenzione dei magistrati la necessità di evitare che il controllo preventivo determini ritardi inammissibili per il prestigio dell’Istituto: i creditori dello Stato non possono e non debbono attendere a causa della scarsa speditezza delle funzioni della Corte. CONTROLLO SUCCESSIVO E CONSUNTIVO. LA NECESSITÀ DELLA FISSAZIONE DEI TERMINI In questo contesto assume particolare rilievo il vasto compito del controllo successivo sugli atti e del controllo consuntivo sui rendiconti e sulle contabilità. È opportuno segnalare la tendenza a sostituire il controllo successivo a quello preventivo. Se questa tendenza si traducesse in realtà si sottrarrebbe alla Corte un compito essenziale affidatole dalla Costituzione: quello di essere un organo ausiliario dell’ordinamento giuridico, preordinato

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ad assicurare la legittimità dell’operato della P.A. Infatti la illegittimità, anche senza danno patrimoniale, rimane dannosa poiché determina una rottura dell’ordinamento giuridico. Un rimedio alla lentezza del procedimento si può trovare senza dubbio nella fissazione di termini prevista nelle proposte di riforma. Analoghi termini debbono essere imposti anche all’Amministrazione attiva per la presentazione dei propri atti al controllo. Non è insolito infatti che tali atti pervengano alla Corte per il visto prescritto molto dopo la loro adozione ed esecuzione. LA FUNZIONE REFERENTE Un cenno particolare merita “la funzione referente”. La relazione annuale sulla parificazione del bilancio consuntivo dello Stato riscuote infatti notevole eco nella stampa e nella pubblica opinione. Un significativo apprezzamento viene riservato anche alle numerose relazioni al Parlamento sul risultato del controllo della gestione degli Enti. LA SITUAZIONE ATTUALE DELLA GIURISDIZIONE CONTENZIOSA La conclusione dei giudizi sui ricorsi “espone una lista di attesa” che si misura in lustri. Occorre nel merito una radicale revisione delle norme. La “sete di giustizia” del cittadino è infatti collegata alla istanza di celerità. La Corte ha già da tempo reso nota la sua posizione favorevole a un nuovo regolamento di procedura per i giudizi pensionistici. Senza questo riordinamento sarebbe vano attendersi un “esodo volontario” della valanga dei giudizi pendenti. ESORTAZIONI E AUGURI CONCLUSIVI Il Presidente conclude con l’augurio di buon lavoro al personale della Corte e con l’esortazione a dare il massimo apporto personale nell’assolvimento dei rispettivi compiti. 6. LA LEGGIBILITÀ E LA COMPRENSIBILITÀ LA LEGGIBILITÀ L’intervento - che si caratterizza per la sua brevità - si apre con il ringraziamento al Presidente della Repubblica Giovanni Leone per l’onore della sua presenza che conferisce “una più accentuata solennità alla seduta”. Ai saluti alle altre autorità presenti, segue un pensiero “riconoscente” ai tre predecessori Carbone, Greco e Cataldi che partecipano alla cerimonia di

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insediamento. Il tono è solenne, ma non retorico. In tutto l’intervento, del resto, si avverte la meditata consapevolezza dell’importanza del ruolo che la Corte svolge nell’ordinamento dello Stato e della dignità istituzionale affidata ai suoi membri. Il discorso del Presidente Campbell presenta un indice Gulpease pari a 37,91. Questo valore ci segnala che il documento è sostanzialmente “facile” per un pubblico fornito di laurea, ma ci avverte pure come esso possa risultare piuttosto “difficile” già per dei lettori in possesso un diploma secondario superiore5. Quanto agli effetti sul lettore, il documento prevede per il primo tipo di fruitore un livello di “lettura indipendente” - che consente di orientarsi nel testo senza particolari problemi - mentre i diplomati si dovrebbero limitare a una “lettura scolastica”, assistita cioè dalla presenza di un docente e/o di un esperto. L’indice di 37,91 si colloca infatti abbastanza vicino a quella soglia di 35 che - anche per lettori laureati - individua l’area (31-35) di una leggibilità “difficile”. I parametri che determinano l’indice di leggibilità del discorso del Presidente Campbell risultano i seguenti: le parole “fondamentali” sono solo 67%, le “molto comuni” il 10%, le “comuni” l’1% e le “meno diffuse” ben il 22%. Quanto alla struttura, il testo, si compone di appena 30 paragrafi, ciascuno dei quali contiene però in media 1,3 frasi, a loro volta mediamente costituite da 37 parole. Le frasi lunghe (vale a dire quelle con più di 40 parole) sono 11 e incidono per 28,9% del testo; le frasi corte (vale a dire quelle con un massimo di 15 parole) sono 7, pari al 18,4%. È evidente che la relativa “facilità” del testo del Presidente Campbell è dovuta soprattutto a una percentuale (22%) dei termini tecnico-specialistici non solo superiore alla media dell’universo dei documenti considerati in questa ricerca, ma pure diffusi in un discorso che - sempre tra i testi qui analizzati - è tra i più brevi. In sostanza il discorso del Presidente Campell, pur indubbiamente molto efficace, proprio per il fatto di costringere i concetti in uno testo molto sintetico si configura di non semplicissima lettura. LA COMPRENSIBILITÀ L’indice di Guiraud segnala che la “ricchezza lessicale complessa” del discorso del Presidente Campbell, è di 18,02. Su questo valore non elevatissimo incide di nuovo sia la brevità del discorso, sia la sua spiccata cifra specialistica, che induce l’autore a un taglio molto mirato ristretto del lessico.

5 E difatti il testo sarebbe “molto difficile” per il licenziati dell’obbligo e “quasi incomprensibile” per chi avesse concluso solo la scuola elementare.

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Peraltro l’impianto concettuale è piano, segnato dal gusto per un vocabolario classicamente forbito (seppur non particolarmente vario) e per un’ipotassi aulicamente sorvegliata. La cifra stilistica prevalente è comunque quella dell’aderenza alla specificità della funzione della Corte, che porta il relatore a un uso sostenuto di termini specialistici. Non di meno i concetti si snodano con sufficiente chiarezza, senza inutili grovigli tecnici. Le difficoltà non lievi che la magistratura si trova ad affrontare sono esposte con molta precisione, ma l’intervento non assume mai il tono della lamentazione o del reclamo. I correttivi alla lentezza delle procedure sono da affidare non solo a iniziative di riforma, ma anche alla “nota saggezza della Corte”. Il riferimento alla responsabilità personale dei membri della Corte è garbato e rispettoso, ma pure fermo. Non a caso l’intervento si conclude con l’esortazione a dare, “con solerzia e impegno il massimo apporto”. Non manca il ricorso all’ironia e all’efficacia del climax ascendente: si veda, ad esempio, nella conclusione il riferimento alla “vana attesa di un ‘esodo volontario’ della valanga di giudizi pendenti, recenti, remoti, remotissimi”. Mancano invece del tutto dati statistici che risulterebbero del resto poco coerenti con la saggia e bonaria e in qualche modo paterna relazione del Presidente Campbell. Le tre citazioni sono riservate al tema della “sete di giustizia del cittadino” di fronte alla lentezza dei giudizi. La prima, assai classica, riprende le parole della Magna Carta: “A nessuno sarà venduto, a nessuno sarà negato o ritardato il diritto di giustizia”. La seconda si rifà, con il gusto del richiamo erudito, a un articolo del “Giornale Ufficiale di Napoli” risalente ai primi anni dell’unità d’Italia: “una giustizia lenta è già guasta dalla ingiustizia della lentezza che la ha preceduta”. La terza infine ci riporta alla contemporaneità del 1970 ed è tratta dalla Relazione annuale sullo stato della giustizia del Consiglio superiore della magistratura: “la lunga attesa della giustizia costituisce una ulteriore offesa alle ragioni fatte valere in giudizio - offesa spesso anche più grave del torto sofferto - perché in luogo di sanare le conseguenze le convalida nel tempo”. La tabella che segue riassume visivamente alcune delle principali caratteristiche del testo appena esaminato:

DISCORSO DI INSEDIAMENTO DEL PRESIDENTE EUGENIO CAMPBELL Indice Gulpease Numero dei

paragrafi Numero delle frasi Numero delle frasi

lunghe Numero delle frasi

brevi Media delle frasi

per paragrafo

37,91 30 38 11 (28,9%) 7 (18,4%) 1,3 Totale delle parole

utilizzate Numero delle parole diverse

Media delle parole per paragrafo

Media delle parole per frase

Percentuale delle parole meno

diffuse

Ricchezza lessicale Guiraud

1407 676 46,9 37 22% 18,02

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I termini che più frequentemente ricorrono nel discorso di insediamento sono invece i seguenti:

6 tempo 5 atto 4 pubblico 4 funzione 3 risultato 3 procedura 3 ordinamento 3 prestigio 3 istanza 3 amministrativo

Quest’ultima tabella ribadisce ancora una volta come il discorso privilegi un registro espressivo segnato da una forte incidenza della terminologia tecnico-specialistica.

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1. LA FIGURA DEL RELATORE Nato a Napoli il 30 luglio 1928 e laureatosi in Giurisprudenza nella locale Università, con il massimo dei voti e lode il 7 aprile del 1951, consegue nell’anno successivo l’abilitazione alla professione forense. Nel 1953 entra a far parte della Pubblica Amministrazione, risultando vincitore del Concorso a Vice Segretario presso il Ministero difesa marina. Nel 1957 partecipa come relatore a un corso di specializzazione per funzionari inglesi di prima nomina, organizzato a Londra dal Ministro del Tesoro Britannico, conferendo in inglese sulla Costituzione e sulla P.A. italiane. Non molto tempo dopo (1959) si classifica 3° al concorso di Vice Referendario della Corte dei conti e viene assegnato all’Ufficio di Controllo sugli atti dei Ministeri Industria e Commercio. Prosegue il suo percorso professionale con la nomina a Referendario e successivamente a Primo Referendario. Nominato Consigliere nel 1972, viene destinato alla Commissione di Controllo sugli atti della Regione Marche. Frequenta quindi uno stage a Bruxelles presso il Controllo Finanziario della CEE; le sue esperienze lavorative si diversificano e dal 1973 al 1980 viene assegnato al servizio Relazioni per il Parlamento, dove predispone schemi di relazioni per le Sezioni riunite concernenti l’attività di numerose P.A. e della Commissione per le Comunità Europee. Dal marzo del 1992 è Presidente della sezione giurisdizionale per la Puglia, ma in seguito chiede l’assegnazione alle funzioni di Delegato al Controllo presso l’Istituto Nazionale per il Commercio Estero. È stato componente delle Sezioni riunite giurisdizionali della Corte per circa 20 anni, durante i quali ha continuato a svolgere incarichi di particolare importanza, ricoprendo il ruolo di Presidente, di Revisore di enti pubblici ed anche di delegato supplente all’IRI. Rappresenta inoltre la Corte dei conti nella Delegazione Ufficiale Italiana presieduta dal Senatore Zappulli, recatasi in Usa, al fine di acquisire notizie dirette sul funzionamento del sistema di

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controllo sulla spesa pubblica statunitense. È relatore, in inglese, al IX convegno delle istituzioni superiori di controllo, svoltosi a Lima in Perù, nel quale viene elaborata la Dichiarazione sui principi generali di controllo della finanza pubblica. Studioso di Diritto Pubblico comparato segnatamente dei paesi anglosassoni e dell’ex Unione Sovietica, partecipa a numerosi convegni apportando il suo attivo contributo con interventi e pubblicazioni su riviste specializzate. Il dott. Sernia, chiamato alla presidenza della Corte dei conti il 13 dicembre 1998, è cessato dall’incarico - un biennio oltre i limiti di età - il 31 luglio del 2000. 2. IL CONTESTO STORICO La sterile consumazione dell’esperienza della Bicamerale (giugno 1998), la scissione di Rifondazione comunista, il ribadito primato dei “professionisti della politica” avevano portato alla caduta del gabinetto Prodi (7 ottobre 1998) e aperto le porte al primo governo D’Alema (22 ottobre 1998), innescando da subito le vivaci polemiche sul cosiddetto “ribaltone”. Sono fatti che inevitabilmente condizioneranno l’anno 1999. In Italia il referendum per l’abolizione della quota proporzionale fallirà per un soffio il raggiungimento del quorum (18 aprile) e Carlo Azeglio Ciampi verrà eletto al primo scrutinio e con un accordo bipartisan Presidente della Repubblica (13 maggio). Ritorna l’incubo del terrorismo: le Brigate Rosse assassinano il professor D’Antona (20 maggio). Il 13 giugno si voterà per il Parlamento Europeo: le elezioni faranno registrare un netto successo di Forza Italia che tornerà a essere il primo partito del Paese. Nel contesto internazionale l’evento più significativo sarà quello della guerra che, a seguito della questione kossovara, la Nato condurrà contro la Serbia di Milosevic (18 marzo-10 giugno). 3. IL CONTESTO GIURIDICO-ISTITUZIONALE L’entrata in vigore della legge 18 novembre 1998, n. 415, che ha modificato la legge 11 febbraio 1994, n. 109 in tema di lavori pubblici, ed il relativo regolamento di attuazione costituiscono un importante tappa di riordino di quella intricata materia, che ha avuto il momento di maggiore complicazione nel periodo 1995 - 1997 e, in precedenza, con la emergenza del terremoto in Campania (1992).

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Nel marzo 1998 per la prima volta la Corte dei conti - Sezione di controllo - ha deferito alla Corte di Giustizia della Comunità Europea una questione pregiudiziale ex art. 177 del Trattato in tema di appalti pubblici di servizi. La legge n. 639/1996 ha limitato gli effetti delle pronunzie di condanna della Corte emesse nei confronti dei pubblici amministratori, circoscrivendole ai soli casi di dolo e colpa grave. Con decreto legislativo 25 febbraio 1997, n. 77 è stato introdotto il nuovo ordinamento finanziario e contabile degli enti locali. Infine, la trasformazione di aziende ed amministrazioni autonome, come Poste, Ferrovie e Anas in enti e società per azioni ha fatto confluire questi nuovi organismi nell’ambito della Sezione di controllo della Corte dei conti. 4. L’IMPIANTO LOGICO-CONCETTUALE 1. Un saluto non rituale: la novità dei tempi 2. Una fase nuova: il carattere collaborativo del controllo della Corte sulla gestione delle Pubbliche Amministrazioni. 3. Gli sprechi e gli abusi cui può condurre la legislazione di emergenza: il caso del terremoto irpino del 1980 e la gestione dei lavori pubblici nel periodo 1995-1997. 4. L’intervento pubblico tra legittimità ed efficacia dell’azione amministrativa. 5. Gli Organi di controllo interno: resistenze da parte delle Pubbliche amministrazioni 6. Il contenzioso pensionistico: un punto dolente. 7. Il controllo-referto a Parlamento e Regioni: un’azione non tanto inquisitoria, quanto conoscitiva e collaborativa. 8. L’esigenza di una trasparenza affidata soprattutto alla coscienza dei singoli operatori e all’orgoglio di servire il Paese. 9. Il saluto conclusivo. 5. L’ARTICOLAZIONE DEI CONTENUTI I SALUTI Secondo una prassi ricorrente, il dottor Sernia formula la sua “profonda gratitudine” al Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro e le sue “vivissime grazie” alle numerose autorità presenti. Un “saluto riconoscente” è rivolto ai suoi predecessori (Giuseppe Carbone ed Ettore Costa) presenti in aula. Sottolinea con forza l’importanza che alla presidenza dell’Istituzione

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ritorni un magistrato di carriera entrato alla Corte nel “lontano 1959”: un segno anche per le nuove leve dei magistrati contabili, che “dopo una dura selezione” entrano a far parte della “famiglia” dell’Istituto. Il relatore sottolinea quindi il mutamento dei tempi e le nuove responsabilità da assolvere, per le quali non basta più la “aprioristica stima basata sulle tradizioni secolari”: ormai la fiducia del cittadino va conquistata (“oserei dire”) giorno per giorno. “L’Istituto si è adattato al nuovo abito che il Parlamento gli ha cucito addosso...pur con qualche nostalgia per il vestito dismesso”. IL CONTROLLO DELLA CORTE NELLA NUOVA FASE I mutati poteri della Corte in merito ai controlli sulle gestioni delle P.A. prevedono una costante collaborazione in itinere : le relazioni istruttorie sono di norma trasmesse alle Amministrazioni interessate, in modo che delle loro osservazioni e controdeduzioni si possa tener conto in sede di formale delibera collegiale. Si afferma così il carattere collaborativo rispetto a quello sanzionatorio, pur ancora presente per i casi residui di atti ministeriali sottoposti al controllo preventivo. RISCHI E LIMITI DEI PROVVEDIMENTI ESECUTIVI DI EMERGENZA: IL CASO DEL TERREMOTO DEL 1980 E LA GESTIONE DEI LAVORI PUBBLICI NEL PERIODO 1995-1997 Il relatore sottolinea che nel 1998 le deliberazioni della Sezione di controllo sono state più di ottanta. Ne ricorda due in particolare, relative al terremoto dell’Irpinia del 1980-81, a testimonianza “desolante” non solo di “code deprecabili”, ma anche degli sprechi e degli abusi connessi alla legislazione e ai provvedimenti esecutivi di emergenza. Il Presidente Sernia riafferma quindi l’intenzione sua e dei Presidenti di sezione predisposti al controllo che, a fronte di irregolarità di gestione o di inefficienza gestionale, le Amministrazioni interessate diano seguito ai necessari correttivi, mancando i quali la Corte eserciterà i poteri sanzionatori riconosciuti dalla sentenza della Corte Costituzionale. Il discorso va ribadito per la gestione dei lavori pubblici da parte di alcune Amministrazioni nel triennio 1995-1997. LEGITTIMITÀ AMMINISTRATIVA ED EFFICIENZA/EFFICACIA DELL’INTERVENTO PUBBLICO Nel personale della Corte si va affermando accanto alla considerazione dei parametri di legittimità dell’azione amministrativa - costituenti comunque il prius di ogni indagine settoriale - il ricorso a criteri aziendalistici di misurazione della economicità, efficienza ed efficacia dell’intervento pubblico. Il che, in un futuro non lontano, potrebbe portare la Corte a competere con le

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società di revisione nella certificazione dei bilanci, come già sperimentato dal National Audit Office britannico. RITARDI E RESISTENZE DELLE P.A. IN MERITO AI LORO ORGANI DI CONTROLLO INTERNO Pur presieduti per un periodo limitato da magistrati della Corte, gli Organi di controllo interno delle P.A. incontrano resistenze e carenza di collaborazione. Se non vi sarà una inversione di tendenza, si ritarderà uno degli aspetti significativi della riforma che chiama la Corte a svolgere quasi un ruolo di secondo grado quale controllore esterno e neutrale. IL SETTORE GIURISDIZIONALE: PER LA CORTE NON SOLO UN RUOLO SANZIONATORIO Il Presidente Sernia si limita a brevi cenni, poiché la trattazione analitica verrà fatta dal Procuratore Generale nell’imminente apertura dell’anno giudiziario. Ricorda la sua non breve esperienza di magistrato nelle cosiddette “regioni a rischio” (Puglia, Campania) per ribadire che il pubblico spesso conosce solo il volto sanzionatorio e riparatore della Corte. Ma nelle Amministrazioni più sane va affiorando un aspetto che conferisce alla Corte un ruolo di “regolazione”: molti pubblici amministratori fanno riferimento alle decisioni delle Sezioni giurisdizionali regionali per evitare gli errori commessi da loro colleghi. Sono numerose inoltre le istanze di privati cittadini (anche in forma anonima) che denunziano abusi, “nepotismi postrinascimentali”, sperpero di risorse. IL PUNTO DOLENTE DEL CONTENZIOSO PENSIONISTICO Perdurano invece, nonostante i decentramenti intervenuti nel 1991 e nel 1994, i ritardi nella definizione dei giudizi sulle pensioni. Tra le cause: difficoltà nel reperimento della documentazione probatoria, carenze degli organici. E nel settore che presenta il maggiore arretrato, quello delle pensioni di guerra, poco possono incidere le nuove procedure informatiche. Un ausilio potrà venire dall’approvazione del D.D.L. del Governo che prevede in materia la possibilità di decisioni “monocratiche” del Presidente della Sezione. IL CONTROLLO-REFERTO DELLA CORTE A quella tradizionale destinata al Parlamento, si sono aggiunte le pronunce dei Collegi regionali di controllo, per cui - specie in alcune Regioni del Nord (Toscana, Veneto, Liguria) - si è stabilita una fruttuosa collaborazione, fondata non sull’attività inquisitrice, ma su un apporto conoscitivo e propositivo. Si è altresì intensificata l’attività di referto svolta dalla Sezione di

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controllo sugli enti sovvenzionati dallo Stato, nel cui ambito vengono ora a ricadere - dopo la loro avvenuta trasformazione in SPA - enti quali le Poste, le Ferrovie e l’ANAS. Ma naturalmente l’attività di referto più tradizionale e più nota all’opinione pubblica continua a essere la relazione annuale al Parlamento. Essa acquista oggi un significato ancora più pregnante alla luce dei Trattati di Maastricht e di Amsterdam e del patto di stabilità e di crescita della U.E., poiché può offrire una verifica delle compatibilità tra le tendenze della finanza pubblica italiana e le regole europee in materia di politiche di bilancio. LA CORTE E LA TRASPARENZA AMMINISTRATIVA Va sottolineata la nascita di nuovi Osservatori per monitorare gestioni di rilevante entità o l’attuazione di leggi di particolare rilievo finanziario e sociale. I casi del General Accounting Office negli USA cui chiunque può telefonare per denunce anche anonime e del Controllore statale in Israele che ha costretto il premier a riversare all’Erario somme per spese non attinenti all’esercizio della funzione. Ma la Corte - Sernia lo ribadisce con forza - non si candida al ruolo di difensore civico e respinge la logica della denuncia “infilata nella bocca della verità”. La trasparenza nasce infatti piuttosto dall’opera quotidiana dell’azione di controllo-referto, in cui peraltro non si ignorano i cahiers de doléance circa la necessità di leggi meno numerose e più chiare. Nasce soprattutto “nell’intimo delle coscienze” di pubblici amministratori e funzionari efficacemente retribuiti e orgogliosi di servire la collettività. Quanto alla trasparenza “nelle mura domestiche”, si è di recente stabilito che non possano essere autorizzati dalle P.A. incarichi a magistrati operanti nell’area del controllo, se questi non hanno cessato da almeno due anni dalle loro funzioni. SALUTO CONCLUSIVO Rivolto al Presidente della Repubblica, ai colleghi magistrati e al “personale tutto” della Corte. 6. LA LEGGIBILITÀ E LA COMPRENSIBILITÀ LA LEGGIBILITÀ L’indice Gulpease del discorso del Presidente Sernia è pari a 37,59. Questo valore segnala che la leggibilità del documento è sostanzialmente “facile” per un pubblico provvisto di laurea, ma precisa anche come la leggibilità sia invece piuttosto “difficile” già per dei lettori in possesso di un diploma

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secondario superiore6. L’indice di 37,59 ci dice pure che soltanto il primo gruppo di fruitori (i laureati) andrebbe incontro a un livello di “lettura indipendente”, mentre il secondo gruppo (i diplomati) dovrebbe limitarsi a una lettura scolastica, assistita cioè da un docente e/o da un esperto per potersi adeguatamente orientare all’interno del testo. Non per niente, l’indice di 37,59 del discorso del Presidente Sernia si colloca quasi a ridosso di quella soglia di 35 che - anche per lettori laureati - individua l’area (31-35) di una leggibilità “difficile”. Questi i parametri che determinano l’indice di leggibilità del discorso del Presidente Sernia: le parole “fondamentali” sono il 68%, quelle molto “comuni” il 10%, quelle “comuni” il 2% e quelle “meno diffuse” il 20%. Il testo è composto da 67 paragrafi, ciascuno dei quali contiene in media una frase e mezza (1,5) e quasi 70 parole (69,20). Le frasi lunghe (vale a dire quelle con più di 40 parole) sono di numero significativamente superiore alle frasi corte (vale a dire quelle con un massimo di 15 parole): le prime sono difatti 52 (pari al 51,5% del testo), le seconde sono solo 8 (pari al 7,9%). Si può dedurre che la relativa “facilità” del testo del Presidente Sernia è provocata non solo dall’alta percentuale (20%) dei termini tecnico-specialistici, ma pure dalla netta prevalenza delle frasi lunghe su quelle brevi. In sostanza, il Presidente Sernia tende a esprimersi seguendo un impianto concettuale fortemente strutturato, in cui sia le scelte sintattiche, sia l’articolazione delle frasi contribuiscono a costruire un testo certamente coeso, ma anche abbastanza complesso: una scelta che non può sorprendere se ci si limita a considerare la sede del discorso e i suoi immediati destinatari. LA COMPRENSIBILITÀ L’indice di Guiraud, che nel caso in esame si attesta sul valore di 23,88, sottolinea come il discorso sia contraddistinto da una indubbia “ricchezza lessicale”. Non a caso uno dei parametri principali considerati da tale indice (il numero delle “parole diverse” rispetto a quello di tutti i termini usati) ci dice che le prime sono 1626 su un totale di 2992. L’intervento del Presidente Sernia - un poco più lungo rispetto alla media dei discorsi di insediamento considerati in questa ricerca - è costruito difatti secondo un impianto concettuale solido e coeso. Esso è sostenuto non solo da un procedimento logico rigoroso e da un’articolazione serrata degli argomenti ma pure dal richiamo puntuale - e talora persino puntiglioso - sia alle normative legislative italiane e ai dati dell’attività recente della Corte, sia a Istituzioni, leggi e persino episodi di cronaca attuale relativi ad altri paesi.

6 Un indice Gulpease di 37,59 individua un testo “molto difficile” per il licenziati dell’obbligo e “quasi incomprensibile” per quelli della scuola elementare.

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L’intreccio dell’argomentazione giuridica, con i riferimenti a episodi anche spinosi della vita amministrativa del Paese, si esprime attraverso un periodare stringente, ma scandito con ordine, in cui competenza professionale e partecipazione civile si risolvono in un lessico certamente sostenuto e “alto”, ma non per questo freddo e respingente. Se mancano difatti artifici retorici ricercati, se sono praticamente assenti i tropi classici della figurazione, spicca invece - senza per questo essere sovrabbondante - il gusto per la calibrata citazione colta, il rapido ma chiarificatore richiamo storico, l’attenta lettura della stessa attualità. La tabella seguente sintetizza visivamente alcune delle principali caratteristiche del testo appena esaminato:

DISCORSO DI INSEDIAMENTO DEL PRESIDENTE FRANCESCO SERNIA Indice Gulpease Numero dei

paragrafi Numero delle frasi Numero delle frasi

lunghe Numero delle frasi

brevi Media delle frasi

per paragrafo

37,59 67 101 52 (51,5%) 8 (7,9%) 1,5 Totale delle parole

utilizzate Numero delle parole diverse

Media delle parole per paragrafo

Media delle parole per frase

Percentuale dei termini tecnici

Ricchezza lessicale di

Guiraud

4637 1626 69,20 45,90 20% 23,88 I termini che più frequentemente ricorrono nel discorso di insediamento sono invece i seguenti:

31 pubblico 28 controllo 17 legge 12 ricorso 16 gestione 12 amministrativo 11 regionale 9 organo 9 relazione 9 conti 8 ricorso 8 azione

Quest’ultima scheda sottolinea come la presenza forte di alcuni lemmi (ad

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esempio “pubblico”, “regionale”, “conti”) dia ulteriore conferma a quanto detto nel corso dell’analisi. Il discorso del Presidente Sernia si muove nell’ottica di una Corte chiamata a nuovi compiti in tempi nuovi.

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DDiissccoorrssoo ddii iinnsseeddiiaammeennttoo ddeell PPrreessiiddeennttee FFrraanncceessccoo SSttaaddeerriinnii

2255 oottttoobbrree 22000000

1. LA FIGURA DEL RELATORE Il Presidente Francesco Staderini, nato a Figline Valdarno (Firenze) il 6 febbraio 1932, si laurea in giurisprudenza con il massimo dei voti nell'Università di Firenze nel 1955. Il 1° marzo 1963 vince il concorso a Referendario della Corte dei conti. Nei primi anni di servizio svolge le funzioni di Sostituto Procuratore generale e di Magistrato addetto agli uffici centrali e periferici. Il 30 giugno 1976 viene promosso Consigliere. Dal 7 settembre 1976 al 9 novembre 1982 fa parte della Commissione di Controllo sull'Amministrazione della Regione Emilia-Romagna. Nei dodici anni successivi è preposto alla Delegazione regionale per la Regione Toscana. Il 21 marzo 1995 viene promosso Presidente di Sezione e dal 14 luglio dello stesso anno svolge il ruolo di Presidente della Sezione giurisdizionale del Friuli-Venezia Giulia. Dal 15 gennaio 1996 assume la Presidenza della Sezione giurisdizionale della Toscana, incarico che riveste sino alla nomina a Presidente della Corte dei conti avvenuta il 29 agosto 2000. Libero docente in istituzioni di diritto pubblico e legislazione scolastica, ha svolto incarichi di insegnamento nell'Università di Firenze e di Bologna. Tra le sue principali pubblicazioni si ricordano: - La responsabilità civile degli insegnanti e dei dirigenti scolastici, 2a ed., Milano, 1981 - La riforma dei controlli nella pubblica amministrazione, Padova, 1985 - Diritto degli enti locali, 9a ed., Padova, 1999 - La responsabilità nella pubblica amministrazione, 2a ed., Padova (in coll.), 1998 - I contratti degli enti locali, 2a ed., Padova (in coll.), 2000.

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2. IL CONTESTO STORICO Francesco Staderini viene designato nuovo Presidente della Corte dei conti il 29 agosto 2000 nel corso di una riunione lampo, “convocata telefonicamente”, del Consiglio dei ministri presieduto da Giuliano Amato. Siamo nella fase conclusiva della XIII legislatura (mancano ormai pochi mesi alle prossime elezioni) e il confronto politico tra maggioranza e opposizione si presenta particolarmente teso. Tra le questioni in sofferenza c’è, non ultima, quella delle nomine, poiché solo alcune (ad esempio la scelta del nuovo Capo della Polizia) avvengono in un sostanziale clima bipartisan. Così anche la decisione “unanime” del Consiglio dei ministri di “acquisire il parere del Consiglio di Presidenza della Corte dei conti sulla designazione del presidente di sezione prof. Staderini a Presidente della Corte dei conti in vista della nomina del Presidente della Repubblica” non manca di suscitare un vespaio di polemiche che si allargano all’interno della stessa maggioranza. In particolare viene rimproverato al Presidente Amato e di avere, al di là della forma, operato un fatto compiuto7, “facendo carta straccia di una prassi costituzionale consolidata negli anni per garantire trasparenza”: in sostanza, si imputa al Governo di essere venuto meno alla consuetudine che sia la Corte dei conti medesima a designare il proprio Presidente, al fine di “garantire il principio democratico che non sia il controllato a scegliere il controllore”. Con una secca replica il ministro Bassanini fa invece rilevare che “fino ad ora e per tutta la storia costituzionale repubblicana, il presidente della Corte è stato nominato dal Presidente della Repubblica, sulla base di una deliberazione del Consiglio dei ministri adottata su proposta del Presidente del Consiglio".

3. IL GIURIDICO-ISTITUZIONALE Gli anni novanta hanno segnato un’epoca di importanti riforme per la Corte dei conti. Con il decreto legislativo 13.2.1993, n. 40, sono stati rivisti i sistemi dei controlli dello Stato sugli atti delle Regioni; con le due leggi coeve 14.1.1994 n. 19 e n. 20 sono state dettate disposizioni in materia di funzionamento, di giurisdizione e controllo della Corte dei conti; con la legge 21 luglio 2000, n. 202 sono state dettate le disposizioni in tema di nomina del Presidente della

7 In realtà, lo stesso 25 agosto a Francesco Staderini giungono telegrammi di felicitazione per il conferimento dell’alto incarico da parte dei Presidenti del Senato della Repubblica Mancino e della Camera dei Deputati Violante. Il successivo 9 settembre Staderini veniva ricevuto al Quirinale dal Presidente della Repubblica.

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Corte dei conti, uniformando la disciplina, come si è già detto, a quella già dettata per l’omologo del Consiglio di Stato. La Corte è divenuta, quindi, il “garante imparziale dell’equilibrio economico e finanziario del settore pubblico”; con il compito di verificare l’economicità, l’efficienza e l’efficacia delle gestioni amministrative, e di verificare la funzionalità dei controlli interni sia per l’amministrazione statale, sia per quelle regionali e locali. Con il decreto legislativo 30.7.1999, n. 286 sono stati riordinati e potenziati meccanismi e gli strumenti di monitoraggio e valutazione dei costi, dei rendimenti e dei risultati dell’attività svolta dalle amministrazioni pubbliche. Essendo stato delineato un novo tipo di controllo che deve avvalersi di tecniche e di conoscenze economiche, statistiche ed aziendalistiche, anche per l’individuazione dei parametri e degli indicatori di misurazione, diventa necessario acquisire alla Corte “professionalità non giuridiche” attraverso l’estensione dell’accesso per concorso anche a candidati esperti in discipline, appunto, non giuridiche. Il giudizio di responsabilità è diretto a perseguire soprattutto - con finalità preventivo-sanzionatoria - i più gravi illeciti amministrativo-contabili. 4. L’IMPIANTO LOGICO-CONCETTUALE 1. La riforma della Corte nel contesto del generalizzato processo della semplificazione e l’efficienza dell’azione amministrativa. 2. La funzione del controllo successivo esteso all’universo delle pubbliche amministrazioni che di fatto tende a rendere la Corte da una “Corte dei conti statali” a una “Corte dei conti pubblici”. 3. Un forte impegno per far fronte all’arretrato in materia di giudizi pensionistici. 5. L’ARTICOLAZIONE DEI CONTENUTI LA RIFORMA DELLA CORTE La riforma della Corte dei conti, sancita dalle leggi n. 19 e n. 20 del 1994 e poi perfezionata nel 1996, si inserisce nella “frenetica” attività legislativa di riforma della P.A., concentrata intorno al principio ispiratore della ricerca di una maggiore efficienza nell’azione amministrativa. Fino alla riforma vigente il sistema di controllo delle amministrazioni statali è rimasto sostanzialmente quello introdotto in anni lontanissimi dalla legge n.

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800 del 14 agosto 1862: il visto di legittimità su tutti i decreti del Capo dello Stato e su tutti gli atti di spesa al di sopra di un limite - quasi irrisorio - di valore. Ciò determinava un’infinità di provvedimenti di scarsissimo rilievo, mentre rimanevano esclusi atti di grande rilevanza (come quelli programmatici e di indirizzo) solo perché non adottati nelle forme del Decreto regale o presidenziale o perché privi di immediati effetti finanziari. La riforma era dunque indilazionabile e la stessa Corte ne aveva avvertito per tempo la necessità con una petizione presentata al Parlamento già nel 1969. LE FUNZIONI DI CONTROLLO Nel nuovo contesto il tradizionale controllo preventivo di legittimità mantiene comunque un ruolo essenziale, non solo per l’eccezionale rilevanza degli atti per i quali è conservato (regolamenti, atti generali, atti che rappresentano l’incipit di complessi organizzati di attività o di gestioni quali, ad esempio, le deliberazioni dei Comitati interministeriali), ma pure perché esso continua a esercitarsi anche sui contratti di maggior impegno finanziario, per i quali la fase di controllo ex ante può prevenire sia il contenzioso amministrativo, sia il prodursi di irreparabili danni erariali. E tuttavia l’aspetto più rilevante della riforma del 1994 è quello di aver intestato alla Corte una funzione di generalizzato controllo successivo sull’intero universo delle pubbliche gestioni. Si tratta di un controllo che dilata quello previsto dalla Costituzione sulla gestione del bilancio dello Stato: in sostanza si passa da “una corte dei Conti statali a una Corte dei conti pubblici”. Come ha chiarito la Corte Costituzionale, con la riforma la Corte dei conti è divenuta infatti organo ausiliario anche delle assemblee regionali e locali. Nell’esercizio di tale ruolo collaborativo un particolare riguardo avrà la corretta gestione dei “fondi di riequilibrio” destinati ad attuare la solidarietà tra regioni ricche e meno ricche. La legge 29/1994 chiama dunque la Corte a tre compiti fondamentali: 1°) la garanzia imparziale dell’equilibrio economico-finanziario del settore pubblico mediante relazioni al Parlamento sui grandi aggregati di finanza pubblica (statale, regionale e locale) e sulle politiche pubbliche di settore (sanità, trasporti, personale pubblico ecc.) che va potenziata creando con le Camere “un filo diretto permanente”; 2°) la verifica di economicità, efficienza ed efficacia delle gestioni amministrative, attraverso programmi di controllo in grado di presentare al Parlamento, al Governo e alla pubblica opinione valutazioni comparative tese a evidenziare possibili limiti e disfunzioni; 3°) la verifica della funzionalità dei controlli interni.

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LE FUNZIONI GIURISDIZIONALI E LA RESPONSABILITÀ AMNMINISTRATIVA La riforma del 1994 comporta modifiche significative delle funzioni giurisdizionali della Corte. Mentre rimane l’istituto peculiare della “riduzione dell’addebito”, vengono evidenziate la natura “personale” della responsabilità, la limitazione all’illecito commesso con dolo e colpa grave, la non sindacabilità delle scelte discrezionali, così da salvaguardare i poteri di indirizzo e di scelta politico-amministrativa. Ma a fronte delle novità si impone allora che il legislatore ridefinisca il regolamento di procedura, vecchio di sessant’anni e del tutto inadeguato al nuovo giudizio In ogni caso la sentenza n. 29 del 1995 della Corte Costituzionale ha ribadito che controllo della gestione e responsabilità amministrativa del danno sono destinati a incontrarsi solo eccezionalmente. Nessuna “cinghia di trasmissione” può pertanto essere ipotizzata tra le rinnovate funzioni di controllo e il sindacato giurisdizionale. L’ARRETRATO DEI GIUDIZI PENSIONISTICI Vi sarà un forte impegno della Corte a ridurre il sensibile arretrato in materia di giudizi pensionistici. Un impegno che sarà facilitato dalla scelta compiuta dal legislatore nel 1994 di istituire in ogni Regione Sezioni giurisdizionali della Corte dei conti. 6. LA LEGGIBILITÀ E LA COMPRENSIBILITÀ LA LEGGIBILITÀ Secondo la formula Gulpease la leggibilità del discorso del Presidente Staderini si attesta sul valore di 35,17: tale indice ci dice che il documento è nella sostanza non semplice. Si tratta infatti di un valore che si colloca praticamente intorno al limite alto della fascia 31-35 che individua testi “difficili” non solo per lettori in possesso del diploma secondario, ma pure per fruitori forniti di un titolo accademico. Se per questi ultimi viene previsto un impatto di lettura ancora autonomo (che non necessita cioè di supporti esterni), per i primi un orientamento compiuto all’interno del testo richiede l’assistenza di un docente e/o di un esperto8. Questi i parametri che contribuiscono all’indice di leggibilità del discorso del Presidente Staderini: le parole “fondamentali” sono il 69%, le molto “comuni” il 12%, le “comuni” il 2% e le “meno diffuse” il 17%. Quanto alla struttura del testo, esso si articola in 52 paragrafi, ciascuno dei quali contiene in media quasi una frase e mezzo (1,4) e circa 64 parole. Le frasi lunghe (vale a dire 8 Non a caso un indice di 35,17 segnala documento “quasi incomprensibile” sia per chi sia fornito di una istruzione elementare, sia per chi sia fornito di una istruzione media.

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quelle con più di 40 parole) sono 40 e occupano il 56,3% del testo; quelle brevi (vale a dire quelle con un massimo di 15 parole) sono solo 7, pari al 9,9% del discorso. È evidente che tra le ragioni che contribuiscono a rendere non semplice anche per lettori laureati il testo del Presidente Staderini vi è soprattutto l’indubbia prevalenza di frasi dense e articolate (53,6%), ma non può essere trascurata anche la percentuale non marginale (17%) delle parole “poco diffuse” (vale a dire in genere dei termini tecnico-specialistici): due caratteristiche, peraltro, più che comprensibili data la natura del discorso e la platea cui esso viene rivolto. L’analisi affidata alla rilevazione “Gulpease” conferma nella sostanza gli esiti che si possono trarre da una lettura attenta del testo: si tratta di un discorso indubbiamente mirato, destinato a un pubblico di addetti ai lavori, contraddistinto da un impianto concettualmente rigoroso e stilisticamente sobrio, in cui le “tecnicalità” dell’argomentazione fanno premio sugli aspetti più tradizionalmente retorici. LA COMPRENSIBILITÀ L’indice di Guiraud considera la “ricchezza lessicale” di un testo attraverso la misurazione dell’uso diversificato delle parole. Nel caso in esame l’indice di 20,30 sta a ribadire come il vocabolario del discorso di insediamento del Presidente Staderini sia indubbiamente ricco, articolato e denso di contenuti. Non a caso proprio il parametro appena segnalato ci dice che le parole diverse sono 1170 su 3321, vale a dire il 32, 23% del totale. Il discorso di insediamento del Presidente Staderini si distingue difatti per un impianto rigorosamente scandito nell’impostazione concettuale (nonostante un paio di ripetizioni) e per uno stile espositivo denso ma asciutto, scevro da aggettivazioni insistite e da figure retoriche. Il testo non si dilunga nell’elencazione di dati (quelli sugli arretrati del contenzioso pensionistico vengono ad esempio ricordati solo in sede di una dichiarazione stampa)9. Il Presidente si concede una sola citazione, peraltro non usuale, richiamando una massima assai bella e incisiva di Montaigne. Altrettanto sobri sono, in sede conclusiva, i riferimenti alle alte autorità presenti al discorso di insediamento. Tra le righe sembra avvertirsi la volontà - garbata ma ferma - del presidente Staderini di evidenziare sia la vitalità, sia l’autonomia del ruolo della Corte dei 9 “Nel giro di qualche anno gli arretrati saranno ridotti a ‘livelli fisiologici’. Chi presenterà un ricorso pensionistico, dunque, non dovrà attendere più di 2-3 anni per la decisione, come avviene in tutta Europa”. […] La Corte dei conti ha infatti spinto il piede sull'acceleratore per quanto riguarda i ricorsi in materia di pensioni civili, militari e di guerra che attendono da anni di essere definiti. Il numero dei ricorsi decisi è più che raddoppiato in tre anni: erano 19.000 nel 1997, sono aumentati a 26.000 nel 1998, 35.000 nel 1999 e, al 30 settembre del 2000, sono arrivati a 41.900. Lo smaltimento dell’arretrato sarà agevolato in futuro anche dall’entrata a regime del giudice unico.

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conti, a fronte non solo delle recentissime polemiche sulle modalità della sua nomina, ma pure delle autorevoli riserve espresse in quei mesi sulla stampa10 e delle discussioni animose insorte nella Commissione Bicamerale per le riforme costituzionali presieduta dall’on. Massimo D’Alema, in cui si era ventilata la sostanziale abolizione della funzione giurisdizionale dell’organo della magistratura contabile11. La tabella che segue riassume visivamente alcune delle principali caratteristiche del testo appena esaminato:

DISCORSO DI INSEDIAMENTO DEL PRESIDENTE FRANCESCO STADERINI Indice Gulpease Numero dei

paragrafi Numero delle frasi Numero delle frasi

lunghe Numero delle frasi

brevi Media delle frasi

per paragrafo

35,17 52 71 40 (56,3%) 7 (9,9%) 1,4 Totale delle parole

utilizzate Numero delle parole diverse

Media delle parole per paragrafo

Media delle parole per frase

Percentuale dei termini tecnici

Ricchezza lessicale di

Guiraud

3321 1170 34 63,90 17% 20,30 I termini che più frequentemente ricorrono nel discorso di insediamento sono invece i seguenti:

44 controllo 22 amministrativo 20 gestione 18 riforme 18 pubblico 17 amministrazione 16 funzione 10 atto 9 costituzione 8 regionale 8 giudizio

10 Cfr., ad esempio, S. CASSESE, Corte dei conti, lento declino, “Il Sole 24 Ore”, 30 marzo 2000 (prima pagina). 11 Cfr. R TURNO, Vecchia, cara, polverosa Corte dei conti, “Il Sole 24 Ore”, 30 marzo 2000, (sezione “Commenti e inchieste”).

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Quest’ultima scheda ribadisce il fatto che il discorso tende a coniugare la doverosa trattazione delle tematiche specifiche della Corte dei conti con una particolare attenzione al ruolo da essa svolto al servizio della società civile, in una prospettiva di doveroso aggiornamento e di sempre maggiore efficienza.

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IIII -- II QQUUIINNDDIICCII TTEESSTTII AA CCOONNFFRROONNTTOO:: AANNAALLIISSII CCOOMMPPAARRAATTAA

Le schede e i grafici che seguono illustrano e sintetizzano visivamente, ponendoli a confronto, i dati variamente raccolti e discussi nel corso dell’analisi puntuale condotta nelle pagine precedenti sui quindici discorsi di insediamento.

1. L’INDICE GULPEASE L’uso della formula Gulpease ha messo in evidenza per i 15 discorsi un valore medio di leggibilità pari a 38,78. Secondo l’adeguamento (cfr. pag. xx) compiuto per rapportare l’indice Gulpease al diploma di laurea la media di 38,78 segnala un testo “facile” con un impatto di lettura indipendente. Questo stesso valore precisa però che il testo risulterebbe “quasi incomprensibile” per chi possieda la licenza elementare, “molto difficile” per chi sia in possesso della licenza media e “difficile” per i diplomati. L’impatto di lettura sarebbe frustrante per il primo gruppo e scolastico per il secondo e il terzo.

DDiissccoorrssii

IInnddiiccee GGuullppeeaassee

Papaldo 1962 45,75 Rossano 1970 41,83 Greco 1971 37,88 Campbell 1976 37,91 Uccellatore 1976 37,33 Manzari 1979 40,28 Levi Sandri 1979 40,26 Azzariti 1989 37,08 Zagari 1995 38,05 Laschena 1996 37,86 Sernia 1999 37,59 Sacchetto 1999 35,71 Staderini 2000 35,17 De Roberto 2001 41,43 Mazzella 2002 37,56

MMeeddiiaa 3388,,7788

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- 167 -

45,75

41,83

37,88 37,9137,33

40,28 40,26

37,0838,05

37,86 37,5935,7135,17

41,43

37,5638,78

25

38

50

Papaldo Rossano Greco Campbell Uccellatore Manzari Levi Sandri Azzariti Zagari Laschena Sernia Sacchetto Staderini De Roberto Mazzella media

indice Gulpease

Per quanto riguarda il confronto tra le tre Istituzioni, la media dell’indice Gulpease dell’Avvocatura dello Stato è di 37,74, quella del Consiglio di Stato è di 40,53, quella della Corte dei conti è di 38,08. Come si vede si tratta di indici medi piuttosto ravvicinati tra di loro.

AAvvvvooccaattuurraa ddeelllloo SSttaattoo

IInnddiiccee GGuullppeeaassee Manzari 1979 40,28 Azzariti 1989 37,08 Zagari 1995 38,05 Sacchetto 1999 35,71 Mazzella 2002 37,56

MMeeddiiaa 3377,,7744

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- 168 -

40,28

37,08 38,0535,71 37,56 37,74

25

30

35

40

45

50

Manzari 1979 Azzariti 1989 Zagari 1995 Sacchetto 1999 Mazzella 2002 MEDIA

Avvocatura dello Stato - indice Gulpease

CCoonnssiigglliioo ddii SSttaattoo

IInnddiiccee GGuullppeeaassee

Papaldo 1968 45,75 Uccellatore 1976 37,33 Levi Sandri 1979 40,26 Laschena 1996 37,86 De Roberto 2001 41,43

MMeeddiiaa 4400,,5533

45,75

37,33

40,26

37,86

41,4340,53

25

30

35

40

45

50

Papaldo 1968 Uccellatore 1976 Levi Sandri 1979 Laschena 1996 De Roberto 2001 MEDIA

Consiglio di Stato - indice Gulpease

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CCoorrttee ddeeii ccoonnttii

IInnddiiccee GGuullppeeaassee

Rossano 1970 41,83 Greco 1971 37,88 Campbell 1979 37,91 Sernia 1999 37,59 Staderini 2001 35,17

MMeeddiiaa 3388,,0088

41,83

37,88 37,91 37,5935,17

38,08

25

30

35

40

45

50

Rossano 1970 Greco 1971 Campbell 1976 Sernia 1999 Staderini 2000 MEDIA

Corte dei conti - indice Gulpease

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Non sembra neanche apprezzabile la differenza degli indici rispetto al tempo anni in cui i discorsi sono stati pronunziati: infatti nel periodo 1968-2002 gli indici oscillano - sia pure in termini non troppo pronunciati - indipendentemente dall’anno in cui gli interventi sono stati tenuti.

AAnnnnoo

IInnddiiccee GGuullppeeaassee

1962 45,75 1970 41,83 1971 37,88 1976 37,91 1976 37,33 1979 40,28 1979 40,26 1989 37,08 1995 38,05 1996 37,86 1999 37,59 1999 35,71 2000 35,17 2001 41,43 2002 37,56

indice Gulpease

0

13

25

38

50

1968

1970

1971

1976

1976

1976

1979

1989

1995

1996

1999

1999

2000

2001

2002

indice Gulpease

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- 171 -

L’indice Gulpease è determinato da alcuni dati: il numero delle lettere, il numero delle parole utilizzate e il numero totale delle frasi. Tali parametri risultano distribuiti nei quindici discorsi nei termini seguenti: 1.1. Il numero delle lettere

DDiissccoorrssii

NNuummeerroo ddeellllee lleetttteerree

Papaldo 1962 20114 Rossano 1970 13478 Greco 1971 17116 Campbell 1976 8311 Uccellatore 1976 36353 Manzari 1979 26193 Levi Sandri 1979 20541 Azzariti 1989 12754 Zagari 1995 19000 Laschena 1996 33494 Sernia 1999 26870 Sacchetto 1999 15423 Staderini 2000 20009 De Roberto 2001 17263 Mazzella 2002 16208 MMeeddiiaa 2200220088

2011413478

17116

8311

36353

26193

20541

12754

19000

33494

26870

1542320009

17263 16208

20208

5000

15000

25000

35000

45000

Papaldo 1968 Rossano 1970 Greco 1971 Campbell 1976 Uccellatore1976

Manzari 1979 Levi Sandri1979

Azzariti 1989 Zagari 1995 Laschena 1996 Sernia 1999 Sacchetto1999

Staderini 2000 De Roberto2001

Mazzella 2002 media

numero delle lettere

IIll lliinngguuaaggggiioo ddeellllee iissttiittuuzziioonnii ppuubbbblliicchhee

nneeii ddiissccoorrssii ddii iinnsseeddiiaammeennttoo ____________________________________________________________________________________________________________________________________________________________

- 172 -

1.2. Il numero delle parole utilizzate

DDiissccoorrssii

PPaarroollee uuttiilliizzzzaattee

Papaldo 1962 3645 Rossano 1970 2421 Greco 1971 2956 Campbell 1976 1407 Uccellatore 1976 6316 Manzari 1979 4553 Levi Sandri 1979 3673 Azzariti 1989 2231 Zagari 1995 3311 Laschena 1996 5658 Sernia 1999 4637 Sacchetto 1999 2664 Staderini 2000 3321 De Roberto 2001 2992 Mazzella 2002 2760

MMeeddiiaa 33550033

3645

2421

2956

1407

6316

4553

3673

2231

3311

5658

4637

2664

3321 2992 2760

3503,00

100

400

700

Papaldo Rossano Greco Campbell Uccellatore Manzari Levi Sandri Azzariti Zagari Laschena Sernia Sacchetto Staderini De Roberto Mazzella media

totale delle parole utilizzate

IIll lliinngguuaaggggiioo ddeellllee iissttiittuuzziioonnii ppuubbbblliicchhee

nneeii ddiissccoorrssii ddii iinnsseeddiiaammeennttoo ____________________________________________________________________________________________________________________________________________________________

- 173 -

1.3. Il numero totale delle frasi

DDiissccoorrssii

NNuummeerroo ddeellllee ffrraassii

Papaldo 1962 145 Rossano 1970 65 Greco 1971 67 Campbell 1976 38 Uccellatore 1976 124 Manzari 1979 135 Levi Sandri 1979 88 Azzariti 1989 40 Zagari 1995 71 Laschena 1996 152 Sernia 1999 101 Sacchetto 1999 50 Staderini 2000 71 De Roberto 2001 101 Mazzella 2002 67

MMeeddiiaa 8888

145

65 67

38

124

135

88

40

71

152

101

50

71

101

67

88

0

80

160

Papaldo Rossan o Gr eco Campbell Uccellat or e M an zar i Levi San dr i Azzar it i Zagar i Laschen a Ser n ia Sacchet t o St ader in i De Rober t o M azzella media

numero delle frasi

IIll lliinngguuaaggggiioo ddeellllee iissttiittuuzziioonnii ppuubbbblliicchhee

nneeii ddiissccoorrssii ddii iinnsseeddiiaammeennttoo ____________________________________________________________________________________________________________________________________________________________

- 174 -

2. L’ANALISI LESSICALE E SINTATTICA Ai fini di questa analisi è stato innanzi tutto considerato il numero delle frasi lunghe e delle frasi brevi. Questi dati, particolarmente incidenti per la leggibilità di un testo, non solo vanno messi in rapporto tra di loro, ma vanno pure considerati alla luce della lunghezza dei singoli discorsi. Per facilitare la lettura, si riportano qui di seguito le quattro tabelle e i quattro grafici relativi rispettivamente alla lunghezza complessiva dei testi, alle frasi lunghe e alle frasi brevi e infine alla loro incidenza percentuale nei singoli discorsi. 2.1. La lunghezza dei testi

DDiissccoorrssii

NNuummeerroo ddeeii ccaarraatttteerrii

Papaldo 1962 20114 Rossano 1970 13478 Greco 1971 17116 Campbell 1976 8311 Uccellatore 1976 36353 Manzari 1979 26193 Levi Sandri 1979 20541 Azzariti 1989 12754 Zagari 1995 19000 Laschena 1996 33494 Sernia 1999 26870 Sacchetto 1999 15423 Staderini 2000 20009 De Roberto 2001 17263 Mazzella 2002 16208

MMeeddiiaa 2200220088

2011413478

17116

8311

36353

26193

20541

12754

19000

33494

26870

1542320009

17263 16208

20208

5000

15000

25000

35000

45000

Papaldo 1968 Rossano 1970 Greco 1971 Campbell 1976 Uccellatore1976

Manzari 1979 Levi Sandri1979

Azzariti 1989 Zagari 1995 Laschena 1996 Sernia 1999 Sacchetto1999

Staderini 2000 De Roberto2001

Mazzella 2002 media

numero dei caratteri = lunghezza dei testi

IIll lliinngguuaaggggiioo ddeellllee iissttiittuuzziioonnii ppuubbbblliicchhee

nneeii ddiissccoorrssii ddii iinnsseeddiiaammeennttoo ____________________________________________________________________________________________________________________________________________________________

- 175 -

2.2. Il numero delle frasi lunghe (quelle cioè con più di 40 parole)

DDiissccoorrssii

NNuummeerroo ffrraassii lluunngghhee

Papaldo 1962 22 Rossano 1970 24 Greco 1971 29 Campbell 1976 11 Uccellatore 1976 72 Manzari 1979 41 Levi Sandri 1979 32 Azzariti 1989 21 Zagari 1995 34 Laschena 1996 54 Sernia 1999 52 Sacchetto 1999 30 Staderini 2000 40 De Roberto 2001 20 Mazzella 2002 28

MMeeddiiaa 3344

2224

29

11

72

41

32

21

34

54 52

30

40

20

2834,00

10

45

80

Papaldo Rossan o Gr eco Campbell Uccellat or e M an zar i Levi San dr i Azzar it i Zagar i Laschen a Ser n ia Sacchet t o St ader in i De Rober t o M azzella media

numero delle frasi lunghe

IIll lliinngguuaaggggiioo ddeellllee iissttiittuuzziioonnii ppuubbbblliicchhee

nneeii ddiissccoorrssii ddii iinnsseeddiiaammeennttoo ____________________________________________________________________________________________________________________________________________________________

- 176 -

2.3 La percentuale delle frasi lunghe all’interno dell’intero testo

DDiissccoorrssii

PPeerrcceennttuuaallee ddeellllee ffrraassii lluunngghhee

Papaldo 1962 15,2 % Rossano 1970 36,9 % Greco 1971 43,3 % Campbell 1976 28,9 % Uccellatore 1976 58,1 % Manzari 1979 30,4 % Levi Sandri 1979 36,4 % Azzariti 1989 52,5 % Zagari 1995 47,9 % Laschena 1996 35,5 % Sernia 1999 51,5 % Sacchetto 1999 60,0 % Staderini 2000 56,3 % De Roberto 2001 25,7 % Mazzella 2002 41,8 %

MMeeddiiaa 4411 %%

15,2

36,9

43,3

28,9

58,1

30,436,4

52,547,9

35,5

51,5

60,056,3

19,8

41,8 41,0

0

35

70

Papaldo Rossano Greco Campbell Uccellatore Manzari Levi Sandri Azzariti Zagari Laschena Sernia Sacchetto Staderini De Roberto Mazzella media

percentuale delle frasi lunghe

IIll lliinngguuaaggggiioo ddeellllee iissttiittuuzziioonnii ppuubbbblliicchhee

nneeii ddiissccoorrssii ddii iinnsseeddiiaammeennttoo ____________________________________________________________________________________________________________________________________________________________

- 177 -

2.4. Il numero delle frasi brevi (quelle cioè con meno di 15 parole)

DDiissccoorrssii

NNuummeerroo ffrraassii bbrreevvii

Papaldo 1962 51 Rossano 1970 13 Greco 1971 6 Campbell 1976 7 Uccellatore 1976 11 Manzari 1979 26 Levi Sandri 1979 11 Azzariti 1989 2 Zagari 1995 7 Laschena 1996 29 Sernia 1999 8 Sacchetto 1999 3 Staderini 2000 7 De Roberto 2001 26 Mazzella 2002 4

MMeeddiiaa 1144

51

13

6 7 11

26

11

27

29

83

7

26

4

14

0

10

20

30

40

50

60

Papaldo Rossano Greco Campbell Uccellatore Manzari Levi Sandri Azzariti Zagari Laschena Sernia Sacchetto Staderini De Roberto Mazzella media

numero delle frasi brevi

IIll lliinngguuaaggggiioo ddeellllee iissttiittuuzziioonnii ppuubbbblliicchhee

nneeii ddiissccoorrssii ddii iinnsseeddiiaammeennttoo ____________________________________________________________________________________________________________________________________________________________

- 178 -

2.5. La percentuale delle frasi brevi all’interno dell’intero testo

DDiissccoorrssii

PPeerrcceennttuuaallee ddeellllee ffrraassii bbrreevvii

Papaldo 1962 35,2 % Rossano 1970 20,0 % Greco 1971 9,0 % Campbell 1976 18,4% Uccellatore 1976 8,9 % Manzari 1979 19,3 % Levi Sandri 1979 12,5 % Azzariti 1989 5,0 % Zagari 1995 9,9 % Laschena 1996 19,1 % Sernia 1999 7,9 % Sacchetto 1999 6,0 % Staderini 2000 9,9 % De Roberto 2001 25,7 % Mazzella 2002 6,0 %

MMeeddiiaa 1144,,22 %%

35,2

20,0

9,0

18,4

8,9

19,3

12,5

5,0

9,9

19,1

7,9

6,0

9,9

25,7

6,0

14,2

05

10152025303540

Papaldo Rossano Greco Campbell Uccellatore Manzari Levi Sandri Azzariti Zagari Laschena Sernia Sacchetto Staderini De Roberto Mazzella media

percentuale delle frasi brevi

IIll lliinngguuaaggggiioo ddeellllee iissttiittuuzziioonnii ppuubbbblliicchhee

nneeii ddiissccoorrssii ddii iinnsseeddiiaammeennttoo ____________________________________________________________________________________________________________________________________________________________

- 179 -

3. LE SOLUZIONI ESPRESSIVE L’analisi dell’articolazione concettuale dei quindici testi e delle soluzioni espressive in essi adottate ha quindi comportato la rilevazione di alcuni altri dati: il numero dei paragrafi, la media delle frasi per paragrafo, la media delle parole per frase, la media delle sillabe e delle lettere per parola, l’uso delle “parole meno diffuse”. A proposito di queste ultime è possibile sostenere che si tratta spesso di termini tecnico-giuridici. La loro media risulta del 18%: il numero delle “parole meno diffuse” oscilla difatti tra un minimo del 15% (Papaldo) a un massimo del 21% (Mazzella). 3.1. Il numero dei paragrafi

DDiissccoorrssii

NNuummeerroo ddeeii ppaarraaggrraaffii

Papaldo 1962 72 Rossano 1970 50 Greco 1971 56 Campbell 1976 30 Uccellatore 1976 80 Manzari 1979 68 Levi Sandri 1979 38 Azzariti 1989 26 Zagari 1995 59 Laschena 1996 91 Sernia 1999 67 Sacchetto 1999 42 Staderini 2000 52 De Roberto 2001 88 Mazzella 2002 52

MMeeddiiaa 5588

72

5056

30

80

68

38

26

59

91

67

4252

88

52

58

20

60

100

Papaldo Rossan o Gr eco Campbell Uccellat or e M an zar i Levi San dr i Azzar it i Zagar i Laschen a Ser n ia Sacchet t o St ader in i De Rober t o M azzella media

numero dei paragrafi

IIll lliinngguuaaggggiioo ddeellllee iissttiittuuzziioonnii ppuubbbblliicchhee

nneeii ddiissccoorrssii ddii iinnsseeddiiaammeennttoo ____________________________________________________________________________________________________________________________________________________________

- 180 -

3.2. La media delle frasi per paragrafo

DDiissccoorrssii

MMeeddiiaa ffrraassii ppeerr ppaarraaggrraaffoo

Papaldo 1962 2,00 Rossano 1970 1,30 Greco 1971 1,30 Campbell 1976 1,30 Uccellatore 1976 1,50 Manzari 1979 2,00 Levi Sandri 1979 2,30 Azzariti 1989 1,50 Zagari 1995 1,20 Laschena 1996 1,70 Sernia 1999 1,50 Sacchetto 1999 1,20 Staderini 2000 1,40 De Roberto 2001 1,40 Mazzella 2002 1,10

MMeeddiiaa 11,,5511

2,00

1,30 1,30 1,30

1,50

2,00

2,30

1,50

1,20

1,70

1,50

1,20

1,40

1,10

1,30

1,51

1,00

1,20

1,40

1,60

1,80

2,00

2,20

2,40

Papaldo Rossan o Gr eco Campbell Uccellat or e M an zar i Levi San dr i Azzar it i Z agar i Laschen a Ser n ia Sacchet t o St ader in i De Rober t o M azzella media

media delle frasi per pafragrafo

IIll lliinngguuaaggggiioo ddeellllee iissttiittuuzziioonnii ppuubbbblliicchhee

nneeii ddiissccoorrssii ddii iinnsseeddiiaammeennttoo ____________________________________________________________________________________________________________________________________________________________

- 181 -

3.3. La media delle parole per paragrafo

DDiissccoorrssii

PPaarroollee ppeerr ppaarraaggrraaffoo

Papaldo 1962 50,60 Rossano 1970 48,40 Greco 1971 55,80 Campbell 1976 46,90 Uccellatore 1976 78,90 Manzari 1979 67,00 Levi Sandri 1979 96,70 Azzariti 1989 85,80 Zagari 1995 56,10 Laschena 1996 62,20 Sernia 1999 69,20 Sacchetto 1999 63,40 Staderini 2000 63,90 De Roberto 2001 34,00 Mazzella 2002 53,10

MMeeddiiaa 6622,,1133

50,60 48,4055,80

46,90

78,90

67,00

96,70

85,80

56,10

62,20

69,20

63,40 63,90

34,00

53,10

62,13

30,00

50,00

70,00

90,00

110,00

Papaldo Rossan o Gr eco Campbell Uccellat or e M an zar i Levi San dr i Azzar it i Z agar i Laschen a Ser n ia Sacchet t o St ader in i De Rober t o M azzella media

numero delle parole per paragrafo

IIll lliinngguuaaggggiioo ddeellllee iissttiittuuzziioonnii ppuubbbblliicchhee

nneeii ddiissccoorrssii ddii iinnsseeddiiaammeennttoo ____________________________________________________________________________________________________________________________________________________________

- 182 -

3.4. La media delle parole per frase

DDiissccoorrssii

PPaarroollee ppeerr ffrraassee

Papaldo 1962 25,10 Rossano 1970 37,20 Greco 1971 44,10 Campbell 1976 37,00 Uccellatore 1976 50,90 Manzari 1979 33,70 Levi Sandri 1979 41,70 Azzariti 1989 55,80 Zagari 1995 46,60 Laschena 1996 37,20 Sernia 1999 45,90 Sacchetto 1999 53,30 Staderini 2000 46,80 De Roberto 2001 29,60 Mazzella 2002 41,20

MMeeddiiaa 4411,,7744

25,10

37,20

44,10

37,00

50,90

33,70

41,70

55,80

46,60

37,20

45,90

53,30

46,80

29,60

41,20 41,74

0

10

20

30

40

50

60

Papaldo Rossan o Gr eco Campbell Uccellat or e M an zar i Levi San dr i Azzar it i Zagar i Laschen a Ser n ia Sacchet t o St ader in i De Rober t o M azzella media

parole per frase

IIll lliinngguuaaggggiioo ddeellllee iissttiittuuzziioonnii ppuubbbblliicchhee

nneeii ddiissccoorrssii ddii iinnsseeddiiaammeennttoo ____________________________________________________________________________________________________________________________________________________________

- 183 -

3.5. Il numero delle sillabe per parola

DDiissccoorrssii

SSiillllaabbee ppeerr ppaarroollaa

Papaldo 1962 2,3 Rossano 1970 2,3 Greco 1971 2,4 Campbell 1976 2,4 Uccellatore 1976 2,4 Manzari 1979 2,4 Levi Sandri 1979 2,4 Azzariti 1989 2,4 Zagari 1995 2,4 Laschena 1996 2,5 Sernia 1999 2,4 Sacchetto 1999 2,5 Staderini 2000 2,5 De Roberto 2001 2,4 Mazzella 2002 2,5

MMeeddiiaa 22,,55

2,3 2,32,4 2,4 2,4 2,4 2,4 2,4 2,4

2,52,4

2,5 2,52,4

2,5

2,4

2,0

2,2

2,4

2,6

2,8

3,0

Papaldo Rossano Greco Campbell Uccellatore Manzari Levi Sandri Azzariti Zagari Laschena Sernia Sacchetto Staderini De Roberto Mazzella media

numero delle sillabe per parola

IIll lliinngguuaaggggiioo ddeellllee iissttiittuuzziioonnii ppuubbbblliicchhee

nneeii ddiissccoorrssii ddii iinnsseeddiiaammeennttoo ____________________________________________________________________________________________________________________________________________________________

- 184 -

3.6. Il numero delle lettere per parola

DDiissccoorrssii

LLeetttteerree ppeerr ppaarroollaa

Papaldo 1962 5,4 Rossano 1970 5,4 Greco 1971 5,7 Campbell 1976 5,8 Uccellatore 1976 5,7 Manzari 1979 5,6 Levi Sandri 1979 5,5 Azzariti 1989 5,6 Zagari 1995 5,6 Laschena 1996 5,8 Sernia 1999 5,7 Sacchetto 1999 5,7 Staderini 2000 5,9 De Roberto 2001 5.6 Mazzella 2002 5,7

MMeeddiiaa 55,,66

5,4 5,4

5,7

5,8

5,7

5,6

5,5

5,6 5,6

5,8

5,7 5,7

5,9

5,6

5,75,6

5,15,25,35,45,55,65,75,85,9

Papaldo Rossano Greco Campbell Uccellatore Manzari Levi Sandri Azzariti Zagari Laschena Sernia Sacchetto Staderini De Roberto Mazzella media

lettere per parola

IIll lliinngguuaaggggiioo ddeellllee iissttiittuuzziioonnii ppuubbbblliicchhee

nneeii ddiissccoorrssii ddii iinnsseeddiiaammeennttoo ____________________________________________________________________________________________________________________________________________________________

- 185 -

3.7. Le “parole meno diffuse”

DDiissccoorrssii

PPaarroollee mmeennoo ddiiffffuussee

Papaldo 1962 15% Rossano 1970 16% Greco 1971 19% Campbell 1976 22% Uccellatore 1976 17% Manzari 1979 19% Levi Sandri 1979 16% Azzariti 1989 16% Zagari 1995 17% Laschena 1996 17% Sernia 1999 20% Sacchetto 1999 19% Staderini 2000 17% De Roberto 2001 19% Mazzella 2002 21%

MMeeddiiaa 1188%%

15%16%

19%

22%

17%

19%

16% 16% 17% 17%

20%19%

17%

19%

21%

18%

10%

12%

14%

16%

18%

20%

22%

24%

Papaldo 1968 Rossano 1970 Greco 1971 Campbell 1976 Uccellatore1976

Manzari 1979 Levi Sandri1979

Azzariti 1989 Zagari 1995 Laschena 1996 Sernia 1999 Sacchetto 1999 Staderini 2000 De Roberto2001

Mazzella 2002 media

parole meno diffuse

IIll lliinngguuaaggggiioo ddeellllee iissttiittuuzziioonnii ppuubbbblliicchhee

nneeii ddiissccoorrssii ddii iinnsseeddiiaammeennttoo ____________________________________________________________________________________________________________________________________________________________

- 186 -

3.8. I termini ricorrenti La tabella che segue segnala i lemmi maggiormente ricorrenti nei quindici discorsi di insediamento analizzati in questa ricerca e la loro definizione nel Vocabolario di Base di Tullio De Mauro:

LEMMI RICORRENZE DEFINIZIONE VDB amministrativo 244 alto uso funzione 201 fondamentale pubblico 192 fondamentale legge 169 comune controllo 135 alto uso ordinamento 110 alto uso interesse 105 tecnico-

specialistico esigenza 84 alto uso problema 83 fondamentale organo 83 tecnico-

specialistico giudice 79 tecnico-

specialistico giurisdizione 76 tecnico-

specialistico norma 72 tecnico-

specialistico consultivo 67 tecnico-

specialistico ricorso 60 tecnico-

specialistico costituzionale 55 comune legislativo 40 tecnico-

specialistico contenzioso 34 tecnico-

specialistico

IIll lliinngguuaaggggiioo ddeellllee iissttiittuuzziioonnii ppuubbbblliicchhee

nneeii ddiissccoorrssii ddii iinnsseeddiiaammeennttoo ____________________________________________________________________________________________________________________________________________________________

- 187 -

Come si può notare, la classifica delle 18 ricorrenze più frequenti riporta ben 10 lemmi “tecnico-specialisti” a fronte di 4 termini di “alto uso”, 2 “comuni” e 2 “fondamentali”. Non di rado la definizione di “tecnico-specialistico” viene attribuita a un lemma passibile anche di altre definizioni quando esso si colloca in un contesto particolare. Questi alcuni casi e la loro definizione nel VdB:

- giudice: organo dello stato chiamato a esercitare la giurisdizione in un determinato procedimento | s.m. e f., rappresentante, monocratico o collegiale, di tale organo;

- organo = complesso di funzionari, servizi, uffici preposto a funzioni specifiche nella gestione dello Stato o di un ente: organi giurisdizionali, organi della magistratura, di controllo;

- interesse = “esigenza di soddisfare un bisogno, tutelata dal diritto”; - norma = regola di comportamento di un ordinamento giuridico:

norme giuridiche, penali; - ricorso = istanza rivolta ad un organo giudiziario o amministrativo per

ottenere la revoca o la revisione di un atto o di un provvedimento, considerati lesivi di un diritto o di un interesse.

