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Hell's Bells

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A short novel about the horrific case of Mary Bell, a serial killer who strangled to death two little boys in Scotswood, an inner-city suburb of Newcastle upon Tyne. P.S.: The text is written in Italian.

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© The Obsidian Mirror - Agosto 2012

http://insidetheobsidianmirror.blogspot.it/

Editing: Simona B.

Produzione indipendente

Tutti i diritti riservati

Prima edizione in formato ebook: Ottobre 2015

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HELL’S BELLSIl tempo non fu mai clemente in quella lontana estate del 1968. Il cielo sopra Scotswood,

il quartiere dove vivevo, era spesso coperto. Grossi nuvoloni carichi di pioggia

nascondevano ai miei occhi, per buona parte del giorno, la vista del sole. Un’estate così

non era tuttavia cosa rara nel mio paese. Non ho mai potuto godere di una vera estate

così come la vedevo descritta nelle riviste. Ma a me tutto sommato non importava. Non

ho mai sopportato il caldo. Solo mi auguravo che smettesse di piovere. La pioggia rende

difficoltose le normali attività quotidiane, specie se non si possiede un ombrello. I capelli

bagnati, le scarpe fradice, non sono sensazioni piacevoli. L’oscurità, invece, quella sì mi

piaceva. No, non sto parlando della notte, mi riferisco a quella particolare oscurità che

solo una spessa coltre di nubi può provocare. Niente sole negli occhi, niente riflessi sui

vetri. Con la pioggia però è tutto, come dire, meno romantico. La gente si affretta per le

strade, senza badare al prossimo, nessuno si perde in saluti, magari un breve cenno col

capo e poi via ad inseguire le proprie faccende. Newcastle era una città sporca. Non per

niente deve la sua notorietà alle proprie miniere di carbone che ne permisero lo

sviluppo a partire dal secolo scorso. Tra tutti i quartieri della città, Scotswood era forse

quello più degradato. Qui si installarono le famiglie dei minatori, prima, e quelle degli

operai del cantiere navale in seguito, quando le miniere si esaurirono. La gente era

povera, disperata. Si sopravviveva a stento, spesso si ricorreva a espedienti non

esattamente legali. E poi c’erano le prostitute...

Il mercato del sesso era fiorente: giovani donne, signore di mezza età, vecchie sdentate.

Ce n’era per tutti i gusti. I clienti spesso venivano da fuori, altre volte erano invece i più

insospettabili padri di famiglia a venire sorpresi in atteggiamenti inequivocabili con la

professionista di turno. Mia madre, Betty, era una prostituta. Era malvagia, mi faceva

paura. Sin dai primi anni della mia vita si scagliava contro di me senza alcuna ragione

apparente, forse per sfogare le sue frustrazioni, o forse perché non aveva niente di

meglio da fare le rare volte che era costretta in casa.

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Ricordo la prima volta che accadde: era una sera d’estate di non so più quanti anni fa,

quando non avevo ancora nemmeno dieci anni. Mia madre rientrò in casa molto tardi

quella sera. Come al solito aveva bevuto e, come avevo ormai imparato a capire

nonostante la mia giovane età, quello non era un buon segnale. La sua voce stridula e

incerta mi aveva come sempre svegliato di soprassalto, ancora una volta temevo che da

un momento all’altro si spalancasse la porta della mia stanza e che lei, irrompendo, si

mettesse a gridare maledicendo me e il giorno in cui mi aveva messo al mondo. A quelle

grida avevo fatto un pochino l’abitudine,ma non avrei mai fatto l’abitudine alle punizioni

corporali a cui spesso mi sottoponeva così, senza ragione, punizioni che sarebbero

esaurite solo quando arrivava il momento, quasi improvviso, in cui mia madre crollava a

terra stremata e si addormentava dove capitava lì sul pavimento. Quella sera però era

diversa dalle altre, c’era un'altra voce nell’altra stanza, una voce maschile che a stento

distinguevo e che non riuscivo a riconoscere.

