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1 Dipartimento di Scienze Politiche e Internazionali, Università di Siena Anno accademico 2013-14 Francesco Farina Politica Economica Internazionale Parte Prima. Equilibrio macroeconomico 1. Le funzioni di offerta aggregata e di domanda aggregata Il modello IS-LM presenta due caratteristiche importanti: 1. l’equilibrio macroeconomico non prevede necessariamente la piena occupazione della forza lavoro, in quanto è la domanda a generare l’offerta; se la domanda privata è insufficiente a generare il livello di produzione corrispondente alla piena occupazione la spesa pubblica interviene ad avvicinare il sistema economico al completo utilizzo dei fattori; 2. il livello generale dei prezzi (il prezzo, trattandosi di un modello ad un solo bene) è dato esogenamente; in altri termini, il modello IS-LM non offre una spiegazione del perché il prezzo si trovi ad un certo livello. Con il modello AS-AD queste due caratteristiche vengono superate. Il livello di attività economica, sotto la spinta degli incentivi di mercato che guidano i comportamenti di soggetti razionali al massimo utile (nel consumo) e profitto (nella produzione), è di norma pari a quello di piena occupazione. La definitiva incorporazione del livello dei prezzi di concorrenza perfetta nell’equilibrio macroeconomico avviene con la cosiddetta curva di Phillips corretta con le aspettative.

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Dipartimento di Scienze Politiche e Internazionali, Università di Siena

Anno accademico 2013-14

Francesco Farina

Politica Economica Internazionale

Parte Prima. Equilibrio macroeconomico

1. Le funzioni di offerta aggregata e di domanda aggregata

Il modello IS-LM presenta due caratteristiche importanti: 1. l’equilibrio

macroeconomico non prevede necessariamente la piena occupazione della forza

lavoro, in quanto è la domanda a generare l’offerta; se la domanda privata è

insufficiente a generare il livello di produzione corrispondente alla piena occupazione

la spesa pubblica interviene ad avvicinare il sistema economico al completo utilizzo

dei fattori; 2. il livello generale dei prezzi (il prezzo, trattandosi di un modello ad un

solo bene) è dato esogenamente; in altri termini, il modello IS-LM non offre una

spiegazione del perché il prezzo si trovi ad un certo livello.

Con il modello AS-AD queste due caratteristiche vengono superate. Il livello di

attività economica, sotto la spinta degli incentivi di mercato che guidano i

comportamenti di soggetti razionali al massimo utile (nel consumo) e profitto (nella

produzione), è di norma pari a quello di piena occupazione. La definitiva

incorporazione del livello dei prezzi di concorrenza perfetta nell’equilibrio

macroeconomico avviene con la cosiddetta curva di Phillips corretta con le

aspettative.

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2. Inflazione e disinflazione

Dopo la cosiddetta “età dell’oro” dei primi due decenni del secondo dopoguerra,

caratterizzati da elevati tassi di crescita e prezzi in lenta evoluzione, in molte

economie avanzate il fenomeno dell’inflazione riprese vigore. Negli anni ’70, il forte

assorbimento di forza lavoro degli anni della crescita rapida innescò un conflitto

distributivo fra salari e profitti. In concomitanza con la guerra del Kippur del 1973-

74, si manifestarono eccezionali incrementi di prezzo del petrolio, nell’ordine del

400%. Nei paesi importatori di petrolio si pose il problema di quale gruppo sociale – i

lavoratori o gli imprenditori - dovesse accollarsi il costo della cosiddetta “bolletta

petrolifera”, il notevole esborso aggiuntivo che gravava sulla bilancia commerciale.

Nuovi forti aumenti si ebbero nel 1979, come conseguenza del rafforzamento del

potere politico dei paesi aderenti all’OPEC (Organisation of Petroleum Exporting

Countries). Il conflitto distributivo si protrasse così per tutto il decennio, generando

una serie di fenomeni di instabilità macroeconomica che cominciarono a placarsi solo

a metà degli anni ’80. Dopo la progressiva disinflazione, che si protrasse fino a metà

anni ’90, nelle tre grandi aree valutarie – del dollaro, dell’euro e dello yen - i tassi di

inflazione si sono stabilizzati a livelli molto bassi.

Il principale limite del modello IS-LM è quello di essere stato concepito a prezzi

costanti e dunque di essere inutilizzabile per l’analisi dell’inflazione. L’ipotesi

esogena di prezzi costanti e l’assenza delle aspettative sul futuro limitano

notevolmente la capacità interpretativa e previsionale del modello IS-LM. Molti

sforzi vennero perciò dedicati alla costruzione di un nuovo modello macroeconomico

in grado di determinare endogenamente il livello dei prezzi. L’opportunità per

colmare tale lacuna venne individuata nella correlazione inversa non lineare fra

disoccupazione e tasso di variazione dei salari nominali che Alban W. Phillips aveva

desunto nel 1958 dalla sua verifica empirica condotta sul Regno Unito dal 1861 al

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1957. La curva di Phillips registra la tendenza dei salari a crescere a mano a mano

che la forza lavoro disoccupata si riduce ed il potere di contrattazione dei lavoratori

aumenta. L’incremento del salario monetario al di sopra della produttività marginale

del lavoro viene annullato dalla crescita dei prezzi indotta dall’eccesso di domanda

che si crea nei mercati di concorrenza perfetta nella fase espansiva del ciclo

economico. La curva di Phillips venne così a rappresentare lo strumento analitico che

si aggiungeva all’equilibrio macroeconomico nei mercati dei beni e della moneta. La

sua considerazione nel modello IS-LM permise la determinazione endogena del

livello dei prezzi, e, di conseguenza, anche dei valori nominali del salario e del

reddito. La relazione inversa fra tasso di disoccupazione e tasso di inflazione venne

poi estesa all’analisi dei mercati di concorrenza imperfetta. Le imprese sono definite

price-setters perché non subiscono il prezzo che si forma nel proprio mercato di

vendita ma lo fissano in base alla formula del mark-up (ρ):

p=(1+ρ)w

dove (1+ρ) è il margine di profitto che l’impresa intende assicurarsi attraverso la

fissazione di un prezzo più elevato che in concorrenza perfetta.

Per questo schema macroeconomico, le cose cominciarono a complicarsi quando, alla

verifica empirica, il segno della relazione fra tasso di disoccupazione e tasso di

inflazione mostrò un cambiamento dal valore negativo a quello positivo. All’evidenza

di incrementi contestuali sia del tasso di inflazione che del tasso di disoccupazione

venne dato il nome di “stagflazione”. Si pose il problema se si dovesse o meno

relegare la curva di Phillips in soffitta. La risposta fu trovata nei lavori - quasi

contemporanei, ma indipendenti l’uno dall’altro - di Edmund Phelps (1967) e di

Milton Friedman (1968). I due economisti statunitensi elaborarono una nuova

costruzione analitica, la curva di Phillips “corretta per le aspettative”. Tale nuovo

strumento analitico ebbe il pregio di riconciliare il trade-off disoccupazione-

inflazione individuato da Phillips con il fenomeno della “stagflazione”. Diversamente

dalla concezione originaria, la curva di Phillips corretta con le aspettative risultò

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compatibile con la “stagflazione”, e cioè con l’evidenza empirica di più elevati valori

sia della disoccupazione che dell’inflazione; negli Stati Uniti, tra gli anni ’60 e gli

anni ’70, la prima passò dal 4,75% al 6% e la seconda dal 2,5% al 7%.

È bene innanzitutto ricordare che il termine “piena occupazione” va inteso al netto

della disoccupazione puramente frizionale, cioè di chi si trova ad essere

momentaneamente disoccupato perché giovane in cerca di prima occupazione che si

appresta a “riempire” i posti vacanti, oppure perché è un lavoratore in via di

trasferimento da un’occupazione all’altra. Nel prosieguo, al concetto di “piena

occupazione” si sostituisce quello di “disoccupazione naturale” (uN nella Figura 1.4),

ovvero il livello minimo cui può essere portata la disoccupazione, date le risorse

disponibili nell’economia. Con la definizione di “tasso di disoccupazione naturale”

(natural rate of unemployment: NRU) i modelli della Nuova Economia Classica

(NCE) indicano quel livello di impiego della forza lavoro non influenzato dalle

politiche macroeconomiche, ma esclusivamente determinato dalla tecnologia e dalla

scelta degli agenti fra lavoro e tempo libero. Nella Figura 1, osserviamo una famiglia

di curve di Phillips di breve periodo, una per ciascun tasso atteso di inflazione. Il

livello della produzione (o reddito) che si realizza in corrispondenza del tasso

naturale di disoccupazione – definito produzione (o reddito) potenziale - può tuttavia

essere inferiore al livello di produzione efficiente (first-best); la causa consiste in

imperfezioni dei mercati e/o nell’effetto distorsivo della tassazione. I modelli della

Nuova Economia Keynesiana (NKE) adottano la definizione alternativa di “tasso di

disoccupazione al quale l’inflazione non accelera” (non-accelerating-inflation rate of

unemployment: NAIRU).

Il nuovo strumento di analisi dell’inflazione distingue fra disoccupazione di breve

periodo e di lungo periodo. Ciascuna curva di Phillips di breve periodo determina un

equilibrio temporaneo (i punti E, B e D in Figura 1) in corrispondenza

dell’eguaglianza fra i due livelli di tasso di inflazione (quella realizzata e quella

attesa) nel punto di intersezione con il tasso di disoccupazione al livello naturale.

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Ciascuna curva corrisponde ad un tasso di inflazione attesa più elevato di quello della

curva che sul piano occupa la posizione inferiore:

πe2>πe

1>πe0.

Quando il livello effettivo dei prezzi coincide con il livello atteso, l’economia si trova

al tasso di disoccupazione “naturale”. La curva di Phillips di lungo periodo è quindi

nient’altro che l’insieme dei punti di intersezione di ciascuna curva di Phillips di

breve periodo con il tasso naturale di disoccupazione. Dopo che il tasso di

disoccupazione si è discostato dal suo valore naturale (ad esempio è diminuito in

seguito ad una accelerazione della crescita monetaria) si mette in moto un processo di

convergenza che ha termine in corrispondenza di una diversa curva di Phillips di

breve periodo (in questo esempio, più elevata). Friedman e Phelps utilizzano il

modello delle aspettative adattive: gli agenti hanno aspettative che guardano al

passato in modo da adattare i comportamenti a quanto è avvenuto. Nella (1.21) in

assenza di nuovi eventi che provochino lo scostamento della disoccupazione dal tasso

naturale (il secondo termine è nullo), l’aspettativa è che il tasso di inflazione (πt)

confermi il valore determinatosi nel periodo precedente (πt-1). L’importante

implicazione che ne consegue è che il concetto di “disoccupazione naturale” viene

associato all’esistenza di aspettative di inflazione realizzate: l’inflazione effettiva è

eguale all’inflazione attesa.

