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Bellissima 2016 Percorso di Laboratori di indipendenza culturale Roma – Milano – Venezia Atto Primo I fiori di Gutenberg 3 ottobre 2015 – Roma

I Fiori Di Gutenberg - Bellissima 2016

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Gli atti del laboratorio di cultura indipendente tenutosi a Roma il 3 ottobre 2015.

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Bellissima 2016Percorso di Laboratori di indipendenza culturale

Roma – Milano – Venezia

Atto PrimoI fiori di Gutenberg3 ottobre 2015 – Roma

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Atti del seminario I Fiori di Gutenbergredazione a cura di Gianmarco Mecozzi

Doc(k)sstRAtegie Di inDipenDenzA cultuRAle

[email protected]

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I FIORIDI GUTENBERGTESTO DI INVITOAL SEMINARIO

il seminario intende dare corpo e si-gnificato al concetto di “indipen-denza” nell’ambito editoriale.

la questione di fondo è la seguente:che cos’è indipendente? ovvero: cosavuol dire “essere indipendenti”, oanche “agire da indipendenti”, nelmercato del libro? e, soprattutto,quali sono i diversi gradi di indipen-denza nei vari ambiti della filiera (au-tori, editori, librai…)? Questi gradisono fra loro conflittuali ed esclu-denti, oppure sono, invece, attuabilidelle strategie che mettano le diverse“indipendenze” in cooperazione?

possiamo avvicinare il tema dell’in-dipendenza editoriale da diverse pro-spettive. c’è la prospettiva “frontale”che parte dal libro, dal prodotto fi-nale cioè, pienamente legata aun’idea di eccezione del lavoro edito-riale; il libro cioè come prodotto spe-ciale, unico. il libro come generatoredi percorsi di libertà, e come ripro-duttore di democrazia.

c’è poi la prospettiva del “pro-cesso” attraverso il quale il prodottosi costituisce, ossia l’insieme delle

pratiche e dei valori (del lavoro) adot-tate per fare libri. il processo del fareeditoria come agire costituente delprodotto finale. non, quindi, e co-munque non solo, l’editoria indipen-dente, e con essa il libro, comeprospettiva privilegiata ma tuttol’agire produttivo come snodo fonda-mentale dentro il quale cambiarel’ordine del discorso della produ-zione editoriale.

entrambe le prospettive sarannoesposte, indagate, sviluppate.

l’idea di questo seminario è scatu-rita durante la fiera Book pride diMilano, incentrata sul tema dell’indi-pendenza. nonostante l’efficaciadell’evento e il successo di pubblicoriscontrato, quello che è apparsochiaro, successivamente, è che la for-mula “bibliodiversità contro l’omolo-gazione” non ha avuto la capacità disvilupparsi in una successiva narra-zione, rischiando di ridursi quasi auno stanco e inutile ritornello.

per questo motivo abbiamo posto lanecessità di interrogare e interrogarsia fondo su un possibile percorso dicooperazione tra quei soggetti equelle realtà associative che quotidia-namente animano gli scenari dell’in-dipendenza culturale: autori, editori,produttori, distributori, promotori,libra i e operatori culturali. con

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l’obiettivo di costruire un nuovo di-scorso, una nuova narrazione eanche un programma, perché no,dell’editoria indipendente.

A fronte di questa necessità, il semi-nario da noi immaginato mira fin dasubito un risultato concreto: avviareun percorso che deve portare alla co-struzione della programmazione cul-turale della prossima edizione dellafiera degli editori indipendenti. ecco,noi, su questa specifica importantequestione, proponiamo un metododiverso e per molti aspetti opposto aquello abitualmente in uso in questeoccasioni, perché basato su una con-cezione includente, volta a ottenereuna partecipazione la più ampia pos-sibile alla definizione della program-mazione culturale di un evento diindipendenza di rilievo nazionale.

con questo, però, non intendiamocerto sostenere che il seminario del 3ottobre possa e debba essere il luogodecisionale della programmazioneculturale della seconda edizione della

fiera dovrà piuttosto rappresentare ilsuo avvio, costituire un importantemomento dell’istruzione dei suoi con-tenuti innovativi attraverso un con-fronto aperto, trasversale, collettivo.

Da questo obiettivo seguono anchedelle modalità concrete di organizza-zione della giornata di riflessione.Quel che ci immaginiamo è la defini-zione, nel corso della mattinata, diuna mezza dozzina di relazioni, ca-paci di rendere conto dello stato dellacultura editoriale in italia, e analiz-zare cause e prospettive delle trasfor-mazioni in atto, chiarendo il ruoloche, in questo contesto, possono rita-gliarsi i progetti indipendenti . A se-guire, nella prima parte delpomeriggio, vorremmo dare spazio ainterventi progettuali e alla raccoltadi esperienze già in essere, aprendoinfine alle interlocuzioni e al dibattito.

A CURA DI DOC(K)S_2015

NOTA. Il seminario ha avuto luogo il giorno 3 ottobre 2015 nello spazio Millepiani Coworking a Roma,in via Odero 13. Al seminario sono intervenuti Riccardo Antoniucci, Lanfranco Caminiti, Alberto Abruzzese,Ilaria Bussoni, Marco Liberatore, Benedetto Vecchi, Luca Sossella, Marco Baravalle, Paolo Caffoni, RobertoCiccarelli, Andrea Cortellessa, Catia Gabrielli, Francesco Maria Pezzulli, Roberto Rosso. Aldo Bonomi, Francesco Maria Cataluccio, Manuela Casiraghi e Silvia Jop non sono potuti intervenire permotivi di varia natura. Francesco Maria Cataluccio ha comunque inviato un intervento scritto che volentieriinseriamo in questi Atti. Gli interventi di Andrea Cortellessa e Benedetto Vecchi sono disponibili in video online qui.Ringraziamo Millepiani Coworking per l’ospitalità e il Csoa La Strada.

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lAnfRAnco cAMiniti Dall’editore al lettore 9

AlBeRto ABRuzzese A proposito dei “Fiori di Gutenberg” 16

ilARiA Bussoni Lavoro editoriale, senza qualità 21

fRAncesco M. cAtAluccioPiccola filosofia dei libraie delle librerie 26

MARco liBeRAtoRe L’indipendenza è senza significato 33

lucA sossellACompetenza e competizione 35

MARco BARAVAlle Il paradosso dell’indipendenza culturale 41

pAolo cAffoni Modi di esposizione / Forme di soggettivazione 44

RoBeRto ciccARelli Tutti i Bianciardi di domani 51

Appendice

Doc(k)s I fiori di GutenbergUn testo per approfondire 54

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Lanfranco CaminitiDALL’EDITOREAL LETTORECOME STA CAMBIANDO LA COMPOSI-ZIONE DEL MERCATO DEI LIBRI E

QUELLA DELLA COMUNITÀ DEI LETTORI

C’è posta per te è un film del 1998 contom Hanks e Meg Ryan. lei ha unapiccola libreria per ragazzi, lui è unmanager di una catena di megastoredi libri, che deve aprire un nuovopunto vendita proprio in quel pa-lazzo. nella vita reale si scontranoduramente, però, senza sapere le pro-prie identità, chiacchierano piacevol-mente via e-mail, finché trionfal’amore. non il lieto fine. il megastoresi fa e la piccola libreria chiude. Hol-lywood aveva previsto tutto, ma nonci ha detto il finale. non ci è dato sa-pere che fine faccia Meg Ryan. lasceneggiatura – il film è un remake,una cosa rimaneggiata e adattata – siferma. Questo mio testo prova a chie-derselo: Meg Ryan si è ritirata a vitaprivata? È entrata come shopgirl, com-messa, che era il suo pseudonimo perl’e-mail, nel megastore dell’amato?Ha fondato Amazon per vendicarsi?parlare della nuova composizione delmercato dei libri e della comunità deilettori è una questione piena di inter-rogativi. forse il più curioso è questo:dov’è finita Meg Ryan?

per la prima volta negli usa le ven-dite online hanno superato quelle inlibreria. stephen king, che è stato unpioniere dell’e-book – Riding the bulletfu pubblicato in digitale nel 2000 escaricabile gratuitamente, e Miglio 81nel 2011 solo in formato e-book –,due anni fa non ha voluto, all’inizio,per Joyland un’edizione digitale, masolo la cartacea. Voleva aiutare le li-brerie. solo che pure Amazon lo ven-deva, lo stravendeva. Dell’ultimolibro di Murakami, per competerecon le vendite online, la catena di li-brerie kinokuniya ne ha compratonovantamila copie delle prime cento-mila. È una concorrenza che non èpossibile fare se non sei la catena dilibrerie kinokuniya. A ginza, quar-tiere di tokyo, una nuova piccolis-sima libreria, quattro metri perquattro, tiene un solo libro a setti-mana; dopo una settimana, lo cam-bia; di sicuro, non potrà esserci la“settimana Murakami”. non ce nesono copie disponibili.

il mercato dei libri è al primo postonel mondo nel mercato dei conte-nuti. secondo i dati di qualche annofa, valeva 151 miliardi di dollari; il ci-nema ne valeva 133; i quotidiani e leriviste 107, i videogames 63, e la mu-sica 50. gli stati uniti – sono i datidel 2014 – occupano largamente ilprimo posto nel mercato dei libri,con il 26 per cento della torta; seguiti

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dalla cina, con il 12, dalla germa-nia, con l’8, dalla francia, con il 4 edalla gran Bretagna, con il 3. noiitaliani dovremmo essere al settimo oottavo posto, anche se siamo al de-cimo o undicesimo per numero dilettori. eravamo molto più indietro,fino agli anni sessanta. tra la metàdegli anni sessanta e la fine deglianni settanta, il numero dei lettori initalia raddoppiò, e di più. un balzoenorme. Dagli anni ottanta, il mer-cato è più o meno stazionario: ab-biamo raddoppiato diplomati elaureati, ma non i lettori. più omeno, la classifica sulle quote di mer-cato equivale quella del prodotto na-zionale lordo. i cinesi – di cui finoall’anno scorso si profetava un sor-passo di pil nel 2020 – però hannogià superato gli stati uniti nei nuovititoli per anno. poi, al terzo posto c’èla gran Bretagna, poi la Russia, poil’india, poi il giappone, la germa-nia, l’italia, poi la spagna, la coreadel sud, la turchia e la francia.forse questa classifica è più corri-spondente a quella dei prodotto na-zionale lordo, con le nuove nazioni inascesa. È complicato mettere assiemequesti numeri con la libertà distampa: cina, Russia, turchia, sonopaesi a regime autoritario e doveviene esercitata una forte censura.però, si stampa una gran quantità dilibri. lì, il mercato del libro è fio-rente. una volta, il filosofo gadamer

osservò che nella germania nazistaci fu un grande sviluppo della musi-cologia, delle ricerche archeologiche,di studi accademici. si erano bruciatimolti libri, ma se ne erano stampatialtrettanto. era possibile una riccavita da studioso, se ti comportavi ma-nierlich. È un’espressione terribil-mente gelida, proprio per non esserefosca, anzi garbata, secondo le maniere.se guardiamo le cose da questopunto di vista, la fioritura del mer-cato può essere inquietante tantoquanto, per tutt’altri versi, la crisi.

il self-publishing, l’autopubblicazione,ha raggiunto cifre da capogiro. giàun paio d’anni fa i libri autopubbli-cati in italia avevano superato i titoliMondadori. Vendite? non perve-nuto. un anno fa, un sondaggio fracento autori autopubblicati, aveva ri-levato che solo un terzo aveva ven-duto più di cinquecento copie, con ilpicco massimo di millecinquecento.sembrerebbe rovesciarsi la piramidedei “popoli del libro”, quella che haun solo libro alla sommità e milionidi lettori alla base; qui avremo unaquantità di scrittori alla sommità epochi lettori alla base. negli statiuniti va meglio. il fondatore di sma-shwords, una delle piattaforme piùimportanti di self-publishing, sostieneche nel 2020 le vendite rappresente-ranno il 50 percento del mercato. laprofezia si avvererà? conviene auto-

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pubblicarsi? Amazon, che fa ancheda piattaforma self-publishing, ha cam-biato le regole del gioco: una volta,l’autore, fosse autopubblicato o no,veniva pagato sulla base del numerodi e-book scaricati, adesso, da que-st’estate, le royalties degli e-book au-topubblicati verranno pagate in baseal numero di pagine lette. non sap-piamo se questa innovazione diAmazon favorirà i libri brevi o quellilunghi. se pubblico mille pagine eme ne leggono tante, guadagno dipiù. Ma se si fermano a pagina ot-tanta e non vanno avanti, guadagne-rei di più pubblicando un libro dicento pagine che leggono tutto pervedere come finisce. secondo un son-daggio, Il Cardellino, il romanzo pulit-zer di Donna tartt, è statocompletato solo dal 44 percento deilettori dell’e-reader kobo nel Regnounito. Autopubblicarsi è con buonaprobabilità un segno di progresso, edell’uso diffuso e dal basso delle tec-nologie. Molti autori che non hannola determinazione di vedere respinti ipropri lavori per cinque volte daventi case editrici e continuare a scri-vere e inviare manoscritti, scelgonoquesta strada. c’è una componentedi vittimismo – tutto un complotto, lecase editrici pubblicano solo i loro“amici” –, una di narcisismo, una di“libera impresa”. Di auto-impresa.come per tutto il lavoro intellettuale,chi scrive romanzi si è andato con-

vincendo che l’imprenditoria indivi-duale è una forma di libertà. Dellevarie componenti che spingono al-l’autopubblicazione, la più vera, amio avviso, è che le case editrici pub-blicano “sul sicuro”. i grandi editori,come ogni grande impresa, non inve-ste più in sperimentazione e ricerca,preferendo l’assenza di rischio. lagrande editoria è speculativa, come ilresto del capitalismo dei contenuti. sipunta sui blockbuster – come al ci-nema. Quello che fa più riflettere èche anche gli scrittori abbiano as-sunto l’assenza di rischio. la predo-minanza di gialli, noir, thriller neinuovi titoli e nelle vendite può direquesto: tra lavoro intellettuale e capi-tale editoriale c’è cooperazione aprodurre numeri profittevoli. Di persé non è una cosa riprovevole, ma lopuò diventare. il panorama edito-riale, forse culturale, è il prodotto diquesta cooperazione.

Quello che possiamo constataresenza apparire inguaribilmente rétro èche non ci siano più libri che dianoscandalo, non ci siano più libri chevengano messi all’indice. possiamoforse dirlo altrimenti, che lo scandaloappartiene ormai talmente alle nostrevite quotidiane da non farci più caso.o da avere la stessa vita media di unlibro: ventinove giorni, è il tempo chedura in una libreria di londra un ti-tolo. più o meno, il tempo del nostro

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scandalo per le foto del piccolo curdoannegato nella grande migrazione.Visivamente, non c’è più alcuna bar-riera all’orrore e alla trasgressione. eè difficile che un libro – forse l’ultimoè stato Versi satanici di Rushdie –venga colpito da una qualche fatwa.senza lo scandalo del libro non c’èdibattito, non c’è opinione, non c’èschieramento, non c’è curiosità per ilibri. Harper lee fece un libro straor-dinario nel 1960, Il buio oltre la siepe.era ambientato nel sud degli statiuniti, e uscì al tempo del movimentoper i diritti civili. Quest’anno è uscitoGo set a watchman, tenuto nel cassettoda Harper lee per più di cinquan-t’anni, il prequel, in classifica tra iprimi titoli scaricati da Amazon. Ma imiracoli non sono ristampe o riedi-zioni o prequel. e gli scandali, come imiracoli, non si ripetono mai duevolte nello stesso posto.

i dati dicono che l’assorbimento delmercato dei libri va concentrandosinelle grandi aree metropolitane.l’autore può vivere isolandosi – cor-mac Mccarty prende a fucilatechiunque si avvicini indesiderato allasua fattoria, salinger e pynchonhanno rivestito di aura il proprio di-stacco dal mondo – ma i suoi librivanno nei luoghi dove gli uomini siaddensano. tra le grandi migrazionicui assistiamo, c’è anche quella deilibri. Benché non facciano parte

dell’essenziale bagaglio dei profughi,i libri seguono le stesse rotte mi-granti. forse è una cosa accadutasempre, dalla Biblioteca di Alessan-dria, il più fiorente centro commer-ciale e urbano del tempo; forse è unacosa che accade a intermittenza: nelMedio evo fu la disseminazione deilibri, in abbazie e monasteri, che lisalvò e li riprodusse. forse è un feno-meno nuovo. se i dati sono veri ehanno senso, “la provincia” rimarràsenza libri. in-Mandarin, uno dei piùgrandi book-store di shangai, seipiani di libri, non ha proprio nulla dainvidiare ai megastore di Berlino, manon ho dati per dire quanti libri sivendano nella provincia delloHunan. per ogni libro che si vende aiowa city se ne vendono cento anew York, e per ogni libro che sivende a cosenza se ne vendono diecia Milano. ci preoccupiamo molto, egiustamente, del digital divide, ma po-tremmo trovarci di fronte a un lecturerdivide; invece del popolo dei libri, tro-varci di fronte a libri senza popoli.Qui, internet può aiutare. c’è unsolo dato di lettura in cui il sud italia– la calabria, la sardegna, che sonoagli ultimi posti – è nei primi posti:quello di chi scarica libri sul totale dichi usa internet. e questo nella fasciad’età tra i 15 e i 24 anni. sono lettoriche sanno già cosa cercare. e nonhanno altro modo di procurarselo, ofanno più rapidamente a procurar-

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selo. i dati dicono che il mercatodell’e-book è in aumento esponen-ziale, anche se, in italia, nel 2014sono stati venduti 87 milioni di libriin cartaceo e solo 7 milioni di e-book. Ma il totale dei titoli vendutinon cresce e è stazionario. l’e-booksembra un’esperienza sostitutiva dellibro – per lettori già adusi al libro –,non aggiuntiva. però, il libro è giàtecnologicamente uno strumento“maturo”. se il romanzo è ancoraun’esperienza adulta, considerandol’aumento della durata media di vitae l’invecchiamento della popola-zione, c’è un buon margine di tempodavanti, prima di considerarlo obso-leto. io credo sarebbe una buonaidea se tutte le biblioteche comunali– che vivono, tutte, situazioni dram-matiche, ma sono come gli ufficidelle poste e le centraline dell’enel,l’unica istituzione capillare nel nostropaese – avessero in dono pubblico inuovi titoli in formato e-book. eanche molte biblioteche scolastiche.Qui, l’abbattimento dei costi e la fa-cilità di riproduzione potrebbero es-sere un grande vantaggio. peraggiungere e raggiungere lettori. Èuna scelta “politica”, un investimento“pubblico”. però, anche un segno disperanza, e una possibilità di ritorno.