La persona che era in compagnia di mia madre parlava sottovoce, non riuscivo a cogliere

nessuna delle sue parole. Al contrario distinguevo perfettamente la voce di mia madre la

quale, dopo aver rivolto al suo ospite alcune frasi di circostanza e averlo invitato ad

appoggiare la giacca su una sedia, esplose in una grassa risata che mi fece rizzare i peli

sulla pelle. Cosa stava succedendo? Chi era quell’individuo? Cercando di non emettere

alcun rumore, infilai la testa sotto le lenzuola cercando di trattenere il respiro. Speravo

con tutto il cuore che si fosse dimenticata della mia presenza, non avevo alcuna

intenzione di incontrare l’uomo misterioso, nel mio animo sentivo che sarebbe stato un

incontro che non mi avrebbe portato nulla di buono. E così fu.

Nel tepore del mio letto sentii i tacchi di mia madre che, tamburellando incerti sul

pavimento in legno, si avvicinavano alla porta della mia stanza. Stranamente tutto era

diventato quieto, quasi irreale. Alla fine, dopo un tempo che mi sembrò infinito, la porta

si spalancò e un forte fetore di alcol invase la stanza. L’alito di mia madre era un

silenzioso testimone del fatto che quella sera era stato superato un limite dal quale non

si sarebbe più tornati indietro. Trattenni il respiro ancora di più, quasi nella speranza che

potesse servire a qualcosa. Ma non servì a nulla. D’un tratto le lenzuola che mi celavano

alla vista del mondo si sollevarono e in un sol colpo svanirono nel nulla, gettate lontano

da una mano che non era quella di mia madre. Capii improvvisamente che l’uomo

misterioso era lì accanto a me, immerso nel buio come un enorme mostro famelico a un

passo dalla sua preda inerme e confusa. Sentii due mani robuste che mi afferravano le

spalle e mi sollevavano dal mio giaciglio. Con le braccia rigide lungo i fianchi e i piedi

penzoloni mi azzardai ad aprire gli occhi. La luce accecante che proveniva dalla porta

dietro le sue spalle mi impediva di distinguere i lineamenti di quella persona di fronte a

me.

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Lui però sembrava vedermi bene: mi guardava con un atteggiamento al tempo stesso

deciso e curioso, inclinava la testa da una parte all’altra come se volesse soppesarmi

meglio, come se cercasse di guardarmi da diverse angolazioni al fine di ottenere dal mio

volto terrorizzato chissà quali rivelazioni. Poi, improvvisamente, mi lasciò cadere e in un

attimo fu sopra di me e… urlai. Urlai con quanto fiato avevo in gola, mi dibattevo

freneticamente cercando per quanto possibile di usare braccia e gambe per cercare un

appiglio, ma ben presto mi scoprii incapace di muovermi. Mia madre si era avvicinata e

stava aiutando l’uomo nero a trattenermi in quella posizione, lo avrebbe aiutato a

divorarmi, perché non poteva che essere quello il suo scopo. Mi accorsi di una mano che

scendeva verso il basso, mi accorsi… poi, un dolore inenarrabile mi scosse

improvvisamente il corpo e l’anima. E fu così che svenni. Per mia fortuna, svenni.

C’era il Male a Scotswood, quello con la M maiuscola. Se ne poteva respirare l’odore

nell’aria. Tutti erano malvagi. Tutti erano dediti soltanto ai propri affari. Io però, nel mio

piccolo, ero una specie di celebrità a Scotswood. Per qualche motivo a me ignoto la

gente mi salutava cordialmente, regalandomi spesso ampi sorrisi. Non ne ho mai capito

il motivo. Non ho mai ricambiato i loro sorrisi. Spesso anzi voltavo lo sguardo,

dimostrando loro tutto il mio disprezzo. Era più forte di me. L’odio aveva fatto di me una

persona cattiva. Ma coloro che odiavo di più erano i bambini. Piccoli, insignificanti,

stupidi mocciosi. Mi prendevano in giro, si divertivano a schernirmi, credo per via della

mia indole solitaria. Un giorno mi gettarono addirittura in testa una busta piena d’acqua.

Approfittavano della mia debolezza. Ma era solo apparenza, in me non c’era debolezza,

c’era solo un immenso rancore e un odio profondo verso tutto e tutti. Fu in quei giorni

che prese forma in me la consapevolezza che avrei dovuto fare qualcosa. Qualcuno

avrebbe infine pagato i conti che mia madre aveva lasciato in sospeso. La mia vita era

stata rovinata, ma non sarebbe stata l’unica, altre vite avrebbero dovuto precipitare

nello stesso inferno che avevo vissuto io. Ci furono dei delitti che resero Scotswood

celebre come “The Horror District”. E quei delitti furono opera mia.