Definiamo allora la curva di Phillips corretta per le aspettative come la relazione di

breve periodo fra tasso di inflazione corrente e tasso di disoccupazione, dato il tasso

di inflazione del periodo passato. Il tasso di inflazione corrente dipende quindi dal

suo valore nell’anno precedente, dalla pressione esercitata dallo scostamento della

disoccupazione dal suo livello naturale (nella misura di un coefficiente che esprime

l’elasticità dell’inflazione al reddito) e da un eventuale shock:

(1) tNttt uu µγππ +−−= − ))(/1(1

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Figura 1. Curva di Phillips di breve e lungo periodo, inflazione e disinflazione

Supponiamo che, a partire dal punto D - in corrispondenza di un tasso di inflazione

puramente frizionale, in pratica di “inflazione zero” - una banca centrale generi

un’accelerazione della crescita monetaria diretta a diminuire la disoccupazione al di

sotto del tasso “naturale”. Quanto meno preoccupata per l’inflazione è la banca

centrale, tanto più frequente è il ricorso ad un’espansione monetaria. Con la salita del

tasso di inflazione, il salario reale inizialmente si riduce, favorendo l’incremento della

domanda di lavoro. I lavoratori tengono conto ex post della riduzione del potere

d’acquisto del salario nominale. In seguito agli aumenti nominali rivolti a recuperare

la perdita di potere d’acquisto, i profitti connessi all’aumento dei prezzi di vendita

sono annullati ed il salario reale torna al livello precedente. Le imprese, constatando

il ritorno dei profitti al livello precedente all’incremento dell’occupazione,

correggono al ribasso le aspettative e licenziano i nuovi lavoratori assunti. Il nuovo

equilibrio temporaneo si caratterizza per il ritorno al tasso naturale di disoccupazione,

ma in corrispondenza di un tasso di inflazione stabilmente più alto: le imprese hanno

corretto i prezzi verso l’alto riportando automaticamente gli incrementi dell’anno in

πe1

K J 5%

E

D C B

A

0 u uN

π

3% 1%

πe0

πe2 processo di inflazione:

D→K→B→J→E

processo di disinflazione: E→A→B→C→D

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corso nei listini, ed i lavoratori hanno adattato il livello di salario richiesto nelle

contrattazioni in funzione dell’incremento dei prezzi che si è determinato. Il nuovo

valore del tasso di inflazione è ormai inglobato nei valori attesi delle grandezze

nominali fissati dagli agenti. Affinché le aspettative degli agenti rinuncino ad

applicarlo di anno in anno, occorre che cambi sostanzialmente il quadro di

riferimento macroeconomico in base al quale essi effettuano le loro previsioni.

La Figura 1 mostra due cicli economici di espansione, innescati dall’accelerazione

della crescita monetaria a partire da un dato livello di tasso naturale di

disoccupazione. Una prima accelerazione monetaria dà luogo ad un aumento

dell’output; l’economia passa dal punto D al punto K, la disoccupazione scende, e

lungo la curva di Phillips più bassa, che ingloba l’aspettativa di inflazione πe0,

l’inflazione sale dall’1% al 3%. Il recupero del salario nominale e la decisione

conseguente delle imprese di ridurre l’occupazione fanno risalire il tasso di

disoccupazione naturale fino al punto B, nel quale il tasso effettivo di breve periodo

eguaglia il tasso di disoccupazione naturale di lungo periodo. Una seconda

accelerazione monetaria, a partire dal punto B, fa muovere l’economia lungo la curva

ad aspettativa di inflazione πe1 (sindacati e imprese hanno incorporato nelle richieste

salariali e nei listini dei prezzi l’inflazione precedente) fino al punto J, con successivo

ritorno all’equilibrio nel punto E. Nei punti B ed E, il tasso di disoccupazione

coincide con il livello naturale. La posizione verticale della curva di Phillips di lungo

periodo riflette il fatto che al termine di ogni ciclo di espansione dell’output permane

un solo mutamento duraturo: un più elevato tasso di inflazione. Mentre il tasso di

inflazione cresce progressivamente, trainato dal susseguirsi di accelerazioni

monetarie, il livello di disoccupazione presenta un andamento ciclico. Tale contrasto

riflette la logica secondo la quale la variazione della quantità di moneta si

ripercuotono sulle grandezze nominali, mentre la disoccupazione è determinata dalle

forze reali che la attraggono verso il suo valore di lungo periodo.

3. Credibilità della politica monetaria e processo di disinflazione

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Riassumiamo l’analisi svolta sulla curva di Phillips. Nella Figura 1.4, un movimento

lungo la curva di Phillips di breve periodo segna un allontanamento del tasso di

inflazione dal suo livello atteso, cui corrisponde un allontanamento del livello di

disoccupazione dal suo tasso naturale. La convergenza dell’economia al tasso

naturale di disoccupazione dimostra la “neutralità della moneta”. I tentativi della

politica monetaria di aumentare i livelli di occupazione e produzione hanno effetti

solo temporanei. Dopo che il tasso di inflazione è cresciuto al di sopra del suo valore

atteso, il processo di disequilibrio giunge al termine allorché l’incremento nel livello

di attività economica si spegne. Il più elevato tasso di inflazione viene però assunto

dagli agenti nella formazione della nuova aspettativa e quindi risulta incorporato nella

nuova curva di Phillips di breve periodo che occupa nel piano una posizione più

elevata. A ciascuna delle curve di Phillips di breve periodo è associato un diverso

livello atteso di inflazione. L’insieme dei punti in cui le curve di breve periodo

eguagliano il tasso naturale di disoccupazione forma la curva verticale di Phillips di

lungo periodo. Vedremo ora come l’analisi della disinflazione richieda l’adozione del

modello delle aspettative razionali.

Il problema è che con l’adozione di tale modello il comportamento degli agenti risulta

profondamente modificato. Diversamente dal modello delle aspettative adattive, il

tasso di inflazione dipende dalla variazione attesa dell’inflazione calcolata in base

alle previsioni sugli eventi futuri. Ad esempio, gli agenti tengono conto della misura

in cui l’autorità monetaria terrà fede al suo annuncio di crescita monetaria. Pertanto il

tasso di inflazione risulta determinato dallo scostamento della disoccupazione dal

tasso naturale e dall’accelerazione attesa nella crescita dei prezzi. Dato un elevato

tasso di inflazione, qual è la logica economica del cosiddetto “rientro dall’inflazione”,

ovvero l’annullamento della distorsione inflazionistica che dovrebbe concludersi con

il ritorno all’inflazione “zero”? L’evidenza empirica ha confutato l’idea che i processi

di disinflazione siano rappresentabili sottoforma di un continuum di equilibri

temporanei - ciascuno in corrispondenza di una curva di Phillips che incorpora un

tasso di inflazione ogni volta più basso – in una rapida convergenza all’inflazione

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“zero”. Agenti razionali inseriscono nel loro modello di funzionamento

dell’economia tutta l’informazione disponibile. Le loro aspettative riflettono

previsioni formulate in base non solo all’andamento dei mercati, ma anche al grado di

reputazione delle autorità monetarie riguardo alla fedele attuazione delle politiche

macroeconomiche annunciate. Nel gioco fra banca centrale e agenti del settore

privato il grado di credibilità degli annunci di politica monetaria può influenzare la

determinazione del tasso di disoccupazione in corrispondenza del nuovo tasso di

inflazione. Si parta dall’equilibrio nel punto E all’intersezione fra la curva di Phillips

di breve periodo più elevata e quella di lungo periodo corrispondente al tasso naturale

di disoccupazione (uN) e a un tasso di inflazione del 5% (Figura 1). Gli economisti

NCE sostengono che una terapia d’urto (shock therapy) di forte contrazione della

crescita monetaria sia meno costosa – in termini di perdita di posti di lavoro - di una

manovra di graduale riduzione dell’inflazione. Supponiamo che agenti razionali

ritengano pienamente credibile un annuncio delle autorità di forte restrizione

monetaria volta a provocare un immediato abbattimento dell’inflazione, ad esempio

dal 5% all’1%. Ciò si realizza sotto due condizioni principali: 1) la reputazione anti-

inflazionistica del governatore della banca centrale deve essere elevata; 2) la

monetary stance anti-inflazionistica è segnalata agli agenti attraverso annunci e

comunicazioni di politica monetaria trasparenti – tali cioè da non lasciare dubbi sulle

effettive intenzioni della banca centrale – in modo da convincere gli agenti ad

effettuare la correzione al ribasso delle aspettative di inflazione. Se fossero presenti

tali condizioni ideali, il sistema economico passerebbe direttamente dal punto di

equilibrio E al punto D, senza alcuna perdita di posti di lavoro. La curva di Phillips di

breve periodo slitterà verso il basso nella posizione (πe=1%), incorporando il tasso di

inflazione atteso dell’1% nel punto di intersezione con la curva di Phillips di lungo

periodo (D). Se invece gli agenti non hanno fiducia nell’orientamento anti-

inflazionistico della manovra monetaria annunciata dalla banca centrale, una

restrizione monetaria non sarà in grado di ridurre il tasso di inflazione senza incorrere

in un incremento della disoccupazione. Data la rigidità delle aspettative di inflazione,

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i contratti di lavoro continueranno ad essere firmati per salari nominali che

incorporano un’inflazione al 5% ed il salario reale permarrà quindi ad un livello

troppo alto, che non consente alle imprese una revisione verso il basso dei listini di

vendita. La manovra monetaria restrittiva riuscirà perciò a ridurre molto lentamente

l’inflazione al prezzo dell’aumento della disoccupazione nella misura determinata

dalla pendenza della curva. In luogo della traslazione verso il basso della curva di

Phillips di breve periodo si realizza uno spostamento lungo la curva (πe=5%) fino al

punto A dove il tasso di inflazione è al 3%, ma il tasso di disoccupazione è superiore

al livello naturale. La perdita di occupazione in cui si incorre attivando il processo di

disinflazione è definita sacrifice ratio.

In che misura i fattori istituzionali concorrono a determinare l’ampiezza del sacrifice

ratio? Quanto più i contratti sono scaglionati nel tempo fra diversi settori, e quanto

più lungo è il periodo per il quale il salario nominale si mantiene fisso, tanto più

vischioso verso il basso è l’aggiustamento salariale, tanto più piatta risulta essere la

pendenza della curva di Phillips di breve periodo, tanto maggiore sarà la perdita di

posti di lavoro che precede la discesa delle aspettative inflazionistiche. Se su tale

quadro istituzionale di vischiosità del salario nominale si innesta una sindacale rivolto

a difendere il salario reale nei rinnovi contrattuali, una stretta monetaria rischia di

accrescere notevolmente la disoccupazione. La riduzione del monte salari avverrà

attraverso la riduzione della quantità occupata molto più che del prezzo del fattore

lavoro. Infatti, la minore “monetizzazione” dell’economia induce le imprese a

licenziare.

Il modello NCE è tuttavia in grado di spiegare il processo di disinflazione senza

rinunciare all’ipotesi di salari e prezzi pienamente flessibili. Un elevato sacrifice

ratio viene attribuito alla bassa reputazione anti-inflazionistica della banca centrale. I

processi di disinflazione intrapresi da molte economie avanzate fra metà anni ’80 e

metà anni ’90 sono stati quasi sempre accompagnati da un notevole incremento della

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disoccupazione. È ad esempio occorso molto tempo perché la “svolta” delle banche

centrali europee verso l’obiettivo della stabilità monetaria fosse creduta.

Queste economie hanno potuto operare su curve di Phillips di breve periodo via via

inferiori soltanto dopo che gli agenti si sono convinti ad attribuire credibilità

all’indirizzo di politica monetaria (monetary stance). Prima che ciò accadesse la

disoccupazione ha teso a crescere, raggiungendo valori molto elevati. La Figura 1

riflette questa analisi. Una volta che l’economia sia pervenuta al punto B di equilibrio

temporaneo, se le aspettative degli agenti restano immutate al livello π1e, la riduzione

del tasso di inflazione al valore π=1% comporterà una notevole perdita di posti di

lavoro con conseguente aumento del tasso di disoccupazione fino al punto C. Come

vedremo più avanti, i modelli NKE tendono a differenziarsi da questo schema

interpretativo: un elevato sacrifice ratio viene spiegato nell’ambito dei modelli

macroeconomici con rigidità nominali, dove il potere di mercato delle imprese e/o dei

lavoratori rende vischioso l’aggiustamento di salari e prezzi.

4. Offerta aggregata e domanda aggregata

La definizione tradizionale della forma di mercato della concorrenza perfetta fa

riferimento all’ipotesi che alla produzione complessiva realizzata in un mercato

contribuisca un grande numero di piccole imprese: la piccola dimensione impedisce

di esercitare un’influenza sul prezzo, cosicché ciascuna impresa (price taker) opera al

prezzo dato dal mercato. Un’ipotesi aggiuntiva che si suole introdurre è che le

imprese siano eguali fra loro. Essa consente di ricondurre alla quantità prodotta da

una singola impresa “rappresentativa” l’offerta aggregata presente nel sistema

economico.