Quest’estate ho conosciuto una ra-gazzina di quattordici anni, la figliadi un’amica. Ha il suo profilo face-

book, il suo tablet, il suo cellulare, ilsuo i-pod. È una nativa digitale. Manon sopporta gli e-book. Dice che illibro si legge su carta, che devi sen-tire sfogliare le pagine, che su qual-siasi schermo le parole e le frasi nonsembrano vere. ovviamente, ne sonorimasto incantato. c. è una nativa di-gitale ma è anche pre-digitale. oforse post-digitale. Mi sono chiestocome sia possibile. Mi sono chiesto,se non siamo già entrati tutti, senzaaccorgercene, in un’era post-digitalecomplessa e contraddittoria, in cui lecose convivono e confliggono. Misono chiesto se non fosse lei la rispo-sta a dove sia finita Meg Ryan.

Vorrei, perciò, avanzare e azzar-dare un pensiero e un’ipotesi di la-voro. che la crisi e la trasformazionedel mercato editoriale, delle librerie,degli editori, con il declino e la con-centrazione dei grandi marchi, sianoin realtà la conseguenza di un feno-meno straordinario che possiamochiamare l’indipendenza del lettore.o anche, con diversa nominazione,l’autonomia della lettura. la letturarimane una irriducibile esperienzaindividuale. si potrebbe dire, lo èsempre stata. È vero, quello che si èpotenziato però è la comunità dei let-tori, il popolo dei libri. in una sortadi general lecture, di lettura collettiva. Èquesta general lecture, la straordinariaproduzione di recensioni, commenti,

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passaparola, suggestioni, suggeri-menti, opinioni, che poi ritrovo nellamia scelta, nella mia decisione di leg-gere un libro, di rischiare quella let-tura, di condividerla. Di restituirla.una sorta – non so come dirlo altri-menti – di Reader’s Digest universale,dove la traduzione letterale aiuta: ciòche il lettore ha digerito. e smaltito.È questo un fenomeno nuovo, maivisto, favorito dalle tecnologie. si èmodificato il lettore, attraverso la let-tura. in La passione per l’assoluto, ilgrande critico george steiner mostratristezza e incomprensione per queigiovani dei college americani che leg-gono libri ascoltando la musica e di-straendosi con internet e chissà qualialtre “diavolerie”: secondo lui, è im-possibile leggere bene, se non con-centrandosi assolutamente su una“lettura ben fatta”. però, siamo difronte a nuovi soggetti mutanti, a unlettore mutante. se è vero che si riducela soglia di attenzione verso il libro –e, di conseguenza, il numero di pa-gine lette, di libri necessari –, si èspalmata verso altri oggetti e veicoli estrumenti il desiderio di conoscenza.si è modificato anche tecnologica-mente il lettore, ben più di quanto sisia modificato il libro. Va riducendosila centralità del libro, va aumen-tando la pratica della lettura. Magarisotto altre forme. nessuno sa cosa ac-cadrà del libro: aumenterà il feno-meno della sua scarsità, in un

universo distopico alla Mad Max, incui anche l’acqua diverrà rara e pre-ziosa? per intanto, il lettore mutanteha bisogno di leggere. non basta ilcatalogo che ognuno porta con sé:senza aggiornamento, senza ricombi-nazione, non c’è creatività e inven-tiva, non ci sono nuove parole enuove espressioni di sentimenti,nuove descrizioni di immaginario.non si può essere messi al lavoro,non si può fuggirne. considero que-sta indipendenza del lettore uno stra-ordinario desiderio di libertà eautonomia.

Avanzo una seconda idea, un po’più provocatoria: il mercato “reale”dei libri in italia riguarda il 18 percento di lettori. Quel poco più diquaranta per cento è quello che com-pra un libro l’anno – secondo le rile-vazioni istat. lo zoccolo duro è queldiciotto per cento. i lettori “forti”, in-telligenti. Qui competono tutti, quiarrivano tutti. Qui, per le loro scelte,molti fioriscono, molti sopravvivono,molti scompaiono. può sembrare unasituazione “arretrata” – e spesso cosìviene indicata. per i numeri che vi hodato e per le cose che vi ho detto, iocredo che questa situazione italianaanomala possa invece essere conside-rata un “laboratorio”. Di sperimen-tazione, di progetto. ora, questaindipendenza del lettore non ha unaforma sindacale, non è il sindacatodei lettori. ci fosse, sarebbe comun-

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que il vero interlocutore con cui trat-tare, magari più convenevole del Di-stribution syndicate, come sichiamavano fra loro i gangster. l’in-dipendenza del lettore invece è uncampo di battaglia, dove si convive esi confligge, capitalismo dei conte-nuti, piccola editoria, vecchi librai,megastore, blockbuster e piccole tira-ture, censure preventive e libertà,libri di nicchia e mucchi di copie finoal soffitto. io credo che la comunitàdei lettori, la general lecture, chieda aglieditori indipendenti di fare esatta-mente quello che già fanno, piccolescoperte e riscoperte, collane curiose.Quelle cose che la grande editoria, ilcapitale dei contenuti non fa più.purché l’essere “piccoli editori” nonsia preso come incarico di identità,come un processo identitario. i pro-cessi identitari sono contrari allabuona narrativa, non saprei comealtro dirlo. senza l’editoria indipen-dente mancherebbero tanti libri, eanche la qualità dell’offerta del capi-tale dei contenuti sarebbe sempre piùmanierlich, senza essere costretto a in-seguire, a mettersi al passo. il libronon è come la ferrovia dei baron robberalla conquista del West: per quantichilometri di binari posino, c’è sem-pre frontiera davanti. e anche dietro,nei cataloghi. la comunità dei lettorisembra apprezzare le fiere, gli eventi,le manifestazioni, le attività nellescuole. Anche se – lo scriveva ema-

nuele trevi qualche giorno fa sul Cor-riere della Sera –, alla lettura pubblicadi un brutto libro c’è da preferire chenessun libro venga letto. non tuttal’intelligenza sociale sta nei libri. nénegli editori, grandi o piccoli chesiano. Qualche formula di eventosparirà, qualche altra spunterà.

Questa autonomia, questa indipen-denza del lettore non è un fenomenolineare. per un verso va controcor-rente, per un altro segue la corrente,le indicazioni del mercato. A volte, sipassano a fianco la “piccola lettura”di un gran libro, e la “grande let-tura” di un piccolo libro. spostare losguardo dal libro, dalla filiera produt-tiva del libro, al lettore può essereuna chiave di interpretazione e di in-venzione del “che fare”. il libro èuna festa di lettura, è una festa per illettore. È su questo punto che dob-biamo inventare e agire: cosa puòvoler dire incrociare l’editoria indi-pendente e il lettore indipendente,l’editoria mutante e il lettore mu-tante? c’è una questione crucialesulla quale la comunità dei lettoripuò poco e gli editori indipendentidevono fronteggiare da soli, o con-sorziati, i cartelli dei libro-trafficanti:quello della distribuzione. Qui, lasensibilità politica, la cosa pubblica,la mobilitazione, può essere di aiuto.

Rimane, al centro di tutto, il libro.e senza buoni libri, che te lo dico afare?

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Alberto AbruzzeseA PROPOSITO DEI“FIORI DI GUTENBERG”

l’incontro di Doc(k)s dedicato a “ifiori di gutenberg. seminario sullibro indipendente” (3 ottobre 2015)è stato un buon esempio di “comu-nità operosa” che per me significa odovrebbe significare una comunità disoggetti che si costituisce non come“comunità impossibile” o “comunitàa venire” ma semplicemente per indi-viduare obiettivi e pratiche da condi-videre al fine di soddisfare qui e orainteressi comuni. Ragionando sul de-stino della scrittura cartacea,avremmo dovuto distinguere priorita-riamente tra il libro in quanto narra-tiva o saggistica e libro come mediumdi contenuti tecnici, scientifici, didat-tici, formativi, manualistici e quantoaltro che non siano romanzi, poesie,filosofia, storia, arti e quanto altro?certamente: l’occhio che abbiamousato diventa strabico se non guardaa questa distinzione. Avremmo do-vuto riflettere di più su come venderelibri e dunque occuparci soprattuttodei media che oggi veicolano la scrit-tura e la lettura? forse sì. Di fattonon mi sembra che siano state trat-tate a sufficienza le nuove condizionieditoriali imposte dalla società in cuisiamo ormai pienamente immersi:cosa significhi oggi la professione dieditore in una fase di estrema e pro-babilmente irreversibile crisi del mer-

cato del libro. Ma abbiamo discussoassai più della nostra vocazione in-vece che della nostra professionalità.e tuttavia c’è da discutere anche sullenostre “vocazioni vocazionali”.

tuttavia, il fatto che i due piani deldiscorso – professione e vocazione –si siano sovrapposti dimostra che evi-dentemente il vero problema da af-frontare sta proprio nella con-fusionetra ciò che si impone nella profes-sione e ciò che si impone nella voca-zione, arrivati in un’epoca in cui sipuò dire che i ruoli professionalihanno perduto la loro originaria mo-tivazione etica e culturale, e a lorovolta le vocazioni hanno perduto ca-pacità e soprattutto possibilità di pro-fessionalizzarsi. Questorovesciamento è dovuto al progres-sivo disgregarsi della cultura – comesistema di sapere compatto, dialetticoma proprio per questo compatto – intanti satelliti e periferie e franamentidi un sapere alternativo o laterale,non garantito più da un centro d’at-trazione forte. per più aspetti il relati-vismo del pensiero post-modernoesprime proprio questa dissipazionedella fede in una vocazione piuttostoche in un’altra.

il piano rivendicativo di chi –grandi e piccoli e infinitesimali edi-tori – vende opere e prodotti del la-voro intellettuale sul mercato, si trovain una posizione economicamentesempre più disagiata: ciascuno di essiè brutalmente costretto a dipendereda regole di mercato in parte o per

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intero negative a fronte dei proprispecifici interessi. tutto il sistemaeditoriale, sino ai suoi più piccoli ri-voli, soffre di qualcosa o di moltecose insieme. una delle specificitàdella piccola editoria pare consisterenel fatto che, sul versante dellagrande editoria e della più parte delmercato, è assai meno prioritario esoffocante il problema della interdi-pendenza tra interessi “materiali” einteressi “spirituali”, tra sistema dimercato editoriale e i contenuti cheveicola. infatti per la piccola editoriala qualità dei contenuti è tutto oquasi: se essi sono poveri di appeal,scompaiono per il semplice fatto dinon disporre della copertura di unamacchina editoriale su grande scala egrande offerta massiva.

nella nostra discussione, si è certa-mente confuso il piano di rivendica-zione della indipendenza dei nostricontenuti identitari (il lavoro intellet-tuale chiamato, vocato, a rivendicareil valore d’uso del proprio prodottoassai più del suo valore di scambio: ilbene necessario e non quello indottodai consumi, superfluo … tutte oppo-sizioni da discutere, ma ancora dure amorire). se, identificandomi con ilpiccolo editore, uso il plurale, è per-ché una figura come la mia è ormaivirtualmente e in parte realmente vi-cina a quella di un editore di se stesso,afflitto in varia misura dagli stessiproblemi di sopravvivenza di una pic-cola casa editrice. Detto in altri ter-mini: la grande editoria oggi pubblica

di tutto, il suo prodotto è l’insieme deiprodotti che ha messo sul mercato. lapiccola editoria pubblica solo alcuniautori ai quali delega la possibilità dicostituire una piccola nicchia di so-pravvivenza dentro il mare magnumdella produzione editoriale nel suo in-sieme. Ma – credo meglio che in pas-sato – può cercare di forzare lapropria mente interrogandosi sul per-ché ci interessa salvaguardare e po-tenziare le nostre piccole “imprese”.provo a mettere in sequenza qualcheriflessione, certamente eretica per ipiù tra gli altri e tra noi.

1. Libro, stampa, cinema, tele-visione, reti costituiscono i veicolidella scrittura e della lettura nei loroprogressivi passaggi tra la scritturapropriamente detta e quella scritturain forma di sceneggiatura che si tra-duce nella produzione testuale deimedia audiovisivi, sino ad arrivare alpolimorfismo espressivo dei linguaggidigitali. il mercato della scrittura co-stituisce una buona parte dei bacini incui si raccoglie, si elabora, si trasmettee consuma il pensiero di un luogo, diun territorio, di una società, di unanazione, del mondo. Mi limiterò a ra-gionare qui sul pensiero di confine trascienza umane e scienze che con piùdeterminazione vengono definiteumanistiche.

2. seppure facendo uso di non irri-levanti diverse sfumature, con l’ag-gettivo “indipendente” indichiamo

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apparati di produzione e con-sumo di pensiero che si “diffe-renziano” dagli apparatidominanti, quindi dai grandi mer-cati del pensiero. ovviamente,quanto ai rispettivi contenuti emezzi, sono innumerevoli le interse-zioni tra i piccoli e grandi mercati: fi-gure professionali in comune,apparati trasversali (ad esempio la di-stribuzione), autori. la distinzioneche, forse con una qualche audacia eautovalutazione, possiamo tracciaretra grande e piccolo mercato consistenel ruolo sperimentale e innovativoche sistemi editoriali più piccoli e ne-cessariamente competitivi possonosvolgere nei confronti della grandeproduzione e circolazione di pensierorappresentata dall’editoria domi-nante sul mercato globale. Questaipotesi vede dunque l’intero mercatodel libro, il suo sistema, diviso tramaggiore peso della tradizione sulgrande mercato editoriale e, all’op-posto, maggiore peso di contenuti eforme innovative nella piccola edito-ria. forse questa differenza non ècosì netta ma certamente è l’unicadifferenza che può convincere unmercato editoriale a autodefinirsi in-dipendente in senso dinamico.