4. L’INDICE DI GUIRAUD È stato notato che nel linguaggio si fronteggiano due tendenze opposte: quella alla “unificazione” di chi si esprime e preferisce usare sempre le stesse parole e quella alla “diversificazione” di chi ascolta e preferisce di sentire definiti i significati attraverso l’uso di parole diverse1. In sostanza l’uso di parole diverse aumenta il contenuto informativo. Come si è già visto, l’indice di Guiraud misura appunto la “ricchezza lessicale” di un testo, ossia l’ampiezza del vocabolario utilizzato. La media di tale indice è risultata pari al valore di 20,16 che oscilla tra un minimo di 17,31 (Azzariti) e un massimo di 23,65 (Laschena). In sostanza, l’indice della “ricchezza lessicale” ricavata dall’applicazione della formula Guiraud ai testi in esame rivela un contenuto informativo piuttosto alto. E in effetti essi appaiono nel loro complesso di contenuto molto denso.

1 Cfr. M. E. PIEMONTESE, cit. pag. 87.

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DDiissccoorrssii

RRiicccchheezzzzaa ddii GGuuiirraauudd

Papaldo 1962 19,86 Rossano 1970 17,64 Greco 1971 20,14 Campbell 1976 18,02 Uccellatore 1976 20,15 Manzari 1979 21,77 Levi Sandri 1979 19,86 Azzariti 1989 17,31 Zagari 1995 19,36 Laschena 1996 23,65 Sernia 1999 23,88 Sacchetto 1999 20,32 Staderini 2000 20,30 De Roberto 2001 20,05 Mazzella 2002 20,08

MMeeddiiaa 2200,,1166

19,86

17,64

20,14

18,02

20,15

21,77

19,86

17,31

19,36

23,65 23,88

20,32 20,30 20,05 20,08 20,16

10

12

14

16

18

20

22

24

26

28

Papaldo Rossan o Gr eco Campbell Uccellat or e M an zar i Levi San dr i Azzar it i Zagar i Laschen a Ser n ia Sacchet t o St ader in i De Rober t o M azzella media

ricchezza lessicale di Guiraud

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4.1. Il numero delle “parole diverse” Questa la distribuzione del parametro fondamentale per determinare la ricchezza lessicale di Guiraud: il numero delle “parole diverse”2.

DDiissccoorrssii

NNuummeerroo ppaarroollee ddiivveerrssee

Papaldo 1962 1199 Rossano 1970 868 Greco 1971 1095 Campbell 1976 676 Uccellatore 1976 1602 Manzari 1979 1469 Levi Sandri 1979 1204 Azzariti 1989 818 Zagari 1995 1114 Laschena 1996 1708 Sernia 1999 1626 Sacchetto 1999 1049 Staderini 2000 1170 De Roberto 2001 1097 Mazzella 2002 1055

MMeeddiiaa 11118833,,3333

1199

868

1095

676

1602

1469

1204

818

1114

1708

1626

1049

1170

10971055

1183,33

500

1250

2000

Papaldo Rossan o Gr eco Campbell Uccellat or e M an zar i Levi San dr i Azzar it i Zagar i Laschen a Ser n ia Sacchet t o St ader in i De Rober t o M azzella media

numero delle parole diverse

2 Si ricorda che l’altro parametro è quello della radice quadrata del totale delle parole utilizzate, per il cui numero si rinvia alla tabella e il grafico b) del primo paragrafo (L’INDICE DI GULPEASE) di questo capitolo.

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5. LA GRIGLIA DI RILEVAZIONE Quanto agli esiti raggiunti attraverso l’analisi condotta con la griglia di rilevazione, i richiami ad eventi storici o a fatti particolari di cronaca non sono sempre presenti nei discorsi, mentre lo sono in modo molto incidente i riferimenti al contesto giuridico-istituzionale che in genere costituiscono la parte centrale degli interventi. Spesso i discorsi si chiudono con proposte di risoluzione di problemi enunciati. L’esame dei quindici discorsi ha messo in luce la positiva ricorrenza di uno schema logico che - nelle sue grandi linee - sembra in qualche modo richiamare l’impostazione pentapartita (inventio, dispositio, elocutio, memoria, actio) della grande retorica classica. L’impianto infatti, generalmente, si snoda nel modo seguente:

- i saluti; - l’illustrazione (talora accompagnata dal supporto di dati) dei maggiori

problemi presenti nell’Istituzione come le riforme avvenute o da venire; - le comparazioni storiche, le caratteristiche delle funzioni, i nodi

organizzativi; - le eventuali proposte di soluzione; - gli auspici di buon andamento istituzionale.

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IIIIII -- II DDIISSCCOORRSSII DDII IINNSSEEDDIIAAMMEENNTTOO EE II CCIITTTTAADDIINNII 1. LA TENTAZIONE DEL “FACILISMO” Abbiamo potuto verificare, attraverso l’analisi comparativa, che la media Gulpease dei quindici testi è di 38,78: ne consegue per essi una leggibilità “facile” e “indipendente”. Ma come si è illustrato nell’Introduzione gli invitati alle cerimonie di insediamento costituiscono una platea caratterizzata da una cultura alta e non estranea, anche sul piano tecnico, a quella dei relatori. L’indice medio Gulpease appena ricordato appare pertanto condizionato sia dal titolo di studio superiore degli immediati fruitori di quei discorsi, sia dal fatto che tra relatori e ascoltatori esiste un retroterra culturale generale e tecnico comune. È presumibile inoltre che - anche sul piano della “comprensibilità” - tutti i riferimenti impliciti siano stati intesi senza problemi e che l’appartenenza alla medesima koinè culturale abbia determinato nell’uditorio una comprensione “profonda” (vale a dire pienamente compiuta) dei discorsi. Infatti non possono essere considerati ostacoli per tale uditorio né le informazioni implicite, né i termini tecnico-giuridici. Dobbiamo allora concludere l’analisi sostenendo che sia sul piano della leggibilità, sia su quello della comprensibilità i quindici discorsi esaminati sono “facili”? Sì, sono “facili”, ma solo per la koinè a cui vengono rivolti. Ciò merita qualche riflessione. Innanzi tutto anche quella platea così qualificata potrebbe aver incontrato qualche ostacolo per una leggibilità e una comprensibilità più immediate. Vale la pena di notare come l’indice medio Gulpease pari a 38,78 si collochi a breve distanza dalla fascia 31-35, che porta invece ad attribuire a un testo la qualifica di “difficile” e un impatto di lettura scolastica. Ciò sta a significare che i discorsi di insediamento risultano, nel loro insieme, appena facili. Evidentemente permangono in essi alcuni ostacoli “superficiali” che impediscono quella leggibilità più agile, definita in Gulpease “molto facile”. Un primo ostacolo è costituito - lo si è già osservato - dalla lunghezza delle frasi che, nei testi esaminati, sono in media di numero maggiore (41%), rispetto a quelle brevi (14,2%). Ridurre, se non addirittura rovesciare, un tale rapporto potrebbe contribuire a una elaborazione di discorsi ancor più facilmente fruibili1. Inoltre, la connessione logica degli argomenti - pur quasi 1 Basterà ricordare che i due discorsi di insediamento che presentano la percentuale più alta di frasi brevi e quella più bassa di frasi lunghe sono anche quelli che hanno il migliore indice Gulpease di leggibilità. È il caso dell’intervento (1968) del Presidente Papaldo che, a fronte di una percentuale del 35,2% di frasi brevi (la media dei quindici discorsi è del 14,2%) e una percentuale del 15,2% di frasi lunghe (la media dei quindici

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sempre lucida e compatta - si rivela in qualche passaggio non del tutto limpida. Ad esempio, una paragrafazione snella e puntualmente connessa allo svolgimento logico non può non rendere il testo più “leggibile” e più “comprensibile”. In sostanza, la consapevolezza degli ostacoli rivelatisi più incidenti può aiutare i relatori a rendere meno difficili i propri discorsi senza con ciò dover rinunciare alla pregnanza dei contenuti. In proposito non si deve dimenticare che i documenti qui analizzati sono dei discorsi, vale a dire dei testi nei quali la grammatica, la sintassi e la retorica del linguaggio scritto vanno pur sempre coniugate con quelle proprie del linguaggio orale. Il che deve far riflettere sul fatto che, anche in occasioni così peculiari come le sedute di insediamento, il modus dicendi non può essere considerato una dimensione accessoria e non qualificante2. L’uso delle “parole meno diffuse”, che - come si è già detto - rappresenta normalmente un altro ostacolo, è invece nel caso in esame non rilevante, poiché gli ascoltatori le padroneggiano senza problemi. Esse, peraltro, definiscono la connotazione tecnico-specialistica dei discorsi, il loro distintivo contenuto informativo e, per così dire, la loro cifra peculiare. Sarebbe perciò inutile e improponibile intervenire su aspetti tanto caratterizzanti. Del resto, la legittimità della semplificazione linguistica applicata a testi dal contenuto molto denso, come quelli qui presi in esame, è difficilmente proponibile. In proposito, Tullio De Mauro sostiene che “è teoricamente sbagliato parlare di chiarezza dei testi come qualità assoluta e non relativa, legata di volta in volta a precisi contenuti da trasmettere a determinate persone o gruppi di persone a certe situazioni e a certi obiettivi”3. In realtà i contenuti che i discorsi di insediamento intendono comunicare non consentono facili forme di semplificazione. Tanto più che siamo di fronte a una comunicazione in cui “emittente” e “ricevente” si collocano su un piano di “simmetria”. La semplificazione costituirebbe non solo una limitazione delle potenzialità espressive del relatore, ma anche del diritto degli ascoltatori di fruire della ricchezza del linguaggio e dei contenuti. Non bisogna lasciarsi sedurre dall’idea che tutto si debba e si possa semplificare. Nel caso in esame, ad esempio, si tratta di discorsi di insediamento che non solo investono questioni di oggettiva complessità giuridica, ma costituiscono anche una sorta di rendiconto e di dichiarazione di intenti presentati di fronte alle massime autorità dello Stato. discorsi è del 41%) presenta un indice Gulpease di 45,71. Ma è pure il caso dell’intervento (2000) del Presidente De Roberto che, a fronte di una percentuale del 25,7% di frasi brevi e una percentuale del 19,8% di frasi lunghe, presenta un indice Gulpease di 41,43. 2 Cfr. W. J. ONG, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, trad. it. Il Mulino, Bologna 1986. Si veda anche A. PENNACINI (a cura di) Studi di Retorica oggi in Italia, Pitagora editrice, Bologna 1987. 3 Cfr. T. DE MAURO, Guida all’uso delle parole, cit., p. 6.

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2. LA NECESSITÀ DI FAR CAPIRE E tuttavia il processo di avvicinamento dello Stato ai cittadini comporta che non esistano luoghi - neppure nelle più alte istituzioni - in cui riservatamente si discutano gli arcana imperii. In un sistema democratico come quello italiano, quelle medesime autorità e la platea che nell’occasione le circonda rappresentano infatti - per composizione politica e amministrativa - l’intero Paese: gli argomenti trattati in quella sede prestigiosa ed esclusiva riguardano da vicino tutti i cittadini, i loro diritti, la loro stessa qualità della vita. Tra questi diritti - non va peraltro dimenticato - c’è anche quello - solennemente sancito dal dettato costituzionale, ma non per questo davvero ancora operante, di una istruzione e di una formazione per tutti umanamente sempre più ricche. Lo Stato e i cittadini diventano più vicini attraverso l’impegno dello Stato non solo a farsi capire di più, ma pure a garantire ai cittadini la capacità di capire meglio. Questa ricerca ha analizzato i discorsi di insediamento, ha cercato di pesare quelle parole. Il fine è stato appunto quello di verificarne l’impatto comunicativo, la capacità che essi hanno di farsi intendere. Si è già ricordato più volte come l’indice medio Gulpease dei quindici testi sia di 38,78. E si è pure ricordato come un tale parametro segnali che se essi sono “facili” per un pubblico fornito del titolo di laurea, possano poi risultare “difficili”, “molto difficili” e “quasi incomprensibili” per lettori rispettivamente in possesso del diploma di scuola secondaria superiore, della licenza media e della licenza elementare. Alla luce di tali dati, non è difficile osservare che la grande maggioranza dei cittadini italiani non sarebbe in grado di capire il senso dei discorsi dei “vertici” delle alte Istituzioni considerate in questa ricerca4. Si pone allora il problema di come far arrivare al pubblico più ampio le parole che, attraverso i discorsi di insediamento, danno solennemente voce all’Avvocatura dello Stato, al Consiglio di Stato e alla Corte dei conti. In sostanza, se si vogliono rendere davvero trasparenti queste autorevoli sedi di elaborazione e di discussione, si tratta di rendere fruibili testi come quelli che si sono esaminati a una platea ben più larga e assai meno coesa di quella altamente selezionata presente alle sedute di insediamento. Si tratta, va da sé, di un problema che non riguarda solo i discorsi di insediamento dei vertici delle alte istituzioni considerate in questa ricerca; è un problema che investe molti altri documenti - che per la peculiarità del contesto in cui vengono presentati e per la specificità dei contenuti di cui si 4 Si può ricordare che solo negli ultimi anni (e per le ultimimissime generazioni) la percentuale dei diplomati si è avvicinata al 70% e quella dei laureati al 16%: cifre, in ogni caso, che si collocano ben al di sotto della media europea.

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fanno portatori - non consentono o non rendono opportuna una diretta semplificazione del linguaggio. Un esempio per tutti: un testo normativo può certo essere meglio formulato all’origine, ma una volta in vigore non può essere semplificato, va solo “spiegato”. E tuttavia una via di soluzione c’è, e riguarda appunto tutti i testi che non sono passibili di una diretta semplificazione. Per avvicinare simili documenti ai cittadini è necessario innanzitutto valutarne i contenuti e la ratio interna, la struttura logica, lessicale e sintattica; si tratta poi di studiare i modi per facilitare la comprensione dei testi e cercare infine le forme per diffonderli alla platea che si vuole raggiungere. La ricerca compiuta sui discorsi di insediamento ci consente di suggerire un modello mirato di annotazioni esplicative e di schede informative. Gli studi sulla comprensione, richiamati nelle pagine precedenti, hanno infatti scientificamente individuato i maggiori ostacoli alla leggibilità e alla comprensibilità dei testi. Una sorta di agile ma puntuale “apparato critico” - che tenga appunto conto degli esiti delle rilevazione scientifiche - potrebbe allora rimuovere proprio questi ostacoli. Nel caso affrontato in questa ricerca, gli ostacoli a una “comprensione profonda” - che non possono essere eliminati dai testi e sui quali è invece possibile intervenire in sede di chiosa e di commento - sono in sostanza la terminologia tecnico-specialistica e i riferimenti impliciti. Il lessico tecnico-specialistico può essere parafrasato senza essere tradito: potrebbe essere sufficiente accompagnare i testi con un glossario semplice e rigoroso per facilitare la loro comprensione. Quanto ai riferimenti impliciti si tratta, come ovvio, di renderli espliciti: si tratterà cioè, da una parte, di illustrare il contesto generale nel quale i testi si collocano e dall’altra, solo per fare qualche esempio, di spiegare il senso di una determinata riforma, di ricordare i contenuti di una specifica legge, di chiarire la natura di alcuni riferimenti di merito. Per quanto riguarda le forme di diffusione sappiamo quante opportunità i media possono oggi offrirci. La stampa, la televisione, la rete internet costituiscono nel loro insieme uno straordinario mezzo di informazione. Questi media costituiscono già oggi uno strumento essenziale nel processo di avvicinamento dello Stato ai cittadini. In questo quadro si può pensare a una utilizzazione mirata di tali mezzi per allargare la platea di ascolto dei discorsi di insediamento. In primo luogo, i comunicati stampa. Troppo sovente rimangono anch’essi riservati a un ristretto pubblico di addetti ai lavori. I comunicati stampa - aggiornati nella struttura e nel lessico - possono invece diventare un primo e inedito strumento di semplificazione. Essi devono cioè fornire ai media una chiave di lettura comprensibile per i cittadini. I bilanci, le indicazioni, le prospettive, gli stessi problemi affrontati nei discorsi di insediamento devono

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insomma essere presentati in modo che il cittadino comune li avverta non come qualcosa di estraneo o addirittura di misterioso, ma come aspetti qualificanti dell’organizzazione della società civile e della sua stessa esistenza quotidiana. In secondo luogo, i siti internet dedicati. Già oggi i discorsi di insediamento trovano i loro specifici link nelle home pages - generalmente ricche e ben curate - dell’Avvocatura dello Stato, del Consiglio di Stato e della Corte dei conti. E tuttavia le modalità con cui i discorsi di insediamento vengono diffusi via internet sono certo assai utili, ma restano ancora una volta destinati a una platea sostanzialmente elitaria. Queste modalità vanno allora rivisitate per consentire che la platea si dilati, diventi sempre più larga. In proposito, i suggerimenti che si sono poco sopra avanzati, possono trovare - grazie alla duttilità e alla capacità di impatto dello strumento informatico - un’attuazione più semplice e più coinvolgente: le homes pages offrono difatti non solo uno spazio più ampio per annotazioni e schede, ma consentono pure l’opportunità di interventi iperterstuali facilmente fruibili e graficamente accattivanti. Un complesso ben strutturato di informazioni testuali, unite fra loro da rimandi e collegamenti logici, consentendo una consultazione anche secondo percorsi non sequenziali, potrebbe accompagnare la diffusione internet dei discorsi di insediamento sia con brevi e semplici note che illustrino la figura del relatore e lo specifico ruolo delle singole magistrature, sia con una sintesi agile che riassuma l’impianto logico e i contenuti principali degli interventi, sia con link mirati a rendere espliciti citazioni, allusioni, riferimenti, sia infine con un adeguato glossario. La griglia di rilevazione predisposta per questa ricerca potrebbe costituire - con gli opportuni adattamenti - un modello base da sperimentare. Questa una possibile ipotesi di massima:

il discorso di insediamento

l'impianto logico-concettuale

la figura del relatore

il passato e il presente

il ruolo dell'Istituzione

l'articolazione dei contenuti

il contesto giuridico-istituzionale

il glossario

l'esplicitazione dei riferimenti

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BBIIBBLLIIOOGGRRAAFFIIAA EESSSSEENNZZIIAALLEE

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BBIIBBLLIIOOGGRRAAFFIIAA EESSSSEENNZZIIAALLEE ASSEMBLEA COSTITUENTE, Atti. III. Discussioni, Roma, Camera dei deputati AGENZIA DELLE ENTRATE, Ufficio Relazioni Esterne, Il linguaggio del Fisco. Dizionario pratico dei termini tributari, Roma 2002 M. AINIS, La legge oscura. Come e perché non funziona, Laterza, Roma-Bari 1997 G. ALFIERI, A. CASSOLA, La “Lingua d’Italia”. Usi pubblici e istituzionali, Atti del XXIX Congresso della Società di Linguistica Italiana (Malta 1995), Bulzoni, Roma 1998 G. AMBROSINI, Ti querelo! I diritti di chi informa e di chi è oggetto di informazione, Il Segnalibro, Torino 1997 G. ARENA (a cura di), La comunicazione di interesse generale, Il Mulino, Bologna, 1995 J. L. AUSTIN, How to do things with words, Clarendon Press, Oxford 1962, trad. it. Come fare cose con le parole, Marietti, Genova 1987 V. BACHELET, L’amministrazione in cammino. Una guida alla lettura degli scritti giuridici di Vittorio Bachelet, Giuffrè, Milano,1984 M. BALDINI, Parlar chiaro, parlare oscuro, Laterza, Roma-Bari 1989 G. BASILE, Storia e caratteristiche dell’italiano burocratico, «Novecento», 1, 1991, pp. 23-40 R. A. BEAUGRANDE - W. U. DRESSLER, Einführung in die Textlinguistik, Niemeyer, Tübingen1981, trad. it. Introduzione alla linguistica testuale, Il Mulino, Bologna1994 G. L. BECCARIA (a cura di), I linguaggi settoriali in Italia, Bompiani, Milano 1973 G. L. BECCARIA, Italiano antico e nuovo, Garzanti, Milano1992 E. BENVENISTE, Problèmes de linguistique générale, Gallimard, Paris 1966, trad. it. Problemi di linguistica generale, Il Saggiatore, Milano 1971 G. BERRUTO, Sociolinguistica dell’italiano contemporaneo, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1987 M. BERTOLDI, F. COLMELET, Una proposta per l’individuazione del tema di base di un testo in CARGNEL, COLMELET, DEON (a cura di - cit.), 1990, pp. 133-180 E. BERTONELLI (a cura di), Insegnare e apprendere, Giunti, Firenze 2000. E. BERTONELLI, P. BOSCOLO, F. FRABBONI, G. RODANO, C. SCURATI, La dimensione curricolare, Bruno Mondadori, Milano 2001 M. BERTUCCELLI PAPI, Che cos’è la pragmatica?, Milano, Bompiani, 1993 M. BERTUCCELLI PAPI, Gli atti linguistici, in BRUNI-RASO (a cura di - cit.) 2002, pp. 72-80 N. BOBBIO, Il linguaggio del diritto, Giuffrè, Milano 1994 J. D. BOLTER, L’uomo di Turing: la cultura occidentale nell’età dei computer, Pratiche, Parma 1985 J. BRUNER, Lo sviluppo cognitivo, Armando, Roma 1994 J. BRUNER,La cultura dell’educazione. Nuovi orizzonti per la scuola, Feltrinelli, Milano 2001 S. BRUNAMONTI, M. C. DEL FIORENTINO, S. GIGLI, M. RICCUCCI, Iter di un documento amministrativo, in COVINO (a cura di - cit.) 2001, pp. 143-153 F. BRUNI, G. ALFIERI, S. FORNASIERO, S. TAMIOZZO GOLDMANN, Manuale di scrittura e comunicazione, Zanichelli, Bologna 1997

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AAPPPPEENNDDIICCEE

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22.. TTEESSTTOO IINNTTEEGGRRAALLEE DDEEII QQUUIINNDDIICCII DDIISSCCOORRSSII DDII IINNSSEEDDIIAAMMEENNTTOO AANNAALLIIZZZZAATTII NNEELLLLAA RRIICCEERRCCAA

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Pubblichiamo in appendice questo intervento - che pure non è un discorso di insediamento - di Ferdinando Carbone, Presidente della Corte dei conti dal 10 dicembre 1962 al 5 aprile 1970, sia per il prestigio del relatore, sia per fornire ai lettori un utile elemento di confronto diacronico.

1. LA FIGURA DEL RELATORE Nato a Mola di Bari il 5 aprile del 1900, si laurea in Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Bari. La sua carriera professionale lo vede svolgere le funzioni di Magistrato Ordinario, successivamente di Avvocato dello Stato e di Consigliere di Stato. La vasta preparazione giuridica e le sue doti professionali lo portano a ricoprire anche incarichi prestigiosi, come quello di Segretario Generale della Presidenza della Repubblica, ma la sua carriera raggiunge il culmine il 1° aprile del 1954 con la sua nomina a Presidente della Corte dei conti. Esercita le relative funzioni per un ampio lasso di tempo, sino al 5 aprile del 1970, data del suo collocamento a riposo. 2. IL CONTESTO STORICO È quello caratterizzato in Italia dal primo governo di centrosinistra (21 febbraio 1962) presieduto da Amintore Fanfani e composto da DC, PSDI e PRI. Esso caratterizza gli ultimi mesi della III legislatura (le nuove elezioni politiche si terranno nell’aprile 1963). Il gabinetto, nasce sull’onda della svolta impressa da Aldo Moro al congresso democristiano di Napoli (gennaio 1962) e - pur pagando il dazio di una scelta più moderata per la Presidenza della Repubblica (Antonio Segni sale al Quirinale il 16 maggio 1962) - si presenta con un programma piuttosto avanzato, direttamente concordato con i

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socialisti di Pietro Nenni. Il PSI infatti, pur non assumendo ancora responsabilità ministeriali, si impegna a dare il suo appoggio a singoli provvedimenti legislativi. Si trattava non solo della realizzazione della scuola media unica, che divenne legge già il 31 dicembre 1962, ma pure di altri impegni programmatici destinati a un percorso parlamentare più lungo e tormentato: tra gli altri la nazionalizzazione dell’industria elettrica e l’attuazione dell’ordinamento regionale previsto dalla Costituzione. Il discorso di Ferdinando Carbone presenta non a caso più di un richiamo a quest’ultima prospettiva, destinata peraltro a realizzarsi solo otto anni dopo. Quanto alla situazione internazionale, merita di ricordare che, circa un mese e mezzo prima del discorso di Ferdinando Carbone, il mondo aveva attraversato per sei giorni (16-21 ottobre) la drammatica crisi dei missili sovietici a Cuba. 3. L’IMPIANTO LOGICO-CONCETTUALE 1. INTRODUZIONE 2. “Render conto” e funzione di controllo 3. “Fugace” ma in realtà ampia rievocazione storica 4. Continuità e discontinuità nell’azione della Corte 5. I processi evolutivi: verso le Regioni e verso l’Europa 6. La necessità di una unitaria azione di controllo 7. La funzione giurisdizionale: le pensioni 8. Conclusioni 4. L’ARTICOLAZIONE DEI CONTENUTI INTRODUZIONE Diffuso e articolato saluto alle autorità presenti. Riferimenti compiaciuti (“apprezzamenti e spunti che ci lusingano”) all’intervento del Presidente del Consiglio Amintore Fanfani e al ruolo dell’esecutivo - “proprio l’esecutivo i cui atti sono oggetto della funzione di controllo” - per aver di recente supportato l’azione della Corte con la legge 1345/19611 nonché alla “fausta” inaugurazione da parte del Presidente della Repubblica Antonio Segni della nuova sede della magistratura amministrativa in contemporanea con

1 Integrata nel 1969 dalla legge 13 ottobre, n. 1691

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l’insediamento del relatore. Accenno alla serenità dei rapporti con i due rami del Parlamento e al “raro privilegio” di tali relazioni. Rapido ma puntuale richiamo alla lunga carriera giudiziaria del relatore nel ricordare gli “ottimi rapporti funzionali, pur ovviamente nel geloso rispetto delle reciproche competenze, con le altre supreme Magistrature e nell’augurare che la Pubblica Amministrazione “perpetui e ravvivi una tradizione che più nobile e luminosa essere non potrebbe” attingendo a una sempre maggiore efficienza. “RENDER CONTO” E FUNZIONE DI CONTROLLO Un centenario della Corte che coincide con il suo inserimento nella raggiunta unità nazionale, che consentì alla Corte stessa una nuova strutturazione sulla “base di ben più antichi ordinamenti”2. Il reddere rationem è infatti “regola d’ordine istituzionale” da sempre: il “fattore infedele” del Vangelo di Luca. Ma al render ragione dialetticamente si accompagna la funzione del controllo: il conto era il logos per gli elleni, la ratio per i latini. “FUGACE” MA IN REALTÀ AMPIA RIEVOCAZIONE STORICA Richiami al ruolo di antichi organi di controllo: il Tribunale ateniese dei logisti, la Chambre des comptes di Luigi IX (1200), la Camera dei conti savoiarda (1351) prima e piemontese poi. La Corte dei conti “suprema e unica” dà inizio a “quella unità di legislazione civile che giova ad eguagliare le condizioni dei cittadini qualunque sia la parte d’Italia in cui ebbero nascimento o tengano dimora” (Quintino Sella). Lo sviluppo della Camera dei conti in Corte dei conti sarda e il suo progressivo allargamento all’intero Paese, sino alla legge unificatrice del 14 agosto 1862 sulla scorta del precetto di Cavour: “è assoluta necessità di concentrare il controllo preventivo e consuntivo in un magistrato inamovibile”. Segue il ”reverente pensiero”, piuttosto articolato, ad alcuni dei Presidenti che (per il passato tra gli altri Federico Colla, Antonio Scialoja, Gaspare Finali, Camillo Peano, in tempi più recenti Gustavo Ingrosso e Augusto Ortona) hanno retto la Corte. CONTINUITÀ E DISCONTINUITÀ NELL’AZIONE DELLA CORTE Non solo commemorazione di “pur assai memorandi fasti”, non solo “attenta e pensosa meditazione del passato” per “scrutare più lontani orizzonti, per attingere più alte mete”. In cento anni densissimi nessun apprezzabile mutamento istituzionale della Corte, molte innovazioni funzionali. Inalterata la

2 Come è noto (e come più avanti sarà ricordato dal relatore) l’attuale Corte dei conti discende dalle legge unificatrice del 14 agosto 1862 che uniformò alle esigenze del neonato Regno d’Italia l’antichissima Camera dei conti savoiarda.

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sfera del controllo di legittimità sugli atti del Governo e dell’Amministrazione, mutata invece a fronte dei fenomeni nuovi il controllo sulla gestione del bilancio dello Stato. Da qui la recente, opportuna nuova normativa, la cui applicazione suggerirà eventuali, ulteriori perfezionamenti. L’apprezzamento sulla bontà tra il modo diretto o indiretto di intervento dello Stato è compito “squisitamente politico” che pertiene agli Enti preposti, e ogni altra valutazione - “specie se strettamente giuridica” - subentra “solo allorché la spinta sociale si sia esaurita trasformandosi nel fine istituzionale, dell’Ente. Goda esso della più ampia autonomia, ma il suo operato e la sua gestione non rimangano mai sottratti a un concomitante controllo, secondo il principio dell’articolo 100 della Costituzione”. I PROCESSI EVOLUTIVI: VERSO LE REGIONI E VERSO L’EUROPA La prospettiva dell’avvio ad attuazione dell’ordinamento regionale e la recente istituzione delle Delegazioni regionali: la Corte da struttura centralizzata si avvia a divenire organo decentrata. Rinnovata richiesta di sollecita creazione di tribunali contabili regionali, distinti dai tribunali amministrativi. La novità di Enti internazionali e sopranazionali, che traggono le risorse dai bilanci dei singoli Stati, il che implica l’allargamento delle funzioni di controllo. LA NECESSITÀ DI UNA UNITARIA AZIONE DI CONTROLLO Il controllo se rettamente inteso deve essere unico e unitario e spettare alla Corte dei conti, al di là del “controllo interno” esercitato dalle singole amministrazioni. Né “le esigenze di prontezza e la speditezza” possono mai prevalere su quelle di un efficiente controllo. Sia esso il più snello e è pronto possibile, “ma si sia molto guardinghi nel tentar altre vie ed altre soluzioni”. LA FUNZIONE GIURISDIZIONALE: LE PENSIONI L’importanza di quella relativa alle pensioni. “All’annosa aspettativa degli interessati non manca di corrispondere il premuroso anelito di magistrati e funzionari”. Ma il numero dei giudizi resta soverchiante: ne conseguono i deprecati ritardi, effetto non solo patologico dell’arretrato, ma fisiologico del sistema. I possibili rimedi: le due nuove sezioni giurisdizionali “non a guari disposte” e le “emendate norme” sono tese ad assicurare andamenti più semplici e spediti. I problemi posti dalla “contabilità pubblica”, più vasta e generale della “contabilità dello Stato”. CONCLUSIONI

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La Corte da sempre guarentigia di Governo e Parlamento. Posizione equidistante della Corte rispetto a essi. Necessità di un più stretto rapporto con il Legislativo. Lunga citazione di Quintino Sella: “vegliare che il potere esecutivo mai violi la legge”. La nostra indipendenza è dipendenza assolta dalla legge. Finali saluti, auguri ed elogi al Presidente della Repubblica. 5. LA LEGGIBILITÀ E LA COMPRENSIBILITÀ LA LEGGIBILITÀ L’intervento del presidente Ferdinando Carbone, tenuto in occasione del primo centenario della Corte dei conti italiana (un’occasione che viene inoltre a coincidere con l’inaugurazione della nuova sede di Viale Mazzini della Corte medesima), presenta non tanto le caratteristiche dell’esternazione programmatica quanto - pour cause - quelle del discorso di rievocazione storica. Certo, non mancano passaggi più specificatamente “tecnici” dedicati al peculiare ruolo della Corte. È il caso appunto della ribadita necessità di una funzione unitaria di controllo della Corte dei conti anche a fronte di una spesa pubblica in fase di dilatazione rispetto a quella statale. Ed è pure il caso dell’analisi del nodo già allora intricato delle pensioni, nonché quello delle lentezze e dei ritardi della definizione delle relative istruttorie e delibere giurisdizionali. D’altra parte, non mancano accenni a temi di più stringente attualità: ad esempio, gli inediti problemi posti sia dalla prospettiva regionale, sia dalla nuova dimensione europea. E tuttavia, il taglio complessivo della prolusione è quello dei puntuali richiami storici, della rievocazione talora commossa e della riflessione classicamente riposata. Classica infatti, per non dire classicheggiante, è la cifra stilistica dell’intero intervento, costruito secondo i dettami - cari alla scuola in cui la generazione di Ferdinando Carbone si era formata - della concinnitas, di tanto in tanto sapientemente combinata con qualche variatio. L’aggettivazione ricercata e abbondante3, la dittologia sinonimica spesso presente (insistita talora sino al climax ascendente)4, il ricorso non solo episodico al chiasmo5 e quello volutamente perseguito - ma proprio per

3 Cfr., ad esempio, “arida, monotona elencazione”, “fermo, categorico monito”, “adeguamento costante, vigile, prudente”, “vaghi, apparenti sospetti”, “in forma esterna, pubblica, indipendente, “tenuta gelosamente al riparo e difesa”. 4 Cfr., tra le numerose occorrenze, “l’indirizzo e l’auspicio”, “attenta, serena valutazione”, “avallate e accreditate le circostanze”, “perfetto, spedito ed efficiente servizio”, “congegni e strutture”, “necessari adattamenti, adeguamenti, rinnovamenti”, “normativa insufficiente, inadeguata, di difficile e lenta applicazione”, “di quali perfezionamenti, chiarimenti, integrazioni, sviluppi essa necessiti”, “avvertita, acclarata fondatezza”, “ritardi ed intralci”, “esigenze di prontezza, speditezza, produttività”. 5 Cfr. tra le citazioni possibili: “novello anelito e freschezza rinnovata”; “annosa aspettativa…premuroso

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questo più significativo - al termine aulico o addirittura desueto6, la stessa anafora della perorazione conclusiva7 sono elementi tutti che contribuiscono a dare all’intero intervento una peculiare patina d’epoca. Ne scaturisce un periodare se non sempre limpido, tuttavia sostanzialmente rigoroso e - almeno secondo i gusti ancora un po’ retro dei tempi - pacatamente affabulante. Il testo è infine arricchito da un sapiente richiamo evangelico, da un puntuale richiamo a Cavour e da un paio di ampie citazioni di Quintino Sella, dal contenuto senza dubbio pertinente, ma dal sapore - forse - garbatamente polemico in una stagione storica che vede l’Italia in pieno boom economico cominciare a divenire una “società affluente”. Il discorso del Presidente Ferdinando Carbone ha un indice di leggibilità di 37,18. Questo valore ci segnala che il documento è “facile” per un pubblico in possesso di titolo accademico, ma ci avverte pure come esso possa risultare “difficile” per lettori con un diploma secondario superiore8. Quanto agli effetti sul lettore, il discorso corrisponde per la prima categoria di fruitori a un livello di “lettura indipendente” - che consente di orientarsi nel testo senza alcun aiuto - mentre per la seconda categoria viene prevista una “lettura scolastica”, assistita cioè dalla presenza di un docente e/o di un esperto. L’indice di 37,18 si colloca infatti abbastanza vicino a quella soglia di 35 che - anche per lettori laureati - individua l’area (31-35) di una leggibilità “difficile”. I parametri che determinano l’indice di leggibilità del discorso del Presidente Carbone sono i seguenti: le parole “fondamentali” sono il 70%, quelle molto “comuni” il 10%, quelle “comuni” il 1% e quelle “meno diffuse” il 19%. Il testo consta di 78 paragrafi, ciascuno dei quali contiene in media circa una frase e mezza (1,6) e 103 parole. Le frasi lunghe (vale a dire quelle con più di 40 parole) sono di numero significativamente superiore alle frasi corte (vale a dire quelle con un massimo di 15 parole): le prime sono difatti 79 (pari al 62,7% del testo), le seconde sono solo 13 (pari al 10,3%). È evidente che la relativa “facilità” del testo del Presidente Carbone è provocata non tanto dalla significativa percentuale (19%) dei termini tecnico-specialistici o addirittura desueti, ma soprattutto dalla netta prevalenza delle

anelito”, “trascurabile interesse…documento suscitato” “dedizione e sacrificio insufficienti…soverchiante numero dei giudizi”. 6 Tra i lemmi e le forme di tale natura segnaliamo alcuni tra i più ricorrenti: “dianzi” “resultato”, “oprare”, “necessarietà”, “garenzia”, “guarentigia”, “rattrovare”, “repetesi”, “noverò”, “cagion”, “unigena”, “epperò”, “guari”, “niuno”, “plurillustre”, “siansi,” “inalveamento”, “conviensi”, “cennato”, “traluce”. Ma molti altri sarebbero gli esempi possibili. 7 “E mentre a conclusione il mio dir si avvia, a Voi, cari colleghi e, insieme con Voi, ai nostri collaboratori tutti, qui presenti o altrove in ascolto a Voi, ultimi nella menzione, ma primi, come sapete, nella mia affettuosa considerazione, a Voi, componenti tutti la famiglia della Corte - famiglia, dico, nel senso più reale che il termine ha nei rapporti umani, famiglia nella quale ogni giorno fondiamo e confondiamo le nostre ansie, le nostre gioie, i nostri tormenti - a Voi il mio pensiero si volge”. 8 E difatti il testo sarebbe “molto difficile” per il licenziati dell’obbligo e “quasi incomprensibile” per chi avesse concluso solo la scuola elementare.

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frasi lunghe su quelle brevi. LA COMPRENSIBILITÀ L’indice di Guiraud tocca il valore di 26,67: il valore più alto tra i discorsi considerati in questa ricerca. Il fatto non deve sorprendere: proprio il peculiare taglio espositivo dell’intervento - pronunciato in un’occasione particolare e soprattutto costruito secondo il lessico e gli stilemi cari alla scuola in cui la generazione di Ferdinando Carbone si era formata - contribuiscono a far registrare una “ricchezza lessicale” molto alta, in qualche modo inusitata9. Uno dei parametri principali considerati dall’indice di Guiraud è difatti il numero delle “parole diverse” rispetto a quello di tutti i termini usati: nel discorso di Carbone le prime sono 2391 su un totale di 8036. In sostanza il Presidente Carbone tende a esprimersi seguendo un impianto concettuale fortemente strutturato, in cui sia le scelte sintattiche, sia l’articolazione delle frasi contribuiscono a costruire un testo compatto nella sua complessità e caratterizzato per di più, come si è visto, da una certa “patina d’epoca”. Essa costituisce al tempo stesso il fascino che il testo suscita in un pubblico di addetti ai lavori e il limite di leggibilità per quanti non siano provvisti degli strumenti di decodifica necessari. La tabella seguente sintetizza visivamente alcune delle principali caratteristiche del testo appena esaminato:

DISCORSO DI INSEDIAMENTO DEL PRESIDENTE FERDINANDO CARBONE Indice Gulpease Numero dei

paragrafi Numero delle frasi Numero delle frasi

lunghe Numero delle frasi

brevi Media delle frasi

per paragrafo

37,18 78 126 79 (62,7%) 13 (10,3%) 1,6 Totale delle parole

utilizzate Numero delle parole diverse

Media delle parole per paragrafo

Media delle parole per frase

Percentuale dei termini tecnici

Ricchezza lessicale di

Guiraud

8036 2391 103 63,8 19% 26,67 I termini che più frequentemente ricorrono nel discorso di insediamento sono invece questi:

9 Non a caso nel discorso del Presidente Ferdinando Carbone ricorrono, come si è visto in sede di analisi qualitativa, non pochi lemmi che il Dizionario Italiano di Base (DIB) curato da Tullio De Mauro definisce obsoleti e/o letterari, distinguendoli dalle altre quattro categorie utilizzate in questo medesimo vocabolario (“grammaticali o fondamentali”, “molto comuni”. “comuni” e “specialistiche”) e - lo si è ricordato nell’Introduzione - fatte proprie nella presente ricerca.

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51 controllo 37 potere 33 pubblico 26 funzione 23 gestione 18 dovere 17 ordinamento 17 fine 16 esigenza 14 materia 14 legge

TESTO INEGRALE DEL DISCORSO TENUTO DAL PRESIDENTE FERDINANDO CARBONE IN OCCASIONE DEL CENTENARIO DELLA CORTE DEI CONTI 10 dicembre 1962 Signor Presidente della Repubblica, a Lei, a Sua Eminenza Reverendissima il Signor Cardinale pro Vicario generale di Sua Santità, al Signor Presidente del Senato, al Signor Presidente del Consiglio dei Ministri, al Signor Vice Presidente della Camera dei Deputati, al Signor Presidente della Corte Costituzionale, ai Signori Presidenti e Delegati delle Corti dei conti estere - le quali tutte a questa celebrazione idealmente partecipano nella persona del Direttore del Segretariato permanente internazionale dei supremi organi di controllo sulle pubbliche finanze - e a quanti altri - che mi scuso di non poter, come vorrei, singolarmente nominare - qui rappresentano le altre istituzioni massime dello Stato, dalla Magistratura tutta ai Supremi Organi Consultivi, alle Forze Armate, ai Corpi Accademici, alla Pubblica Amministrazione, le grazie più vive, della Corte dei conti e mie personali, per averci onorato di Loro presenza; grazie che, in maniera particolare, sento il dovere di rendere a Lei, Signor Presidente del Consiglio dei Ministri, per l'indirizzo che si è dianzi compiaciuto di rivolgere alla Corte e i cui spunti ed apprezzamenti assai ci lusingano, anche perché evidentemente, non una mera formale esigenza di circostanza assolvono, per riflettere, invece, come fedelmente riflettono, la grande sensibilità e la uguale sollecitudine del Governo per tutte le esigenze, sul piano così funzionale che organizzativo e strumentale dell'Istituto, non solo, ma la favorevole disposizione con cui sin qui le ha valutate e ne ha promosso, mediante opportune iniziative, in sede legislativa e amministrativa, il soddisfacimento, il fermo proposito così rivelando dell'Esecutivo -proprio dell'Esecutivo i cui atti sono della funzione di controllo della Corte oggetto - di voler, con le provvidenze già adottate e con le altre che si renderanno necessarie, di tale funzione assicurare la più perfetta efficienza, attraverso un sempre migliore funzionamento dell'organo che ne è titolare. Sono, da ultimo, tra l'altro, concrete manifestazioni, appunto, di tal proposito - mosso da una visione, che più esatta non potrebbe essere, dello Stato di diritto - le norme, ad iniziativa del Governo, introdotte con la legge n. 1345 del 20 dicembre 1961 per mettere in grado la Corte di fronteggiare una situazione divenuta assai delicata e difficile, nonché questa sede, oggi così faustamente da Lei Signor Presidente della Repubblica inaugurata, la quale con l'apprestare, come appresta - mirabile resultato dell'impegno con cui progettista, direzione dei lavori, imprese, tecnici, maestranze, e ultimo in ordine di tempo, ma non d'importanza, il Provveditorato Generale dello Stato, ne hanno concepito e curato la costruzione e l'arredamento - con

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l'apprestar, dicevo, ambienti ed attrezzature che - dalle nove aule delle Sezioni giurisdizionali e da quelle delle Sezioni del controllo, dagli uffici, alla biblioteca, agli archivi, fino all'ambulatorio (con tanta cura allestito dall'ENPAS, al quale va la nostra gratitudine) - assicurano al lavoro condizioni e mezzi per essere assolto nel modo più agevole, più razionale, meglio organizzato, più spedito e, dunque, con resultati sempre più apprezzabili ed efficienti. Né minore - sebbene forse per motivi non altrettanto evidenti -è la riconoscenza della Corte dovuta al Parlamento, che le iniziative del Governo ha valutato e assecondato in una attenta, serena visione della posizione e delle funzioni dell'Istituto nei rinnovati fondamentali ordinamenti, non solo, ma che alla Corte ha sempre riservato, nelle dirette relazioni che essa ha il sommo, raro privilegio di intrattenere con le due Camere, una considerazione che più di ogni altra altamente ci onora. E notati - con soddisfazione particolarmente intensa in me che ho l'onore di indossare, da altre quarant'anni, la toga sempre al servizio dello Stato, prima come magistrato ordinario, poi, come avvocato dello Stato, poi ancora come magistrato del Consiglio di Stato ed in atto come magistrato della Corte dei conti - notati, dicevo, gli ottimi rapporti funzionali, pur ovviamente nel geloso rispetto delle reciproche competenze, con le alte Supreme Magistrature - rapporti che qualche inevitabile dissenso costruttivo, men che affievolire o compromettere, ha reso sempre più armonici - non può la Corte, in questa solenne ricorrenza, non rivolgere il suo pensiero a tutta la Pubblica Amministrazione e formulare il fervido augurio che la revisione ed il perfezionamento della sua organizzazione, nel quadro di una più precisa definizione del carattere e dei limiti del rapporto intraorganico tra essa e il Governo, abbiano a far attingere - perpetuando e ravvivando una tradizione che più nobile e luminosa essere non potrebbe - la maggiore efficienza alla sua, che è funzione determinante nella vita dello Stato. In questo quadro si inserisce e a questi sentimenti induce l'animo nostro, l'odierna - dalla Sua partecipazione, Signor Presidente, resa, così solenne - cerimonia, promossa - convien subito dire - per celebrare, non un anniversario, sia pure altamente significativo, della creazione della Corte, ma il primo centenario del suo inserimento nella raggiunta unità d'Italia. Ed invero che la Corte dei conti non sia nata con il nascere del nostro Stato unitario, ma abbia ricevuto, in si fausta occasione, soltanto una nuova strutturazione, sulla base di ben più antichi ordinamenti, che occorreva adeguare alle novelle esigenze, è, questa, nozione di ragion comune, sulla quale non mette perciò il conto di indugiare, così come davvero superfluo tornerebbe attardarsi in un analitico richiamo alle remote origini storiche dell'Istituto. Basterà dire, in termini ampiamente generali, come l'obbligo di render altrui conto di una gestione, di un'amministrazione, la quale non sia stata condotta nel proprio esclusivo interesse, è regola d'ordine razionale, che non può, dunque, esser collocata in una o in un'altra epoca storica, ma che, nel secolare fluire delle vicende umane, sempre di vita propria, ammonitrice vive. Né potrebbesi, a tal proposito, ricordare alcunché di più efficace della parabola tramandataci dal Vangelo di Luca, là dove si intima al fattore infedele di rendere conto della sua amministrazione. Ma al reddere rationem si accompagna, come necessario presupposto e sviluppo dialettico, il controllo che accerti la bontà e la regolarità dell'operato, ovvero metta in evidenza lo squilibrio tra ciò che dovevasi fare e ciò che fu fatto: in entrambi i casi, giudizio preordinato alla naturale composizione dell'antitesi logica fra i due soggetti del rapporto. Queste due esigenze, congeniali all'azione umana, trovano riaffermazione ancor più vigorosa sul piano sociale: l'esistenza stessa della societas (e dunque dello Stato, che ne costituisce la forma più compiuta) è intimamente condizionata ad una sorta di ritmo vitale, che componga, in armonica cadenza, l'oprar per il bene comune e, sempre nell'interesse di questo, il controllo, così su tale oprare come suoi resultati. E, non a caso, si suole in proposito sottolineare il poliedrico significato del termine adoperato nelle civiltà antiche a noi più vicine per indicare il conto: logos, cioè, per gli elleni, ratio per i latini. Non v'ha, dunque, dubbio che degli attuali organi di controllo sulla gestione del pubblico denaro sia ben agevole ritrovare lontani precedenti nei regni e nelle repubbliche dell'evo antico e di mezzo; tra i quali degno soprattutto di menzione il Tribunale ateniese dei “logisti” il cui ordinamento, è stato giustamente osservato, rivela in nuce i caratteri sostanziali dell'odierno processo contabile: la necessarietà, cioè, del giudizio sul rendiconto circa l'uso dei fondi pubblici, l'autonomia funzionale del pubblico ministero, le garenzie processuali, l'autorità della cosa giudicata. E sono, accostandoci con fugaci riferimenti alle istituzioni nostre, nel solco di questa remota tradizione, la Chambre des comptes francese: suprema magistratura finanziaria istituita nel secolo XIII da Luigi IX - che non soltanto giudicava i conti, ma esercitava anche un controllo preventivo mediante il diritto di rimostranza sui provvedimenti regi in materia demaniale - nonché la Camera dei conti, istituita nel 1351 a Chambery da Amedeo V, e quella di Torino, cui diede assetto Emanuele Filiberto: magistrature, che esercitavano entrambe il loro controllo in forma giurisdizionale, ed alle quali era attribuito il “diritto di interinazione” per i provvedimenti normativi emanati dal princeps. E senza ulteriormente indugiare in un'arida monotona elencazione di altri tipi di supreme magistrature di controllo - generalmente provviste di penetranti poteri, dispiegati sempre con elevato prestigio - una nota

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nella evoluzione di esse si coglie con carattere di universalità: la razionale esigenza, cioè, di un controllo sollecita bensì sempre il sorgere e lo svilupparsi della corrispondente funzione, ma non la cristallizza in schemi permanenti, destinata quale essa è, volta a volta, a necessariamente adeguarsi, come la si vede adeguare, nella varietà e talora nella eterogeneità degli istituti in cui si concreta, ai più disparati aspetti costituzionali, sociali, economici, in una incessante evoluzione, la quale, tuttavia, lungi dallo sfiorare, ne lascia sempre indenne la intima essenza. Così, all'índomani della raggiunta unità d'Italia, ponendosi subito, grave ed urgente, il problema concreto della organizzazione del novello Stato, la classe dirigente - inceppata nel suo proceder da ostacoli che, nell'odierna visione retrospettiva, sfrondata dalle deformazioni del mito, si rivelano sempre più complessi, per i forti contrasti di ideologie, per le radicate tradizioni regionalistiche, per la tenace resistenza degli istituti travolti, e per le diffidenze, i malintesi, le rivendicazioni, i rimpianti che ne scaturivano - quella classe dirigente, dicevo, tra gli essenziali aspetti di tale problema pose, e per primo risolse, quello della istituzione di una Corte dei conti suprema ed unica, con unico ordinamento in tutto lo Stato, dando così “inizio - sono le parole di Quintino Sella - a quella unità di legislazione civile che giova ad eguagliare le condizioni dei cittadini qualunque sia la parte d'Italia in cui ebbero nascimento o tengano dimora”. In Piemonte alla Camera dei conti era da poco, nel 1859, succeduta la Corte dei conti, le cui funzioni erano presso a paco le medesime sulle quali vennero modellate quelle della Corte dei conti dello Stato unitario italiano. La legge sarda del 1859 era stata estesa alla Lombardia mentre altrove si erano lasciati provvisoriamente in vita gli istituti esistenti: in Toscana la Granducale Corte dei conti, nel Regno delle due Sicilie la Gran Corte dei conti napoletana e quella siciliana. La legge unificatrice del 14 agosto 1862, che aveva preso le mosse da un progetto del Ministro delle Finanze Bastogi, notevolmente modificato nel corso di un laborioso iter parlamentare, si ispira, come ho detto, nelle sue essenziali strutture al modello della Corte dei conti del Regno di Sardegna, le cui linee fondamentali erano state tracciate nel 1852 dal Cavour in una mirabile relazione dominata dal fermo ca-tegorico monito che mai cessava di ripetere: “è assoluta necessità di concentrare il controllo preventivo e consuntivo in un magistrato inamovibile”. Si ebbe, così, il controllo preventivo su tutti i decreti reali, sui decreti ministeriali di natura finanziaria, sui mandati e sugli ordini di pagamento; in taluni casi, il controllo posteriore sulle spese; la vigilanza sulla riscossione delle pubbliche entrate e sulle cauzioni degli agenti contabili; la pronunzia sul rendiconto dello Stato; la giurisdizione contenziosa sui conti dei tesorieri e contabili pubblici. Funzioni, tutte queste, già assolte dalla Corte dei conti piemontese ed alle quali aggiungevasi quelle - mutuate dalla Corte dei conti del Granducato di Toscana - amministrative e giurisdizionali nelle materie di pensioni a carico dello Stato. E il 1° ottobre 1862 in Torino, Quintino Sella nel salutare, all'atto del solenne insediamento, la Corte dei conti del Regno d'Italia, della prima suprema magistratura - egli diceva - che estende la sua “giurisdizione in tutto il Regno” mercé “una delle più provvide e sapienti deliberazioni che la Nazione debba al Parlamento”, formulava il voto che “dalla istituzione di questa Corte l'Italia tragga il più lieto auspicio per la sua unità amministrativa e legislativa”. Questa fugace rievocazione del passato, peraltro, resterebbe incompiuta se io non assolvessi il dovere di integrarla col rivolgere un reverente grato pensiero a coloro che, durante il secolo trascorso, in eminente o modesta posizione, serviron fedelmente nei ranghi della magistratura e dell'altro personale della Corte. In particolare desidero ricordare coloro che presiedettero l'Istituto. Federico Colla, Ministro di Stato e già Presidente della Corte dei conti subalpina, cui successe nel 1865 Augusto Duchoqué Lambardi, il quale, già Ministro di Grazia e Giustizia nel Governo Granducale Toscano, nonché poi Ministro di Stato del Regno d'Italia, resse alacremente le sorti dell'Istituto per ben 27 anni, presiedendo, nel contempo, numerose commissioni che attendevano alla redazione di importanti progetti di legge specie per l'ordinamento finanziario ed amministrativo del novello Stato. Figura di ancor maggiore rilievo fu il suo successore Gaspare Finali, eminente patriota del Risorgimento ed illustre docente universitario, più volte Ministro in vari Gabinetti fino a quello Saracco nel 1901. Vice Presidente del Senato e Presidente del comitato nazionale per la storia del risorgimento. Collare dell'Annunziata. Largamente nato per la famosa inchiesta che porta il suo nome. Seguirono a lui nel 1907 Ernesto Di Broglio, già Ministro del Tesoro nel Gabinetto Zanardelli, nel 1915 Antonio Tami, nel 19I9 Paolo Bernardi, nel 1922 Camillo Peano, già Ministro del Tesoro ed eminente parlamentare (destinatario della famosa lettera di Giolltti sul “parecchio”) in occasione del cui insediamento pronunziò un memorando discorso l'allora Ministro del Tesoro Giuseppe Paratore, al quale, nel vivo rammarico di non poterlo qui salutare, rivolgo un devoto augurale pensiero. In epoca a noi più vicina, poi, non pochi dei miei colleghi per-sonalmente ricordano la dignità e il prestigio con cui Gino Gasperini cercò sempre, in tempi assai difficili, di assolvere al suo ufficio di Presidente dell'Istituto.