La moderna microeconomia prescinde comunque dall’ipotesi dell’esistenza di

un grande numero di imprese. La teoria dei “mercati contendibili” ha elaborato un

diverso approccio all’analisi del grado di concorrenzialità dei mercati. Invece di

attribuire la pressione al ribasso dei prezzi all’impossibilità per una piccola impresa

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di influenzare il prezzo di un mercato di ampie dimensioni, la teoria dei mercati

contendibili afferma che il vero indicatore del grado di concorrenzialità è

rappresentato dalle condizioni di entrata nel mercato che i potenziali entranti si

trovano di fronte. Un mercato si definisce “contendibile” allorché un’impresa è in

grado di sostenere i costi “irrecuperabili” (sunk cost) necessari per entrarvi e sottrarre

clienti alle imprese che già vi operano. Le imprese di un mercato contendibile

tendono a sottostare al vincolo delle imprese price taker: un’impresa del mercato di

concorrenza perfetta che aumentasse il proprio prezzo di vendita al di sopra del

prezzo vigente subirebbe delle perdite.

Figura 2. Costruzione della curva di domanda aggregata (AD) e modello AS-AD

Quale che sia il modello teorico di riferimento, assumiamo che un mercato sia

in condizioni concorrenziali quando le imprese sono impegnate nel continuo

monitoraggio dei propri costi di produzione, in quanto la produzione può essere

aumentata solo a costi crescenti nel breve periodo, dati lo stock di capitale e la

tecnologia. La curva di offerta aggregata di breve periodo “inclinata” positivamente

(AS) individua una relazione diretta fra livelli via via più alti di prezzo e di

produzione. Per ogni diminuzione del salario reale conseguita alla perdita di potere

AS

Y0 Y1

LM(p2)

LM(p1)

r p

Y Y

IS AD

LM(p0)

0 Y0 Y1 Y2 Y2

r0

0

(a) (b)

p0 r1

r2

p1

p2

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d’acquisto, la massimizzazione del profitto si realizza accrescendo la produzione

attraverso l’incremento dell’occupazione, da cui risulta una diminuzione della PML,

che si abbassa fino al livello del salario reale (w/p). Più avanti, introdurremo anche la

curva di offerta aggregata di lungo periodo, la cui posizione verticale nel piano

riflette la stabilità dell’equilibrio al livello di produzione corrispondente al tasso di

disoccupazione naturale.

La funzione di domanda aggregata AD (YDt) è formata dall’insieme dei punti di

intersezione tra la LM e la IS che si ottengono variando il livello dei prezzi.

Consideriamo una famiglia di curve LM in termini reali. Lo spostamento di una

funzione ha luogo quando muta il valore di una variabile che è inclusa

nell’equazione, ma non è rappresentata sugli assi. Nel caso della LM, l’offerta di

moneta è espressa in termini reali (M/p) pertanto, ad ogni variazione del livello di

prezzo (p) corrisponde uno spostamento della curva LM sul piano e perciò varia il

valore al quale la curva LM interseca la curva IS. Nella Figura 2(a) una diminuzione

di prezzo (da p0 a p1, con p0>p1), comporta uno spostamento verso destra della curva

LM, mentre un aumento (da p0 a p2, con p0<p2), sposta la LM verso sinistra. Ne deriva

un’intersezione con la IS nel primo caso in un punto più basso, più alto nel secondo.

Dall’insieme dei punti così ottenuti si costruisce la curva AD, che per semplicità

viene raffigurata come una funzione lineare (Figura 2(b)).

Un aumento dei prezzi (p) provoca la diminuzione dell’offerta di moneta reale

(M/p); d’altro canto, dati il reddito ed il tasso di interesse, la domanda reale di moneta

rimane invariata, mentre la domanda nominale aumenta nella stessa proporzione dei

prezzi. Si determina perciò un eccesso della domanda reale di moneta al quale si

accompagna un eccesso di offerta di titoli, cui consegue la discesa del loro prezzo di

mercato e l’incremento del tasso di interesse. La domanda di finanziamento per

l’investimento delle imprese cade, la domanda aggregata si contrae a seguito del

minore volume di investimenti e l’occupazione si riduce. Questo effetto dei prezzi (p)

sul tasso di interesse reale (r), detto “effetto saldi monetari reali”, spiega perché la

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funzione AD presenta una relazione inversa fra domanda aggregata e tasso di

interesse.

È opportuno chiarire che la funzione di domanda aggregata non replica la

relazione inversa della microeconomia fra prezzo e domanda per un singolo bene.

Essa è la relazione di equilibrio per il mercato dei beni e per il mercato della moneta

del modello IS-LM estesa alla determinazione endogena dei prezzi. Nel modello AS-

AD, il punto di intersezione fra domanda ed offerta aggregate determina il livello dei

prezzi assieme al livello del reddito e dell’occupazione. Una volta reso endogeno il

livello dei prezzi resta da superare l’altro limite del modello IS-LM: la mancata

considerazione delle aspettative sul futuro.

5. Dalle aspettative adattive alle aspettative razionali

L’analisi della relazione fra disoccupazione e inflazione si è molto sviluppata nei

decenni successivi. Uno dei motivi di insoddisfazione riguardo alla curva di Phillips

corretta con le aspettative risiedeva nell’utilizzo del modello teorico delle aspettative

adattive. Nella curva di Phillips corretta con le aspettative si determina uno

scostamento ed un successivo ritorno all’equilibrio in corrispondenza del tasso

naturale di disoccupazione. Questa ipotesi, secondo la quale i valori attesi delle

variabili vengono adeguati di periodo in periodo nella misura determinata dallo

scostamento del valore osservato ex post rispetto al valore atteso ex ante, è apparsa

debole per due ragioni: 1) non è realistico assumere che i lavoratori soffrano di

“illusione monetaria” e contrattino il salario nominale senza formarsi delle aspettative

sul suo futuro potere d’acquisto; 2) se le aspettative rilevano solo quando vengono

aggiustate ex post, una politica monetaria eccessivamente espansiva –

un’accelerazione della crescita monetaria tale da aumentare il tasso di inflazione -

potrebbe ripetersi di periodo in periodo, senza che il comportamento degli agenti

venga ad essere modificato da un processo di apprendimento (learning) dalla passata

esperienza.

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Agenti che reagiscono passivamente agli eventi imprevisti, senza valutare la

nuova informazione alla luce di un modello a priori del sistema economico, possono

incorrere in continui errori di previsione. In termini formali, gli agenti sono esposti al

rischio di errori sistematici, il che mal si concilia con l’assunzione di comportamento

razionale. L’affermarsi di questa convinzione stimolò l’elaborazione di una nuova

teoria delle aspettative, che ha preso il nome di ipotesi delle aspettative razionali e

poté svilupparsi anche grazie all’esistenza del lavoro pionieristico di John F. Muth,

che nel 1961 aveva osservato come il risultato di molte decisioni economiche dipenda

in maniera sostanziale dalle aspettative sulla base delle quali esse sono state prese.

Un esempio tipico è quello delle produzioni nelle quali una forte incertezza domina le

aspettative sul futuro prezzo di vendita; così pure, il prezzo futuro di una azione, o il

futuro tasso di cambio di una valuta, dipendono da una serie di eventi di difficile

valutazione, con la conseguenza che gli operatori dei mercati finanziari sono indotti a

seguire le aspettative fondate su quella che si ritiene essere “l’opinione media”.

Secondo il nuovo modello, agenti razionali formulano aspettative razionali

perché determinano i valori attesi delle variabili sulla base della piena conoscenza di

equazioni e parametri del modello macroeconomico di funzionamento dell’economia.

Mentre con aspettative adattive reagiscono passivamente ad eventi imprevisti, con

aspettative razionali gli agenti inglobano nel modello in tempo reale tutta la nuova

informazione che si manifesta nell’ambiente economico e determinano nuovi valori

attesi. Nella visione monetarista, una banca centrale regola la quantità di moneta

correggendo eventuali scostamenti del tasso di disoccupazione dal livello naturale.

Pertanto, sulla base della conoscenza dell’andamento del ciclo economico e del

modello utilizzato dall’autorità monetaria, gli agenti razionali finirebbero per

“anticipare” gli effetti sul livello dei prezzi dei mutamenti di politica monetaria che la

banca centrale annuncia e non modificherebbero i propri comportamenti. Le quantità

offerte e domandate nei mercati del lavoro e dei beni non subirebbero quindi

variazioni.

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Il fatto che le aspettative siano razionali perché calcolate al meglio

dell’informazione disponibile non significa che non si possano commettere errori. Gli

errori sono possibili, ma soltanto se si verificano eventi stocastici: eventi che non

sono conosciuti a priori né prevedibili in base alle informazioni esistenti al momento

del calcolo dei valori attesi della variabile. Si dice anche che gli errori sono

“ortogonali” alle informazioni, cosicché non è possibile stabilire una relazione

causale che li faccia dipendere da fatti sistematici (gli elementi noti del modello). Gli

errori possono solo essere determinati da fatti casuali (gli eventi stocastici). Pertanto,

il valore atteso di una variabile del modello consiste nell’aspettativa matematica

calcolabile inserendo nel modello tutte le informazioni disponibili necessarie a

formulare la previsione. L’aspettativa matematica è il valore medio desumibile in

base alle informazioni disponibili, più un eventuale disturbo stocastico di media zero

e varianza σ2. Gli effetti di errori di previsione a carattere stocastico tendono ad

annullarsi e non influenzano le grandezze di lungo periodo. Sotto l’ipotesi di

aspettative razionali, poiché gli agenti non commettono in media errori di previsione,

il tasso di disoccupazione coincide con il suo tasso “naturale” ed il tasso di inflazione

coincide con il suo tasso atteso.

6. Aspettative razionali ed equilibrio macroeconomico

L’ipotesi di aspettative razionali è stata oggetto di numerose critiche. La condizione

indispensabile per formulare aspettative razionali è che tutta l’informazione

disponibile venga utilizzata. Naturalmente, il modello delle aspettative razionali non

presume che i soggetti debbano raccogliere su base individuale tutte le conoscenze

necessarie a costruire le equazioni del modello di funzionamento dell’economia e

calcolarne i coefficienti. Alcune fonti statistiche e analisi economiche sono pubbliche

(Annuari statistici, Rapporti governativi, etc.) oppure possono essere reperite presso

le istituzioni con cui i soggetti sono in contatto (il servizio studi della banca centrale,

dei sindacati, delle organizzazioni degli imprenditori, etc.). Ciò nonostante, molti

economisti sostengono che, se si volesse acquisire tutta la massa di informazioni

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necessarie per calcolare con esattezza i valori attesi delle variabili, i costi sarebbero

proibitivi.

Un secondo problema sorge dall’inserimento nella teoria macroeconomica

dell’ipotesi di comportamento conforme al modello assiomatico della razionalità.

Una implicazione di tale ipotesi è che tutti gli agenti interpretino l’informazione nello

stesso modo. Questo risultato viene respinto da molti economisti, in particolare dai

filoni di teoria impegnati nella formalizzazione delle intuizioni di Keynes. Nella

descrizione del “concorso di bellezza” (beauty contest) presente nella General

Theory, Keynes esprime in nuce la visione della macroeconomia come un insieme di

“equilibri plurimi”: gli agenti prenderebbero decisioni sulla base dell’aspettativa sulla

reazione degli altri agenti ai segnali informativi; a loro volta i comportamenti degli

altri agenti sarebbero basati sull’interpretazione delle altrui credenze; e così via. La

teoria del cambiamento stocastico dei prezzi da parte delle imprese sostiene che le

decisioni di prezzo sono diverse appunto perché ciascun agente reagisce a un

mutamento nominale (ad esempio, un annuncio di politica monetaria) dopo essersi

formato una propria aspettativa sulle decisioni di prezzo altrui. Le aspettative sono

dunque inevitabilmente fondate su una conoscenza imperfetta. Ad impedire agli

agenti di prevedere con esattezza il comportamento altrui è in ultima analisi il fatto

che il modello di formazione delle credenze poggia su assunzioni pre-analitiche.