3. proviamo allora a ragionare se-condo le regole di un sistema dimercato che, per vivere e prospe-rare, ma ora – dato il deperimentodei supporti cartacei e data la semprepiù bassa propensione a leggere –

solo per sopravvivere, ha bisogno diinnovazione di contenuti e mezzi.senza soddisfare questo bisogno il si-stema muore. ogni sistema muore seviene a mancare di innovazione. Diun “nemico” interno o infiltrato alsuo interno. se la “nostra” indipen-denza è o dovrebbe essere davverol’ingrediente necessario a rendere di-namico il mercato, e se tuttavia, almomento per ragioni oggettive e sog-gettive, non riusciamo a svolgerequesto ruolo, si può prevedere che laproduzione libraria dalla quale di-pende il grande mercato sia destinata– a causa della sua “immobilità dipensiero” – a deperire e calare ulte-riormente. A ridursi, facendo spazioalla produzione indipendente? forse,ma questa, a sua volta, ha molto daperdere se cresce l’asfissia dei grandipubblici della lettura. ed è capace diessere il “nemico” che serve? Al mo-mento, infatti, sembra accadere que-sto: il piccolo mercato indipendenteprecipita nella crisi della grande edi-toria: questa, indebitandosi, riesceforse ancora a sostenere lo scarto cre-scente tra costi e profitti, ma comun-que la povertà della domanda strozzaa maggior ragione chi non è in gradodi ritagliarvi il proprio cliente, di in-vestire su di lui, di entrare per luinella logica del debito.

4. fermo restando che la rete può“riparare” alcuni aspetti strutturali diquesta crisi di sistema (ma potrebbeanche aggravarla, sensibile com’è a

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chi ha abbastanza finanza da investiresui grandi numeri), la conseguenza èche, per occupare il ruolo innovatoredi cui ho detto, c’è bisogno di mezzitecnologici evoluti e in particolaredella comprensione delle chance cheessi offrono. Ma soprattutto c’è biso-gno di innovazione dei contenuti.e questa può nascere soltanto daun’analisi dei contenuti dominanti nelsistema di valori su cui si è storica-mente basato il mercato del libro,delle culture e linguaggi del libro,degli autori e infine del lavoro intellet-tuale nel suo rapporto organico con iregimi societari del soggetto mo-derno. e quindi, in assenza di una ri-voluzione dei contenuti, anche lanatura indipendente della piccola edi-toria, tanto più se davvero creativa al-meno nelle sue prestazioni, nelmigliore dei casi può e potrà lavoraresoltanto a sostegno delle stesse idee eesperienze di cultura ora in via di li-quidazione nella realtà sociale post-capitalista. una liquidazione che nonprevede di popolare le proprie vetrinecon nuovi “articoli”. il loro appeal èproprio nel carattere permanente delprocesso seriale che li liquida.

5. la crisi su cui “fermarsi a pen-sare” non è dunque quella del sistemaeditoriale nel suo insieme o peggionelle sue parti, complici o contrappo-ste che siano. facendo così, si rischiasempre più l’opportunismo di scam-biare tra loro effetti e cause. centratoil bisogno di una editoria in

grado di funzionare come inno-vazione di mercato, innovazionedella produzione e del consumodi pensiero, diventa massimamentee prioritariamente urgente rifletteresulla catastrofe epocale della no-stra civiltà moderna e post-mo-derna. la crisi del capitalismo,attivata da una volontà di potenza su-periore, quella del capitalismo finan-ziario, ha liquidato o sta liquidando ivalori della modernità: stato, demo-crazia, cittadinanza, educazione, cul-tura. la violenza immateriale dellafinanza si traduce in violenza direttasulla vita quotidiana. opera dunquealla distruzione dei valori di cui gliapparati editoriali della civilizzazionesi sono fatti espressione. la crisi ul-tima della globalizzazione opera que-sta distruzione dei valori dellamodernità industriale e post-indu-striale, bruciandoli in polvere, cioèconsumandoli sino in fondo. consu-mando sino in fondo, dando per esau-riti e ormai inutili – utili solo per laloro inutilità – proprio i valori che lesono serviti a raggiungere la propriasupremazia storica e sociale. i valoridell’umanesimo. consumando per-sino le ceneri dell’umanesimo ne starivelando il suo potere distruttivo, ab-battendo la società che ha edificato,abbandonandola alle sue illusioni disperanza, carità e felicità. Alle sue re-toriche anti-tecnologiche e anti-con-sumiste. l’umanesimo si consegna –per stupidità o cinismo – alla propriafalsa coscienza. che fare?

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6. la domanda sul “che fare” è laquestione che il pensiero deve affron-tare e dunque il contenuto di unaeditoria che se ne faccia espressione.Bisogna partire dalla perdita di ca-pacità e reputazione delleclassi dirigenti che sono state esono tuttora formate dai mer-cati del pensiero umanistico edai loro sistemi formativi pub-blici e privati (scuola, università,professionalizzazione). Dalle scritturee letture che della falsa coscienza del-l’umanesimo hanno fatto il proprioesclusivo contenuto e strumento. chefare, dunque, riconoscendo che il fal-limento della politica dipende dalfatto di essere stata nutrita di soggetticonformati ai valori dell’umanesimo?il problema diventa allora attrez-zarsi con un genere di innova-zione che non ha precedenti:una idea di cultura diversa daivalori della storia e della civi-lizzazione. Dico diversa e non“altra” per non accondiscendere cosìalla piega dialettica – opposizioneall’interno di uno stesso paradigma –di ogni cultura alternativa messa ingioco dal pensiero religioso e pro-gressista del soggetto moderno. Dico“diversa” in quanto deviata su unpiano del discorso “incompatibile”con lo spirito dell’occidente. il nododella questione diventa riflettere suquale sia stato sino ad oggi il “conte-nuto” per eccellenza del rapportoscrittura-lettura: l’idea di un essereumano in sé e per sé libero, “esente”

– a differenza di ogni altro essere vi-vente – dalla volontà di potenza cheil suo stato di necessità, il suo deside-rio di sopravvivenza, obbliga ad es-sere naturalmente di violenza su sestesso e sugli altri. Motivo di dolore esofferenza. Disperazione e morte inogni dove. Ripensare il mondo inchiave anti-umanista, non-umanista,promuovere libri – o meglio media –animati da questa vocazione, ripren-dere gli autori e testi che hanno af-frontato questa materiaincandescente, restando confinati in“bella letteratura”, in episodio filoso-fico, senza mai entrare nel che fare“ultimo” del pensiero politico e isti-tuzionale. Questo è un programmaeditoriale che vale la pena sperimen-tare e mettere in circolazione là dovesi fa formazione di ceti dirigenti, pro-fessionisti, imprenditori e tecnici:avere cura delle persone, occuparsidella loro vocazione, prima che laprofessione e il ruolo ne facciano deisoggetti sociali, individui comunqueinscritti nel destino dei rapporti dipotere del presente. Questo è il saltoqualitativo che può funzionare da in-novazione dei mercati della lettura.

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Ilaria BussoniLAVORO EDITORIALE,SENZA QUALITÀ

la scrivente si chiama ilaria Bussoni,lavora dall’inizio degli anni Duemilaper le edizioni DeriveApprodi che hacontribuito a fondare, nel 1998. perpiù di un decennio, insieme agli altridella casa editrice, siamo andati cer-cando alleanze e relazioni per unluogo, una casa editrice, che si è in-teso da sempre come un mezzo perandare oltre il mero mondo edito-riale e la pubblicazione dei libri, unluogo da considerare più come unostrumento per aprire e preservare ap-procci e discorsi e soprattutto noncome un fine in sé, ovvero quello diessere e potersi dire editori. Di esseree potersi dire puramente editori, conil relativo bagaglio intellettuale nove-centesco, ovvio in disfacimento, in-sieme a quello trascinato dagli autorialtrettanto in disfacimento, non ci èmai importato granché. e l’ormaiprossimo ventennale della ricerca diqueste alleanze può solo dire che si èguardato a quei mondi dove le prati-che e il fare ricavavano margini inter-stiziali rispetto alle dinamiche dimercato più predatorie, prolungandodi fatto una tradizione che nel con-cetto di valore ha sempre visto qual-cosa in più della sua traducibilità inuno scambio. Quando, nel 2013, ab-biamo contribuito ad avviare il per-

corso di odei (osservatorio degli edi-tori indipendenti), quando la scri-vente ne ha redatto, insieme aun’altra editora, il Manifesto, si è trat-tato per noi solo dell’ultimo miglio diquesta strada di alleanze e di ricercadi relazioni, talvolta parecchio etero-genee. che valore dare a un lavoro,quello di pubblicare e curarsi deilibri, quando le logiche che presie-dono al mercato editoriale nemmenorispondono alla libera concorrenza ealle sue chance? che valore ha un la-voro che si riversa nella produzionedi un oggetto di carta con dentrodelle parole, ma che di fatto non èl’editore stesso a produrre? cosa ac-comuna questi luoghi che si chia-mano case editrici, se non è più ilsapere artigiano che è stato la formadell’editoria per diversi secoli e nem-meno quello della liberalità culturaleborghese che nel novecento con unamano sfogliava pagine mentre conl’altra dettava il ritmo della catena infabbrica?

il comune denominatore tra i com-ponenti di un’associazione fatta dieditori, dunque grossomodo di im-prese, più o meno tutte piccole eugualmente precarie, tutte incapacidi darsi una forma finanziaria, edunque unicamente in grado di at-tingere a un’unica risorsa ovvero illavoro, proprio e altrui, il comune de-nominatore trovato è stato la parola

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indipendenza. cosa significa indipen-denza, nel caso specifico dell’editoria?non è un aggettivo qualificativo, unmarchio di qualità, una certificazionedelle modalità di produzione ol’identificazione di un attributo. uncomune denominatore senza qualità.Indipendenza indica infatti una posi-zione. nella fattispecie una posizioneriferita a un insieme di rapporti diforza, che per l’editoria coincide conuna filiera commerciale che è quelladel libro. Indipendenza indica dunqueuna forza, o meglio una debolezza,ovvero il fatto di occupare solo unaposizione, di stare solo in un punto diquesta rete di rapporti commerciali,di non poter avvalersi di leve o pun-telli in altri passaggi della filiera, amonte o a valle, la libreria o la distri-buzione, la promozione o la finanzao l’immobiliare. l’editoria indipendenteè dunque l’editoria che come lavorofa solo o in prevalenza il lavoro difare i libri, senza che per questo lofaccia da sola. ed è forse anche laposizione di un lavoro che rivenda ilfatto di voler fare almeno per quelmomento proprio e solo quel lavoro,non un altro. o di volersi curare diquello.

le posizioni si vengono a formare,ci si ritrova a occuparle anche senzasaperlo. non si può intendere comesia data una posizione di indipen-denza nell’editoria, se non si guarda

a cosa è accaduto nel mondo dellaproduzione libraria dagli anni no-vanta in poi. Quando è crollato unmodello fordista che coincideva conla culturale liberale e borghese delnovecento e il lavoro editoriale ha ri-calcato in tutto e per tutto l’esplo-sione del lavoro autonomo. se dagutenberg fino agli inizi del secoloscorso il sapere editoriale è statoquello artigiano, al quale è seguito unperiodo tutto sommato abbastanzabreve in cui il mondo della produ-zione libraria è stato il calco culturaledella grande industria, lo scenario ècambiato in pochi anni verso la finedegli anni ottanta. nel momento incui il capitale fisso necessario per farelibri, dunque l’editore, è diventato uncomputer e il relativo investimento fi-nanziario di qualche milione di vec-chie lire. per circa un ventennio queltipo di investimento è stato grosso-modo sufficiente a far esistere unacasa editrice, non senza un altro ele-mento fondamentale: ovvero la capa-cità di attivare un capitale relazionalee affettivo che era a fondamentodella generazione del valore.

se lo scenario fosse rimasto questo,ovvero la possibilità di coesistenza tradue modelli produttivi appartenenti adue epoche diverse (il fordismo edito-riale e il lavoro autonomo editoriale),probabilmente la parola indipendenzanon sarebbe mai emersa o non sa-

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rebbe stato necessario indicare questaposizione. lo è stato, invece, perché ilmodello editoriale fordista che si è af-fermato nel novecento a sua voltanon si è limitato a sopravvivere inquanto tale, ma si è riorganizzato inuna funzione finanziaria e rentière. inchiave finanziaria perché il capitalesimbolico delle grandi case editriciche hanno fatto in italia, ad esempioma vale per tutto il mondo occiden-tale, la storia della cultura contempo-ranea, è stato comprato da attori chegiocavano su altri tavoli. Basta guar-dare come marchi editoriali di indub-bio valore culturale siano finiti instrutture di organizzazione aziendaleche oggi portano alla compravenditadi immobili o al gioco d’azzardo, alleassicurazioni o alla pubblicità. il casoMondadori in questo senso non ènemmeno il più flagrante. oppure,alla rotazione del management dire-zionale di queste aziende editorialiche nell’arco di qualche anno si ritro-vano riorganizzate da manager cre-sciuti alla nostrana scuola di chicago.e in chiave rentière, perché queglistessi editori hanno poi cominciato aprelevare valore a partire da una po-sizione di forza, dalla riorganizza-zione della filiera e dal discriminesull’accesso al mercato, e non specifi-catamente dal lavoro, dal loro lavorodi produttori di libri. Banalmente, sisono appropriati di valore generato inaltri passaggi della filiera.

la parola indipendenza è quindiemersa in relazione a questo scena-rio, a indicare la posizione di chi in-vece continuava a esseresemplicemente “lavoro editoriale”,senza particolari capacità finanziarielegate ad altre attività e senza la pos-sibilità di agire meccanismi estrattivio limitanti in altri punti del mercato.si è scelto, giustamente, una parolatecnica e non una parola che indi-casse un valore o una qualità o unadimensione o altra affinità. il vantag-gio di questa parola era anche quellodi sgomberare il campo da un di-scorso sulla difesa delle professioni,sull’etica delle professioni, sul ritornoall’artigianalità. l’esplosione dellecase editrici indipendenti a inizioanni novanta non ha niente a che ve-dere con una continuità professionaledi tipo artigiano. È solo una delletante forme prese dal general intel-lect nella sua fuga dal lavoro sala-riato. Anche a prescindere dallaforma giuridica che quel lavoro hascelto o potuto darsi. il lavoro auto-nomo, sia esso editoriale o menopoco importa, è indipendente anchequando ricalca o riproduce al propriointerno forme di organizzazione e di-spositivi di subordinazione padro-nale; anche quando è auto o altruisfruttamento; anche quando procedenell’ambivalenza dei residui statutiprofessionali, di ciò che resta delle au-

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torità intellettuali provenienti dalleepoche precedenti, delle figure sog-gettive – editore, autore, traduttore,grafico, pierre – nelle quali chi lavoracrede di incarnarsi.

il vantaggio della parola indipendenzaera dunque anche quello di accomu-nare realtà che nella percezione diquella che in un altro momento si sa-rebbe chiamata la propria “composi-zione politica” partivano dasensibilità decisamente diverse.Molte delle realtà editoriali natenegli anni novanta continuavano in-fatti a trascinare, a vivere e a prolun-gare un’aura del lavoro da editoreproveniente dal novecento, in tutto eper tutto posticcia e finita nellamelma da un pezzo come direbbeBaudelaire. il prestigio, il fascino,l’appeal dell’editore intellettuale, nonsenza il portato egotico della ribaltaindividuale degli anni ottanta che hacontaminato l’intero intelletto gene-rale messo a lavoro. Da cui l’esplo-sione di case editrici con tanto dinome e patronimico e pure maschio.Indipendenza aveva allora anche il van-taggio dell’anonimato, di non sup-portare quegli elementi didifferenziazione del lavoro che ilmondo editoriale applicava a sé ere-ditandoli da epoche precedenti.

ovvio che la riorganizzazione fi-nanziaria e rentière delle grandi

aziende editoriali che hanno letteral-mente fatto il mercato nell’ultimoventennio è anche servita a limitare,contenere, persino ingabbiare quellavoro intellettuale generale che inmancanza di meglio si è dato laforma giuridica del lavoro autonomoo del lavoro d’impresa. sappiamoche il prelievo, quello che David Har-vey chiama “spossessamento”, nonavviene senza processi regolativi,senza dinamiche capaci di consoli-dare rigidità, di ribadire posizioni didominanza. ce lo hanno mostratopierre Dardot e christian laval, ri-costruendo la genealogia regolativadella “libertà” del mercato. e la flui-dità della produzione culturale cheha coinciso con l’esplosione di nuoveimprese editoriali è andata incontroa tali blocchi, necessari per renderepossibile un prelievo sul lavoro deglialtri.

se c’è una cosa assolutamentechiara nell’esperienza dell’osservato-rio degli editori indipendenti è nonsolo l’assenza di percezione di questadinamica, ma anche di qualunqueesercizio critico nei confronti dellapropria autorappresentazione di edi-tori, imprenditori, intellettuali. conl’evidente intenzione di perseverarenell’incarnare figure anacronisticheeconomicamente insostenibili (l’edi-tore che fa l’imprenditore e stringecontratti fair con i propri subordi-

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nati), socialmente morte e sepolte(l’editore che è dotato di un surplusdi sapere e di mezzi di produzione ri-spetto ad altri agenti del lavoro intel-lettuale), soggettivamente ripugnanti(l’editore che ancora pensa di avereun’aura qualunque, in virtù dellaquale finisce per esercitare rapportidi potere dei quali nemmeno è con-sapevole). Ma avvicinarsi alla criticanon è questione di intelligenza. ingenere ciò avviene con le relazioni,con il pensare a quel che si fa e piùspesso con le lotte. l’osservatoriodegli editori indipendenti è stato perla scrivente la sede di questo tenta-tivo, senz’altro non riuscito. Hannoprevalso le identità consolidate e i re-lativi godimenti.