Era la mattina del 23 maggio 1968 quando iniziai il mio lavoro. La mia prima vittima si

chiamava Martin Brown: era un antipatico moccioso di soli 4 anni, non aveva particolari

colpe per le quali avrebbe dovuto pagare, ma ben presto sarebbe cresciuto, sarebbe

diventato come gli altri, e allora tanto valeva impedirgli di crescere. Oltretutto nutrivo un

malcelato risentimento nei confronti del sig. Brown, suo padre, il che mi diede la scossa

per agire. Lo vidi giocare nel giardino di casa, solo. Mi avvicinai e lo salutai con uno dei

miei migliori sorrisi. Non c’era nessuno nelle vicinanze. La signora Brown era

probabilmente intenta ai suoi lavori domestici e non badava al suo odioso nanetto.

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In un attimo presi per mano il piccolo Martin e lo portai via con me. Non aveva motivo di

resistermi, mi conosceva bene, tutti mi conoscevano bene in quartiere. Camminammo

lungo la strada per qualche centinaio di metri, poi svoltammo in una stradina laterale, al

riparo da sguardi indiscreti. Martin era allegro, io gli raccontavo delle storie divertenti e

lui rideva. C’era una casa diroccata poco più in là, sulla strada per la collina, dove si

diceva che in passato fossero stati avvistati degli spettri. Proposi a Martin di andare a

visitarla. Ne fu felice. La casa era in condizioni disastrose, credo fosse addirittura

pericolante. Probabilmente non fu una buona idea, ma eravamo lì e tanto valeva

esplorarla. L'interno faceva schifo: l'odore di piscio era talmente intenso che dava alla

testa, bottiglie di birra vuote erano sparse ovunque insieme a mozziconi di sigaretta.

C'erano anche un paio di materassi sfondati e più in là, verso la parete, il vecchio sedile

posteriore di un'automobile che qualcuno aveva evidentemente utilizzato come divano.

Questo luogo doveva essere un ritrovo notturno per adolescenti in vena di eccessi,

pensai. Martin però diventò ben presto irrequieto. Aveva paura. Voleva tornare a casa.

Mentre lui cominciava a piagnucolare, lo costrinsi con la forza a salire con me al primo

piano. L’ambiente era oltremodo affascinante. Chissà chi ci aveva abitato... Mi guardai in

giro: c'erano ancora una vecchia cassapanca sotto la finestra - ovviamente qualcuno si

era già preoccupato di curiosarci dentro - e una lampada con il cavo elettrico ancora

inserito nella presa a muro. Martin divenne sempre più agitato e scoppiò a piangere;

cercò di fuggire, e fu allora che lo strangolai.

Il corpo di Martin venne trovato solo qualche settimana più tardi. Gli investigatori

trovarono accanto a lui un flacone vuoto di medicinali e decisero di archiviare il caso

come incidente. Che fortuna sfacciata! Un flacone di medicinali abbandonato da chissà

chi proprio là dove io avrei poi lasciato il cadavere. Mi sentivo invincibile, tant’è che volli

raccontare tutto alla mia amica Norma. Sapevo quello che facevo. Norma Bell era

completamente pazza. Era totalmente succube della mia personalità e faceva senza

discutere tutto quello che le dicevo. Era accondiscendente in tutto e soprattutto era

discreta. Credo fosse innamorata di me, a suo modo, perché sicuramente non era in

grado di provare nulla che si possa nemmeno lontanamente definire amore. Il suo

cognome era Bell, come il mio, ma non eravamo parenti. Era solo un’altra coincidenza.

Un segno del destino. Norma si eccitò enormemente quando le raccontai tutto fin nei

minimi particolari. Disse che voleva che accadesse di nuovo e che stavolta avrebbe

voluto essere presente. Naturalmente nulla al mondo viene fatto per nulla. Se voleva

entrare nel gioco, avrebbe dovuto esaudire una mia richiesta. Avrebbe dovuto, in caso di

necessità, scagionarmi, autoaccusandosi del primo delitto. Norma, dando prova della

sua follia, acconsentì alla mia incredibile richiesta.

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Quasi non ci potevo credere, ma a ripensarci ora non credo potesse essere altrimenti.

Era talmente sciocca! Sciocca e stupida. Dal canto mio, avevo in mente per lei diversi

compitini.