Ciascuno agente possiede un proprio particolare insieme di assunzioni: ad esempio, il

nesso di causalità fra istituzioni e funzionamento dei mercati; le norme e le

convenzioni sociali; e così via.

La tensione che si stabilisce fra aspettative razionali ed eterogeneità degli

agenti apre una importante questione: l’inserimento nella macroeconomia delle

aspettative razionali non può essere sinonimo di unicità dell’equilibrio

macroeconomico. Dal momento che gli agenti hanno comportamenti diversi anche se

utilizzano la stessa informazione, le aspettative razionali dipendono strettamente dalle

ipotesi del modello macroeconomico utilizzato. Gli agenti di un modello ispirato alla

NCE formeranno un certo insieme di aspettative razionali e determineranno un certo

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esito economico, gli agenti di un modello ispirato alla NKE formeranno un altro

insieme di aspettative razionali e determineranno un altro esito economico. Un

esempio illuminante è rappresentato dai risultati opposti che si conseguono nella

verifica dell’ipotesi di effetti non-keynesiani della politica fiscale, recentemente

avanzata da alcuni economisti vicini alla posizione teorica del real business cycle

(nell’acronimo inglese: RBC). Nei modelli NCE, un ruolo fondamentale è giocato dal

grado di credibilità dell’annuncio di politica economica. Se ad esempio i consumatori

percepiscono come permanente un programma di abbattimento della tassazione, il

reddito permanente, valutato su tutti i periodi futuri della vita lavorativa, conosce un

innalzamento con conseguente incremento della domanda. Al contrario, nei modelli

NKE che incorporino le ipotesi di capacità produttiva inutilizzata e di agenti con

“vincolo di liquidità”, ad un’espansione fiscale conseguono valori positivi del

moltiplicatore della spesa pubblica. Così pure, i vincoli che le istituzioni poste a

protezione delle remunerazioni e dell’occupazione impongono al funzionamento del

mercato del lavoro sono interpretati in modi molti diversi: i modelli NCE

sottolineano il pericolo che garanzie eccessive causino uno scarso impegno degli

insider (i lavoratori stabilmente occupati) ed impediscano alla dinamica salariale di

riflettere la dinamica della produttività; i modelli NKE guardano al sostegno dei

livelli di reddito come ad uno strumento che rafforza i meccanismi di mercato

riducendo la perdita di benessere causata da lunghi periodi di caduta della

produzione.

Nonostante i dubbi appena esposti sulla solidità delle sue fondamenta teoriche,

l’ipotesi di aspettative razionali è oggi largamente accolta nei modelli

macroeconomici. In primo luogo, l’idea che i soggetti non commettano errori

sistematici è sembrata plausibile. In secondo luogo, l’eccellente trattabilità analitica

di tale ipotesi ha fatto sì che fosse accolta con favore dai macroeconomisti. Il modello

delle aspettative razionali è così stato adottato anche dagli economisti di orientamento

keynesiano. In effetti, nell’adottare tale ipotesi ci si può sentire vincolati soltanto

all’idea che l’equilibrio possa essere disturbato dal verificarsi di shock che

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modificano dall’esterno il funzionamento del modello conosciuto, invalidando le

previsioni che sulla sua scorta gli agenti razionali formulano. Pertanto, adottare un

modello con aspettative razionali non preclude la possibilità di mostrare né l’efficacia

delle politiche macroeconomiche né l’esistenza di disoccupazione involontaria (la

nota conclusione di Keynes secondo la quale una quota di forza lavoro risulta

disoccupata benché sarebbe disposta a lavorare al salario vigente). Basterà inserire

nel modello macroeconomico ipotesi relative ad imperfezioni dei mercati o

dell’informazione per pervenire a deviazioni dall’equilibrio macroeconomico

“ottimale” corrispondente al completo sgombero dei mercati (market clearing) di

concorrenza perfetta. Non deve perciò sorprendere se i modelli NKE contemplano

una molteplicità di equilibri nei quali produzione, occupazione e prezzi si collocano a

livelli diversi da quelli dell’equilibrio economico generale.

7. Nuova economia classica e nuova economia

keynesiana

L’analisi macroeconomica si è interrogata sull’esistenza, l’unicità e la stabilità

dell’equilibrio macroeconomico risultante dall’aggregazione delle equazioni del

modello di equilibrio economico generale walrasiano. Una volta descritta l’esistenza

dell’equilibrio con i modelli IS-LM prima e AS-AD poi, definiti i concetti di NRU e

NAIRU e analizzati i processi di inflazione e di disinflazione, confronteremo i

modelli con aspettative razionali della nuova economia classica e della nuova

economia keynesiana che individuano ciascuno un diverso equilibrio

macroeconomico.

Le principali proposizioni della visione NCE sono: 1) il sistema economico si

caratterizza per la dicotomia fra settore reale (il modello walrasiano determina i

prezzi relativi) e settore monetario (la teoria quantitativa della moneta nella versione

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del monetarismo di Friedman, determina i prezzi assoluti in piena occupazione); 2)

l’equilibrio macroeconomico Pareto-efficiente è garantito dalla flessibilità di tutti i

prezzi che permette l’aggiustamento di mercato ed il ripristino della piena

occupazione successivamente ad uno shock; 3) un’accelerazione della crescita

monetaria non ha effetti reali e provoca soltanto un incremento del livello dei prezzi.

Le principali proposizioni della visione NKE sono: 1) l’incertezza sul futuro

causa frequenti shock, in primo luogo, della domanda aggregata; 2) la disoccupazione

ciclica può mettere capo ad un equilibrio di disoccupazione strutturale a causa della

vischiosità dell’aggiustamento di mercato; 3) le politiche macroeconomiche hanno

effetti reali e sono quindi in grado di ridurre la perdita di benessere sociale connessa

alla disoccupazione.

8. Teoria del ciclo economico reale

Consideriamo un modello AS-AD con aspettative razionali. Data l’ipotesi di perfetta

informazione sul funzionamento dell’economia (diversamente da quanto accade nel

ciclo economico di equilibrio elaborato da Lucas non esistono imperfezioni

informative), gli agenti aggiornano continuamente il proprio modello e sono perciò in

grado di prevedere correttamente il livello dei prezzi. Poiché le variazioni di prezzo

dei beni non hanno conseguenze sulla domanda e sull’offerta di lavoro, l’offerta

aggregata è determinata unicamente dai fattori reali (tecnologia, dotazione di capitale

e scelta dei soggetti tra lavoro e tempo libero) assumendo nel piano una posizione

verticale ((AS*LP in Figura 3).

Supponiamo si manifesti uno spostamento verso l’alto della funzione di

domanda aggregata da AD0 a AD1 in Figura 3. Nei modelli NCE, il funzionamento del

mercato del lavoro è definito dalle seguenti condizioni: 1) informazione perfetta sui

posti disponibili, sulle caratteristiche dell’attività lavorativa e sulla sua

remunerazione; 2) comportamenti razionali da parte di imprese e di lavoratori con

caratteristiche omogenee; 3) costi di mobilità territoriale dei lavoratori e degli

impianti nulli; 4) assenza di vincoli di tipo istituzionale, ovvero la piena flessibilità

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dei salari e dei prezzi. Da tali condizioni consegue un aumento del prezzo (p) e del

salario monetario (w) nella stessa proporzione, lasciando invariati salario reale (w/p),

occupazione (L) e reddito (Y) in corrispondenza dell’intersezione dell’offerta

verticale di lungo periodo (AS*LP) con la nuova funzione di domanda aggregata

(AD1). La funzione di offerta aggregata (AS*LP in Figura 3) è verticale sia nel breve

che nel lungo periodo, perché tutti gli agenti scontano le variazioni del livello dei

prezzi (p). Le lettere A e D nel modello della NCE in Figura 3 denotano il passaggio

da un punto di equilibrio AS-AD all’altro, ad un livello dei prezzi più alto e di attività

economica invariato. Uno shock reale, invece, modifica la posizione della curva di

offerta aggregata, spostandola da AS*LP a AS’LP, in corrispondenza di un più alto tasso

di disoccupazione naturale (Figura 3(a)). Nel prosieguo di questo paragrafo,

l’attenzione si concentrerà sulla cosiddetta “teoria del ciclo reale” (real business

cycle: RBC). In particolare, cercheremo di spiegare perché sia centrale l’ipotesi di

piena flessibilità dei salari e dei prezzi.

Dato il capitale, le imprese massimizzano la quantità prodotta impiegando i

lavoratori fino al punto in cui Y*=Y[LD(w/p)*]. Per comprendere come la previsione

perfetta consenta ai lavoratori di percepire in ogni periodo un salario reale

contrattuale corrispondente a quello di piena occupazione, occorre costruire le curve

di domanda e di offerta di lavoro. Sotto l’ipotesi di aspettative razionali (pe=p)

esprimiamo l’offerta di lavoro delle famiglie e la domanda di lavoro delle imprese in

funzione di due grandezze:

1) il salario reale. Nel contrattare il salario monetario (w), le famiglie tengono

conto del suo potere d’acquisto e le imprese del rapporto che intercorre fra livello del

salario monetario in corrispondenza del lavoro domandato e livello del prezzo di

vendita del prodotto. Ne consegue che l’equilibrio al tasso naturale di disoccupazione

dipende dal fatto che in un mercato del lavoro di concorrenza perfetta il salario

contrattuale viene a determinarsi al livello corrispondente al salario reale di “piena

occupazione”: i lavoratori non soffrono di “illusione monetaria”;

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2) il salario monetario. I lavoratori fondano le proprie richieste contrattuali

sulla previsione del livello futuro del salario reale basata sulla previsione del futuro

livello del prezzo. Scriviamo il salario monetario contrattuale, negoziato prima della

produzione sulla base di un’aspettativa sul prezzo del prodotto, come: w=(w/p)*pe. Si

consideri la produzione come la somma algebrica di due termini: il prodotto

potenziale e la componente ciclica. Il prodotto potenziale corrisponde al punto sulla

frontiera delle possibilità di produzione di un’economia che esprime l’efficiente

impiego delle risorse disponibili. La componente ciclica è la variazione della quantità

offerta in funzione di variazioni del prezzo. Nella sua versione più radicale, il

modello NCE sostiene che la componente ciclica è nulla, in quanto solo i fattori reali

presiedono ai livelli di occupazione e di produzione.

Data l’ipotesi di aspettative razionali (pe=p), il salario monetario contrattuale

può essere espresso come prodotto fra salario reale di piena occupazione (w/p)* e

livello del prezzo (p): w=(w/p)*p. La domanda di lavoro dipenderà sia dal salario di

piena occupazione (w/p)* sia dal rapporto (pe/p) fra prezzo atteso e prezzo realizzato:

LD=LD[(w/p)*pe/p]. Definiamo allora il “salario reale effettivo” come w/p=(w/p)*/p(1-

α) e la domanda di lavoro come LD=LD[(w/p)*/p(1-α)], dove il parametro α indica il

grado di elasticità salario-prezzo. L’immediato aggiustamento di lavoratori e imprese

alle politiche macroeconomiche annunciate fa sì che ad ogni variazione del prezzo (p)

corrisponda un’eguale variazione del salario monetario (w) che consente alle famiglie

di mantenere costante il salario reale. Il salario monetario risulta quindi perfettamente

elastico rispetto al prezzo (α=1), cosicché il “salario reale effettivo” – il salario reale

che risulta successivamente ad una variazione del prezzo (p) - eguaglia il salario reale

di piena occupazione: w/p=(w/p)*.