È ancora aperto lo spazio di unaparola? Indipendenza. probabilmentesì. A patto di fare piazza pulita diogni pregresso residuo, di compe-tenze, di professioni, di saperi speci-fici, di gergalità tecniche, di aureposticce che ormai più somigliano adaloni. Di guardare il terreno comune,le comuni facoltà, di un medesimointelletto generale al lavoro. Di voltain volta stretto nelle maglie del pa-dronato o della subordinazione,dell’autonomia o della coazione, alleprese con la strada continuamenteinterrotta della ricerca di relazionicooperative all’altezza della propriacomune matrice. A patto di partire

dalla premessa, come già mostravaun secolo fa Dziga Vertov nell’Uomocon la macchina da presa, che ciascunodi noi può occupare qualunqueposto. e se vale per il regista, puòanche valere per l’editore. Dalla pre-messa, dunque, che indipendenza è unaposizione del lavoro vivo. forse,anche a patto di cercare altre parolee altre posizioni, e alla scrivente saltain mente questa definizione: “un og-getto ordinario elevato alla dignità diun oggetto d’arte”. così André Bre-ton chiamava il ready-made.

Verso un festival del general intel-lect e dei suoi manufatti.

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Francesco Maria CataluccioPICCOLA FILOSOFIA DEILIBRAI E DELLE LIBRERIE

ci sono dei mestieri che caratteriz-zano profondamente chi li fa. o me-glio: a forza di praticarli si diventacongrui ad essi. uno di questi, adesempio, è il fioraio. un mestiere chemette costantemente a contatto conclienti che entrano nel negozio persoddisfare dei sentimenti nobili (digioia o di dolore). Avete mai incon-trato un fioraio antipatico? se lo è,dopo un po’ cambia mestiere. c’è unrapporto con gli acquirenti di fiori  epiante che non può che essere im-prontato alla gentilezza, all’amore ela competenza per le cose che si ven-dono, alla simpatia anche verso l’av-ventore più difficile.

il mestiere del libraio, padrone ocommesso che sia, è come quello delfioraio (e infatti, uno dei migliori li-brai che conosco, ha una libreria chesi chiama “centofiori”). Ma la stra-ordinaria varietà delle merci che sivendono in una libreria, lo obbliganoa uno sforzo in più di professionalitàgestionale e competenza. il libraio,c’è poco da fare, deve essere prima ditutto uno che sa. poi, una personache ha gusto, che sa selezionare lecose migliori, che capisce, o intuisce,cosa serve al cliente.

si dice spesso che le librerie sonodei luoghi che incutono timore a chinon c’è mai entrato, che respingono

perché fanno sentire inadeguati difronte a tanta offerta di sapere. È cer-tamente un po’ vero, e tanto si puòfare (e si sta facendo) per cambiarequeste cose. Ma rimarrà sempre, ine-vitabilmente, qualcosa di sacrale inuna libreria. “una casa senza libri ècome un corpo senz’anima”, dicevacicerone. figuriamoci un negozioche ne contiene migliaia! Da questoaspetto non si scappa: le librerie sa-ranno sempre dei luoghi dove si pre-levano tasselli dell’infinito mosaicodell’anima. il timore è quindi com-prensibile, ma bisogna superarlo peraccedere alla caverna dei tesori. il li-braio (oltre all’educazione dellascuola e della famiglia) è proprio lapersona adatta a far capire che i librisono cose delicate e preziose, ma fon-damentali per la nostra felicità e li-bertà. il libraio è una specie disacerdote laico di una religione millevolte attaccata, e troppo volte, so-prattutto nell’ultimo secolo, dichia-rata estinta, ma fondamentale perdare un senso e un piacere alla no-stra vita È il pizzicagnolo che vendeun cibo che soltanto i pazzi, o le per-sone in malafede, possono conside-rare non necessario.

in alcune lingue si scrive libro conl’iniziale maiuscola (per indicarneuno solo: la Bibbia) e libri, o addirit-tura libretti, per indicare tutti glialtri. le librerie, oltre ad avere varieedizioni e traduzioni del libro (e dialtri libri di altre religioni) sonopiene di libretti. Questo già baste-

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rebbe a sdrammatizzare la faccenda.perché i libri sono legati anzitutto alpiacere, al godimento della lettura.la promessa di un piacere devesaper trasmettere il libraio, anchequando sta vendendo un libro diffi-cile e complicato (ma se è un verogrande libro, sarà sempre anche unlibro divertente).

Ricordo bene il primo libraio checonobbi. stava in una libreria for-mata da uno zig zag di piccole stanze,nel vecchio quartiere di santa croce,dove andavo a prendere i libri discuola e qualche altro volume chemio padre mi lasciava comprare. te-neva un lapis tra la basetta e l’orec-chio, come un salumaio. prendeva illibro in mano con molta delicatezza.passava il palmo della mano sulla co-pertina, come se dovesse lisciare ilpelo di un animale domestico. poi loapriva e, ficcandoci dentro il lungonaso, ne aspirava profondamentel’odore. poi ti guardava di sottecchi econ un sorrisetto ti diceva: “Hai presoun gran bel libro”. ogni volta lostesso rito: ti affidava qualcosa di pre-zioso, ti consegnava un pacchetto cheti avrebbe cambiato la vita. e si ricor-dava sempre quel che ti aveva ven-duto: la volta successiva ti chiedeva seti era piaciuto o se t’era servito acapir qualcosa di più del mondo.

una passione così l’ho ritrovata poinegli agenti rateali einaudi (la cosid-detta “banda cerati”). Bussavanoalla porta di casa tua, come se fosserodei rappresentanti di un’allegra setta

mormonica. Aprivano il loro folder eti squadernavano sul tavolo la loropreziosa mercanzia. Di ogni libro sa-pevano fornirti una chiave e delle al-lettanti promesse.

c’erano poi i librai della libreriafeltrinelli (dove i miei genitori ci ave-vano aperto un conto): erano deisimpatici amici che ti aiutavano conpassione a trovare cosa, spesso inmodo incerto, cercavi. lì regnava ilcarnevale esagerato del sessantotto:vendevano anche poster con leaderbarbuti, opuscoli infuocati, manualiper improbabili guerriglie e persino,per pochi giorni, barattoli di vernice“per dipingere i poliziotti”. Quelle li-brerie erano lo specchio di queltempo caratterizzato più dall’azioneche dalla riflessione e la lettura. Matante persone hanno iniziato ad avvi-cinarsi ai libri proprio in quellestrane, affollate, librerie dove si par-lava di politica come di calcio dalbarbiere.

Da molti anni, tutte le inchieste sulmercato dei libri, ribadiscono che,nelle motivazioni di acquisto di unlibro,  sta abbondantemente al primoposto il “passaparola”. Altro chepubblicità o recensioni! c’è un per-corso di consigli basati sulla fiducia el’affetto che legano gli acquirenti dilibri. e in questo percorso sta al cen-tro il libraio. Quante volte, ad esem-pio,  si sente dire in libreria “Avreibisogno di un libro per una signoradi mezza età appassionata di storiaantica; saprebbe consigliarmi un ti-

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tolo”. il libraio è il motore fiduciariodei tanti che, per le più svariate ra-gioni, non sanno come orientarsi inun negozio pieno di variopinti vo-lumi. Ma persino di coloro che, purlavorando con i libri, non possonoinevitabilmente essere aggiornati sututto ciò che viene pubblicato, so-prattutto in campi lontani dai propriinteressi.

Quand’ero uno studente liceale, estavo scoprendo il fascino nuvolosodel teatro, iniziai per caso a frequen-tare un piccolo negozio in riva al-l’Arno, accanto al ponte Vecchio. laburbera signora claudicante che logestiva mi fece conoscere Beckett,Racine, Witkiewicz, Artaud, Mar-lowe, pinter, tirando fuori con com-plicità quei libretti dagli scaffali espiegandomi con pazienza e passioneil loro valore. Quando compravotroppi libri e non mi bastavano isoldi, mi prestava quelli in esubero.si costruì così un affezionato cliente,un amico, un complice.

tra il libraio (anche quando non èil padrone dell’esercizio) e il  clientedeve esserci appunto complicità. ilsenso della trasmissione di idee, sen-sazioni, piaceri, sogni. chi vende unlibro (persino un manuale di giardi-naggio) vende una promessa, nondeve mai dimenticarlo. per questo illibraio, pur nel dovere commercialedi avere un vasto assortimento e diesaudire qualsiasi richiesta, è neces-sario che sappia orientarsi bene nellaproduzione e selezionare i libri di va-

lore. non può tradire la fiducia delcliente e non può sbagliarsi nel ca-pire di cosa abbia veramente biso-gno.

All’inizio del bel romanzone, comenon se ne leggevano da tempo, L’om-bra del vento, dello spagnolo carlosRuiz zafòn, è descritta la visita di unragazzino, figlio di un malinconicovenditore di libri rari e usati, al cimi-tero dei libri Dimenticati: “un tem-pio tenebroso, un labirinto di ballatoie scaffali altissimi zeppi di libri, unenorme alveare percorso da tunnel,scalinate, piattaforme e impalcature:una gigantesca biblioteca dalle geo-metrie impossibili”. e il padre dice alfiglio che quello è una specie di san-tuario: “Quando una bibliotecascompare, quando una libreriachiude i battenti, quando un libroviene cancellato dall’oblio, noi, i cu-stodi di questo luogo, facciamo inmodo che arrivi qui. e  qui i libri chepiù nessuno ricorda, i libri perdutinel tempo, vivono per sempre, in at-tesa del giorno in cui potranno tor-nare nelle mani di un nuovo lettore,di un nuovo spirito. noi li vendiamoe li compriamo, ma in realtà i librinon ci appartengono mai. ognunodi questi libri è stato il miglior amicodi qualcuno”.

Alcuni anni fa, il direttore editorialedi una prestigiosa casa editrice, inviòuna lettera a tutti i principali libraiper accompagnare il dono in ante-prima di un romanzo che parlava diuna libraia. Al di là del valore del

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libro, trovo che questa pratica do-vrebbe (senza inflazionare e quindirendere inefficace la cosa) essereadottata quando si tratta di un librospeciale che merita davvero atten-zione. il libraio, ogni tanto, deve avermodo di rendersi conto più diretta-mente, e in modo meno estempora-neo di quanto non facciano le letterenovità, di ciò gli viene offerto di ven-dere. fanno bene perciò gli editoriche organizzano periodici incontritra chi i libri li sceglie e li fa e chi livende al pubblico.

le librerie devono essere luoghi unpo’ diversi dal mondo che sta fuori.per questo a volte intimoriscono, mabisogna che sia così. se è vero, comele ricerche di mercato testimoniano,il negozio dove si vendono i libri ècosì essenziale per valorizzare lamerce che vi è contenuta, sta al li-braio personalizzarlo, renderlo, a co-minciare dalla vetrina e dalla soglia,qualcosa che non respinge ma anziinvita a entrare. È questo un feno-meno che i bravi librai, persino quelliche possiedono un minuscolo locale,conoscono benissimo. l’occhio alle-nato capisce subito se in una libreriac’è l’anima e la passione del  suo pro-prietario o del suo inserviente. se c’èquest’atmosfera, sarà piacevole cu-riosare tra i banchi e gli scaffali e glieventuali consigli del libraio sarannocredibili.

una città di antiche tradizioni de-mocratiche e librarie come Amster-dam, le librerie sono delle belle e

piacevoli nicchie, spesso molto colo-rate, dove il libraio ti si fa incontrocome un amico: già molti decenni faci si poteva sedere a leggere e magaribere un thé e mangiare un dolce.sarà anche per questo che i libriolandesi, anche graficamente, sonobellissimi.

Democrazia e libri sono storica-mente sempre andati, nel bene e nelmale, strettamente congiunti, tantoche è quasi banale sostenere che le li-brerie, nei paesi liberi, sono dei veri epropri presìdi di democrazia e civiltà(e i librai hanno quindi una bella re-sponsabilità!). e la bellezza, come so-steneva fedor Dostoevskij (che eraconvinto che solo essa ci salverà), faparte integrante del valore di unlibro come del luogo dove lo siespone e si vende.

nelle librerie di praga, Varsavia,o  Mosca, fino alla metà degli anniottanta, si respirava subito un’atmo-sfera opprimente, sciatta, vuota. AMosca, soprattutto, ti colpiva la brut-tezza e la pesantezza dei volumi,l’odore stantio della colla di pesceche teneva precariamente assieme lepagine di libri dove il censore e l’ad-detto alla propaganda avevano pe-santemente lavorato a togliere dallerighe la freschezza e l’energia della li-bertà delle idee e delle opinioni. eanche i commessi erano persino piùscortesi che negli altri negozi, quasiavessero la coscienza di non avernulla di buono da vendere. i piùfurbi facevano lauti guadagni ven-

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dendo sottobanco i pochi libri inte-ressanti, stampati in esigue tirature, equindi tanto più agognati dai lettori edai trafficanti del mercato nero. iveri libri erano clandestini: stampati,o ciclostilati, in edizioni poverissimema ricche di idee. c’erano poi i librinormali, ma stampati dalle case edi-trici dell’emigrazione, il cui possessopoteva costare l’arresto e un sacco diseri fastidi. Questi libri si acquista-vano nei posti più strani e improba-bili (e i librai rischiavano la galera). Acracovia, la libreria più fornita erauna sbocconcellata panchina dietrouna quercia, sotto il castello, doveun piccolo signore, con la sigarettasempre accesa e l’aria circospetta, te-neva un borsone da ginnastica gonfiodi libri che facevano la felicità dei let-tori. la mia libraia, a Varsavia, tiravafuori da sotto l’ampia gonna i libri“proibiti” che le avevo ordinato, as-sieme a succulente salsiccie e baratto-lini di miele. Ma come,inspiegabilmente, succede a tutti gliesseri umani, la mancanza innescavala spasmodica richiesta e il bisogno.la censura e la penuria favorivanocosì un  desiderio insaziabile e mai silesse tanto in quei paesi come in que-gli anni.