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Dopo, infine, Gustavo Ingrosso - insigne docente in discipline finanziarie, incaricato delle funzioni di Presidente dal 1944 al 1946 - fu Augusto Ortona - Giudice dell'Alta Corte per la Regione Siciliana e, poi, Giudice eletto della Corte Costituzionale - ad assumere il reggimento dell'Istituto che tenne per sette anni can ammirevole austerità, con mano sicuri e con fine intuizione della esigenza di adeguamenti strutturali ai mutati ordinamenti dello Stato. Tanti e tanti altri nomi vorrei ancora citare di magistrati della Corte che illustrarono l'Istituto, non soltanto nell'esercizio delle loro alte funzioni, ma, di riflesso, anche con gli eminenti servizi resi al Paese in altri campi. Che se i limiti di tempo non mi consentono di citarli tutti, mi sia almeno concesso di ricordare, tra gli altri, Antonio Scialoja, di casato illustre per meriti patriottici e scientifici, ministro eminente, ma, più ancora, economista di chiara fama che - come ebbe a scrivere - “non credeva di scendere quando veniva alla Corte dei conti dal Consiglio della Corona”. Antonio Scialoja di cui è nota, specie per gli spunti ancor oggi così attuali che contiene, la famosa polemica con Agostino Magliani, Ministro del Tesoro nel Gabinetto Depretis ed alto magistrato anch'egli della Corte dei conti, a proposito del raffronto tra i regimi finanziari del Regno delle due Sicilie e del Regno di Sardegna. Né va dimenticato che la Corte tra í suoi consiglieri noverò pure Francesco Ferrara, delle scienze economiche maestro sommo e di larghissima fama. E termino con Giovanni Giolitti, per lunghi anni Segretario Generale della Corte, che, nelle sue memorie, con tanto simpatia ricorda quanto preziosa fu la esperienza che qui fece e che costituì per lui - sono le sue testuali parole - “una educazione amministrativa efficacissima, mettendomi a conoscenza di tutto il meccanismo dello Stato, ciò che riuscì assai utile quando quel meccanismo dovetti muovere io stesso”. Questa odierna, però, non è e non può essere soltanto una commemorazione di pur assai memorandi fasti, ma, soprattutto, una celebrazione vuol essere che, dall’attenta e penosa meditazione della esperienza del passato e dalla obiettiva considerazione e valutazione della realtà presente, tragga novello anelito e rinnovata freschezza di energie e di entusiasmo per scrutare più lontani orizzonti, per attingere più ardue mete. Nei cento anni testé compiuti - i primi cinquanta tranquilli e sereni, i secondi, che ebbero inizio il 1911, contrassegnati da ben cinque guerre, da venti anni di dittatura e dal mutamento della forma istituzionale - dopo tanto succedersi di eventi lieti e tristi, di profonde riforme politiche, sociali, economiche, in questi ultimi cento anni, dicevo, nei quali lo Stato ha così largamente dilatato le sue funzioni, si è diversamente atteggiato, dandosi una nuova Costituzione, ha rinnovato le sue istituzioni parlamentari e di governo, ha creato nuovi organi locali dotati di funzioni legislative e non solo amministrative; in questi cento anni quali dati evolutivi più salienti che, di riflesso, si colgono nella vita della Corte dei conti? e quali le mutazioni derivatene ai caratteri essenziali dell'organo? Dal punto di vista istituzionale - può rispondersi subito - nessuna mutazione di appena apprezzabile rilievo, essendo sempre, durante il processo evolutivo, gli ordinamenti della Corte rimasti indenni da eversioni o riforme capaci di usurarne o alterarne appena la essenza originaria, la quale a ben guardare anzi, è rimasta meglio precisata e definita, non solo ma, da ultimo, solennemente riaffermata e rivalutata sul piano costituzionale. È questa, del resto, la forza propria delle grandi istituzioni dello Stato - coeve alla sua stessa nascita - è questa forza, appunto, che ne spiega e ne giustifica la lunga, la eterna, la mai interrotta esistenza. Molte, invece, le mutazioni dal punto di vista funzionale, organizzativo, volte tutte, come esse risultano, ad un adeguamento costante, vigile, prudente che, senza alterare le caratteristiche essenziali della funzione, è venuto apprestando strumenti capaci di rilevare, nel suo nuovo, più ampio, diverso atteggiarsi, il fenomeno, la cui valutazione e definizione costituisce della funzione l'oggetto. Così, se quasi inalterata è rimasta la sfera di incidenza del controllo di legittimità sugli atti del Governo e sui provvedimenti in genere delle Amministrazioni dello Stato - controllo che, specie in quanto tende a prevenire lesioni all'ordinamento giuridico, il quale difficilmente, e quasi mai a giudizio della coscienza pubblica, ne risulta sufficientemente reintegrato da postumi interventi con prevalente carattere di sanatoria a fatti compiuti, specie in quanto assolve questa funzione essenziale nello Stato di diritto, va tenuto gelosamente a riparo da innovazioni che, sino a quando almeno non siano stati messi bene a segno i congegni e le strutture dell'Amministrazione, potrebbero riuscire oltremodo pregiudizievoli - se alterazioni, dicevo, degne di nota non si riescono in detta sfera a cogliere, per quanto, invece, concerne il controllo sulla gestione del bilancio dello Stato deve constatarsi come non tutte le pubbliche entrate oggi ad esso affluiscano e non tutte le spese pubbliche defluiscano da esso, donde - una volta assunto, cioè, per certo questo fatto, senza indugiare a stabilirne le proporzioni, a indagarne le cause e a trarne materia di apprezzamenti che poco o punto ai fini in discorso rilevano - donde, dicevo, la necessità per la Corte di seguire il duplice fenomeno, dell'entrata e della spesa pubblica, nel suo diverso svolgersi e, dunque, di procedere, per poterlo bene osservare e definire, ai necessari adattamenti, adeguamenti, rinnovamento dei congegni e delle procedure del suo controllo. Molto opportunamente, perciò, è stata, a tal uopo, dal Governo promossa e dal Parlamento approvata, una nuova normativa intesa, appunto, a consentire, ai fini che si considerano, la più esatta osservazione di detto duplice fenomeno, venutosi così largamente e profondamente trasformando.

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Si sente spesso dire, peraltro, che trattasi di normativa insufficiente, inadeguata, di difficile e lenta applicazione. Ciò esatto del tutto non è, ma se pur vero fosse, dovrebbe sempre riconoscersi che - per timida e rudimentale che tal normativa sia - la sua produzione, se non altro, vale a rendere possibile - il che era essenziale - l'orientamento dell'attività di controllo e di quella giurisdizionale, che le è strettamente complementare, verso la nuova, tanto diversa dalla tradizionale, realtà fenomenica, che essa deve cogliere. Sarà l'applicazione in concreto di tale normativa ad indicare, poi, se e di quali perfezionamenti, chiarimenti, integrazioni, sviluppi essa necessiti. Frattanto non può dirsi, però, che gli strumenti che già appresta - senza dubbio dì difficile collaudo e taratura - siano rimasti del tutto inoperosi. La Corte, infatti - sensibile alle esigenze di normalizzazione regolarizzazione, anche e specie in questo campo, energicamente proclamate dal Governo e pienamente condivise dal Parlamento - mentre ha già, da una parte, accentuato il ritmo delle sue deliberazioni sulle rendicontazioni generali dello Stato, ha, dall'altra, riferito al Parlamento - i primi tre volumi della relazione risultano già distribuiti mentre il quarto è in distribuzione e il quinto in preparazione - in ordine alle risultanze del controllo sulle gestioni degli Enti sovvenzionati dallo Stato. Né, a giudicare dalle prime reazioni, del tutto trascurabile è sembrato l'interesse - in disparte quello che può. aver indotto a commenti non sempre esatti, appropriati e sereni - da tale documento suscitato, così come dubbia non ne è apparsa la iniziale utilità, che non mancherà, peraltro, di farsi più manifesta quando la Corte sarà in grado - e spera di esserlo tra non molto - di riferire al Parlamento, anno per anno e nei termini prescritti, sulla gestione di ogni singolo Ente, non solo, ma nei limiti in cui ciò è per il momento consentito, di raccordare le risultanze di tali gestioni con quella del bilancio dello Stato. Situazione e prospettive queste che, in ogni modo, prescindono, come devono, dall'indagine, ad esse non strettamente pertinente - che non cessa dall'essere, sotto vari profili, a tratti ricorrenti proposta sul se sia o meno opportuno e conveniente affidare ad organi diversi dall'Amministrazione diretta dello Stato compiti già da questa assolti o che a questa non si reputi ex novo di attribuire. Basta, infatti, per i fini, che soltanto qui interessano, constatare che l'Ente pubblico, economico o non economico che sia, vive pleni iuris nel nostro ordinamento giuridico. E potremmo aggiungere, con una precisazione che non si colora, certo, di troppo ardimento, come la genesi dell'Ente pubblico - una volta che risulti avvertita, acclarata, nella competente sede legislativa, la fondatezza e la sufficienza della esigenza sociale da cui esso trae origine - si presenti come naturale, fisiologica, non solo, ma, lungi dal contrastare con i principi fondamentali dell'ordinamento giuridico, sociale, economico, ne colga e ne rifletta il richiamo: precisamente questa a cui penso rechi conforto il rilievo del contemporaneo propagarsi del fenomeno in tutti i Paesi civili. Vorrei, in altri termini, dire che l’apprezzamento sulla bontà della scelta fra l'uno e l'altro modo (diretto o indiretto cioè) di intervento dello Stato per realizzare il fine pubblico, non può che essere squisitamente politico e lasciato agli organi, cui spetta, mentre ogni diversa valutazione, specie se strettamente giuridica, non può che subentrare solo allorché la spinta sociale si sia esaurita trasformandosi nel fine istituzionale, all'Ente, dal provvedimento che lo crea, assegnato con ogni opportuna delimitazione e precisazione di strutture e di modalità per realizzarlo. Che se fisiologica è - salvo, ripetesi, il giudizio politico che qui non interessa - la creazione dell'Ente, aspetti non del tutto fisiologici, se non addirittura patologici, può denunciare la sua gestione, segnatamente quando i suoi organi reputino di continuare a fare bensì appello alla stessa istanza sociale assunta nel fine istituzionale dell'Ente, ma estensivamente, se non addirittura, inesattamente la interpretino, ovvero altre istanze, a tal fine del tutto estranee, presuppongano per coonestare - senza ulteriore espresso intervento dei competenti poteri - il perseguimento, così di fini diversi da quelli propri dell'Ente, come di altri che, pur da tali fini non evadendo, vengano attuati mediante ricorso a mezzi non consentiti o perseguiti al di là dei prefissati argini, eludendo controlli o peggio rifiutando o ritardando la resa del conto. Sono ipotesi, ipotesi astratte, ma che la normativa giuridica, nella sua astrattezza, deve avere ed ha, nella specie, avuto presenti per preordinare, come disciplinando il controllo della Corte dei conti ha preordinato, mezzi - forse, ripeto, ancora insufficienti ed inadeguati - volti a precludere adito ad irregolarità, suscettibili di determinare arbitrii e sperperi. Goda pur l'Ente di tutta la più ampia autonomia che gli è necessaria, non sia soggetto a vincoli, a limitazioni di sorta, ma il suo operato mai sottratto rimanga ad un controllo concomitante che, oltre tutto, si risolve, in definitiva, a sostegno e conforto del suo efficace e corretto operare. Controllo - è ovvio - che deve adattarsi alla varietà delle peculiari strutture, non creare difficoltà ed intralci di sorta, non temere di abbandonare schemi tradizionali per assumerne nuovi, più agili nel dispiegarsi,più spediti nel valutare e definire, il tutto, si intende, senza mai intrinsecamente dismettere gli, immutabili connotati che ne condizionano l'essenza: estrinsecarsi, cioè, in forma esterna, pubblica e indipendente, solo in tal guisa potendo la funzione soddisfare la esigenza che l'ha attivata. Esigenza che non è soltanto fondamentalmente ribadita nell'art. 100

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della nostra Costituzione, riaffermante il controllo della Corte dei conti sulla gestione degli Enti che dalle finanze dello Stato traggono direttamente o indirettamente i loro mezzi di vita, ma che è stata, altresì, solennemente consacrata su un piano, direi quasi universale, nella risoluzione in proposito adottata dai rappresentanti di 64 Paesi partecipanti al congresso internazionale delle istituzioni supreme di controllo tenutosi di recente a Vienna. E nel procedere a questo adattamento della attività di controllo alle particolari strutture degli Enti che vi sono assoggettati, va ben tenuto presente come la Corte, per assolvere utilmente il suo sindacato, men che restringerlo all'accertamento della conformità dei singoli atti di gestione alla normativa accora nelle leggi, negli statuti e nei regolamenti, non possa dispensarsi dall'estenderlo anche alla valutazione della gestione, considerata come la resultante dell’insieme di tutti tali atti e dei comportamenti che ne costituiscono il tessuto connettivo, in vista sempre di stabilire se, in definitiva, la gestione abbia, nel suo complesso, perseguito le finalità istituzionali dell'Ente. Valutazione globale e conclusiva che potrà anche, per gli Enti economici, ed in particolare per quelli che inquadrano le partecipazioni dello Stato, rendere più agevole il giudizio sulla osservanza del precetto che li obbliga - rispettata, ripeto, la esigenza sociale, che ha determinato la creazione dell'Ente, e che, nella dimensione in cui è stata assunta, e in essa soltanto, vive ed è nel fine istituzionale immanente - che li obbliga, dicevo, ad operare secondo criteri di economicità; mentre per gli altri Enti pubblici non economici consentirà di rilevare se la loro attività, pur in piena autonomia svolta, risulti, nel suo complesso, conforme ai canoni e ai principi fondamentali, alla cui osservanza è sempre soggetta l'amministrazione, comunque attuata, del pubblico denaro. Sempre nel quadro dei riflessi evolutivi esercitati sul controllo dai mutamenti della realtà fenomenica che esso deve cogliere e valutare, degno di nota, sia pur per altro verso, è l'avvio ad attuazione dell'ordinamento regionale previsto dalla Costituzione, la cui precettistica, avanti ancora di trovar compiuta esplicazione in apposite norme, ha già orientato l'attività di controllo della Corte in forme - quali quelle realizzate, appunto, con la recente istituzione delle Delegazioni regionali - consone al decentramento già in atto e capaci di secondarne ogni ulteriore sviluppo. Il che induce a ulteriormente constatare come la Corte dei conti, da organo a struttura tipicamente centralizzata - quale fu concepita da coloro che per primi cosi la ristrutturarono a presidio della raggiunta unità - si sia in parte trasformata e tenda ulteriormente a trasformarsi, forse anche per la giurisdizione, in organo a struttura regionalmente decentrata. Al quale ultimo proposito mi sia consentito - per la stretta connessione che con la materia del decentramento presenta questo cenno che inerisce al tema della giurisdizione, del quale terrò tra non guari discorso - mi sia consentito, dicevo, rinnovare il voto, già espresso dalle Sezioni Riunite della Corte - e confortato di recente dalla mozione conclusiva del convegno nazionale degli studi amministrativi, tenutosi a Varenna - per una sollecita istituzione dei tribunali contabili regionali; organi questi che, per ovvie ragioni di struttura e di materia, vanno tenuti nettamente distinti dai tribunali amministrativi regionali, per rimanere omogeneamente e naturalmente inseriti nell'ordinamento della Corte dei conti, senza che ciò comporti - come non ha comportato l'attuazione del decentramento - creazione di nuovi uffici, potendo all'uopo essere utilizzate le già esistenti Delegazioni regionali con lievissime integrazioni delle dotazioni di personale delle qual esse oggi dispongono. Si conseguirà, cosi, senza indugi, quel riassetto funzionale ed unitario del sistema giurisdizionale, in materia di responsabilità contabile ed amministrativa degli amministratori e dipendenti degli Enti locali e delle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza, la cui indeclinabile ed indifferibile necessità viene avvertita, in modo sempre più pressante, a motivo delle attuali gravi carenze. Né di minor rilievo è l'altro riflesso evolutivo che determina sul controllo l'attività degli Enti internazionali o addirittura sopranazionali : cito, a cagion di esempio, la Comunità europea del carbone e dell'acciaio, la Comunità economica europea, la Comunità europea dell'energia atomica, il Consiglio di Europa, il Board della Nato e quello delle infrastrutture, l'Agenzia internazionale dell'energia atomica, l'Agenzia europea per l'energia nucleare. Trattasi di enti che traggono, come è noto, i loro mezzi finanziari essenzialmente, se non unicamente, dalle contribuzioni poste a carico degli Stati aderenti e, dunque, i resultati dello svolgimento della loro azione, come della condotta della loro gestione, non possono ovviamente non riverberarsi sui bilanci nazionali: il che, appunto, ha sollecitato una ulteriore naturale espansione della funzione di controllo, nella sua sensibile aderenza a quella che potrebbe appellarsi la “metamorfosi” del suo oggetto, mediante la istituzione di appositi organi collegiali investiti di funzioni di controllo naturalmente esterno. Questi sommari cenni sulla fondamentale funzione del controllo completi, peraltro, non sarebbero se con una precisazione io non li concludessi in ordine ai ritardi e agli intralci che da essa - si sente di tanto in tanto affermare - deriverebbero allo spedito procedere dell'azione amministrativa: ritardi, intralci che or si attribuiscono ad una pretesa duplicità di controlli ed or si fanno, senz'altro, direttamente discendere da una sorta di inconciliabilità, se non addirittura di intolleranza, della esigenza del controllo rispetto a quelle di

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prontezza, speditezza, produttività, proprie dell'attività comunque volta, specie se dietro l'impulso di forti spinte sociali, a realizzare il fine pubblico. Ed invero che una duplicità di controlli, men che esistente o soltanto paventabile, non sia neppure in astratto ipotizzabile, si fa manifesto appena considerando come il controllo, se rettamente inteso, nella sua unigena espressione non è e non può essere che unico ed unitario ed quello e quello soltanto spettante alla Corte dei conti, ogni altra attività - che pur di “controllo”, con la qualificazione di “interno”, assume talora il nome - risolvendosi sempre, appunto perché interna, in una vera e propria attività amministrativa epperó riconducibile direttamente alla volontà e al potere dell'Amministrazione, nei cui confronti, invece, il “controllo”, per esser tale, deve restare in termini estranei e dialettici, senza di che non potrebbe assolutamente assolvere la funzione di “garanzia” a favore, non soltanto dell'ordinamento giuridico e della collettività, ma ben anche dei simboli, siccome destinatari dell'azione amministrativa e, non da ultimo, degli stessi “controllati”. Che se nell'attività dell'Amministrazione possono apparire superflui - e quindi causa di ritardo - interventi che impropriamente “controlli”, con la qualifica di “interni” si nomano, questa è indagine che, qualunque ne sia la impostazione e il resultato, concerne esclusivamente la organizzazione dell'Amministrazione e giammai può toccare la funzione di controllo, riservata alla Corte dei conti, controllo di cui la triplice indissociabile caratteristica di esterno, pubblico e indipendente sintetizza in modo perfetto e categorico i connotati essenziali. Quanto, poi, alle esigenze di prontezza, di speditezza, di produttività niun dubbio che esse vadano, in sommo grado e con ogni impegno, rispettate nell'azione amministrativa, ma è altrettanto certo che nessuna di esse, e tutte esse insieme, mai possano prevalere su quella di un efficiente controllo, che è esigenza caratteristica ed irreversibile dello Stato di diritto, il quale è - e si realizza - in sostanza, quando sia, e più non è - più non esiste - quando cessi di essere la resultante del funzionamento di un sistema armonico di controlli. Si renda pure tale funzionamento il più che possibile snello e pronto - la Corte, in ciò che la concerne, pone, e porrà sempre più a tal fine ogni cura ed impegno - ma si sia molto guardinghi nel tentare altre vie ed altre soluzioni che, dall'apparire più semplici e agevoli, potrebbero, se sperimentate, risultare nettamente controproducenti, ai fini che si sono venuti sin qui considerando, specie in ciò che concerne la netta distinzione che deve sempre, nella sostanza, farsi tra le cose private e le pubbliche. Cercare di avvalersi di metodi, di tecniche, di indirizzi propri dell'amministrazione di quelle, nella gestione di queste può in vantaggio di tale gestione risolversi solo se ed in quanto ogni cura si ponga nell'evitare qualsiasi pericolo di considerare alla stessa stregua le une e le altre, nessuna confusione essendo più pericolosa di quella tra il privato e il pubblico segnatamente quando abbia in definitiva ad incidere sull'amministrazione del pubblico denaro. Il controllo, peraltro, non esaurisce da solo la tematica delle attribuzioni della Corte dei conti: un posto, del pari eminente, tra esse ha, infatti, quella giurisdizionale, la cui tipica natura obbiettiva è caratterizzata dalla costante presenza e dall'attiva partecipazione del Procuratore Generale, in veste di pubblico ministero, che - nel solco di un'antica, luminosa tradizione - sempre e soltanto nell'interesse della legge agisce, in connessione diretta, s'intende, con la esplicazione delle funzioni istituzionali della Corte, e dunque in essa organicamente inserito. E ciò senza dir delle altre attribuzioni, aventi ad oggetto la vigilanza sulla riscossione delle pubbliche entrate o di natura meramente consultiva: funzioni tutte, che, se in una sola multiforme addirittura non si fondono, a sostanziale unità riconduce la diretta o indiretta attinenza alla finanza pubblica, delle materie, che ne costituiscono l'oggetto. Della giurisdizione della Corte è maggiormente nota - a motivo dell'amplissima cerchia di soggetti che le sono interessati - quella relativa alle materie delle pensioni a carico dello Stato e delle pensioni a carico di alcuni enti pubblici: tra le prime, in particolare, quelle di guerra, doloroso ed immane retaggio di recenti e antichi conflitti, retaggio i cui riflessi, per ciò che tocca la Corte, attingono, sotto l'aspetto quantitativo, cifre dell'ordine di grandezza di centinaia di migliaia di ricorsi. All'annosa aspettativa degli interessati non manca di corrispondere il premuroso anelito dei magistrati e dei funzionar!, egualmente desiderosi di rendere sollecita giustizia. Ma la dedizione e il sacrificio non sono sufficienti ad annullare i limiti frapposti dal soverchiante numero dei giudizi e, più ancora, dalla esigenza di complesse istruttorie e di ponderati accertamenti medico-legali. Donde il deprecato protrarsi del corso temporale necessario per raggiungere la meta della definizione. Ma anche a ciò qualche rimedio non mancheranno di apprestare - ne nutriamo ancor più che fondata speranza, morale certezza - e gli effetti della istituzione, con provvida legge, non a guari disposta, di altre due Sezioni giurisdizionali, e le emendate norme volte a realizzare - sono le parole di tale legge - una “strutturazione che, nel rispetto dei principii così del contraddittorio come della motivazione e di ogni altra regola fondamentale del diritto processuale a tutela del cittadino, assicuri un andamento più semplice e spedito della procedura dei giudizi”. Trattasi, naturalmente, di rimedi che debbono operare in una situazione, la quale non soltanto dalla esistenza di un ingente arretrato è resa grave, ma dal sopravvenire, e in numero sempre rilevante, di nuovi

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ricorsi. Tendenza questa strettamente connaturale al sistema che, in disparte le ripetute riaperture di termini, legittima il già pensionato, per lo stesso aggravarsi della originaria invalidità - quale semplice effetto sovente di null'altro che del progredire degli anni - a chiedere revisioni e lievita, quindi, l'afflusso dei ricorsi in numero quasi pari ai provvedimenti negativi dell'Amministrazione, che tutti, in genere, vengono impugnati. L'eccessivo carico, sicché, non è soltanto un effetto patologico dell'arretrato, ma un effetto fisiologico del sistema: ed è in questa visione che vanno predisposti ed utilizzati i mezzi per fronteggiarlo. D'altronde, non sotto l'aspetto del colossale carico soltanto è degna di nota la giurisdizione pensionistica, non potendo non essere altresì sottolineato, con legittimo vanto, l'apporto di una plurillustre giurisprudenza in tale materia così ardua e complessa; apporto che e pregiato frutto di una competenza maturata e affinata nel solco di una tradizione ormai secolare, e che si concreta in una equilibrata ed equanime elaborazione di istituti non sempre perfettamente definiti da una normativa, che si è andata stratificando su basi primigenie ormai largamente superate e che spesso ha tratto incitamento per ulteriori progressi, dall'orientamento giurisprudenziale della Corte. Senza, però, indugiare su altre materie attratte nell’ambito del contenzioso pensionistico - come da ultimo quella ad esempio, relativa alle provvidenze a favore dei perseguitati politici antifascisti e razziali - certo è che la giurisdizione, per sua natura, tipicamente propria, caratteristica della Corte dei conti è e rimane quella riservatale nelle materie di conto e di responsabilità amministrativa e contabile. Si atteggia tale riserva, infatti, come un razionale complemento dell'attività di controllo, alla quale è legata da un intimo nesso che ben traluce dallo stesso precetto costituzionale, la dove, nell’affidare al legislatore ordinario la specificazione delle “altre” materie devolute alla giurisdizione della Corte, espressamente e direttamente invece, ad essa attribuisce quella, appunto, relativa alle materie di “contabilità pubblica”. La quale espressione “contabilità pubblica” - notata appena che se ne sia la più vasta, se non addirittura generale portata rispetto a quella di “contabilità di Stato” - basta da sola a farne manifesta la capacità di attrarre nell'ambito della giurisdizione riservata alla Corte, in aggiunta a quella che finora, per antica tradizione, le apparteneva, tutta la più vasta materia che della contabilità pubblica e venuta man mano facendo, e fa ora decisamente, parte per naturale effetto del già rilevato dilatarsi e, più ancora, del diverso atteggiarsi e svolgersi per nuovi canali, del fenomeno dell'entrata e della spesa pubblica. In particolare, siffatta, del resto ovvia, constatazione, assume rilievo per ciò che concerne gli enti pubblici beneficiari di contribuzioni statali, molto più in quanto alla natura e al contenuto della funzione di controllo, sulla gestione degli stessi spettante alla Corte, strettamente inerisce la esigenza di utilizzarne, ove necessario, i risultati, sul piano della responsabilità, nei confronti degli amministratori, senza di che, è ovvio, il controllo perderebbe gran parte della sua efficacia e della stessa sua ragion d'essere. Con l'assoggettamento, pertanto, di tali Enti al controllo della Corte è da ritenere siansi realizzati in concreto i presupposti per ricondurre l'operato dei loro amministratori negli schemi di quella peculiare responsabilità, il cui giudizio è naturalmente riservato alla giurisdizione contabile in virtù, appunto, del cennato precetto costituzionale, che, ben può dirsi, abbia puntualmente così seguito, anche in ciò che all'oggetto di tale giurisdizione attiene, la evoluzione del duplice fenomeno dell'entrata e della spesa pubblica nella sua nuova dialettica e nel suo nuovo inalveamento. Diversamente, se di tale evoluzione, cioè, non si fosse immediatamente, come si è, con la Costituzione sensibilizzato, e non continuasse ancora a sensibilizzarsi, l'ordinamento giuridico una grave lacuna,non solo ma una ancora più grave anomalia denuncerebbe perseguendo con i giudizi di conto e di responsabilità soltanto i dipendenti dello Stato e lasciando da tali giudizi indenni gli amministratori degli Enti Pubblici, pel tramite dei quali lo Stato pur realizza, o partecipa a realizzare, con ingenti mezzi i suoi stessi fini. Né si dica che di siffatti giudizi potrebbe, nei confronti di detti amministratori, tener luogo quello del Parlamento, al quale la Corte deve direttamente riferire. Il Parlamento, infatti, rilevata che abbia la responsabilità degli amministratori, può bensì, utilizzando i suoi poteri politici, dare un giudizio politico capace di determinare, da parte del Governo, la sostituzione di essi, lo scioglimento degli organi di amministrazione, la gestione commissariale dell'Ente o altre conseguenze ancor più gravi, ma non è in grado di adottare, nei confronti dei responsabili, provvedimenti riparatori del genere di quelli che, nel rispetto delle necessarie garanzie, sono soltanto della giurisdizione propri. Che se, concluso questo giro di orizzonte, necessariamente rapido e sommario, ci facessimo, avendo presente il quadro che ci ha offerto, a domandarci quale sia oggi la posizione della Corte nei fondamentali ordinamenti dello Stato, la risposta scaturirebbe ovvia dalla constatazione che - adesso come cento anni orsono - la sua finalità istituzionale resta pur sempre quella di garantire, nell'ordinamento giuridico e per spontanea reazione dello stesso, la legittimità degli atti del Governo e la rispondenza, in particolare, degli atti di gestione del bilancio dello Stato alle leggi ed ai regolamenti. Posizione, dunque, sostanzialmente immutata e che si concreta in una ambivalente guarentigia dell'Esecutivo e del Parlamento.

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Guarentigia dell'Esecutivo - come ebbi modo in altra occasione di precisare - in quanto la pronunzia, il visto, la dichiarazione di regolarità, la delibera di parificazione e gli altri mezzi espressivi, nei quali si estrinseca e si conclude la funzione di controllo assolta dalla Corte pongono il Governo nella condizione di offrire al Parlamento la prova costante della legittimità dell'azione dell'Esecutivo, specie nella gestione del bilancio dello Stato, prova che indubbiamente la posizione del Governo, nel dialogo con il Parlamento, molto concorre a salvaguardare. Guarentigia dell'Esecutivo che tocca il suo acme con la pronunzia della Corte, a Sezioni Riunite e con le forme della sua giurisdizione contenziosa, sul rendiconto generale dello Stato, pronunzia che condiziona la stessa iniziativa legislativa del Governo per l'approvazione di tale rendiconto da parte del Parlamento. Guarentigia, d'altro canto, del Parlamento, che, in sede legislativa trova dalle pronunzie della Corte avallate, accreditate le risultanze, sottopostegli dal Governo, per l'approvazione del rendiconto generale dello Stato, di questo importantissimo documento che costituisce della gestione del bilancio l'atto conclusivo, finale così come la relazione generale sulla situazione economica del Paese e leggi che approvano gli stati di previsione ne rappresentano gli atti introduttivi, iniziali. Guarentigia, ancora, del Parlamento che, per l’esercizio del suo potere ispettivo, utilizza i dati che la Corte acquisisce,nello svolgimento della sua funzione di controllo, e deve al Parlamento direttamente riferire. Posizione, adunque, di perfetto equilibrio e di assoluta equidistanza tra Governo e Parlamento che consente alla Corte di poter, con appagante efficacia, reciprocamente l'uno e l'altro affidare e garantire. Che una precisazione in proposito si renda necessaria non ha motivo di disconoscere la Corte, alla cui attenzione anzi è ben presente l'ordine del giorno della Camera dei Deputati, che una apposita normativa, appunto, auspica, la quale - ne sono le testuali parole - “realizzi nelle forme più efficaci il diretto collegamento tra i due rami del Parlamento e la Corte dei conti al fine della piena attuazione del controllo sulla legittimità degli atti del Governo e sulla gestione del bilancio dello Stato nonché sulla gestione degli enti a cui lo Stato contribuisce in via ordinaria”. Posizione, adunque, di perfetto equilibrio e di assoluta equidistanza tra Governo e Parlamento che consente alla Corte di poter, con appagante efficacia, reciprocamente l'uno e l'altro affidare e garantire. Che una precisazione in proposito si renda necessaria non ha motivo di disconoscere la Corte, alla cui attenzione anzi è ben presente l'ordine del giorno della Camera dei Deputati, che una apposita normativa, appunto, auspica, la quale - ne sono le testuali parole - “realizzi nelle forme più efficaci il diretto collegamento tra i due rami del Parlamento e la Corte dei conti al fine della piena attuazione del controllo sulla legittimità degli atti del Governo e sulla gestione del bilancio dello Stato nonché sulla gestione degli enti a cui lo Stato contribuisce in via ordinaria”. Vorrei, soltanto, io permettermi sommessamente segnalare la opportunità che da tale precisazione risulti confermata e, occorrendo, meglio definita, detta posizione di equilibrio e di equidistanza in vista di evitare che un marcato inclinare della stessa verso l'uno o verso l'altro dei due poli - Parlamento e Governo - sia pur vaghi apparenti sospetti ingeneri di tendenze verso forme di governo assembleare, nel primo caso, dispotico, nel secondo: forme l'una e l'altra involutive se non addirittura degenerative dello Stato di diritto, di questa luminosa conquista che essenzialmente su un armonico sistema, appunto, di reciproche guarentigie poggia, di questa luminosa conquista che va gelosamente tenuta al riparo e difesa anche dalle semplici apparenze comunque suscettibili di sminuirne il valore determinante che ha assunto nella civiltà moderna. E mentre a conclusione il mio dir si avvia, a Voi, cari colleghi e, insieme con Voi, ai nostri collaboratori tutti, qui presenti o altrove in ascolto a Voi, ultimi nella menzione, ma primi, come sapete, nella mia affettuosa considerazione, a Voi, componenti tutti la famiglia della Corte - famiglia, dico, nel senso più reale che il termine ha nei rapporti umani, famiglia nella quale ogni giorno fondiamo e confondiamo le nostre ansie, le nostre gioie, i nostri tormenti - a Voi il mio pensiero si volge. Quintino Sella - oltre un secolo fa - nella cerimonia di insediamento della Corte dello Stato unitario, che ho già ricordato e che quella odierna rievoca, così disse: “A voi, o Signori Magistrati di tutto il Regno d'Italia (e vivacemente me ne congratulo), è toccata la ventura d'inaugurare sì splendido fato. “Altissime sono le attribuzioni che la legge a voi confida. La fortuna pubblica è commessa alle vostre cure. Della ricchezza dello Stato, di questo nerbo capitale della forza e della potenza di un paese voi siete creati tutori. “Ne ciò basta; ad altre nuovissime e nobilissime funzioni foste inoltre chiamati. È vostro compito il vegliare a che il Potere esecutivo non mai violi la legge; ed ove un fatto avvenga il quale al vostro alto discernimento paia ad essa contrario, è vostro debito il darne contezza al Parlamento. Delicatissimo ed arduo incarico, tanto che a taluno pareva pericolo lo affidarlo a Magistrati cui la legge accorda la massima guarentigia d'indipendenza, cioè la inamovibilità. Questo timore non ebbi, no, o Signori, e non esitai a propugnare per

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voi così delicate attribuzioni, ed il feci perché ho fede illimitata così nel senno civile degli Italiani, come e soprattutto in un regime di piena libertà e di completa pubblicità; regime che agli Italiani, certo quanto ad ogni altro popolo civilissimo, meravigliosamente conviensi”. E questo timore - nel ripetervi oggi, con le stesse parole del grande statista, l'indirizzo e l'auspicio da lui formulato - questo timore, dicevo, men che mai nutro io che so, quale esatto concetto voi abbiate della indipendenza, di cui la garanzia della inamovibilità ci consente in maniera così larga di godere. Indipendenza - lo dissi in tempo lontano e qui oggi lo ripeto - che tale è in quanto l'assolvimento del dover nostro ci pone alla assoluta dipendenza della legge soltanto, ad ogni altra dipendenza, perciò stesso, sottraendoci. Diversamente intesa e praticata la indipendenza rischierebbe di risolversi in pregiudizio dell'adempimento del dovere, laddove, è certo, che indipendenti siamo per il dovere non dal dovere: in altri termini l'adempiere pienamente il dovere nostro è il fine, l'indipendenza il mezzo per raggiungerlo. A presidio di siffatta indipendenza maggiori guarentigie s'invocano e, necessario come appaiono a meglio presidiarla, ben tutte esse vengano, ché, è evidente, non potranno non risolversi ad ulteriore vantaggio del più perfetto ed efficiente esercizio della nostra funzione. Ma, intanto, continuiamo a ritener per fermo, come sempre abbiamo ritenuto, che la nostra indipendenza - alla quale sarebbe forse bene non far neppure cenno quando di altri aspetti del rapporto che allo Stato ci avvince si tratti - va essenzialmente assicurata, prima e più che da norme scritte, da noi e deve, come dato della nostra coscienza - che tale è ed essenzialmente rimane - farsi manifesta senza essere peraltro ostentata, in ogni nostro atto, comportamento, orientamento. E termino. Termino convinto di poter affermare, come all'inizio di questo suo secondo secolo di vita nell'unità d'Italia, la Corte altro essenzialmente non si propone, non ambisce, rispettosissima sempre degli altrui ma nello stesso grado gelosa dei propri poteri, che di rendere sempre più di questi perfetto, spedito, efficiente l'esercizio, per nessun altro scopo che quello di concorrere - assolvendo con assoluta dedizione e appassionato impegno la sua missione, nell'interesse della società nazionale, dello Stato, come di tutte le entità che allo Stato direttamente od indirettamente si ricolleghino - di concorrere dicevo, a realizzare i presupposti e le condizioni perché la Patria nostra sia - come la sognarono coloro che un secolo fa con la Corte dei conti diedero inizio all'unità nei civili magistrati, come tuttavia la sogniamo noi - ognora più grande, prospera, libera, antesignana e garante con i propri sempre più ammodernati ordinamenti, entro i suoi confini e nel mondo, di ogni sociale, ordinato progresso, nella pace e nella giustizia. Voglia Signor Presidente - Lei che per le Sue altissime virtù civili, per le sue eminenti doti di statista e di maestro del diritto sommo nelle processuali discipline, che la forma e l’ordine a tutela della sostanza pongono. Lei che per ciò appunto così degnamente rappresenta l’unità nazionale - voglia, dicevo, questo mio, questo nostro auspicio raccogliere, confortarlo di Suo alto consentimento e fervidamente a noi associarsi nell'affidarlo alla Provvidenza.

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AVVOCATURA DELLO STATO Giuseppe Manzari Roma, 21 novembre 1979 Signor Presidente della Repubblica, mi consenta innanzitutto di associarmi alle parole pronunciate dal Presidente del Consiglio dei Ministri per l'efferato crimine oggi , commesso, con il quale si è voluto ancora una volta colpire lo Stato e ledere il bene della pacifica convivenza. Intendo esprimere a nome mio personale e dell’Avvocatura dello Stato, la più profonda commozione per le vite umane stroncate, la più ferma condanna per il delitto commesso e insieme la fiducia che il Paese saprà trovare nel diritto e nelle civili istituzioni la forza di vincere sanguinarie ed insensate spinte eversive. Desidero quindi, Signor Presidente della Repubblica, rivolgere a Lei, anche a nome del colleghi e del personale dell'Avvocatura dello Stato, il più vivo e profondo ringraziamento per aver voluto onorare con la Sua presenza questo Istituto in occasione del mio insediamento ufficiale nell'alta responsabilità della carica di Avvocato Generale dello Stato. Lo stesso ringraziamento rivolgo al Signor Vice Presidente del Senato della Repubblica, alla Signora Presidente della Camera dei Deputati, al Signor Presidente del Consiglio dei Ministri, al rappresentante della Corte Costituzionale, ai Signori Ministri, al Signor Presidente del Consiglio Nazionale dell'Economia e del Lavoro, ai Signori Presidenti della Suprema Corte di Cassazione, del Consiglio di Stato, della Corte dei conti, ai rappresentanti del Consiglio Nazionale delle Ricerche, dei Tribunali Amministrativi Regionali, delle Forze Armate, della Pubblica Amministrazione, dei Corpi Accademici, ai colleghi dell'Avvocatura dello Stato e degli ordini forensi ed a tutti coloro che hanno voluto, con la loro partecipazione, onorare questo Istituto. Un saluto particolare desidero rivolgere a nome di tutti gli avvocati dello Stato a Sua Eccellenza l'Avvocato Giovanni Zappalà, che per tanti anni ha prestigiosamente retto il nostro Istituto, ed al quale ho l'onore ed il privilegio di succedere. Nella solennità che a questa cerimonia conferisce la presenza del Capo dello Stato, nelle parole che il Presidente del Consiglio - cui devo il mio profondo ringraziamento per la fiducia accordatami - si è compiaciuto indirizzarmi, nella partecipazione di così alte rappresentanze delle Supreme magistrature, di tanti illustri personaggi e colleghi, mi sia consentito cogliere un augurio di “buon lavoro”. Un augurio che mi è particolarmente gradito per la consapevolezza che ho della gravità dei miei compiti e delle responsabilità che assumo verso le Istituzioni dello Stato, verso la Comunità nazionale, verso i colleghi ed il personale dell'Istituto, tra i quali torno, con non celata commozione, per riprendere un già consueto e comune lavoro. A questo intendo dedicare tutto il mio impegno, che mi auguro pari alle mie, nuove e maggiori responsabilità, con l'entusiasmo, la volontà e la fiducia con cui, nel lontano 1946, al termine di un quinquennio di servizio militare, contraevo con l'Istituto il vincolo di appartenenza attraverso il concorso a procuratore e successivamente ad avvocato dello Stato. Nel riannodare questo vincolo il mio animo è commosso da due ricordi.' Ebbi la ventura di avere come mio esaminatore, nel concorso ad avvocato, Arturo Carlo. Jemolo. Al termine della discussione orale della tesi assegnatami, egli, pur elogiando la mia dissertazione ed approvandone gli spunti critici, mi esortò ad accostarmi sempre con attenta riverenza alla pronuncia del Magistrato, che deve trarre dalla tensione dialettica del contraddittorio la sofferta ed ardua sintesi del giudizio, nell'esercizio di una altissima funzione.

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L'altro mio ricordo si volge a tanti, il cui nome desidero custodire nella memoria e che nell'Istituto allora mi accolsero comunicandomi, con lo stile professionale e l'esempio di vita, il senso profondo e incancellabile di una prestigiosa tradizione, fatta di alta levatura dottrinale e di grande dignità morale. Una tradizione che è mio supremo dovere concorrere a custodire ed a trasmettere ai più giovani colleghi. È proprio l'incontro con questi che m'incoraggia nel mio impegno, grazie anche al generoso apporto di alcuni dei colleghi valorosissimi, che ho ricordato, a cui si aggiungono i molti altri che hanno via via arricchito il patrimonio umano dell'Istituto. Ho sentito dai giovani l'attesa e la fiducia, che mi carica di una ulteriore più pesante responsabilità, che si realizzino le condizioni per compiere con pienezza di risultati il loro lavoro, nell' assolvimento del loro impegno e nel rispetto della loro dignità professionale, che vogliono esercitare negli stimolanti incontri e confronti dell'attività forense e della consulenza legale. Una felice apertura su questa prospettiva offre la legge n. 103 del 1979, recante modifiche all'ordinamento dell'Avvocatura, la quale ha opportunamente accentuato l'affrancamento dai riflessi burocratici della composita figura dell'avvocato. dello Stato. Questa non è più ordinata in un complesso gerarchico di qualifiche, ma è unitariamente concepita in ragione dell'identità della funzione. Correlativamente la capacità di intuizioni e di apporti personali viene esaltata dalla previsione di forme di collegialità che, sostituendosi all'incongruo strumento della subordinazione gerarchica, mantengono la dignità del connotato professionale, pur assicurando la necessaria e razionale unitarietà di guida e di indirizzo, tanto da garantire il costante riferimento di tale connotato all'altro, che dell'Istituto è proprio, e che si esprime nel vincolo istituzionale del pubblico servizio, quale momento. differenziale e tipizzante rispetto alla libera attività professionale. Uso a ragion veduta questa espressione “libera attività professionale” invece di quella corrente di attività del “libero Foro”, che mi ha sempre colpito per la sua involontaria tautologia. Quando, infatti, il Faro è - come deve essere e come è fortunatamente per noi - terreno di incontro e di scontro di opposte opinioni, sottoposte all'esame di un giudice indipendente ed imparziale, la libertà è valore con esso coessenziale; perché, ad un tempo, lo presuppone e ne è corollario. Il difensore della Stato è portatore, rispetto a questa “libertà professionale” di una limitazione e di un arricchimento: non solo, infatti, egli deve assolvere il suo dovere sul piena professionale, ma deve anche integrare tale compito con l'adempimento dell'ulteriore dovere, che gli deriva dall'appartenenza ad una pubblica istituzione, qual è, nel suo attuale ordinamento, l'Avvocatura dello Stato. Questa è, oggi, costruita in posizione di autonomia e indipendenza funzionale di fronte ad ogni singola amministrazione. Essa, così, adempiendo alla difesa degli organi dell'apparato dello Stato (inteso in senso lato, comprensivo di altre istituzioni pubbliche e di articolazioni costituzionali come le Regioni), deve sempre cercare la collimanza degli interessi secondari e settoriali, affidati alle sue cure con gli interessi primari ed essenziali della Comunità, al cui servizio l'Avvocatura dello Stato è posta dalla legge nel sistema unitario e indivisibile in cui si compendia lo Stato-ordinamento. Nan può, dunque, mai prevalere nell'attività di difesa dell'Avvocatura l'interesse contingente, secondario e settoriale, su quello generale e primario di realizzazione della giustizia. Rispetto alla difesa privata, l'Avvocatura dello Stato adempie, dunque, a un ulteriore e più grave compito, quello di attiva collaborazione alla realizzazione della giustizia nell'amministrazione. La matrice lorenese dell'Istituto, di schietta ispirazione illuministica, lo finalizza, infatti ad una garanzia di legalità dell'azione amministrativa: l'Avvocato Regio di Toscana aveva la funzione di tutelare in veste neutra ed imparziale l'osservanza della legge, sia in sede di giustizia ritenuta che in sede di giustizia delegata. Tanto, poi, nel nome di una “morale della cosa pubblica” che lo accomunava all'Ombudsman scandinavo nella simile matrice etico-religiosa: giansenista l'una, protestante l'altra. E l'Avvocatura dello Stato Italiano, innestandosi direttamente sul ceppo toscano, ereditò - pur nella diversità delle istituzioni - una vocazione spiccatamente legalitaria e giustiziale. E questa esercitò anche negli anni difficili in cui lo spirito autoritario dei tempi tendeva a privilegiare gli interessi contingenti dello Stato-apparato. L'Istituto trovò sempre modo di tutelare, accanto e al di sopra di esso, quello immanente della giustizia. Non v'è dubbiò, poi, che la Costituzione repubblicana e l'evolversi dell'ordinamento interno ed internazionale nel periodo postbellico, hanno. istituzionalizzato e potenziato questa vocazione giustiziale. Ciò non significa., certamente che l'avvocato dello Stato possa trasformarsi in giudice, compromettendo o disertando il dovere di assicurare la normale dialettica processuale, o sovrapponendo le sue valutazioni a quelle di competenza del potere esecutivo, il quale è peraltro nelle sue varie articolazioni il primo destinatario e protagonista del dovere di osservanza della. giustizia nell'azione amministrativa. La verità è che ad una soddisfacente visione dei compiti e delle funzioni dell'Avvocatura non può pervenirsi se si concentra l'attenzione sul momento contenzioso. "L'attività dell'Avvocatura si svolge, invero, in un arco molto più vasto, che va considerato unitariamente, senza possibilità di fratture tra funzione contenziosa e funzione consultiva. L'una e l'altra devono concorrere a garantire la tutela degli interessi di cui sono portatori gli organi della Pubblica Amministrazione nel rispetto della ragione, immanente e primaria, della giustizia. È questo il problema centrale, che continuamente si ripropone: quello del contemporaneo ed equilibrato

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soddisfacimento dell'esigenza di tutela tanto degli interessi pubblici settoriali o secondari quanto dell'interesse primario di giustizia. Non si tratta di una questione astrattamente suscettibile di soluzioni definitorie, ma del costante quotidiano travaglio nel quale devono affinarsi la coscienza e l'impegno dell'Avvocato dello Stato. Una linea di continua ricerca nella quale lo strumento di convinzione sarà sempre e soltanto la logica del sapere e l'onestà del volere, mai l'esercizio del potere. Vi sono, nella storia, forme istituzionali che realizzano felici intuizioni che il processo del tempo e l'evoluzione della coscienza sociale vanno via via scoprendo in tutta la loro potenziale ricchezza. È un processo inverso a quello dell'archeologia, attenendo non alla riscoperta del passato ma ad una sorta di predeterminazione del modo di farsi del futuro. L'Avvocatura è stata felicemente concepita con questa sua anima, con questa sua aristotelica “entelechia”, che la rende capace di crescere insieme con la crescita della società, in modo da rispondere all'esigenza tecnica della difesa legale dell'apparato dello Stato e da dare, al tempo stesso, una risposta leale ed appagante alla domanda di giustizia nell'azione pubblica. Una domanda che, quanto più l'azione pubblica si estende a permeare tutto il tessuto della vita sociale ed economica del Paese, più è imperiosamente e diffusamente radicata nella coscienza civile, non soltanto sul piano interno ma anche. internazionale. L'Avvocatura dello Stato non detiene il potere: né quello esecutivo, che appartiene al Governo e all'apparato dell'Amministrazione, né quello giurisdizionale, che appartiene alle Magistrature. E tuttavia esercita un ruolo di altissima dignità., quello della persuasione, che il difensore dello Stato può trarre, in sede contenziosa, come in sede consultiva, solo dalla sua scienza ed esperienza professionale e dall'indipendenza ed imparzialità della sua coscienza. Un'attività di consulenza svolta in spirito di obbiettività e di imparzialità può valere a garantire l'efficacia e la tempestività dell'azione amministrativa, indirizzandola in concreto verso gli obbiettivi del pubblico bene nel rispetto della libertà e delle ragioni che l'ordinamento assicura agli altri soggetti. Ciò consente di utilizzare, secondo le più moderne pratiche ed intuizioni, lo strumento della prevenzione per ridurre la litigiosità e rendere più efficace la difesa dello Stato quando sia inevitabile ; giungere alla contestazione, alla soluzione litigiosa. La consulenza. dell'Avvocatura può essere meglio aderente al caso per caso, la sua posizione può essere, nei limiti della disponibilità dei diritti, più flessibile e compromissoria. Ed anche a prescindere dall'utilità di coltivare, in via preventiva, la soluzione amichevole, l'abbandono di una pretesa ingiusta, o, al contrario l'insistenza senza debolezza in quella ritenuta giusta, sono scelte di cui l'organo legale dello Stato deve assumere la responsabilità in vista del compito che ad esso necessariamente compete della difesa in sede giudiziaria, tanto che il parere tecnico giuridico dell'Avvocato Generale deve prevalere su quello dell'Amministrazione interessata. Nel senso indicato; la funzione si diversifica dall'intervento consultivo, altrettanto essenziale, di altri organi, primo tra tutti il Consiglio di Stato, in quelle che sono le sue caratteristiche connotazioni, sottolineate nella sua lucida e precisa allocuzione dal Presidente Levi Sandri. A Lui mi è grato esprimere in questa occasione il mio fervido attaccamento all'Istituto, che egli con tanta dignità rappresenta, ed al quale mi onoro di aver appartenuto. Vi ho contratto un debito di cui serbo viva e profonda gratitudine, per l'arricchimento intellettuale e spirituale ricevuto da colleghi valorosissimi, di cui ho portato con me il gradito ed ammirato ricordo. In questo spirito desidero sviluppare la più rispettosa e proficua collaborazione con quella e con ogni altra magistratura, cui l'Avvocatura è chiamata a dare il contributo del suo servizio in sede defensionale. In relazione a quanto considerato al riguardo delle responsabilità dell'organo legale dello Stato in materia consultiva e contenziosa, risulta posto in luce come il parere tecnico giuridico dell'Avvocato Generale debba prevalere su quello dell'Amministrazione interessata. Ciò ribadisce la nuova legge, la quale, peraltro, al tempo stesso precisa che la decisione finale, ove permanga il dissenso, spetta, senza possibilità di delega, al responsabile politico - cioè al Ministro o all'organo politico regionale, fermo peraltro il rispetto dei principi della deontologia professionale. In questo senso, dunque, l'Avvocatura dello Stato, che non è dotata di autogoverno ma dipende organizzativamente dalla Presidenza del Consiglio, è ragionevolmente subordinata alle decisioni del potere politico, senza che da ciò derivi menomazione della autonomia funzionale e del pqtere-dovere dell'avvocato di operare secondo la sua scienza e coscienza. A conferma della posizione spesso distaccata da specifici interessi di parte, ma volta alla realizzazione dei fini primari di giustizia dell'ordinamento, sta la funzione che l'Avvocatura dello Stato svolge, in particolare, davanti alla Corte Costituzionale e in alcuni giudizi davanti alla: Corte di Giustizia delle Comunità Europee. Questo distacco dall'interesse tipicamente di parte si esprime (più particolarmente in sede di esercizio dell'attività generale di consulenza) anche nell'ipotesi del conflitto, di attribuzioni. In questa nuova sorta di “actio finium regundorum”, che investe non più i campi del recessivo mondo della ragione privata, ma quelli dell'espansivo mondo della ragione pubblica, l'Avvocatura dello Stato interviene davanti alla Corte Costituzionale solo in funzione di garantire l'obbiettivo, costituzionalmente protetto, del contenimento di ciascun potere nel proprio confine.

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Ancora più significativa è la posizione dell'Avvocatura nei giudizi di legittimità costituzionale delle leggi, nei quali assume una funzione per tanti versi assimilabile a quella del Pubblico Ministero che interviene in giudizio in veste di difensore della legge. Analoghe situazioni si verificano nelle controversie relative all'interpretazione dei trattati e delle norme comunitarie dinanzi alla Corte di Giustizia delle Comunità Europee - o ad altri collegi internazionali. Si può così con sicurezza affermare che l'attività dell'Istituto va ben oltre i confini di un servizio reso allo Stato-amministrazione per qualificarsi a pieno titolo come attività svolta nell'interesse dell'ordinamento e di tutti i suoi soggetti, primi fra tutti i cittadini. Ed un nuovo significativo compito, in tal senso, è quello affidato all'Avvocato Generale dalla nuova legge - di stimolare l'iniziativa del Governo per superare carenze legislative e problemi interpretativi che l'Istituto incontra nell'esercizio della sua attività. Sono questi, nelle loro grandi linee, i prestigiosi compiti dell'Istituto, che hanno meritato, io credo, l'onore della presenza a questa cerimonia del Capo dello Stato, del Presidente Sandro Pertini, il quale reca tra noi - ed io desidero a nome di tutta l'Avvocatura rendergli il più sentito e profondo omaggio - insieme all'alta dignità della Sua carica la testimonianza di un'esemplarità di vita -da cui ciascuno di noi potrà, nel proprio servizio, trarre ispirazione di fermezza e dirittura. Con l'intuizione della suprema autorità politica del Paese e dell'eminente giurispubblicista, Ella Signor Presidente del Consiglio, ha individuato, molto incisivamente, il problema di fondo dell'Istituto in quello del suo adeguamento alla nuova legge, che ho più volte richiamato, n. 103 del 1979.' Ella ebbe occasione, Signor Presidente del Consiglio, nel celebrare pochi anni or sono, il centenario dell'Istituto, di rilevare la necessità di revisione di un ordinamento legislativo vecchio ormai di quasi mezzo secolo. Già in quell'occasione ebbi l'onore di stare vicino a Lei in questa sala. È un ricordo che suscita nel mio spirito - e ne sono certo - anche nel suo un senso di tragico incolmabile vuoto: la scomparsa di chi Lei allora rappresentava, la scomparsa di un Amico illustre al quale io davo la mia modesta, ma devota, leale, costante collaborazione sul piano amministrativo ogni volta che egli assumeva un impegno di governo. Mi sia consentito rivolgere un commosso, riverente pensiero alla levatura e delicatezza del suo animo, alla sua illuminata intelligenza, che si esprimeva in superiori intuizioni politiche, alla sua fermezza e dirittura morale, al suo senso dello Stato, se questo è, come io ritengo che sia, in regime democratico, rispetto della legge, rispetto delle istituzioni, rispetto degli uomini, delle loro libertà, delle loro opinioni, della loro personalità, del loro diritto a conseguire con tutti i mezzi consentiti i beni della vita, garantiti dall'ordinamento. La nuova legge, Signor Presidente, ad onta del riduttivo titolo di “Modifiche all'ordinamento dell'Avvocatura”, rinnova l'Istituto dalle fondamenta, potenziandolo sia sul piano delle funzioni commessegli, che vengono ampliate e più adeguatamente qualificate, sia su quello strutturale dell'organizzazione, incrementando il numero (in misura peraltro modesta e non prontamente realizzabile), la qualificazione e la dignità, in termini di funzione, degli avvocati e procuratori dello Stato. Restano tuttavia allarmanti carenze, che rischiano di vanificare la sostanziale bontà del nuovo ordinamento.' Si tratta della totale insufficienza degli strumenti ai supporto, materiali e personali, dell'attività professionale dell'Istituto. Sul piano materiale devo subito dare atto che è stata da tempo avviata l'organizzazione di strumenti sofisticati (ma non ancora adeguatamente operanti e su cui desidero rimeditare in termini realistici e di produttività), ma occorre realizzare ex novo un'adeguata rete di strumenti indispensabili per l'esercizio proprio dei compiti di istituto. Sull'altro piano occorre provvedere senza indugio ad un riassetto dell'ordinamento del personale che, a diversi livelli; presta la sua collaborazione ad avvocati e procuratori dello Stato. È un problema troppo spesso rinviato che non può risolversi senza un congruo ampliamento dell'organico ed una riqualificazione delle mansioni per adeguarle a specifiche esigenze dell'Istituto. Mi permetto osservare che se tempestività ed efficienza devono essere, in via generale, connotati essenziali dell'azione amministrativa, tale carattere deve a più forte ragione improntare la funzione ausiliaria che è propria dell'Avvocatura. Essa si svuoterebbe di contenuto se la consulenza non intervenisse in tempo utile ad orientare l'amministrazione e se la difesa in giudizio (a parte i problemi dell'osservanza di rigorosi termini) non fosse tanto sollecita da stimolare con validi impulsi il già faticoso e lento meccanismo del procedimento giudiziario, in modo da evitare la vanificazione - per il solo effetto della lunga durata della vertenza - dell'azione della Pubblica Amministrazione che l'Avvocatura è chiamata a presidiare. Le difficoltà che da tali carenze derivano sono proporzionali ai compiti d'istituto. Questi sono enormemente cresciuti, mentre le strutture di supporto sono le stesse da tempi ormai remoti. Basti pensare all'estendersi alle Regioni anche del patrocinio previsto dall'art. 10 della nuova legge, che differisce dal patrocinio facoltativo, a mio avviso ancora consentito, per l'effetto che produce di rendere applicabili le norme speciali sulla difesa in giudizio dello Stato. E tale rapporto tra Avvocatura dello Stato e Regioni caratterizza ulteriormente, nel senso che si è precisato, la nuova connotazione assunta dall' Istituto. Oltre a ciò si consideri l'assunzione necessaria della difesa dinanzi ai collegi internazionali o comunitari. È un

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settore, quest'ultimo, al quale mi ha reso particolarmente sensibile la fruttuosa esperienza di lavoro vissuta presso il Ministero degli Esteri, per la quale desidero esprimere al Ministro Malfatti, al quale invio auguri di pronta guarigione, ed ai rappresentanti della Farnesina il mio ringraziamento e dare atto dell'impegno e della competenza con cui vengono da quel Ministero seguiti complessi problemi interdisciplinari, spesso caratterizzati da una forte incidenza di profili politici. Questo saluto e questo apprezzamento si estendono, attraverso i rappresentanti del Governo che ci onorano della loro presenza, a tutta la Pubblica Amministrazione, la cui preziosa opera al servizio del Paese è ben conosciuta .dall'Avvocatura, che all'Amministrazione è legata da una .antica tradizione di collaborazione, che è mio dovere ed auspicio rendere, nel futuro, ancora più fruttuosa e proficua. E vengo ai doveri che sono propri dell'Avvocato Generale. Io ho il compito di viverli, non di parlarne. Desidero solo dichiarare che rispetterò rigorosamente non solo la lettera ma lo spirito del programma tracciato dalla nuova legge. lo mi trovo nella fortunata ma difficile condizione di intraprenderne l'attuazione. Ho già detto quali sono i principi cardine ai quali mi atterrò. Rispetto della dignità e della deontologia professionale, nei rapporti interni e nelle relazioni esterne di esercizio delle attività istituzionali. Ampio ricorso, per l’esercizio dell'azione di guida e di coordinamento, al .principio della collegialità, ben oltre le prescrizioni della strutturazione legislativa. Questa prevede istituti del livello e dell'importanza del consiglio degli avvocati e procuratori e del com'irato consultivo, ma non preclude forme ulteriori di aggregazione rispondenti allo spirito innovatore che pervade la nuova legge e che deve penetrare la vita dell’Istituto. Ciò potrà comportare un non lieve prezzo da pagare in termini personali da parte di tutti gli avvocati dello Stato, essendo, com'è noto, quello della convinzione strumento di lavoro tra i più faticosi. Ma anche tra i più dignitosi e produttivi, come sa chi ha vestito la toga dell’avvocato e per una causa, per giunta, così alta come è quella sempre mirata alla tutela del generale interesse, cui è finalizzato il servizio dell’Avvocatura. Mi propongo altresì di promuovere la continuità del collegamento operativo, all’interno dell’Istituto, tra avvocati e procuratori in modo che questi non si sentano emarginati dall’esercizio della professione e possano beneficiare di un lavoro di “équipe” capace di organizzare lo scambio e l'integrazione di specificità di attribuzioni, di competenze ed esperienze_ interdisciplinari, col supporto della razionale utilizzazione degli strumenti disponibili idonei ad evitare che l'Avvocato si senta frustrato e dimezzato nell'esercizio della sua attività professionale dall'applicazione ad incombenze ben lontane dalla sua qualificazione. E, soprattutto, stimolerò lo spirito di .solidarietà e di colleganza che è la prima condizione di funzionalità dell'Istituto. Colgo l'occasione per ringraziare della loro collaborazione i Vice Avvocati Generali e gli Avvocati Distrettuali, e per rinnovare per il loro tramite il mio cordiale saluto ai collaboratori delle sedi Distrettuali, in attesa degli incontri che presto, sede per sede, mi propongo di effettuare. Desidero riaffermare che l'Istituto può realizzare l'unitarietà e l'univocità della sua funzione, ed attingere il pieno successo, a tutti comune, della sua azione, solo utilizzando la totalità delle sue forze. Queste, nella necessaria articolazione territoriale, sono indissolubilmente unite ed associate, con pari livello di dignità e capacità, al perseguimento di comuni obbiettivi funzionali. È giunto, ormai, il momento di concludere, anche se molto resterebbe da dire. Vorrei solo aggiungere, tirando le fila del discorso sin qui svolto, che la linea di tendenza tracciata dalle tradizioni dell'Istituto e di recente incisivamente riaffermata dalla legge di riforma, consente ormai anche a noi di dire - come l'Attorney General americano - che la Repubblica vince la sua causa ogni qualvolta venga resa giustizia in uno dei suoi Tribunali. Tale tendenza è peraltro, ben lungi dall’aver dato tutti i positivi frutti di cui è capace: credo, invero, che un ampliamento dei profili “giustiziali” della funzione dell'Istituto corrisponderebbe - oltre che ad una precisa vocazione storica - a nuove esigenze che vanno maturando e precisandosi. Sono consapevole che allo stato della disponibilità dei mezzi materiali e dell'organico del personale, a livello professionale e di collaborazione, può apparire futile se non contraddittorio pensare a programmi di espansione di compiti già troppo gravosi. Ritengo tuttavia di dover brevemente formulare qualche proposta relativamente a due problemi che dovrebbero, coerentemente con lo spirito dei tempi, trovare una non lontana soluzione, alla quale desidero recare un contributo che potrà almeno avere il pregio di un invito allo studio e alla riflessione. Il primo attiene al potenziamento della funzione preventiva svolta in sede consultiva: sull'esempio del Cancelliere di Giustizia svedese potrebbe commettersi all'Avvocatura dello Stato il compito di condurre un tentativo di conciliazione pregiudiziale ad ogni lite con la pubblica Amministrazione, riducendo, così, la ,litigiosità e favorendo lo smaltimento dell'arretrato. Il modo di strutturare senza pesantezza questa funzione resta per ora affidato alla riflessione e alla fantasia del giusto momento. Il secondo attiene all' esigenza, propria dei nostri tempi, di rendere concrete le garanzie formali offerte dalla legge. Esso presenta due profili. Il primo, più cogente, riguarda il diritto alla difesa in giudizio degli indigenti. È un principio sacrosanto, garantito dalla Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo e dalla Costituzione

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repubblicana, la cui attuazione piena, ed effettiva non è stata, peraltro, raggiunta, nell'ordinamento italiano. Si tratta dell'adempimento di un dovere dello Stato nel campo dell'assistenza giuridico-legale che tocca l'altra componente dello Stato ordinamento, i cittadini (e nella specie'quelli indigenti) ai quali tutti è finalizzata la funzione giustiziale che è specifica dell'Avvocatura dello Stato. L'altro profilo riguarda, in prospettiva, l'esigenza di completare l'assistenza degli indigenti nella linea di tendenza diretta a rendere effettivo il godimento delle garanzie formali dell'ordinamento. È in corso di elaborazione davanti al Consiglio d'Europa, nel quale l'Italia è attivamente presente, una convenzione volta a rendere gratuito non solo il patrocinio ma anche la consulenza legale, affinché i diritti fondamentali della persona umana, oltre che riconosciuti dall'ordinamento, siano conosciuti da tutti i cittadini. Del resto la direzione di sviluppo di questo secondo obbiettivo riconverge sul primo punto avanti indicato. Anche riguardo al problema del patrocinio e, in prospettiva, della consulenza gratuita agli indigenti devo rinviare all’approfondi'mento della giusta sede e del giusto momento. Credo che l'Avvocatura dovrebbe limitarsi a una funzione di impulso e di coordinamento: essa, cioè, previo, forse, un vaglio orientativo sull' ammissibilità in punto di diritto, dovrebbe smistare gli affari ad altri soggetti dotati di affidabilità e di competenza, secondo moduli strutturali e funzionali da costruire attentamente. Tra questi potrebbe anche essere ripreso in considerazione, debitamente ridimensionato, il vecchio istituto dei così detti «delegati ». In tempi di rivalutazione di studi Vichiani, sollecitati dalla riscoperta della verità della sua dottrina (che è poi la dottrina della verità del “verum ipsum factum”), questo tipo di ricorso storico potrebbe forse utilmente accogliersi nella visione e nell'auspicio di una dialettica di progresso e di positive evoluzioni. E un altro auspicio, nella stessa prospettiva, vorrei formulare. Ho parlato del Cancelliere di Giustizia svedese, che esercita funzioni molto vicine a quelle dell'Avvocato Generale dello Stato. Ho citato l'Attorney General che svolge analoghe" funzioni. Desidero ancora ricordare che vi sono, in numerosi Paesi, organismi che al nostro, in modo più o meno immediato, corrispondono. Mi sia consentito inviare a questi Colleghi, con i quali abbiamo continui scambi d'informazioni e periodici incontri internazionali, il mio solidale ed augurale saluto nello spirito della comune vocazione di giustizia, ed esprimere , l’augurio che -, sul fondamento della giustizia, nella costruttiva dialettica dell'evoluzione e del progresso, si possa insieme validamente contribuire al raggiungimento del bene supremo della pace in ogni Paese e fra tutti i Paesi.