Dalle funzioni di domanda e di offerta di lavoro LD=LD(w/p) e LS=LS(w/p)

ricaviamo la funzione di domanda inversa: )(/ 1 DD LLpw −= e di offerta inversa:

)(/ 1 SS LLpw −= da cui si ottengono nella Figura 3(b) le curve di domanda e di offerta

di lavoro in funzione del salario nominale: )(1 DD LpLw −= e, rispettivamente,

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)(1 SS LpLw −= . Un innalzamento del prezzo (p) determina uno spostamento verticale

nella stessa proporzione per entrambe le curve, pertanto l’intersezione avrà lo stesso

livello di occupazione (L*) ed un salario monetario aumentato nella stessa

proporzione del prezzo (p).

Figura 3. Equilibrio classico di piena occupazione

Nella Figura 3, ad ogni innalzamento del prezzo (da p0 a p1) si determina

l’innalzamento del salario nominale (da w0 a w1) a livello di occupazione invariato

(L*). A tale posizione di equilibrio nel mercato del lavoro corrisponde nel mercato dei

beni il livello del reddito invariato (Y*) lungo la AS di lungo periodo (AS*LP).

Pertanto, un incremento del livello del reddito si realizza esclusivamente per effetto

dei seguenti mutamenti dei “fattori strutturali”: 1) il miglioramento (peggioramento)

della tecnologia o un incremento (diminuzione) del capitale determinato dall’utilizzo

di una nuova tecnologia risparmiatrice di lavoro (labour-saving); 2) l’incremento del

numero di ore di lavoro offerte, se aumenta l’offerta da parte dei singoli lavoratori,

oppure il tasso di partecipazione al mercato del lavoro.

L’assorbimento ottimale della forza lavoro realizza così una variazione permanente

nel livello di produzione. In corrispondenza dell’eguaglianza LD(w/p)*=LS(w/p)*, il

D

A AD1

AD0

L L* 0

w0 A

D

w

w1

LS LD LS

1 LD

1 p

Y 0

(a) (b) AS*LP AS’LP

Y* Y’

p0

p1

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livello di piena occupazione (L*) ed il salario reale di piena occupazione (w/p)*

dipendono unicamente dai fattori strutturali: tecnologia (A), dotazione di capitale (K)

e scelta delle famiglie fra lavoro e tempo libero. L’offerta aggregata si trasla da AS*LP

a AS*’LP.

Figura 4. Teoria del ciclo reale

Questa è la teoria del “ciclo economico reale” (RBC). Le fasi di espansione o

di recessione sono di natura reale, perché rappresentano la propagazione degli shock

sul progresso tecnico oppure scaturiscono dalla sostituzione intertemporale fra

consumo e tempo libero in condizioni di continuo pieno impiego. Ad esempio, uno

shock reale di segno positivo fa aumentare sia la produttività del capitale,

accrescendo così gli investimenti, con conseguente sostituzione di consumo futuro a

consumo presente, sia la produttività del lavoro, accrescendo così l’offerta di lavoro:

al netto dell’effetto reddito, viene incentivata la sostituzione di consumo presente e

futuro al tempo libero, e quindi aumentano occupazione e salario reale. È allora mal

LD2

LD1

LD2

LD1

LS

w/p

w/p

L1 L2 L3 L

L L2 L1 L3

LS

LD3

LD3

(a)

(b)

Modeste variazioni salariali si accompagnano ad ampie variazioni di occupazione

Ampie variazioni salariali si accompagnano a modeste variazioni di occupazione

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concepita l’idea che autorità monetarie e fiscali siano nella posizione di sfruttare

continuamente il trade-off fra inflazione e disoccupazione per realizzare temporanei

incrementi della produzione. Se viene annunciata un’espansione monetaria o fiscale,

salari e prezzi vengono adeguati verso l’alto senza che si producano effetti reali.. La

variazione inattesa della domanda aggregata è comunque da ricondurre a cause reali.

Ne consegue immediatamente che le fluttuazioni dell’output non possono avere una

origine monetaria. Sulla scia dei lavori di Kydland e Prescott (1977) e di Barro e

Gordon (1983), un’intera generazione di modelli NCE utilizza le aspettative

razionali. Poiché il learning permette di aggiornare il modello di funzionamento

dell’economia, i soggetti non possono essere “ingannati” sistematicamente: se le

autorità di politica economica hanno provocato in passato incrementi imprevisti del

tasso di inflazione, dopo i loro annunci le aspettative di inflazione vengono riviste

verso l’alto nella stessa proporzione. Le autorità monetarie e fiscali devono rifuggire

dalla tentazione di promettere che le politiche macroeconomiche espansive

apporteranno incrementi di occupazione e di produzione.

Questa rappresentazione del ciclo economico è stata oggetto di un’attenta valutazione

critica, che ne ha individuato alcuni punti di debolezza. I più importanti sono: 1) Se

ogni ciclo economico ha origine esclusivamente da uno shock nella TFP, l’ampiezza

della variazione della TFP deve essere rilevante, come è coerentemente previsto nei

modelli teorici del RBC. Recenti tentativi di fornire una corretta misurazione

empirica del progresso tecnico hanno condotto ad un calcolo della TFP nel quale si

consideri anche l’impatto del grado di utilizzo della capacità produttiva e dei mercati

di concorrenza imperfetta. Tali indagini, dalle quali risultano valori della dinamica

della produttività totale molto più modesti rispetto alle forti oscillazioni che risultano

nei modelli del RBC, appaiono come delle indirette confutazioni empiriche di questa

teoria. 2) La verifica empirica ha mostrato che l’introduzione nelle imprese delle

innovazioni della ICT possono causare nel breve periodo – a meno non si sia in

presenza di una politica monetaria molto “accomodante” - una riduzione

dell’occupazione. 3) La congettura implicita nella teoria del RBC è che la

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sostituzione di tempo libero a lavoro (o viceversa) in seguito a uno shock reale

implica che a piccole variazioni del salario reale si accompagnino ampi incrementi

dell’offerta di lavoro. La sostituzione intertemporale del lavoro postulata dal modello

del RBC dovrebbe pertanto essere riflessa da una curva di offerta di lavoro piuttosto

piatta (Figura 4(a)). Le statistiche del lavoro sembrano però mostrare che l’entità

delle fluttuazioni del livello di occupazione delle economie reali è molto esigua.

L’evidenza empirica mostra infatti che shock positivi sulla produttività determinano

ampi incrementi del salario e piccoli incrementi dell’occupazione, da cui risulta una

curva di offerta di lavoro molto inclinata (Figura 4(b)). Anche tenendo conto non solo

del numero dei lavoratori ma anche delle ore lavorate per lavoratore, le variazioni che

si riscontrano nella realtà non sembrano riconducibili agli shock reali.

Piuttosto, l’evidenza empirica rivela un possibile nesso di causalità di direzione

opposta, che va dalle variazioni negative della TFP alla tendenza delle imprese a non

ridurre l’occupazione in proporzione all’ampiezza della discesa del reddito nel corso

della fase recessiva. In conclusione, la teoria del RBC potrebbe trovare una

convincente verifica empirica soltanto se il sistema economico fosse investito con

maggiore regolarità da fasi di accelerazione dell’innovazione tecnologica. Dalla

“rivoluzione industriale” in poi, le fasi di forte incremento dell’occupazione diffuso

in tutti i settori coincidono con fasi di cambiamento strutturale determinato da

“grappoli” di scoperte scientifiche.

La teoria del RBC ripristina di fatto la dicotomia fra settore reale e settore

monetario: in mercati che funzionano perfettamente, l’equilibrio macroeconomico al

pieno ed efficiente impiego delle risorse disponibili implica che la politica monetaria

non possa influenzare nient’altro che le grandezze nominali e la politica fiscale abbia

un mero effetto di “spiazzamento” totale.

Il nuovo clima intellettuale degli anni ’90, nell’associare il conseguimento

dell’efficienza economica all’operare delle forze di mercato in assenza di

perturbazioni derivanti dall’intervento pubblico, accolse con favore questo approccio.

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9. Teoria del ciclo economico con rigidità nominali

Si ricorderà la presentazione dei due principali paradigmi teorici della

macroeconomia del ‘900 svolta all’inizio di questo capitolo. Da un lato, la visione

neo-classica di piena fiducia nella capacità delle forze di mercato di assorbire ogni

tipo di shock sulla AS e sulla AD attraverso la flessibilità di tutti i prezzi. Dall’altro, la

visione di Keynes della pervasività dei fallimenti macroeconomici in un’economia di

mercato e della necessità delle politiche monetarie e fiscali di stabilizzazione. Negli

anni ’70, tuttavia, una serie di contributi teorici, conosciuti come la “sintesi neo-

classica”, svilupparono un modello che riconciliava le due visioni. L’equilibrio di

lungo periodo del modello keynesiano coincideva con quello del modello neo-

classico; riguardo al breve periodo, invece, il modello keynesiano mostrava il

persistere della disoccupazione per il lento aggiustamento di tasso di interesse, salari

e prezzi ai rispettivi valori di equilibrio di lungo periodo.

Come osservò Modigliani (1977), la contrapposizione fra neo-classici e

keynesiani stava perdendo i caratteri di una controversia ideologica, per venire

circoscritta ad una disputa puramente empirica. I valori che i parametri delle

principali equazioni assumono nelle simulazioni condotte con il condiviso modello

macroeconomico avvalorano di volta in volta l’una o l’altra interpretazione del

funzionamento dell’economia. Negli anni ’80, la generazione di modelli nati

dall’impulso del contributo di Lucas, ha nuovamente aperto un solco profondo fra i

due paradigmi teorici. I modelli NCE si sono ancorati più strettamente alle ipotesi

dell’equilibrio generale intertemporale, in primo luogo all’ipotesi di continuo market

clearing che i modelli NKE non hanno mai accolto. Negli anni ’90 si è registrata una

nuova fase di riavvicinamento fra economia neo-classica ed economia keynesiana,

che non a caso ha preso il nome di “nuova sintesi neoclassica” (Goodfriend e King,

1997). La convergenza si è realizzata con l’adesione della maggior parte dei filoni

teorici NKE all’ipotesi di aspettative razionali e di alcuni filoni teorici della NCE (in

disaccordo con la teoria del ciclo reale) alle spiegazioni del ciclo economico originato

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da ostacoli di varia natura (ad esempio, fattori di natura istituzionale quali i contratti

collettivi di lavoro scaglionati) che impediscono il continuo market clearing. Ne è

scaturita una generazione di modelli in cui il lento aggiustamento di salari e prezzi fa

sì che agli shock consegua un aggiustamento anche nelle quantità, il che consente alle

politiche macroeconomiche di avere efficacia.

Per riassumere in termini semplici un complesso percorso di ricerca, esporremo

ora la teoria del ciclo “da rigidità nominale” mediante la rappresentazione grafica del

modello AS-LM-AD. La Figura 5 esprime l’equilibrio AS-AD (a) in connessione con

l’equilibrio IS-LM (b) e lo mette in relazione con l’equilibrio nel mercato del lavoro

(c).

Prendiamo le mosse dall’equilibrio macroeconomico in corrispondenza di Y*

nella Figura 5(a). Supponiamo che un’espansione fiscale (ad esempio, una spesa

pubblica in deficit) produca lo spostamento della domanda aggregata (da AD0 a AD1).

Nel punto di intersezione (C) fra la nuova funzione di domanda aggregata (AD1) e

l’offerta aggregata di breve periodo (ASBP0) si determina un livello di prezzo (p1) più

elevato di quello (p0) individuato dall’intersezione fra la domanda aggregata (AD0) e

l’offerta aggregata di lungo periodo (AS*LP). Il nuovo punto di intersezione C indotto

dall’incremento della domanda aggregata corrisponde: 1) nella Figura 5(b) allo

spostamento da IS0 a IS1 , all’arretramento della LM nella posizione LM1 (l’aumento

del livello dei prezzi in (p1) riduce il valore reale delle scorte liquide) ed al nuovo

valore del tasso di interesse (r1); 2) nella Figura 5(c), allo spostamento della domanda

di lavoro da LD0 a LD

1.