Anche quando una libreria è ungrande spazio, o è addirittura inseritain un centro commerciale, come unodei tanti tasselli di un’enorme e va-riegata offerte di merci, occorre chechi varca quella soglia abbia la sensa-zione di trovarsi in uno spazio di-

verso da tutto il resto. la tentazionea rendere tutto omogeneo per ac-quietare il cliente è certamente forte,ma se non si dà la sensazione che lì sivendono dei libri, una “merce spe-ciale e straordinaria”, si fa perdere ilsenso stesso di quell’eventuale acqui-sto. e anche l’inserviente di quel set-tore deve avere qualcosa di diverso,deve essere molto più coinvolto nellamerce che vende: deve possedere unaprofessionalità quasi maggiore di co-loro che lavorano in una normale li-breria, proprio perché il suo pubblicoè più generico e casuale.

le librerie non debbono mai im-barbarirsi. Alcuni anni fa, a Milano,c’era una libreria stretta e lunga, inuna grande via commerciale. Avevaun bellissimo soppalco, quasi un rifu-gio di peter pan, dove si arrampica-vano i bambini e trovavano coloriteseggioline e scaffali bassi con libritutti per loro. Mia figlia ci stava ore,mentre io curiosavo tra i banchi alpiano di sotto, e la trovavo col nasinoimmerso in un volume illustrato o achiacchierare con occasionali ami-chetti dei personaggi delle storie chestavano leggendo. Dovevo portarlavia a forza: lì ha imparato ad amare ilibri e ad aver confidenza con le li-brerie. un giorno chiusero quellasimpatica libreria, per aprirne unapiù grande, su tre piani, dall’altrolato della strada. la libreria stava nelsottosuolo (negli altri piani: la cancel-leria e qualche best seller e, più inalto, i dischi e le videocassette), senza

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finestre e con  poca aria. Ma la cosapiù grave è che su una parete del pic-colo spazio dedicato ai bambini ave-vano messo un grande schermotelevisivo dove venivano proiettati aciclo continuo cartoni animati. così ipoveri genitori che, nei giorni festivi,portavano fuori i figli anche per sot-trarli ad un eccessivo rimbambi-mento davanti al televisoredomestico, se ne ritrovavano uno piùgrande in libreria, col risultato che ibambini non guardavano più i libri.oggi, dopo molte proteste, loschermo è stato tolto ed è un piacerevedere tutti quei bambini star là se-duti a leggere i loro libri.

il libraio, o la catena di libreria,possono riempire i loro negozi ditutte le cose che vogliono: dalla can-celleria alle cartoline, ai cd di musicae cinema, ai pupazzetti e i cioccola-tini per gli innamorati, alle bottigliedi vino pregiato, ai thè aromatici, aglioggetti elettronici, ai lavori d’artigia-nato locale. Ma devono sempre ricor-darsi di essere dei librai e che le altremerci non possono nascondere i vo-lumi. chi entra nel loro negozio percomprarsi un cd, deve uscire anchecon un libro, che lo ha colpito pas-sandoci accanto o gli è stato consi-gliato per associazione di idee conl’oggetto che ha comprato: un discodi tanghi, ad esempio, non può la-sciarsi dietro invenduto un raccontodi Borges, un saggio sulla cultura ar-gentina, un romanzo di sabato, o un’affascinante raccolta dei testi dei tan-

ghi col testo a fronte, un libro con lestrisce di Mafalda, una guida al fa-scino inesauribile di Buenos Aires, oun volume di corto Maltese.

il più grande difetto che può avereun libraio è di essere uno snob. lavera cultura non si è mai identificatacon una setta di pochi eletti. il libraioche disprezza i suoi clienti non èadatto a fare questo bellissimo me-stiere. un mestiere che è veramenteun servizio, nel senso più alto dellaparola: un servizio alla memoria ealla cultura. Ma anche un servizioalla gioia e al piacere. le lunghe e fe-stanti code davanti alle librerie in at-tesa della mezzanotte per poteracquistare l’ultimo romanzo dellasaga di Henry potter ci fanno capire(a noi che questo genere di code leabbiamo fatte solo per un concertorock, o un’opera lirica, per un film ouno spettacolo teatrale) che il libro èancora capace di appassionare larghefette di pubblico e di giovani. gio-vani che sapranno amare e rispettarei libri, se non verranno rovinati dallascuola che fa loro leggere i romanzi epoi li sottopone a test, ricostruzionigrafiche delle strutture narrative deltesto e altre scempiaggini che fannopensare che la letteratura sia soltantouna cosa di studio. ci sono peròanche tanti bravi insegnanti che ac-compagnano i loro studenti in libre-ria, iniziandoli a riconoscere quelluogo come uno spazio amico.

i librai delle grandi librerie e degliesercizi  inseriti nei centri commer-

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ciali, dovranno essere sempre più li-brai e non annacquare lo spiritoidentitario forte di una categoria trale più importanti per la difesa dellacultura. la vasta offerta, le campa-gne promozionali, la capacità di at-trarre soprattutto i giovani con lacontemporanea proposta di altremerci (musica, film ecc.), sono lagrande possibilità di allargare il mer-cato degli acquirenti di libri. A pattoperò di mantenere alta la professio-nalità e la qualità del rapporto con ilcliente.

i librai-proprietari delle piccole li-brerie dovranno difendersi dallaconcorrenza accentuando ancor dipiù questi aspetti dell’identità, essereimbattibili sui servizi offerti al clientee, soprattutto, dedicare una parte delloro esercizio alla specializzazione:individuando meglio, nella propriazona, i clienti potenziali, attirando inlibreria (con presentazioni e altre ini-ziative) coloro che cercano libri perpoter migliorare la propria professio-nalità. il sogno dell’educazione per-manente, proprio nel momento incui il sistema scolastico conosce unacrisi profonda, si sta realizzando, inmodo strisciante, per molte categorieprofessionali: l’aggiornamento conti-nuo, per poter svolgere bene il pro-prio lavoro, attraverso l’acquisto dilibri e riviste (internet soddisfa infattisolo in parte questo bisogno) è ormaiuna necessità per molte persone. lepiccole librerie devono attrezzarsi aessere dei poli di servizio.

sia il libraio proprio l’ amico sim-patico e disponibile, che non dà fre-gature e  rispetta l’acquirente, ilcurioso, o anche soltanto quello cheha dato lì l’appuntamento alla fidan-zata perché fuori piove (cosa ormaiimpossibile nella quasi totalità deglialtri esercizi commerciali). un libraiocosì non avrà nulla da temere dallaconcorrenza fredda e seriale dell’edi-cola e anzi, se starà con le antenneben attente, potrà anche sfruttare lesuggestioni che un libro compratocon un giornale può suscitare (nonsono stati infrequenti infatti i casi,negli ultimi anni, di persone che, ac-quistato in edicola, un classico, o uncapolavoro di uno scrittore, o unaraccolta di poesie, abbiano poi cer-cato in libreria altri libri di un autorescoperto così e apprezzato). lo stessodiscorso vale per l’acquisto di libri suinternet (utilissimo soprattutto per ivolumi rari o stranieri): il rapportoumano con il libraio, la possibilità dicompulsare fisicamente il volume, e ilvantaggio di poterlo immediata-mente confrontare con altri vicini, ri-marranno per molto tempo ancorainsostituibili.

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Marco LiberatoreL’INDIPENDENZA ÈSENZA SIGNIFICATO

fin da ragazzo ho sempre sentitoparlare di indipendenza come sinonimodi libertà, come qualcosa di positivoin sé, come un valore chiaro e condi-viso. poi a un certo momento, non ri-cordo più come né perché, mi sonochiesto che significato avesse real-mente questa parola, come fosse pos-sibile esserlo, fino a che grado, e cosacomportasse essere indipendenti.

Mi permetto di rivolgere la domandaa tutti noi riuniti qui: cos’è e cosa si in-tende con indipendenza? prima ditutto c’è da notare che questa parolanon descrive positivamente qualcosama designa semplicemente la man-canza di rapporto con altro, un rap-porto di subordinazione.l’indipendenza, possiamo allora dire,non è una cosa, è priva di significato insenso proprio, suggerisce un’idea di in-subordinazione e isolamento: nel mi-gliore dei casi, si potrebbe dire, èun’attitudine, altrimenti una condannao un destino.

ovviamente sappiamo bene che inquesto contesto l’indipendenza si rife-risce al fatto di non appartenere agrossi gruppi di potere (editoriale,economico, politico) ma non dicenulla di sé, ossia di come si esercita.segna semmai una differenza che va

riempita di senso. il fatto che nonabbia già un senso o un significato èprecisamente la sua possibilità più ir-ripetibile.

prima ancora vale forse la pena do-mandarsi: sei indipendente anche se,in assenza di “padroni”, hai più par-tner coinvolti a vario titolo nella tuaattività? probabilmente no. i tuoi“portatori di interesse”, i fornitori, lerealtà coinvolte in modo stabile o oc-casionale con la tua attività non ticondizionano mai in nessuna scelta eper nessun motivo? e i lettori? e ilmercato? È difficile da immaginare.

non hai padroni, sei libero nelle tuescelte, va bene. Ma quali criteri adot-terai per operare le scelte che la tuaattività richiede? la risposta a questadomanda ha evidentemente a chefare con il disegno che informa l’atti-vità, la visione che la anima, il fineche persegue, in una parola: il suoprogetto.

Quindi, da una parte, l’indipen-denza non ha altro significato, siadetto chiaramente con un eccesso disemplificazione e un pizzico di pro-vocazione, se non il “fare le cose dasoli”, ma in editoria e in generale neiprocessi di produzione culturale –che sono costitutivamente processirelazionali – è pressoché impossibile.

Dall’altra, l’indipendenza riguardala possibilità di fare le cose in uncerto modo, secondo un certo stile o

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con una determinata attitudine, ossiaattuare un progetto proprio, auto-nomo. È precisamente questa la di-mensione più autentica diindipendenza culturale/editoriale cheandrebbe indagata perché, natural-mente, è tutt’altro che priva di pro-blemi.

propongo dunque di parlare di au-tonomia culturale più che di indipen-denza, perché mi sembra che megliodescriva il fenomeno che stiamo ana-lizzando.

parlare di autonomia culturale peròancora ci dice troppo poco, non cidice nulla, per esempio, sul processoproduttivo o sui risultati ottenuti. eallo stesso modo non ci dice nullasulle scelte da effettuare o sul pro-cesso stesso. non ha a che vedere conla qualità. non è possibile pensare al-l’autonomia culturale come a qual-cosa, per sua natura, migliore diqualcos’altro. non è questo il punto.

il punto è inequivocabilmente ilprogetto che si intende realizzare inregime di autonomia, la sua organiz-zazione, il suo funzionamento.

il soggetto che agisce l’indipen-denza culturale non deve tener contosolo dei cambiamenti che hanno in-vestito e stanno investendo il settoreculturale in questi ultimi anni. l’im-patto delle tecnologie digitali sono in-dubbie, ma centrali sono anche ilrapporto con le proprie comunità,

con i propri pubblici, con gli stake-holder, con i partner, etc.

Da questa disamina preventiva (eperiodica) si arriverà a elaborare emettere in pratica un progetto di au-tonomia culturale che è molto vicinoa quello che noi chiamiamo innova-zione culturale e che si basa su pro-cessi di auto-emancipazione.

se la cultura è un atto sociale, le re-altà che attuano progetti di produ-zione culturale autonoma nonpossono prescindere da un’attenta ri-flessione sui propri rapporti interni edesterni: sulla cura di cosa e comeviene fatto.

Mi riferisco qui esplicitamente allacura delle relazioni interne delle re-altà coinvolte e a quelle esterne con ifornitori, gli stakeholder e le comu-nità (e in editoria con gli attori dellafiliera del libro). in mancanza difondi alla cultura, questo settore hala necessità di reinventarsi e ha lapossibilità di farlo in modo indipen-dente, “dal basso”, se saprà fare pro-prie certe pratiche collaborative.

se ci dobbiamo rivendicare questaautonomia, dobbiamo quindi infineindicare e impiegare al meglio le no-stra differenza rispetto a chi indipen-dente non è: con i nostri mezzi,lavorare in ottica comunitaria, parte-cipativa, collaborativa, per attuaremodalità produttive e processuali in-novative.

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Luca SossellaCOMPETENZAE COMPETIZIONE

La parentesi Gutenberg si stachiudendo. e la trasmissione deisaperi e la comunicazione delle infor-mazioni sta ritornando nell’ambitodell’oralità. non è una metafora,credo che l’evoluzione digitale non ciconsegnerà un nuovo libro, ma tra-smetterà moltiplicati i suoi contenuti,siano essi in audio, video, su un mo-nitor, insomma dentro qualsia dispo-sitivo ancora da inventare, ma non cidarà più la sua forma. l’amore versol’oggetto libro per me rimane incor-rotto, ma bisogna cogliere quella pa-rola come una metafora della suafunzione: la trasmissione del pen-siero. il desiderio di un desiderio: ap-prendere che si può apprendere. 

come competere? innanzi tutto bi-sogna uscire dalle abitudini e sco-prire che quanto ha incurvato lascena è il frutto di un inganno che siripete da quasi mezzo secolo, pernon dire mezzo millennio, svelarel’imbroglio, sebbene ci trascini nelterrore, è l’atto più autentico di bel-lezza che si possa portare a compi-mento.

sì, bisogna uscire dalle involontarieobbedienze e implausibili sottomis-sioni, questo è il compito: determi-nare una nuova osservazione, il donodella chiaroveggenza non è solo il de-

siderio di libertà, e tantomeno di in-dipendenza (che mi pare un termineanacronistico), semmai il suo contra-rio. 

La leganza, la relianza. edgarMorin deve a Marcel Bolle de Bal, lanozione di reliance che assegna unaforza sostantiva a ciò che era statopensato con funzione aggettivale, perdare quindi, in definitiva, un gestoattivo a questo sostantivo. Relié è le-gato ed è passivo, reliant è colui chelega, il legante ovvero ilpartecipante. Reliance è la volontà dileganza e ciò che può divenire atti-vante, pertanto fuori dall’abitudine.Dalla schiavitù del senso dei padri.proprio a proposito di Morin leggevoqualche giorno fa un’acuta osserva-zione di Mario porro: “diventa cosìpensabile insegnare il senso della cit-tadinanza terrestre, prepararci aun’era planetaria di inter-solidarietà,sorta dalla comprensione che l’uma-nità intera partecipa a una comunitàdi destino. Ma per questo abbiamobisogno di operatori di relianza, os-serva Morin, che ci consentano cioèdi collegare la biologia e la fisica, lacosmologia e la cultura umanistica e,più in generale, di cogliere legami econnessioni, al di là della pratica di-sgiuntiva e separatrice del sapereclassico. un sistema complesso fun-ziona al modo di un ologramma,come nelle monadi leibniziane la

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parte riproduce il tutto: la mondializ-zazione è all’interno di ciascuno dinoi e noi portiamo tracce del per-corso dell’intera umanità. ogni cel-lula è un miscuglio di cellule diorigini diverse: lezione di meticciatoche cancella ogni illusione di pu-rezza, e ci apre alla comprensionedella nostra solidarietà vitale con lanatura che degradiamo e alla condi-visione del nostro comune caratterebastardo”.

pertanto ritengo che restare fedeli alconcetto di indipendenza sia frutto diuna comoda cecità, quando il destinoè svelato allo sguardo, e messo agiorno, si entra in uno stato assai di-verso da colui il quale difende il pro-prio orticello di passioni comuni e dicattiva coscienza. certo, per com-piere questo esercizio e semmai rag-giungere uno stato di completainter-dipendenza occorre nonavere interessi da difendere, timorida contrabbandare come necessitàculturali, o peggio vanitosi bisogni daesibire.

il primo scandalo da affrontare ri-guarda la spirale di dequalificazioneche struttura ormai da cinquant’annila caduta di capacità ideali e profes-sionali da parte delle élite culturalidevote, sebbene possa talvolta appa-rire il contrario, al degrado delleclassi dirigenti che governano le no-stre istituzioni. pertanto è conse-guente, con effetti gravissimi, proprio

la crepa nelle istituzioni formativeche avrebbero dovuto avere lo scopofondante di formare le competenzesul piano dei contenuti. Questa è laspirale nefasta che dura da decenni.La volontà di Perseo. per scon-

figgere Medusa perseo aveva la ne-cessità di tre fondamentali qualità: lavelocità che gli era possibile grazie adei sandali alati, la kibisis, una ca-piente borsa dei nomadi atta a conte-nere la testa recisa del mostro el’elmo che lo rendeva invisibile. pur-troppo noi, editori marginali, ab-biamo la tendenza a essere lenti,stanziali e preoccupati solo della visi-bilità. la lentezza è il male maggiore.la dozzinale letteratura che ha spintol’ideologia della lentezza è il prodottodella cattiva coscienza, e come spessocapita, perché capita, la cattiva co-scienza afferma in modo indelebileciò che vorrebbe cancellare.

il dono di Atena dello scudo così lu-cido come uno specchio e la sua sag-gia raccomandazione di guardareMedusa solo di riflesso significanoche l’illusione dello sguardo direttoporta sempre fuori strada, e inveceproprio nella negazione della visionediretta sta la forza di perseo, e questonon vuole dire rifiuto della realtà delmondo di mostri in cui siamo obbli-gati a vivere, anzi vuole dire assu-mersi il proprio fardellodeterminando il distacco: cioè guar-darsi guardare il mondo.

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ora, ogni forma politica credo siafondata sulla pratica dell’educazione,come il risultato e la volontà di con-durre fuori dallo stato di immobi-lità. c’è un spesso negli ambiti chefrequentiamo un balbettio prolun-gato che somiglia al lamento, (quasi)tutti nell’imbarazzo sentono quel fa-stidioso piagnisteo.