Giorgio Azzariti 25 ottobre 1989 Signor Presidente della Repubblica, desidero innanzitutto esprimerLe, anche a nome di quanti lavorano in questo Istituto, i sensi della più viva gratitudine per aver voluto onorare con la Sua partecipazione, questa cerimonia di insediamento. È la terza volta che questo magnifico palazzo e questa stupenda sala Vanvitelliana sono onorati della Sua presenza in occasione di cerimonie ufficiali: di questa attenzione verso il nostro Istituto siamo lusingati e conserviamo con cura il ricordo delle parole che Ella volle allora rivolgerci. Mi sia consentito esprimere ancora, a nome dell'Avvocatura dello Stato prima che mio personale, un sentito ringraziamento al sig. Presidente del Senato della Repubblica, al sig. Vice Presidente della Camera dei Deputati, al sig. Presidente del Consiglio dei Ministri, al sig. Presidente ed ai giudici della Corte Costituzionale, ai sigg. Ministri, al rappresentante del Cardinale Vicario. al sig. Presidente della Corte Suprema di Cassazione ed al sig. Procuratore Generale della Corte, al sig. Presidente del Consiglio di Stato, al sig. Presidente della Corte dei conti ed al sig. Procuratore Generale della Corte, ai rappresentanti delle Organizzazioni Internazionali, delle Forze armate, della Pubblica Amministrazione, dei corpi accademici, a tutti i magistrati, al Presidente ed ai colleghi dell'ordine forense e dell'Avvocatura dello Stato ed a tutti coloro che hanno voluto con la loro partecipazione, onorare questo Istituto. Un ulteriore sentimento di gratitudine desidero esprimere certamente a titolo personale, ma non solo - per la fiducia che mi e stata accordata con la nomina a questa alta carica. Ho detto non solo a titolo personale perché credo che la scelta operata dal Governo di attribuire il compito di dirigere l'Avvocatura dello Stato ad un avvocato che ha trascorso una intera vita di lavoro nell'Istituto, ha combattuto tante cause in difesa della pubblica amministrazione e dello Stato - tante vincendone e tante anche perdendone - abbia un significato che trascende ogni personale valutazione. Costituisca cioè in primo luogo apprezzamento e, mi sia consentito aggiungere, meritato apprezzamento del lavoro appassionato e qualificato svolto in condizioni spesso, e particolarmente oggi, difficili da tutti gli avvocati e procuratori dello Stato in difesa degli interessi della pubblica amministrazione o, se si vuole, dello Stato persona, che solo sottili argomentazioni riescono a distinguere dagli interessi della nostra Comunità nazionale; costituisca altresì precisa riaffermazione della

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peculiare natura e dei compiti dell'Istituto che Ella sig. Presidente della Repubblica ebbe a definire «corpo professionale di giuristi al servizio dello Stato, organo insostituibile per l'attività del Governo». Insostituibilità dell'apporto del corpo dei giuristi professionali all'attività del Governo non significa confusione dell'attività del giurista con quella del Governo che, nel nostro ordinamento democratico, devono restare rigidamente separate. La funzione necessaria, anzi insostituibile del giurista in ausilio del Governo al fine di assicurare la conformità a legge dell'attività di questo era già stata affermata quasi 150 anni fa, quando i sacri principi della rivoluzione francese cominciarono ad incidere sugli apparati degli stati assoluti preunitari, da uno dei fondatori del nostro diritto amministrativo, Giovanni Manna, il quale ebbe ad affermare che «quando il governo abbia veramente la volontà di bene amministrare, è bene che sappia che c'è una scienza dell'amministrazione pubblica, la quale può essere studiata e messa in atto, senza che ciò costringa a versarsi nelle questioni politiche e costitutive degli stati; che questa scienza, che s’appella diritto amministrativo, è cosi certa e cosi sacra come il diritto privato». Può far sorridere l'affermazione della certezza del diritto privato e del diritto amministrativo, se confrontata alle nostre biblioteche giuridiche ed alla massa di fascicoli che occupano cancellerie e segreterie dei nostri giudici ordinari ed amministrativi: ma nella distinzione sottolineata dal Manna tra le questioni politiche e la scienza, definita certa, del diritto amministrativo è la distinzione tra l'attività politica, alla quale è connaturale ed ineliminabile il carattere della discrezionalità delle scelte, e la funzione del giurista, che non partecipa a quelle scelte ma che, utilizzando la tecnica del diritto, non quindi esprimendo una propria autonoma volontà, suggerisce al Governo comportamenti e procedimenti da seguire per realizzare quelle scelte in conformità delle leggi in vigore, in applicazione cioè del principio di legalità per il quale l'attività amministrativa deve essere soggetta alla legge. L'assistenza prestata dall'Avvocatura dello Stato al Governo ed in genere alla pubblica amministrazione statale, tendono appunto alla attuazione concreta del principio di legalità sia in sede di definizione dell'attività amministrativa, e ciò avviene nell'esercizio della funzione di consulenza legale o stragiudiziale, sia nella sede del controllo giurisdizionale, e ciò avviene nell'esercizio della funzione di difesa in giudizio delle pubbliche amministrazioni. Appunto l'esigenza di garantire l’organicità e l'unitarietà di indirizzo in vista dei fini fondamentali della Amministrazione statale e quella, connessa, di garantire agli avvocati dello stato la autonomia che caratterizza in genere la posizione dell'avvocato verso il cliente e che sola permette il corretto ed efficace esercizio dell'assistenza legale, costituiscono la ragione della soluzione data dal nostro ordinamento al problema della assistenza legale dello Stato, organizzando gli avvocati dello stato come un corpo a sé anziché come uffici interni delle varie amministrazioni che possono avere necessità di servirsi dell'opera loro. Le funzioni dell'Avvocatura dello Stato nelle due forme della consulenza legale e della difesa in giudizio dell'amministrazione sono state del resto esaltate dalla Costituzione Repubblicana e richiedono oggi rinnovato ed oneroso impegno. Il principio di legalità nella azione amministrativa, all'attuazione del quale è particolarmente diretta la funzione consultiva, trova ormai il suo fondamento in numerosi precetti della Costituzione; il moltiplicarsi delle. funzioni del moderno Stato sociale con il proliferare della legislazione che le disciplina, rendono d'altra parte più frequenti quelle occasioni di conflitto dell'interesse pubblico con l'interesse privato che richiedono il necessario intervento del consulente legale per l'individuazione del giusto punto di equilibrio e per prevenire l'insorgere di liti inutili; lo stesso espandersi dell'azione pubblica e della normativa relativa rendono anche più arduo il compito di definire principi generali che valgano ad assicurare la conformità della multiforme azione amministrativa alle esigenze di buon andamento e di imparzialità dell'amministrazione proclamati dall'art. 97 Cost. Anche il controllo giurisdizionale sulla legittimità dell'azione amministrativa costituisce ormai principio costituzionale proclamato dagli artt. 94, 103 e 113 della Costituzione: la piena e sostanziale, e non soltanto formale, applicazione del principio ha comportato oltre all'estendersi del controllo a materie e categorie di atti che prima ne erano stati esclusi, anche la progressiva eliminazione di tutti i privilegi dei quali per lungo tempo ha goduto lo Stato in giudizio. Ciò è avvenuto essenzialmente ad opera della Corte Costituzionale (faccio l'esempio della regola del solve et repete) e del nostro legislatore (ricordo la riforma Trabucchi sulla individuazione dell'organo legittimato a stare in giudizio). La natura stessa di questo procedimento di controllo vuole infatti che l'avvocato dello Stato, pur nella difesa dei pubblici interessi, non svolga attività e non eserciti poteri diversi da quelli svolti ed esercitati dagli altri avvocati difensori delle altre parti. La assoluta parità processuale dell'avvocato dello Stato con il collega libero professionista si riscontra anche nei giudizi nei quali al primo è affidata la tutela di interessi non di una singola amministrazione, ma di un interesse diverso e di più ampio respiro, del quale neanche può dirsi che la titolarità spetti esclusivamente

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alla Pubblica Amministrazione od al Governo. Ciò avviene in particolare nei giudizi che si svolgono avanti la Corte Costituzionale nonché nei giudizi dinanzi alla Corte di Giustizia delle Comunità Europee ed ai Collegi internazionali quale, innanzi tutti, la Corte Internazionale di Giustizia dell'Aja. Vero è che la diversa natura e rilevanza dei singoli interessi in contrasto non conta davanti al giudice: ogni qualvolta sia previsto che il contrasto sia risolto in un processo avanti ad un giudice là deve assicurarsi - proprio per garantire l'efficace svolgimento dell'invocata funzione giurisdizionale - l'assoluta parità delle parti e dei rispettivi difensori. La distanza dal giudice di ogni avvocato non può essere diversa da quella dell'altro, né può esservi avvocato che sia, più del suo contraddittore, amico della curia. Occorre perciò ora ripensare ad alcune pure autorevolissime definizioni della posizione processuale della pubblica amministrazione e del suo difensore come quelle secondo le quali il processo al quale partecipi lo Stato è un «processo di parti in cui una parte è un po’ meno parte dell'altra» ed il difensore dello Stato è un po’ più vicino al giudice del libero professionista. L'insegnamento del primo avvocato generale dello Stato secondo il quale l'avvocato dello Stato deve essere prima giudice e poi avvocato non vuole porre - o comunque così non va inteso - una scala di valori ma solo stabilire una successione cronologica: se nella sede della consultazione legale egli deve ricercare, nella piena autonomia di giudizio e con l'esclusivo strumento della sua professionalità, le regole cui deve conformarsi l'azione amministrativa ed in tale sede la sua funzione può apparire analoga a quella del giudice; quando lo Stato sia parte in giudizio ed egli sia chiamato a difenderla, l'avvocato dello Stato deve comportarsi da avvocato nel pieno significato, anche partigiano, della parola. È insomma oggi assolutamente vero quel che disse Piero Calamandrei: cioè che l'avvocato dello Stato, quando difende in giudizio l'amministrazione è appunto un difensore di parte:niente di più, niente di meno. Questa mancanza di ogni potere, che non sia quello del ragionamento e della persuasione, questi continui confronto e competizione con gli avvocati liberi professionisti, nostri carissimi colleghi ed avversari sono, per noi avvocati dello Stato, ragione di stimolo e di incitamento al continuo miglioramento e perfezionamento della nostra attrezzatura professionale. Sul piano normativo la riforma del 1979 ha riaffermato il carattere professionale dell'Istituto disegnandone l'organizzazione in modo da creare il modello di un grande ufficio legale, alla vita, al successo ed al patrimonio ideale del quale tutti i professionisti che lo compongono partecipano con pari dignità. Ma si tratta di una riforma la cui attuazione è già in sé non facile, perché in contrasto con precedenti radicate abitudini e perché il principio della collegialità che garantisce, attraverso il confronto, il conseguimento di più raffinati risultati, costituisce certamente uno strumento di lavoro più dispendioso in termini di tempo e di impegno; ma, a parte queste difficoltà. la riforma è stata duramente ostacolata da un fenomeno non previsto: un anormale improvviso aumento della quantità degli affari che vengono affidati al patrocinio dell'Avvocatura, verificatosi nell'ultimo decennio, che ha rischiato di travolgere le strutture del nostro Istituto: il carico di lavoro è infatti triplicato rispetto al 1979, anno in cui fu stabilito l'organico ancora oggi in vigore. Se nel 1979 poteva calcolarsi un afflusso annuo di circa 180 affari per avvocato o procuratore in organico, nel 1988 si sono avuti circa 420 nuovi affari per avvocato. Per rendersi conto dell'anomalia di simile incremento, basta pensare che nei trent'anni precedenti il 1979 si era avuto un incremento non superiore all'80%, che si era potuto affrontare con progressive, graduali misure di adeguamento. Non sono questi luogo e tempo per individuare cause e ragioni di un incremento cosi imponente ed imprevisto, ma è certo che questo ha posto in crisi le strutture dell'Istituto che non erano certamente proporzionate, sia quelle amministrative, sia quelle più propriamente professionali. All'adeguamento delle prime si è provveduto con la legge n. 664 del 1986 che ha aumentato l'organico degli impiegati amministrativi. Una recentissima iniziativa legislativa dell'on. Presidente del Consiglio dei Ministri, con pronta sensibilità ai problemi dell'Avvocatura della quale Gli siamo davvero grati, tende a ristabilire un migliore equilibrio tra il carico di lavoro dell'Avvocatura e l'organico degli avvocati e procuratori dello Stato, equilibrio che non può ricercarsi soltanto in un proporzionale aumento dell'organico che ha insito il rischio di incrinare l'alto livello culturale e professionale degli avvocati e procuratori dello Stato, fondato, tra l'altro, su rigorosi criteri di reclutamento e responsabilizzazione: è stato necessario dunque prevedere una selezione degli affari di competenza dell'Avvocatura individuando ulteriori ipotesi, oltre quelle già previste dalla legislazione in vigore, nelle quali, per la semplicità delle procedure e dei problemi coinvolti, la difesa della Pubblica Amministrazione non richieda la prestazione di attività professionali particolarmente specializzate. Sono sicuro che l'iniziativa legislativa cosi assunta dall'on. Presidente del Consiglio dei Ministri troverà il pieno e sollecito appoggio del Governo e del Parlamento sicché il nostro Istituto possa al più presto svolgere con rinnovata serenità il proprio compito al servizio della nostra comunità nazionale. Mi conforta in questa certezza il così ampio concorso di tante personalità a questa cerimonia, concorso del quale sono sinceramente grato, perché conferma il prestigio acquisito dall'Avvocatura dello Stato in oltre

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cento anni di attività; patrimonio che è nostro preciso dovere di conservare e che gli avvocati e procuratori dello Stato, con l'ausilio di tutto il personale amministrativo che presta la sua opera nell'Avvocatura, hanno saputo conservare con un lavoro duro, sapiente, faticoso ed appassionato, pur nelle difficilissime condizioni che ho esposto, in difesa degli interessi della collettività: a tutti, dai più anziani ai più giovani di tutte le sedi, va il mio grato saluto di collega e l'augurio di potere presto superare le attuali difficoltà ed operare insieme per rendere il nostro Istituto strumento sempre più perfezionato di attuazione di giustizia nella amministrazione.

Giorgio Zagari Roma, 27 luglio 1995 Signor Presidente della Repubblica-, desidero innanzitutto esprimerle, anche a nome di quanti operano in questo Istituto, i sensi della più viva gratitudine per aver voluto onorare, con la Sua partecipazione, questa cerimonia di insediamento. Siamo particolarmente lusingati che essa si svolga al cospetto del Capo dello Stato, sommo garante della Costituzione e dell'unità nazionale, che si è sempre dimostrato attento e sensibile ai problemi del diritto e della difesa dello Stato e delle sue Istituzioni democratiche, nella Sua prestigiosa esperienza di parlamentare e insigne giurista. Mi sia anche consentito a nome di tutti i componenti dell'Avvocatura dello Stato, nonché mio personale, rivolgere un sentito ringraziamento al Vice Presidente del Senato, al Vice Presidente della Camera, al rappresentante della Corte Costituzionale, al Presidente del Consiglio dei Ministri, ai Ministri, ai Magistrati, alle altre autorità, ai colleghi del libero foro cui tanti e profondi legami di comune milizia forense ci legano, a tutti i componenti dell'Avvocatura dello Stato, in questa Sede e nelle Distrettuali, e a tutti coloro che hanno voluto partecipare a questa cerimonia Un ringraziamento particolare rivolgo a Lei, Signor Presidente del Consiglio dei Ministri, per le lusinghiere parole che ha voluto rivolgere all'Istituto e a me personalmente e per la profonda ricostruzione dei compiti e delle funzioni dell'Avvocatura dello Stato, nonché per l'apprezzamento che ha voluto esprimere per l'attività degli avvocati dello Stato, che abbiamo avvertito come particolarmente sentito e che costituisce per noi un ambito riconoscimento del nostro impegno professionale. Un pensiero affettuoso desidero rivolgere ai cari Colleghi che mi hanno preceduto nella carica e che con saggezza e prestigio hanno in questi anni guidato l'Istituto: gli avvocati Giuseppe Manzari e Giorgio Azzariti, che vedo con piacere qui presenti e l'avv. Enzo Ciardulli, che mi ha telegrafato dall'estero la sua partecipazione, nonché un grato ricordo alla memoria dell'avv. Rocco Di Ciommo che resse interinalmente per un triennio. Nel momento in cui, profondamente grato per la fiducia accordatami, mi accingo ad assumere quest'alta carica, il peso degli oneri che ad essa si accompagnano e delle responsabilità che mi attendono è alleviato dal personale ricordo di due illustri predecessori e maestri, oggi scomparsi: Salvatore Scoca e Giovanni Zappalà, la cui memoria costituisce per me e per tutti noi un prezioso patrimonio di valori e di esperienze professionali che, ne sono certo, mi assisterà nell'adempimento delle funzioni. Di Giovanni Zappalà il forte senso dello Stato, la dedizione assoluta al servizio ed il profondo senso delle funzioni e del ruolo dell'Istituto hanno costituito un esempio indimenticabile per gli avvocati dello Stato, e tanto più per me che ebbi modo di essergli diretto collaboratore, quale Segretario Generale. Conobbi Salvatore Scoca nel prendere servizio presso l'Avvocatura Generale nel 1953. Rammento ancora un senso di soggezione e di timore, comprensibili in un giovane procuratore dello Stato che incontrava per la prima volta come capo dell’Istituto una figura così autorevole e luminosa. Egli seppe subito farmi sentire a mio agio con quella naturalezza e semplicità che gli erano proprie e che denotavano, anche sotto il profilo del carattere, il tratto essenziale dell'uomo. Nel, corso di un recente convegno dedicato al ricordo dei padri della Costituzione e in particolare alla figura e all'opera di Salvatore Scoca, ho voluto ricordare che ai tanti meriti dì studioso, servitore dello Stato, docente, politico e parlamentare, si aggiunse quello di aver saputo guidare l'Avvocatura dello Stato nell'impegnativo passaggio dal precedente regime autoritario al nuovo ordinamento democratico in un periodo indubbiamente arduo e difficile, ma anche esaltante per la ricca espansione dei valori civili e individuali dei cittadini che allora si affacciavano alla nuova dimensione della società civile e politica. Egli seppe, con misura e fermezza, adeguare l'Istituto al nuovo scenario politico e alle nuove esigenze, presentando i tradizionali valori professionali e lo spirito di servizio, patrimonio dì sempre del nostro istituto, rafforzandone il prestigio soprattutto con l'assunzione, dinanzi alla Corte Costituzionale allora istituita, delle funzioni di difesa della legittimità delle leggi nonché degli atti dell'esecutivo nei conflitti di attribuzione.

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E fu proprio Giovanni Zappalà ad osservare che l'opera di Scoca aveva rappresentato la continuazione e, al tempo stesso, il completamente del disegno intrapreso da due altri grandi Avvocati generali: Giuseppe Mantellini e Gaetano Scavonetti. Al primo si deve l'idea, maturata nel corso del passaggio allo Stato unitario anche grazie all'esperienza acquisita come Avvocato regio di Toscana, dell'attribuzione del contenzioso erariale e della connessa attività di consulenza legale ad un unico corpo di avvocati specializzati nella difesa degli interessi pubblici; Gaetano Scavonetti, sostenendo con vigore l'istituzione del foro erariale e l'unificazione nell'Avvocatura dello Stato di tutti gli organi di consulenza e difesa delle amministrazioni statali, venne a contribuire in modo determinante allo sviluppo di quell'unità e organicità di indirizzo che costituiscono il tratto essenziale e specifico dell'Avvocatura dello Stato. Vi erano, in quelle scelte istituzionali, felici intuizioni che avrebbero poi consentito all'Avvocatura di adeguarsi con naturalezza alle moderne esigenze dell'amministrazione pubblica nel nuovo rapporto tra Stato e cittadini consacrato dalla Carta Costituzionale del 1948; felici intuizioni che ancora oggi dimostrano la loro vitalità e attualità pur nelle mutate condizioni dei tempi. L'evoluzione dei concetti di giustizia e di autorità nello Stato democratico ha determinato la progressiva attenuazione dell'antica concezione, secondo la quale il processo al quale partecipi l'Amministrazione statale è un “processo di parti in cui una parte è un po' meno parte dell'altra”. E si è giunti così, in accordo con le esigenze di fondo dello Stato democratico, alla definitiva scomparsa di ogni prerogativa e privilegio processuale che assisteva la parte pubblica. Tanto più opportuno, e anzi necessario appare, quindi, l'affidamento del contenzioso dello Stato e di altre amministrazioni pubbliche ad un organo pubblico, legale, unitario e specializzato, costituito come un corpo a sé di professionisti. Anche nel settore privato, all'impellente e quotidiana esigenza dei grandi gruppi economici e anche di associazioni con finalità sociali e culturali di confrontarsi con leggi e ordinamenti disparati e complessi, la professione forense risponde costituendo grandi studi associati, capaci di prestare, in modo efficace, la propria assistenza specialistica su vari fronti e in varie materie, garantendo, al tempo stesso, un indirizzo unitario e complessivo alla cura degli interessi tutelati. Questa decisa e forse irreversibile linea di tendenza costituisce il metro, per così dire, esterno per apprezzare positivamente l'opzione unitaria nella gestione del contenzioso e della consulenza legale delle amministrazioni statali e di altre amministrazioni pubbliche. Anche quando si configura come tutela di interessi di parte, contrapposti e pariordinati, sul piano processuale, a quelli privati, la tutela dell'interesse pubblico corrisponde pur sempre a quella di interessi collettivi di diversa ampiezza, qualificati da prospettive comuni, la cui realizzazione richiede per forza di cose una visione complessiva, unitaria e organica, anche se al suo interno, per finalità di efficienza analoghe a quelle perseguite dai soggetti collettivi privati, può e, anzi, deve sussistere una opportuna specializzazione in singole materie dei professionisti che attendono a tale cura. È dunque pienamente coerente con tale visione, ed anzi dalla stessa viene esaltata, la gestione unitaria e organica del contenzioso pubblico, come della stessa consulenza legale delle amministrazioni che al contenzioso strettamente si raccorda, in una prospettiva di coordinamento di finalità e di obiettivi. Gestione unitaria e organica che è stata ancor più rafforzata con l'attuazione del principio di collegialità professionale particolarmente valorizzato dalla nostra legge di riforma del 1979. D'altra parte, lo stesso intenso succedersi di mutamenti normativi ai quali si assiste in questo tempo di grandi e rapide trasformazioni sociali ed economiche, determina la necessità, per i soggetti pubblici, di essere adeguatamente assistiti, sul piano giuridico, nella loro azione (si pensi soltanto ai numerosi problemi applicativi posti dall'entrata in vigore della legge n. 241 del 1990 sul procedimento amministrativo), la necessità di ottenere decisioni giurisprudenziali che ne possano orientare l'attività in termini di legalità e di certezza. Di governare le liti, dunque, secondo una logica che, oltre alle esigenze contingenti del caso concreto, abbia sempre come punto di costante riferimento la visione globale degli interessi pubblici generali che la pubblica amministrazione deve perseguire alla luce dei principi costituzionali e del giusto equilibrio tra di essi La complessità di tali compiti e finalità richiede non soltanto una visione organica e omogenea, ma anche, sulla base di essa, una approfondita attenzione alle esigenze di fondo e alle finalità di carattere generale dell’amministrazione che non possono non connotare in ogni momento l’attività dell’avvocato dello Stato. In questo senso conserva tutta la sua attualità l’idea, formulata a fine ottocento nel corso di un dibattito parlamentare sull’ordinamento dell’Avvocatura erariale, e ripresa ed interpretata dall’Avvocato Generale di allora, secondo cui gli avvocati dello Stato sono avvocati, sono funzionari e sotto un certo profilo anche magistrati, ma al tempo stesso, e proprio per questo, non si identificano pienamente con nessuna di tali figure.

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Con tale immagine, solo apparentemente provocatoria e paradossale, si intendeva alludere al fatto che, quale avvocato, il difensore dello Stato deve integrare l’assolvimento del ministero professionale con l’adempimento dell’ulteriore dovere che gli deriva dall’appartenenza ad una pubblica istituzione; nella veste di funzionario, deve poter esercitare però le proprie funzioni sempre con l’indipendenza e libertà professionale proprie dell’avvocato che consentono di dare al patrocinato la più efficace e adeguata tutela. E infine, quale portatore dell’esigenza di legalità e garanzia dell’azione amministrativa, e cioè, in qualche misura, come magistrato, deve però nell’esercizio del patrocinio in giudizio saper assicurare alla parte pubblica difesa una tutela non diversa e non inferiore a quella delle altre parti processuali (singoli o anche i grandi gruppi e le aggregazioni della vita economica e sociale). Questa visione organica e complessiva e la conseguente sensibilità ed esperienza che ogni avvocato dello Stato acquisisce quotidianamente nello svolgimento della sua opera professionale, permeano tutti i campi dell’attività istituzionale dell’Avvocatura. Come ella, Signor Presidente del Consiglio dei Ministri, ha voluto mettere in evidenza nel Suo discorso, i compiti e le attribuzioni dell’Istituto si sviluppano in ogni settore nel quale vi è un intervento pubblico e ciò sia dinanzi ai giudici nazionali, in tutti i gradi di giurisdizione, sia dinanzi alle Corti comunitarie e internazionali. Nei giudizi dinanzi ai primi, al tradizionale impegno nel contenzioso civile e penale si è andato aggiungendo, in costante aumento negli ultimi anni, quello dinanzi al giudice amministrativo, nel quale l’Avvocatura profonde le maggiori energie in tutte le sedi distrettuali. Un particolare sviluppo ha avuto in quest’ultimo decennio l’attività dinanzi alla Corte Costituzionale e alla Corte di Giustizia delle Comunità europee. Dinanzi alla Corte Costituzionale il patrocinio del Governo nei conflitti con gli altri organi costituzionali pone in particolare evidenza lo stretto legame operativo tra l’Istituto e l’Esecutivo. Nella difesa della legittimità delle leggi l’attività dell’Avvocatura in sintonia con l’apprezzamento del Governo che nel procedimento legislativo è interlocutore privilegiato e necessario del Parlamento, assume la precipua funzione di tutela dei valori e dei principi costituzionali. Anche il contenzioso dinanzi alla Corte di Giustizia delle Comunità europee si è esteso in misura che solo alcuni anni orsono sarebbe stata assolutamente impensabile. È trascorso circa un ventennio da quando io stesso attendevo alla difesa degli interessi dello Stato italiano dinanzi alla Corte. Rammento ancora il prevalente scetticismo che affiorava, pure in certi ambienti dell'Amministrazione, di fronte a quei giudizi, anche per le reali e concrete difficoltà che si dovevano affrontare nell'adattare le scelte istituzionali all'ancor giovane prospettiva di una comunità sovranazionale, deputata alla cura degli interessi di una collettività assai più ampia, ma con radici e tradizioni comuni. Quella prospettiva è ora divenuta una insopprimibile realtà effettuale che fa ormai parte integrante della nostra dimensione esistenziale e che, per la forza stessa delle cose e dei principi ideali che le sorreggono, non potrà non superare le spinte contrastanti che ancora l'attraversano, e le comprensibili esigenze particolari che ancora vi emergono. La dimensione assunta da tale realtà non ha mancato di produrre profondi mutamenti nell'ordinamento giuridico del nostro Paese, così come in quelli degli altri Stati europei, ma per ciò stesso richiede il costante impegno dell'Avvocatura, per il continuo adeguamento sia delle concrete soluzioni operative del contenzioso dinanzi alla Corte di Giustizia e, di riflesso, dinanzi ai giudici nazionali, sia dell'organizzazione della consulenza legale delle amministrazioni nelle materie influenzate dalla legislazione comunitaria, sia, infine, delle iniziative di coordinamento e raccordo con l'attività amministrativa in relazione all'evolversi dell'ordinamento giuridico. Un punto che mi sembra meritevole di particolare considerazione è quello concernente la sempre maggiore importanza assunta dai procedimenti sull'interpretazione di norme del Trattato e sulla validità e l'interpretazione degli atti compiuti dalle istituzioni delle Comunità, previsti dall'art. 177 dello stesso Trattato CEE. Il cospicuo aumento dei giudizi instaurati dinanzi al giudice comunitario e la rilevanza delle decisioni assunte da quest'ultimo richiedono un attento monitoraggio preventivo delle questioni trattate, in modo da aumentare l'efficacia dell'intervento dello Stato italiano in tali giudizi. In tal senso l'Avvocatura ha già instaurato proficue forme di collaborazione con le amministrazioni interessate e, in particolare, con il Servizio del contenzioso diplomatico del Ministero degli Affari esteri e con il Dipartimento per il coordinamento delle politiche dell'Unione Europea. Anche in tale materia occorrerà incrementare gli sforzi per migliorare le forme di collaborazione e di raccordo. Ma se l'attività contenziosa dell'Avvocatura dello Stato è quella per certi versi più visibile dall'esterno, l'«altra faccia della luna», come è stata argutamente definita, è l'attività di consulenza legale che l'istituto in tutte le sue sedi presta alle amministrazioni patrocinate e che costituisce il pilastro fondante del nostro essere avvocati.

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Sia che si manifesti nell'ambito di un giudizio, sia che abbia natura preventiva (ma direi soprattutto in quest'ultimo caso), la funzione consultiva si configura come essenziale per il corretto esercizio dell'attività amministrativa. Se la miglior cura è la prevenzione, un parere giuridico che consenta all'Amministrazione di agire tempestivamente nel rispetto della legge, può certo valere a impedire o quantomeno limitare lo sviluppo della successiva patologia del processo. Non mi nascondo certamente le difficoltà e la gravità degli oneri che attendono l’Istituto nel perseguimento delle linee di sviluppo qui appena cennate e non è certo questa la sede ove approfondire tutti i complessi problemi che tale prospettiva suscita. Mi limiterò, pertanto, ad una sola breve osservazione. Come ho avuto occasione di ricordare, è sensibilissimo l'aumento che si è verificato negli ultimi anni nel contenzioso, sia interno, sia comunitario. È questo un dato che non è legato solo a fattori contingenti e non può essere fronteggiato o ridotto con provvedimenti straordinari. Si tratta infatti di un fenomeno che ha radici ben profonde: è la domanda di giustizia che cresce, in stretta connessione con l'evoluzione dell'ordinamento, lo sviluppo della cultura e la maturazione della coscienza civile. Posso assicurare che l'Avvocatura è impegnata a far fronte a queste situazioni con senso di responsabilità e con professionalità. Mi auguro che, come Ella, Signor Presidente, ha indicato nel suo discorso, in particolare attraverso il potenziamento della sua funzione consultiva, l'Istituto possa contribuire maggiormente ad eliminare in via preventiva gran parte di un contenzioso in continuo aumento che danneggia innanzitutto il Cittadino, perché lo costringe a ricorrere al giudice per avere giustizia, danneggia l'amministrazione, perché la impegna in una enorme quantità di cause ripetitive che si potrebbero evitare e danneggia la Giustizia perché contribuisce ad allungare sempre più i tempi dei processi. L'Istituto non mancherà, altresì, di far ricorso in modo ancora più intenso allo strumento previsto dal suo ordinamento nell'art. 15 della legge di riforma del 1979, che consente all'Avvocato Generale di segnalare al Presidente del Consiglio dei Ministri le esigenze di intervento legislativo che emergono nello svolgimento dell'attività istituzionale, tanto in sede contenziosa quanto in sede consultiva. L'Istituto, in ogni caso, ove il Governo lo ritenesse opportuno, in relazione alle proposte e ai progetti di nuove normative nei vari settori della vita giuridica del Paese, potrà fornire ogni contributo sulla base delle esperienze e conoscenze acquisite “sul campo” in sede processuale al fine di cercare di contenere, se non di evitare, il successivo sorgere di lunghe e costose fasi di contenzioso sulla interpretazione delle nuove norme. Nell'accingermi a concludere, desidero rivolgere un pensiero affettuoso e un saluto cordiale a tutti coloro che operano nel nostro Istituto. Un pensiero e un saluto particolare consentitemi di rivolgere, con un sentimento di nostalgia, e forse con una punta di invidia, ai giovani che da poco hanno intrapreso la nostra attività e a quelli. sempre più numerosi, che svolgono presso di noi la pratica forense. Non è retorica ma è espressione di realismo e concretezza l'affermazione che se l’Avvocatura vive ed opera oggi per la nostra esperienza e la nostra professionalità, domani vivrà ed opererà per l'esperienza, la professionalità e il senso dello Stato che avremo saputo trasfondere nei giovani e consentito loro di acquisire. Ella, Signor Presidente del Consiglio dei Ministri, ha avuto l'amabilità di ricordare questa nostra caratteristica: in effetti l'esperienza professionale che vivono i giovani nostri colleghi nel quotidiano esercizio dell'attività d'Istituto a fianco degli avvocati più esperti, costituisce una vera e propria scola juris, una scuola dì diritto vissuto nella sua pratica applicazione alle questioni concrete, una scuola animata da emulazione ma priva degli eccessi di una concorrenza senza freni. Un saluto intendo anche rivolgere ad un'altra nuova forza che sta diventando una componente essenziale dei nostri ranghi: mi riferisco alle donne avvocato e procuratore. È una riserva di intelligenza, di operosità, di cultura e versatilità che era rimasta inutilizzata e dalla quale ora, invece, come è già accaduto negli altri paesi occidentali, la magistratura e l'avvocatura ricevono nuove e preziose energie. Un partecipe saluto, infine, desidero rivolgere agli impiegati dell'Avvocatura, ai nostri preziosi e insostituibili collaboratori, dei quali, nell'esercizio della mia attività professionale, e nel lungo periodo in cui, come Segretario Generale, sono stato capo del personale, ho avuto modo di apprezzare le qualità professionali e umane ed il notevole spirito di dedizione. Signor Presidente del Consiglio dei Ministri, non posso nasconderLe che all'atto della nomina ho profondamente avvertito una qualche perplessità suscitata dalla consapevolezza delle responsabilità

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connesse alla carica; ma mi è stata e mi è di conforto la stima e la fiducia accordatemi dal Governo nonché la ferma certezza che l'Avvocatura dello Stato che sono stato chiamato a dirigere costituisce un valido ed efficiente pilastro della vita democratica del Paese, che ha svolto e continua a svolgere, come Ella, Signor Presidente del Consiglio dei Ministri, ha voluto amabilmente rilevare, in modo altamente positivo il proprio compito istituzionale di difesa dell'Amministrazione e quindi dell'interesse pubblico dei cittadini, nel rispetto della legalità e dei principi della nostra Costituzione. Ho volutamente cercato di evitare toni paludati e retorici, consapevole del fatto che il particolare momento storico attraversato dal Paese richiede impegni non formali ma concreti nello svolgimento delle funzioni a ciascuno affidate e realistica misura nell'azione quotidiana per corrispondere, anche così, al concreto realismo dell'azione di governo. In coerenza con questa convinzione, penso di poter assicurare Lei, Signor Presidente del Consiglio dei Ministri, le istituzioni del nostro Stato democratico nonché i cittadini tutti che quali contribuenti e destinatari dei pubblici servizi sono i diretti interessati al buon andamento della Pubblica Amministrazione, che l'Avvocatura dello Stato continuerà a svolgere nel modo più impegnato, nel solco della nostra tradizione e con spirito di servizio, i propri compiti istituzionali nell'interesse del Paese.

Plinio Sacchetto 22 giugno 1999 Signor Presidente della Repubblica, non posso innanzi tutto non rivolgere a Lei l’espressione del mio ringraziamento più vivo per avere accordato la Sua disponibilità - solo a pochi giorni di distanza dalla assunzione del Suo altissimo Ufficio - a presenziare a questa cerimonia: Presenza che onora profondamente l’Avvocatura dello Stato e conforta anche me personalmente a cercare di adempiere ai miei doveri secondo un modello ideale di impegno civile e sociale. Nell’accingermi ora a parlare dinanzi a Lei ed alle altre maggiori cariche dello Stato - in un clima che accentua la mia gratitudine per la fiducia accordatami e ad un tempo il senso di responsabilità per l’impegno che me ne deriva tanto più dopo le lusinghiere espressioni del Presidente del Consiglio - non posso non prendere l’avvio dalle considerazioni che, in analoghe occasioni, hanno formulato i miei predecessori. Ora, la mia prima reazione, nel rileggere i loro discorsi, è stata di personale preoccupazione e di disagio per la difficoltà di aggiungere qualcosa di originale - come sempre si vorrebbe poter fare - alla illustrazione già fatta allora delle origini, della ragion d’essere, della esperienza e della funzione della Avvocatura dello Stato. Ma, re melius perpensa, mi sono detto che sarebbe stato assai più sconcertante che - nel frattempo - quell’impostazione fosse superata e divenuta repentinamente inattuale. Perché anche la vita istituzionale, al pari della natura, non facit saltus - come anche i più avveduti riformatori sanno bene - ed i cardini di un sistema, quando sono solidi e ben articolati, costituiscono la migliore garanzia per assicurarne la più efficace evoluzione: un’evoluzione come quella che proprio nell’ultimo periodo è in atto. Certo, dopo aver ascoltato il Presidente del Consiglio - e non lo dico per adulazione - mi trovo ancor più a disagio perché mi verrebbe naturale richiamarmi integralmente a tutto quello che Egli ha detto e delle sue parole non potrei - e non potrò in effetti - che effettuare qualche nota a margine e qualche parafrasi. Ma penso che l’occasione non mi consenta di astenermi dall’aggiungere qualcosa. Cercherò quindi anch’io di illustrare brevemente l’identità attuale e le possibilità future dell’Avvocatura, muovendo dalle sue caratteristiche strutturali tipiche per verificarne l’attitudine ad inserirsi costruttivamente nel processo in corso: e vorrei evitare che mi faccia velo l’attaccamento - per altro comprensibile - ad un Istituto al quale appartengo e nel quale ho prestato ininterrottamente servizio dal 1956. Ed allora, qual è innanzi tutto l’identità dell’Avvocatura - nata nel 1875 - in questo scorcio di millennio così gravido di domande, di attese e di speranze per il mondo ed anche per l’Italia? Credo di poter rispondere che, nella sua funzione al servizio delle Pubbliche Istituzioni, è sempre stata e continua ad essere uno strumento preparato, vigile e operoso, attento a che il comportamento della Pubblica Amministrazione corrisponda all’evoluzione dell’ordinamento voluta dal Legislatore ed alla linea d’indirizzo indicata dal Governo. Non a caso, quindi, l’Avvocatura - sorta come organo di tutela in sede giudiziale degli interessi dell’Erario - è divenuta ben presto organo di consulenza e patrocinio di tutte le Amministrazioni dello Stato (così come di numerosi altri Enti che concorrevano a perseguire finalità d’interesse pubblico) ed è stata ricondotta direttamente nella sfera della Presidenza del Consiglio, in modo da assicurarne l’obiettività, il senso critico e la libertà di giudizio: qualità necessarie per commisurare il perseguimento dell’interesse generale ad una visione che - al di là dei singoli problemi contingenti che si pongono alle Amministrazioni nelle loro specifiche

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competenze - consentisse un contemperamento, una ponderazione ed un raccordo dei diversi interessi pubblici concorrenti, nel quadro di una prospettiva mirata al bene della comunità dei cittadini. E tanto più tale esigenza si rafforza quanto più l’ordinamento generale si evolve, le strutture istituzionali si modificano ed il rapporto tra interesse generale e posizioni dei singoli si articola in modo diverso. Quindi, in un’ottica corretta della funzione dell’Avvocatura anche in sede giudiziaria, essa non doveva e non deve essere lo strenuo difensore del potere pubblico ad oltranza, perinde ac cadaver, ma lo strumento di una verifica e di un approfondimento per cui a volte è necessario bensì il ricorso alle vie giudiziarie ma per raggiungere nel comune interesse delle parti la interpretazione delle norme più corrispondente alla volontà del Legislatore. Ed a questa interpretazione - una volta che essa abbia raggiunto la sua compiuta elaborazione - l’Avvocatura deve portare l’Amministrazione ad adeguarsi, mettendo meglio a fuoco la sua azione ed i suoi procedimenti: secondo un iter di assistenza legale che ne investe tutte le possibili fasi ma non sarebbe a rigore - in un sistema ottimale - inevitabile, perché esiste come primaria (in ogni caso preliminare e non di rado in sé sufficiente) l’azione consultiva, quella per cui già ab origine il Mantellini ebbe a definire l’Avvocatura come Giudice prima ancora che come avvocato. Accostamento e confronto che esprime una peculiarità tipica - ed oserei dire unica - del nostro Istituto. Una peculiarità, per altro, che richiede un permanente, rapido e puntuale coordinamento tra Avvocatura e Amministrazioni, ordinariamente in modo diretto ma - nelle questioni più complesse, che investono più Amministrazioni o che comunque coinvolgono problemi d’indirizzo politico-costituzionale - anche attraverso, e con l’intervento, della Presidenza del Consiglio: così appunto come oggi è particolarmente urgente e necessario. Ora, se questa è l’attitudine coltivata dall’Avvocatura dello Stato nel corso della sua storia, non esito ad affermare che ancor oggi non esiste nessun’altra istituzione che abbia un patrimonio di esperienza delle problematiche giuridiche attinenti all’interesse pubblico così ampia e diffusa come quella dell’Avvocatura. Non cercherò a questo punto - posso assicurarlo - di ricostruire la storia d’Italia dall’angolo visuale dell’Avvocatura dello Stato; né - sottolineando l’ampiezza della nostra preparazione - intendo interpretare riduttivamente altre presenze fondamentali nel percorso della vita istituzionale, come quella del Consiglio di Stato, ma voglio evidenziarne la diversità e cioè la distinta ragion d’essere, perché, da un lato, l’attività dell’Avvocatura è estesa a tutti i settori dell’esperienza giuridica e giudiziaria che coinvolge la P.A. (da quella amministrativistica a quella civilistica a quella penalistica, in sede di consultazione preventiva come di gestione processuale) e, dall’altro, è innestata sulle radici stesse della P.A. e preordinata a consentire la puntuale applicazione dei principi normativi alla realtà operativa, traendone le indicazioni fondamentali per un indirizzo giuridico-amministrativo non avulso - appunto - dalla realtà, ma aderente alle esigenze che le norme astratte sono dirette a realizzare. Ed oggi siamo arrivati ad una svolta decisiva, perché negli ultimi lustri si era verificata una progressiva ripartizione (se non, in qualche caso, frammentazione) delle competenze istituzionali che aveva accentuato la difficoltà di una reductio ad unitatem: esigenza che è da ultimo emersa in modo ineludibile, tanto è vero che (come appunto ha rilevato il Presidente del Consiglio) proprio in sede di definizione delle regole per il conferimento di funzioni dello Stato alle Regioni ed agli enti locali la legge n. 59 del 1997 (legata al nome del prof. Bassanini) ha avvertito la necessità di operare una riforma dell’amministrazione centrale e periferica dello Stato (oltre che la ridefinizione delle regole essenziali dell’attività amministrativa). E proprio nei giorni scorsi questa riforma è stata messa a punto, prevedendo una radicale ristrutturazione, ed un ridimensionamento di modelli operativi altrettanto innovativo, dei Ministeri sinora esistenti. A questo punto, potrebbe sembrare pretenzioso e superfluo ricordare - in questa occasione ed a questo uditorio - che l’unità ed indivisibilità della Repubblica restano, e tanto più di fronte all’amplissimo conferimento di poteri e di funzioni alle regioni ed agli enti locali di cui ho appena fatto cenno, l’asse portante dell’ordinamento costituzionale. Ma proprio in questo contesto è essenziale che l’omogeneità dei fini generali e la coerenza dei criteri di massima diretti a realizzarli siano garantiti sul piano tecnico-giuridico dall’unitarietà dell’azione legale: e ben difficilmente, a mio avviso, questo intento potrebbe attuarsi senza mantenere un diretto riferimento all’istituzione che, unitariamente, ha sin qui assolto il relativo compito. Ora, a tale esigenza mi sembra che abbia già prestato vigile attenzione il Legislatore, là dove ha voluto confermare - ed in certa misura rafforzare - la posizione dell’Avvocatura quale centro di riferimento unitario pur nella molteplicità dell’esperienza. Particolarmente significative mi sembrano, in proposito, due recenti disposizioni: quella contenuta nel Decreto legislativo n. 80/98 sull’organizzazione amministrativa, che, nell’assegnare la trattazione delle controversie di impiego direttamente alle stesse Amministrazioni, ha accordato all’Avvocatura quello che tecnicamente possiamo chiamare un potere di avocazione per la gestione delle cause coinvolgenti questioni di massima o di particolare importanza giuridica od economica; e l’altra, recentissima, contenuta nella legge

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n. 133/99 in materia di perequazione, razionalizzazione e federalismo fiscale, con la disposizione sulle notificazioni delle sentenze d’appello dei giudici tributari, che devono essere effettuate all’Avvocatura dello Stato: disposizione che potrebbe apparire meramente processuale ma possiede invece una portata sostanziale, perché conferma il ruolo unitario e unificante dell’Istituto nel momento delle valutazioni preordinate al giudizio di legittimità davanti alla Corte di Cassazione. Le due disposizioni, che confermano all’Avvocatura il compito prestigioso e impegnativo di ultimo filtro interpretativo, prima della massima istanza giudiziaria, della legge - e mi è qui difficile sottrarmi alla tentazione di evocare lo ius respondendi dell’esperienza romana o i privilegi funzionali dell’advocatus fisci - avvalorano il suo ruolo e ne ratificano la vocazione a porsi come garante - sia pure con la g minuscola visto che vi sono oggi delle Autorità Garanti - della legalità nell’azione dello Stato. Garante della legalità, che ha un gravissimo compito proprio da svolgere ed una peculiarità tutta sua: il compito è quello di assicurare l’uniformità dei comportamenti affinché sia attuato anche nel campo dei procedimenti amministrativi il fondamentale precetto costituzionale dell’eguaglianza; la peculiarità è data dal fatto che il garante è “accanto” - non “sopra” - ai soggetti la cui uniformità di comportamenti va garantita. E la richiesta di assistenza che proviene da quei soggetti è divenuta particolarmente intensa da quando, con i provvedimenti dei primi anni Novanta, è stata meglio definita e redistribuita la responsabilità degli operatori. E’ così che l’attività consultiva dell’Avvocatura, tradizionalmente espletata con pareri formali, ora si va evolvendo in attività di assistenza, dove la legalità della condotta si incorpora sempre più strettamente nell’azione concreta e da questa non può prescindere; la legalità dell’azione amministrativa non può rimanere nell’enunciazione astratta a priori ma si trasfonde nella legittimità dei singoli atti che nell’esperienza del quotidiano vengono adottati. E ciò richiede tempestività e duttilità, caratteri della funzione che non si aggiungono dall’esterno a quelli tradizionali, e non certo obsoleti, dell’approfondimento e della ricerca di prospettive unitarie e unificanti, ma li presuppongono e vi si innestano. Né tale raccordo sarà meno necessario, a mio avviso, neppure in materia tributaria, come il Legislatore (lo abbiamo appena visto) ha avvertito: anche di fronte a nuove strutture operative come le agenzie, più adeguate sul piano sociale ed economico-finanziario, resterà ferma ed anzi dovrà essere più rigorosa l’esigenza di un indirizzo unitario che sarà, per questa parte, la ragion d’essere del Ministero dell’Economia e delle Finanze e richiederà una continua attuazione, verifica e messa a punto in sede processuale, che solo un organo di consulenza unitario potrà assicurare a livello di vertice, in permanente confronto strategico - ma anche strumentale, ad evitare frammentazioni e dispersioni - con la massima Autorità Giudiziaria. Né l’Avvocatura è meno attenta all’azione delle emergenti Autorità, con cui anzi già collabora e le cui esperienze precedenti rappresentano un presupposto essenziale per la loro nuova e fondamentale azione, come molte di esse hanno già avuto occasione di riconoscere. Al medesimo tempo, non meno essenziale - come pure ha rilevato il Presidente del Consiglio - è l’apporto dell’Istituto in questa nuova fase di evoluzione verso la piena realizzazione dell’Unione Europea, snodo fondamentale verso il futuro. Infatti, le funzioni istituzionali dell’Avvocatura dello Stato si estendono alla dimensione sovranazionale costituita dall’ordinamento giuridico della Comunità europea nel quale ha una posizione centrale la giurisdizione della Corte di Giustizia. Sin dall’inizio, l’Avvocatura Generale dello Stato assicura anche dinanzi alla Corte di Giustizia la difesa sia nei giudizi che vedono la Repubblica italiana convenuta dalla Commissione Europea per inadempimento di obblighi derivanti dal Trattato, sia in quelli che il Governo promuove per reagire contro atti delle Istituzioni comunitarie lesive degli interessi nazionali. E non meno attiva è la partecipazione dell’Avvocatura ai giudizi incidentali di interpretazione delle norme comunitarie promossi ad iniziativa dei giudici nazionali. Non per compiacimento tecnicistico, ma per la portata determinante che assume la giurisdizione interpretativa della Corte, desidero sottolineare il ruolo propulsore che essa riveste nel processo fortemente evolutivo che caratterizza il diritto comunitario, costruito attorno alle norme fondamentali in tema di libertà di circolazione, di concorrenza, di divieto di discriminazioni. La sentenza interpretativa, proprio perché diretta a garantire una applicazione uniforme del diritto comunitario su tutto il territorio dell’Unione, spiega i suoi effetti ben al di là del caso che l’ha suscitata, e spesso al di là della stessa situazione nazionale che ha fatto insorgere la questione. Ecco perché la politica di intervento nei giudizi di interpretazione, per prospettare alla Corte una soluzione giuridicamente corretta ma al contempo conforme all’interesse nazionale, merita di essere sempre più vigorosamente sostenuta: anche per mantenere un equilibrio con l’azione svolta dai nostri principali partners europei.

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Per intervenire tempestivamente ed efficacemente in queste controversie, occorre però una valutazione complessa, in cui l’analisi dei termini giuridici della questione deve coniugarsi con quella politico-amministrativa della possibile incidenza della pronuncia della Corte sugli interessi nazionali. Anche qui, perciò, è sempre più necessario l’impegno dell’Avvocatura dello Stato, mettendo a punto procedure che assicurino l’apporto tecnico-giuridico dell’Avvocatura presso il Ministero degli Affari Esteri, che presto disporrà di una Direzione Generale per l’Integrazione europea, dove dovranno convergere gli apprezzamenti dei Ministeri di volta in volta interessati. Mi rendo conto che sto rischiando, venendo meno al mio impegno, di esporre gradualmente (e avrei voluto soffermarmi sulla nostra assidua presenza dinanzi alla Corte Costituzionale per il Governo - ma anche di questo ha parlato il Presidente del Consiglio - e della nostra dedizione ai beni culturali) tutti gli aspetti salienti dell’attività - o almeno delle buone intenzioni - dell’Avvocatura. Ed allora a questo punto doverosamente concludo. Non senza aggiungere che mi si potrebbe chiedere facilmente se il quadro, pur elementare ed incompleto che ho proposto, dell’esperienza e della potenzialità dell’Avvocatura non ne adombri una visuale trionfalistica se non un sotteso desiderio di potere (per l’Istituto, non per me). Ma il potere - sopra tutto nell’epoca della globalizzazione - è e sarà sempre di più altrove! Ora, noi siamo consapevoli di essere soltanto strumento dell’azione pubblica, nei limiti voluti dalla legge e con le modalità operative che nell’interesse del Paese ci indica il Governo: ma, in questo ambito, che un ufficio per definizione legale non potrebbe certo ignorare, siamo convinti di essere, senza false modestie, uno strumento utile ed efficiente. Sarebbe forse inelegante cogliere questa occasione per lamentare l’insufficienza delle nostre forze, fenomeno per altro noto e tanto più preoccupante per tutti gli apparati - amministrativi e giudiziari - che richiedono una elevata qualificazione professionale: e quindi soggiungo di nutrire fiducia che le difficoltà potranno essere ridotte, in prospettiva, con un’azione diretta a privilegiare quell’impegno organico, articolato e mirato su obiettivi chiari e puntuali, che il Legislatore ed il Governo appaiono decisi a realizzare. Confido di avere così individuato alcune coordinate che avvalorano l’utilità, se non l’insostituibilità, dell’Avvocatura in questa prospettiva: da parte mia non posso non assicurare tutto l’impegno, doveroso ma anche profondamente sentito. Vedranno il Legislatore ed il Governo se, nell’interesse generale, questo impegno meriti di essere sorretto, come l’apprezzamento del Presidente del Consiglio ci lascia sperare. Grazie Signor Presidente della Repubblica, grazie Signor Presidente del Consiglio della disponibilità e della fiducia: e grazie a tutti per la pazienza, che spero non completamente inutile.

Luigi Mazzella 22 febbraio 2002 Signor Presidente, desidero innanzitutto esprimerLe, anche a nome di quelli che operano in questo Istituto, i sensi della più viva gratitudine per aver voluto onorare, con la Sua partecipazione, questa cerimonia di insediamento. Un sentito ringraziamento rivolgo anche al Presidente del Senato, al Presidente della Camera ed ai relativi Vice Presidenti, al Presidente del Consiglio dei Ministri ed al Vice Presidente del Consiglio, al Vice Presidente della Corte Costituzionale, ai Ministri, all’Ambasciatore di Svezia accreditato presso il Governo Italiano, ai Giudici costituzionali, al Primo presidente della Corte di Cassazione ed al Procuratore Generale, ai Presidenti del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, a tutti i magistrati presenti, alle Autorità civili e militari, ai colleghi del libero foro cui tanti e profondi vincoli ci legano, a tutti i componenti dell’Avvocatura dello Stato, di questa sede e delle Distrettuali, e a tutti coloro che hanno voluto partecipare a questa cerimonia. Un sentimento di gratitudine, inoltre, desidero esprimere a Lei, signor Presidente del Consiglio dei Ministri, per la fiducia che mi è stata accordata con la nomina a questa carica, ringraziandoLa, altresì, per le lusinghiere parole che ha voluto rivolgere all’Istituto ed a me personalmente. Parole che costituiscono per noi avvocati dello Stato un ambito riconoscimento del nostro impegno professionale ed uno sprone per la nostra attività futura. So, per avervi assistito, che le cerimonie di insediamento delle cariche dello Stato hanno una forma ed un contenuto molto protocollari e, solitamente, chi viene immesso nelle funzioni si astiene dall’affrontare le tematiche più vive e brucianti che riguardano le istituzioni, cui quelle manifestazioni ufficiali si riferiscono.