Vediamo allora come al processo dinamico culminato nell’equilibrio

temporaneo nel punto C, in corrispondenza dei più alti livelli di reddito e

occupazione (Y’ e L’), partecipano il mercato monetario e finanziario ed il mercato

del lavoro.

Nel caso di un ciclo espansivo, l’incremento della produzione è vincolato dal

più alto tasso di interesse indotto dall’incremento della domanda aggregata AD e si

realizzerà quindi nella misura determinata dalla pendenza della LM, che dipende dalla

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derivata della domanda di moneta rispetto al tasso di interesse, e dalla pendenza della

IS, che dipende dalla derivata dell’investimento rispetto al tasso di interesse.

Nell’ipotesi di offerta di moneta data, ci si deve chiedere da dove provenga la moneta

necessaria a fare circolare la produzione aggiuntiva.

La risposta sta nel funzionamento del mercato monetario e finanziario. Dopo lo

spostamento in senso espansivo della IS (da IS0 a IS1), l’accresciuto volume di

produzione induce le famiglie a smobilizzare titoli dal proprio portafoglio, allo scopo

di disporre di un livello di scorte liquide (domanda di moneta) sufficiente a consentire

le maggiori transazioni. A questa offerta di vecchi titoli si vanno ad aggiungere le

nuove emissioni a copertura della spesa pubblica in deficit. L’eccesso di offerta di

titoli si riflette nella riduzione del loro prezzo di mercato e nell’aumento del tasso di

interesse. Poiché una parte dei progetti di investimento del settore privato hanno ora

una redditività attesa inferiore al tasso di interesse, una parte dell’incremento di

reddito viene ad essere “tagliato”. Si osservi che se l’offerta aggregata fosse stata

verticale anche nel breve periodo, il reddito non si sarebbe mosso da Y*. In tal caso,

infatti, tutto l’aggiustamento sarebbe avvenuto attraverso l’aumento del livello dei

prezzi che riduce le scorte liquide reali dei soggetti nella stessa misura in cui sono

aumentati i loro redditi monetari; l’aggiustamento può essere rappresentato nella

Figura 5(b) mediante l’arretramento della LM fino alla posizione LM2 in

corrispondenza del tasso di interesse i2.

Il processo di squilibrio e successivo riequilibrio innescato dall’incremento

della domanda aggregata si ripercuote anche nel mercato del lavoro. Nel prosieguo,

utilizzeremo due distinti concetti di rigidità: 1) La vischiosità del salario nominale

Figura 5. Offerta aggregata e domanda aggregata

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30

LM1

LM2

IS0

D

C

A

B

Y

p

Y* Y’

AS*LP ASBP0

0

ASBP1

AD1

AD0

p2

p0

Y 0

LM0

IS1 r

(a)

(b)

Y* Y’

D

C

A

p1

r0

r1

r2

D

C

A

B

LS0

LD1

LS1

LD0

(c)

L L' L* 0

w

w2

w*

w1

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che porta alla determinazione di un livello diverso da quello compatibile con il salario

reale di piena occupazione; 2) La rigidità del salario reale, che consiste nella

variazione del salario nominale nella stessa proporzione della variazione del livello

dei prezzi. La vischiosità riflette il dato istituzionale della contrattazione salariale

scaglionata, che fonda l’assunzione di un’elasticità del salario al prezzo inferiore

all’unità (α<1). L’aggiustamento del salario nominale è più lento dell’incremento

indotto nei prezzi dall’aumento dei costi di produzione. Il settore reale non torna

immediatamente al valore di equilibrio walrasiano. Lo “sgombero” del mercato del

lavoro non si realizza.

Il “salario reale effettivo” (w/p)*pe/p è maggiore del salario reale di piena

occupazione (w/p)* perché lo shock inatteso causa l’aumento sia della produzione che

del prezzo. È appunto lo scostamento verso il basso del salario reale effettivo rispetto

al livello del salario reale di piena occupazione a favorire la salita del livello di

occupazione e di produzione. Il “salario reale effettivo” è infatti: w/p=(w/p)*/p(1-α) e

la domanda di lavoro è: LD=LD[(w/p)*/p(1-α)]. Allo spostamento della domanda

aggregata da AD0 a AD1 nella Figura 5(a), corrisponde in Figura 5(c) la traslazione

della domanda di lavoro LD nella posizione LD1 che individua la nuova intersezione

con la LS nel punto C.

Una volta che il processo dinamico giunge a compimento con il passaggio del

livello dei prezzi in (p2) e con il ritocco verso l’alto di tutte le grandezze nominali

(l’aumento del livello dei prezzi riporta quantità reale di moneta, salario reale e tasso

di interesse reale ai valori iniziali), l’espansione temporanea di occupazione e output

ha termine con la traslazione dell’offerta aggregata verso sinistra (da ASBP0 a ASBP1).

All’aumento dei prezzi e all’incremento dell’occupazione al di sopra del livello

naturale – conseguente ai nuovi lavoratori entrati nel mercato e/o all’aumento del

lavoro straordinario – e del salario al livello w1, fanno seguito i rinnovi contrattuali

che completano l’adeguamento verso l’alto del salario nominale (w2). Il ritorno del

salario reale al valore iniziale determinerà un arretramento della offerta di lavoro e

nella Figura 5(c) verrà ripristinata la piena occupazione al livello L* in

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corrispondenza del punto D e del livello iniziale di reddito (Y*) delle Figure 5(a) e

5(b). L’offerta aggregata di breve periodo (ASBP1) nel punto di intersezione con la

domanda aggregata (AD1) riproduce l’equilibrio originario (Y* e L*) sull’offerta di

lungo periodo AS*LP.

La teoria del ciclo con rigidità nominali ipotizza che il salario contrattuale vari

in misura meno che proporzionale rispetto alla divergenza del prezzo realizzato

rispetto al prezzo atteso. Tale ipotesi è cruciale. Se la politica monetaria assume un

orientamento “accomodante”, il processo di riequilibrio viene accelerato: le imprese

godono dell’incentivo ad accrescere la produzione e l’occupazione a un tasso di

interesse calante, oltre al vantaggio di un salario monetario che permane costante per

tutto il periodo di tempo che intercorre fra l’aumento del prezzo ed il rinnovo

contrattuale. Abbiamo visto come una politica fiscale espansiva possa garantire un

incremento dell’occupazione e della produzione tale da innalzare – per un breve

periodo di tempo – il livello del reddito al di sopra del valore corrispondente al tasso

di disoccupazione “naturale” (o del NAIRU nel modello NKE). Il modello

macroeconomico AS-LM-AD è tuttavia in grado di accogliere l’intuizione di Keynes

sull’importanza delle aspettative sul futuro nel corso di una fase ciclica recessiva.

Quando nei mercati si diffondono aspettative pessimistiche sul livello della domanda

futura, tali da abbassare il livello di attività economica, è possibile che

l’aggiustamento di mercato si riveli non solo lento – per l’ipotesi di vischiosità dei

salari e dei prezzi – ma, cosa ancor più rilevante, anche insufficiente a realizzare una

ripresa economica tale da ripristinare il livello di produzione iniziale.

A partire dall’equilibrio macroeconomico in Y*, L* e w*, supponiamo che un

innalzamento dell’incertezza sulla domanda futura deprima le decisioni di

investimento delle imprese, con conseguente caduta dei livelli di produzione e di

occupazione. Dall’ipotesi di rigidità del salario reale nel mercato del lavoro discende

il protrarsi della disoccupazione ciclica per molti periodi.

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Nell’ambito di un modello con mercati di concorrenza perfetta possiamo solo dire

che il salario reale individuato dal rapporto fra salario monetario contrattuale e livello

dei prezzi permane ad un livello maggiore del salario reale di piena occupazione a

causa di una distorsione misurata dal valore che assume il parametro (ς): w/p=ς(w/p)*

con ς>1. Di conseguenza, il market clearing è sospeso perché il mancato

abbassamento del salario nominale al livello coerente con il salario reale di piena

occupazione determina la costanza del salario reale ad un livello “troppo alto” perché

il sistema economico possa assorbire tutta la forza lavoro disponibile.

Consideriamo le alternative di politica economica proposte rispettivamente

dalla NCE e dalla NKE.

1) Nei modelli della NCE, la disoccupazione viene attribuita ad un salario di riserva

dei lavoratori (la remunerazione alla quale i lavoratori sono disposti ad occuparsi) che

fattori istituzionali mantengono ad un livello superiore al salario walrasiano di piena

occupazione e viene chiesta ai lavoratori la riduzione del saggio marginale di

sostituzione fra tempo libero e lavoro che permetterebbe la stipula di contratti di

lavoro a quel salario (w2) al quale le imprese sono in grado di aumentare la domanda

di lavoro fino al livello di equilibrio (L*). In assenza dell’ipotesi di salario reale

rigido verso il basso il modello prevede che il progressivo aggiustamento verso il

basso dei nuovi livelli contrattuali sia agevolato da aspettative di ulteriore caduta dei

prezzi, tali da indurre la discesa del salario nominale al livello w2.

La “politica dell’offerta” (supply side) proposta dalla NCE consiste

innanzitutto nelle politiche microeconomiche di deregolamentazione del mercato del

lavoro finalizzate a restituire piena flessibilità del salario e dell’utilizzo della forza

lavoro. A partire dall’equilibrio di disoccupazione l’aumento dell’offerta di lavoro (la

traslazione verso destra della funzione) consente alla domanda di lavoro di aumentare

parallelamente alla discesa del salario. Coerentemente con la “legge di Say”, il

ripristino della produzione di piena occupazione determinerà il ritorno della domanda

aggregata nella posizione AD. Pertanto, il salario nominale è coerente con il salario

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reale dell’equilibrio di “piena occupazione” in corrispondenza dell’intersezione fra

AS0 e AD0 ai valori di equilibrio L* e Y*.

2) Nei modelli della NKE, nei quali la disoccupazione è attribuita ad

aspettative di profittabilità delle imprese molto basse i neo-keynesiani ritengono che

la flessibilità del salario nominale sia in grado di riportare l’economia nella posizione

di piena occupazione. Affinché avvenga l’incremento del saggio marginale di

sostituzione con la traslazione dell’offerta di lavoro occorre suscitare la ripresa delle

aspettative di profitto e quindi l’incremento degli investimenti. L’intervento consiste

nelle politiche monetarie e fiscali espansive (“dal lato della domanda”) che sfruttano

la costanza del salario nominale fra un rinnovo contrattuale e l’altro e sono finalizzate

a riportare la domanda aggregata al più alto livello e ristabilire il livello iniziale della

domanda di lavoro. La domanda di lavoro risale fino al ristabilirsi del livello iniziale

del salario reale, mentre il salario nominale (w*) resta costante. Il ripristino

dell’equilibrio macroeconomico di partenza si realizza in corrispondenza

dell’intersezione della domanda aggregata AD0 con la AS0 ai valori di equilibrio L* e

Y*.

Al di là dell’insufficiente trattazione dell’equilibrio di disoccupazione nella

Teoria Generale, la preoccupazione di Keynes era quella di scongiurare che nelle

imprese delle economie capitalistiche aspettative di profitto pessimistiche dei

manager, degli azionisti e degli operatori finanziari trasformassero una

disoccupazione di origine ciclica in una condizione di disoccupazione strutturale.

Data l’assunzione di concorrenza perfetta, l’eccesso di offerta di lavoro

dovrebbe indurre il necessario abbassamento del salario nominale che ripristina il

precedente livello di occupazione. La serie dei rinnovi contrattuali scaglionati

dovrebbe determinare il lento aggiustamento verso il basso del salario.. Supponiamo

che il fattore istituzionale renda la riduzione del salario troppo lenta, sicché una quota

di forza lavoro rimanga disoccupata. La presenza di tale rigidità del salario reale

impedisce che abbia luogo il completo aggiustamento di mercato. Poiché non si

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realizza l’aggiustamento “spontaneo” di mercato, occorre l’intervento della politica

economica.