Ricordate Risvegli di oliver sacks?Dove il neurologo descrive la paralisicausata dall’encefalite letargica comeun prolungato tremolio che finisceper congelarsi nell’immobilità. Bene,l’encefalite della disattenzione è il cri-mine che si è infiltrato nelle nostrestrutture costitutive e l’immobilitànon potrebbe essere definita meglioda altra parola che non sia “rasse-gnazione”, cioè sfiducia nell’educa-zione. la politica dell’educazionedovrebbe indicare l’attività capace ditrasformare la forma presente el’educazione politica è l’arcipelago diregole che permette a una comunitàdi raggiungere i propri scopi. sonopochi i certosini all’opera che, incu-ranti del rumore guasto dei media edel fiato malato della platea, ricer-cano secondo la convinzione di ri-spondere alla crisi della figuradell’educatore, per la rivalutazionedel ruolo centraledell’educazione. giustamente Al-berto Abruzzese ha detto che in unasocietà che ha visto fallire i suoiobiettivi primari – giustizia, ugua-

glianza, qualità della vita – si imponela realtà di una sconfitta, senza piùvie d’uscita: la sconfitta dei valori aiquali i sistemi “occidentali” si sonostoricamente ispirati.  si tratta di unasconfitta dovuta a ciò che suppo-niamo essere. una sconfitta del-l’umanesimo, un fallimento parisoltanto alla sua abitudine storica.Altro che rispolverare le pagine deiGrundrisse, scritte cent’anni primadella mia nascita, per la cronacasono nato nel 1957, lo dico perchéavverto spesso, su diverse scene, mi-mare il concetto di General Intellect,descritto nel Frammento sulle macchine,come un nuovo un talismano. unverso di ponge dice che non si escedall’albero con i mezzi dell’albero.D’accordo, e non si esce nemmenodal labirinto con gli obblighi che ilmedesimo impone. e chi desidera ac-comodarsi nella rassegnazione labi-rintica difficilmente troverà una viad’uscita diversa dal lamento sulla cat-tiveria del mondo.

Il futuro del libro. ecco, tutti astrologare sul futuro. Amuleti ideolo-gici, oroscopi e superstizione. e ilpresente? smettiamola di parlare difuturo, e cominciamo a dare un oc-chio al presente (possibilmente, comedicevo, con lo sguardo di perseo cheguarda il mostro riflesso e quindi siguarda mentre osserva), che altronon è che la struttura delle nostre

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abitudini e delle nostre più ovvieconvenzioni.

siamo alla fine di un’epoca: le epochesi contrassegnano con i materiali econ i dispositivi impiegati per i pro-cessi sociali, siamo alla fine dell’etàdella carta. la rivoluzione dellacarta si diffuse intorno al Xiii secolo,sì fu un’autentica rivoluzione, checonsentì la produzione del consensoe la trasmissione del sapere, quellache viene definita la civiltà del libro.un mio amico ricorda sempre che icodici pergamenacei costavano, peravere una biblioteca bisognava ma-cellare un gregge. Quando l’artedella stampa si diffuse non furonopochi gli umanisti a storcere il naso:rispetto all’ordine grafico di un bellibro umanistico, di fronte ai raffinaticapilettera il prodotto stampato nonpoteva che risultare meno gradevoleall’occhio. era, dicevano i dotti, lafine della civiltà del libro. Bugia, sap-piamo invece che fu il suo trampo-lino di lancio. un inizio. ora tocca allibro tipografico cedere le armi e dapiù parti si sentono gli stessi dotti la-mentosi. le abitudini sono dure amorire, di norma muoiono assieme achi le coltiva.

Il capitalismo muore di capi-talismo. schumpeter fu tra i primi acomprendere che il meccanismo delladistruzione creatrice è il cuore del si-stema capitalistico il quale distrugge

“il vecchio” per creare “il nuovo” ecrea “il nuovo” per distruggere “ilvecchio”, ma anche il suo talloned’Achille perché, è normale che co-loro che si vedono danneggiati dalmeccanismo della distruzione crea-trice si organizzino per boicottarla,creando forze di tipo corporativo perimpedire che il processo di innova-zione abbia luogo.

per dirla con una sentenza più pro-saica dell’economista galbraith:“ogni tanto è bene che i soldi ven-gano separati dagli imbecilli”. ed èquello che sta succedendo.

Adesso.Mcluhan, nato oltrecento anni fa, ne La sposa meccanicascrive: “la qualità del rapporto dichiunque con le menti del passato èesattamente e necessariamente deter-minata dalla sua comprensione delmondo contemporaneo.” il nostroprogetto editoriale è iniziato nel2000, si parlava del clima di orfanitàche abitiamo, senza più padri dellatradizione a cui appellarci. Avverto,ora come allora, il senso del ridicolonel voler lanciare così il cuore oltrel’ostacolo. sentiamo tutti noi unmandato. un obbligo. una missioneda compiere, ovvero un’azione supe-riore alle circostanze dell’adesso daportare a compimento, superiore allecircostanze, cioè oltre la nostra cono-scenza. Ho una figlia di ventisei annie un figlio di sei, vent’anni di diffe-

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renza segnano la fine di un’epoca el’inizio di una nuova era. Mi inter-rogo come leggeranno Marziale fravent’anni. il piccolo quando avevadue anni e mezzo mi ha chiesto:“Adesso è prima o dopo?”

C’era una volta il libro. unaproposta: un documentario da farsisulla storia dei primi cinquecentoanni di vita del libro, raccontati assu-mendo lo sguardo della trasforma-zione che sta attraversando il sistemadi sistemi di trasmissione della cono-scenza. Ricostruire il passato e de-scrivere il presente.

in un momento in cui emergonocon chiarezza punti di rottura e disvolta è possibile tracciare le linee disviluppo di un periodo storico entroil quale si collocano la nascita, il per-fezionamento e l’egemonia della tec-nologia della stampa, con i modelliculturali, politici, economici, socialiche le sono connessi. una tecnologiaprogredita attraverso i secoli nellacertezza di una continuità sostanzialedelle sue manifestazioni, secondo letappe di un’innovazione senzastrappi, che rende fisicamente e con-cettualmente contigui i libri stampatida Aldo Manuzio e quelli che noi ve-diamo oggi nelle vetrine delle libre-rie. solo adesso però, per la primavolta, il mondo del libro si trova adaffrontare una radicale ristruttura-zione.

la storia del libro è una narrazioneda tramandare oralmente. conse-gnando la parola ai testimoni, aglieredi e agli interpreti di una tradi-zione, quella libresca, che ha perfe-zionato uno degli strumenti di piùefficace e longeva utilità per gli uo-mini.

il documentario chiederà ai prota-gonisti di esperienze d’eccezione diraccontare l’universo del libro, la suastoria, le sue pratiche, le sue condi-zioni di esistenza, la sua posizioneall’interno delle configurazioni so-ciali, lo stato di avanzamento dellasua crisi: crisi permanente e struttu-rale, connaturata all’esistenza stessa,paradossale, di una merce non-merce; e insieme crisi esemplare, le-gata a un complesso ditrasformazioni che stanno ridise-gnando la fruizione della cultura, e lastessa organizzazione della società.

le domande dovranno imprimereal racconto un movimento pendolareche oscillerà dentro e fuori la galassiaManuzio più che gutenberg: dentroil libro e il suo funzionamento, efuori, verso le sue implicazioni am-bientali. Dentro la sua esistenza fi-sica, dentro la storia della suamaterialità, e fuori, verso la sua esi-stenza concettuale e autonoma ri-spetto ai supporti. il documentario sifonda su una sotterranea imposta-zione saggistica, disposta natural-mente a lasciarsi modificare e

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deformare dal contatto col corpovivo dell’indagine. perché la prolificatendenziosità del saggio non si tra-sformi in una monolitica struttura-zione “a tema” il documentario habisogno di una drammaturgia chepossa movimentarlo e sottrarlo a unaprevedibile scansione tematica o a unpiatto susseguirsi di medaglioni.

immaginiamo un lettore che tentidi decifrare questo mondo che ap-pare enigmatico e allo stesso tempopieno di opportunità. una lettriceche scivoli attraverso supporti im-prendibili, apre giornali, libri, rivisteche non si lasciano leggere secondole pratiche conosciute: sono disposi-tivi mutevoli, si trasformano, assor-bono il lettore, lo incorporano e lomodificano modificandosi.

la realtà è un medium, un am-biente fluido nel quale messaggi,corpi, oggetti, eventi si amalgamanoincessantemente uno nell’altro, si in-scrivono nel flusso dell’irreale, incontinua trasmissione con la realtà.

Dentro questo flusso, attivate dallavolontà di comprendere dellettore/lettrice, compaiono, integratenel corpo della realtà, divenuto in-sieme testo e supporto, le intervisteche raccontano la storia del libro. se-condo un’articolazione che potrà es-sere modellata sui temi e suglisviluppi suggeriti dalle intervistestesse.

È un sogno? può darsi. Vorrei chiu-

dere e salutarvi ricordando la clau-sola del sisifo di camus:

Per il resto, egli sa di essere il padrone deipropri giorni. In questo sottile momento, incui l’uomo ritorna verso la propria vita,nuovo Sisifo che torna al suo macigno, nellagraduale e lenta discesa, contempla la seriedi azioni senza legame, che sono divenute ilsuo destino, da lui stesso creato, riunito sottolo sguardo della memoria e presto suggellatodalla morte. Così, persuaso dell’origineesclusivamente umana di tutto ciò che èumano, cieco che desidera vedere e che sa chela notte non ha fine, egli è sempre in cam-mino. Il macigno rotola ancora.

Lascio Sisifo ai piedi della montagna! Siritrova sempre il proprio fardello. Ma Sisifoinsegna la fedeltà superiore, che nega gli deie solleva i macigni. Anch’egli giudica chetutto sia bene. Questo universo, ormai senzapadrone, non gli appare sterile né futile.Ogni granello di quella pietra, ogni baglioreminerale di quella montagna, ammantata dinotte, formano, da soli, un mondo. Anchela lotta verso la cima basta ariempire il cuore di un uomo.

Bisogna immaginare Sisifo felice.

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Marco BaravalleIL PARADOSSODELL’INDIPENDENZA

Mi pare che l'indipendenza culturale,oggi, sia un oggetto paradossale eforse la situazione dell’editoria, con isuoi oligopoli, rappresenta un’ecce-zione, un settore in cui il confine tradipendenza e indipendenza si mani-festa chiaramente ed è riaffermato at-traverso dispositivi particolarmentebrutali e violenti. se allarghiamo losguardo all’ambito più generale dellaproduzione culturale, se ci riferiamoal modo neoliberale di valorizzazionedell’arte, potremmo provocatoria-mente affermare che l’indipendenzaè dappertutto e che essa non è alter-nativa, ma al contrario consustanzialeal suddetto modo di produzione, nonsolo perché le industrie culturali ecreative mobilitano continuamentedifferenziali di libertà, immaginariconflittuali, eterodossie, ma perché lacondizione primaria dell’indipen-denza, per un operatore culturale, èla possibilità della produzione (ovverodella creazione).

poco importano, se guardiamo allamaterialità del nostro tempo, la pre-carietà, la condizione di working poors,l’asservimento macchinico ecc.

gli operatori culturali “applicano”,condividono, raccolgono fondi, par-tecipano a bandi, si fanno finanziare

dalla folla, vincono dottorati, fon-dano start-up, imprenditorializzano sestessi, si finanziano attraverso lavoridi tutti i tipi e tutto ciò non basta ascuotere la cornice neoliberale.

il mondo della produzione culturaleè pieno di storie di indipendenza (chesono storie di creazione/produzione).

indipendenza non è dunque sino-nimo di autonomia dall’apparato,perché essa convive con l’individuali-smo proprietario, con il cinismo, conla competizione, con le retorichedell’impresa e del management. È unamatassa che va sbrogliata, è unaforma di vita che ha prodotto sogget-tivazione (cioè adesione/assoggetta-mento), ma che produce anchefrizioni. ed è dall’interno di questefrizioni che dovrebbe emergerequella che potremmo definire un’in-dipendenza costituente che uniscesperimentazione di modi di produ-zione e produzione di conflitto. 

credo sia difficile pensare a un’or-ganizzazione dei lavoratori del set-tore culturale/creativo attraverso unaloro sindacalizzazione, anche informe aggiornate e riviste). individuodue piani di lavoro. il primo è il nododell’organizzazione della produzionesecondo modelli altri rispetto alle lo-giche neoliberali, elemento necessa-rio, ma non sufficiente. il secondo èquello che dovrebbe rispondere al

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problema enorme della politicizza-zione del lavoro vivo culturale, ov-vero come fare in modo che quellacomposizione si faccia portatrice diistanze in merito alla fiscalità, al red-dito indiretto o al welfare (ad esem-pio). Qui perdiamo terreno, al postodi queste istanze ci troviamo di frontead una prevalenza di retoriche im-prenditoriali (dunque individualisti-che), di pulsioni corporative piuttostoche di spinte trasversali. oggi siamo(a volte) indipendenti, ma siamocomplessivamente compatibili. 

possiamo dare molti giudizi sul-l’esperienza dei teatri occupati, i mo-vimenti sono ciclici, si gonfiano e sisgonfiano e facciamo fatica a identifi-care l’accumulo. in ogni caso quelloera un tentativo del lavoro culturaledi praticare forme di incompatibilitàprima di tutto rispetto ai dispositividi soggettivazione neoliberale.

Ho recentemente letto un saggio diun giovane ricercatore polacco,kuba szreder, che investiga la di-mensione soggettiva di quello che de-finisce “projectariat” (progettariato),ovvero la diversificata composizionetransnazionale di operatori culturaliche organizza la propria produzione“a progetto”. il saggio mi è parso insintonia con le pratiche di s.a.l.e.-Docks, mi è parso inoltre che ne ri-specchiasse potenzialità e limiti. latesi dell’autore è quella che sia neces-

saria una radicalizzazione dell’op-portunismo che caratterizza la com-posizione in questione, elementochiave sarebbe il passaggio dall’indi-pendenza all’interdipendenza. chia-riamo che siamo qui lontani dalleretoriche più scontate sullo sharing,sul networking o sulla cooperazione. sel’interdipendenza è una suggestioneutile, essa deve in ogni caso essere de-clinata politicamente, ovvero controil modello neoliberale, altrimenti(concesso che il termine trovi diffu-sione nella spietata economia delpensiero critico) verrebbe semplice-mente assorbita, con pochi effettisulla realtà. 

oggi, mi pare, siamo invece in as-senza di un terreno di aggregazioneche presenti tali caratteristiche. lereti attive, sebbene pongano istanzelegittime e spesso critiche, non sem-brano interessate alla ricerca di prati-che di incompatibilità del lavoroculturale con questo stato di cose.certo, il pragmatismo è importante,ma in tempi come questi è anche unatentazione a cui è difficile resistere.insisto sul punto e a costo di rinun-ciare del tutto a essere sexy, affermoche abbiamo bisogno di un approc-cio politico alla “fabbrica della cul-tura”. chiudo con un esempio inmerito, si tratta solo di una sugge-stione. pensiamo ad esempio a crea-tive europe, programma pluriennaledi finanziamento al settore culturale

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e media dell’unione europea che ge-stisce un portafoglio di 1,46 miliardidi euro. pensiamo ora a quanto, a li-vello di azione politica generale, imovimenti si pongano da anni il pro-blema di investire la dimensione eu-ropea; bene, creative europe è unafabbrica culturale pienamente euro-pea, una fabbrica linguistica, diffusae puntiforme che funziona esatta-mente per progetti. non sarebbe al-lora importante, in nomedell’indipendenza culturale, produrreun serio lavoro di inchiesta all’in-terno di questa fabbrica culturale?superare il mero opportunismo, cioèl’accesso ai fondi quando siamo ingrado di accedervi, e pensare, invece,come sovvertire questa fabbrica?come sottrarla alle reti del politica-mente corretto, ai professionisti dellaprogettazione europea, ai burocratidella rigenerazione, della partecipa-zione e della cultura?