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È consuetudine che l’investito ritenga opportuno limitarsi a ricordare, illustrandole, le caratteristiche peculiari del proprio Istituto, le benemerenze ed il prestigio acquisiti negli anni della sua breve o, come nel caso della nostra Avvocatura, lunga esistenza, proponendosi di intrattenere le Autorità competenti sulle cose che si ritenga debbano essere modificate in altra sede, solitamente più chiusa e riservata. Non mi discosterò nella sostanza da tale prassi, nel caso dell’Avvocatura dello Stato più che secolare. Ma, con un discorso necessariamente breve e contenuto, intenderei prospettare per grandi linee, alle Autorità presenti in sala, lo scenario in cui mi sembra debba collocarsi l’Avvocatura dello Stato degli anni duemila. Vedere, cioè, quali adattamenti imponga ad un Istituto, ideato nel periodo preunitario e fatto proprio dallo Stato risorgimentale, la radicale, profonda trasformazione che ha subito ed ancora sta subendo la nostra Repubblica in questi ultimi anni. Sul piano internazionale tutto volge al “globale” e al “sopranazionale”, mentre la legislazione interna si orienta verso posizioni decisamente federalistiche, con l’affermazione dei principi della sussidiarietà e della devoluzione. Sul piano interno dal punto di vista delle istituzioni e della politica ad esse relativa, la situazione si presenta complessa. Lo Stato-centrale, in relazione alla sua riforma in senso federalistico e lo Stato-nazione, nella prospettiva di un processo sempre più avanzato e rapido di integrazione europea, avvertono il bisogno di considerare sotto nuova luce e con diverse prospettive la natura, la collocazione e l’assetto di Istituti, Organi, Enti di lunga e consolidata tradizione. E mi sembra che tale necessità non risparmi un’Istituzione come l’Avvocatura dello Stato, che, pure, con l’assetto attuale ha ricevuto e continua a ricevere attestazioni numerose e significative di considerazione e di stima per il servizio che rende allo Stato ed alla collettività. Non intendo ricordare ad un uditorio così alto, qualificato, avvertito e colto, anche nello specifico dell’argomento trattato, la storia del nostro Istituto. Ma per dimostrare quanta acqua sia passata sotto i ponti dal momento in cui, all’indomani dell’unificazione, venivano istituiti sei Uffici del contenzioso finanziario alle dirette dipendenze del Ministero delle Finanze, al momento attuale un “excursus”, succinto e mirato a cogliere gli aspetti degli ipotizzabili “aggiustamenti di tiro”, mi sembra pertinente. La difesa e la consulenza dello Stato, inteso nella sua accezione di Stato-Amministrazione nel complesso delle sue articolazioni, ricevette anch’essa, come tante altre prestigiose Istituzioni, un forte e decisivo impulso dalla evoluzione della giustizia amministrativa (iniziata, come si ricorderà, con l’abolizione del sistema del contenzioso amministrativo, operato dalla l. 20 marzo 1865, n. 2248, allegato E). Questa legge, fondamentale per il nostro ordinamento, contribuì in maniera notevole a creare anche le condizioni per una nuova sistemazione generale del patrocinio dello Stato. L’esigenza, infatti, di una riforma degli uffici del contenzioso divenne palese intorno al 1870. L’idea di costituire un corpo di avvocati, alle dipendenze dello Stato, specializzati ed in grado di imprimere un orientamento unitario alla difesa delle Amministrazioni, fu propugnata da insigni giuristi, contrastati, per la verità, da altri (altrettanto illustri) dottrinari, che erano favorevoli all’idea di attribuire il compito della difesa dello Stato al Pubblico Ministero, estendendone i compiti alla materia patrimoniale. Per questi ultimi giuristi, l’intento di assicurare, anche attraverso la difesa giudiziale delle Amministrazioni, la persecuzione del fine di giustizia avrebbe dovuto far premio su qualsiasi altra, pur significativa ed importante esigenza. Si potrebbe dire che una sorta di compromesso tra le due tesi contrapposte fece sì che l’Avvocatura dello Stato nascesse, mi si perdoni l’espressione colorita, da una “costola” del Pubblico Ministero. La l. 28 novembre 1875, n. 2781, infatti, limitando per altri versi, ed anche notevolmente, le competenze del Pubblico Ministero, all’art. 7, delegò al Governo l’emanazione di un regolamento, che avesse a prescrivere le norme relative alla direzione ed alla trattazione delle cause, ai rapporti degli uffici del contenzioso finanziario con le pubbliche amministrazioni e, in genere, disponesse per l’attuazione della legge. Il legislatore italiano seguiva, dunque, in quella occasione una via ben diversa ed in qualche modo specularmente opposta a quella battuta da altri Paesi occidentali, quali gli Stati Uniti d’America, ad esempio, ove la normativa (Titolo 28, § 507 dell’United States Code) prevedeva (e tuttora prevede) la figura dell’United State Attorney, visto al tempo stesso come Avvocato dello Stato e come Pubblico Ministero. L’Avvocatura dello Stato statunitense, in altre parole, era (ed è) costituita da due branche: l’una penalistica per la pubblica accusa, l’altra civilistico-amministrativa per la difesa degli interessi patrimoniali dell’Amministrazione pubblica. Ritornando al nostro ordinamento, possiamo dire che fu quindi la legge del 1875 ad aprire la strada all’attuale sistema di difesa dello Stato. Con l’emanazione del regolamento del 16 gennaio 1876 n. 2914, fu istituita, infatti, la Regia Avvocatura Erariale. Inizialmente inquadrato nel Ministero delle Finanze, l’Istituto mutò la propria denominazione in quella di Regia Avvocatura dello Stato, nel 1930 e, nel 1931, fu inquadrata definitivamente nella Presidenza del Consiglio dei Ministri.

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Tutto questo e quanto dirò innanzi è soprattutto per ricordare come e con quanta duttilità il nostro Istituto si sia sempre prontamente e tempestivamente adeguato alle esigenze dello Stato ed a quelle di porsi in modo ottimale al servizio della collettività. L’Avvocatura, infatti, seguiva ancora l’evoluzione socio-economica dello Stato durante il periodo compreso tra le due guerre. Quando si accentuò la tendenza ad una visione unitaria ed accentrata della Pubblica Amministrazione, il R.D. 30 ottobre 1933, n. 1611 immaginò e realizzò un disegno giuridico di difesa dello Stato e degli altri enti pubblici non statali coerente con i principi all’epoca vigenti. E quel rapporto, troppo forte e saldo, tra ente difeso, Avvocatura dello Stato e Stato-organizzazione generale apparve, ai più attenti osservatori politici del dopoguerra, incompatibile con la nuova Costituzione repubblicana e soprattutto con la natura squisitamente tecnico-professionale che aveva caratterizzato la “prima” Avvocatura. Sarebbe comunque grave non ricordare che le doti di equilibrio, di sensibilità, di responsabilità degli Avvocati dello Stato hanno fatto sempre sì che l’Istituto si sia mosso, negli ampi confini disegnati per la sua attività, con grande ed apprezzabile moderazione. Per lo Stato Unitario, - prima e dopo la Costituzione repubblicana - l’Avvocatura dello Stato ha sempre costituito uno strumento utile ed indispensabile. Avere nello “Stato di diritto” un organo che, unitariamente su tutto il territorio nazionale, provvedesse alla difesa ed alla consulenza legale di tutte le Amministrazioni statali, centrali e periferiche e degli enti ad esse collegati ha sempre significato certezza di una risposta professionale competente ed adeguata. Ma rispondere brillantemente a questa esigenza e dimostrare, nel contempo, di essere, negli anni, una istituzione di grande prestigio, di assoluta integrità morale, di straordinaria validità professionale, non è bastato agli Avvocati dello Stato per non porsi - essi per primi - negli anni settanta il problema di un adeguamento necessario alla nuova normativa repubblicana e di un rafforzamento di quelle istanze di autonomia professionale così peculiari all’attività da loro svolta. L’Istituto aveva avvertito fin dai primi anni di quel decennio che un processo, sia pure segnato ora da tappe importanti ed ora da significative battute d’arresto, portava all’introduzione dell’ordinamento regionale. La legge n. 103 del 1979, fortemente sollecitata prima dall’Associazione di categoria e poi anche con sempre maggiore determinazione dall’Istituto, modificò significativamente le linee della nostra Istituzione, adeguandole alle nuove esigenze insorte per effetto della dislocazione in sede locale di poteri e competenze. Ne risultò l’immagine di una Avvocatura dello Stato in più accentuata posizione di indipendenza funzionale, individuata e modellata come struttura di collegamento e di intermediazione fra le amministrazioni statali e quelle regionali, quale garante, attraverso il filtro di una visione generale, di un’attività amministrativa concretamente indirizzata al migliore soddisfacimento dell’interesse pubblico. Ora che il nostro paese è entrato in un’ulteriore fase di trasformazione, sia all’interno del proprio ordinamento che in rapporto all’Europa, l’Istituto sembra avvertire l’esigenza di un ulteriore ripensamento legislativo. E questo momento di interesse e di attenzione per l’Avvocatura dello Stato, indirettamente stimolato dall’investitura che mi riguarda, mi induce ad abusare brevemente della vostra pazienza per prospettarvi non linee di una riforma che non devono essere neppure accennate da chi ha responsabilità esecutive, spettando esse unicamente agli organi politici di Governo e di Legislazione, ma unicamente “esigenze”. Quelle istanze, cioè, che potrebbero fare apparire necessarie, a mio avviso, modifiche eventuali del nostro assetto. Massimo Severo Giannini, nel sintetizzare l’evoluzione dello Stato moderno, rilevava, già nel 1991, che lo Stato non era più il solo pubblico potere, dominante su una serie di enti minori diretti e controllati, ma era uno dei pubblici poteri esistenti, condizionato da altri pubblici poteri, alcuni di livello superstatale, altri di livello interno. A distanza di poco più di un decennio, avvertiamo tutta l’importanza e pregnanza di questo monito: il concetto di Nazione è toccato da una serie di eventi che portano gli Stati a cedere quote di sovranità sempre più ampie, sia in senso verticale che in senso orizzontale. Ci si riferisce al federalismo, con la rinuncia di funzioni a favore sia di regioni minori (federalismo interno) e sia di regioni maggiori (federalismo esterno), per cui eventi locali vengono influenzati in modo non trascurabile da eventi lontani. D’altra parte, tali tendenze evolutive si collocano oggi in un contesto internazionale complesso, e mutato in seguito alla tragedia dell’11 settembre: si è acuita la necessità di un’unione politica che sia all’altezza di quella economica, di un’evoluzione reale e concreta del concetto di Stato, di una comune politica di sicurezza, di una comune politica economica, di una comune politica di ricerca e di una comune politica per uno spazio giuridico europeo.

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Di fronte alla trasformazione in senso federale dello Stato con l’attribuzione di molte competenze legislative, oggi statali, alle regioni, è da tenere in seria considerazione la necessità di un adeguamento a nuovi compiti delle strutture, soprattutto periferiche (le Avvocature Distrettuali), del nostro Istituto. Nei luoghi di produzione della legislazione regionale manca, all’attualità, una struttura dello Stato centrale in grado di “monitorare” e rappresentare nelle sedi competenti gli eventuali conflitti tra l’ordinamento federalistico e quello nazionale. La presenza sul territorio di sedi periferiche dell’Avvocatura dello Stato ed il loro istituzionale raccordo con l’Avvocatura Generale di Roma potrebbe rivelarsi preziosa, per la creazione di un Centro composito e territorialmente articolato di consultazione, di alta competenza professionale, in grado di fornire elementi di giudizio e di valutazioni alle Autorità competenti per la sollevazione dei conflitti. Ma oltre al ruolo di “cerniera” nel rapporto Stato-Regioni l’Avvocatura dello Stato potrebbe assolvere anche quello del tutto analogo nel rapporto Stato-Unione Europea, attraverso un’organizzazione, per così dire, più internazionalistica dei luoghi di “rilevamento” di potenziali inadeguamenti alla normativa comunitaria ed ipotizzabili conflittualità. La prevedibile riduzione quantitativa del contenzioso dello Stato per effetto della tendenza sopradelineata (federalismo) unita al fenomeno delle privatizzazioni consentirà certamente all’Istituto di sviluppare con maggiore pienezza, intensità e validità professionale, l’attività di consulenza pre-contenziosa nel senso sopra delineato (rapporti Stato-Regioni e rapporti Stato-Unione Europea) nonché di fronteggiare il prevedibile, notevole incremento di difese giudiziali in materia costituzionale e comunitaria. L’attività dell’Avvocatura dello Stato, volta da una parte a tutelare l’unitarietà e la razionalità dell’ordinamento e, dall’altra, gli interessi del Paese, nel concorso degli Stati membri, potrebbe contribuire a rendere più equilibrato ed armonico il progredire dell’unificazione europea. La surricordata professionalità specifica degli Avvocati dello Stato potrebbe tornare utile per immaginare, altresì, meccanismi di soluzione dei conflitti che talvolta insorgono - con riflessi esteriori di immagine che sorprendono i cittadini - tra Autorità indipendenti ed Amministrazioni per così dire tradizionali dello Stato. Se la sede della composizione non può essere quella della Presidenza del Consiglio per la natura indipendente della Autorità-Garante, ben potrebbe essere invece quella dell’Avvocatura dello Stato. Si eviterebbe in tal modo che un conflitto, comunque interno alla Amministrazione complessiva dello Stato, venga portato al suo esterno all’esame di organi giurisdizionali. Ma per potere adempiere ai tre compiti delineati l’Avvocatura dello Stato ha bisogno dell’attenzione del Governo e del Parlamento. La difficile e complessa situazione in cui, sul piano istituzionale oltre che su quello politico, è venuto a trovarsi lo Stato centrale, non solo in relazione alla sua riforma in senso federalistico ed alla prospettiva di un processo sempre più avanzato e rapido di integrazione europea, ma anche per effetto dell’introduzione nell’assetto istituzionale di Autorità Indipendenti (Garanti) e di strutture privatizzate a capitale pubblico impone la necessità di considerare sotto nuova luce la stessa collocazione dell’Istituto nell’Ordinamento complessivo dello Stato. Dal suo compito originariamente previsto, l’Avvocatura dello Stato, per effetto di leggi o di interpretazione estensiva di quelle preesistenti, si è vista trasformata in organo di difesa e di consulenza non solo dello Stato-Amministrazione ma della Presidenza della Repubblica, dei due rami del Parlamento (Senato e Camera dei Deputati), delle Corti e delle Magistrature nonché dei loro organi di autogoverno - ove esistenti -, del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro e delle surricordate Autorità indipendenti. Già questa estensione del suo ruolo originario comporta, per un corretto inquadramento dell’Istituto nel complesso delle Istituzioni dello Stato, una collocazione in un ambito di indipendenza e di autonomia (professionale e gestionale) che possa immaginarsi in qualche modo ricalcata su quella adottata dall’Ordinamento per Organismi Tecnico-Professionali operanti nel campo dell’Economia. Un’Avvocatura ridisegnata per dare utilità oltre che al proprio paese alla causa della integrazione europea, potrebbe essere apprezzata anche dagli altri Stati dell’Unione - dove, come in tutte le democrazie più avanzate ed evolute, il contributo tecnico professionale di avvocati ed economisti è sempre di più ritenuto rilevante ed essenziale - e rappresentare un modello organizzatorio apprezzabile anche fuori dai nostri confini nazionali, in quanto utile per agevolare il dialogo tra giuristi di diversa formazione ed esperienza. Signor Presidente del Consiglio, mi permetta di sottolineare e rimarcare che agli eventuali nuovi e più rilevanti compiti che potrebbero attenderla ove Parlamento e Governo ne prevedessero l’auspicata trasformazione, l’Avvocatura dello Stato è pronta, sul piano umano e professionale, a dare ancora una volta risposte adeguate. Soprattutto se, congiuntamente alla sua diversa collocazione ed alla sua più complessa attività difensiva e consultiva, si accompagnasse un maggiore sostegno sul piano delle potenzialità organizzative e strutturali.

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L’epoca della nostra competizione professionale con gli studi legali gestiti da grandi e spesso solitari Maestri del giure è finita e l’Avvocatura è uscita dall’esperienza più che onorevolmente. Oggi che gli studi professionali privati sono “mega” e transnazionali, capaci di prestare, in modo efficace, la propria assistenza specialistica su vari fronti ed in varie materie, l’Avvocatura chiede di essere messa in grado di dare alla collettività organizzata prestazioni ancora più utili ed adeguate, con lo stesso spirito di servizio che ha sempre caratterizzato la sua attività.

CONSIGLIO DI STATO Antonino Papaldo 6 dicembre 1968 Signor Presidente della Repubblica, Signor Presidente del Consiglio dei Ministri, Eminenza, Autorità, Signore, Signori, Colleghi carissimi" Voi siete venuti qui per un atto di simpatia verso il Consiglio di Stato. Nella mia qualità di decano di questa Famiglia saluto e ringrazio il Capo dello Stato della sua presenza, che è la presenza di tutta la Nazione, il Presidente del Consiglio dei Ministri, che ha espresso per l'Istituto e per me sentimenti improntati a tanta benevolenza, ed al quale mi permetto di rinnovare, anche a nome di tutto il Consiglio di Stato i più fervidi ,auguri per l'opera che Egli ed il suo Governo si accingono a compiere nell'interesse del Paese, l'Eminentissimo Card. Dell'Acqua Vicario di Sua Santità, il Senatore Gronchi, il Presidente del Senato della Repubblica on. Fanfani, il Vice Presidente della Camera dei Deputati on. Luzzatto, il Presidente, il Presidente emerito e i giudici ,della, Corte Costituzionale, tanto in servizio che emeriti, i componenti del nuovo Governo. Saluto e ringrazio tutti gli intervenuti e fra di essi, in primo luogo le Autorità ed in particolare. i Capi ed i rappresentanti degli Istituti a quali sono affidati i compiti di giustizia, di consulenza, di controllo, di difesa legale: la Corte Costituzionale presso cui ho prestato servizio nei primi dodici anni del suo funzionamento cercando di portare nel nuovo altissimo organo tanta parte della tradizione più che secolare del nostre Istituto, dal quale, a seguito dell'elezione da parte dei miei colleghi; provenivo; il Consiglio nazionale dell'Economia e del Lavoro; la Corte dei conti; l'Avvocatura dello Stato, alla quale mi sento particolarmente legato, avendo trascorso nelle sue fila sei anni della mia gioventù, anni indimenticabili perché i più formativi della mia vita; le magistrature ed in particolare la magistratura ordinaria, che mi diede per la prima volta, or sono quasi 47 anni, l'onore della toga. Mi sia permesso infine di salutare e ringraziare il Senatore Giovanni Leone, ed i suoi colleghi di Governo, dai quali - e soprattutto dal Presidente - abbiamo avuto una comprensione che si dice poco se sì qualifica affettuosa; l'on. Aldo Moro ed il Governo, da lui presieduto :per aver voluto, in un momento in cui incombevano le preoccupazioni della vigilia elèttorale, dare senza indugi a questo Istituto un presidente. Si è trattato anche di un atto di comprensione per un magistrato, che aveva servito l'Istituto per più di 38 anni. È stato un segno di umana gentilezza, che non guasta mai neppure nel campo amministrativo: ma - lasciatemelo aggiungere – quell’atto ha costituito pure una prova di saggezza, giacché non deve essere .dimenticato che nella scelta del Presidente di Istituti come il nostro è giusto ed opportuno trovare la soluzione nell'interno degli stessi Istituti, salvo casi di estrema eccezionalità. Ed ora vogliate concedermi un istante, per rivolgere il mio pensiero agli uomini che dal 1930 ad oggi. ho incontrato ed a quelli il cui ricordo era ancora vivo in queste aule di Palazzo Spada quando vi posi piede: uomini di varia provenienza e preparazione, di varia tendenza spirituale, politica, culturale; ma tutti animati da quel senso dello Stato che da un secolo e mezzo, a Torino, a Firenze, a Roma, ha dominato la mentalità degli appartenenti a questo Istituto. Non posso fare nomi né di scomparsi né di viventi: se dovessi ricordare singole persone, troppo lungo sarebbe l'elenco e non sarebbe mai completo. A tutti, presenti ed assenti, ed in particolare ai miei predecessori, va il mio affettuoso ed ammirato ricordo. Ai magistrati ed al personale tutto della Famiglia del Consiglio di Stato rinnovo i! mio saluto che in questa solenne circostanza si vena di viva commozione.

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A questi saluti, che non sono di circostanza ma rispondono ad un sincero bisogno del mio spirito, credo sia doveroso aggiungere qualche parola sul nostro Istituto ed in particolare sulla sua posizione nell'attuale periodo storico. Questa cerimonia è singolare perché in essa si tratta più di un commiato che di un insediamento. E se le mie parole più che di programma hanno il sapore di addio, è naturale che i! discorso sia breve, scarno, ma schietto. Giunto alla fine della carriera, dopo circa mezzo secolo di lavoro, ho dovere di dire quel che penso senza ritegni e senza circonlocuzioni. So che le mie opinioni non saranno da tutti condivise e manifesto il più profondo rispetto per le opinioni contrarie alle mie; ma ho il conforto di credere che i miei colleghi sono d'accordo (forse tutti, certo in grandissima maggioranza) con il loro Presidente. Sono note le funzioni del Consiglio di Stato: dare pareri all'amministrazione; giudicare nei confronti dell'amministrazione. Molti credono che l'attività .giurisdizionale abbia ormai soverchiato in importanza quella consultiva. Vero è che oggi il lavoro in sede giurisdizionale è gravosissimo, ed è sempre crescente: basterà dire che i ricorsi depositati nel 1967 sono stati in numero di 4.954, mentre quelli pervenuti al 30 novembre di quest'anno sono già 4.873. Di contro, le decisioni pubblicate nel 1967 sono 3.745 e quest'anno il numerò non sarà inferiore, essendone già state pubblicate, fino al 30 novembre, 3208. Ed è vero che, di .fronte a questa mole, noi siamo costretti a destinare, più uomini e più attività alle Sezioni giurisdizionali. Ma il pubblico non conosce la mole, e l'importanza del lavoro che il Consiglio svolge in sede consultiva, e pure qui il numero degli affari è sempre crescente. Per .fermarci anche in questo settore a periodi, recentissimi; ricorderemo che gli affari pervenuti alle Sezioni consultive nel 1967 sono in numero di 6.740, numero aumentato anche quest'anno; giacché al 30 novembre scorso i pareri richiesti ammontano a 7.388. Ma, a parte queste constatazioni di ordine quantitativo, la realtà vera è che l'attività consultiva resta la piattaforma sulla quale vive l'Istituto e non tanto perché tale attività precede storicamente l'altra, ma perché il consigliare con consapevolezza è la base del giudicare con giustizia nei confronti dell'Amministrazione. Non poca parte della nostra attività consultiva, che impegna, in adunanza generale, tutta la magistratura del Consiglio di Stato, è volta a-dar pareri su quei ricorsi straordinari al Capo dello Stato, che a torto sono da taluni considerati come sterpi secchi da eliminare dall'ordinamento: a torto, perché non si considera che la vita di alcuni istituti è come quella di certe piante secolari, i cui ceppi, sempre sani cacciano nuovi polloni quando le vicissitudini dell'ambiente esterno abbiano fatto cadere la chioma ed anche il tronco. Il ricorso straordinario, quale che sia il suo antico - e superato fondamento storico, resta sempre vivo ed attuale, destinato com'è a venire incontro, nella maniera più semplice ed economica, a larghe esigenze di giustizia, che potranno essere anche più compiutamente soddisfatte se potremo ottenere qualche ritocco nella disciplina normativa dell'istituto. Nel dar pareri, il Consiglio non si ferma alla parte legale. Come è bene scolpito nell'art. 100 della Costituzione, si tratta di consulenza giuridico-amministrativa. I nostri pareri non possono essere avvicinati a quelli del legale che consiglia o sconsiglia un determinato atteggiamento ai fini di garantire diritti e interessi specialmente in vista di un futuro giudizio: Anche quando rispondiamo a quesiti relativi all'interpretazione di norme giuridiche (e di quesiti ne riceviamo un numero ragguardevole: 267 nel 1967; 263 al 30 novembre scorso), noi ci ispiriamo sempre ad una visione superiore dei fini della pubblica, Amministrazione: fini che, secondo la Costituzione {art. 97), devono tendere al buon andamento ed alla imparzialità. Il che val quanto dire che devono tendere a quella giustizia nell'amministrazione la cui tutela è affidata dallo stesso art. 100 al Consiglio di Stato. Anche in sede giurisdizionale il Consiglio è organo specialissimo di giustizia. Esso, nel corso di circa 80 anni, si è costruito strumenti particolari, delicatissimi a maneggiare, i quali gli danno la possibilità di entrare nel vivo dell'attività amministrativa per attuare una giustizia tendente, nella sua sostanza, a trovare la linea di mediazione tra gli interessi pubblici e quelli privati. Tra questi strumenti il principale, elaborato dai nostri predecessori e da noi costantemente affinato, è l'eccesso di potere. L'uso di questi strumenti richiede mani particolarmente esperte, guidate da cervelli bene attrezzati e protette da coscienze salde. La Carta del 1948, mentre colloca il nostro Istituto tra gli «organi ausiliari» nel titolo terzo intitolato al Governo, lo definisce «organo di consulenza giuridico-amministrativa e di tutela della giustizia nell'amministrazione». Nel titolo quarto, dedicato alla Magistratura, alcune disposizioni precisano la posizione del Consiglio come organo giurisdizionale e ne delineano le attribuzioni. La Costituzione ha trovato che queste erano le caratteristiche che l'Istituto aveva assunto nel corso del suo sviluppo secolare iniziatosi nel 1831 e le ha fissate, ponendole sul piano delle norme supreme. Si può affermare, senza volere dettare definizioni, che, come la Costituzione lo ha voluto mantenere, il Consiglio di Stato è un organo consultivo investito anche di funzioni giurisdizionali ed è un organo collegiale,

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complesso nelle sue attribuzioni, composito nella sua formazione, unitario nelle sue funzioni al centro dello Stato ed accanto al Governo. Tale il Consiglio deve restare salvo che una legge costituzionale non ne modifichi la struttura. Non diciamo che il legislatore ordinario non possa apportare riforme; diciamo che la legge ordinaria non può alterare i tratti essenziali dell'Istituto quali sono stati delineati dalla Costituzione. Il Consiglio è organo collegiale: prima caratteristica fondamentale. Nessuno creda che la partecipazione a questo o a quel Consiglio di amministrazione o Consiglio Superiore di uno o più magistrati del nostro Consiglio basti per eliminare la consultazione dell'Istituto. Il nostro lavoro deve essere collegiale, perché nel collegio si trovano esperienze varie e si ha possibilità di indipendente, sereno, approfondito esame degli affari. So bene che, a seguito del fatto che in certi collegi è stato Concentrato ogni potere deliberativo e consultivo, esistono casi in cui di questi collegi fanno parte magistrati del Consiglio di Stato. Auspico che questi casi, in cui la partecipazione di singoli consiglieri di Stato a certi collegi vale a sostituire il parere del Consiglio, restino isolati. Bisogna aggiornare la legislazione, come il Consiglio ha più .volte invocato, per portare qui, per la consultazione obbligatoria, gli affari più rilevanti, mentre oggi i livelli monetari che contrassegnano gli affari da sottoporsi al Consiglio sono troppo bassi in rapporto ai valori correnti. Ma non bisogna illudersi che esista consiglio superiore od organo consultivo di alcun altro genere che possa sostituire la sua visione tecnica di settore, pur essa preziosa e necessaria, alla visione generale degli interessi dello Stato, che è propria del nostro Istituto. Il Consiglio è organo complesso nelle sue attribuzioni: la coesistenza delle funzioni consultive e di quelle giurisdizionali è il tratto più caratteristico dell'Istituto, ed è il più essenziale. Scindere l'Istituto in due tronconi, uno consultivo ed uno giurisdizionale, sarebbe uno dei casi di alterazione della struttura del Consiglio, che può essere attuato solamente con legge costituzionale. Ma permettetemi di dirvi che una legge siffatta non scinderebbe ma sopprimerebbe il Consiglio di Stato, giacché il Consiglio perderebbe non soltanto la sua unità, ma con l'unità perderebbe anche quell'habitus che lo caratterizza e ne rende così preziosi i servizi allo Stato. Consigliare e giudicare sono due attività che si integrano e si illuminano reciprocamente. Gli stessi uomini, che lungo gli anni si avvicendano nelle Sezioni consultive ed in quelle giurisdizionali e si uniscono nell'adunanza generale, acquistano quella mentalità caratteristica, insostituibile, che li rende padroni della materia, che è materia comune ed inseparabile, e li mantiene vigili nell'esercizio della funzione di giustizia, che costituisce la missione unitaria del Consiglio di Stato. La formazione tradizionale del Consiglio è composita: metà di provenienza dall'esterno e segnatamente dai ranghi dell'Amministrazione, metà di provenienza dai referendari, assunti attraverso una prova, che ancora oggi -abbiamo l'orgoglio di dirlo - è la più severa fra quante gli ordinamenti statali e non statali ne conoscano. Questa formazione mista porta nel collegio mentalità, preparazione, attitudini, esperienze diverse, che dallo stesso collegio vengono composte d'unità. La realtà di molti decenni ci dice che questo amalgama si realizza presto. Ma resta sempre nel collegio l'apporto degli elementi che vi erano entrati con .la prevalente conoscenza del diritto e di quelli che erano venuti con la prevalente conoscenza dell'Amministrazione. I primi devono approfondire la conoscenza dell'Amministrazione, gli altri devono perfezionare la conoscenza del diritto. Tutti devono considerarsi spiritualmente vicini all'Amministrazione. Sarebbe esiziale per l'Istituto e sopratutto per la bontà delle sue prestazioni; se il reclutamento dei consiglieri avvenisse soltanto attraverso il concorso, imposto dalla Costituzione per i magistrati ordinari e non per. i magistrati amministrativi. Ma mantenere il sistema di destinare all'Istituto metà di persone provenienti dall'esterno non significa che il Governo debba restare, come oggi è, arbitro assoluto della scelta. L'art. 100 della Costituzione,che ho più volte richiamato, prescrive che la legge deve assicurare la indipendenza dell'Istituto e dei suoi componenti di fronte al Governo; mentre l'art. 108 sancisce che la legge deve assicurare l'indipendenza dei giudici delle giurisdizioni speciali. Occorre che questi precetti costituzionali vengano tenuti presenti dal legislatore per uniformarvisi, stabilendo serie garanzie di sostanza e di forma che assicurino una scelta oculata delle persone che devono entrare a far parte del Consiglio di Stato. Ma per il Governo i precetti costituzionali valgono anche prima che intervenga la legge. La scelta deve cadere sopra uomini per i quali la nomina non deve essere soltanto un premio per i servizi resi all'Amministrazione, ma deve essere innanzi tutto il risultato di una valutazione delle attitudini alla funzione, che richiede volontà e capacità di lavoro e di sacrificio, studio indefesso e soprattutto serenità e indipendenza .di giudizio.

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Noi auspichiamo che per fare una buona scelta oggi, in mancanza di una legge disciplinatrice, i Governi vogliano avvalersi, come quasi sempre - ma non sempre - hanno fatto, della collaborazione dell'Istituto attraverso la consultazione del suo Presidente: consultazione non formale, né affrettata, ma basata sopra una serena ed approfondita valutazione delle proposte. E veniamo all'ultimo tratto caratteristico dell'Istituto. Esso, per la Costituzione, è organo ausiliario del Governo. Come tale, è organo centrale, che vive accanto al Governo. Ma che significato ha allora l'indipendenza dal Governo di cui la stessa Costituzione fa parola? Non, c'è contraddizione. In quanto giudici, è ovvio che i magistrati del Consiglio di Stato debbano essere indipendenti dal Governo; e devono esserlo anche come consultori. Ma indipendenza non significa distacco dal Governo, come collaborazione col Governo non significa dipendenza. I Costituenti compresero e consacrarono questa situazione. Il Consiglio di Stato non è una branca della Magistratura, anche se i suoi componenti godono degli onori e del trattamento dei magistrati ed anche se, quando giudicano, indossano la toga: è un organo singolare, quale la storia lo ha foggiato. Così com'è, rappresenta il migliore baluardo per la giustizia nell'amministrazione. lo sono profondamente convinto che questo baluardo si reggerà bene finché il Consiglio si terrà e si sentirà. vicino all'Amministrazione, alla quale deve dare senza riserve tutto il contributo di competenza e di esperienza di cui l'Istituto è depositario: contributo ,che auspico sempre più intenso anche nella preparazione delle leggi e dei .regolamenti e nella formazione dei decreti aventi forza di legge in virtù di delegazione. A questo punto mi sia consentita una parentesi, che trae occasione dall'accenno che ho fatto alla collaborazione del Consiglio sul terreno della formazione delle norme. Vorrei dire che troppo scarsa è l'attività regolamentare del Governo in rapporto alla attività legislativa che spesso invade la sfera .che dovrebbe essere lasciata al regolamento ed è anche scarsa in rapporto ai poteri regolamentari che ancora più spesso sono attribuiti da varie leggi .ai Ministri. Ripeto che il Consiglio di Stato è pronto per una completa collaborazione anche in questo settore. Tornando. al nostro discorso, dirò che l'opinione - che riconosco molto diffusa - secondo la quale i contatti del Consiglio e dei Consiglieri con l'Amministrazione siano causa di turbamento è sbagliata. La giustizia amministrativa se vuole essere idonea deve respirare l'aria dell'Amministrazione. E questa è un'altra ragione che rende opportuno il sistema misto di reclutamento dei consiglieri. L'attività consultiva offre il terreno per contatti frequenti e sistematici con gli organi dell'Amministrazione. È continuo lo scambio di richieste, di chiarimenti, di risposte fra il Consiglio .e gli organi supremi dell'Amministrazione. È uno scambio in gran parte cartolare, ma i nostri ordinamenti hanno previsto, da sempre, anche incontri personali tra i nostri Collegi ed i Ministri ed i delegati dei Ministri; ed è. auspicabile che molto più spesso gli esponenti dell' Amministrazione varchino la soglia di questo Palazzo per partecipare ai dibattiti che vi si svolgono. Ma anche la nostra giurisdizione non può raggiungere il. proprio fine se non svolge la sua attività in un'atmosfera che sia dominata dalla conoscenza dell'Amministrazione. Ora, per conoscere l'Amministrazione non basta conoscere il diritto amministrativo, occorre conoscere la vita dell'Amministrazione: conoscerla a fondo; conoscerla nella sua attualità che, come in tutte le cose vive, si evolve di giorno in giorno, anche se, per la pesantezza del suo macchinismo, l'Amministrazione pubblica si evolve con lentezza. Senza questa conoscenza, le nostre consultazioni e le nostre decisioni perderebbero il loro carattere. Se nel dare pareri noi ci fermassimo a vedere solo l'aspetto giuridico delle cose, trascurando quello amministrativo, non. ci differenzieremmo dall'Avvocatura dello Stato; se in sede giurisdizionale guardassimo le questioni dal mero punto di vista legale, cesseremmo di essere i giudici che siamo sempre stati. Quel meraviglioso, essenziale strumento, che è l'eccesso di potere ci cadrebbe di mano, giacché non si può giudicare dell’eccesso di potere se, insieme con una conoscenza approfondita del diritto, non si ha una conoscenza piena, sicura, aggiornata dell' Amministrazione. Ed è per questo che io sono rimasto fermo nella opinione, avversata da molti, che non si debba inibire ai consiglieri di Stato il temporaneo esercizio di funzioni presso l'Amministrazione attiva. So bene che talvolta questi distacchi potrebbero generare inconvenienti, inevitabili perché gli uomini non sono perfetti. A parte che si tratta di ipotesi, l'interesse pubblico esige che gli uomini del Consiglio rechino il loro apporto di dottrina e di competenza in uffici di responsabilità dell'Amministrazione, oltre - che nei Consigli superiori, nelle varie commissioni di studio, negli uffici legislativi, nei concorsi. Giova all'Amministrazione l'ausilio di questi uomini; giova all'Istituto che di tanto in tanto i suoi componenti

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prendano contatti più immediati con gli organi amministrativi. Posso dirvi, che quando i:Consiglieri tornano qui sono più ricchi di esperienza, più vigili, più accorti nella valutazione degli atti della Amministrazione. Di solito è vero, il contrario di quello che altri affermano, che cioè la .missione esterna deformi l'abito del nostro magistrato. Naturalmente è necessario disciplinare con rigore queste forme esterne di collaborazione sia per non indebolire i servizi dell'Istituto sia per evitare interferenze sia per assicurare la temporaneità dei distacchi. Per questo in occasione della formazione del precedente Governo ed anche del Governo attuale ho dato precise istruzioni limitatrici ai miei colleghi. Il nostro lavoro è immane; non esagero. Se ne avessi avuto il tempo, vi avrei dato maggiori cifre oltre le pochissime, che vi ho fornito. L'anno venturo spero si potrà riprendere la lodevole iniziativa di dare solenne e pubblico resoconto dei lavori del Consiglio. Quest'anno non è stato possibile aggiungere a questa cerimonia un altro incontro ad altissimo livello, né io potrei allungare questo mio indirizzo, comprendendovi una relazione dei lavori del 1968. A mio parere, l'Istituto non ha bisogno di radicali riforme, né di aumenti di organico. Sono personalmente contrario a tali aumenti, perché portano svalutazione ed accrescono confusione. Recentissime esperienze credo che diano ragione a questa mia convinzione. Abbiamo bisogno, semmai, di rinnovare le nostre strutture tecniche oltremodo arretrate e scadenti. E soprattutto abbiamo bisogno di uomini di qualità. Un'altra riforma urgente è quella della procedura. Il lavoro giurisdizionale è lungo, estenuante, complicato perché la procedura è vecchia e piena, di formalismi, che spesso si traducono in trabocchetti. lo spero, prima di lasciare la presidenza dell'Istituto, di sottoporre al Governo alcune proposte di riforma degli ordinamenti del Consiglio di Stato e della procedura in sede giurisdizionale e amministrativa. Una spinta notevole alla semplificazione del lavoro potrà, intanto venire con l'approvazione del disegno di legge sui tribunali regionali amministrativi, presentato dal Governo Leone: e ringrazio l'on. Rumor dell'assicurazione che Egli oggi ci ha dato sull'intento del suo governo di sollecitare un'organica soluzione del problema della istituzione dei tribunali amministrativi regionali sulla base del disegno di legge presentato al Parlamento dal Governo Leone. La semplificazione deriverà dal fatto che gli atti degli uffici statali periferici, aventi carattere definitivo, saranno portati al nostro esame dopo il vaglio di quei tribunali. È urgente, con l'approvazione di questa legge da parte del Parlamento, porre rimedio ad una carenza, che si è aperta a seguito della dichiarazione di illegittimità delle norme relative alla giunta provinciale amministrativa in sede giurisdizionale; carenza. che perdura ormai da troppo tempo, determinando un intollerabile stato di fatto, che risolve in diniego di giustizia per tutti i cittadini nei rapporti con gli enti locali e in particolare per l'esercito dei dipendenti di tali enti. Con la legge sui tribunali regionali si completerà, in conformità alla Costituzione, il sistema della giustizia amministrativa al cui vertice sta il nostro Istituto. Il Consiglio di Stato sarà sempre, così come in passato, il custode e l'animatore di questa giustizia, linfa vitale per la collettività nazionale e per lo Stato che la racchiude e la rappresenta; la giustizia che rende viva, operante, benefica la presenza dello Stato, della quale il Paese sente estremo urgente bisogno.

Vincenzo Uccellatore 25 novembre 1976 Signori, nell'assumere la Presidenza del Consiglio di Stato voglio anzitutto confermare solennemente la mia devozione al popolo italiano, nel quale si personifica la nostra Repubblica, e la mia fedeltà alla Costituzione dallo stesso popolo democraticamente voluta nell'esercizio della sua sovranità. Desidero quindi rivolgere il mio deferente saluto e quello dell'Istituto, che ho l'onore di presiedere, al Signor Presidente della Repubblica che rappresenta tutta la Nazione, all'Eminente Cardinale Vicario, ai Presidenti del Senato della Repubblica e della Camera dei Deputati, al Signor Presidente del Consiglio dei Ministri con gli altri membri del Governo, al Presidente della Corte Costituzionale. Al saluto desidero unire il mio sentito ringraziamento per la solennità che si sono compiaciuti di dar con la loro presenza a questa cerimonia e che vuole essere ancora un volta manifestazione di stima verso il Consiglio di Stato, certamente non per i soli meriti del passato ma specialmente per le funzioni essenziali che esso quotidianamente va svolgendo, con serenità ed indipendenza nella posizione assegnatagli dalla Costituzione Repubblicana nella nuova forma data al nostro Stato.

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Saluto e ringrazio altresì il Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, il Presidente della Suprema Corte di Cassazione con gli altri magistrati ordinari dalla cui famiglia mi onoro di provenire, la presidenza del Consiglio Nazionale dell'Economia e del Lavoro, il Presidente e i magistrati della Corte dei conti, la nuova Magistratura dei Tribunali Amministrativi Regionali, l'Avvocatura Generale dello Stato, tutte le altre Autorità civili e militari, i colleghi tutti anche presso il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana con tutto il personale del Consiglio di Stato e con particolare affetto ai miei predecessori Gaetano Vetrano, Antonino Papaldo e Carlo Bozzi. Il mio deferente saluto va anche a tutti gli altri intervenuti che hanno voluto onorarmi della loro presenza. In occasioni come l'attuale si vogliono, sottoporre all'attenzione degli ascoltatori, anche per darne notizia al pubblico, i dati più salienti del lavoro svolto dal Consiglio di Stato negli ultimi anni ma io ritengo preferibile di risparmiarvi tutto ciò perché questi elementi sono già noti a molti dei presenti aventi, anche a titolo, diverso, rapporti con le funzioni del nostro Istituto, e quindi mi limiterò ad alcune considerazioni sulla posizione del Consiglio di Stato e sulle sue funzioni nei tempi presenti alla luce della rilevanza datagli dalla Costituzione Repubblicana. Questo tema non è certamente nuovo, se ne parla da quasi trent'anni, ma la sua problematica non è certo esaurita nel continuo rinnovarsi del nostro ordinamento per il sopravvenire di leggi nuove, per l'evolversi della coscienza e della realtà sociale e per la costante forte spinta che proviene dai principi, fondamentali e dalle cosiddette norme programmatiche accolti dalla Costituzione. È noto che questo nostro istituto non è, stato creato dalla Costituzione né è stato da questa trasformato nelle sue strutture di base, ma è stato invece recepito nelle stesse strutture ed attribuzioni che esso aveva assunte ed esercitate durante la sua storia ultrasecolare. Questa accettazione dell'Istituto nel nuovo tipo di Stato che si veniva, creando non costituì affatto una prova di pigro conservatorismo o di mancanza di fantasia del Costituente espresso dal popolo che, anzi, ne fece oggetto di appassionato dibattito ma certamente la ponderata convinzione che il Consiglio di Stato rispondesse ad un'esigenza istituzionale nella organizzazione di uno Stato ad alto sviluppo e precisamente alla, stessa esigenza sentita in quasi tutti gli Stati moderni che hanno accolto nei loro ordinamenti lo stesso tipo di istituto o tipi similari, da non confondere con quelli adottati in alcuni paesi come veri e propri organi politici di governo. Con gli istituti similari degli altri paesi della C.E.E. ha già costituto dei veri rapporti permanenti. Tale esigenza istituzionale trova la sua manifestazione più evidente proprio in Italia dove il Consiglio di Stato, sorto con un regime assoluto, è stato conservato in tutte le successive trasformazioni dello Stato fino ai nostri giorni, in principio quale organo di temperamento del potere assoluto del Capo dello Stato e successivamente quale organo indispensabile nelle varie forme dello Stato di diritto per la tutela e garanzia dei cittadini verso il potere pubblico dei governanti specie in quei campi in cui il potere pubblico, nella sua forma di potere amministrativo, può venire in conflitto con la sfera giuridica dei governati. È interessante a questo punto ricordare che la conservazione di tutte le precedenti attribuzioni del Consiglio di Stato nell'ordinamento dello Stato repubblicano fu anche discussa durante i lavori della Costituente perché un insigne giurista, il compianto Calamandrei, si batteva con la sua indimenticabile forza polemica per sottrarre la funzione giurisdizionale al Consiglio attribuendola al giudice ordinario così da creare un sistema monistico di giurisdizione. Prevalse, però, dopo ampia discussione, la tesi contraria sostenuta proprio dall'attuale Presidente della Repubblica che oggi ci onora della Sua presenza ed allora membro della Costituente, con un decisivo intervento del 21 novembre 1947, col quale propose con successo che le attribuzioni giurisdizionali del Consiglio di Stato, come quelle della Corte dei conti, dovessero rimanere ai rispettivi organi tradizionali perché erano sorte non come usurpazione al giudice ordinario di particolari attribuzioni ma come conquista di una tutela giurisdizionale da parte dei cittadini nei confronti della pubblica Amministrazione. Ma con la Costituzione della Repubblica e le successive leggi di attuazione il Consiglio è stato inserito in una realtà nuova quale quella dello Stato regionale per cui la sua posizione tradizionale di organo unico centrale di giustizia nell'Amministrazione nel senso più lato dovette subire due modifiche imposte da altre norme costituzionali e precisamente: 1) l'istituzione del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana con funzioni consultive e giurisdizionali; 2) l'istituzione recente dei Tribunali Amministrativi Regionali quali organi di giustizia amministrativa di primo grado, e quindi con sola funzione giurisdizionale per tutte le altre Regioni della Repubblica in attuazione dell'art. 125 della Costituzione. Questa seconda modifica, estesa anche alla Regione Siciliana in virtù di una recente decisione della Corte Costituzionale, è certamente la più importante avendo comportato la soppressione delle vecchie giurisdizioni amministrative locali e la trasformazione in organo di appello del Consiglio di Stato che sin dal 1889, con l'istituzione della IV Sezione, era stato l'unico organo di giurisdizione generale della legittimità degli atti amministrativi.

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Oltre queste due modifiche di formale adeguamento della posizione del Consiglio di Stato al nuovo tipo di Stato in attuazione di espresse disposizioni costituzionali, in realtà nessun'altra innovazione di sostanza è stata ancora apportata nel sistema che regola le funzioni ed il funzionamento di questo Istituto, i cui caratteri essenziali sono quindi rimasti quelli dati nella seconda metà del secolo scorso con la nota legge sul Contenzioso amministrativo del 20 marzo 1865 con i relativi allegati, di cui uno, l'allegato D, riguardava proprio il Consiglio di Stato, alla quale seguì l'altrettanto nota legge del 31 marzo 1889 istitutiva della IV Sezione del Consiglio di Stato che segna la vera nascita in Italia della giustizia amministrativa giurisdizionale. Sono queste le norme che, assieme al Regolamento di procedura del 1907, in prevalenza hanno regolato le funzioni del nostro Istituto, che per la maggior parte sono ancora in vigore e che giornalmente noi ancora applichiamo nell'assolvimento dei nostri compiti tanto nella decisione delle controversie fra cittadini. ed Amministrazione quanto nella consultazione giuridico-amministrativa. Sono ancora in parecchi, autorevoli magistrati e giuristi a ritenere che il sistema nel suo complesso sostanziale regga tuttora, salva la necessità di opportuni coordinamenti fra le varie norme, non essendo ancora matura la delineazione di altri sistemi che possano sostituire radicalmente il primo, costruito dallo Stato liberale dell'800 sulla base dei principi che gli erano propri specie nel campo della Giustizia Amministrativa. D'altro canto voci non meno autorevoli si levano dal lato opposto, specie fra i giuristi più sensibili ai problemi sociali, sostenendo che, malgrado le modifiche apportate in attuazione della Costituzione e sopra accennate, il complesso delle norme che regolano questo Istituto vada modificato nell'essenza così da ispirarlo agli stessi principi ed alle stesse esigenze che ispirano la Costituzione ed il nuovo tipo di Stato da questa stabilito. Tra questi principi particolare rilevanza assumono, nel campo in cui il Consiglio di Stato esercita le sue funzioni, oltre quello relativo alla forma regionale assunta dallo Stato ed alla quale ho già accennato, il principio della partecipazione diffusa alla titolarità e all'esercizio del potere attraverso la titolarità della sovranità attribuita direttamente al popolo, la rilevanza dei gruppi intermedi in un pluralismo sociale e giuridico, il principio di uguaglianza sostanziale dei cittadini come graduale operante sviluppo di quella giuridica e il riconoscimento generale del potere di azione per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi contro tutti gli atti della pubblica Amministrazione. È certo che la maggior parte delle norme che regolano il Consiglio di Stato, pur non ponendosi in contrasto con questi principi, non possono ritenersi ispirate dagli stessi, perché ben diversi erano i principi ispiratori dell'ordinamento dello Stato nell'Ottocento e della legislazione da questo espressa, che sotto l’assillo della preminente esigenza dell’unità politica si ispiravano specialmente ai principi del centralismo e dell'autoritarismo nelle cui varie forme lo Stato regolava prevalentemente i suoi rapporti con i cittadini. È evidente che un tipo di Stato il quale sconosceva ancora il suffragio universale non poteva essere che espressione di una classe politica ristretta e rimaneva lontano dalle esigenze di partecipazione diffusa del popolo al potere quale espressione della vera sovranità di esso. Queste considerazioni mi inducono ad unirmi alle istanze di coloro i quali ritengono che, oltre le modifiche finora apportate, sia necessario procedere ad un più incisivo adeguamento delle norme sul Consiglio di Stato ai nuovi rapporti tra Società e Stato posti dalla Costituzione e che da questa con un processo non sempre rapido, ma costante, vanno penetrando nel nuovo ordinamento dello Stato. Va, però, precisato che adeguare le norme del passato al nuovo tipo di ordinamento in corso di formazione, non significa respingerle tutte e capovolgere il sistema poiché è innegabile, come si è già detto e si ripete, che nessun vero sistema nuovo è stato finora ponderatamente studiato e predisposto specie nel campo della giustizia amministrativa che è certamente il più delicato. In tale situazione un rigetto completo o quasi delle norme tramandateci dall'ordinamento precedente la Costituzione repubblicana potrebbe costituire un salto nel buio che finirebbe col pregiudicare le finalità di ammodernamento di cui si avverte il bisogno, col risultato di danneggiare gli interessi pubblici e quelli dei cittadini più che tutelarli. Sembra quindi preferibile procedere per gradi in ordine di urgenza delle varie esigenze da soddisfare, tenendo come punto fermo la posizione del Consiglio di Stato garantita dalla Costituzione nella sua duplice funzione tradizionale. Questo processo di graduale adeguamento che noi auspichiamo deve, quindi, tendere a garantire che le essenziali funzioni del Consiglio di Stato accolte dalla Costituzione come necessarie al buon funzionamento dello Stato Repubblicano, quale Stato di diritto, vengano ancora svolte in condizioni che la nostra società consideri come rispondenti alle esigenze e allo spirito dei nuovi tempi. Limitandomi solo a dei brevi accenni sui punti più rilevanti per non abusare del vostro tempo, e cominciando dalla funzione consultiva che è la più antica, con la quale il Consiglio di Stato venne istituito e che è certamente non meno importante dell'altra, la prima esigenza da segnalare per un necessario adeguamento normativo è quella dei rapporti tra Consiglio di Stato e Regioni. Le norme vigenti sulle funzioni

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consultive del Consiglio, ignorano, e non poteva essere diversamente, le Regioni quali parti essenziali dello Stato munite di potere legislativo e di funzioni amministrative nelle materie oggetto del primo. Ciò ha determinato un'evidente lacuna nell'ordinamento generale per quanto riguarda l'esercizio delle funzioni amministrative delle Regioni. Avviene, infatti, che molti provvedimenti amministrativi per i quali le leggi in vigore prevedono formalmente il preventivo parere obbligatorio, ma non vincolante, del Consiglio di Stato, essendo passati nella sfera del potere amministrativo delle Regioni, vengono da queste emanati senza alcun parere, malgrado il Parlamento nelle leggi precedenti e nei riguardi delle Amministrazioni dello Stato, aventi struttura e funzioni ben collaudate, ne avesse imposto la necessità. La deficienza investe però in modo diverso anche il campo della giustizia amministrativa per quanto riguarda i ricorsi straordinari al Capo dello Stato contro gli atti definitivi delle Regioni e degli altri enti locali ora passati sotto il controllo di esse; anche per questi la relativa istruttoria e da necessaria richiesta di parere al Consiglio di Stato non possono annualmente essere svolte dalle Regioni interessate, bensì dai Ministeri perché così prescrivono le leggi in vigore, e tutto ciò con evidente ritardo e danno dei cittadini e della stessa Amministrazione pubblica. A questi inconvenienti non ha mancato di rivolgere la sua attenzione anche recentemente il Capo dello Stato sempre tanto sensibile alle esigenze di giustizia anche in questo settore nel quale si è dovuto registrare un sensibile quanto imprevisto aumento di ricorsi straordinari che hanno raggiunto il numero di circa duemila all'anno. La situazione è uguale anche per la consultazione facoltativa; d'altro canto non va sotto valutato che un adeguamento anche parziale della funzione di consulenza diretta del Consiglio di Stato in favore delle Regioni riuscirebbe certamente assai utile per prevenire parecchi conflitti di giurisdizione fra Stato e Regioni e fra le Regioni stesse. Tale lacuna, inoltre, appare ancora più evidente e rilevante quando si tiene presente che non è stata neppure estesa alle Regioni la facoltà di avvalersi della consulenza legale dell'Avvocatura dello Stato così come è stato fatto per vari Enti pubblici. Alla deficienza le varie Regioni hanno finora provveduto nell'esercizio della loro autonomia con propri organi interni di consultazione o avvalendosi di professionisti con evidenti notevoli difformità nella composizione e nella qualificazione degli organi. È quindi, evidente la necessità di un opportuno adeguamento legislativo che consenta di colmare queste gravi deficienze almeno negli aspetti più rilevanti, attuando anche per questa via un ulteriore sviluppo logico del decentramento alle. Regioni delle altre funzioni amministrative voluto dalla Costituzione. Se questa prima esigenza di adeguamento normativo riguarda i soggetti, da seconda riguarda l'oggetto della stessa funzione di consulenza del Consiglio di Stato. È noto che secondo de norme in vigore, esulano dalla sfera di applicazione di questa importante funzione del Consiglio di Stato le concessioni di beni e servizi pubblici fatte dalle Amministrazioni autonome dello Stato, e sono le più importanti, le quali sono, invece, sottoposte al parere dei rispettivi Consigli di Amministrazione fra i cui numerosi membri rientrano anche dei rappresentanti del Consiglio di Stato. D'altro canto, la recente legge sui Tribunali Amministrativi Regionali ha attribuito agli organi di giustizia amministrativa la giurisdizione esclusiva sui predetti rapporti non solo per le controversie tradizionali sugli interessi legittimi, ma anche sui diritti soggettivi e quindi sui rapporti che sono stati, così, sottratti alla giurisdizione ordinaria. Tale importante innovazione implica, evidentemente, il riconoscimento da parte del legislatore della particolare idoneità degli organi i giustizia amministrativa a conoscere dei problemi connessi a questa delicata materia nella quale la discrezionalità amministrativa è sempre collegata a quella tecnica. Ma il riconoscimento di questa maggiore idoneità in sede di decisione giurisdizionale non può non fare apparire particolarmente ragionevole, ai fini di un logico coordinamento e nel pubblico interesse, l'esigenza di fare intervenire il supremo Consesso amministrativo col suo preventivo parere sulla legittimità ed opportunità dell'atto in sede di formazione delle concessioni di maggiore rilievo, così da prevenire, per quanto possibile, le cause di future controversie rilevabili in quella fase o la tardiva percezione di pregiudizi al pubblico interesse che potrebbero ben rilevarsi prima. L'altro oggetto in ordine al quale si rende sempre più viva la necessità o per lo meno l'opportunità della consulenza del Consiglio di Stato è fornito dall'attività normativa del Governo. È noto che in base alle norme in vigore, il Consiglio di Stato può intervenire nell'attività normativa del Governo, in via facoltativa, solo col dar parere sulle proposte di legge e sugli affari di ogni natura per quali sia interessato dai Ministri e col formulare quei progetti di legge, e di regolamenti che gli vengono commessi dal Governo; in via obbligatoria col dar parere su tutti i provvedimenti legislativi che comunque riguardino l'ordinamento o le funzioni del Consiglio stesso, nonché sulle proposte di regolamenti soggetti all'approvazione del Consiglio dei Ministri e sui Testi Unici di leggi e di regolamenti. Al di fuori di questi casi, nessun'altra possibilità di intervento ha il Consiglio di Stato in questo campo.

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Eppure con l'emanazione della Costituzione Repubblicana l'estendere di questi casi si appalesa sempre più necessaria o almeno opportuna. Invero il carattere rigido della Costituzione esige che almeno i disegni di legge predisposti dal Governo siano rigorosamente curati nella tecnica legislativa, più di quanto attualmente non lo siano per comune opinione, così da prevenire, entro certi limiti, eventuali vizi di incostituzionalità che sono tanto più frequenti nei decreti legislativi, vincolati come sono ai limiti posti con le leggi di delega; il problema appare in tutta la sua gravità quando si tiene presente che davanti la Corte Costituzionale sono pendenti circa 1200 giudizi di incostituzionalità. Il parere del Consiglio di Stato anche in questa materia riuscirebbe certo assai utile allo scopo di prevenzione sopra indicato per la particolare idoneità dell'organo la cui funzione consultiva si svolge in particolare aderenza all'ordinamento da un lato ed alla realtà sociale dall'altro. La richiesta del parere obbligatorio del Consiglio di Stato almeno sugli schemi di decreti legislativi è da tempo prevista dall'ordinamento francese ed ha avuto effetti del tutto favorevoli. Tale esigenza appare ancora più opportuna dopo la recentissima sentenza n. 226 della Corte Costituzionale che ha riconosciuto alla Corte dei conti la facoltà di sollevare questioni di incostituzionalità di leggi di delega e di decreti legislativi emanati in base alle prime, naturalmente con l'immediato effetto sospensivo del visto che, come noto, costituisce condizione estrinseca di efficacia di questi ultimi e quindi con immediate conseguenze di portata generale, senza immediata rilevanza su singole controversie. Una vera lacuna si è poi manifestata nelle vecchie disposizioni già menzionate che limitano il parere obbligatorio del Consiglio di Stato ai soli regolamenti approvati dal Consiglio dei Ministri, poiché la realtà dimostra che la maggior parte dei regolamenti governativi è oggi emanata con decreti ministeriali previsti dalle varie leggi e che vengono come tali sottratti al preventivo esame del Consiglio di Stato che assai spesso deve rilevarne la illegittimità in sede giurisdizionale con effetto retroattivo e quindi con conseguente grave pregiudizio per la pubblica Amministrazione e per i cittadini. L'adeguamento normativo in questo campo è, oltreché necessario, anche urgente. Passando ora all'altra funzione essenziale del Consiglio di Stato, e cioè alla funzione giurisdizionale per la tutela della giustizia nell'Amministrazione, posso affermare che l'istituzione dei Tribunali Amministrativi Regionali, quali giurisdizioni amministrative generali di legittimità di primo grado, che ha costituito, come già detto, la prima sostanziale innovazione attuativa della Costituzione in questo settore, ha incontrato il favore e la fiducia del pubblico. Tale convincimento è tratto non solo dalla esperienza diretta, ma anche da dati obiettivi molto indicativi, quali il numero dei ricorsi giurisdizionali che annualmente vengono presentati ai vari Tribunali e che ha raggiunto il cospicuo numero di 21.920 nel 1975, quadruplicando così il numero dei ricorsi che in media venivano annualmente presentati al Consiglio di Stato prima dell'entrata in funzione di essi. Il mio convincimento trova conferma anche nel fatto che solo poco più del 10 % delle decisioni dei Tribunali Amministrativi viene impugnato davanti al Consiglio di Stato, mentre la maggior parte delle decisioni trova acquiescenza nelle parti. Non va, peraltro, trascurato l'effetto certamente favorevole prodotto dalla impugnabilità immediata degli atti non definitivi immediatamente lesivi di interessi, introdotta dalla stessa legge secondo l’interpretazione ormai prevalsa nella dottrina e nella giurisprudenza. È pertanto augurabile che il nuovo ordinamento venga al più presto completato con la costituzione del Tribunale regionale anche presso la Regione Trentino Alto Adige nella quale le parti sono ancora prive del doppio grado di giurisdizione con trattamento non uguale rispetto alle altre Regioni della Repubblica. Il merito del successo delle nuove giurisdizioni di primo grado va riconosciuto a tutta la magistratura di quei Tribunali e ai magistrati del Consiglio di Stato che finora li hanno presieduti, avendo tutti dato ammirevole prova della preparazione e della laboriosità necessarie per conseguire dei successi così notevoli, talvolta anche in difficili condizioni di funzionamento. È opportuno, però, assicurare che questo istituto ormai collaudato dal successo venga difeso dal pericolo di un prossimo decadimento, di cui si avvertono già i sintomi, per l'inadeguatezza della carriera dei giudici. Invero una carriera di magistratura che, unica nell'ordinamento italiano, non consente ai magistrati che ne fanno parte di conseguire il grado di presidente di Sezione, come possono conseguirlo tutti i magistrati delle altre carriere, corre il grave pericolo, già in atto, di non interessare più i concorrenti all'atto del bando di concorso e di essere abbandonata al più presto da quelli che vi sono entrati. Tratttasi di un adeguamento di carriera assai modesto ma urgente che ho il dovere di segnalare. L'avvenuta istituzione delle giurisdizioni amministrative di primo grado, mentre ha dato attuazione all'art. 125 della Costituzione, non ha introdotto nel sistema di giurisdizione amministrativa alcuno dei nuovi principi ispiratori della Costituzione Repubblicana che potevano in esso, riflettersi. I1 sistema, come ho accennato, è rimasto ancorato ai principi posti dallo Stato liberale dell'Ottocento a base delle due note leggi fondamentali già menzionate, del 25 marzo 1865 sul contenzioso amministrativo e del 31 marzo 1889 per l'istituzione della IV Sezione del Consiglio di Stato, della quale il suo primo Presidente Silvio Spaventa, al di sopra del silenzio della legge e di ogni dubbio interpretativo, ebbe il coraggio di affermare immediatamente il

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carattere giurisdizionale per fare giustizia nell'Amministrazione. Fu indubbiamente un fatto storico di grande portata non solo sul piano giuridico, ma anche su quello politico perché venne a garantire una ulteriore sfera di espansione della libertà del cittadino, quella degli interessi legittimi che, sempre sottratta al giudice ordinario, veniva ora affidata per la prima volta alla tutela di un giudice amministrativo particolarmente idoneo alla cognizione della materia. Il tentativo, piuttosto recente, di sminuire la portata di quel sistema, considerandolo addirittura come una semplice elusione del liberalismo dello Stato borghese rispetto alle altre correnti politiche e classi sociali, mi sembra storicamente infondato ed è stato respinto anche dalla maggior parte degli studiosi che non ha potuto negare a detto sistema, specie se riferito al tempo in cui fu introdotto, un valore determinante di grande rilievo per la tutela del cittadino verso la pubblica Amministrazione. E la sostanziale conservazione di esso per tanti anni ne costituisce certamente conferma. Ma dopo tanti anni di vigenza, quelle norme tradizionali che ancora regolano l’esercizio della giurisdizione amministrativa ordinaria incontrano ogni giorno di più difficoltà di interpretazione e di applicazione nel doveroso coordinamento con i nuovi principi della Costituzione Repubblicana ormai costituenti la base di tutto l'ordinamento statale. Queste difficoltà di interpretazione e di applicazione hanno fatto sorgere dei gravi problemi tanto per il legislatore che per i giudici, problemi che vanno dalla determinazione dell'oggetto del processo am-ministrativo ai presupposti e condizioni di esso, alla efficacia e ai limiti del giudicato amministrativo e, in sintesi, alla funzione stessa del processo amministrativo che, operando sull'esercizio del potere pubblico, investe non solo il campo del diritto, ma anche quelli sociale e politico. Non è certo questa la sede per un esame di tutti questi problemi, che pure sono assai interessanti; mi limiterò quindi anche in questo campo, come nell'altro, ad accennarne solo alcuni dei più rilevanti. Un primo problema di fondo riguarda il rapporto fra il principio fondamentale della partecipazione diffusa del popolo all'esercizio del potere accolto dalla Costituzione, sia pure in via tendenziale attraverso il principio essenziale di democrazia e sovranità popolare, e la determinazione dei soggetti che sono legittimati a ricorrere davanti agli organi di giustizia amministrativa e degli interessi legittimi dei quali si può, chiedere la tutela. È opinione ormai diffusa che il ricorso alle giurisdizioni amministrative può anche costituire un mezzo indiretto per la partecipazione del cittadino all'esercizio del potere pubblico in quanto attraverso l'annullamento degli atti illegittimi tende alla correzione dell'esercizio del potere illegalmente svolto dall'Amministrazione pubblica costringendola a rettificarlo per conseguire nella legalità quelle finalità di pubblico interesse che il legislatore le ha attribuite. Il principio sarebbe ancora potenziato estendendo la partecipazione dei cittadini alla formazione dei procedimenti con i quali si attua l'esercizio del potere. In questo senso un apporto di grande rilevanza verrà dalla graduale costituzione dei consigli circoscrizionali o di quartiere previsti da una recente legge dell'aprile scorso per una partecipazione di base alla funzione amministrativa locale. È chiaro che, questo principio dovrebbe portare ad estendere la cerchia dei soggetti legittimati a ricorrere e, quindi, degli interessi da tutelare. Ed allo stesso risultato dovrebbe portare l'altro principio della tutela dei gruppi intermedi accolto dall'art. 2 della Costituzione non solo in favore dei gruppi sociali previsti dalla legge, ma anche in favore di quelli di formazione volontaria tendenti allo sviluppo della personalità umana. La garanzia di questi gruppi, costituzionalmente riconosciuta in modo espresso, dovrebbe pure portare ad estendere la sfera di applicazione della tutela giurisdizionale amministrativa tanto nei riguardi dei soggetti che dell'oggetto. Ma ambedue questi principi nuovi non sempre riescono a conciliarsi con le norme fondamentali che ancora regolano l'esercizio della giurisdizione amministrativa e che, secondo gli insegnamenti tradizionali della dottrina e della giurisprudenza, pongono a base del processo amministrativo da un lato un interesse diretto ed attuale quale presupposto per ricorrere e dall'altro l'interesse legittimo individualizzato in soggetti determinati o determinabili quale oggetto della tutela giurisdizionale. È evidente che questi due elementi tendono a restringere quella sfera dei soggetti legittimati a ricorrere alla giurisdizione amministrativa e degli interessi che questa ha il potere di tutelare e che i nuovi principi costituzionali richiamati tendono invece ad estendere. Il divario può essere anche rafforzato quando si attribuisce all'interesse legittimo la natura: di posizione giuridica sostanziale ormai accolta in prevalenza dalla dottrina moderna e che, come è noto, dovrebbe presupporre una subiettivizzazione dell'interesse stesso. Nello stesso senso gravemente restrittivo finirebbe con l'agire anche un recente indirizzo delineatosi in una parte della dottrina moderna tendente ad espungere dalla tradizionale categoria degli atti amministrativi impugnabili, anche gli atti negativi provenienti da organi locali indubbiamente amministrativi preposti al controllo di atti di enti territoriali e perciò esercenti attività tipicamente amministrativa. Su questa via, negando anche a questi atti la natura di provvedimenti amministrativi impugnabili, si finirebbe con l'infliggere

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un grave colpo all'altro principio fondamentale posto dall'art. 113 della Costituzione che ha ammesso la tutela dei diritti e degli interessi contro tutti gli atti della pubblica Amministrazione. Su questi punti basilari che proiettano i loro effetti su tutto il sistema emerge evidente la necessità di un adeguamento delle attuali norme di questo ai nuovi principi costituzionali, tenendo anche conto dei gravi problemi sollevati nel campo degli interessi tutelabili dalla recente legge sopra richiamata sulla partecipazione popolare con potere deliberativo alla funzione amministrativa locale. Tale adeguamento costituisce un problema assai grave di politica legislativa, poiché involge immediatamente il rapporto fra Stato e società nel quale in fondo si concreta la stessa sovranità del popolo nello Stato; rapporto che è certamente più vasto di quello comunemente menzionato, fra autorità e libertà, che in fondo non è che un profilo del rapporto fra i due aspetti tradizionali del diritto e cioè fra il diritto oggettivo e la sfera giuridica soggettiva. La soluzione di questo problema non è quindi semplice opera dell'interprete, ma il supremo organo di giustizia amministrativa nella sua costante aderenza alla realtà sociale non potrà non tenere presenti, con doverosa prudenza, lo spirito che emerge da quei principi costituzionali ed ispira tutto il sistema. Un altro grave problema, certamente collegato all'oggetto e alla funzione del processo amministrativo ed al quale sono particolarmente sensibili i cittadini che vi ricorrono, è costituito dalla cosiddetta esecuzione del giudicato da parte dell'Amministrazione pubblica tenuta a conformarsi ad esso come letteralmente prescrive la legge. È questo, indubbiamente, il punto culminante della tutela della giustizia nell'Amministrazione attraverso la giurisdizione amministrativa, tanto verso il cittadino che la stessa Amministrazione. Nei particolari riguardi delle sentenze delle giurisdizioni amministrative del Consiglio di Stato in particolare che, com'è noto sono efficaci ed eseguibili anche prima del passato in giudicato la sostanza del problema consiste nello stabilire se l'esecuzione o l'ottemperanza dell'Amministrazione alle decisioni deve portare alla concreta ed effettiva realizzazione dell'interesse legittimo leso e di cui la parte ha invocato la difesa servendosi di tutti i mezzi necessari all'effettiva tutela voluta dalla Costituzione anche per l’interesse legittimo, o se, invece, tale tutela deve limitarsi alla correzione del potere illegittimamente esercitato dall'Amministrazione con l'eliminazione degli atti invalidi con tutte le conseguenze ripristinatorie che ne derivano perla rinnovazione dell'atto caducato. È certo che questo grave problema diventerebbe assai meno acuto e farebbe cadere molte ragioni di attrito e di sfiducia fra cittadini e pubblica Amministrazione se questa provvedesse tempestivamente a tutti gli atti dovuti per i fondamentali doveri di legalità, imparzialità ed efficienza imposti dall'art. 97 della Costituzione e se, di conseguenza, desse esecuzione alle decisioni dei giudici con pari tempestività e comprensione della sfera giuridica del cittadino tanto nel campo dei diritti soggettivi che in quello degli interessi legittimi, gli uni e gli altri garantiti dalla Costituzione. Ciò, del resto, è assolutamente doveroso in uno Stato di diritto a carattere democratico in cui la legge democraticamente formata costituisce il fondamento e il limite di ogni potere e la decisione di un giudice indipendente è, nel sistema, proprio il diritto del caso concreto, avente quindi sul potere gli stessi effetti limitativi della legge. Non può, però, sottacersi che non sempre le pubbliche Amministrazioni svolgono la loro doverosa attività in questo campo, come in quello dell'esecuzione degli ordini di sospensione per gravi ed accertate ragioni, con quella tempestività e comprensione che sarebbero necessarie costringendo così i cittadini alle fatiche ed al dispendio di nuovi giudizi per costringere le Amministrazioni a fare coattivamente quello che esse in molti casi avrebbero dovuto compiere spontaneamente, conseguendo spesso il risultato assolutamente negativo di gravare l'Amministrazione di nuovi oneri, spesso assai rilevanti, attraverso la condanna alle spese e l'eventuale ristoro dei danni. Né va trascurata la considerazione che proprio il ritardo o, peggio ancora, l'omissione di questi atti costituisce una forte spinta all'abusivismo in tutti i campi. In una situazione, quale quella descritta, di incompletezza delle fonti, di non rara vischiosità nell'attività delle Amministrazioni pubbliche e di contrasti nella stessa dottrina il Consiglio di Stato ha cercato di interpretare le norme di base tenendo sempre presente l'evoluzione delle varie esigenze di tutela degli interessi legittimi dei cittadini contro l'inosservanza totale o parziale o anche contro la finta osservanza sostanzialmente elusiva delle decisioni dei giudici. È peraltro, evidente che l'adeguamento del sistema al concetto di tutela accolto nella Costituzione di uno Stato sociale come il nostro anche per gli interessi legittimi, non può essere affidato alla sola giurisprudenza con l'ausilio della dottrina, ma deve formare oggetto anche su questo punto, di adeguamento legislativo nel quadro di una nuova concezione politica e giuridica dell'oggetto e della funzione del processo amministrativo. Alle due funzioni essenziali del Consiglio di Stato accolte dalla Costituzione è collegato quello particolarmente delicato dell'indipendenza dell'Istituto e dei suoi magistrati. Questa, com'è noto, è garantita dall'art. 100 della. Costituzione con una riserva di legge.