La notte seguente ci recammo alla scuola comunale. Non fu difficile per Norma

intrufolarsi senza farsi notare da una delle tante finestre dissestate. Lo scopo era di

lasciare un “saluto” ai nostri concittadini. Quale miglior posto di un asilo per comunicare

al mondo i nostri propositi? Norma aveva afferrato un gessetto e aveva scritto su una

lavagna, a chiare lettere: “Martin Brown è stato il primo. Altri ne cadranno.” La mattina

successiva ci fu un gran putiferio. Norma e io avevamo appuntamento di buonora e,

dopo un rapido cenno di saluto, senza scambiarci nemmeno una parola, ci dirigemmo

verso l’edificio scolastico. Non ci sorprese vedere una moltitudine di persone che si

guardavano in faccia l'un l'altra con aria interrogativa. Senza dare troppo nell’occhio ci

mescolammo tra la folla e capimmo subito che le prime voci su quanto era accaduto

avevano già iniziato a circolare. Mi guardai attorno nella speranza di individuare i volti

dei coniugi Brown, ma non ebbi fortuna. Probabilmente i genitori del piccolo Martin

avevano preferito tenersi alla larga da quella situazione per loro evidentemente

dolorosa. Oppure, probabilmente, non erano ancora stati avvertiti, chissà. D’altra parte,

pensai, non era importante. Mi avvicinai a una signora anziana, sulla settantina, che mi

pareva di conoscere e le chiesi candidamente cosa fosse successo. La donna si voltò, mi

squadrò dall’alto in basso come se l’avessi insultata e, senza degnarmi di una sola parola,

rivolse il suo sguardo in direzione della macchina della polizia che stava

sopraggiungendo proprio in quel momento. Maledetta strega! Se solo avessi potuto

dirle quello che meritava! Norma nel frattempo stava cercando di farsi largo tra la folla

per raggiungere una posizione più prossima all’ingresso dell’edificio. Mi dimenticai quasi

immediatamente della vecchia e, senza altro indugio, mi misi nella scia della mia amica.

Purtroppo non riuscimmo ad avanzare quanto avremmo voluto ma tanto bastò per

renderci conto che l’opinione pubblica, seppur agghiacciata dal ritrovamento della

scritta che avevamo lasciato sulla lavagna, era per lo più convinta che si trattasse

semplicemente di una ragazzata. Razza di idioti! Non avevano capito nulla. Norma e io ci

guardammo negli occhi e accennammo un reciproco sorriso.

La scelta della seconda vittima avvenne per caso. Era da qualche giorno che stavamo

tenendo d’occhio la piccola Susan, 5 anni, una boriosa biondina che mi aveva guardato

storto qualche giorno prima. Stavamo quasi per entrare in azione, ma all’ultimo

dovemmo desistere per via dell’intervento del padre che l’aveva chiamata a sé proprio

nel momento sbagliato. Il padre di Susan, con la figlia ormai accanto a sé, aveva alzato lo

sguardo e, voltandosi attorno, aveva finito per incrociare il mio.

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Dannazione! Ormai non potevo più rischiare che quell’uomo potesse ricollegare

quell’episodio (e il mio volto) alla scomparsa della figlia, dovevamo per forza di cose

cambiare il nostro bersaglio e, al limite, tornare a lavorare sugli spostamenti di Susan

qualche mese più avanti. La nostra scelta ricadde quindi su Brian Howe, 3 anni. Fu come

detto una scelta dettata dal caso.

Norma e io avevamo girovagato senza meta per tutta la mattina e da qualche minuto ci

stavamo riposando sull’unica panchina all’ombra del parco pubblico. Le avevo offerto un

gelato e tanto era bastato per farla felice. La guardavo e lei ricambiò più volte il mio

sguardo, anche se per pochi istanti, dopodiché arrossiva e ritornava a occuparsi del suo

gelato. Sembra incredibile che la mia amica, così minuta e apparentemente delicata,

potesse trarre piacere dalla mia presenza. La convinzione che Norma volesse da me

qualcosa di più di un’amicizia mi attanagliava ma, d’altra parte, non potevo permettere

che una simile debolezza mettesse a rischio i nostri progetti. Se Norma si fosse rivelata

pericolosa avrei dovuto fare a meno di lei, questo era chiaro, ma non era questo ciò che

avevo in mente, tanto più che non sarebbe stata facile da gestire, semmai avessi dovuto

affrontarla. No, questa pazza sarebbe stata una bella gatta da pelare.