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Paolo CaffoniMODI DI ESPOSIZIONE/FORME DISOGGETTIVAZIONEALCUNE CONSIDERAZIONISULL’EDIZIONE 2015 DI INEDITOE BOOK PRIDE

Vorrei riprendere i due interventi diquesta mattina fatti da lanfrancocaminiti e ilaria Bussoni, e provare arileggerli alla luce di una piccola masignificativa esperienza di progetta-zione di un evento legato all’editoriache si è svolto da poco a Macao. ilaria Bussoni ha fatto riferimentoall’esplosione delle professioni, allaloro frammentazione e alla necessitàdi assumere le forme del lavoro con-temporaneo anche nella costruzionedi un nuovo formato di festival/fieralegato alla produzione culturale. lasfida, alta, che mi sembra emergereed essere proposta dal suo intervento,è quella di pensare l’evento in terminidi ricomposizione politica, una ri-composizione, si badi, che necessaria-mente non può limitarsi ai terminiassociativi fra i vari editori indipen-denti, ma che deve guardare allamolteplicità e alla frammentarietàdelle soggettività contemporanee, e aitempi in cui queste sono messe al la-voro. Questa è a mio avviso una vi-sione di prospettiva concretariguardo all’organizzazione di ciò chesi potrà svolgere a marzo 2016, o

forse più in là, nelle prossime edi-zioni, come orizzonte a cui tendere.Mi trovo meno d’accordo nel definirei termini di questa ricomposizionedelle soggettività sotto l’etichetta diun “festival del general intellect”, per-ché quest’ultima è a mio avviso unadefinizione fuorviante; pensiamo soloalle immagini dei corpi nello spaziofisico della fiera e alla sua spazializza-zione, immagini che possono avereuna propria forza e valenza politica,da non sottovalutare, ma che pocohanno a che fare con la “rappresen-tabilità” del general intellect. la pro-spettiva proposta da ilaria rimanecomunque, credo, quella giusta.

un secondo punto che mi ha col-pito molto del suo intervento era larichiesta, immediata, di decostruirel’aurea creatasi, soprattutto a partiredagli anni sessanta, attorno all’edi-tore borghese, anche indipendente,comunque di sinistra, generalmentemaschio, bianco e che firma la casaeditrice con il proprio nome e co-gnome. immediatamente mi è tor-nata alla mente una video-intervistaa françois Maspero che, con ilgruppo comunicazione di Book pride2015, abbiamo ripubblicato online.in quell’intervista Maspero, l’editoredel sessantotto francese, dice che“un editore si definisce per il suo ca-talogo”: il catalogo dei libri che hapubblicato, quello dei libri che nonha pubblicato, più importante, e

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quello dei libri che ha fatto pubbli-care agli altri.

che la funzione e il ruolo di un edi-tore, come quella dell’autore, sia oggicompletamente da rimettere in di-scussione mi sembra del tutto evi-dente, non perché essa manchi diuna propria specificità, e anche pro-fessionalità, che non può essere di-smessa alla veloce (come vorrebbeinvece il self-publishing di amazon),ma perché oggi evidentemente uneditore non è solo chi pubblica libri,ma chi organizza e veicola le condi-zioni perché una certa culturaemerga, attraverso i libri, i socialmedia, i laboratori, le forme che puòassumerne lo spazio del web e quellodella fiera ecc. una frammentazionemolto più articolata che è riconduci-bile solo in parte alla forma dell’og-getto libro, come lo era stato dagutemberg fino al fordismo. Mi sem-

bra interessante notare a questo pro-posito, che oggi, come nei passati in-contri della cooperativa Doc(k)s, nonsi è mai parlato in maniera approfon-dita di programmazione editorialedelle case editrici aderenti, anche sequesto era uno dei punti all’ordinedel giorno. Abbiamo scelto di nonparlare di quali libri vogliamo pub-blicare, quanto piuttosto, ricordava amaggio scorso luca sossella, di chelettorato vogliamo promuovere.

l’edizione di inedito di quest’anno,la terza, che si è svolta a Macao il 25-26-27 di settembre, ha preso il nome,o la declinazione, di “ecc. ecc.”. pernon dilungarmi troppo, visto che giàil nome è programmatico, mi piace-rebbe soffermarmi brevemente sul ti-tolo. InEdito Ecc. Ecc. è unadefinizione aperta, non riconducibilea una tipologia, determinata a priori,per consuetudine, di evento legato al-

Più Libri, Più Liberi, palazzo dei congressi dell’eur, Roma 2013

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l’editoria. inedito è un festival di let-teratura, una fiera, una mostra, unapiazza, radio, un simposio ecc.

come ben possiamo intuire la spa-zializzazione delle fiere dell’editoria,con i vari stand divisi per editore, è larisultante di una funzione economicaapplicata allo spazio. i costi dell’or-ganizzazione dell’evento ricadono inparte sugli stessi editori, che affittanouno spazio per un costo determinatoal metro quadro. un investimentoche deve essere come minimo ricom-pensato attraverso la vendita dei pro-pri libri. per cui ogni editore fa bellamostra dei suoi prodotti e di sestesso, accanto ma separato dall’al-tro, da sottili pareti in octanorm, ilsistema per allestimenti fieristici mo-dulari più diffuso al mondo, brevet-tato dall’omonima compagniatedesca nel 1968.

Dalla sintesi dei dati raccolti nell’in-dagine realizzata da Doc(k)s fra glieditori presenti all’edizione 2015 diBook pride (50 questionari su 90 edi-tori), emerge che il 96% dei parteci-panti ha ritenuto un allestimentoapprontato secondo la formula deimoduli octanorm “adeguato” alleesigenze dell’evento, mentre “la pos-sibilità di provare un allestimentostand più sperimentale non spaventanessuno o pochi (l’82% degli editorisono favorevoli). Molti suggeriscono

[comunque] di mantenere le paretidivisorie.”

Volendo un po’ ironizzare, si po-trebbe titolare un futuro seminario diDoc(k)s: “Quali sono le pareti dell’in-dipendenza?”. eppure la spazializza-zione è sempre anche una formadiscorsiva, raramente mente, ci in-dica tutt’al più delle verità spesso ta-ciute – “i muri parlano” si usa dire. edi cosa stiamo parlando quando uti-lizziamo il termine “indipendenza” o“editore indipendente”? una primanota porterebbe a definire l’indipen-denza principalmente in termini eco-nomici, essere indipendentieconomicamente (suona un po’ comeil problema generazionale sui titolidei giornali); pago il mio stand,vendo i miei libri, ma non mi piaceneanche guardare in faccia a nes-suno, preferisco aspettare seduto cheil potenziale lettore si faccia avantiper alzarmi in piedi o passi oltre persfoderare un sorriso a denti stretti.una seconda riflessione porta a chie-dersi rispetto a chi si è indipendenti;è possibile essere indipendenti dalleconcentrazioni monopolistiche purrestando separati gli uni con gli altri?oppure, è possibile mettere incampo un peso decisionale significa-tivo, unendo le forze pur non ri-schiando di perdere la propriaspecificità e la gratificazione data dalnel gestire qualcosa di proprio? Avolte mi sembra che i tempi siano

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maturi per porsi il problema del su-peramento dell’auto-promozione eprendere in mano quello dell’auto-rappresentazione, che non si da maial singolare. Quale sia misura e latensione fra la singolarità e l’organiz-zazione collettiva è di sicuro la do-manda che si dà con la politica. Valeforse la pena non demandarla a unsistema di costruzione dello spazio (edel discorso) che deve il suo successoplanetario alla facilità di allestimentoe disallestimento (disarmo); oppure,al contrario, assumere in pieno que-sta logistica una volta per tutte, peròin veste tattica.

l’edizione 2015 di inedito, ha datosicuramente modo di riflettere alcunidi questi passaggi, a partire propriodalla diversa definizione di uno spa-zio. per iniziare dal contesto, in

quanto occupazione, Macao si è libe-rato da una certa pressione del mer-cato, certo permangono molti deicosti vivi dell’organizzazione e dellamanutenzione, della cura dell’edificioe delle attività che in esso si svolgono.tuttavia la pressione economica datadai costi di affitto, e non solo, bastipensare ai costi assicurativi e ai limitiimposti dalla gestione a norma dilegge degli spazi pubblici, viene ascemare. Questo primo dato, che de-riva da una scelta politica, ha avutocome conseguenza la possibilità disperimentare un sistema di organiz-zazione e spazializzazione dell’eventoche avesse l’ambizione di raggrup-pare e non parcellizzare lo spazio se-condo la formula costo per metroquadro. gli editori invitati non pa-gano una quota di partecipazione,variando quindi anche le aspettative

InEdito Ecc. Ecc, disegno di progetto, Angelo castucci e fabrizio (Joykix) longo,Macao, Milano 2015

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rispetto alle concessioni.se guardiamo il disegno di progetto

espositivo, notiamo subito che ai mo-duli in octanorm è stata preferitauna struttura, ugualmente facile damodulare, ma realizzata da ponteggiper impalcature edili.

Due prime esemplificazioni a par-tire dal materiale potrebbero rilevareche il ponteggio, a differenza del-l’octanorm, è una struttura di sup-porto, non semplicemente unadivisione dello spazio in comparti-menti, ma un sostegno alle attivitàdiversificate che attorno e su di essasi svolgono (una libreria, una torreradio che trasmette in diretta, unpalco per le presentazioni, unopiazza dove aggregarsi ecc.

Di solito questo tipo di struttura tu-bolare non è usata in funzione espo-sitiva, se non per teloni pubblicitari

che ricoprono le facciate di molti edi-fici nei centri storici, per una durataspesso difficile da definire. non man-cano illustri eccezioni, come gli alle-stimenti di franco Albini, piùeleganti ma disegnati su misura emeno “portanti”, o l’interno-esterno“luminarie” di ugo la pietra allatriennale di Milano nel 1979, men-tre vera e propria scenografia, tri-buna, palco e sala macchine allostesso tempo è il progetto di lina BoBardi per il teatro oficina di sanpaolo nel 1980. si potrebbe conti-nuare con una breve storia dell’usodi impalcature in sistemi espositivi,ma non in questa sede e non sono iola persona adatta per farlo.

in seconda battuta, mi interessa sot-tolineare la connotazione del mate-riale di allestimento come strutturaprettamente di lavoro, non mera ve-

lina Bo Bardi, teatro oficina, Brasile , san paolo 1991

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trina espositiva, ma infrastruttura fi-sica delle attività lavorative che sot-tendono alla costruzione di unevento legato all’editoria. il pro-blema della rappresentabilità e delvalore del lavoro in eventi showcasecome l’expo di Milano o il fuorisa-lone è sicuramente uno dei temi sucui Macao sta investendo da piùtempo. Questa funzione simbolicadello spazio è stata fondamentale nel-l’intento di inedito di raccontarel’editoria a partire dalla sua filiera edalle contraddizioni e possibilità cheun momento di crisi del settore ri-flette su di un ampio raggio.

Questo vuole dire che l’esperienzadi inedito è sostituibile a un eventosu più larga scala come Book pride2015 (e la futura Bellissima 2016), oviceversa? Assolutamente no. esi-stono diverse forme di innovazione apartire dalle diverse scale di progetto,diversi livelli di professionalizzazionecome anche vari gradi di libertànell’organizzazione. tutto sta nel-l’agire in maniera specifica sulle con-dizioni materiali che intendiamotrasformare. È possibile poi che que-ste diverse scale di evento reagiscanol’una all’altra, per frizione o coordi-namento, e portino avanti una lotta euna sperimentazione su piani molarie molecolari.

lanfranco caminiti nel suo inter-vento rileva che “non tutta l’intelli-

genza sociale sta nei libri. né neglieditori, grandi o piccoli che siano.Qualche formula di evento sparirà,qualche altra spunterà.” non po-trebbe trovarmi più d’accordo. l’ipo-tesi di lavoro che lanfranco avanza èquella che vede nella crisi e nella tra-sformazione del mercato editorialel’emergere di un nuovo “soggetto mu-tante”, a partire dalla diversificazionee moltiplicazione della lettura chedall’oggetto libro “si è spalmata versoaltri oggetti e veicoli e strumenti il de-siderio di conoscenza. si è modificatoanche tecnologicamente il lettore,ben più di quanto si sia modificato illibro.”

la centralità del lettore e del pub-blico è un fatto moderno per eccel-lenza. il sociologo di fine ottocentogabriel tarde, riscontrava nei pub-blici il gruppo sociale che emergecon la Rivoluzione francese in con-comitanza alla diffusione dei quoti-diani e al formarsi di quella cheancora oggi chiamiamo “opinionepubblica”. gutenberg non era statocapace di tale impresa, perché il suolettorato era molto più simile a unachiesa (protestante) che a un pub-blico moderno.

oggi più di allora il pubblico èanche soggetto economico, forse ilprincipale, a rimarcare la sua centra-lità nelle reti informatiche comenell’organizzazione degli eventi dellacultura. se guardiamo nello specifico

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alle possibilità di finanziamento diuna fiera o di un festival dell’editoria,il pubblico inteso come forma datadallo stato è assente, rimangono glieditori (che pagano lo stand) e i pub-blici (che pagano un biglietto) a de-terminare il successo dellamanifestazione.

in un testo scritto qualche anno fa,ma che per me rimane sorprendetesotto molto aspetti, nanni Balestriniprovocatoriamente ricongiungeva idue finali alternativi di un immagina-rio copione che raccontasse la filieradel libro: il grande successo di pub-blico, oppure, all’inverso, il macerodel titolo (nanni Balestrini, Lettera almio caro e ignoto lettore, prefazione allariedizione di La violenza illustrata, De-rive Approdi, Roma 2011).

far cortocircuitare quelli che sem-brano essere destini predeterminatipuò essere una strategia politica,oltre che economica, dell’evento.

A inedito abbiamo provato a met-tere in scena questo cortocircuito,chiedendo un biglietto di ingresso alpubblico in cambio di un libro dasalvare dal macero, a scelta fra quellidegli editori aderenti alla compagnaMacerono. un piccolo esperimentoche ha avuto buoni risultati. entraresimbolicamente dalla fine della filieraeditoriale, o piuttosto dal suo“scarto”, ha permesso di sollecitare ilpubblico verso un esercizio di consa-pevolezza.

sono convinto, come lanfranco,che il pubblico sia una soggettivitàancora oggi in forte mutazione, manon credo che di per sé costituiscauna realtà politica emergente, anzi èpiuttosto asservita. starà agli stru-menti e alle tecnologie che saremo ingrado di mettere in campo, in ter-mini di spazio, comunicazione, orga-nizzazione, eccetera, la possibilità difar emergere forme di contro-sogget-tivazione dei pubblici e dei lettori.una prima traccia di lavoro comune,potrebbe essere quella di condurreuno studio sulle forme in cui il lettorecontemporaneo si rappresenta.

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Roberto CiccarelliTUTTI I BIANCIARDIDI DOMANIQUANDO IL LAVORO CULTURALE

PRODURRÀ UN REDDITO

esercizio di immaginazione: il lavoroculturale genera comunità operose. esi organizza in una o più cooperativedi mestieri, prodotti, servizi, relazioniche crea una democrazia integrale alsuo interno, realizza una criticavivente di ciò che sono oggi lecooperative di lavoro: gerarchiche, adispetto dello statuto orizzontale;simulatrici di democrazia nei loroorgani statutari e non creatrici direlazioni, progetti, interazioni reali.Mi è stato chiesto di parlare Doc(k)s,una cooperativa di servizi, editoriale,sperimentazione teorica. Ho aderitosin dalla sua nascita e oggi laimmagino come una banchina dovele navi senza meta trovano l’approdo.come un rifugio dal mare intempesta dove sbarcano comunitàspaesate, apolidi sperduti che trovanoristoro e il lontano ricordo di casa.così intesa una cooperativa che hal’ambizione di garantirel’indipendenza può diventare una retedi reti autogenerata: editoria, lavorodella conoscenza, cooperazione,servizi e progetti culturali.

L’uso della condivisioneDoc(k)s, come noi che lavoriamo piùo meno precariamente nella fabbricadei segni oggi si ritrova

nell’economia della condivisione. Èinevitabile che lo sia se parli dieditoria, servizi, organizzi festival ofiere. per lavorare devi riflettere sullavoro culturale, immaginareun’alternativa al mercato e alla suabulimia assassina. oggi la chiamano:innovazione digitale sociale. È ilprogetto che ibrida il capitalismo“etico” delle buone pratiche con inuovi modi di organizzare lademocrazia, i consumi, la finanza,ogni aspetto della vita pubblica,persino l’amministrazione locale ostatale. si dice che per governare c’èbisogno della partecipazione dicomunità di esperti, cittadini,lavoratori. l’obiettivo delle nuovetecnologie è quello di condividere lerisorse e ridistribuire il potere. si diceche gli strumenti siano neutri: illiquid feedback, l’openspending ol’open Ministry. Queste piattaformecomunicative puntano a diventarenetwork consapevoli che richiedonola partecipazione attiva perrigenerare le città, proteggere iluoghi dalle speculazioni, mobilitarela cittadinanza e decidere sugliaspetti più importanti della vitaassociata.

Questi dispositivi non sono neutrali.Dipendono dall’uso che ne facciamo.sono come internet che non è unacasa di vetro, è un apparato dicattura. l’uso delle pratiche èpolitico. se usiamo i network come igrandi editori, i rentier che

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speculano sui makers o suicoworkers, non poniamo unproblema politico: riproduciamo lanostra subordinazione. ci sfruttiamoa vicenda. un torto fatto a uno, è untorto per tutti. l’uso politico dellarete serve ad affrontare il problemadella vita oggi: il fisco, la malattia, laricerca del lavoro, la produzione delvalore. il reddito. e poi, anche lacura e il diritto alla felicità.