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Nell'attesa dell'intervento del legislatore nella delicata materia, è stato il Governo ad intervenire nel settore indubbiamente più esposto quale quello delle nomine dirette autolimitando il proprio potere col Regolamento approvato con D.P.R. 29 settembre 1973, n. 579, col quale, sono stati previsti, ai fini della nomina dei Consiglieri di Stato, particolari requisiti per la piena idoneità all'esercizio delle funzioni ed il preventivo parere non vincolante del Consiglio di Presidenza del Consiglio di Stato, su richiesta motivata della Presidenza del Consiglio dei Ministri; per la nomina dei Presidenti di Sezione si tiene conto, oltre che dell'anzianità, delle proposte dello stesso Consiglio di Presidenza. Posso affermare che detto decreto è stato applicato rigorosamente e che il Governo non si è mai discostato dal parere del Consiglio di Presidenza nel procedere alle nomine dirette. Queste norme non esauriscono di certo la previsione costituzionale ed appunto per ciò il relativo problema viene agitato in dottrina con una certa vivezza, giungendo fino a parlare del Consiglio di Stato quale giudice e amministratore. È, quindi, necessario che il legislatore provveda ad una disciplina completa della materia sotto i vari aspetti. Peraltro è chiaro che il problema della indipendenza di qualunque magistratura, e non solo di quella del Consiglio di Stato, è anzitutto un problema essenzialmente morale sul quale influiscono parecchi fattori interni ed esterni che non possono mai essere enumerati in modo completo poiché vi mancheranno sempre gli elementi intimi del convincimento morale e del carattere che sono assolutamente subiettivi e non possono essere forniti dal legislatore. È altresì chiaro, almeno nel mio responsabile convincimento, che la normativa che il legislatore crederà di adottare non deve mirare a rendere irrilevanti o quasi le nomine dirette, poiché la migliore tradizione del Consiglio di Stato è basata proprio su questo sistema misto di nomine che è indispensabile a portare nell'esercizio delle funzioni di esso l'esperienza preziosa delle Amministrazioni attive. Va nel contempo segnalata l'opportunità di un miglioramento anche modesto nella carriera dei Referendari, che, com'è noto, hanno una importanza determinante nella formazione della magistratura del Consiglio di Stato venendo selezionati attraverso un concorso per esami e titoli che è il più severo nelle amministrazioni dello Stato. Ebbene i risultati di questi concorsi dimostrano che va sempre più diminuendo il numero di coloro che vengono attratti in questa carriera preferendone altre più vantaggiose per concorsi meno faticosi e carriere più rapide. Ma oltre che nelle nomine l'indipendenza dei magistrati del Consilio di Stato va particolarmente garantita nell'impiego di essi al di fuori del Consiglio stesso col conferimento di incarichi da parte del Governo presso Amministrazioni pubbliche, espressamente previsto dalla legge da molti anni a somiglianza di quanto previsto anche all'estero per i Consigli di Stato di altri Paesi. Anche questa è una funzione di collaborazione col Governo che attiene al concetto di ausiliarietà menzionata dalla Costituzione e che tradizionalmente si è risolta, da un lato, a vantaggio delle pubbliche amministrazione e dall'altro è valso a perfezionare la formazione professionale degli stessi Consiglieri di Stato, specie se provenienti dalla carriera, acquisendo o aggiornando la conoscenza della vita dell'Amministrazione pubblica che poi devono consigliare e giudicare; attività queste che non sono logicamente possibili senza conoscere. Non può, peraltro, sottacersi che anche da questo lato può pregiudicarsi la fiducia del pubblico nella indipendenza dei magistrati del Consiglio di Stato. A questa preoccupazione rispondono le critiche talvolta sollevate nella dottrina, e in qualche caso nella stessa classe forense. In verità si tratta di preoccupazioni puramente astratte, poiché il Consiglio di Stato opera sempre collegialmente ed un collegio di sette membri costituisce una garanzia di indipendenza difficilmente superabile. Ad ogni modo, poiché, come ho detto, l'indipendenza del magistrato non deve essere solo garantita nella realtà, ma anche nell'apparenza per rispondere alla fiducia dei cittadini, mi atterrò rigorosamente ai limiti imposti alle leggi per il conferimento di incarichi esterni ai magistrati, con assistenza del Consiglio di Presidenza; ciò comporterà tra l'altro l'osservanza dei limiti numerici e di durata prescritti per il collocamento fuori ruolo, al quale dovrà di regola provvedersi quando trattasi di incarichi continuativi incompatibili col regolare esercizio di tutte le funzioni d'istituto. D'altro canto, poiché detti incarichi vengono sempre conferiti all'autorità di Governo, mi permetto rivolgere alla stessa una viva preghiera di accertare prima del conferimento di ogni incarico, attraverso la preventiva richiesta del mio nulla osta, la sussistenza di tutti i presupposti e condizioni all'uopo richiesti dalla legge. Signori, è certo che non sono solo questi i problemi da risolvere per un totale rinnovamento delle norme che regolano l'esercizio delle funzioni del Consiglio di Stato e che in fondo si inseriscono nel più generale problema della riforma dello Stato e della pubblica Amministrazione; mi sono limitato ad accennare solo a quelli che pongono le esigenze più urgenti di un adeguamento ai nuovi principi della Costituzione Repubblicana. L'adeguamento invocato, tralasciando gli altri per esigenze di tempo per non abusare della vostra pazienza, non è certo un compito facile, ma sono certo di interpretare i sentimenti di tutto il Consiglio di Stato nel

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dichiarare al Governo che questo organo ausiliario, che la Costituzione ha voluto mettergli accanto, si sentirebbe assai onorato di dare il proprio contributo per la predisposizione di quegli schemi normativi per i quali il Governo stesso ritenesse opportuno di dargli incarico ai sensi dell'art. 14, n. 2 del vigente Testo Unico. Si ripeterebbe adesso per quest'opera, sia pure parziale, di adeguamento dell'ordinamento alla Costituzione quanto si verificò nel 1865, quando il Governo del tempo affidò proprio al Consiglio di Stato la predisposizione delle norme fondamentali per l'adeguamento del vecchio ordinamento dei vari Stati ad un nuovo ordinamento dello Stato unitario. Come allora anche adesso quest'opera di rinnovamento non potrebbe non giovare a rafforzare la fiducia del popolo italiano nella vitalità dello Stato democratico, fiducia che è il fattore essenziale di ogni ripresa dello sviluppo del Paese e che giammai può sorgere né conservarsi senza certezza nella giustizia.

LIONELLO LEVI SANDRI 8 novembre 1979 Signor, Presidente della Repubblica a nome dei Magistrati e della intera famiglia del Consiglio di Stato ho l’onore di porgerLe il nostro deferente, rispettoso saluto e di ringraziarLa per aver voluto rendere solenne con la Sua presenza questa cerimonia. Il Consiglio di Stato, che la Costituzione vuole supremo tutore della giustizia, nella amministrazione, di quella giustizia che è cardine fondamentale delle libertà civili e politiche e della Democrazia stessa, sente l’altissimo onore di poter oggi salutare qui, a Palazzo Spada, Lei, Signor Presidente, che alla intransigente difesa della libertà e della giustizia ha consacrato l’intera Sua vita. Il saluto e il ringraziamento del Consiglio di Stato, si rivolgono anche a tutte le altre Autorità qui convenute. Ai Signori Presidenti del Senato della Repubblica e della Camera dei Deputati, al Signor Presidente del Consiglio dei Ministri e ai Signori Ministri, al Signor Giudice rappresentante della Corte Costituzionale. Al Signor Presidente del Consiglio e agli altri Membri del Governo desidero aggiungere un ringraziamento particolare per la fiducia dimostratami chiamandomi a questo altissimo ufficio. Il saluto e il ringraziamento si rivolgono anche a tutte le altre Autorità, politiche, civili, diplomatiche e militari, ai rappresentanti del Consiglio nazionale dell'economa e del lavoro, del Consiglio Superiore della Magistratura e delle Magistrature ordinaria e speciali, ai rappresentanti dell'Avvocatura dello Stato e del Foro libero, agli amici tutti che, intervenendo all'insediamento ufficiale del nuovo Presidente del Consiglio di Stato, onorano questo Istituto. Desidero anche ringraziare i vecchi Colleghi che hanno voluto essere con noi in questa occasione. E un saluto particolare rivolgo ai miei illustri predecessori: i Presidenti Carlo Bozzi, Antonino Papaldo, Gaetano Vetrano, Vincenzo Uccellatore, Luigi Aru. Consentitemi infine di ricordare anche due nomi a me cari i nomi di due illustri Maestri del diritto, che non hanno appartenuto al Consiglio di Stato, ma dai quali in anni ormai tanto lontani, ho appreso e conoscere il Consiglio di Stato, e ciò che esso ha rappresentato e deve continuare a rappresentare nell'ordinamento costituzionale e amministrativo e nella vita del nostro Paese. Sono i nomi di Oreste Ranelletti e di Guido Zanobini, due Maestri al cui insegnamento, orientato talvolta da criteri scientifici parzialmente diversi, ma ispirato in ogni caso a rigore di metodo e ad obbiettività di ricerca , ho cercato sempre, di attenermi come modesto ma devoto allievo. E mi è caro in questo momento, per me particolarmente solenne, ricordare quanto, nel mio ormai lungo impegno di studioso, di funzionario e di magistrato, devo al loro insegnamento. Generalmente, all'atto del proprio insediamento, un presidente ritiene doveroso esporre un programma di lavoro o quanto meno indicare principi e criteri ai quali intende ispirare la propria azione. Per il presidente del Consiglio di Stato il programma è fissato per la massima parte dalla legge. Egli deve presiedere l'Adunanza Generale, alla quale spetta di pronunziarsi in sede consultiva sui testi nominativi nonché su questioni generali e di massima, ma per la quale sarà opportuno che le Sezioni consultive facciano più largo uso della facoltà loro accordata, di demandare l'esame di alcuni ricorsi straordinari; deve presiedere anche l'Adunanza plenaria delle Sezioni giurisdizionali, alla quale potrebbe anche demandare la trattazione di ricorsi che egli giudicasse particolarmente importanti (ma sarà preferibile non usare di questa facoltà, e trattare solo i ricorsi rimessi dalle Sezioni, e ciò per evitare che si possa anche sospettare di aver voluto sottrarre un ricorso al proprio giudice naturale); potrebbe anche presiedere le Sezioni consultive, ma non lo farà, non essendovi alcuna ragione per sovrapporsi agli eminenti colleghi che le presiedono; dovrà invece usare tutti i mezzi a disposizione - ma qui le lacune materiali non mancano - perché, tutti gli organi del Consiglio siano in grado di adempiere nel migliore dei modi e sollecitamente ai compiti loro demandati; dovrà

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infine esercitare tutte le altre attribuzioni che la legge gli affida in ordine al Consiglio in ordine anche ai Tribunali amministrativi regionali, dei quali deve presiedere il Consiglio di presidenza. Ma se per quanto concerne l'enunciazione di un programma e dei criteri ai quali intende ispirarsi il neo presidente del Consiglio di Stato può limitarsi a queste poche dichiarazioni, egli può ben esprimere, in questa occasione il proprio punto di vista sui più importanti problemi che nell'ora presente si pongono al Consiglio di Stato ed alla giustizia amministrativa in Italia e investono per ciò stesso l'intera amministrazione italiana. I problemi della giustizia amministrativa hanno infatti assunto in questi ultimi anni un particolare rilievo, specie dopo l'istituzione dei TA.R. - i Tribunali amministrativi, regionali - avvenuta, con una legge del 1971. Politici ed -operatori del diritto auspicano riforme che rendano più sollecite ed operanti le decisioni e garantiscano situazioni ed interessi che oggi sono molto spesso sottratti alla tutela giurisdizionale. Nuovi testi legislativi sono all'esame del Parlamento. In realtà il continuo dilatarsi dell'azione amministrativa e l'istituzione dei Tar hanno impresso un forte scossone alle vecchie strutture che trovano ancora la loro principale disciplina nel T.U. del 1924 nel quale sono riunite norme che risalgono anche ad anni più lontani al 1907, al 1889 e persino al 1865. D'altra parte il numero sempre crescente di ricorsi, di domande di giustizia non può più essere fronteggiato con i mezzi e le procedure esistenti. Infine il decentramento regionale e certe innovazioni intervenute molto spesso di fatto, nello stesso iter di formazione delle norme giuridiche, hanno posto problemi ai quali può essere interessata la funzione consultiva. E a proposito della funzione consultiva, vorrei subito dire che la sua distinzione da quella giurisdizionale è, in un certo senso, puramente formale, in quanto entrambe mirano ad assicurare - l'una in via preventiva, l'altra in via successiva - la giustizia nell'amministrazione. Aggiungerò che anche la consulenza giuridico-amministrativa può essere di vero ausilio all'Amministrazione attiva solo se esercitata da una magistratura indipendente, che in piena indipendenza possa indicare al Governo i mezzi legittimi ed opportuni per conseguire le finalità che esso si prefigge. Ne consegue che il parere del Consiglio di Stato non costituisce un doppione e non può essere sostituito da quelli di altri organismi, che per costituzione, ordinamento e finalità istituzionali rispondono principalmente ad altre esigenze, pur importantissime, ma non a quella preminente ed esclusiva di tutela, della giustizia nell’amministrazione. La funzione consultiva rimane quindi ancor oggi a giusto titolo a fianco di quella giurisdizionale, attribuzione fondamentale del Consiglio. Io non so se, tra le due funzioni possa farsi una graduatoria di importanza. Non lo credo. Solo penso che anche qui possa valere mutatis mutandis, il precetto che Bernardino Ramazzini, il fondatore della moderna medicina del lavoro, enunciava quasi tre secoli or sono: longe praestantius est praeservare quam curare. Orbene, recenti sviluppi della legislazione e certe conseguenze, forse non previste, che ne sono derivate hanno portato ad eliminare il parere del Consiglio di Stato in materie nelle quali il suo intervento era ritenuto opportuno, anzi indispensabile, e tale sembra essere ancor oggi. Io, ad ogni modo, non insisterò, a questo proposito, sulla opportunità già da altri segnalata, e che pienamente condivido, di assicurare nuovamente, attraverso la consultazione facoltativa, il concorso del Consiglio di Stato nella formazione delle norme sulla organizzazione della pubblica amministrazione o di quelle relative agli ordinamenti del personale, o nella predisposizione di regolamenti ministeriali, che secondo una prassi, a mio avviso non commendevole, si vanno moltiplicando, pur avendo molto spesso ad oggetto rapporti. giuridici delicati ed importanti; o infine nella preparazione di atti regionali in materie trasferite dallo Stato alle regioni. Del resto, nel corso della passata legislatura era stato presentato dal Governo al Parlamento uno schema di disegno di legge che prevedeva appunto la consultazione facoltativa del Consiglio da parte delle regioni, e mi permetto di segnalare al Governo l'opportunità di una sua nuova presentazione; anche per quanto concerne i regolamenti ministeriali, devo dare atto al Governo di averne sottoposti alcuni all'esame e al parere del Consiglio; mi auguro solo che questa prassi si consolidi. Non mi limiterò perciò a richiamare i casi ora ricordati, perché il problema dell'opportunità di ricorrere alla consulenza del Consiglio di Stato può porsi ormai in termini più ampi, in dipendenza di una evoluzione che si è manifestata e va intensificandosi in sede di formazione degli atti amministrativi e delle stesse norme giuridiche, anche primarie. L'odierno ordinamento è caratterizzato da una sempre più estesa partecipazione degli interessati alla definizione dei problemi che li concernono, soprattutto nel campo del lavoro dipendente, pubblico e privato, ma, non solo in esso, e in quello dell'ordinamento e del funzionamento delle stesse istituzioni, dall'impresa privata alla pubblica amministrazione, diretta o indiretta. Questa partecipazione non si limita e non si esaurisce in consultazioni, o nella espressione di voti o di pareri, o nella presentazione e nel sostegno delle cosiddette piattaforme, ma porta generalmente alla conclusione di accordi formali tra le parti interessate, accordi che poi costituiscono la base dei relativi provvedimenti amministrativi o legislativi, nei

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quali talvolta vengono trasfusi puramente e semplicemente. Parafrasando ciò che un tempo disse Carnelutti a proposito del contratto collettivo di lavoro (avere esso il corpo del contratto e l'anima della legge), si potrebbe dire che molte delle più recenti manifestazioni normative hanno invece il corpo della legge e l'anima del contratto. Ora, molto spesso questi provvedimenti hanno carattere e portata settoriali, e non sempre appare evidente, o quanto meno non è di facile, immediata percezione il fatto che un particolare indirizzo seguito o una certa soluzione adottata in ordine a problemi modesti e circoscritti si riflettono e si ripercuotono su problemi analoghi, ma di ben più ampia portata in altri campi, o contrastano con principi e soluzioni già adottati e accettati. Si determinano così reazioni a catena che, come quelle nucleari, non è sempre facile dominare, anche perchè si può incorrere, in una violazione dell'art. 3 della Costituzione. Un’analisi preventiva della compatibilità di certe soluzioni con l'ordinamento già accolto ed accettato, l’individuazione delle modifiche che in altri campi dovranno essere introdotte, gli ostacoli che possono ritardare l'attuazione di certi provvedimenti concordati, devono essere chiari agli organi legislativi e governativi. E in questo campo il Consiglio di Stato, se interrogato, è in grado di dare un proprio positivo contributo al Governo e, se richiesto, anche al Parlamento. Con il che, sia ben chiaro, lungi dall'intralciare o dal rendere comunque più difficile il perseguimento di obbiettivi e di fini che rientra nella esclusiva competenza e responsabilità. del Parlamento e del governo, si vuole solo contribuire a far sì, non solo che questo perseguimento avvenga nel pieno rispetto della legittimità, ma soprattutto che siano conosciute preventivamente le difficoltà che, in sede di attuazione, possono presentarsi e che perciò devono essere oggettivamente considerate e valutate per poterle superare. Se l'esercizio della funzione consultiva riguarda solo il Consiglio di Stato, il giudizio in sede contenziosa sulla legittimità e, quando ammesso, sulla opportunità degli atti amministrativi interessa anzitutto i Tribunali amministrativi regionali, essendo il Consiglio divenuto ormai giudice di appello. L'attuazione della legge del 1971 ha coinciso con un notevole rapido incremento dei ricorsi oggi, a sei anni dalla effettiva istituzione e funzionamento dei Tar, l'aumento è notevole, non solo se confrontato con i ricorsi che venivano presentati al Consiglio di Stato, e al Consiglio di giustizia amministrativa della Regione Siciliana, quando l'uno e l’altro erano giudici di unico grado, ma in relazione anche ai ricorsi presentati agli stessi Tar nei primi anni del loro funzionamento. Nel 1978 sono stati presentati in primo grado quasi 36 mila ricorsi; (le decisioni pronunciate sono state 15.350, mentre i ricorsi pendenti al 31 dicembre erano oltre 105 mila. Gli appelli proposti al Consiglio nello stesso anno sono stati 2.119 (anche essi in, aumento) e quelli decisi 840. Si tenga presente che al Consiglio, che deve fare fronte ad oltre 15 mila ricorsi residuo della vecchia giurisdizione in unico grado, continuano a pervenire in unico grado i ricorsi contro atti degli enti della Regione Trentino-Alto Adige (530 nel 1978), nella quale non funziona ancora il Tribunale regionale. Complessivamente le decisioni del Consiglio in sede giurisdizionale, nel 1978 sono state 4.490, i ricorsi pendenti al 31 dicembre circa 18 mila (in sede consultiva i pareri espressi dalle tre Sezioni, sono stati 6.170). Nei primi sei mesi del 1979 questa situazione si è ulteriormente aggravata in primo grado: i ricorsi pendenti superano già i 117 mila; quelli dinanzi al Consiglio sono invece leggermente diminuiti. Questo incremento nel numero dei ricorsi, questa aumentata richiesta di giustizia amministrativa è in relazione, almeno in parte, con l'avvicinamento del giudice ai cittadini e con la possibilità di adire il Tar con l'assistenza solo di un procuratore; ma deriva anche da un peggioramento nella qualità dell'azione amministrativa, al quale non è certo estranea una minore preparazione dei funzionari; e dipende altresì dall'oscurità, dalle imperfezioni e dalle contraddizioni di molti testi normativi di base, che l'Amministrazione deve applicare. Sta di fatto che nell'anno 1978 oltre il 60 % dei ricorsi in primo grado, sui quali è intervenuta una decisione nel merito, è stato accolto. I pochi dati che ho citato, e altri potrei citarne ma non voglio tediare, dimostrano di per sé l'ampiezza dei problemi che si pongono, se si vuole che la giustizia amministrativa sia non solo efficiente, ma anche tempestiva. Sono problemi in parte di personale (e non solo di quello di magistratura, ché l'insufficienza del personale di segreteria è particolarmente sentita), in parte di accelerazione, di revisione, di ammodernamento delle procedure. In questa materia il Consiglio ha predisposto da tempo uno schema di testo legislativo che regola appunto con criteri moderni e aderenti alle attuali esigenze la procedura innanzi ai Tar e al Consiglio di Stato e realizza un’organica riforma del procedimento, tenendo presenti gli indirizzi della giurisprudenza e della più autorevole dottrina e dello stesso sistema del codice di procedura civile. Non è certo il caso di illustrare anche succintamente tale testo, che si compone di oltre cento articoli. Mi limiterò a dire che, tra l'altro, esso tende ad assicurare il sindacato giurisdizionale anche in casi e situazioni che attualmente gli sono sottratti, prevede una maggiore incisività del giudizio di ottemperanza, e, tenendo conto degli orientamenti legislativi in materia di lavoro privato e di processo del lavoro, detta una procedura più rapida e snella per le controversie in materia di pubblico impiego, controversie che devono rimanere nella

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giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, che solo può garantire la tutela del singolo di fronte a quelle lesioni di situazioni soggettive dì interesse legittimo, che caratterizzano appunto queste controversie. Sono vivamente grato al Ministro Giannini che ha sottoposto al Consiglio dei Ministri un disegno di legge di delega per la emanazione di un testo che si ispira in gran parte appunto ai principi seguiti nello schema da noi predisposto. Mi auguro che il progetto di legge di delega possa pervenire presto dinanzi al Parlamento ed essere presto approvato. Ma il problema che è posto dal numero elevato e sempre crescente di ricorsi non può trovare soluzioni sul solo piano della riforma dello snellimento delle procedure. È anche in gran parte problema personale, di numero e di qualità. Per i Tar la legge, istitutiva prevede un organico completo di 220 magistrati, ma in questo momento i posti occupati sono solo 155. I concorsi, benché affollati, hanno dato sinora un numero non modesto di vincitori; le commissioni giudicatrici si attengono a criteri di severità nella scelta di chi dove esercitare il delicato compito di giudice amministrativo. Dovranno passare alcuni anni prima che l'organico sia completo. Mi domando perciò se non sarebbe il caso di studiare, tra l'altro, la possibilità di prevedere, anche per i Tar una soluzione parzialmente analoga a quella in vigore per il Consiglio di giustizia amministrativa della Regione Siciliana, che ha dato in ormai trent'anni di funzionamento, positivi risultati; si tratterebbe di integrare la composizione dei singoli Tribunali con alcuni giudici nominati, su designazione delle regioni, magari per un periodo di tempo determinato, scelti naturalmente tra elementi in possesso di tutti i requisiti di competenza, di attitudine, di carattere, per esercitare tale delicato ufficio. Si potrebbe così attuare anche un certo opportuno collegamento tra l'organo giudicante e la realtà economica e sociale della regione nella quale opera. Per quanto concerne il Consiglio di Stato, l'attuale sistema di scelta dei magistrati attraverso le tre distinte procedure del concorso, della nomina diretta e del trasferimento dai Tar, ha garantito sinora all’istituto l'apporto di quelle competenze giuridiche ed amministrative che sono indispensabili all'esercizio delle sue funzioni. Quanto all'organico esso presenta attualmente numerose vacanze nel ruolo dei consiglieri derivante dall'obbligo di riservare una percentuale di posti ai provenienti dal referendariato, e i posti riservati sono attualmente sovrabbondanti rispetto a questa esigenza. Ma le nuove dimensioni dell'azione amministrativa, che si è estesa ai settori più vari, economici e sociali, pone per il Consiglio, anche sotto questo aspetto, delicati problemi di adeguamento. Ormai all'esercizio soprattutto della funzione consultiva non sono indispensabili solo rapporto del giurista e il contributo dell'esperto della pubblica amministrazione; occorre molto spesso anche il concorso di chi ha acquisito, magari attraverso altre esperienze, la conoscenza approfondita di tutti gli aspetti del fenomeno che è alla base del provvedimento di cui si deve valutare legittimità e opportunità amministrativa. Io penso perciò che sarebbe opportuno ampliare, entro certi limiti, la scelta dei membri del Consiglio. E mi domando se l'esperienza francese, indubbiamente positiva, dei Consiglieri di Stato in servizio straordinario, nominati in numero ristretto, per un periodo di tempo determinato e provenienti dai più vari settori della vita sociale-culturale, economica, sindacale non potrebbe utilmente essere sperimentato anche da noi. A questo punto mi accorgo che con questa idea dei Consiglieri di Stato in servizio straordinario e con qualche altra adombrata poco fa (quella, ad es., dei magistrati dei Tar nominati su designazione delle regioni), vengo a trattare problemi che sono attualmente all'esame del Parlamento e che sono oggetto di quel disegno di legge sull'ordinamento della giurisdizione amministrativa che, a quanto mi risulta, si trova dinanzi alla Commissione affari costituzionali dell'Assemblea di Palazzo Madama. Si tratta di un provvedimento originato da un disegno di legge governativo che riguardava il personale di segreteria dei Tar (per il quale personale, sia detto tra parentesi, una disciplina, attesa da anni, appare ormai veramente urgente); a tale disegno di legge si sono aggiunte altre proposte più generali, di iniziativa parlamentare, dando così origine ad un testo unificato, che ha ottenuto l’approvazione del Senato nel corso della passata legislatura. Non credo di rivelare un segreto se dico che tale provvedimento, nel testo allora approvato, aveva lasciato particolarmente perplessi e preoccupati i membri di questo Consiglio. Negli scorsi mesi le due associazioni dei magistrati del Consiglio di Stato e dei Tar si sono incontrate e, superate alcune iniziali diffidenze e incomprensioni, si sono trovate d'accordo nel prevedere certe soluzioni per i punti che erano più controversi. Si tratta di un accordo del genere di quelli ai quali innanzi accennavo, che hanno l'anima del contratto ma aspirano ad avere il corpo della legge. Naturalmente, poiché le questioni regolate non interessano solo le due parti in causa, ma incidono anche su delicati problemi attinenti alle istituzioni e al loro funzionamento, spetta al Governo e, in ultima analisi, al Parlamento di decidere se, e in quale misura accogliere, sotto veste di emendamenti al primitivo testo, le proposte avanzate. Sembra ora che il Governo. abbia intenzione di presentare alla Commissione senatoriale alcuni emendamenti. Non li conosco, ma se li presenterà non potrò che rallegrarmene in quanto mi auguro che essi consentano di riaprire in quella sede una discussione approfondita e siano tali da eliminare quelle preoccupazioni e quelle perplessità cui ora ho accennato. Preoccupazioni e perplessità che derivano

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principalmente da quella che ci è apparsa, nel testo primitivo, una chiara sottovalutazione del nostro Consiglio e delle sue funzioni, specie di quella consultiva, nonché dalla convinzione che quel testo non può conseguire lo scopo fondamentale per il quale è stato proposto, di organizzare cioè la giurisdizione amministrativa in modo che possa realmente fronteggiare l'aumentata richiesta di giustizia. Ad ogni modo, perché non sorgano equivoci o malintesi sulla posizione del Consiglio di Stato in questa materia, mi permetto subito di aggiungere - e credo di poter parlare a nome anche di tutti i miei Colleghi - che io condivido pienamente l'esigenza manifestata dai Colleghi dei Tar di fissare uno stato giuridico identico per i membri dell'una e dell'altra magistratura; riconosco che per i Colleghi dei Tar deve essere previsto uno svolgimento di carriera analogo a quello, delle altre magistrature speciali, sicché ad essi - quando avranno l'anzianità richiesta - spetterà di presiedere i loro Tribunali; auspico che si mantenga, sia pure con una disciplina parzialmente diversa, il trasferimento di magistrati dei Tar al Consiglio di Stato (trasferimento che si è già ripetutamente verificato in questi due ultimi anni ed ha arricchito il Consiglio dell'apporto di magistrati di alto valore). Per quanto direttamente lo concerne, il Consiglio auspica due cose: anzitutto, che l'organo sostanzialmente di autogoverno - il Consiglio di presidenza - che il disegno di legge prevede, abbia una composizione che, anche in relazione a quanto prescrive il primo comma dell'art. 97 della Costituzione, lo ponga veramente in grado di far fronte ai complessi e delicati compiti che lo attendono; in secondo luogo, che la scelta dei Consiglieri di Stato - avvenga essa attraverso il concorso, la nomina diretta o il trasferimento dai Tar - cada sempre su elementi altamente qualificati per scienza giuridica ed esperienza amministrativa; e perciò non possa dipendere, come previsto nel testo che ci preoccupa, dalla sola anzianità di servizio maturata in altri ruoli. In un momento nel quale le organizzazioni sindacali hanno giustamente rivalutato, anche per le categorie operaie, l'elemento della professionalità, il Consiglio chiede che anche per la scelta dei propri membri valga analogo principio.

Renato Laschena novembre 1996 Signor Presidente della Repubblica, ho l'onore di porgerLe, a nome della Magistratura amministrativa, un deferente saluto ed un sincero ringraziamento per avere voluto rendere solenne, con la sua presenza, la cerimonia odierna. Esprimo il nostro vivo ringraziamento a tutte le alte Autorità qui convenute: agli onorevoli rappresentanti del Presidente del Senato della Repubblica e del Presidente della Camera dei Deputati, al Presidente del Consiglio dei Ministri - al quale va anche la mia personale gratitudine per le parole di apprezzamento che ha voluto rivolgere all'Istituto - al Giudice della Corte Costituzionale che interviene in rappresentanza del Presidente, ai Ministri, alle Alte Autorità politiche, civili e militari, agli esponenti delle Magistrature, dell' Avvocatura dello Stato, del libero Foro e del Mondo accademico. Un saluto affettuoso rivolgo ai miei illustri predecessori, al “vegliardo” Presidente Antonino Papaldo, ai Presidenti Pescatore, Crisci, Quartulli, Anelli, al Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, ai cari colleghi, a tutti i collaboratori degli organi di giustizia amministrativa. I. In un Consesso, alieno da riti e da manifestazioni esterne, l'insediamento del nuovo Presidente costituisce momento di incontro per riferire alle massime Autorità dello Stato e, quindi, attraverso di esse, al Paese, alcune riflessioni sullo “stato” della giustizia amministrativa e per indicare i problemi di maggior rilievo. Alla luce delle esperienze maturate si delineano alcuni orientamenti che appaiono più rispondenti alle esigenze poste dal delinearsi di nuovi indirizzi di sviluppo della società e dello Stato. Le nostre riflessioni sull'organizzazione e sulle attribuzioni del sistema della giustizia amministrativa non intendono proporre o suggerire iniziative che, secondo la Costituzione, spettano esclusivamente al Parlamento ed al Governo. Siamo ben consapevoli del nostro ruolo e restiamo nei precisi limiti ad esso assegnati. Il nostro discorso vuole recare soltanto un contributo ad un dibattito su temi di grande rilevanza istituzionale, già aperto nel Paese. Si tratta, cioè, di una riflessione culturale e istituzionale sull'attività del Consiglio di Stato, nella prospettiva delle trasformazioni in atto, per quanto riguarda specificamente il nostro sistema. Tali trasformazioni si caratterizzano per due elementi fondamentali: a) il rapporto tra cittadino e pubblica amministrazione si connota sempre più come un rapporto “aperto”, “partecipato”, in cui l'amministrazione cerca il confronto preventivo, in corso di procedimento, con il cittadino; b) vi è, poi, una tendenza, interna all'amministrazione, ad uniformare la propria azione non più solo a principi di legittimità formale, ma anche, e soprattutto, a criteri di efficienza dell'attività amministrativa nel suo complesso.

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L'inserimento del Consiglio di Stato - e, per i profili connessi alla giurisdizione, degli altri organi di giustizia amministrativa - in un siffatto processo istituzionale si giustifica e si impone in considerazione della peculiarità del sindacato giurisdizionale amministrativo, rispetto alla giurisdizione civile tra i privati, e della complementarità tra funzione consultiva e giurisdizionale al fine di assicurare un assetto amministrativo moderno ed un controllo reale sull'efficacia e la correttezza dell'attività delle pubbliche amministrazioni. li sindacato giurisdizionale sull'amministrazione è affatto peculiare: basti pensare come il giudizio sulla ragionevolezza e sulla congruità dell'azione amministrativa consente, rispetto a parametri predeterminati in sede normativa, di tener conto dei “risultati concreti” dell'azione amministrativa. Quanto alla complementarità tra funzioni consultiva è giurisdizionale, va rilevato che l'azione amministrativa si sviluppa in un procedimento propriamente. amministrativo per passare poi, eventualmente al vaglio della successiva fase contenziosa, i cui effetti, in caso di annullamento, rifluiscono sulla stessa Amministrazione. L'attività amministrativa, così delineata, non è, cioè, logicamente frazionabile. Non può essere isolato il momento procedimentale, nel quale si inserisce la consultazione, da quello successivo del conflitto dinanzi al giudice, ma occorre che un giudice verifichi il progressivo dispiegarsi del comportamento dell'amministrazione. Si è così storicamente delineato un modello di giudice amministrativo che, anche per formazione professionale, arricchita dall'attività di consulenza istituzionale - è culturalmente conoscitore delle problematiche dell'amministrazione e dell'ordinamento dello Stato, in modo da poter offrire al cittadino una tutela adeguata alla peculiarità della funzione amministrativa e, nel contempo, all'amministrazione una garanzia della prevalenza dell'interesse pubblico legittimamente perseguito sugli interessi dei singoli. II. Dunque, funzione consultiva e funzione giurisdizionale. Si può domandare se una delle due funzioni abbia rilevanza prevalente, ma riteniamo preferibile recepire l'esperienza così come si presenta, di natura composita, seguirne l'evoluzione registrando i risultati e partendo da quello che si è realizzato, per formulare nuovi indirizzi o, almeno, per cogliere alcune prospettive. La nostra istituzione è, si ripete, caratterizzata dalle funzioni, consultiva e giurisdizionale. Nella odierna società, per ogni materia o gruppo di materie affini, si tende a formare un settore con proprio apparato, più o meno specializzato, con operatori che acquisiscono cognizioni e tecniche particolari, sicché i problemi che possono sorgere nel corso dell'attività di settore esigono, in chi deve risolverli, una preparazione specifica, cui la formazione giuridica può, a tutto concedere, consentire l'approccio alla normativa applicabile che, per i suoi contenuti tecnici, esige spesso una preparazione non soltanto giuridica. La difficoltà è ancora più rilevante per l'esercizio della funzione consultiva che deve indirizzare l'amministrazione e quindi, anzitutto, assimilarne ed approfondirne i problemi per poterne chiarire i termini ed individuare soluzioni rispondenti non soltanto al dettato della legge ma, anche e soprattutto, al principio costituzionale del buon andamento dell'amministrazione. E, proprio per i risvolti tecnici, si presenta l'esigenza di assicurare l'imparzialità, poiché, non di rado, soltanto, o prevalentemente, le organizzazioni economiche interessate dispongono, nei fatti, del materiale necessario, a partire dai dati che dovrebbero consentire un giudizio ancorato ad oggettive realtà. Sono fatti che debbono essere considerati con particolare attenzione, specie nell' esercizio della funzione consultiva, che non può limitarsi ad indicare soluzioni conformi a legge, ma deve penetrare nel vivo degli affari che ad essa vengono sottoposti, per conoscere i punti di frizione e per elaborare i possibili equilibri, in una società che si evolve e si involve, attraverso statalismo, privatizzazioni, specificità di discipline, spesso disposte con connessioni improprie; sicché lo stesso filtro della legge esige la verifica dei fatti affinché la regola voluta possa correttamente svolgere la sua funzione nei limiti della Costituzione. Prospettive che si allargano e, direi, si complicano quando si è chiamati a pronunciarsi su atti normativi, destinati, come questi sono, a valere per l'avvenire e, più ancora, se con essi si provvede a regolare l'organizzazione - investendo, in definitiva, le finalità stesse della funzione pubblica - o l'esecuzione delle leggi. La consultazione sugli atti di normazione secondaria riveste un ruolo centrale nell'attività del Consiglio di Stato. Invero, già il Testo Unico delle leggi sul Consiglio di Stato, approvato con il r.d. 26 giugno 1924, n. 1054, stabilisce, nell'art. 14, che il Consesso dà parere sopra le proposte di legge (in qualsiasi materia) che gli sia richiesto dal Governo (n. 1) e formula quei progetti di legge ed i regolamenti che gli vengono commessi dal Governo. Il successivo art. 16, n. 1, a sua volta, stabilisce il voto obbligatorio del Consiglio di Stato sulle proposte di regolamento soggette all'approvazione del Consiglio dei Ministri. Ed il R.D.L 19 febbraio 1939 n. 273 prescrive il parere, pure obbligatorio, del Consesso, sui provvedimenti legislativi riguardanti l'ordinamento e le funzioni dell'Istituto. La legge n. 400 del 1988 ha generalizzato la consultazione obbligatoria su tutti gli schemi di regolamento, sia governativi sia ministeriali, incrementando notevolmente le richieste di parere in materia. È dato di prevedere che, nel quadro dell'auspicato processo di c.d. “delegificazione”, tale tipo di consultazione

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obbligatoria avrà un ulteriore sviluppo ed assumerà una posizione di maggior rilievo. Si pone, quindi, il problema di predisporre le strutture più idonee e di accelerare i tempi di pronuncia dei pareri. L'esigenza era stata affrontata dal Governo nel corso della precedente legislatura, attraverso l'iniziativa legislativa dell'istituzione di un'apposita Sezione del Consiglio di Stato per gli affari normativi e della richiesta del doppio esame, in sezione ed in Adunanza Generale, per i soli regolamenti governativi. Con la chiusura anticipata della legislatura, l'apposito disegno di legge non ha avuto seguito. La istituzione di una sezione ad hoc ha dei precedenti nella nostra legislazione a conferma della vocazione dell'Istituto per detta attività consultiva. Ricordo, agli albori dello Stato unitario, la commissione temporanea di legislazione, istituita presso il Consiglio di Stato con la legge 24 giugno 1860 su iniziativa del Ministro Farmi, per lo studio e la formazione di progetti di legge e in particolare, per “preparare un ordinamento amministrativo pel quale si accordino le ragioni dell'unità e della forte autorità politica dello Stato colla libertà dei comuni, delle province e dei consorzi”. Ricordo, ancora, che, nella sede dei lavori preparatori per l'Assemblea costituente, la Commissione Forti prevedeva l'istituzione con carattere permanente, di una sezione c.d. normativa presso il Consiglio di Stato. Ci sia consentito di segnalare all'attenzione del legislatore la detta esigenza e le precedenti iniziative adottate per sovvenire all'esigenza stessa. III. La funzione consultiva, in genere, deve e, più ancora, dovrà affiancare,anche nel quadro della prevedibile nuova articolazione organizzativa dello Stato, le amministrazioni più diverse, statali e non. Ma quello che conta, è la chiarificazione che deve risultarne, la varietà delle materie da affrontare, la necessità di penetrare le situazioni concrete ed i fatti, specialmente quando si è richiesti di interpretare fonti pattizie e non soltanto leggi e regolamenti. Ed è noto che le soluzioni mutano approfondendo l'esame dei particolari che, spesso, condizionano la qualificazione dei fatti, secondo norme giuridiche e tecniche: norme tecniche che anche la funzione giurisdizionale del Consiglio prende ormai in considerazione per le indicazioni che possono dare. Funzione consultiva che è anche funzione di indirizzo per l'avvenire, essendo noto che i pareri, una volta dati, vengono posti a fondamento dell'azione amministrativa, spesso per decenni e più, finché la forza delle cose non dimostra che è necessario un mutamento di indirizzo sul quale, magari, viene chiesto un nuovo parere, prospettando specifiche sopravvenienze che motivano la nuova richiesta. Funzione consultiva di cui si chiede il conforto anche per fronteggiare il grave problema delle responsabilità di ogni tipo ma, soprattutto, contabile e penale, che, ormai, dilagano, con effetti negativi perla speditezza dell'azione amministrativa ed, in particolare, per quelle iniziative di rinnovamento, spesso necessarie ma che vengono evitate per timore delle responsabilità che possono comportare. È ovvio che, in un quadro di insieme del tipo or ora delineato, il compito del Consiglio si accresce per dimensioni, difficoltà, responsabilità. Si aggiunge che nell' esercizio della funzione consultiva manca il contraddittorio tra gli interessati, con i relativi apporti; sicché quelle che contano sono le acquisizioni ottenute nel relativo procedimento e, talvolta, potrebbe essere necessario il colloquio anche con soggetti diversi dal richiedente il parere, se si vuole, come si deve, arrivare al fondo delle cose: senza dire dell'incidenza dei principi affermati nella L. 241/90 sul procedimento, per l'esercizio della funzione consultiva. Il materiale raccolto nell'esercizio della funzione consultiva può, opportunamente coordinato, fornire indicazioni anche a carattere programmatorio o, almeno, correttivo, per migliorare, specie in via propulsiva, le condizioni dell' Amministrazione, sottolineando le carenze riscontrate, indicando i rimedi possibili, verso l’obiettivo del buon andamento. A tal proposito non va dimenticato che la tutela della giustizia nell'amministrazione si realizza anche assicurando, attraverso una puntuale consultazione, la trasparenza dell'azione amministrativa, che è condizione imprescindibile perché si realizzino i valori del buon andamento e dell' imparzialità. Sono problemi che, se vanno oltre la nostra Istituzione, ne condizionano però l'azione ed attendono da tempo la soluzione, che non può ormai tardare fidando nella forza delle tradizioni, che dovrebbero, al contrario, dar luogo a salutari evoluzioni, vincendo resistenze e vischiosità legate ad interessi particolari e dannosi per la generalità. In questo lavoro è indispensabile un diffuso e continuo colloquio anzitutto al nostro interno, scambiandoci le esperienze che siamo in grado di vivere nelle varie funzioni che esercitiamo, dalla consultiva alla giurisdizionale, alla presenza negli organi di Governo e nei collegi amministrativi di ogni tipo, migliorandoci reciprocamente, avvertendo e prevenendo i rischi cui tutti siamo esposti e presentandoci all'esterno con un patrimonio di apporti che, solo, nell'epoca attuale, distruttiva di ogni orpello, può accrescere credibilità e prestigio, inserendoci anche nella imminente fase del rinnovamento, peraltro già iniziata in vari settori, tenendo conto degli apporti comunitari. IV. Le precedenti riflessioni concernono i rapporti con l'Amministrazione, avendo prevalente riguardo alla funzione consultiva. Qualche accenno, che pure abbiamo effettuato, alla funzione giurisdizionale potrebbe essere inteso nel senso di riconoscere maggiore facilità di avvio a soluzione dei relativi problemi. Ma, al fine

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di introdurre il discorso su tali problemi, è necessario, preliminarmente, ampliare il campo di osservazione, distinguendo anzitutto la posizione del cittadino da quella dell'Amministrazione quale parte che deve collaborare, anche se interessata, alla funzione giustiziale nelle sue varie fasi. Per il cittadino, si pone un primo problema, quello dei tempi della giustizia, troppo lunghi; problema che riguarda tutte le giurisdizioni e per il quale, come l' esperienza ha dimostrato, scarsi sono i risultati che si ottengono modificando - o modificando soltanto - le norme processuali; anzi, le difficoltà si accrescono, specie nel periodo transitorio; mentre regole, magari essenziali, delle riforme si imbattono in ostacoli di ogni tipo. Viene, poi, in rilievo una questione centrale ai fini del sindacato del giudice amministrativo. La legittimità, come parametro del controllo giudizi aie sull'azione amministrativa, è ormai da tempo ridefinita ben oltre gli angusti e tradizionali confini del canone di legalità e del conseguente accertamento della corrispondenza fra volontà espressa con la legge e volontà espressa con l'atto amministrativo. Il punto cruciale di tale opera di ridefinizione sta nel riconoscimento dell'esistenza, nell'ordinamento, di fonti diverse, ulteriori e a volte sopraordinate alla legge, dalle quali non si può prescindere per la ricostruzione e la stessa identificazione del parametro di legittimità. Un ordinamento aperto, nel quale, accanto alla legge, operano, per tacer d'altro, le norme costituzionali, il diritto comunitario e i principi generali - espressi e inespressi e spesso richiamati dall’interprete mediante l'elaborazione di standard giudiziali - è un ordinamento la cui articolazione può essere spiegata e ordinata solo se si percorre a pieno, e consapevolmente, il percorso che porta dal principio di legalità alla régle de droit. In questo quadro, l'azione amministrativa, è concepita non più soltanto come espressione di volontà, ma come attività conoscitiva, di valutazione e di scelta, diretta al raggiungimento di un fine mediante la predisposizione dei mezzi più idonei al perseguimento degli obiettivi e di risultati previsti. Mutano, di conseguenza, gli elementi costitutivi del parametro di legittimità, la cui identità è delineata dai principi, sempre più frequentemente richiamati anche da leggi recenti, che presuppongono e richiedono, da un lato, un'azione amministrativa finalizzata al raggiungimento di risultati e, dall'altro, che tali risultati siano perseguiti con il miglior uso possibile delle risorse disponibili. I principi di celerità, di snellezza del procedimento, di efficienza, di efficacia, di economicità, per citare solo quelli che con maggiore frequenza ed enfasi sono richiamati dalle norme, operano come canoni integrativi dei parametro di legittimità dell'azione amministrativa e richiedono, quindi, che il giudizio non sia soltanto un giudizio di corrispondenza (fra norma e atto), ma anche un giudizio di idoneità: sono i mezzi utilizzati idonei a produrre i risultati attesi? Su tali premesse possono essere esaminati i problemi riguardanti la giurisdizione amministrativa. V. Va subito precisato che la disciplina del processo amministrativo è semplice e adeguatamente chiarita dalla giurisprudenza dell'Adunanza plenaria delle Sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato, che offre, in pratica, quanto meno il vantaggio delle soluzioni definitive per le questioni processuali; soluzioni accettate, di massima, dal ceto forense che è, per sua natura, alieno dalle novità in materia di procedura, finché non si riesca a chiarirle. Invero, le esperienze delle iniziative di riforma del processo amministrativo, maturate negli ultimi decenni, non sono state positive, anche, se, con ogni possibile sforzo di sistemazione e di chiarimento, erano stati predisposti, in successive legislature, testi di legge di delegazione, in cui si lasciava la necessaria elasticità alla formulazione delle norme tecniche in sede di legislazione delegata. Del resto, è indubbio che, quando si opera nella materia del processo amministrativo, emergono preoccupazioni varie degli operatori che sarebbero chiamati ad applicare le nuove norme e degli apparati che vengono chiamati a rispondere dinanzi al giudice amministrativo. Ne discendono perplessità e dubbi, che, forse, sarebbero attenuati, se non eliminati, seguendo il metodo del miglioramento dell'esistente. Ciò, in quanto, i problemi della giustizia amministrativa non si risolvono optando senz'altro per altri tipi di processo, bensì optando, in partenza, per un indirizzo di semplificazione dell'esistente, che deve essere analizzato con cura, eliminando inutili ripetizioni, modellando gli atti processuali secondo quanto richiesto dalle rispettive funzioni e studiando forme di atti risultanti dall'utilizzazione anche testuale degli atti di parte, cui può seguire il provvedimento. Già alcune iniziative in tal senso erano state adottate nel corso delle precedenti legislature, peraltro senza esito. È auspicabile che le iniziative stesse siano rinnovate, con opportune modificazioni ed integrazioni suggerite da ulteriori approfondimenti. Si tratta di aggiustamenti a costo zero, già studiati in collaborazione tra tutti gli operatori del processo amministrativo e che, se fossero adottati nella sede propria legislativa, potrebbero realizzare una effettiva giustizia nell'amministrazione. Sempre a Costituzione vigente, potrebbe studiarsi la valorizzazione della giurisdizione c.d. esclusiva, razionalizzando il criterio di riparto delle giurisdizioni nel senso di una giurisdizione amministrativa per

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materie o, meglio, per settori organici di attività amministrativa. In tal senso va già il disegno di legge governativo che, con l'eliminazione dell'istituto arbitrale per le controversie in tema di opere pubbliche, attribuisce le stesse alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. Altra materia nella quale sarebbe auspicabile l'intervento del legislatore, ai fini della devoluzione alla giurisdizione esclusiva, sarebbe quella della responsabilità civile conseguente all'annullamento di atti amministrativi illegittimi. Si supererebbe, in tal modo, l'incomprensibile situazione, per la quale il giudice amministrativo è giudice della legittimità del provvedimento ma non delle conseguenze che l'illegittimità arreca alla sfera patrimoniale dell'interessato (i c.d. diritti patrimoniali conseguenziali). VI. Nella giurisdizione amministrativa il doppio grado è stato previsto in sede costituente insieme con il. potenziamento .dell'amministrazione locale, in modo da indirizzare, secondo la legalità e tenendo presenti le realtà locali, l'amministrazione decentrata. La giurisdizione locale, attingendo alle ricche esperienze disponibili ed acquisendo alla sua funzione le multiformi realtà dei luoghi in cui opera, è in grado di dare risposte esaustive alle dette istanze di giustizia e di fornire al giudice di appello, eventualmente adito, gli elementi idonei a fondarne le pronunce e, nello stesso tempo, ad arricchirne le esperienze, sia per le fatti specie acquisite che per gli approfondimenti compiuti. Si prospetta così un notevole sinergismo di azione tra i due gradi di giurisdizione che, in certo senso, supera la configurazione del secondo grado come controllo, configurando la giurisdizione amministrativa come manifestazione delle convergenze possibili a vari livelli e presa di coscienza di possibili sviluppi. Prospettive queste che, peraltro, esigono indagini estese fin dove sia consentito dalle occasioni offerte dall'accertamento giudiziale, proponendosi come meta quei chiarimenti di fondo che l'art. 44 T.D. 1054/1924 richiede espressamente, volendo una istruzione completa, che tutti dobbiamo sentire come doverosa per qualificare la nostra stessa funzione. VII. A questo punto viene in reale evidenza il rapporto tra giurisdizione amministrativa e amministrazione che, se adeguatamente studiato, può far emergere elementi più che positivi per l'esercizio della funzione di giustizia nell'amministrazione. I pubblici uffici che, secondo il fondamentale art. 97 Cost., debbono essere organizzati in modo da assicurare il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione, ed i pubblici impiegati, che sono al servizio della nazione, avrebbero già in se stessi, secondo i principi ora detti, gli elementi per amministrare secondo giustizia. Ma la realtà pone di fronte a non infrequenti deviazioni, dalle motivazioni più varie, che occorre correggere nella sede giudiziaria, non soltanto a tutela degli interessi dei cittadini ma a garanzia degli stessi apparati di potere, che il buon funzionamento conserva e la disfunzione erode, in quanto violenta le stesse strutture e crea precedenti negativi, che pesano. In questo quadro di insieme bisogna preoccuparsi, in primo luogo, pella trasparenza delle funzioni pubbliche - la giustizia nell' amministrazione, è stato già detto, si realizza anche attraverso la trasparenza - funzioni pubbliche che non si sovrappongono ma devono svolgersi in modo da consolidare il tessuto sociale; consolidamento possibile se il cittadino è posto in grado di intendere le motivazioni ed i temi dell'attività pubblica. Pertanto, una volta che il dissenso tra P.A. e cittadino sia pervenuto in sede giudiziaria, la prima forma di collaborazione tra chi ha operato e chi deve giudicare non può che consistere nella messa a disposizione di tutti gli elementi che sono alla base del provvedimento controverso (rif.to art. 211legge 1034/1971 in relazione all'art. 44 T.D. 1054/1924). Principio di trasparenza che può aiutare a chiarire, almeno in sede processuale, i reali limiti delle situazioni tutelabili, senza trascurare quanto di vero c'è nella situazione di interesse legittimo e, per converso, nella riserva di potere costituita dalla discrezionalità e dall'inazione. E ciò perché la trasparenza consente una vendica riconduzione alla legge, sia delle censure del cittadino che delle riserve dell' amministrazione. Nell'attuale stato delle cose bisogna rinverdire la concezione dell'attività amministrativa come esecuzione della legge e cercare di ricondurre realisticamente alla legge le manifestazioni della funzione amministrativa; ciò non nel senso - lo ripetiamo - di un vieto legalitarismo, bensì nel senso di attribuire le scelte a coloro che ne assumono la responsabilità negli atti legislativi ed esigere coerenza e trasparenza in chi deve attuarle secondo criteri che assicurino il buon andamento e l'efficienza dell' amministrazione. La trasparenza, poi, consente di pervenire dalla norma giuridica all'interesse tutelato, valutando la corrispondenza della interposta funzione pubblica ai fini della legge, alle limitazioni da questa consentite, alle valutazioni necessarie in sede di adattamento al fatto della regola, che può essere interpretata, mentre il fatto non può risultare alterato ma solo disciplinato dalla regola. VIII. I coefficienti di elasticità del sistema di giustizia amministrativa vanno potenziati e come ne hanno consentito sin qui la durata e, il più delle volte, il buon funzionamento, così risulteranno idonei nel presente e

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nel prossimo avvenire a dare ingresso alle nuove esigenze di trasparenza e partecipazione che, in definitiva, comportano che si faccia rivivere nella sede giudiziaria la formazione del provvedimento contestato, nelle sue premesse, nel suo modo di essere e nelle relative conseguenze. Si delinea così la funzione giudiziaria per quella che deve realisticamente essere in uno Stato moderno: non soltanto intesa alla formazione di una regolamentazione di interessi non più discutibile ma anche e, forse, soprattutto, luogo di chiarificazione, di razionalizzazione, di eliminazione dei dissensi, attraverso il confronto delle parti e la valutazione motivata dei rispettivi assunti da parte del giudice, terzo imparziale. Funzione del giudice che, avendo riguardo agli effettivi contenuti della giustizia amministrativa, eccede i limiti del rapporto processuale, perché la parte pubblica sta in giudizio come rappresentante di interessi di comunità più o meno estese, sicché il giudice ben conosce che, risolvendo la controversia, emette una pronuncia che può avere effetti non facilmente delimitabili nel presente e nell'avvenire, perché è la natura stessa dell'interesse sul quale si è pronunziato, che va oltre la sfera intersoggettiva. In questo senso si può precisare il significato di quello che sembra un modo di dire e cioè che, nel campo della giustizia amministrativa, giudicare è amministrare o, almeno, è anche amministrare. In questa stessa prospettiva vengono attribuite al Consiglio di Stato funzioni di alta amministrazione, anche considerando la sua posizione di giudice di appello, che comporta la risposta conclusiva alle istanze delle parti. Risposta che può essere tanto più aderente alle istanze dopo la istituzione dei Tar, che consente più immediati confronti tra pubblico e privato, alle varie dimensioni dell'uno e dell'altro: confronti che, se si arriverà ad apprestare mezzi idonei per rapide soluzioni, potranno non poco migliorare l'ordinamento dell' amministrazione. IX. L'indagine giudiziaria, quindi, non può ritenersi esaurita nell'accertamento di conformità a legge, come è stato da noi detto fin dal momento in cui siamo nati come giudici e come abbiamo sopra precisato. Già le prime sentenze della appena istituita IV Sezione si occupavano della violazione dello spirito della legge e, in anni a noi più vicini, l'eccesso di potere era qualificato (Benvenuti) come vizio della funzione, esprimendo in tal modo una significativa tendenza alla visione globale del problema dell'atto sottoposto a controllo giurisdizionale. Ci si può domandare, perciò, che cosa significhi attualmente la tripartizione tradizionale dei vizi di legittimità e forse la risposta immediata è nel senso che essi reciprocamente si integrano e si illuminano. Si spiega così quella giurisprudenza più liberale che già da tempo ricerca i motivi del ricorso anche nell'esposizione del fatto, che potrebbe in ogni caso contenerli, dato che le deviazioni non sono di per se stesse adatte alla tipizzazione ma, piuttosto, è la tipizzazione che deve essere intesa come affinamento di esperienze che aiuta a cogliere la malizia e l'abuso, esprimendoli, poi, in termini tali da essere riconducibili a forme che consentano l' applicazione delle misure sanzionatorie. In tal modo il giudizio amministrativo esprime una tensione alla ricostruzione della verità non minore di quella che si riscontra nel giudizio penale. E la ricerca ufficiosa delle prove esprime questa realtà di fondo, che la necessaria articolazione dei motivi non nega, tanto più se si considerano, da un lato, i temperamenti della giurisprudenza e, dall'altro, le garanzie che derivano per le parti dalle precisazioni che i motivi contengono, delimitando sostanzialmente causa petendi e petitum, consentendo un contraddittorio adeguato e vincolando il thema decidendum. Prospettive queste ancora più valide nello attuale sistema di giustizia amministrativa decentrata, poiché l'indirizzo formalistico spesso si associa, come già accennato, all'accentramento del potere mentre il colloquio, che il decentramento favorisce, consente la rilevazione delle istanze, il confronto delle opinioni, l'arricchimento dei metodi. E se è giunto il momento di rivisitare i nostri modi di essere e, forse, di esprimersi, con opportuni effetti anche sull'andamento dell'amministrazione, sarà necessario articolare la nostra azione per materie, utilizzando nel modo più produttivo possibile ogni occasione di intervento, alla luce, nello stesso tempo, dei precedenti e delle novità che si presentano, evidenziando i possibili rimedi. I vizi di legittimità, dunque, vanno anch'essi ricostruiti, in una visione realistica che, senza negare il bene fondamentale della certezza del diritto e gli equilibri politico-costituzionali che ne derivano, risalga ai modi in cui sono stati introdotti nel nostro ordinamento dall'opera mirabile e, nello stesso tempo, prudente, dello Spaventa, che seppe articolare l'istanza costituzionale di giustizia nell'amministrazione, attraverso un sapiente uso della fase giurisprudenziale, espressa in una tensione verso il fine di giustizia, attraverso il riferimento allo spirito della legge. La storia è nota ed è sempre viva, specialmente ora che la congiuntura politico-costituzionale ci presenta una legislazione non agevolmente riconducibile a sistema ma che, proprio perciò, dobbiamo ancora più approfondire. Infatti il compito del consulente e del giudice non è quello di pervenire a ricostruzioni che soddisfino esigenze di simmetria, speculiarità, rispondenza a parametri di valutazione più o meno noti, bensì a soluzioni rispondenti ad istanze di giustizia e di buon andamento dell'amministrazione.