Definiamo equilibrio di disoccupazione strutturale l’equilibrio determinato da

un salario reale che rimane rigido a un livello superiore a quello dell’equilibrio

walrasiano. Nella Figura 6 descriviamo un concetto introdotto da Edmund Phelps nel

1972: l’equilibrio con isteresi del tasso di disoccupazione (dal greco hystéresis,

ritardo nell’aggiustamento). La funzione ASLP presenta un’inclinazione verticale – al

pari della AS*LP di “piena occupazione” – perché l’output è indipendente dal prezzo:

l’elasticità del salario al prezzo è assunta uguale ad 1 per cui ogni aumento del livello

dei prezzi fa salire il salario nominale nella stessa proporzione. Fattori strutturali

impediscono alla ASLP di tornare nella posizione AS*LP. Le imprese, dato lo stock di

capitale, producono al massimo livello compatibile con un salario nominale (w’) che

corrisponde a un salario reale contrattuale (w/p) in eccesso rispetto a quello di “piena

occupazione” (w/p)*. L’equilibrio fra domanda e offerta di lavoro in corrispondenza

del salario nominale (w’) determina un livello di occupazione minore di quello che si

individuerebbe in base all’offerta di lavoro corrispondente al salario reale di piena

occupazione. Nell’equilibrio al livello di reddito Y’ inferiore a Y*, la disoccupazione è

pari alla distanza L*-L’.

Figura 6. Equilibrio con isteresi

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36

L’equilibrio fra domanda e offerta aggregata può avere luogo a diversi livelli di

impiego della forza lavoro. Quando non funzionano i meccanismi omeostatici che

nell’economia walrasiana garantiscono il ritorno all’equilibrio Pareto-ottimo, il

sistema economico si mantiene costantemente al di sotto dell’impiego efficiente delle

risorse. La visione di Keynes di un equilibrio macroeconomico nel quale i disoccupati

non siano volontari (desiderano sostituire tempo libero ad ore di lavoro) ma

involontari (cercano lavoro, ma non lo trovano) trova una sistemazione analitica nel

processo di isteresi che si mette in atto durante il ciclo negativo innescato da uno

shock e che culmina con la traslazione verso sinistra dell’offerta aggregata (dalla

posizione ASLP* alla posizione AS’LP).

È opportuno aggiungere che il termine di disoccupazione strutturale è riferito

alla persistente sotto-occupazione e sotto-partecipazione al mercato del lavoro tipiche

delle condizioni di arretratezza o di ristagno economico. La cause del basso livello di

reddito pro capite risiedono un’insufficiente dotazione di infrastrutture, in un livello

inadeguato sia del capitale fisico (per dimensione e/o livello tecnologico) sia del

capitale umano (grado di istruzione della forza lavoro). Indicando con Y il reddito,

Y w*

AS*LP

LD

LS*

ASLP

w'

L

w

p

L’

L*

Y* Y’

LS’

(1)

(3) (2)

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con POP tutta la popolazione, con L gli occupati e con N la forza lavoro, le

condizioni di arretratezza o stagnazione economica si riflettono in un basso livello

della produttività del lavoro (Y/L) del tasso di occupazione (L/N) e del tasso di

partecipazione (N/POP).

Il reddito pro capite (Y/POP) può essere dunque espresso come:

Y/POP=Y/L·L/N·N/POP.

10. Politica monetaria di stabilizzazione

L’allontanamento del sistema dall’equilibrio macroeconomico ai valori naturali

dell’output e della disoccupazione viene ricondotto al funzionamento di due mercati:

il mercato del credito e delle attività finanziarie ed il mercato del lavoro. In alcune

rivisitazioni del modello del “Trattato della moneta” e della “Teoria generale” di

Keynes, lo scostamento dal NAIRU viene spiegato con l’incapacità dei mercati

finanziari di assicurare, mediante la determinazione del valore di equilibrio del saggio

di interesse, il coordinamento intertemporale fra risparmi ed investimenti

(Leijonhufvud, 1968 e 1981), oppure con l’informazione asimmetrica che induce le

banche a mantenere fisso il tasso di interesse sui prestiti e variare la quantità

(razionamento del credito) (Greenwald e Stiglitz, 1988, 1993, 2003). Per ragioni di

spazio, concentreremo l’attenzione soltanto sul funzionamento non concorrenziale del

mercato del lavoro.

L’avere assunto esogena la rigidità del salario reale rende poco soddisfacente la

spiegazione della trasformazione della disoccupazione ciclica in disoccupazione

strutturale. L’analisi dei mercati di concorrenza imperfetta in questo paragrafo

permetterà di fare qualche passo avanti verso una spiegazione endogena della

persistenza dell’equilibrio di disoccupazione.

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Prendiamo le mosse da una funzione di produzione in forma lineare estremamente

semplificata, in base alla quale nel breve periodo la produzione dipende solo

dall’occupazione secondo il coefficiente a che esprime la tecnica di produzione:

aLY = . La forza lavoro (N) è data dalla somma di disoccupati (U) e occupati (L):

N=U+L. Considerando il tasso di disoccupazione u=U/N, si ottiene: Y=a(N-U)=aN-

aNu, che rappresenta la differenza fra la produzione potenziale totale e la produzione

“perduta” a causa della disoccupazione.

La legge di Okun mette in relazione lo scostamento della disoccupazione dal

suo valore d’equilibrio al tasso naturale (uN), determinato dall’equilibrio nel mercato

del lavoro con lo scostamento del reddito dal suo valore d’equilibrio, il reddito

potenziale (YN), che possiamo anche definire il livello “naturale” del reddito, in altre

parole il reddito potenziale corrispondente all’utilizzo della forza lavoro consentito

dalle risorse.

Pertanto, scriviamo l’equazione che esprime la legge di Okun:

)( NN uubYY −+=

dove il coefficiente b rappresenta lo scostamento del reddito dal suo valore naturale

per un dato scostamento della disoccupazione dal suo valore naturale. L’equazione

può anche essere scritta come:

)(/1 NN YYbuu −+=

La curva di Phillips, espressa in termini di disoccupazione, è allora:

( )eNu u γ π π µ= − − +

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dove π è il tasso di inflazione, πe è il tasso di inflazione atteso e il coefficiente γ

misura la variazione della disoccupazione generata dalla variazione del tasso di

inflazione. Il termine µ (che rappresenta uno shock esogeno) introduce l’incertezza,

in quanto esprime un possibile disturbo stocastico dalla posizione di equilibrio, con

media E(µ)=0 e varianza σ2. Dalle ultime due equazioni si ottiene:

µππγ +−=− )( eN bYY

La tradizionale curva di Phillips, espressa in termini di reddito invece che di

disoccupazione, può essere scritta come:

µππα +−+= )( eNYY

dove α=bγ esprime l’elasticità del reddito a variazioni del tasso di inflazione rispetto

al valore atteso. Pertanto, data la stabilità del valore del coefficiente b espresso dalla

legge di Okun, il valore del coefficiente α presenta un’elevata correlazione con il

valore del coefficiente γ, l’elasticità della disoccupazione al tasso di inflazione che

costituisce la pendenza della curva di Phillips. Tale coefficiente è l’indicatore del

grado di reattività del mercato del lavoro alla trasmissione degli impulsi monetari, e

cioè agli shock ed ai cambiamenti nella politica monetaria. Se le aspettative di

inflazione non sono corrette, per ogni punto di inflazione in eccesso, il reddito è più

alto rispetto al livello “naturale” nella misura determinata da α e la disoccupazione

più bassa nella misura determinata da γ. D’ora in avanti, per indicare le condizioni (di

rigidità o di flessibilità) del mercato del lavoro faremo riferimento direttamente al

valore (alto o basso) di α. Quanto più alto è il valore di α, tanto maggiore è la

variazione dell’occupazione e del reddito in funzione di una data variazione del tasso

di inflazione. In generale, un processo di inflazione sarà tanto più rapido quanto più

basso è il valore di α (più inclinata è la curva di Phillips di breve periodo, più rigido è

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il mercato del lavoro), mentre un processo di disinflazione sarà tanto più rapido

quanto più alto è il valore di α (più piatta è la curva di Phillips di breve periodo, più

flessibile è il mercato del lavoro).

Supponiamo che le autorità monetarie scelgano una funzione quadratica che

esprime la perdita sociale (Loss) che la banca centrale intende minimizzare.

L’equazione che segue definisce il comportamento dell’autorità di politica monetaria

diretto a annullare gli scostamenti di inflazione e output dai rispettivi valori-obiettivo,

al fine di massimizzare il benessere sociale:

22 *)(*)( YYLoss −+−= ππβ

dove l’obiettivo di inflazione è π* e l’obiettivo di reddito è Y*=δYN. Si assuma che la

banca centrale dichiari un obiettivo di inflazione pari a π*=0, mentre l’obiettivo di

reddito perseguito sia pari a Y*=δYN, con δ>1 che esprime il convincimento

dell’autorità monetaria che il livello di produzione al quale il sistema economico sta

operando non è soddisfacente. Il parametro β è il peso che indica la preferenza per

una bassa inflazione: tanto maggiore è il suo valore, tanto più l’autorità monetaria

ritiene che la variazione dell’inflazione (normalizzata per la variazione dell’output

nel secondo termine) rappresenti una perdita per la società. Pertanto, nel fissare un

valore del coefficiente δ maggiore di 1, la banca centrale esprime l’intenzione di

perseguire un obiettivo di reddito superiore al livello naturale attraverso una crescita

monetaria al tempo t+1 di ampiezza maggiore rispetto all’ “annuncio” al tempo t.

Supponiamo che la banca centrale, dopo avere annunciato l’obiettivo di

crescita monetaria, osservi uno shock di offerta negativo al tempo t. Lo shock µ è

noto alla banca centrale, ma non è noto ai lavoratori nel momento in cui firmano il

contratto salariale sulla base dell’aspettativa di inflazione formatasi al tempo t-1 e

dell’annuncio della banca centrale. I lavoratori assumono che l’inflazione attesa sia

eguale al suo valore corrente ed il valore atteso dello shock esogeno µ è: E(µ)=0.

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Poiché il valore atteso di µ è zero, la varianza è: σ²(μ)=E(µ2)–0=E(µ2). In economia

aperta, i processi inflazionistici “a sorpresa” generati dalle politiche di creazione non-

annunciata di moneta innescano anche un processo di deprezzamento della valuta.

L’incremento del tasso di inflazione non penalizza le merci sui mercati esteri: al

contrario, la perdita di valore della valuta consente un recupero di competitività che

favorisce una ripresa di breve periodo nelle esportazioni.

Questo modello di comportamento delle autorità monetarie è incompatibile con

l’equilibrio macroeconomico che si determina nella teoria del ciclo reale (RBC). Nei

modelli con mercati ispirati alla teoria del ciclo reale, un tasso di disoccupazione

eccessivamente alto ha una sola possibile spiegazione: i fattori istituzionali nel

mercato del lavoro che ne distorcono il funzionamento comprimendo il reddito di

equilibrio ad un livello inferiore a quello implicito nella disponibilità delle risorse. Le

politiche monetarie e fiscali non sono in grado di modificare il livello potenziale

dell’output. Il coefficiente δ, che misura l’ incremento del livello di reddito (e la

diminuzione della disoccupazione) che le autorità monetarie ritengono di potere

conseguire, attribuirebbe indebitamente alla politica monetaria la capacità di

influenzare le grandezze reali.