I miei pensieri furono distolti da alcuni schiamazzi provenienti dal giardino lì accanto.

L’attenzione di Norma era già stata attirata da qualcosa che non era il suo gelato,

qualcosa che si trovava esattamente alle nostre spalle, oltre la siepe. Bambini. Anzi, un

solo bambino, il piccolo Brian che era sfuggito alle attenzioni della madre, forse distratta

dalla conversazione con qualche conoscente incontrata occasionalmente. Quale migliore

occasione?

Ci avventammo sul piccolo come due squali e in un batter d’occhio gli fummo sopra. Il

piccolo non aveva reagito al nostro assalto, evidentemente credendo che fosse un gioco,

e ciò ci rese il compito ancora più semplice. Senza grosse difficoltà tutti e tre, mano nella

mano come se fossimo una famiglia, riuscimmo a raggiungere la discarica comunale che

si trovava a solo pochi isolati di distanza. Questa volta decisi di non correre rischi, gli

strinsi immediatamente le mani attorno al collo e presi a stringere. Brian smise di

sorridere, la sua carnagione divenne rapidamente violacea mentre, colto da convulsioni,

colpiva l’aria agitando le braccia di qua e di là. Fu questione di un attimo prima che tutto

fosse finito. Norma dal canto sua era eccitatissima, strillava e rideva, saltellava divertita

e batteva le mani come una forsennata. Io a quel punto volevo solo andarmene alla

svelta. Stupida pazza! Non avrei mai dovuto coinvolgerti, pensai. Afferrai una pietra e la

colpii alla fronte. La vista del proprio sangue ebbe l’effetto di un anestetico. Norma si

tranquillizzò… anzi si trasformò, diventando improvvisamente metodica, addirittura.

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Accolse tra le braccia il cadavere del piccolo Brian e prese a cullarlo, intonando a denti

stretti una melodia infantile. Lo stringeva a sé e lo accarezzava. Ecco, quella era la Norma

che mi piaceva! Ma era quella anche la Norma che mi faceva più paura.

La tizia che avevo di fronte era quasi certamente una spostata. Una pazza da ricoverare.

Come poteva agire in quella maniera? Sembrava che qualcosa in lei fosse

completamente sbalzato fuori dalla realtà, sembrava che non le importasse più nulla di

nulla. Non capivo davvero quali potessero essere le sue ragioni per fare quello che

faceva, se mai ne avesse.

La osservai ancora per un attimo, poi decisi che era il momento di prendere di nuovo in

mano le redini della situazione. Misi una mano in tasca ed estrassi ciò che avevo portato

con me. “Metti la tua firma!” le intimai, porgendole il rasoio “Ricordi quali erano i nostri

patti?”. Norma mi guardò con aria assente, prese il rasoio dalle mie mani e dopo averlo

soppesato per un attimo alzò lo sguardo su di me con espressione interrogativa. Le

sorrisi e lei, rassicurata, incise con la lama una grossa “N” sul petto di Brian. “Non così,

stupida!” urlai. Le presi di mano il rasoio e trasformai la N in una grossa M, dopodiché

tagliai una grossa ciocca di capelli al cadavere del bambino. Ma c’era un’altra cosa da

fare prima di dichiarare concluso il lavoro. Una cosa a cui stavo pensando da diverso

tempo, un pensiero che mi tormentava, che non mi faceva dormire la notte. Abbassai le

mutandine di Brian. Il tempo si fermò e io mi trasformai. Mi sembrava di rivivere

quell’episodio che mi vide protagonista tanto tempo prima, solo che questa volta ero io

il carnefice. Trascorsero pochi secondi che però mi sembrarono un’eternità, quindi calai

il rasoio e colpii con tutte le mie forze.

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POSTFAZIONEMary Flora Bell (26 maggio 1957) è passata alla storia per essere stata una delle più

feroci serial killer britanniche, con una particolarità che la rese unica: quando compì i

suoi omicidi aveva solo 11 anni! Mary Bell è ricordata per aver ucciso nel 1968 due

bambini, Martin Brown (4 anni) e Brian Howe (3 anni). Quella che avete appena finito di

leggere non è la ricostruzione ufficiale degli avvenimenti, bensì un mio dilettantesco

tentativo di narrare i fatti sotto forma di racconto dal punto di vista dell’omicida. Ho

usato solo gli aspetti salienti, così come riportati dalla cronaca, come linee guida e mi

sono divertito a dipingerne i contorni. Beh, divertito forse non è proprio la parola adatta.