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Ritorna qui l'esigenza fondamentale - da noi già segnalata - di un adeguato approfondimento dei fatti, delle relative cause ed effetti, a cominciare dalle istanze cui i provvedimenti legislativi possono aver risposto, in modo da aver ben presenti le finalità che lo stesso legislatore - Governo e/o Parlamento - ha voluto perseguire, stabilendo fin dove arrivano le insindacabili scelte del legislatore e quali siano stati i mezzi tecnici di espressione della risposta politica, in modo da poter correttamente operare, senza arbitrarie estrapolazioni, nel senso di ricondurre il diritto al fatto. Opera di riconduzione da compiere approfonditamente già in prima istanza, dove il confronto nel processo è immediato, non essendovi stato ancora il filtro della prima sentenza. L'esperienza, ormai secolare, dell'eccesso di potere potrà essere di non piccolo aiuto, specie dopo che parecchie forme individuate dal giudice amministrativo, trovano corrispondenza in fondamentali principi della Costituzione, a cominciare dall'eguaglianza di fatto. Principio quest'ultimo la cui diffusa applicazione, su iniziativa dei giudici remittenti, avverte ancora una volta che il tema di fondo della fase giudiziaria è il fatto, nel cui ambito sorge la controversia, anche se spesso motivata da contrastanti interpretazioni delle norme; interpretazioni discordi, a loro volta dovute spesso ad una difettosa o parziale identificazione dei fatti, che richiede la chiarificazione da parte del giudice. Eccesso di potere che si atteggia oggi, sempre più, quale vizio, più che dell'atto o provvedimento, della stessa attività amministrativa, anche in quanto questa si discosta dai parametri di efficienza stabiliti dalla norma. X. Sin qui si sono esaminati elementi di varia natura, rilevanti per la conoscenza della situazione del Consiglio di Stato e dei Tar nell'ordinamento attuale, che trova la sua fonte nella Costituzione del 1948. La risposta ad. una forte istanza. garantistica, in polemica con l'ordinamento precedente, che aveva attenuato la tutela giurisdizionale, portò i Costituenti ad una solenne riaffermazione della omnicomprensività del ricorso al giudice come diritto fondamentale del cittadino (art. 24), con le articolazioni tecniche (art. 113), che le esperienze maturate nel ventennio precedente consigliavano come strumenti idonei a rafforzare il diritto ad agire in giudizio anche nei confronti della P.A. Questa prospettiva di omnicomprensività e di effettività di tutela giudiziaria non ha mancato di influire sugli orientamenti della giurisprudenza quanto all'ammissibilità dei mezzi di tutela, ma, quanto ai contenuti si sono conservati gli orientamenti tradizionali che, del resto, la stessa Costituzione aveva recepito, mantenendo come criterio di ripartizione delle giurisdizioni la bipartizione delle situazioni giuridiche in diritti soggettivi ed interessi legittimi. Sono ormai passati quasi cinquant'anni dall'entrata in vigore della Costituzione, la legislazione ha protetto o sacrificato gli interessi più vari, lo stesso interesse pubblico, specie per effetto delle direttive comunitarie, è stato affiancato, sul piano degli interessi di dimensione ultraindividuale, dagli interessi del mercato comune; per non dire dell'ampia problematica degli interessi diffusi e delle iniziative di minoranze attive. Pertanto, chi si propone di cogliere sul piano della effettività e nella sua interezza l'oggetto della giustizia amministrativa, deve allargare - lo ribadiamo - il campo di osservazione e considerare le leggi e le altre norme che regolano l'esercizio dell'attività pubblica, gli effetti che questa attività ha prodotto nei confronti dei suoi destinatari, le iniziative di base che hanno assunto rilievo a livello comunitario o sub-statale: tutto ciò al metro di precetti che formano ordinamenti giuridici tra loro variamente coordinati ma dai quali derivano ineludibili istanze di giustizia cui bisogna dare una risposta. Istanze che per quanto interessano il giudice amministrativo non solo tendono verso l'annullamento dell'atto illegittimo ma chiedono anche reiteratamente misure ripristinatorie. Cos'altro è la reiterazione delle istanze di esecuzione del giudicato se non la testimonianza di una tensione verso la realizzazione di una attività amministrativa conforme alle norme individuate e implementate dalla pronuncia da eseguire? In breve, l'indagine del giudice amministrativo ha a suo oggetto la funzione pubblica e trae occasione dalle iniziative di coloro che se ne ritengono danneggiati ingiustamente, avendo come parametri di riferimento i principi e le norme valide dinanzi al giudice secondo fonti di legittimazione che tendono a moltiplicarsi; norme, che solo uno sforzo di astrazione ha potuto inglobare nelle c.d. norme di azione, mentre, in realtà, segnano la legittimazione all'attività amministrativa ed i relativi limiti, con ciò stesso regolando le relazioni tra amministratori e amministrati. XI. L'ulteriore problema, costituito dall' assetto ordinamentale della giustizia amministrativa, è il più delicato;poiché da esso dipende, in larga misura, la rispondenza del sistema alle aspettative del paese. Al centro è il Consiglio di Stato, con la sua duplice funzione,consultiva e giurisdizionale; entrambe trovano il loro fondamento nella Costituzione repubblicana (artt.100 e 103). In attuazione dell'art. 125 Cost., con legge 6 dicembre 1971 n. 1034, sono stati istituiti i Tribunali amministrativi regionali. La creazione dei nuovi organi, con funzioni giurisdizionali, ha risposto ad un'esigenza vivamente avvertita, ha esaudito una domanda di. giustizia, fino ad allora inappagata. Si è trattato di una vera e propria riforma di struttura, che ha inciso profondamente sui rapporti tra cittadino e pubblica amministrazione. I Tar svolgono

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con impegno e adeguato risultato un valido servizio a tutela del cittadino e della stessa Amministrazione. Una riflessione sul detto assetto si presenta quasi spontanea in relazione all'ampio dibattito oggi in corso circa la forma di Stato, che potrà essere scelta. Una struttura, in cui, come si auspica, troveranno la più ampia realizzazione le autonomie locali, richiederebbe, forse, l'articolazione della giurisdizione, alla base, tra i Tribunali regionali e, come in altri ordinamenti europei, Corti amministrative di appello, in numero di tre o quattro, con competenza pluriregionale, con ricorso, poi, al Consiglio di Stato per motivi di legittimità. Le competenze degli organi di giustizia amministrativa, proprio in relazione alla diversa struttura dello Stato, potrebbero essere meglio individuate e precisate. XII. Un'ultima parola, sugli uomini. Il personale di magistratura, con tutti i collaboratori, pure tra tante difficoltà, adempie con onore le proprie funzioni. Si tratta di personale di elevata professionalità, che accede ai Tar, attraverso un concorso di secondo grado molto selettivo, ed al Consiglio di Stato, oltre che dagli stessi Tar e dalla nomina esterna, anche attraverso il vaglio di una prova, che - come ricordava a suo tempo il Presidente Papaldo – “ancor oggi, abbiamo l' orgoglio di dirlo, è la più severa fra quante gli ordinamenti statali e non statali ne conoscano”. Alla luce di una nobile tradizione e con l'apporto determinante di questi uomini, il Consiglio di Stato ed i Tribunali amministrativi regionali sapranno svolgere anche in futuro il proprio ruolo di garanzia, al servizio, come sempre, delle Istituzioni e del Paese.

Alberto De Roberto 27 settembre 2001 1. - Signor Presidente della Repubblica, a nome di tutta la Magistratura amministrativa e mio personale, La ringrazio per avere, con la Sua presenza, conferito particolare solennità a questa cerimonia Un vivo ringraziamento ai rappresentanti del Senato e della Camera e al Presidente del Consiglio dei Ministri al quale sono grato anche per le lusinghiere espressioni che ha voluto rivolgere all’Istituzione che rappresento e alla mia persona. Ringrazio pure vivamente i Ministri qui presenti e fra questi in particolare - consentitemelo - il Ministro Franco Frattini che abbiamo l’orgoglio di annoverare tra i nostri più valorosi colleghi. Un sentito saluto al giudice costituzionale, espresso dal nostro Consesso, chiamato a rappresentare il Presidente e ai Presidenti e Vice Presidenti emeriti della Corte Costituzionale che ci hanno onorato con la loro presenza. Un sentito ringraziamento ai Presidenti delle commissioni parlamentari e ai Sottosegretari presenti in questa sala. Un grato saluto al rappresentante del Vice Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura. Un ringraziamento fervido al Primo Presidente della Corte Suprema di Cassazione e agli altri vertici, qui presenti, della Magistratura ordinaria, dalle cui file mi onoro di provenire, al Presidente della Corte dei conti e ai rappresentanti della Magistratura militare presenti in questa sala. Grazie, vivamente, anche agli illustri rappresentanti delle Autorità indipendenti. Ringrazio sentitamente il Sindaco di Roma e tutte le altre alte autorità politiche, civili e militari convenute in questa sala di Pompeo. Un vivo omaggio ai rappresentanti del mondo accademico e del Foro: sia di quello che svolge il suo patrocinio per le amministrazioni pubbliche (in primo luogo l’Avvocatura dello Stato qui presente con l’Avvocato generale) sia del libero Foro rappresentato, in questa aula, dai Presidenti del Consiglio nazionale forense e dell’Ordine degli avvocati di Roma. Un vivissimo grazie anche al Presidente dell’Unione degli avvocati europei. La nostra giurisprudenza si sviluppa sollecitata dalle tesi difensive dei valorosi patroni e trova, poi, collocazione nel sistema ad opera di una dottrina, di grande prestigio e tradizione, sempre attenta ai nostri indirizzi sostanziali e processuali. Un vivissimo augurio di buon lavoro ai componenti del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa. Un grato e affettuoso saluto a tutti i Colleghi del Consiglio di Stato e dei Tar in servizio e a riposo: le relazioni di affettuosa amicizia con questi ultimi non si attenuano ma, anzi, si rafforzano quando il servizio attivo viene a conclusione. Saluto ancora con gratitudine ed affetto tutto il personale amministrativo e le organizzazioni sindacali che lo rappresentano.

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Un devoto omaggio vorrei indirizzare anche ai tre Presidenti emeriti dell’Istituto: Gabriele Pescatore, Giorgio Crisci e Renato Laschena, ai quali ho sempre guardato con profonda ammirazione ed affetto. Consentitemi - a testimonianza del mio stato d’animo in questo momento - la sola evocazione del ricordo, forse, più antico tra i molti che affollano la mia mente: la discussione della mia tesi di laurea nel 1952, nell’Università di Roma, avendo come relatore il giovane professore Gabriele Pescatore. Da ultimo un grazie vivo e forte a tutti quelli - a cominciare da mia moglie e dai miei figli - che hanno voluto stringersi intorno a me in questa giornata nella quale ho la ventura di insediarmi al vertice di una struttura prestigiosa a servizio della quale ho profuso ogni energia: una struttura che ho amato ed amo nella quale sono entrato or sono quaranta anni quando molti dei miei giovani, valorosissimi colleghi - inesauribile linfa che alimenta l’Istituto - non erano ancora nati. 2. - Come già è avvenuto in precedenti cerimonie l’insediamento del Presidente del Consiglio di Stato costituisce, in un Istituto come il nostro, assai “parco di riti”, il momento più adatto per dare conto di quanto è avvenuto negli ultimi tempi nell’area della giustizia amministrativa e per rappresentare - senza indebite invasioni di campo - i problemi più pressanti avvertiti dal Consiglio di Stato e dai Tar (due istituzioni che si inseriscono in un unico, indivisibile plesso). 3. - I punti di maggior rilievo sui quali vorrei richiamare l’attenzione sono i seguenti: a) l’attribuzione alla giurisdizione amministrativa di ulteriori materie; b) la modificazione delle competenze del Consiglio di Stato in sede consultiva; c) i nuovi tratti della organizzazione della Magistratura amministrativa (comprese talune rilevanti innovazioni riguardanti l’Organo di autogoverno). 4. - Va fatto cenno, anzitutto, al nuovo campo di azione assegnato alla giurisdizione amministrativa : una giurisdizione che, con la istituzione, negli anni 70, del giudice di primo grado distribuito su tutto il territorio, è venuta rispondendo, assai più che in passato, alle richieste di giustizia della collettività. Recenti disposizioni hanno conferito ulteriori attribuzioni al giudice amministrativo facendo leva sulla norma costituzionale (art. 102 Cost.) che consente di estendere la giurisdizione amministrativa anche a controversie che non coinvolgono interessi legittimi (e di intervenire, perciò, anche al di là delle liti suscitate dall’esercizio del potere): un ampliamento giurisdizionale che è stato accompagnato dalla sottrazione al giudice amministrativo di larga parte del pubblico impiego. A) Si tratta, in primo luogo, di ambiti nei quali la P.A., per la cura degli interessi pubblici, non agisce in via autoritativa o nei quali, addirittura, la cura degli interessi pubblici - secondo nuovi modelli (spesso di ispirazione comunitaria) - resta affidata a soggetti privati non riconducibili tra le tradizionali strutture dell’amministrazione pubblica. Con possibilità, perciò, del radicarsi, innanzi al giudice amministrativo, di controversie intercorrenti (almeno in apparenza) tra soggetti privatistici. Restano attratte, in questo primo gruppo, le liti con le quali si denuncia la inosservanza delle norme di evidenza pubblica in tema di scelta del contraente da parte dei soggetti, anche privati, tenuti a conformarsi ad esse. Sono da ricondurre in questo novero anche le controversie in tema di servizi pubblici (un campo di intervento di sempre più ampia estensione nella fase che caratterizza, oggi, l’ordinamento). Anche in questo caso sussiste l’interesse pubblico all’organizzazione e alla gestione del servizio ma gli strumenti adoperati non sono, di regola, autoritativi ma di diritto comune e le figure soggettive chiamate allo svolgimento del servizio si iscrivono, assai spesso, tra i soggetti privati e non nell’organizzazione amministrativa (anche intesa nell’accezione più lata del termine). B) Diversa, invece, la ratio della attribuzione alla giurisdizione amministrativa di un secondo gruppo di controversie: quelle in tema di risarcimento del danno provocato dall’atto illegittimo. L’obiettivo perseguito dalla legge, in questa seconda ipotesi, è quello di ottenere la concentrazione in un’unica sede (la giurisdizione amministrativa) dell’impugnativa dell’atto illegittimo e dell’azione di risarcimento dei danni (ripartite, fino a ieri, tra giudice amministrativo e giudice ordinario). Un contenzioso, si noti, quello di carattere risarcitorio, che concerne, d’ora innanzi, il ristoro delle lesioni prodotte, oltrechè ai diritti soggettivi anche agli interessi legittimi quando questi ultimi interessi non riescano ad ottenere “fisiologica” tutela insieme all’interesse pubblico. (v. sent. n. 500 del 1999 delle S.U. Cassazione). 5. - Anche l’attività consultiva del Consiglio di Stato è stata interessata da importanti innovazioni. La legge n. 127 del 1997 ha proceduto, anzitutto, alla soppressione di tutte le ipotesi di consultazione obbligatoria del Consiglio di Stato previste dalla legge ad eccezione di tre casi dei quali si dirà. Sembrò - all’indomani della emanazione della legge - troppo drastica la norma che sottraeva al Consiglio di Stato larga parte delle sue competenze obbligatorie.

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Il trascorrere del tempo sta, però, dimostrando che la nuova disciplina non manca di aspetti positivi. Non solo si ottiene, in questo modo, il perseguimento dell’obiettivo della semplificazione dei procedimenti amministrativi ma si consente, pure, al Consiglio di Stato di concentrare il suo impegno, in sede consultiva, solo su questioni di particolare spessore. I pareri obbligatori restati in vita sono quelli richiesti in relazione alla normativa statale regolamentare (regolamenti governativi e ministeriali), agli accordi-tipo e al ricorso straordinario. A) Per quel che concerne i regolamenti, il Consiglio di Stato - anche per la formazione e l’esperienza dei suoi membri - è in condizione di offrire, insieme alla segnalazione di eventuali illegittimità, un rilevante contributo alla “essenzializzazione” e chiarezza della normativa. Alla stessa logica si ispira la regola che prescrive il parere obbligatorio del Consiglio di Stato a proposito dei testi unici in vista della sistemazione, in un quadro organico, di norme disordinate ed ambigue. Sempre con riguardo ai testi unici va ricordato che il Consiglio di Stato può venire chiamato dal Governo anche all’espletamento di incombenze più incisive: non più la espressione del solo parere ma la diretta elaborazione del testo unico. Un recente apporto del Consiglio di Stato in questa direzione è stato quello con il quale si è proceduto alla redazione del testo unico in tema di espropriazione per pubblica utilità, emanato con decreto del Presidente della Repubblica n. 327 di quest’anno (pubblicato nella G.U. dello scorso 16 agosto). Per affrontare i non facili compiti assegnati al Consiglio di Stato nel settore normativo è stata istituita dalla legge n. 127 del 1997 (come auspicato, cinquant’anni prima, dalla commissione Forti) una apposita sezione consultiva - la sezione per gli atti normativi - alla quale è stato affidato il compito di esprimere pareri sugli atti che contengono norme generali ed astratte. Risultano espressi, a partire dal 1997 (l’anno di istituzione della Sezione normativa), n. 1.150 pareri sempre nel rispetto dei termini di legge (trenta o quarantacinque giorni). B) L’esigenza di conseguire una attenta valutazione tecnico-giuridica da parte del Consiglio di Stato è alla base anche della norma che sancisce la necessità del parere obbligatorio in relazione alle convenzioni-tipo (e altri provvedimenti similari). Si tratta, in questo caso - come per i regolamenti - di atti destinati ad operare in via permanente nell’ordinamento ponendosi quali vincolanti parametri di riferimento per le singole, specifiche convenzioni che dovranno essere stipulate. C) La conservazione, infine, del parere obbligatorio sul ricorso straordinario si è posta quale soluzione inevitabile al nostro legislatore intenzionato a mantenere in vita tale ricorso che diventerebbe tutt’altra cosa senza il parere del Consiglio di Stato che si pone come il nucleo centrale e insurrogabile della relativa procedura. 6. - Resta, naturalmente, in vita la consultazione facoltativa del Consiglio di Stato della quale possono avvalersi le autorità governative statali, le Autorità indipendenti e - secondo una interpretazione risalente nel tempo - anche le Regioni (Cons. di Stato Ad. gen. 24.4.1980 n. 30). 7. - Il Consiglio di Stato è, dunque, affidatario di due distinte attribuzioni: quella giurisdizionale e quella consultiva. Le due funzioni risultano garantite costituzionalmente e il Consiglio di Stato, proprio per la congiunta attribuzione di tali competenze, assume, nell’ordinamento, la peculiare configurazione di organo consultivo e giurisdizionale, (configurazione, questa, comune a molti dei Consigli di Stato europei). Si è dubitato - ma credo a torto - della “accostabilità” della funzione consultiva a quella giurisdizionale. Non sembra, invero, possa essere messo in discussione che il Consiglio di Stato - anche quando si esprime in sede consultiva - operi come soggetto in posizione di neutralità e indipendenza, espressione dello Stato-ordinamento e non dello Stato-apparato. Un dato, quello della indipendenza e neutralità del Consiglio di Stato anche nella sede consultiva, che ebbe a manifestarsi sin dall’indomani dell’emanazione dello Statuto albertino quando il Consiglio - abbandonato il compito primigenio, espletato nello Stato assoluto, di consigliere del Sovrano - conquistò il nuovo, diverso ruolo di organo chiamato ad esprimere al Governo e all’amministrazione, in termini di oggettivo distacco, la corretta lettura della normativa da applicare. È egualmente certo che l’esercizio della funzione consultiva non influisce sull’autonomia di giudizio del Consiglio di Stato in sede giurisdizionale. Ne è conferma la congiunta attribuzione della funzione consultiva e giurisdizionale al Consiglio di Stato a livello costituzionale da parte dell’Assemblea costituente, strenua paladina, quest’ultima, della terzietà e indipendenza del giudice.

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8. - Si è giunti, così, al terzo ed ultimo punto sul quale vorrei richiamare l’attenzione: la rassegna, in ordine sparso, delle più rilevanti vicende che hanno interessato, ed interessano, anche sul piano normativo l’ordinamento e l’organizzazione della giustizia amministrativa. A) Farei cenno, anzitutto, alla nuova composizione del Consiglio di presidenza. La legge n. 205 del 2000 - innovando al precedente assetto - prevede che facciano parte del Consiglio di presidenza, insieme ai componenti togati (i soli presenti nel precedente Consiglio), anche quattro personalità espresse dal Parlamento tra professori ordinari di materie giuridiche e avvocati con almeno venti anni di esercizio professionale. Va salutata con viva soddisfazione questa modifica che innesta nel collegio eminenti personalità espresse non dal corpus giudiziario ma dalla società civile. B) Per quel che riguarda i componenti della Magistratura amministrativa debbo rilevare, con orgoglio, che di essa fanno parte Magistrati del Consiglio di Stato e dei Tar che si distinguono per l’elevato grado di professionalità, per l’alto senso dell’indipendenza e per il forte impegno nell’espletamento del loro lavoro. La legge n. 205 del 2000 ha preannunciato un generale riordino della Magistratura amministrativa. Siamo, dunque, in una fase che pare preludere ad iniziative rivolte ad assicurare un assetto nel quale il legislatore dovrà rafforzare l’unità della Magistratura amministrativa, garantendo, con l'individuazione di rigorosi criteri selettivi, la conservazione di quell’alto livello qualitativo che l’ha immancabilmente contraddistinta. C) Sempre con riguardo alla Magistratura amministrativa debbo pure sottolineare con soddisfazione che (come è avvenuto, d’altra parte, anche in passato) presso gli Organi costituzionali e gli uffici di diretta collaborazione del Presidente del Consiglio dei Ministri e dei Ministri sono stati chiamati - in considerazione della loro alta professionalità ed esperienza - magistrati del Consiglio di Stato e dei Tar. La nuova versione impressa, in sede di conversione, all'art. 13 del D.L. n. 217 di quest'anno pare avere realizzato – anche alla luce della interpretazione che si è affermata nel Consiglio di presidenza - un equilibrato contemperamento tra esigenze della istituzione giudiziaria e quelle del Governo. D) Debbo ancora ricordare sul piano organizzativo lo sforzo che si è fatto e si sta facendo al fine di incrementare il livello della informatizzazione della giustizia amministrativa. In questa linea si colloca la progettata realizzazione di un nuovo sistema informatico che - oltre a facilitare l'attività dei magistrati e del personale amministrativo - consentirà di trasmettere e ricevere documenti attraverso la rete, dando vita, così, alla creazione di veri e propri fascicoli “virtuali”, anche nella prospettiva di un futuro processo telematico. Risulta già da oggi in funzione qualche segmento del nuovo sistema che costituisce anticipazione di quanto dovrà essere realizzato: le nostre decisioni, contestualmente alla loro pubblicazione, sono rese disponibili nella rete Internet e divengono, perciò, immediatamente accessibili a chiunque sia interessato a conoscerle. Sono pure disponibili in rete i dati pubblici relativi ad ogni ricorso, i calendari delle udienze e delle camere di consiglio. E) Altro punto che merita di essere segnalato è quello concernente l’arretrato giurisdizionale. Non posso, non ricordare che secondo dati statistici, ai quali è stata data ampia diffusione anche sulla stampa, risultano pendenti oltre 900.000 ricorsi presso i Tar e quasi 27.000 ricorsi presso il Consiglio di Stato. Un arretrato che è venuto accumulandosi in quasi trent’anni, in conseguenza della istituzione del primo grado che ha comportato per la più agevole accessibilità alla tutela giurisdizionale, una estensione di ampie proporzioni del contenzioso. Occorre, però, rilevare che, da qualche tempo a questa parte, l’arretrato non è più esposto a quella progressiva crescita che l’ha caratterizzato negli anni passati. Una flessione, pur se limitata, dei ricorsi in entrata si sta producendo, anzitutto, per effetto della sottrazione alla giurisdizione amministrativa del pubblico impiego pur se accompagnata dal conferimento di nuove e più complesse materie. Si lascia cogliere, anzi, qualche incoraggiante sintomo che consente di confidare sul raggiungimento a breve di un pareggio tra ricorsi in entrata e ricorsi in uscita e, in prospettiva, su di una, pur se limitata, riduzione dell’arretrato. Concorre al prodursi di tale risultato - insieme alla perdita del contenzioso del pubblico impiego di cui si è detto - la più alta produttività manifestatasi, da qualche tempo, per la sempre più larga utilizzazione degli strumenti informatici e delle misure di accelerazione e semplificazione del processo di cui alla legge n. 205 del 2000 (sentenze brevi, provvedimenti presidenziali etc.). Già ora i ricorsi in entrata e quelli decisi dal Consiglio di Stato si bilanciano e quattordici Tar hanno evaso, nei primi mesi del 2001, un numero di ricorsi pari e, in qualche caso, superiore a quello dei ricorsi introitati.

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Occorre, però, riconoscere che l’arretrato pregresso è di tali dimensioni da rendere impossibile la sua eliminazione in tempi ragionevoli con le nostre attuali forze. Una delle strade (ma non la sola) alla quale può pensarsi per tentare di avviare a soluzione il problema è quella della istituzione delle sezioni stralcio investite del compito di definire l'arretrato meno prossimo: soluzione, quest’ultima, enunciata in un decreto legge della scorsa legislatura, non convertito, che, il Governo sembrerebbe intenzionato a riproporre come disegno di legge. F) Debbo, infine, far presente al Governo la pressante esigenza della giustizia amministrativa di poter confidare su più adeguate risorse per provvedere, nella sua autonomia, alla organizzazione della struttura e all’espletamento dei compiti che le sono stati assegnati. Tra i vari problemi si pone, oggi, con particolare urgenza quello concernente alcune sedi di tribunali amministrativi divenute, col tempo, del tutto insufficienti. 9. - Signor Presidente della Repubblica, quello fin qui esposto è il sistema di giustizia amministrativa del nostro Paese: un sistema nel quale si saldano insieme - com’è sempre avvenuto nella nostra storia - momenti di continuità con il passato e aspetti di profonda innovazione. Dapprima il solo Consiglio di Stato e poi, dagli anni settanta, il Consiglio di Stato e i Tribunali amministrativi hanno svolto e svolgono insieme un’accorta azione d’intellezione, di raccordo sistematico, di armonizzazione, nell’interpretazione delle norme vigenti in vista di assicurare la giustizia nella amministrazione e la tutela del cittadino. Da questo splendido palazzo Spada di cui andiamo giustamente fieri, la Magistratura amministrativa Le esprime, Signor Presidente, per il mio tramite, il suo impegno ad assolvere, con spirito di servizio, tutti i compiti che l’ordinamento le ha assegnato.

CORTE DEI CONTI Raffaele Rossano 21 ottobre 1970 Eminenza, Eccellenze, Signori, Colleghi carissimi… rivolgo il mio grazie vivissimo alle illustri personalità intervenute, che con la loro presenza a questa adunanza delle sezioni riunite - la prima che la Corte tiene dopo la mia assunzione dall'Ufficio di Presidente - hanno voluto compiere un atto di simpatia e di cordiale apprezzamento nei riguardi dell'Istituto. In particolare saluto e ringrazio il Governo, assi sensibile nell'avere avvertito - tra ,le primissime cure dopo la sua costituzione - l'indilazionabilità di dare alla Corte il Presidente, carica che ormai da vari mesi era rimasta vacante. E mi sia consentito, a questo proposito, aggiungere che è motivo di soddisfazione per tutto l'Istituto il fatto che la scelta del Governo si sia orientata per una soluzione all'interno della stessa Corte, il che - al di là della mia persona - risponde ad un principio saggio ed opportuno. Il mio ringraziamento e il mio saluto vanno all'Eminentissimo Cardinale Dell'Acqua, Vicario di Sua Santità, al Signor Presidente e ai Signori Giudici della Corte costituzionale, al Vice Presidente del Consiglio superiore della Magistratura, agli insigni rappresentanti delle Supreme Magistrature ordinaria e speciali, del Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro, dell'Avvocatura generale dello Stato, alle Autorità civili e militari, agli ordini forensi. Un caldo saluto a Voi, carissimi colleghi, magistrati ed impiegati della Corte, saluto tanto più affettuoso e sentito perché proviene da un magistrato che nella Corte ha vissuto e la Corte ha servito per più di 44 anni. Non è soltanto per rispetto alla tradizione che a questo punto io desidero rivolgere un affettuoso pensiero a coloro che mi hanno preceduto nell'ufficio di Presidente della Corte, uomini insigni - tutti - che hanno onorato la Corte e che la Corte ricorda. Risponde a un mio intimo sentimento di devoto apprezzamento e di gratitudine - e sono certo di interpretare l'unanime sentire della Corte - ricordare qui, per tutti, Ferdinando Carbone, eletta figura di magistrato che per oltre tre lustri ha retto l'Istituto con ingegno, saggezza e dignità. Quale decano della Corte, è toccato a me, mesi or sono, quando Egli lasciò l'Istituto por raggiunti limiti d'età, porgere a Ferdinando Carbone il riconoscente saluto della Corte, saluto che mi è assai gradito rinnovare

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oggi. Le brevi parole che sto per dire hanno, in certo senso, il sapore del commiato, essendo non lontano il giorno in cui lascerò l'ufficio di Presidente perché anche io raggiunto dai limiti d'età. Pur se, breve, sarà, dunque, il periodo della mia presidenza, credo di non potermi esimere dal dovere di soffermarmi, sia pure in rapida rassegna, su taluni dei fondamentali problemi, tuttora aperti, che si riconnettono alle funzioni della Corte. Desidero dire che, dal mio canto, io farò il possibile per avviarli a soluzione, certo di contare sulla fattiva, appassionata collaborazione di tutti gli appartenenti alla grande famiglia del nostro Istituto. Le funzioni di questa Suprema magistratura di controllo sono di grande rilievo; sono funzioni che stanno a base della vita dello Stato e che trovano espresso riconoscimento ed esaltazione nella Costituzione della Repubblica. Il controllo è funzione tipica, istituzionale della Corte: controllo esterno, pubblico, indipendente, con connotati propri e con carattere d'insostituibilità, attraverso cui la Corte assicura, per mandato costituzionale, la legalità e la regolarità dell'attività governativa, segnatamente della gestione del bilancio, e che trova il momento conclusivo dell'annuale giudizio sul rendiconto generale dello Stato e nella contestuale relazione con cui, a norma della Costituzione, la Corte riferisce al Parlamento sui risultati del riscontro eseguito. Funzione, dunque, di garanzia obiettiva dell'integrità dell'ordinamento giuridico e, nello stesso tempo, di cooperazione, in posizione d'indipendenza, nei confronti del Parlamento. Funzione - è da aggiungere - da che va oltre l'ambito dall'attività governativa o della gestione del bilancio dello Stato, giacché alla Corte è demandato il controllo sulla gestione finanziaria degli enti sovvenzionati dallo Stato e, quindi, anche sui risultati di esso la Corte riferisce periodicamente al Parlamento, come pure al Parlamento vengono comunicate, organicamente riassunte, le relazioni rese dalla Corte agli organi legislativi delle Regioni a statuto speciale, a conclusione del controllo esercitato sugli atti e sulla gestione delle Regioni stesse. L'accenno fatto alle Regioni a statuto speciale richiama un problema che è divenuto attuale a seguito dell'integrale attuazione dell'ordinamento regionale e di cui a me sembra doveroso qui parlare: si tratta del controllo sugli atti delle regioni a statuto ordinario. Sappiamo che per le Regioni a statuto speciale, fatta eccezione della Valle d'Aosta, detto controllo è demandato alla Corte dei conti, mentre per le Regioni a statuto ordinario la legge 10 febbraio 1953, n. 62, prevede il controllo amministrativo di apposita Commissione della quale fa parte, tra gli altri componenti, un magistrato della Corte. Sull'adeguatezza del sistema stabilito dalla predetta legge sono sorte - è noto -non poche perplessità che Iarga eco hanno trovato non soltanto in studi e dibattiti, ma anche in sede parlamentare, come è reso palese, tra l'altro, da un disegno di Iegge della cessata legislatura e dalla relazione allo stesso unita. Si tratta, invero, di considerare se il controllo sugli atti di enti - come le Regioni - dotati di autonomia legislativa possa essere devoluto a un organo che di per sé, per la sua stessa promiscua composizione, non ha il. carattere di neutralità o se, piuttosto, ai fini di garantirne l'esercizio esclusivamente sul piano di obiettivi criteri, e quindi in funzione di tutela dell'ordinamento, non sia meglio aderente al sistema costituzionale (e vorrei richiamarmi espressamente all'art. 125 della Costituzione) prevedere, anche per le Regioni a statuto ordinario, il controllo esterno, pubblico, indipendente, affidato così come è per lo Stato e per le Regioni a statuto speciale, all'organo di antica tradizione e di rilevanza costituzionale. Credo che non sia necessario ricordare, da un lato, l'esperienza - ormai ventennale e ricca di utili insegnamenti - del controllo sugli atti delle Regioni a statuto speciale, e dall'altro che l'attività delle Regioni a statuto ordinario riguarderà, in largo misura, funzioni trasferite dallo Stato, funzioni dunque il cui svolgimento è sottoposto in atto al controllo della Corte. Vorrei soltanto aggiungere che c'è poi un'altra esigenza - forse non meno importante - da considerare e che soltanto l'esercizio del controllo da parte dell'organo neutrale può soddisfare, in quanto a questa esigenza è anche preordinato, ben può dirsi istituzionalmente, il controllo esterno, pubblico, indipendente della Corte: l'esigenza, cioè, che i risultati del controllo confluiscano nel diretto riferire, così come avviene per le Regioni a statuto speciale, ai Consigli regionali e al Parlamento della Repubblica. Gli uni perché abbiano contezza del modo con cui gli amministratori si sono comportati nella gestione amministrativa e, in specie nella gestione del bilancio; il Parlamento, per le valutazioni che, ai fini del coordinamento della finanza pubblica, sono ad esso espressamente demandate dall'art. 119 della Costituzione. È auspicabile, quindi, che nella loro sensibilità Parlamento e Governo avvertano l'esigenza di un sollecito, meditato approfondimento del problema, sul quale - nel rilievo dei suoi vari, complessi e delicati aspetti - la Corte si è ampiamente soffermata nella relazione testé presentata sul rendiconto generale dello Stato per l'esercizio 1969. Connesso al problema del controllo sugli atti regionali potrebbe pure essere quello della congruità e dell'efficienza degli schemi e dei procedimenti che si accompagnano alle funzioni della Corte; ma su tale

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problema vorrei soffermarmi più avanti, perché è di più generale portata e investe, nella loro struttura, anche le altre funzioni della Corte. Ho parlato finora del controllo, anche se per cenni assai sommari. Ma non meno eminenti sono le altre funzioni della Corte. Accanto al controllo, infatti, nel quadro delle garanzie obiettivo che debbono presiedere alle gestioni pubbliche, si colloca la giurisdizione contabile, alla quale la Costituzione ha dato una nuova dimensione, estendendone l'ambito a tutte le gestioni pubbliche; la giurisdizione contabile, quindi, oggi non riguarda soltanto lo Stato, ma abbraccia l'intero arco della finanza pubblica, nell'area vastissima, oltre che dello Stato, delle regioni, degli enti locali, degli altri enti e delle amministrazioni pubbliche in genere, e che si prospetta, pertanto, con i connotati della indispensabile continuità nell'unitario contesto normativo. Anche questa è funzione tipica, istituzionale della Corte, che si articola nei tradizionali istituti (giudizi di conto e di responsabilità e altri giudizi in materia contabile) e che trova peculiare caratterizzazione nel ruolo che nel suo ambito svolge il pubblico ministero. E ancora la giurisdizione sulle pensioni ordinarie e speciali. che racchiude tutta una materia assai complessa e delicata, e, infine, l'attività consultiva. Queste, dunque, le funzioni cui la Corte attende con l'appassionata opera dei suoi magistrati. e di tutto il suo personale. Certamente - e ce ne avvediamo tutti i giorni - gli strumenti normativi, che queste funzioni disciplinano, denunziano in non pochi casi l'usura del tempo e quindi la loro non sempre adeguatezza alle mutate esigenze della società in cui viviamo. Il discorso vale per il controllo, dove la funzione della Corte potrebbe essere vivificata dalI’introduzione di nuovi modelli di maggiore efficienza, sia sul piano sostanziale sia su quello procedimentale; vale anche .- e probabilmente in larga misura - per i procedimenti contenziosi, riguardino questi la materia della contabilità pubblica o la materia delle pensioni. Non mi nascondo - e il rilievo viene dalla mia lunga esperienza di magistrato - che occorre andare assai cauti nell'auspicare o nel suggerire modificazioni o adattamenti dell'attuale disciplina normativa; modificazioni o adattamenti, i quali - una volta prestati e sperimentati potrebbero pure rivelarsi non del tutto in armonia rispetto ai fini, che alle funzioni della Corte sono assegnati, e che sono stati considerati, siccome essenziali, dall'ordinamento giuridico. Il problema, certo, esiste e non è di scarso momento. A parte quello che potranno essere le scelte di fondo, io credo che occorra anzitutto fare una attenta verifica sulla base dell'esperienza e delle nuove realtà, degli strumenti normativi di cui disponiamo, in modo da vedere in quale misura gli strumenti stessi abbiano ancora attualità e quali, invece, abbisognino di revisione; come pure in quale misura sia possibile rendere meglio articolati, e quindi più snelli, i procedimenti, senza che vengano meno le pur necessarie garanzie. Vorrei subito aggiungere che a tale problematica, di cui gli accenni or fatti costituiscono evidentemente appena una traccia, la Corte non è rimasta insensibile e, infatti, nell'ambito dell'Istituto, studi sono in corso - e in fase avanzata - intesi appunto ad elaborare, nella valutazione della complessa e delicata materia, proposte di riforma dell'ordinamento e delle procedure della Corte. Prima di lasciare la presidenza dell'Istituto io vorrei proprio che questi studi, con la collaborazione di tutto il personale della Corte, fossero portati a compimento. Esistono poi problemi organizzativi che occorre affrontare; ed , è pure mio intendimento tenere conto - anche per rappresentarle nelle sedi competenti .- delle giuste aspirazioni del personale amministrativo della Corte. Le riforme di struttura, di cui ho fatto cenno, costituiscono indubbiamente un dato molto importante. Il loro iter è, però, di necessità, laborioso ed è per questo che su alcuni punti vorrei soffermarmi e che richiedono il sollecito intervento del legislatore. Di uno di essi - il controllo sugli atti regionali - ho già parlato; gli altri riguardano la giurisdizione contabile sugli enti locali e la pesante situazione, che ancor permane, nel contenzioso delle pensioni di guerra. Venuti meno, per dichiarata incostituzionalità, i Consigli di prefettura, la giurisdizione contabile sugli enti locali - si sa - stata attratta nella sua globalità e per l'intero arco del suo svolgimento. ai sensi dell'articolo 103 della Costituzione, nell'ambito della Corte, già giudice in grado di appello. Le Sezioni giurisdizionali per le materie di contabilità pubblica e l'ufficio del pubblico ministero hanno intrapreso un intenso lavoro per consentire lo svolgimento dei necessari giudizi sui conti consuntivi, giudizi che dalla legge sono previsti a garanzia della regolarità di gestione degli enti locali. Ma è palese. che per far ciò occorre razionalizzare l'esercizio della giurisdizione contabile attraverso un adeguato decentramento regionale. Per questo vorrei sottolineare l'urgenza dell'approvazione del disegno di legge di iniziativa governativa, già all’esame del Parlamento, che a tali esigenze si ispira e sul quale la Corte a sezioni riunite ha reso il prescritto parere. A tal proposito occorrerà tener presente che, secondo realistiche

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previsioni soltanto nella prima fase ben 150 mila sono i conti che affluiranno alla Corte. La presente situazione dei ricorsi tuttora pendenti in materia i pensioni di guerra - situazione che in certa misura si verifica anche in settori delle pensioni ordinarie - è indubbiamente tra i più gravi problemi che attengono alla efficiente funzionalità dell’Istituto; e in più ha un marcato rilievo sociale, giacché migliaia e migliaia di cittadini (e molti di questi spesso in età avanzata) attendono ancora che si renda loro giustizia, con la decisione sul ricorso. Non è il caso - perché sono note e alla Corte altre volte ho sentito il dovere di metterle in evidenza - che io mi soffermi sulle ragioni del crescente formarsi dell'arretrato essenzialmente a motivo dello squilibrio dei giudizi rispetto al flusso dei nuovi ricorsi; come pure mi sembra superfluo ricordare l'imponente organizzazione di uomini e di mezzi, anche meccanici, che la Corte dedica al settore delle pensioni di guerra. La Corte fa, dunque, quanto è nelle sue possibilità, data anche l'attuale struttura dei procedimenti; e mi sia consentito aggiungere che appassionata e senza soste è l'opera prestata dai magistrati e dal personale, sia della Procura Generale sia delle sezioni giurisdizionali, consapevoli tutti di fare anche opera di grande rilievo sociale. Credo che lo sbocco della situazione debba essenzialmente ricercarsi nella riconsiderazione del sistema e dei procedimenti, attraverso misure che, tra l'altro, incidano sulla disciplina e sulla durata di questi ultimi. Ed è auspicabile che a ciò si giunga senza indugio, in modo da rendere giustizia a chi da tanti anni l'attende, e nello stesso tempo per consentire gradualmente la disponibilità di una elevata aliquota di magistrati e di impiegati per l'esercizio delle attribuzioni fondamentali della Corte. Gioverà, da ultimo, ricordare che soluzioni del grave problema sono state già vagliate e meditate e che di recente le sezioni riunite della Corte. si sono pronunziate, con motivato parere, su un disegno di legge in atto all'esame del Parlamento. Ho terminato questi brevissimi cenni detti - così - come è mio costume, assai semplicemente. Continuiamo nel nostro Iavoro, con la dedizione di sempre, in modo che Ia Corte possa ancora corrispondere, come è nelle sue nobili tradizioni, alle aspettative del Paese.

Eduardo Greco 13 maggio 1971 Signor Presidente della Repubblica, Le è grata la Corte tutta - e questo sentimento anche mio personale voglio primieramente esprimere - per la Sua presenza che esalta questa adunanza. Le grazie più vive a S. Eminenza Rev.ma il Cardinale Angelo Dell’acqua, Vicario di Sua Santità, ai Signori Rappresentanti delle Camere, al Signor Presidente Giovanni Gronchi, al Signor Presidente del Consiglio dei Ministri, al Signor Segretario Generale dell’Organizzazione internazionale delle istituzioni superiori di controllo, agli eminenti uomini politici, agli insigni rappresentanti delle Supreme Magistrature, dell’Avvocatura Generale dello Stato, delle Forze Armate, della Pubblica Amministrazione, dei Corpi Accademici, degli ordini forensi, alle illustri personalità intervenute e a quanti altri, che mi scuso di non poter singolarmente nominare, hanno voluto con la loro partecipazione a questa cerimonia rendere omaggio alla Corte. Un ringraziamento ed un saluto particolare sente il mio animo di rivolgere a Ferdinando Carbone, e non soltanto per ricordare il profondo ingegno e l’esemplare dignità con la quale ha per più di tre lustri retto l’Istituto, ma anche perché sempre vivo e toccante rimane, in noi, il ricordo della consuetudine di lavoro che per tanti anni ci ha tenuti vicini. Questi stessi sentimenti mi animano nel salutare e ringraziare Raffaele Rossano, del quale quest’aula ricorda ancora le ferme e meditate parole pronunziate nell’insediarsi nella carica di Presidente e che ci hanno indicato obiettivi da perseguire e principia ai quali essere fedeli. Ai colleghi e al personale tutto della Corte - qui presente o in ascolto - vanno, poi, i miei grati sentimenti e pensieri per la solidarietà, la dedizione e l’affetto che mi hanno manifestato. Le parole che il Signor Presidente del Consiglio si è compiaciuto pronunciare - a parte i benevoli apprezzamenti per la mia persona - costituiscono nuova testimonianza e conferma della sensibilità del Governo per le esigenze dell’Istituto, sensibilità già dimostrata, con l’aver dato il Presidente della Corte con sollecita deliberazione ed aver orientato la scelta tra i Magistrati - non conta certo la mia persona - seguendo ancora un principio già ritenuto saggio ed opportuno. La mia ferma volontà di attendere, con senso di responsabilità all’ufficio conferitomi non giunge a soffocare l’emozione, chiamato come sono al vertice di un Istituto - che da trentasette anni servo, dopo altri undici di

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varie esperienze di amministrazione pubblica - del quale vivamente sento la dignitosa e insigne tradizione (ammonitrice), tradizione che non è statica immutabilità, bensì continuità ideale di principi sui quali si fonda il nostro ordinamento. Si pensi, poi, quanto maggiore debba essere questo mio sentimento poiché dalla sorte mi è stato concesso - come è del resto nei voti che tante parti vengono formulati e come mi sembra richiesto dalla realtà delle cose - di avviare a compimento concrete proposte di riforme dell’ordinamento e delle procedure della Corte dei conti. La Corte è ben consapevole della nuova struttura, che in attuazione dei precetti costituzionali, va assumendo la Repubblica Italiana e dei nuovi strumenti che sono preposti o vengono apprestati per l’azione amministrativa. Giudicando, infatti, nell’esercizio delle sue funzioni di controllo, l’attività dell’Amministrazione dello Stato e degli enti pubblici, valutando globalmente i risultati delle questioni pubbliche nelle sue relazioni al Parlamento ed ai Consigli regionali, non poteva non avvertire la esigenza di riordinamento della Pubblica Amministrazione, e non ha mancato anch’essa di formulare, nelle relazioni stesse, le proposte di modifica all’ordinamento vigente . Fra i molti provvedimenti legislativi da tempo auspicati, vorrei sottolineare in particolar modo quelli concernenti il riordinamento e l’aggiornamento delle norme di contabilità di stato e la disciplina generale dell’azione amministrativa. Da quest’ultimo provvedimento si attendono le direttive e i criteri orientativi del processo di ammodernamento dell’apparato amministrativo: e la Corte non può non caldeggiare ed auspicare che la legge stessa abbia a vedere, al più presto e finalmente la luce; ed è pronta a mettere a disposizione del Parlamento e del Governo l’ausilio delle sue antiche e nuove esperienze , avvertita com’è della rispondenza al principio costituzionale del buon andamento della Pubblica Amministrazione , delle misure di riduzione dei tempi tecnici dell’azione amministrativa. Anche per la redazione di un nuovo testo di legge sull’amministrazione del patrimonio e la contabilità generale dello Stato, la Corte tutta, che, per sua naturale competenza , ha al proposito particolare vocazione e sensibilità, non potrà non sentirsi cointeressata e non mostrarsi attivamente presente ai fini della migliore strutturazione di quelle norme. Queste stesse conoscenze della Corte e le sue antiche e nuove esperienze, alle quali tutte mi son prima riferito, han dato occasione non soltanto di operare la verifica funzionale dei congegni e delle procedure di cui si serve la pubblica Amministrazione, ma di valutare altresì l’adeguatezza, sul piano sostanziale e su quello dei procedimenti, dell’attuale sistema dei controlli. Avviati da Ferdinando Carbone gli studi necessari, che ulteriore incremento hanno avuto da Raffaele Rossano, questi studi sono ormai maturi per tradursi ben presto in un complesso normativo che potrà, attraverso gli idonei canali, essere affidato alla valutazione del Parlamento e del Governo. Il controllo della Corte, con i connotati che vanno ancora una volta riaffermati, controllo esterno, pubblico e indipendente, può adattarsi alla varietà delle gestioni pubbliche; può abbandonare schemi tradizionali ed assumerne dei nuovi, sempre però che non perda questi suoi connotati che soli possono consentire alla Corte di perseguire le finalità che la Costituzione le assegna. Così nell’ambito del margine di scelta che l’art. 100, secondo comma, della Costituzione lascia libero al legislatore, da un lato non va trascurata l’esigenza di un’adeguata valutazione della formula “atti del Governo” per ricomprendervi quelli che le nuove strutture sempre più renderanno propri dell’Amministrazione dello Stato nell’esercizio delle sue funzioni di programmazione , indirizzo e coordinamento. Dall’altro, giova ricordare che i rapporti tra controllo preventivo e successivo possono costituire materia di contemperamento, sempre che l’uno e l’altro confluiscano a rendere, in complesso, più efficiente il controllo. Né va trascurata la prospettiva che vede il sindacato della Corte riferirsi anche all’attività amministrativa del suo complesso, cioè ai fenomeni globali e complessivi di gestione. Non vorrei oltre indugiare su queste indicazioni che non possono che investire una problematica alla quale - come vertice dell’Istituto - posso solo limitarmi a far riferimento, perché l’avviso della Corte spetta sempre ai suoi competenti organi collegiali, dei quali richiederò, con la dovuta sollecitudine, la pronunzia. Non posso, però, non accennare anche all’altra problematica relativa al controllo sugli enti sovvenzionati dallo Stato, che già la Corte ha puntualizzato nelle sue relazioni al Parlamento. Le norme della legge del 1958 si sono venute arricchendo, nel concreto esercizio della funzione del controllo, di articolazioni procedimentali che rimangono al livello, potrei dire di prassi, ancorché rispondenti a generali principi, quali - ad esempio - quello della necessaria audizione degli enti e dei Ministeri vigilanti sulle questioni da definire. L’esperienza ha anche consentito di rilevare come il controllo meramente documentale, previsto nei confronti di enti di tanta importanza, non solo si sia dimostrato, in sede di pratica applicazione, inadeguato, non

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potendo la Corte seguire da vicino lo svolgimento delle gestioni, ma abbia reso più laboriose le necessarie istruttorie, ritardando nel complesso le relazioni al Parlamento. Non è da trascurare, infine, in questo ampio quadro relativo al controllo, un nuovo auspicio a che Parlamento e Governo avvertano l’esigenza di un riesame del problema del controllo sugli atti delle Regioni. E ciò per garantire che l’esercizio del controllo venga svolto da un organo neutrale, a tutela dell’ordinamento; che delle risultanze del controllo stesso sia, con obiettivi criteri, data contezza ai Consigli regionali ed al Parlamento, per valutare gli uni il modo concreto con il quale gli amministratori si siano comportati nella loro gestione e perché il Parlamento acquisisca dati e giudizi ai fini dell’esercizio dei suoi poteri di coordinamento della finanza pubblica. Nella tematica relativa alla struttura ed al funzionamento della Corte dei conti, non di minor rilievo sono i problemi che attengono alla sua attività giurisdizionale. In primo luogo, la giurisdizione nelle materie di contabilità pubblica e le pronunce della Corte Costituzionale e della Suprema Corte di Cassazione ne hanno ormai confermato la dimensione nel nostro ordinamento, estesa, com’è a tutta la pubblica finanza. L’istituzione delle Sezioni regionali, prevista da un disegno di legge di iniziativa governativa, che mi auguro possa ormai rapidamente divenire legge dello Stato, potrà dar avvio al necessario processo di razionalizzazione con il decentramento dell’esercizio della funzione giurisdizionale. Ma trattasi, come dicevo, di un avvio, in quanto le norme di procedura per i giudizi di conto e di responsabilità richiedono una attenta revisione per consentire ai processi - nel pieno rispetto del principio del contraddittorio e del diritto di difesa - una rapida definizione. Naturalmente il mio dire non può non toccare anche un doloroso problema che costantemente richiama l’attenzione di tutti, e cioè la notevole pendenza di ricorsi in materia di pensioni di guerra ed, ancora, ordinarie, civili e militari, determinata - prima ancora che da imperfezioni o carenze delle procedure - dall’alto livello di litigiosità proprio del settore. Ciò nonostante, appaiono opportune e necessarie modifiche alle procedure, e le Sezioni riunite della Corte hanno già espresso in vari pareri il loro avviso e, da ultimo, alla fine del 1969, hanno additato soluzioni per quanto attiene non soltanto alle procedure, ma anche al procedimento amministrativo, pur abbisognevole di un riesame, nuovamente prospettando come, con l’intervenuto trasferimento delle attribuzioni amministrative dal centro alla periferia, ed ancor più questo ampliando, si potrebbe attuare anche nella materia - una volta istituite le Sezioni regionali - un decentramento delle funzioni giurisdizionali. Per tutti i settori della giurisdizione sono in avanzata fase, presso la Corte, gli studi per predisporre schemi di nuove norme per le iniziative che nelle competenti sedi potranno essere assunte. Vorrei, però, riferendomi a tutta questa tematica di riforme, rappresentare che ben consapevole è l’Istituto che meditate riflessioni sono necessarie ove si vogliano innovazione, ma che si conformino ai principi del nostro ordinamento. Né va trascurata l’importanza dei fatti organizzativi interni nella soluzione dei problemi. Ed, in riferimento a quest’ultimo aspetto, vorrei accennare all’attento studio che la Corte ha da anni dedicato ai sistemi di rilevazione ed elaborazione elettronici. Inaugurandosi lo scorso anno il centro elettronico della Corte dei conti, ebbi ad esporre gli innegabili, positivi effetti che l’ausilio della meccanizzazione poteva apportare. Ripeto ora che non mancheranno le iniziative per una migliore utilizzazione delle apparecchiature predisposte e, su un piano generale, per assicurare una maggiore funzionalità degli uffici della Corte, anche con più accorto impiego ed equidistribuzione del personale in relazione alle sue capacità ed attitudini, migliorate da corsi addestrativi e di perfezionamento; ciò non disgiunto dall’attivazione di provvidenze sanitarie ed assistenziali, nell’ambito delle quali mi auguro possano presto annoverarsi le prestazioni offerte dall’istituendo asilo-nido, utile, edificante ed inderogabile conquista della moderna civiltà del lavoro. Ben conscio, sono, difatti, della importanza che, nell’economia dell’Istituto, assume l’apporto del personale non di magistratura, e sono, pertanto, convinto dell’attenta considerazione che meritano, anche nell’interesse proprio della Corte, i provvedimenti legislativi intesi a valorizzare, sotto il profilo sia quantitativo che qualitativo, il disimpegno di funzioni esigenti vivo senso di responsabilità, competenze e notevole grado di specializzazione professionale, da parte di questo personale che, sussidiando l’opera dei magistrati, lavora con capacità ed impegno. Tali provvedimenti legislativi, ancorché ispirati alla giusta esigenza di promuovere riconoscimenti -determinandone anche le funzioni - nei confronti di personale provvisto di una fisionomia propria, non riscontrabile in altri settori del pubblico impiego, non possono, tuttavia, non inserirsi nel naturale ed intervenuto fenomeno di espansione delle funzioni della Corte, richiedente, tra l’altro, un’adeguata revisione dei quadri.

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Ed occorre, ora, che io torni brevemente al tema delle modifiche della legislazione vigente, nelle competenti sedi si vanno approntando. Ho prima accennato come la Corte, nella relazione al Parlamento che accompagna la decisione sul rendiconto generale dello Stato, può formulare indicazioni su variazioni o riforme di leggi e regolamenti sull’amministrazione e sui conti del pubblico danaro; e aggiungo che è previsto debba essere sentita riguardo a tutti i provvedimenti legislativi che comunque concernono l’ordinamento e le funzioni dell’Istituto. È da auspicare un ulteriore incremento dell’esercizio delle prerogative in discorso, tenuto presente che alle stesse si accompagna altro potere di iniziativa, quello cioè del Capo dell’Istituto di sentire le Sezioni Riunite ogni volta lo ritenga opportuno e pertanto senza limite alcuno a siffatta facoltà. Il rapido e necessariamente sommario giro d’orizzonte compiuto in ordine alla vasta e delicata problematica cui è oggi direttamente interessato il nostro Istituto, sarebbe gravemente manchevole se non accennassi ad altra indeclinabile esigenza, il cui soddisfacimento si rende sempre più indilazionabile. Intendo riferirmi al meditato ed organico adeguamento, ai precetti costituzionali, dello statuto della nostra magistratura. Ove si rifletta che lo stato giuridico dei magistrati della Corte è, in sostanza tuttora regolato da norme che in parte risalgono al 1862 ed in parte al 1933, ambientate, cioè, in assetti costituzionali ben diversi dall’attuale, manifesta si fa la necessità di una legge organica che appresti le novelle garanzie, disciplinando alla luce di esse i principali provvedimenti, quali le nomine, le assegnazioni, i trasferimenti e le promozioni. Garanzie le quali rafforzino quella indipendenza che già il concreto agire dell’Istituto sol soggetto alla legge assicura, così realizzando il più efficiente esercizio delle suo funzioni. E tra queste la peculiare funzione del controllo, che la Corte è chiamata ad assolvere sotto il segno della “neutralità” al di sopra, cioè, dei concreti interessi della Pubblica Amministrazione e del cittadino, a garanzia obiettiva del rispetto della legge ed in una posizione di “equidistanza” sia dal Governo che dal Parlamento. Equidistanza che non sta certo a significare estraneità, ponendosi anzi la Corte siccome “ausiliaria” dell’uno e dell’altro. Ausiliarietà che postula, men che subordinazione o sottordinazione, assoluta indipendenza nelle strutture e nello stesso funzionamento, si che il “risultato”il prodotto dell’eseguito controllo che il Governo e Parlamento nei rispettivi ambiti utilizzano per il perseguimento dei loro primari compiti, sia assolutamente genuino, immune, cioè, anche dal semplice dubbio di una strumentalizzazione a favore dell’uno o dell’altro. Ed è siffatto connotato di “ausiliarietà” che caratterizza la preordinazione dell’attività della Corte, nell’architettura costituzionale, ad indispensabile supporto della dialettica tra Parlamento e Governo, in cui quotidianamente si attua lo “Stato di diritto”. In questa prospettiva mi sia consentito di auspicare che la Corte possa arrecare un più ampio e sostanziale contributo anche alla realizzazione di altra primaria esigenza: quella di armonizzare con i precetti della Costituzione l’ordinamento, alla cui formazione ha concorso e concorre una congerie di leggi, che ben possono dirsi stratificate in un arco di tempo ultra secolare. Al sindacato sulla conformità alla Costituzione di tali leggi, presiede, sì degnamente, un Organo di altissimo rilievo, quale la Corte Costituzionale. La sua pronuncia è condizionata alla rimessione delle questioni ad opera di fonti ben qualificate (e tra queste anche la Corte dei conti nelle sue sedi giurisdizionali). La Corte Costituzionale ha riconosciuto che è preminente il pubblico interesse alla certezza del diritto (che i dubbi di costituzionalità insidierebbero) e all’osservanza della Costituzione, e che, pertanto, le questioni di legittimità costituzionale occorre che ad essa pervengano. Ed invero l’applicazione soltanto di questi principi può rendere meno disagevole l’arduo compito del giudice costituzionale di verificare nella sua globalità, attraverso la serie delle singole pronunce , la conformità del vigente ordinamento ai principi costituzionali. E poiché vi sono norme, quali ad esempio quelle afferenti alla pubblica spesa, che, a differenza di altre, più raramente emergono sotto tale riguardo nell’ambito giurisdizionale, è a domandarsi se non possa considerarsi filtro idoneo anche l’organo di controllo, che, investito di un sindacato generale di legittimità sugli atti della Pubblica Amministrazione è chiamato a far di tali norme quotidiana applicazione, e dunque a saggiarne e sperimentarne, meglio di ogni altro giudice, la loro validità costituzionale. Lo sguardo di chi osservi il mutar di strutture e di ordinamenti non può non arrestarsi oramai alla Comunità Nazionale, sempre più attuale divenendo una visione soprannazionale di tanti problemi condizionati all’attività e dalle scelte degli organismi comunitari ed internazionali. Risponde, a mio avviso, ad obiettive esigenze il dare estensione ed impulso alla presenza della Corte in seno agli organi di controllo operanti presso le varie Comunità Internazionali. A muovere la Corte in questa direzione sono la condizione qualificante, di Stato membro delle varie Comunità, dell’Italia; le responsabilità e gli oneri che le derivano dalla contribuenza ai fondi comuni; la particolare sensibilità a conoscenza della Corte della problematica del controllo, che, per i modi con cui nella specie si articola, si inquadra in una delle sue forme tradizionali. Il mio dire volge al termine affermando che la Corte, specie in questo momento storico, caratterizzato da profondi mutamenti e da inarrestabili impulsi innovativi, e ben sensibile alle esigenza di aggiornamento di

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leggi e procedimenti, vuol e sa costituire un centro di riferimento e raccordo nel processo di ammodernamento e sviluppo dei nostri ordinamenti e delle nostre istituzioni, quale valido ed insostituibile strumento di difesa della legalità, che è presidio di buona amministrazione e di tutela dei diritti del cittadino; premessa della migliore convivenza civile; garanzia di progresso sociale. La dedizione mia e di tutti i componenti l’Istituto nell’esercizio delle funzioni è riprova del non formale ma operoso ossequio alla continuità ideale dei principi su ci si fonda il nostro ordinamento. Ed è questa dedizione che mi onoro confermare a Lei, Signor Presidente, che, rivestendo la Suprema Magistratura della Repubblica, con le Sue altissime virtù civiche sì degnamente ne impersona l’indeclinabile unità.