Fare in comuneQuesto è il lavoro culturale. il suoprincipio è il “fare in comune” – ilvero tratto ontologico nel capitalismocontemporaneo. È usato dai colossidella sharing economy, quelli che hannoucciso la sharing economy, come uber.o da quelli che mettono in vetrinaed espongono come nelle fiere ilfrutto delle innovazioni, dell’ingegno,del making. per commercializzarli,trovare la strada difficile perconiugare il reddito con il prodottodi un mestiere creativo. esistonobandi europei, grandi investimentiper creare incubatori, acceleratori,piattaforme o distretti. sono loscheletro della smart city, il modello dicittà a misura della partecipazionesenza intermediazioni. se produci unbrevetto, devi essere messo incontatto con il finanziatore. seproduci un servizio, sei a contattocon i clienti, senza agenzie diintermediazioni. se hai unappartamento, lo condividi conestranei. la vita è condivisione. Ma

questa vita open access produce unreddito? Dov’è il lavoro e cosa lasciadi sé chi lavora nella relazione cheproduce?

Facebook: la mediazioneevanescentesu questa domanda si infrangonomolte delle velleità attuali. Doc(k)sdovrebbe invece rispondere a questedomande. prenderle di petto, cercareuna soluzione. Questo è il lavoroculturale, oggi. portare una novitànel panorama delle teoriesull’innovazione sociale che discutesolo sulle forme di distribuzione deiservizi e della circolazione del valore.tale distribuzione è garantita dallamediazione evanescente di giganteschioperatori globali delle relazioni edell’interconnessione tra persone.oggi anche le amministrazioni e igoverni pensano come facebook:promuovono la partecipazione dalbasso dei cittadini per colmarel’assenza del Welfare. se hai undebito, e non paghi le tasse, puoipulire le aiuole del municipio gratisper saldare le tue colpe. se seidisoccupato, puoi utilmente fare il“bene comune” della tua cittàpulendo le tag sui muri del tuoquartiere o spazzare l’immondizianelle strade. È lo stesso concetto:partecipa anche tu all’impresacollettiva, lavora alla reciprocità dimassa, senza avere nulla in cambioche non sia il customer care.

oggi il salario è simbolico, è

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visibilità, altruismo, devozione a unacausa comune oppure conquista diun prestigio individuale che poi volavia. l’industria editoriale, ilgiornalismo, l’università, i grandieventi come expo funzionano allostesso modo: lavori gratis per testesso. così arricchisci i networkglobali e a te resta l’impressione diavere partecipato a qualcosa digrande che vale per pochi. comefermare questo circuitodell’autosfruttamento? creando reti di autogoverno.

Organizzare lavoro e comunitàil lavoro culturale è come unpescatore. con le sue reti si falevatore di community organizer e labourorganizer. organizza comunità elavori tra individui, lettori e utenti inragione del suo essere impresacomune distribuita; crea strategie diaffidamento collettivo attraversol’auto-organizzazione mutualistica inrete; fa emergere linee diriconoscimento dal basso e dicreazione di una reputazionecollettiva.

Queste banchine le immagino comeuna community aperta, non soloun’iniziativa imprenditoriale chiusa,capace di creare reti per agganciareed essere a sua volta agganciata daidispositivi che costruiscono l’identitàpersonale e collettiva, permettonouna risposta immediata alle esigenzeemotive, politiche, culturali delpubblico-lettore-utente-cittadino, e

soprattutto il riconoscimentoreciproco che permette latrasformazione del prodotto comedei produttori e dei consumatori.

il lavoro culturale è unire forme diproduzione atomizzata ad atti dicittadinanza. Queste connessionitemporali le possiamo declinare informe di mutualità, mutuo aiuto e diinnovazione legislativa. il redditoguadagnato serve per sé, e perl’impresa comune. si fa una cassa, siinveste in noi. Al suo interno sipossono usare transazioni monetariecomplementari. Al suo esterno sipossono creare convenzioni e scambidi servizi, validi nelle reti territoriali,nazionali, ma anche fuori dall’italia.costruire comunità a venire. creareconsorzi. Realizzare progetti.

Vita open accessecco come lo immagino il lavoroculturale: un’impresa collettivadistribuita sul territorio e in rete.tale impresa non funziona come unpartito politico, almeno come quelloche abbiamo conosciuto nelnovecento. funziona, invece,quando federa gli interessi e favoriscela convergenza delle attività in unaserie di iniziative finalizzate allaredistribuzione di servizi, progetti,prodotti o campagne. Questo lavoroserve a creare autonomia, non adifendere i nostri rifugi.

È la vita open access di tutti iBianciardi di domani.

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APPENDICE

A cura di Doc(k)sScritto da Lanfranco Caminiti

I FIORI DI GUTENBERGUN TESTO PER APPROFONDIRE

(questo testo è stato scritto e messo a disposizionedella discussione del seminario prima del 3 ottobre)

Johannes gutenberg sapeva giàcome sarebbe venuta la sua stampa,prima ancora di farlo. sapeva quelloche era necessario fare, e comeavrebbe fatto. Aveva tutto in testa,aveva tutto nelle mani. Ma non po-teva provare, non poteva produrre.non aveva i soldi necessari. così, simise in società con un banchiere.fifty-fifty. la Bibbia di gutenberg –il libro della modernità – nasce dauna società tra il tipografo di Ma-gonza e un banchiere, Johannes fust,che ci mise i soldi. gutenberg, di suo,ci metteva la genialità e la capacitàartigianale. non inventò alcun og-getto – per dire, il tornio era quellodei vignaioli della Renania – ma laloro nuova destinazione, il loronuovo uso fu straordinario. Deciserodi stampare la Bibbia perché il mer-cato l’avrebbe assorbita presto: istitu-zioni religiose, monasteri. Decisero distampare la Vulgata editio – cioè l’edi-zione per il popolo, l’edizione piùnota, più istituzionale – perché neltempo il mercato dei clienti si sa-

rebbe ampliato, non solo il clero, maborghesi arricchiti, quelli che vole-vano stupire gli ospiti. Decisero dicomporre i caratteri in gotico, co-piandoli dai messali, perché eranoquelli più in uso, a cui si era più abi-tuati. Decisero il size del font perchéera quello che veniva usato per la let-tura a voce alta. Decisero di mettereil testo in due colonne, perché questaera l’abitudine. Decisero che il testosarebbe stato giustificato perché erapiù comodo e consentiva infilare piùparole, e gutenberg ci riuscì con deitrucchi linguistici, dei trucchi tipogra-fici, dei trucchi editoriali. la mobilitàdei caratteri era contemporaneadella mobilità del mercato.

Ma per fare le prove e per produrre,ci voleva tempo. il banchiere, invece,voleva i profitti presto. gutenberg lamenava troppo, e fust si agitavatroppo: mise ottocento fiorini laprima volta, ottocento due anni dopo.ci vollero tre anni per le prime cen-tottanta copie a caratteri mobili dellaBibbia. un tempo straordinariamenteveloce: in tre anni, copiando a mano,un monaco ne avrebbe prodotta solouna. un tempo eccessivamente lungoper il banchiere: in tre anni, queisoldi, prestandoli a strozzo, a un mer-cante che voleva comprare benidall’oriente a due soldi per rivenderlia peso d’oro, o a un principe sma-nioso di conquistare territori, gliavrebbero già fruttato una montagna

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di quattrini. e dispendioso: guten-berg voleva fare le cose bene, la cartaera la migliore, di canapa e venivadall’italia, c’erano quelli che fonde-vano i caratteri, quelli che oliavano icaratteri con i pennelli migliori, quelliche infilavano la carta sotto la pressa,quelli che pressavano i caratteri.troppi operai, troppi tempi morti,troppo lavoro. troppi salari. litiga-rono, fust e gutenberg, i due Johan-nes. la società si ruppe. fust citò ingiudizio gutenberg e chiese i soldi in-dietro con gli interessi. si prese le at-trezzature, le “invenzioni”. fust rubòun po’ di operai a gutenberg e fece lecose a modo suo. iniziò a guadagnarevendendo Bibbie, vendendo libri.non furono mai più belli come quellidel tipografo di Magonza, ma al ban-chiere interessavano gli sghei, non ilibri. gutenberg provò a mettere suun’aziendina indipendente, stampòqualcosa, ma non andò granché benee finì in fallimento. e questa è la sto-ria dell’editoria.

il libro nasce da una cooperazionedi saperi, da un’intenzione estetica edemocratica, e da un investimento dicapitale finanziario. il libro nasce peril mercato. È una merce, ma anchecultura e bellezza. e religiosità. c’èanche il diavolo di mezzo, che è il de-naro. senza il diavolo, non sarebbenato il libro. gutenberg stampavaper il ceto medio riflessivo, fuststampava per il mercato. forse erano

la stessa cosa, almeno all’inizio, ma aun certo punto furono due cose di-verse e contrarie. e questa è la storiadell’editoria.

i libri non si salvano da soli. se gu-glielmo da Baskerville non li portavia dal labirinto della biblioteca dovefrate Jorge li sta affastellando nelfuoco, i libri bruciano. se qualcunonon li passa di mano, mentre leacque del fiume sono tracimate,come nella firenze dell’alluvione del1966, i libri affogano. se qualcunonon li impara a memoria e li ripete,diventando così uomo-libro, come inFahrenheit 451, i libri si perdono, si di-menticano. nessun supporto digitaleci garantirà che il libro rimanga,verrà salvato. un nuovo apparecchiorenderà obsoleto il supporto attuale,il tempo sbiadirà i dati del supporto.È gratificante sapere di essere custodidi un’arte che tende a sparire; è dolo-rosa la battaglia quotidiana control’accelerazione delle tecnologie –ogni invenzione è utile, quando è an-cora manipolabile artigianalmente,ma i rapporti di scala ti condannanosempre.

se qualcuno non li scrive, se qual-cuno non li edita, se qualcuno non litraduce, se qualcuno non li stampa,se qualcuno non li distribuisce, sequalcuno non li consiglia da leggere,i libri non si salvano da soli. i librinon nascono sotto i cavoli nelle serre.

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e non si riproducono lì, come gliogm.

È questo il ruolo dell’editore: sal-vare i libri. i libri perduti non sonoquelli bruciati nel rogo della biblio-teca di Alessandria, ma quelli nonancora stampati. per salvarli, ognieditore segue le proprie passioni, leproprie competenze, il proprioistinto, la propria capacità affinatanel tempo – ogni editore ha i suoi de-moni. per salvarli, ogni editore devevenderli. Deve venderne molto beneuno, per stamparne altri cento. Devevenderne così così dieci per stam-parne altri dieci. se stampa e nonvende, non ci sarà fust che tenga, bi-sognerà chiudere. Maledetto mer-cato, benedetto mercato. Maledettolettore, benedetto lettore. ogni edi-tore lotta contro il grande satana, ildenaro dei banchieri.

la storia dell’editoria è tutta ancoraqui: ogni editore prova e riprova per-ché i suoi libri siano belli, e rendanoservizio a quella straordinaria religio-sità della democrazia che è la diffu-sione del sapere e della conoscenza.ogni banchiere ha fretta di vederemoltiplicati i suoi ricavi: il suo volgoideale è fatto di lettori che compranoi suoi prodotti senza pensarci troppo.se un solo libro all’anno raggiun-gesse la soglia di fatturato previsto,potrebbe bastare al banchiere.

ogni editore non può fare a menodel mercato dei lettori; ogni editorevuole che il mercato dei lettori sia de-mocratico. ogni editore difende lademocraticità del libro. D’altronde,quelli che non vogliono che il librosia democratico, sia molteplice, sonoquelli ai quali basta un libro solo.Quelli che odiano la democrazia, èperché il libro già ce l’hanno, e glienebasta uno solo. la parola di Dio, cheprecede il libro, non conosce la de-mocrazia. forse dire il libro è statol’unico gesto democratico di Dio. laparola di stato, che sigilla il libro,chiude la democrazia. certe volte,viene da pensare che ai banchieri an-drebbe bene ci fosse un solo libro almondo, purché fossero loro a stam-parlo e a venderlo, anno dopo anno.

parafrasando Manolis glezos, il de-putato greco che al parlamento euro-peo ha detto: “l’europa l’abbiamoinventata noi, non ve la regaleremo”,gli editori indipendenti dicono aibanchieri: “il libro l’abbiamo inven-tato noi, non ve lo regaleremo”. glieditori indipendenti sono i fiori digutenberg. sono la rivincita di gu-tenberg. Gutenberg 2, la vendetta.

stampare e vendere libri è una bat-taglia quotidiana. contro chi vuolel’unicità del libro, l’unicità del mer-cato, il controllo della filiera edito-riale, dal produttore al consumatore.gli editori indipendenti sono porta-

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tori di molteplicità, di affluenza, diimprevedibilità. È per questo chedanno fastidio. si possono fare librianche senza i signori fust, e i loro fio-rini. si possono fare libri senza frettadi vedere i ricavi subito. si possonofare libri che chiedono tempo, pas-sione, inventiva. si cercano i libricome si va per funghi: non ci vai tuttii giorni, non ci vai tutte le stagioni,hai i tuoi posti segreti, devi aspettarele condizioni. Devi rispettare la na-tura delle cose. si possono fare libriper rafforzare e estendere la demo-crazia del sapere, della cultura, dellaconoscenza. Ai fiorini dei signori fustnon interessano molto il sapere, lacultura, la conoscenza.

indipendenti non si nasce, comefosse un titolo nobiliare, indipendentisi diventa. e non si diventa una voltasola per tutte, ma ogni volta un po’.perché l’essere indipendenti non di-pende mica solo da te, come bastasseuna dichiarazione alta, ma dipendedal mercato, dipende dai banchieri.Dipende dai tempi. Dipende dallademocrazia. Quando la democraziaè fluente, è ricca, è mobile, quando leistituzioni culturali girano a pieno re-gime – le università, le scuole, i centriculturali, le accademie, gli istituti dicultura, le librerie –, quando i movi-menti dentro la società – i lavoratori,le donne, gli studenti, i precari – in-vadono la società e la vita quoti-diana, e hanno fame di libri, e

producono libri, e raccontano le lorostorie, allora l’indipendenza è un usocomune, uno spirito del tempo. Èuna cosa sovrappensiero. e i ban-chieri di tutto il mondo si fannotorvi. Quando la democrazia è po-vera, si fa fredda, rigida come uncorpo per le analisi forensi, alloral’indipendenza diventa ardua, di-venta una scommessa giorno pergiorno. Diventa una citazione in giu-dizio. e i banchieri di tutto il mondose la ridono.

c’è un rapporto “speciale” tra illibro e la democrazia. il libro devemolto alla democrazia. la democra-zia deve molto al libro.

perciò, la domanda non è se siapossibile l’indipendenza del libro indemocrazia, ma cosa voglia signifi-care un libro indipendente in demo-crazia. Quello che significa in unademocrazia fluente, lo sappiamo.Quello che significa in una democra-zia irrigidita – e questi sono i nostritempi, quelli in cui hanno la meglio ibanchieri fust – certe volte non loprendiamo bene in considerazione.la posta in gioco non è la salvaguar-dia di questo o quell’editore indipen-dente né tanto meno di un processodi promozione e di distribuzione o disconti dell’iva. la posta in gioco èl’affluenza della democrazia. È l’af-fluenza e la mobilità del mercato.

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È la stessa posta in gioco delle isti-tuzioni culturali, dei centri di diffu-sione della cultura e dellaconoscenza, la stessa posta in giocodi chi scrive e di chi legge, di chi stu-dia, di chi consiglia – la società, i suoiautori, i suoi narratori. non c’è unarivendicazione degli editori indipen-denti – una lista della spesa di que-stioni e problemi – su cui chiederesolidarietà e partecipazione, firme edichiarazioni. gli editori indipen-denti non sono alternativi, marginali,pirati, per vocazione. Quando le cosesi mettono male, possiamo semprefare dei samizdat. possiamo semprecopiare a mano un libro. certe volte,mentre impagini un libro, o stai neltuo piccolo ufficio a parlare di rese, odevi correre dalla banca per la que-stua quotidiana, pensi di essere dav-vero un monaco. nessuno sa cosa tustia facendo, però Dio, o la storia ola cultura o quel che l’è, sono dallatua parte. Quando sarà, il mondosaprà quel che hai fatto, ti dici. e vaiavanti recitando la tua litania.

Quando le cose si mettono male,possiamo sempre copiare a mano unlibro.

forse, si stanno già mettendo male.

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