Alcuni passaggi, specialmente il finale, sono stati davvero ostici. Non è facile

immedesimarsi in qualcuno capace di simili odiose atrocità. Se quello che avete letto è, a

modo suo, fiction, quello che segue invece è la pura cronaca, così come la si può trovare

sulle migliaia di siti internet che si sono dedicati al caso di Mary Flora Bell.

Mary Bell crebbe nello Scotswood, un'area molto povera e per questo violenta di

Newcastle upon Tyne, nel nordest dell’Inghilterra. Betty Bell era una prostituta, spesso

assente da casa poiché lavorava a Glasgow, che diede alla luce Mary alla giovane età di

16 anni. Il padre biologico di Mary è tutt'oggi sconosciuto, ma per molto tempo la

bambina riconobbe come genitore Billy Bell, un criminale arrestato più volte per furto di

armi, che sposò la madre mentre era incinta di lei. Voci non confermate dicono che Betty

tentò più volte di uccidere la figlia, cercando di infliggerle una morte che sembrasse il

più naturale possibile, durante i primi anni di vita. Certo è, invece, che la madre la

obbligasse ad avere rapporti sessuali con uomini maturi fin da quando aveva solo 5 anni.

Come risultato la bimba si comportò fin da piccola in modo violento, picchiando i

compagni di classe e compiendo atti vandalici. Mary Bell decise di uccidere Martin

Brown, strangolandolo, il 25 maggio 1968, quando il bimbo aveva appena 4 anni. Il 31

luglio 1968, con la sua amica Norma Bell uccise poi il piccolo Brian Howe, ancora per

strangolamento.

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Le due incisero inoltre post mortem una "M" sullo stomaco del bambino, gli tagliarono

una ciocca di capelli e anche i genitali. Mary Bell fu condannata all'ergastolo per duplice

omicidio colposo il 17 dicembre 1968 e quindi affidata a cure psichiatriche. Norma Bell

fu invece ritenuta innocente e scagionata. Nei momenti successivi alla condanna, la

madre di Mary iniziò a rilasciare ogni tipo di dichiarazioni sulla figlia, guadagnando

cospicue somme di denaro dalle televisioni e dai giornali.

Mary fu scarcerata nel 1980 e grazie all'anonimato assicuratole dallo Stato poté iniziare

una nuova vita assieme a sua figlia, nata nel 1984. Per un certo periodo visse a

Cumberlow, nel South Norwood (in una casa costruita dall'architetto vittoriano William

Stanley). La figlia rimase all'oscuro del passato della madre finché un reporter non scoprì

dove abitavano. A causa di ciò le due furono costrette ad abbandonare la loro casa

precipitosamente, nascondendosi sotto delle lenzuola per evitare i flash dei fotografi

accorsi sul luogo. L'anonimato della figlia fu protetto finché ella non compì l'età di 18

anni. Tuttavia, il 21 maggio 2003 Bell vinse una battaglia legale perché l'anonimato per

lei e sua figlia fosse esteso a vita. Mary Bell è stata il soggetto di due libri di Gitta Sereny:

The Case of Mary Bell (1972), una descrizione degli omicidi, e Cries Unheard: the Story of

Mary Bell (1998), un’accurata biografia basata su interviste a Mary Bell e a parenti, oltre

che ad amici e compagni di detenzione. Questo secondo libro è stato il primo a

descrivere la vita sessuale della madre, una prostituta specializzata nel ruolo di

dominatrice in rapporti sadomaso. La pubblicazione di Cries Unheard fu controversa,

poiché la Bell fu pagata per la sua realizzazione. Alcuni tabloid e il governo di Tony Blair

cercarono di trovare un cavillo legale per impedire che un criminale potesse trarre

profitto dal racconto di un suo delitto, ma senza successo. Il caso della Bell fu utilizzato

come base per un episodio del 1999 del telefilm Law & Order - I due volti della giustizia

intitolato “Killerz”. Mary Bell fu interpretata dall'attrice Hallee Hirsh.

Nel 2009, all'età di 51 anni, Mary Bell divenne nonna. La protezione dell'anonimato è

stata estesa anche alla nuova arrivata.

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