Eugenio Campbell 22 novembre 1976 Signor Presidente della Repubblica, prima di dare inizio all’udienza pubblica di queste Sezioni Riunite, grazie moltissime Le rendo - a nome della Corte dei conti e mio personale - per il grande onore fattoci, conferendo con la Sua presenza una più accentuata solennità a questa seduta. E, con Lei, parimenti ringrazio Sua Eminenza Reverendissima il Signor Cardinale Vicario Generale di Sua Santità, i Signori Presidenti del Senato della Repubblica e della Camera dei Deputati, il Signor Presidente del Consiglio dei Ministri (specialmente per le lusinghiere espressioni che si è compiaciuto rivolgere alla Corte ed alla mia persona), il Signor Presidente della Corte Costituzionale, i Signori Ministri, il Signor Primo Presidente e il Signor Procuratore Generale della Corte Suprema di Cassazione, il Signor Presidente del Consiglio di Stato, l’illustre rappresentante dell’Avvocatura Generale dello Stato nonché altri che - mi scuso se, per ragion di tempo, singolarmente non nomino - son qui a rappresentare le Forze Armate, i Corpi Accademici, la Pubblica Amministrazione. Infine non può mancare un saluto riconoscente, con molto affetto, ai Presidenti della Corte che mi hanno preceduto: Ferdinando Carbone, Eduardo Greco e Giuseppe Cataldi, che siedono in questo consesso. So di interpretare il sentimento della Magistratura e del personale tutto della Corte dei conti, di cui assumo la presidenza, nell’iniziare il mio dire con la menzione del contributo recato al prestigio di essa dal definitivo riconoscimento, da parte della Corte Costituzionale, con la sentenza del 18 novembre 1976, n. 226, della connotazione magistratuale della Corte dei conti anche nell’esercizio della competenza che, nelle sedi di controllo, ad essa la costituzione della Repubblica direttamente demanda. Soggiungo tuttavia, per quanto superfluamente, che a sollecitare la necessaria istanza di una precisazione siffatta giammai ha concorso, o appena sfiorato il pensiero della Corte, l’idea di cogestire poteri non suoi, vincolata come essa, per antica sempre viva tradizione, si sente al rigoroso rispetto dell’ordine costituzionalmente stabilito e che, per ciò, intende così puntualmente osservare come esser vigile nell’assicurarne, per quanto le compete, l’osservanza. Ragioni di consapevole responsabilità, peraltro, mi inducono a soggiungere che la nota saggezza della Corte basterà da sola ad evitare che mai possa profilarsi una situazione di paralisi amministrativa, con riferimento ad una notevole mole di legislazione, da tempo vigente, non del tutto rispettosa dei principi costituzionali posti dall’art. 81, comma terzo e quarto della Costituzione, e però causa non ultima del deterioramento della finanza pubblica e della economia generale, or così duramente percossa dall’inflazione. È propria anzi dal cennato più pieno riconoscimento della propria connotazione che la Corte trarrà maggior motivo di realizzare, con consapevole e responsabile impegno, l’esercizio del controllo in sintonia con la moderna esigenza di speditezza dell’azione amministrativa; ciò che comporta la piena dedizione ad ogni livello, nell’assolvimento delle rispettive attribuzioni, con l’orgoglio di chi sente di bene adempiere al proprio dovere ed anche con l’umiltà di chi, ad ogni altro, anteporre il superiore interesse dello Stato. So bene che un costruttivo snellimento delle procedure del controllo postula una adeguata definizione dei quadri organici di ciascun ufficio, nelle sedi centrali ed in quelle regionali, un coordinamento del controllo preventivo e successivo sugli atti e di quello consuntivo sulle contabilità e su rendiconti, collegialmente attuato con tempestività, nonché un riassetto della vigente legislazione della materia, inteso a conseguire un dimensionamento più attento della funzione propria di una magistratura e, correlativamente, la eliminazione di duplicità di interventi nel controllo preventivo di legittimità. La Corte del resto, già da qualche anno, ha presentato al Governo le sue proposte di revisione di tali procedure, dimostrando tutta la propria meditata disponibilità alla produzione di una aggiornata struttura normativa delle stesse. E mi si permetta in questa sede di rinnovare al Governo la istanza di un avvio, con carattere di priorità, a conclusione dell’esame, del riordinamento proposto.

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Nel contempo, ritengo doveroso segnalare all’attenzione dei Signori Magistrati addetti al settore, la necessità di far ricorso ad ogni opportuno rimedio, suggerito dalla loro saggezza e dalla loro esperienza, affinché il controllo preventivo non determini ritardi inammissibili per il prestigio dell’Istituto e per la salvaguardia degli interessi delle parti; tra l’altro, i creditori dello Stato non possono e non debbono attendere a cagion della scarsa speditezza delle nostre funzioni. Altri dovranno provvedere per la sollecitudine dell’azione amministrativa. Nel delineato contesto assume notevole rilievo il vasto compito del controllo successivo sugli atti e del controllo consuntivo sui rendiconti e sulle contabilità. Al quale proposito non va, tuttavia sottaciuta la tendenza, che si fa, di tanto in tanto, palese, di vanificare il risultato del controllo, sostituendo a quello preventivo quello successivo, il quale purtroppo non impedisce l’esecuzione di provvedimenti illegittimi, come l’esperienza dimostra. Senza dire che se tale tendenza si traducesse in realtà si perverrebbe surrettiziamente a sottrarre alla Corte il compito essenziale affidatole dalla Costituzione, che la configura come organo ausiliario dell’ordinamento giuridico, appunto perché preordinato ad assicurare le legittimità dell’operato dell’Amministrazione indipendentemente da ogni implicazione patrimonialmente dannosa, giacché la illegittimità, anche se un danno patrimoniale non implica, rimane sempre dannosa, per la rottura dell’ordinamento giuridico che determina. In ogni modo, la asserita lentezza del procedimento del controllo trova sicuro rimedio nelle proposte di riforma, con la fissazione di termini, che ne garantiscano la sollecita conclusione. Ma analoghi termini debbono essere imposti all’Amministrazione attiva, per la sollecita presentazione dei propri atti al controllo, così preventivo come successivo. Non è insolito infatti il caso di atti inoltrati alla Corte, per il visto prescritto, dopo un lungo tempo dalla loro adozione ed esecuzione. Il che rivela il vero volto della prolungata generalizzazione del controllo successivo svincolato da tempestivi adempimenti dell’Amministrazione controllata e da un potere di soprassessoria in corso di iniziata esecuzione dell’atto illegittimo. Donde la necessità di mantenere sempre più efficiente la cerniera tra procedimento del controllo e giudizio di responsabilità, assicurandosene il miglior coordinamento funzionale. Un cenno particolare merita, poi, la “funzione referente”. La Corte crede di avervi dedicato un lavoro coscienzioso, competente e cospicuo. La relazione annualmente allegata alla decisione sulla parificazione del bilancio consuntivo dello Stato, che tanto eco riscuote nella stampa informativa della opinione pubblica, ne è prova manifesta. Né diverso apprezzamento viene riservato alle numerose relazioni al Parlamento sul risultato del controllo della gestione degli Enti. Peraltro, la valutazione della efficacia ultima, concreta e definitiva, nella misura in sui si realizza, di questa collaterale, aggiuntiva funzione, rimane riservata ad altre sedi, di prevalente qualificazione politica. E passo, sia pur brevemente, a dire, meritevole come essa è d’attenta considerazione, della situazione attuale della giurisdizione contenziosa. La conclusione con la decisione di merito, dei giudizi su ricorsi, nelle materie di competenza della Corte ha già avvertito la esigenza di una radicale revisione delle norme regolanti lo svolgimento dei processi, secondo uno schema che ripudi l’arcaico ordinamento in vigore e recepisca l’impronta moderna dello snellimento e della sollecitudine. Mi sia consentito ricordare come la sete di giustizia del cittadino sia stata sempre congiunta alla istanza di celerità del giudizio. “A nessuno sarà venduto, a nessuno sarà negato o ritardato il diritto o la giustizia”; sono le parole della Magna Carta. Sin dai primissimi tempi dell’unità d’Italia, il Giornale Ufficiale di Napoli recò questa comunicazione “una giustizia lenta è già guasta dalla ingiustizia della lentezza che la ha preceduta”. Nella relazione annuale sullo stato della giustizia (1970, pag. 83) il Consiglio Superiore della Magistratura ha evidenziato che “la lunga attesa della giustizia costituisce una ulteriore offesa alle ragioni fatte valere in giudizio - offesa spesso anche più grave del torto sofferto – perché in luogo di sanare le conseguenze le convalida nel tempo”. Ebbene la Corte ha già da qualche tempo reso noto il suo avviso favorevole ad un nuovo regolamento di procedura per i giudizi pensionistici. Soggiungo ora che, senza il già divisato riordinamento, sarebbe vano attendersi una specie di “esodo volontario” della valanga dei giudizi pendenti, recenti, remoti e remotissimi. Concludendo queste necessariamente succinte dichiarazioni, rivolgo ai Colleghi di Magistratura ed al personale tutto della Corte, con un affettuoso augurio di buon lavoro, la più viva esortazione a dare, con solerzia ed impegno, il massimo apporto personale nell’assolvimento dei rispettivi compiti, con ciò in modo determinante concorrendo a sempre migliorare, per il pubblico bene, i risultati dell’attività dell’Istituto e, corrispondentemente, ad elevarne il prestigio.

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Francesco Sernia gennaio 1999 Signor Presidente della Repubblica, devo innanzitutto esprimere a Lei, a nome della Corte tutta e mio personale, i sensi della più profonda gratitudine per l’alto onore tributatomi con il Suo intervento che conferisce così la massima solennità al mio insediamento. Del pari rendo vivissime grazie al Signor Presidente del Senato, al Signor Presidente della Camera dei Deputati, al Signor Presidente del Consiglio dei Ministri per le lusinghiere espressioni che si è compiaciuto rivolgere alla Corte ed alla mia persona, ai Signori Ministri, agli illustri rappresentanti della magistratura costituzionale, ordinaria ed amministrativa, della Avvocatura dello Stato nonché agli altri che mi scuso se singolarmente non nomino, che sono qui a rappresentare le Forze armate, i Corpi accademici, la Pubblica Amministrazione. Mi è grato dare il benvenuto al Presidente del Tribunal de contas portoghese, Alfredo Josè de Sousa, che ha ritenuto di intervenire a questa cerimonia. Un saluto riconoscente infine ai Presidenti della Corte miei predecessori e che vedo in questa aula: il Presidente Giuseppe Carbone, il Presidente Ettore Costa, i Procuratori generali Domenico Ferranti ed Emidio Di Giambattista. La mia nomina al vertice dell’Istituto assume un significato che va ben al di là del riconoscimento attribuito alla mia capacità professionale ed alla quarantennale milizia prestata tutta all’interno della Corte: è un segno di particolare fiducia e di apprezzamento che dagli altissimi organi chiamati a provvedere è venuto a tutta la magistratura contabile che, dopo venti anni, ritorna ad avere al suo vertice un magistrato di carriera entrato alla Corte nel lontano 1959. E’ un segno che debbono recepire in particolare le giovani leve di magistrati contabili che, dopo una dura selezione, vengono quasi ogni anno a far parte della nostra famiglia: il loro nuovo Presidente li invita ad impegnarsi con ogni energia nell’assolvimento delle complesse funzioni assegnate alla Corte, sì da rendersi degni del prestigio di cui gode l’Istituto. I tempi sono, però, profondamente mutati; alle soglie del duemila qualsiasi pubblica istituzione, pur se saldamente radicata nell’ordinamento costituzionale, non gode più di aprioristica stima, basata sulle sue tradizioni secolari e sulla rilevanza dei compiti commessigli; la stima, la fiducia del cittadino va conquistata, oserei dire, giorno per giorno, con l’assolvimento puntuale dei propri doveri da parte di tutti, a qualsiasi livello di responsabilità. Occorre non rinchiudersi nell’ambito del proprio particolare con la difesa delle posizioni acquisite e la rivendicazione di nuovi diritti: si volga lo sguardo al di fuori, ai tanti che non hanno lavoro o non ne hanno la certezza. Come è noto, i tempi nuovi hanno già profondamente modificato da qualche anno le tradizionali attribuzioni della Corte in materia di controllo; l’Istituto si è adattato al nuovo abito che il Parlamento gli ha cucito addosso, inteso non di certo come una camicia di forza, pur con qualche nostalgia per il vestito dismesso che, alleggerito della bardatura d’epoca, avrebbe ancora potuto, forse, fare decorosa figura, rinvigorito dalle nuove attribuzioni e dai maggiori poteri attribuiti dalle leggi del gennaio 1994. Il controllo della Corte nella fase attuale. Spetta al neo Presidente della Corte, nel suo discorso d’insediamento, tracciare i programmi ed indicare gli orientamenti da seguire, nel pur non lungo cammino che gli resta da percorrere nell’interno dell’Istituto: programmi ed orientamenti che non possono non tener conto dei suoi limitati autonomi poteri, per la concomitante attività svolta dal Consiglio di presidenza in tema di organizzazione del lavoro e dello status dei magistrati della Corte. I mutati poteri spettanti all’Istituto in ragione dei controlli di gestione effettuati sui programmi delle Amministrazioni statali - non di rado aventi natura intersettoriale - postulano una costante collaborazione da parte degli organismi monitorati, tenuti a dare sollecito seguito alle indicazioni ed ai suggerimenti operativi formulati nelle deliberazioni dei competenti collegi della Sezione del controllo. E’ da sottolineare che le relazioni del magistrato istruttore, prima di essere trasfuse nella formale deliberazione collegiale, vengono abitualmente trasmesse alle Amministrazioni sulla cui gestione si delibera, di tal ché delle osservazioni e controdeduzioni eventualmente formulate possa tenersi conto nella stesura definitiva della relazione stessa e nella formale delibera collegiale. Si afferma in tal modo il carattere collaborativo del controllo svolto dall’Istituto, accanto a quello più propriamente sanzionatorio, ancora esercitato nei casi residui di sottoposizione di atti ministeriali al controllo preventivo.

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Nell’anno appena decorso sono state oltre ottanta le deliberazioni adottate dai competenti collegi della Sezione del controllo. Ne cito solo due di particolare rilievo: la prima che ha avuto ad oggetto gli interventi alle imprese industriali con stabilimenti danneggiati dal sisma negli anni 1980-1981 nelle regioni Basilicata e Campania, per la cui realizzazione era stata istituita una gestione fuori bilancio affidata per delega al Ministro per il coordinamento della protezione civile; la seconda relativa ad una indagine intersettoriale sulla gestione dei lavori pubblici delle Amministrazioni dello Stato relativa agli anni dal 1995 al 1997. A distanza di quasi venti anni dagli eventi sismici non si dovrebbe fare più menzione di deprecabili "code" derivanti da illegittime o non proficue erogazioni delle provvidenze statali volte a consentire la ripresa produttiva delle zone danneggiate, segnatamente dopo le conclusioni della Commissione parlamentare d’inchiesta da Lei presieduta, Signor Presidente della Repubblica, già nel lontano 1990. Già allora era stato messo in luce come la legislazione ed i provvedimenti esecutivi di emergenza, svincolati dalle procedure ordinarie, avessero prodotto in non pochi casi abusi e sprechi di pubblico danaro, essendo state rilevate inefficienze negli interventi, ritardi nella realizzazione di opere con lievitazione elevata di prezzi. Non può non destare allarme - al fine della credibilità dei pubblici poteri - il quadro emerso di recente in seguito ad una approfondita indagine svolta nell’ultimo biennio nelle zone terremotate da una équipe presieduta da un Consigliere della Corte e composta, oltre che da personale amministrativo dell’Istituto, da un nucleo della Guardia di Finanza di Roma - Centro repressione frodi: le ditte soggette a revoca del contributo per una serie di inadempienze costituiscono oltre il 25% di quelle inizialmente ammesse ai benefici di legge. Ciò che lascia maggiormente perplessi sulla efficienza delle strutture periferiche della Amministrazione interessata sono gli indugi e le remore al recupero dei contributi erogati, le cui procedure hanno avuto inizio a molti anni di distanza dalla erogazione delle provvidenze, subendo una forte ascesa solo dopo due pronunzie della Sezione del controllo intervenute nel 1995. Un ulteriore tassello di questo desolante mosaico è offerto da alcune sentenze delle Sezioni giurisdizionali Campania e Basilicata di condanna dei responsabili dei danni erariali per ingenti importi, collegati a fatti penalmente rilevanti già accertati o in corso di accertamento. Dopo questa premessa, riaffermo quello che è l’intendimento mio e dei Presidenti di sezione preposti al coordinamento del controllo: allorché le formali pronunzie della Corte si concludano con dichiarazioni di irregolarità della gestione - come nel caso delle provvidenze per le zone terremotate meridionali - ovvero con una serie di segnalazioni di inefficienza gestionale seguite da raccomandazioni di miglioramento e perfezionamento delle relative procedure, le Amministrazioni interessate debbono in tempi ragionevoli darvi seguito ed apportare rimedi alle situazioni poste in evidenza. Ove ciò non avvenga, la Corte espleterà in tutte le sedi competenti le iniziative più opportune per denunziare carenze e sanzionare, ove del caso, gravi colpevoli omissioni, nel rispetto, certo, dei principi sanciti dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 29 del 1995. Ciò vale anche per l’altra indagine intersettoriale di cui ho ritenuto fare cenno: quella relativa alla gestione dei lavori pubblici di alcune Amministrazioni statali relative al periodo 1995-1997; settore questo continuamente interessato da una normativa quanto mai complessa, disciplinatrice di una materia in passato fonte di tanti abusi, la maggior parte dei quali penalmente rilevanti. L’argomentata e diffusa deliberazione della Sezione del controllo si è conclusa con una serie di osservazioni e raccomandazioni per una migliore gestione del settore. In attesa che siano adottati gli specifici provvedimenti conseguenziali alla delibera cui si è fatto cenno - e già è dato riscontrare qualche segnale positivo - è da rilevare come l’entrata in vigore della legge 18 novembre 1998 n. 415 di modifica alla legge 11 febbraio 1994 n. 109 e la ormai prossima emanazione del relativo regolamento di esecuzione, costituiscono un importante passo in avanti per dare ad un settore tanto delicato quella certezza di riferimenti la cui necessità è da più parti avvertita. E’ ulteriormente da precisare che, ove ne sia stata ravvisata la opportunità, accanto ai parametri di legittimità dell’azione amministrativa, costituenti comunque il prius di ogni indagine settoriale, si inizia a far ricorso a criteri aziendalistici di misurazione della economicità, efficienza ed efficacia dell’intervento pubblico da parte del personale di magistratura ed amministrativo della Corte, quest’ultimo opportunamente istruito ad opera del Seminario dei controlli, di recente istituzione nell’ambito delle strutture centrali dell’Istituto. Il progressivo incremento dell’applicazione di tali criteri, ove utilizzabili, potrebbe portare la Corte, in un futuro auspicabilmente non lontano, e previe le opportune modifiche normative, a competere in qualche caso, con le società di revisione, nella certificazione dei bilanci aziendali (come già sperimentato dal National Audit Office britannico) di modo che sia ipotizzabile un ritorno economico delle attività di controllo svolte ed un conseguente minore ricorso ai fondi pubblici per le spese di funzionamento delle strutture della Corte. Per concludere sull’argomento va detto che sinora, tranne qualche caso isolato, non particolari apporti conoscitivi e propositivi sono venuti dagli organi di controllo interni con non pochi indugi istituiti presso varie Amministrazioni pubbliche.

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Pur avendo la Corte considerato che per un periodo limitato questi organismi venissero presieduti da un suo magistrato, in grado di dar loro impulsi e motivazione, qualche resistenza è affiorata all’interno delle stesse Amministrazioni, restie a dar ausilio e collaborazione ai nuovi organismi. Se non vi sarà una sollecita inversione di tendenza, potrebbe essere ritardato uno degli aspetti non marginali della riforma burocratica, secondo la quale la Corte - svolgente una funzione quasi di secondo grado nella sua qualità di controllore esterno e neutrale - avrebbe dovuto accertare, anche sulla base dei controlli interni, la rispondenza dei risultati conseguiti agli obiettivi stabiliti dalla legge, attraverso una valutazione comparativa dei modi e dei tempi dello svolgimento della azione amministrativa. Nel marzo del 1998, per la prima volta nella storia della giurisprudenza della Sezione del controllo, è stata deferita alla Corte di giustizia della Comunità Europea una pronuncia pregiudiziale ai sensi dell’art. 177 del relativo Trattato, in occasione dell’esame di contratti di mutuo stipulati dall’Anas all’estero per rilevantissimi importi. La Sezione si è posta il dubbio interpretativo se alla fattispecie fosse applicabile o meno la direttiva del Consiglio 18 giugno 1992 in tema di appalti pubblici di servizi. Qualche brevissimo cenno, ora, sul settore giurisdizionale, che sarà oggetto di analitica trattazione da parte del Procuratore Generale in occasione della imminente apertura dell’anno giudiziario 1999. Ho operato nel settore delle cosiddette "Regioni a rischio (Puglia e Campania)" per oltre sei anni. I convenuti da parte delle varie Procure regionali e l’opinione pubblica conoscono esclusivamente il volto della Corte dei conti sanzionatrice, riparatrice delle ferite inflitte alle finanze pubbliche con dolo o colpa grave. Il giudice delle leggi ha riconosciuto rispondente a criteri di ragionevolezza l’attuato intento di predisporre, nei confronti degli amministratori e dipendenti pubblici, un assetto normativo in cui il timore delle responsabilità non esponga all’eventualità di rallentamenti ed inerzie nello svolgimento delle attività amministrative. Vi è un altro aspetto della giurisdizione della Corte - molto meno noto - che affiora non di rado e non solo nelle Regioni che contano su Amministrazioni comunali più sane; un aspetto che conferisce all’Istituto le caratteristiche di "Corte regolatrice" e non meramente sanzionatrice. Mi riferisco ai casi non infrequenti nei quali pubblici amministratori, appresi dai mass-media gli estremi di decisioni di condanna pronunciate dalle Sezioni giurisdizionali regionali, richiedevano con accorata sollecitudine l’acquisizione delle relative pronunzie, al fine di non incorrere, ove possibile, nelle disavventure toccate ai loro colleghi. Il fenomeno, del tutto positivo, è stato invero notevolmente ridimensionato dalla introduzione della normativa di cui alla legge n. 639 del 1996, la quale, restringendo i poteri di condanna del giudice contabile ai casi di dolo e colpa grave, ha limitato gli effetti, precedentemente sanzionati, di condanne nei confronti di Amministratori per cattiva o distorta interpretazione delle leggi di settore, produttiva di danni alle finanze pubbliche. Ma vi è di più; l’intervento della Corte, il ricorso alla sua giustizia, viene continuamente sollecitato da istanze di cittadini, anche se talvolta in forma anonima, con le quali sono denunciate le più svariate situazioni di abusi, di nepotismi post-rinascimentali, di cattivo uso delle pubbliche risorse. In questi casi si guarda all’eventuale azione della Corte non come a quella di un "angelo sterminatore", confidando soltanto che vi sia l’intervento di un organo dello Stato sollecito, ma nello stesso tempo equilibrato e neutrale, da null’altro condizionato se non dall’obiettivo interesse a ripristinare la legalità ed a contribuire ad una migliore efficienza all’azione amministrativa. Accanto a questi che possono definirsi effetti positivi riflessi dell’attività giurisdizionale della Corte, sussistono ancora, segnatamente nel contenzioso pensionistico, ritardi nella definizione dei relativi giudizi, mai taciuti dall’Istituto e non compiutamente risolti dal decentramento giurisdizionale intervenuto nel 1991 e proseguito nel 1994. Varie e note le cause: alcune risalenti a persistenti riaperture dei termini per la presentazione dei ricorsi, il che ha reso sempre più ardua la ricerca della documentazione probatoria comprovante il buon diritto degli interessati, altre determinate dalla stessa normativa innovativa la quale, pur decentrando la giurisdizione, non ha previsto alcun rafforzamento degli organici dell’Istituto. Ciò anche in quanto il personale di magistratura resosi disponibile per la soppressione delle Sezioni ordinarie e speciali operanti nel settore pensionistico, è stato in parte assorbito dalle istituite Sezioni centrali di appello, cui è stata attribuita la competenza a giudicare dei ricorsi avverso le decisioni delle Sezioni regionali anche in materia pensionistica, sia pur limitata alle questioni di diritto. Sulla base di queste pur sintetiche premesse si comprenderà agevolmente come al notevole arretrato esistente in alcune regioni (in particolare Lazio, Campania, Puglia e Sicilia) non possa farsi fronte in tempi brevi, a meno di ulteriori iniziative legislative. Il Consiglio di presidenza, la Conferenza dei Presidenti delle Sezioni giurisdizionali regionali, nonché le strutture amministrative della Corte stanno compiendo ogni tentativo per alleggerire, per quanto possibile, il carico di ricorsi pendenti e venir incontro alle esigenze di giustizia dei ricorrenti. A mezzo degli strumenti informatici, sempre più spesso - in particolare nel settore dei ricorsi per pensioni civili - si possono tenere

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udienze monotematiche riguardanti diecine di giudizi aventi ad oggetto il medesimo petitum, il che serve anche a depurare i dati statistici offerti dalle varie Sezioni, nonché a meglio definire l’effettiva necessità di risorse aggiuntive umane e materiali. Purtroppo proprio nel settore che presenta il maggiore arretrato, il contenzioso per pensioni di guerra, le nuove procedure informatiche possono incidere solo marginalmente, costituendo ogni giudizio una fattispecie distinta, non ancorabile ad altre, seppure non particolarmente complessa. Al fine di impiegare al meglio il personale di magistratura operante nei vari settori della Corte, e di riequilibrare in qualche modo gli attuali carichi di lavoro, il Consiglio di presidenza dell’Istituto ha già posto allo studio una espressa previsione - nell’ambito dei criteri per il conferimento degli incarichi - secondo la quale verrà domandato ai colleghi che fanno richiesta di essere autorizzati all’espletamento di un secondo incarico esterno - la disponibilità a tenere, in aggiunta alle funzioni istituzionali già svolte, alcune udienze presso i collegi in cui vi è maggiore necessità di sfoltimento dell’arretrato pensionistico. Un ulteriore tassello allo smantellamento dell’arretrato verrà, poi, offerto dalla previsione normativa di cui si è proposta l’introduzione in un recente disegno di legge governativo, secondo la quale sarà dato al Presidente della Sezione risolvere monocraticamente, con decreto, i casi di estinzione del giudizio per inattività del ricorrente, potendosi così nelle udienze collegiali trattare esclusivamente ricorsi, di cui è indispensabile la definizione nel merito. Solo in un momento successivo, ma comunque non a lungo termine, la Corte potrà richiedere un ulteriore intervento normativo, ove gli esposti rimedi non dovessero apportare sostanziali miglioramenti alla denunciata situazione. Il controllo-referto della Corte. Si è notevolmente intensificata in questi ultimi anni l’attività di referto dell’Istituto; al suo naturale e tradizionale destinatario, il Parlamento Nazionale, si sono aggiunte segnatamente nell’anno decorso, le pronunce dei Collegi regionali di controllo che riferiscono ai vari Consigli regionali su particolari aspetti dei bilanci consuntivi o su specifiche attività gestionali. Dopo alcune comprensibili incertezze sui poteri e sulle finalità perseguite dalla nuova struttura della Corte, si è determinata in particolare in alcune Regioni del Nord - Toscana, Veneto, Liguria - una fruttuosa collaborazione fra i Collegi di controllo, i Consigli regionali e le stesse Giunte. Non un’attività inquisitrice, è, infatti, quella svolta dai Collegi regionali, ma un apporto cognitivo e propositivo, volto ad accertare lo stato di attuazione dei programmi regionali ed a porre in evidenza eventuali disarmonie talvolta derivanti dalla stessa normativa di base. Le prime pronunce hanno avuto larga e favorevole eco sulla stampa locale. L’attività dei nuovi organismi decentrati dell’Istituto, si è aggiunta a quella svolta ormai da un quindicennio, dalla Sezione enti locali prevista, come è noto, dalla legge del 1982. In questo ultimo triennio la pronuncia che la Sezione presenta al Parlamento nel mese di luglio di ogni anno ha tenuto conto del nuovo ordinamento finanziario-contabile ridisegnato per gli Enti locali nel 1995, ma solo di recente pienamente attuato; ordinamento, caratterizzato come è noto, per aver recepito impostazioni di tipo aziendalistico e largamente innovative. Alla rituale scadenza di luglio, in cui la Sezione effettua una panoramica a tutto tondo sugli aspetti più rilevanti delle attività comunali (tra queste ad es. lo sviluppo delle procedure di programmazione, il funzionamento di società miste per la gestione di servizi pubblici, i rapporti tra finanza locale e quella statale e regionale), si è aggiunto quest’anno uno specifico referto che, la Sezione ha presentato al Parlamento nello scorso dicembre, su gestioni di province, comuni e comunità montane. Sono state effettuate indagini a campione (talune in collaborazione con i Collegi regionali), quali la mancata utilizzazione di mutui concessi agli enti dalla Cassa depositi e prestiti, la realizzazione di interventi vari cofinanziati con fondi comunitari, la gestione di servizi pubblici ed "a domanda individuale", quali ad es. i servizi di refezione scolastica. Intensificatasi, altresì, è l’attività di referto svolta dalla Sezione di controllo sugli enti sovvenzionati dallo Stato in via ordinaria. Come è noto, l’articolo 7 della legge 21 marzo 1958 n. 259 dispone che la Corte comunichi periodicamente alla Presidenza del Senato e della Camera i conti consuntivi ed i conti profitti e perdite degli Enti, riferendo contestualmente sul risultato del controllo eseguito sulla gestione finanziaria. L’avvenuta trasformazione di aziende ed amministrazioni autonome, quali le Poste, le Ferrovie, l’Anas, in enti e società per azioni, ha determinato il confluire di questi nuovi organismi nell’ambito della Sezione. Nonostante la scarsezza di personale e di mezzi la Sezione stessa non ha mancato di riferire puntualmente su tutte le nuove gestioni, su alcune delle quali (Poste e Ferrovie) vi è stata anche una recente audizione in Parlamento dei Presidenti di Sezione competenti in materia, di tanto interesse e rilievo per tutta la comunità nazionale. Da ultimo parlo di quella che è l’attività di referto più tradizionale e più nota alla opinione pubblica, la relazione annuale nella quale la Corte esprime, in funzione ausiliaria per il Parlamento, una valutazione d’assieme sulla evoluzione e sulle tendenze strutturali della finanza pubblica, muovendo dall’analisi del

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consuntivo. Questa funzione ha acquisito ancora maggior rilievo, in coerenza con analoghe esperienze di altre magistrature superiori di controllo europeo, nel contesto dei Trattati di Maastricht e di Amsterdam e del patto di stabilità e crescita della Unione europea e monetaria, come verificazione offerta alle Camere della compatibilità fra i risultati e le tendenze della finanza pubblica italiana e le regole europee in materia di politiche di bilancio. L’interesse istituzionale di questo compito è testimoniato da una prassi parlamentare ormai decennale, la quale attraverso referti specifici ed audizioni chiama la Corte ad esprimersi dinanzi alle Commissioni bilancio riunite del Senato e della Camera sul decreto di programmazione economica e finanziaria e sulle proposte di legge finanziaria e di bilancio. La parte della relazione più nota alla opinione pubblica è indubbiamente quella dedicata alla misurazione dei risultati della gestione per Ministeri e per grandi comparti della finanza pubblica (ad es. la sanità, la previdenza, i trasferimenti alle imprese). Mi preme sottolineare come, sebbene non appaiano formalmente nel corpo delle relazioni le controdeduzioni e le osservazioni mosse dalle Amministrazioni al testo della relazione - a differenza di quanto avviene ad es., per la relazione della Corte dei conti europea - il confronto-contraddittorio con le Amministrazioni interessate si sviluppa sin dai primi mesi dell’anno, partendo da un esame critico dell’ultima relazione ed impostando una cooperazione fruttuosa per lo svolgimento della successiva fase istruttoria. Al Parlamento vengono presentate, inoltre, relazioni quadrimestrali sul rispetto dei precetti costituzionali posti dall’art. 81 - comma terzo e comma quarto - nonché referti specifici, su temi rilevanti della gestione di finanza pubblica, quali quelli in materia di informatica pubblica, di trasferimenti alle imprese, di interventi nelle aree depresse, di residui attivi e passivi sul bilancio statale ed infine di dismissioni immobiliari, argomento quest’ultimo di tanto palpitante e controversa attualità. La Corte e la trasparenza amministrativa. Se gli uomini fossero angeli, scriveva James Madison nel Federalist, non ci sarebbe bisogno di un governo. E se fossero gli angeli a governare gli uomini, non vi sarebbe bisogno di controlli interni ed esterni. Le affermazioni di due secoli fa sono valide anche oggi alle soglie del duemila, con il crescente maturarsi della coscienza civica, con la legittima aspirazione della collettività a veder accertato il corretto uso di fondi pubblici e la proficua finalizzazione del prelievo tributario. Di qui il sorgere di nuove entità, variamente denominate, che lo stesso Parlamento nazionale o gli organi elettivi locali hanno previsto con disposizioni normative o statutarie. Si va da una serie dei cosiddetti Osservatori, per riferire e monitorare gestioni di rilevante entità o l’attuazione di leggi di particolare impegno finanziario e sociale, al proliferare di difensori civici a diverso livello locale, cui leggi recenti (in particolare la legge n. 127 del 1997) hanno conferito maggiori poteri. Se mi è consentita in questa occasione una escursione oltre i confini nazionali, che dire della "hot line" statunitense funzionante presso il General Accounting Office? (la Corte dei conti americana). Chiunque può telefonicamente denunciare fatti ed episodi da cui derivino abusi di potere e sperpero di pubblico danaro. Se ciò avviene dopo la chiusura degli uffici, ogni mattina, alla loro riapertura, i funzionari dell’organo di controllo ne prendono diligentemente nota, anche se denunciati in forma anonima o con generalità fittizie. Scattano allora, comunque, indagini affidate agli organi di controllo interno dei vari Dipartimenti anche per i fatti anonimamente denunciati, di cui solo il trenta per cento si rivela privo di fondamento. E’ una sorta di ritorno alla denuncia infilata nella bocca della verità o una versione estremizzata del nostro 117 la cui istituzione ha trovato qualche voce discorde... In un altro giovane Paese, Israele, il Controllore statale, organo dotato di elevata professionalità e posto in condizioni di assoluta indipendenza, ha anche i compiti ed i poteri dell’Ombudsman, cioè del Difensore civico nazionale. Il cumulo di funzioni di diversa natura, lascerebbe forse perplesso qualche giurista occidentale, ma in quell’ordinamento deve dare ancora più forza all’operato del controllore, sol che si pensi come (lo si è appreso di recente) il primo ministro israeliano sia stato costretto a riversare all’Erario una certa somma per spese stravaganti e voluttuarie, non attinenti all’esercizio della sua pur alta funzione. Sgombro subito il campo da un possibile equivoco: la Corte non si candida in alcun modo ad assumere anche le funzioni di Difensore civico nazionale, la cui istituzione è ancora una volta in discussione al Parlamento, dopo quasi trenta anni di precedenti infruttuosi analoghi tentativi. Il mio parere personale è, al contrario, assolutamente negativo al varo di questo nuovo istituto per tutta una serie di ragioni, non esplicitabili in questa occasione. Rappresento solo che in alcuni grandi paesi, membri della Unione Europea (Francia e Gran Bretagna), in cui è operante già da molti anni un Difensore civico nazionale di elevata professionalità e prestigio personale, oltre il trenta per cento delle denunce presentate non può essere istruito in quanto estraneo alle competenze del difensore civico, mentre non è irrilevante il numero delle denunce che si rivelano prive di fondamento.

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Dopo questa lunga premessa, qual’è allora il contributo che può dare la Corte italiana alle esigenze di trasparenza dell’azione amministrativa? E’ un contributo che nasce dal suo operare quotidiano, ma anche dalla sua attività di controllo referto, di cui si è già detto, in cui l’Istituto fa anche propri i cahiers de doléance da più parti provenienti circa la indispensabilità di leggi meno numerose e più chiare - e ne fornisce esempi puntuali - in quanto è proprio nella scarsa chiarezza normativa che si annidano i germi della corruzione. Il contributo che sotto questo aspetto dà la Corte - giova ripeterlo allorché dichiara irregolarità di gestione o indispensabilità di migliori procedure - per il venir meno del carattere di deterrenza connaturato all’originario amplio esercizio del controllo preventivo - necessita, ora, della pronta collaborazione degli organi amministrativi, chiamati a dare sollecita esecuzione alle raccomandazioni ed osservazioni dell’organo di controllo esterno. E’ peraltro mia personale e profonda convinzione che al di là di ogni controllo - pur sollecito e penetrante - è soprattutto nell’intimo delle loro coscienze che i pubblici amministratori ed i pubblici funzionari, questi ultimi adeguatamente retribuiti, debbono trovare i motivi di un corretto ed efficace operare, orgogliosi di essere al servizio della collettività. Perché venga in essere, in tempi brevi, quello Stato più moderno e meno accentrato, così come risulta dal vigente quadro di decentramento e semplificazione amministrativa introdotto dalle leggi n. 59 e 127 del 1997, la Corte presterà tutta la sua opera di stimolo e di ammonimenti, ove riscontri ingiustificate remore, tuttora sussistenti, alla attuazione dei provvedimenti di riforma, per cui unirà la sua azione a quella già in essere presso la Presidenza del Consiglio e lo stesso Parlamento nazionale, non omettendo di segnalare, ove del caso, opportunità di ulteriori riforme normative, anche a modifica delle disposizioni attualmente vigenti. Occorre guardare anche alla trasparenza delle proprie mura domestiche: sotto questo profilo il Consiglio di presidenza della Corte, dietro mia proposta, ha recentemente stabilito che non possano conferirsi o autorizzarsi incarichi a magistrati operanti nell’area del controllo da parte di Amministrazioni od Enti pubblici controllati, se non siano trascorsi almeno due anni dalla cessazione delle relative funzioni: previsione questa che potrebbe avere riflessi anche nell’ambito di orizzonti più ampi, inquadrabile com’è nel codice etico dei pubblici dipendenti. Signor Presidente della Repubblica, questa mia esposizione non è né poteva essere una rassegna completa delle funzioni dell’Istituto e dei compiti che lo attendono in questo non lungo tratto di strada che debbo percorrere al suo interno. Ho inteso solo rappresentare la consapevolezza che la Corte ha di costituire un centro di riferimento e di raccordo nel processo di ammodernamento e sviluppo delle nostre istituzioni, quale valido strumento di difesa non solo della legalità, indispensabile presupposto di corretta amministrazione, ma anche del buon andamento della pubblica amministrazione, imperniata sulla economicità, efficienza ed efficacia della sua azione. Al termine del mio dire mi è grato rivolgere ai colleghi Magistrati ed al personale tutto della Corte un affettuoso augurio di buon lavoro per concorrere a migliorare sempre di più i risultati dell’attività dell’Istituto sì da corrispondere, come è nelle sue nobili tradizioni, alle aspettative del Paese.

Francesco Staderini 25 ottobre 2000 Dopo un lungo periodo di assenza di incisivi interventi riformatori, dall'inizio degli anni '90 la riforma della pubblica amministrazione, in tutti i suoi aspetti, organizzativi e funzionali, è divenuta oggetto di una frenetica attività legislativa. Nella vastità e complessità del movimento riformatore - dalle leggi n. 142 e n. 241 del 1990, al d. lgv. n. 29 del 1993, fino alla disciplina del bilancio del 1998 - è chiaramente individuabile come costante principio ispiratore la ricerca di una maggiore efficienza dell'azione amministrativa; ed anche tutta la più recente legislazione relativa al trasferimento di poteri e competenze dal centro alla periferia, nel quadro del c.d. federalismo amministrativo, non manca di coniugare il principio della sussidiarietà con quelli della economicità ed efficienza. La riforma della Corte dei conti, consacrata (dopo una serie di interventi legislativi d'urgenza) nelle leggi n. 19 e n. 20 del 1994 e, poi, perfezionata nel 1996, è in assoluta coerenza sistemica con questo disegno. Ed invero: un'amministrazione più snella e tempestiva è stata, innanzitutto, alla base della disposta riduzione dell'ambito di incidenza del controllo preventivo, mentre l'introduzione di un successivo e generalizzato controllo sulla gestione ha avuto proprio la sua principale giustificazione nella esigenza di assicurare una maggiore efficienza ed economicità dell'azione amministrativa; la riforma della giurisdizione, infine, ha

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completato il disegno riformatore, compensando il ridimensionamento del controllo preventivo con il potenziamento della giurisdizione di responsabilità, in una nuova configurazione che privilegia il ruolo di prevenzione della malamministrazione su quello meramente risarcitorio. Si è trattato di una riforma di portata vastissima, come già evidenziano questi brevi cenni riassuntivi, che ha sconvolto assetti consolidati da decenni e decenni di applicazione. Riforma, peraltro, introdotta - come detto - sotto la spinta dell'urgenza a provvedere in un settore troppo a lungo trascurato dal legislatore; e ciò non poteva non determinare, atteso anche il carattere fortemente innovativo della nuova disciplina, incongruenze, lacune e difficoltà applicative. Una rassegna più circostanziata metterà maggiormente in evidenza, distintamente per i due grandi settori funzionali del controllo e della giurisdizione, la portata storica delle innovazioni introdotte, lo stato di attuazione e le difficoltà relative, i punti di criticità del sistema e i possibili interventi correttivi. Il sistema dei controlli sulle amministrazioni statali era rimasto, fino alla vigente riforma, sostanzialmente ancorato a quello introdotto in origine dalla legge 14 agosto 1862, n. 800 e rappresentato dal visto di legittimità che la Corte doveva apporre su tutti i decreti del Capo dello Stato e su tutti gli atti di spesa, al di sopra di un certo limite (quasi irrisorio) di valore, perché diventassero efficaci. Questo ordinamento, infatti, era passato pressoché indenne attraverso i rivolgimenti politico-istituzionali di oltre un secolo, subendo solo marginali modifiche. I difetti del sistema erano evidenti. In primo luogo, l'eccessiva e incongrua estensione del controllo, che, da un lato, ricomprendeva un'infinità di provvedimenti di scarsissimo rilievo, il cui esame sottraeva tempo da dedicare a quelli più importanti; dall'altro, escludeva atti di grande rilevanza - come quelli programmatici e di indirizzo - solo perché non adottati nella forma del decreto del Capo dello Stato o privi di immediati effetti finanziari. Va, poi, evidenziato l'intralcio alla speditezza dell'azione amministrativa conseguente alla complessità del procedimento di controllo, privo di limiti temporali al suo esercizio e, per di più, successivo a quello già espletato sugli stessi atti dalle ragionerie presso i ministeri secondo moduli procedimentali e criteri analoghi. I difetti evidenziati si aggiungono, naturalmente, a quello che è il limite proprio, conseguente alla natura cartolare, dei controlli di questo tipo, che si svolgono unicamente su singoli atti amministrativi, così che la situazione presa in esame dal controllore - e confrontata con il parametro normativo - non è necessariamente quella reale ma solo quella rappresentata negli atti singolarmente esaminati. Appariva chiaro, insomma, che il sistema era ormai superato: se aveva avuto inizialmente una giustificazione e aveva corrisposto, anche egregiamente, alle esigenze per cui fu introdotto, non poteva più ritenersi adeguato, a fronte delle trasformazioni della pubblica amministrazione, al moltiplicarsi delle sue funzioni e al mutare dei moduli operativi, alla sempre maggiore attenzione a costi e risultati dell'azione amministrativa. L'esigenza di una riforma era da tempo avvertita, non soltanto da parte della dottrina più qualificata ma anche all'interno della stessa Corte; mi piace qui ricordare la petizione al Parlamento presentata nel 1969 dalla maggioranza dei magistrati contabili per reclamare una radicale revisione dell'ordinamento dell'Istituto e delle sue funzioni. Peraltro, nel quadro complessivo della riforma del controllo, il tradizionale controllo preventivo di legittimità su atti, così come ridisegnato dal legislatore, potrà continuare a svolgere un ruolo essenziale per l’ordinamento; e ciò non solo per doveroso ossequio a una diretta previsione costituzionale, ma per la eccezionale rilevanza degli atti sui quali è stato conservato. Trattasi, come noto, dei regolamenti, degli atti generali, degli altri atti che rappresentano l’ "incipit" di complessi organizzati di attività o di gestioni (per esempio, le deliberazioni dei Comitati interministeriali), e che non incidono direttamente - aspetto, questo, da molti, spesso, trascurato - in situazioni soggettive di soggetti privati o pubblici, onde non sarebbero immediatamente ricorribili davanti ad alcun giudice. Appare inoltre saggia la scelta del legislatore di mantenere il controllo preventivo di legittimità sui contratti di maggior impegno finanziario, dei quali è parso utile far precedere l’esecuzione da una fase di controllo "ex ante" che può avere la funzione di prevenire il contenzioso amministrativo e, soprattutto, il prodursi di danni erariali di pressoché impossibile riparazione, proprio in considerazione dell’elevato valore dei contratti. L’aspetto, comunque, più rilevante della riforma realizzata nel 1994 consiste nell’aver intestato alla Corte dei conti una funzione di generalizzato controllo successivo sulle pubbliche gestioni, ben al di là del limitato controllo "successivo sulla gestione del bilancio dello Stato" espressamente previsto in Costituzione. Il controllo successivo esteso all’universo delle pubbliche amministrazioni è stato pienamente legittimato dalla Corte costituzionale e rappresenta, oggi, la funzione di più ampio respiro attribuita alla Corte dei conti, sì da far dire che questa è diventata, da "Corte dei conti statali", la "Corte dei conti pubblici". Negli ultimi anni l’idea che l’amministrazione debba costituire un fattore dello sviluppo economico, con la conseguenza che anche i suoi "prodotti" debbano rispondere ad una logica di economicità e di efficienza, ha contribuito a modificare radicalmente la natura e la stessa finalità dei controlli.

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La legge n. 20 del 1994 è parte integrante di questi cambiamenti, chiamando la Corte a tre compiti fondamentali. Il primo corrisponde alle funzioni che la Corte svolge come "garante imparziale dell'equilibrio economico-finanziario del settore pubblico", mediante relazioni al Parlamento su grandi aggregati di finanza pubblica (la finanza dello Stato, la finanza regionale, la finanza locale) e su politiche pubbliche di settore (la sanità, i trasporti, il personale pubblico, ecc.); nel che, è una delle maggiori manifestazioni del rapporto di ausiliarietà che lega la Corte al Parlamento e che la Corte propone di ulteriormente sviluppare attraverso l’instaurazione con il Parlamento di un "filo diretto permanente", così da sapere per tempo quali sono i settori sui quali il Parlamento è più interessato a ricevere dati e valutazioni. E' mia convinzione, peraltro, che il rapporto Corte-Parlamento sarebbe significativamente potenziato ove ciascuna delle due Camere rafforzasse gli strumenti intesi ad assicurare la sistematica considerazione degli esiti del controllo eseguito dalla Corte dei conti. Il secondo compito ha ad oggetto la verifica di economicità, di efficienza e di efficacia delle gestioni amministrative o complessi articolati di attività, da apprezzare con i "metri" delle scienze e delle tecniche propri di ciascun settore. Ciò, in base a programmi di controllo, in modo da eseguire e presentare - al Parlamento, al Governo, all’opinione pubblica - valutazioni comparative di costi, rendimenti, risultati dell’azione amministrativa e contribuire, in questo modo, a disvelare disfunzioni, inefficienze e quant’altro dev’essere oggetto di interventi correttivi ad opera del Parlamento, del Governo e, ancor prima, della stessa amministrazione. Finalità del controllo successivo sulla gestione è, infatti, primariamente quella di contribuire a migliorare l’azione amministrativa attraverso la collaborazione che la Corte è in grado di fornire direttamente alle amministrazioni, segnalando loro le misure necessarie o opportune per elevare la "qualità" del prodotto amministrativo. Il terzo compito è la verifica di funzionalità dei controlli interni, affinché - come avviene in paesi di più lunga esperienza nel controllo sulla gestione - il controllo esterno interagisca con quello interno nella messa a punto e nel perfezionamento delle tecniche e degli indicatori necessari a rilevare i risultati della gestione. Questi compiti la Corte si propone di svolgere - come accennato - sia con riguardo all’amministrazione statale, sia con riguardo alle amministrazioni regionali e locali. Come ha, infatti, chiarito la Corte costituzionale, la Corte dei conti è divenuta, con la riforma del 1994, organo ausiliario, in funzione di collaborazione, anche delle assemblee e delle amministrazioni regionali e locali. E, nell'esercizio di questo ruolo collaborativo, la Corte non mancherà di portare la sua attenzione e le sue valutazioni sull’impiego delle risorse finanziarie che costituiscono la "dotazione" del federalismo fiscale, con particolare riguardo alla corretta gestione dei "fondi di riequilibrio", cui sarà rimesso di attuare la solidarietà fra regioni ricche e regioni meno ricche. L’introduzione del controllo successivo sulla gestione non comporta, comunque, che - come talvolta si afferma - la legittimità sia divenuta un valore recessivo: semplicemente, essa non è più l’unico "metro di misura" per apprezzare la qualità dell’azione amministrativa. In altri termini, la valutazione dei risultati di una gestione non può ignorare (così come non li ignora il settore privato) i vincoli della legalità; ma, all’interno di questi vincoli, tutti gli atti, le attività, i comportamenti che "danno corpo" alla gestione debbono essere apprezzati alla luce di criteri e indicatori non giuridici, utili a misurare i costi e i rendimenti dell’azione amministrativa. Alla Corte il legislatore chiede, dunque, di attrezzarsi per svolgere un controllo di tipo nuovo, che deve avvalersi di tecniche e di conoscenze economiche, statistiche, aziendalistiche e di altre ancora anche per la messa a punto dei parametri, degli indicatori, degli standard con i quali misurare e valutare le attività amministrative. Di qui la necessità di acquisire alla Corte le professionalità "non giuridiche" indispensabili a tale compito (a questo riguardo, un primo concorso per l’accesso nella magistratura della Corte esteso a candidati esperti anche in discipline non giuridiche è stato bandito di recente, ma altri ne dovranno seguire). Per l’esercizio delle vecchie e delle nuove funzioni di controllo occorre una Corte "attrezzata", anche, sotto il profilo organizzativo. Il d. lgv. n. 286 del 1999, nel procedere ad una organica riforma dei controlli interni alle pubbliche amministrazioni, ha opportunamente conferito alla Corte il potere di rinnovare, mediante proprio regolamento, l’organizzazione delle strutture deputate al controllo. Le Sezioni Riunite della Corte hanno provveduto, voglio sottolinearlo, con tempestività, all’esercizio della delega, adottando un regolamento che, sebbene "perfettibile", delinea una Corte più moderna e, sicuramente, maggiormente in grado di esercitare, anche in ambito territoriale, le funzioni di controllo ad essa intestate dalla riforma del 1994. Punti qualificanti della riforma, che voglio, qui, solo brevemente ricordare, sono l’istituzione delle Sezioni regionali di controllo per l’esercizio, tra l’altro, del controllo sulla gestione delle amministrazioni statali, aventi sede nella Regione, delle amministrazioni regionali e degli enti locali; l’istituzione della Sezione autonomie con compiti oltreché di controllo, di referto al Parlamento sulla finanza regionale e degli enti locali; una nuova disciplina della fondamentale funzione della programmazione delle attività di controllo sulla gestione,

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intestata, alle Sezioni Riunite, quanto agli indirizzi di coordinamento ed alla individuazione dei criteri metodologici di massima, ed alle singole sezioni, centrali e regionali, per la determinazione dei controlli da svolgere nell’esercizio. I programmi di controllo sulla gestione, in relazione al loro oggetto, sono comunicati, rispettivamente, ai Presidenti dei due rami del Parlamento ed ai Presidenti dei consigli regionali. È, questa, una disposizione che voglio sottolineare, in quanto, rende concreta quella funzione di ausiliarietà che connota le attività di controllo sulla gestione e consente ai supremi organi rappresentativi della collettività di "partecipare" all’attività di controllo, segnalando priorità e questioni di particolare interesse. Un cenno a parte mi sia, infine, consentito fare al controllo sulla gestione finanziaria degli enti cui lo Stato contribuisce in via ordinaria, dato il particolare rilievo di questa funzione che trae diretta legittimazione da una previsione costituzionale. A seguito della riforma del 1994 anche l'attività della competente Sezione si è potuta collocare, a pieno titolo, in un percorso di più generale riforma del sistema istituzionale e della finanza pubblica sempre più attento alle regole europee sull'equilibrio di bilancio e sulla concorrenza, ai documenti programmatici diretti ad incidere sull'indebitamento ed a riqualificare la spesa pubblica, alle norme di riordino degli enti pubblici e di miglioramento qualitativo di prodotti e servizi. Le funzioni giurisdizionali della Corte dei conti escono, anch’esse, significativamente modificate dalla riforma del 1994; in primo luogo per quanto attiene alla responsabilità amministrativa ed al suo processo. L’attuale disciplina ha completamente ridisegnato l’istituto, da un lato conferendo rinnovata vitalità a connotazioni (quali la ripartizione dell’addebito tra i corresponsabili del danno) che la prassi giurisprudenziale aveva sottovalutato perché mossa dall’adesione piena a modelli civilistici; dall’altro, introducendo profili del tutto nuovi (quali l’obbligo di valutare i vantaggi conseguiti dall'amministrazione o dalla comunità amministrata) che rafforzano il distacco dal modello risarcitorio puro della responsabilità civile. Così, accanto al potere di riduzione dell’addebito - istituto peculiare che ha da sempre contraddistinto la natura sanzionatoria della responsabilità amministrativa e che è stato espressamente confermato dalle nuove norme - meritano, ancora, di essere evidenziati: la conclamata natura "personale" della responsabilità stessa e la conseguente esclusione del principio di una generale estensione agli eredi; la "limitazione" alle ipotesi di illecito commesso con dolo o colpa grave (e ciò, come è stato sottolineato dalla Corte costituzionale, allo scopo di evitare che la prospettiva della responsabilità si trasformi in un disincentivo allo svolgimento dell’attività amministrativa); l’applicazione dell’istituto della solidarietà passiva soltanto nei confronti dei compartecipi che abbiano conseguito un illecito arricchimento o abbiano agito con dolo. Di notevole importanza, infine, proprio per la finalità di garantire l’autonomia delle scelte amministrative, è la norma sulla non sindacabilità, nel merito, delle scelte discrezionali. Tutto ciò dà ragione del fatto che il legislatore abbia inteso delineare il giudizio di responsabilità come diretto soprattutto a perseguire - con finalità preventivo-sanzionatoria - i più gravi illeciti amministrativo-contabili, salvaguardando, comunque, i poteri di indirizzo e di scelta politico-amministrativa degli amministratori pubblici. È, questa, una ricostruzione dell'istituto coerente con l'evoluzione dell'ordinamento, ma non mancano aspetti contraddittori che giustificano incertezze giurisprudenziali; è urgente, quindi, che il legislatore ridefinisca, in modo organico e coerente, la disciplina posta, varata, come già notato, sotto la "spinta" dell'urgenza, dandosi carico primariamente della revisione del regolamento di procedura, vecchio ormai di oltre sessant'anni e assolutamente inadeguato al nuovo giudizio. La responsabilità amministrativa in questa nuova configurazione tende, comunque, a distinguersi sempre più nettamente dalla comune responsabilità civile e ne appare logica l'attribuzione ad un giudice speciale che, per specifica cultura, preparazione e vocazione, è in grado di meglio valutare i diversi profili dei comportamenti all'esame. E', quindi, ancora pienamente attuale - e ciò mi sia consentito ribadirlo con forza, con la memoria rivolta ad alcuni indirizzi emersi nella Commissione parlamentare per le riforme costituzionali - la scelta del costituente di attribuire alla Corte dei conti questa giurisdizione. Giurisdizione che, con le sue funzioni di prevenzione, si colloca nell'ambito della riforma della Corte come naturale completamento del sistema dei controlli: a fronte di una drastica, se pur opportuna, riduzione dei controlli preventivi sulle amministrazioni statali e ad una ancor più incisiva limitazione dei controlli sugli enti locali - estesa questa anche agli stessi parametri del riscontro di legittimità - la previsione del sindacato del giudice contabile assolve ad una indubbia funzione di garanzia e sottrae occasioni d'intervento alla giustizia penale. Fuor di luogo è, poi, la preoccupazione di alcuni che le rinnovate funzioni della Corte in materia di controllo sulla gestione possano fungere da "cinghia di trasmissione" per l’azione di responsabilità amministrativa, instaurando una sorta di assioma in forza del quale le valutazioni negative manifestate in sede di controllo si traducano, in modo quasi automatico, nel sindacato giurisdizionale sui comportamenti degli amministratori o

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dei dipendenti pubblici. Su tale delicato problema, non posso che ribadire l’insegnamento venuto dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 29 del 1995: controllo sulla gestione e responsabilità amministrativa per danno, ancorché intestati dall’ordinamento ad uno stesso soggetto istituzionale, non sono destinati ad incontrarsi, se non eccezionalmente, in costanza degli elementi costitutivi della responsabilità e nel rispetto del valore - assoluto - delle garanzie processuali. Pochi cenni sul giudizio di conto, per sottolineare come questo antico strumento di controllo contabile (mutuato dall’ordinamento francese) sia ormai inadeguato rispetto alle esigenze di funzionalità di un moderno Stato, che sta sperimentando forme articolate di autonomismo e di federalismo e che aspira a raggiungere traguardi sempre più elevati di efficienza ed economicità. Impregiudicata la regola di civiltà giuridica secondo cui ogni soggetto che abbia maneggio di denaro o valori di pertinenza pubblica deve presentare il conto della gestione, per consentire all’amministrazione di appartenenza (e, quindi, alla collettività) una tempestiva e costante verifica sulla legalità dell’operato gestorio, appare, peraltro, opportuno un ponderato ripensamento sulla vigente disciplina del giudizio di conto, attraverso un approccio organico ed attento a tutte le implicazioni, anche di ordine costituzionale, della materia. Per ultimo, ma non certo per importanza della questione, ritengo doveroso assicurare il forte impegno dell’Istituto inteso a far fronte al sensibile arretrato nella materia dei giudizi pensionistici che l’ordinamento attribuisce alla competenza della Corte dei conti. Debbo subito dire che i ricorsi in materia di pensioni civili, militari e di guerra che attendono di essere definiti sono in numero ancora troppo alto, anche se, grazie all’impegno del personale di magistratura e amministrativo, va nettamente delineandosi una tendenza, assai confortante, che vede la sensibile diminuzione dei giudizi pendenti e fa guardare al futuro, pur nella consapevolezza della permanente gravità della situazione, con maggiore ottimismo. La scelta compiuta dal legislatore del 1994 di istituire in ogni Regione Sezioni giurisdizionali della Corte con competenza, anche, nella materia pensionistica è stata, certamente, felice, non solo perché ha "avvicinato" la giustizia contabile e pensionistica al cittadino, ma anche per quanto attiene alla possibilità di incidere sul fenomeno dell’arretrato. Devo, poi, sottolineare come la recente legge n. 205 del 2000 contiene disposizioni assai significative anche per quanto attiene al giudizio in materia di pensioni che, auspico, possano apportare un ulteriore contributo, attraverso un processo più snello, per avviare a risoluzione il problema: mi riferisco, in primo luogo, alla istituzione del giudice unico; alla possibilità di adottare decisioni in forma semplificata; alla estinzione dei giudizi per i quali risulti deceduto il ricorrente e non siano riassunti dagli eredi entro i termini stabiliti; alla perenzione dei ricorsi ultradecennali. Come tutte le riforme che "toccano" i procedimenti giurisdizionali, anche quella introdotta dalla "205" presenta difficoltà applicative, ma confido - in attesa dell'ormai improcrastinabile revisione del regolamento di procedura - che la "saggezza" interpretativa dei nostri giudici saprà operare con il consueto equilibrio, nel pieno rispetto della "ratio" voluta dal legislatore. Scriveva Montaigne (Saggi, libro III, cap. XIII), nel secolo XVI, che è illusorio pensare di imbrigliare i giudici moltiplicando le leggi, perché "c'è tanta libertà e ampiezza nell'interpretazione delle leggi quanto nella fabbricazione di esse". E' un'osservazione che riflette naturalmente la situazione dell'epoca, ma, come tante altre del grande pensatore, racchiude un fondo di verità che resiste al tempo. Signor Presidente della Repubblica, io vorrei assicurare Lei e tutte le più alte cariche dello Stato qui presenti che questa Magistratura, libera da condizionamenti politico-ideologici e da suggestioni corporative, continuerà ad operare nella fedeltà assoluta ai principi costituzionali, convinta di rendere ancora un servizio essenziale al Paese.