L’ipotesi δ>1 è invece compatibile con l’equilibrio macroeconomico

determinato nel modello del ciclo con rigidità nominali. Abbandoniamo l’ipotesi che

la banca centrale osservi uno shock e supponiamo invece che i contratti siano

scaglionati nel tempo. Nei modelli con rigidità nominali, la contrattazione sindacale

determina un salario nominale che non può mutare nell’arco temporale della durata

dell’accordo contrattuale. La banca centrale gode perciò del vantaggio di poter dare

avvio ad un’espansione monetaria a salario monetario dato e costante. Qualunque sia

il comportamento delle autorità monetarie - il caso in cui l’accelerazione della

crescita monetaria corrisponda a quella annunciata, oppure il caso in cui la banca

centrale crea ripetutamente una quantità di moneta superiore a quella annunciata - la

presenza di contratti scaglionati impedisce l’immediato adeguamento di salari e

prezzi. La banca centrale annuncia l’obiettivo di crescita monetaria avendo

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l’informazione sui livelli retributivi riportati nei contratti di lavoro firmati dalle

organizzazioni dei lavoratori e degli imprenditori. Il salario nominale è stato

negoziato sulla base delle aspettative di inflazione esistenti e rimarrà in vigore per

tutto il periodo previsto. Una volta ricevuta l’informazione sull’accordo raggiunto

dalle parti sociali, per la banca centrale sorge l’incentivo a mutare la propria

decisione modificando la crescita monetaria in funzione dell’ obiettivo di reddito Y*

fissato nella Loss. Il vantaggio informativo di cui gode l’autorità monetaria si riflette

nell’“incoerenza temporale” che caratterizza la politica monetaria (Kydland e

Prescott, 1977, Barro e Gordon, 1983). È probabile che dopo una fase di

apprendimento gli agenti economici – imprenditori, lavoratori e operatori dei mercati

finanziari – si formino l’opinione che il modello di comportamento delle autorità

monetarie si caratterizza per un maggiore peso dato alla stabilizzazione del valore

“medio” dell’output al prezzo di una più elevata inflazione “media”. Ma l’eventuale

learning della strategia della banca centrale - la conoscenza acquisita dagli agenti

razionali della reiterata strategia di creare moneta in eccesso rispetto all’annuncio -

non è in grado di frapporre un ostacolo all’obiettivo delle autorità monetarie di

elevare il livello di attività economica al di sopra del tasso di disoccupazione

“naturale”.

11. Il settore pubblico

La ricerca storica documenta che in ogni epoca lo Stato ha direttamente partecipato

all’allocazione dei fattori produttivi, oppure ha accompagnato lo sviluppo del settore

privato, definendo la cornice istituzionale che stabilisce i vincoli per le decisioni dei

soggetti che operano nei mercati.

Nel XIX secolo il rafforzamento dell’apparato amministrativo degli Stati

nazionali procedette di pari passo con l’accelerazione dell’espansione del settore

industriale e con la crescente urbanizzazione della popolazione. In Europa, il rapido

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ampliamento della spesa pubblica fu prevalentemente destinato alla produzione dei

beni pubblici basilari (esercito, magistratura, polizia, infrastrutture). Sul finire del

secolo, l’aumento delle dimensioni del settore pubblico ha coinciso con l’estendersi

delle finalità delle istituzioni pubbliche alla solidarietà ed alla protezione sociale. Le

leggi sulle assicurazioni sociali varate in Germania da Bismarck negli anni 1880

vengono ricordate come la nascita dello stato sociale. Una forte accelerazione della

spesa sociale si manifestò negli anni ’30 e poi nel secondo dopoguerra. La

percentuale della spesa pubblica sul PIL nelle 14 maggiori economie industrializzate,

che nel 1870 era in media dell’8%, raggiunse nel 1960 il valore del 30%. Negli ultimi

quattro decenni del Novecento, il fabbisogno delle istituzioni del Welfare ha

rappresentato la componente più dinamica della spesa pubblica complessiva, che ha

così raggiunto in media il 40% del PIL, con picchi superiori al 50% nei paesi

scandinavi.

Le istituzioni sui cui si fonda l’economia di mercato e l’intervento di

regolazione dell’economia da parte dell’operatore pubblico sono riconducibili alle

seguenti tipologie: 1) l’allocazione di risorse nella produzione dei principali beni

pubblici: le infrastrutture di base dello Stato (polizia, magistratura, esercito) e le

opere pubbliche; 2) la stabilizzazione macroeconomica realizzata dalla politica fiscale

del governo; 3) il sistema di istruzione, che viene considerata un bene meritorio, in

molte aree del mondo è organizzato dal settore pubblico, essenzialmente per

l’interesse della collettività a garantire a tutti i cittadini eguale accesso alla

formazione del capitale umano; 4) le assicurazioni sociali, quali sono, in primo luogo,

i sistemi sanitario e pensionistico; 5) la solidarietà sociale organizzata attraverso le

politiche di “pura redistribuzione” consistenti in trasferimenti monetari (sussidi di

disoccupazione e di povertà) e servizi sociali (ad esempio, le politiche di contrasto

dell’esclusione sociale), con finanziamento a carico della fiscalità generale; 6) le

funzioni di controllo e di promozione della concorrenza nei mercati, svolte

dall’Autorità Anti-Trust. In particolare, questa Autorità vigila affinché i processi di

privatizzazione delle imprese di proprietà pubblica e la ricerca di incrementi di

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efficienza attraverso le innovazioni e le economie di scala non sfocino in

concentrazioni monopolistiche tali da distorcere il funzionamento concorrenziale dei

mercati, sia nel settore reale che nel settore finanziario. Nel prosieguo, ometteremo la

trattazione delle istituzioni comprese nei punti 1) e 5), che sono oggetto dell’analisi

microeconomica.

11.1. La politica fiscale di stabilizzazione

La politica fiscale di stabilizzazione macroeconomica è rivolta a contrastare gli shock

temporanei. Allo scopo di evitare che le fluttuazioni cicliche negative finiscano per

avvitare i mercati dei beni di consumo e di investimento in una spirale recessiva,

quale ad esempio quella che ebbe luogo durante la Grande Depressione degli anni ’30

del ‘900, la struttura del bilancio pubblico si è trasformata in modo che la domanda

del settore pubblico possa compensare – attraverso gli stabilizzatori automatici ed

eventuali interventi discrezionali di spesa - una caduta nella domanda del settore

privato causata da uno shock temporaneo di domanda o di offerta.

Il moltiplicatore della spesa pubblica

Procediamo dunque ad inserire l’intervento pubblico nel nostro modello,

approfondendo l’analisi del moltiplicatore del reddito. L’introduzione del settore

pubblico nel modello macroeconomico di breve periodo comporta che nell’equazione

del reddito nazionale si tenga conto della tassazione e della spesa pubblica.

Consideriamo la tassazione (T) una proporzione del reddito (T=τY); il livello della

spesa pubblica (G) e delle esportazioni (E) un dato; il consumo una funzione del

reddito disponibile (C=cYd) definito per differenza tra il reddito e l’imposizione

fiscale (Yd=Y-T); l’investimento una grandezza autonoma (I) e le importazioni (M)

una funzione lineare del reddito (M=α1Y). Sostituendo nell’equazione che descrive la

condizione di equilibrio

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Y = C + I + G + X – M

le componenti della domanda aggregata che dipendono dal reddito interno (Y), si

ottiene:

1

1 ( )1 (1 )

Y G I Xc τ α

= + +− − +

Questa equazione pone il livello del reddito in funzione delle componenti della spesa

autonoma attraverso il moltiplicatore di un’economia aperta, ovvero la frazione al cui

denominatore compaiono la propensione al consumo (c), la proporzione della

tassazione sul reddito (τ) e la propensione all’importazione (α1). La dimensione

dell’incremento del reddito attivato ad esempio da un impulso espansivo della spesa

pubblica dipende positivamente dalla propensione al consumo (c) e negativamente da

τ e da α1. In particolare, la propensione ad importare (α1) ha un effetto riduttivo sulla

moltiplicazione del reddito attivato da un impulso di spesa pubblica. Tale effetto si

spiega con l’apertura agli scambi con l’estero che dirotta dalle imprese nazionali alle

imprese estere una parte dell’effetto moltiplicativo sulla produzione.

Dato il reddito disponibile (Yd), il risparmio privato è il complemento al

consumo: S=Y-T-C. Sostituendo il reddito (Y) con il lato destro della condizione di

equilibrio e riordinando i termini, scriviamo la condizione di equilibrio tra

produzione e reddito in economia aperta e con settore pubblico in modo da

evidenziare la relazione tra risparmi al netto degli investimenti nel settore privato (S-

I), disavanzo del settore pubblico (T-G) e saldo della bilancia commerciale (M-X):

(S - I) + (T - G) + (M - X ) = 0

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Prendendo le mosse dal settore privato, supponiamo che il termine (S-I) sia in

disequilibrio. Un eventuale eccesso del risparmio sugli investimenti (S>I) va a

finanziare – attraverso il sistema bancario e i mercati finanziari - un deficit pubblico

(T<G) e/o un eccesso nell’aggregato degli scambi internazionali di domanda estera

che si rivolge ai beni interni rispetto alla domanda interna di beni esteri (M<X). Per

semplicità, consideriamo che tutto il debito pubblico sia posseduto dai residenti e che

non vi sia un reddito netto da investimenti finanziari all’estero. In altri termini, il

risparmio netto del paese nei confronti del “resto del mondo” coincide con il saldo

primario delle partite correnti. Esattamente come accade nel caso del settore privato e

del settore pubblico, un eventuale disavanzo corrente dei conti primari delle partite

correnti richiederà la formazione di avanzi nei periodi futuri. In un mondo di mercati

globalizzati e in un sistema monetario internazionale incentrato sui cambi flessibili

fra le tre principali valute – dollaro USA, euro e yen – anche il canale dei tassi di

cambio è rilevante ai fini del nesso moneta-reddito. Ad esempio, una manovra di

restrizione monetaria induce un incremento del tasso di interesse e così causa una

preferenza relativa a favore dei depositi denominati in quella valuta; i capitali attratti

nel paese provocano l’apprezzamento della valuta, con conseguente calo delle

esportazioni e quindi del reddito. Così pure, nei mercati finanziari l’equilibrio

dipende dall’incontro fra domanda e offerta di fondi prestabili.

Consideriamo invece il caso in cui le esportazioni nette siano positive:

X – M = NX > 0.

Possiamo interpretare tale eccesso di esportazioni sulle importazioni come

l’esito di un finanziamento del sistema bancario internazionale agli importatori esteri,

che consente loro di effettuare pagamenti pari al valore dei beni acquistati.

Ricordando che in contabilità nazionale un surplus di bilancio pubblico viene definito

risparmio pubblico, pensiamo l’equazione precedente in termini di una eguaglianza

fra investimenti (all’interno ed all’estero) e risparmi (privati e pubblici):

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I+(X-M) = S+(T–G)

che possiamo anche descrivere come l’equilibrio macroeconomico completo (relativo

cioè a tutti e tre i settori privato, pubblico ed estero):

(S - I ) = (G - T) +(X-M)

Definiamo le esportazioni nette: NX = (X-M).

Alle esportazioni nette corrispondono le importazioni nette di capitali (investimenti

stranieri nel paese meno investimenti del paese all’estero): NKI. Quindi: NX = NKI

Negli ultimi decenni, l’incremento della spesa pubblica non ha trovato in molti paesi

un adeguato corrispettivo nell’incremento delle entrate fiscali; si è reso necessario il

ricorso all’indebitamento, con conseguente accumulazione di uno stock di debito

pubblico. Come sappiamo, nel modello IS-LM (dove nel mercato monetario sono

presenti solo moneta e titoli) l’emissione di titoli per il finanziamento della spesa è

una domanda di fondi liquidi che va ad aggiungersi a quella proveniente dalle

decisioni di investimento delle imprese. Il conseguente eccesso di domanda

sull’offerta di fondi liquidi, provocando un innalzamento del tasso di interesse

“taglia” le decisioni di investimento (effetto di “spiazzamento”). Se consideriamo

portafogli composti da tre attività finanziarie (moneta, titoli ed azioni), nell’ipotesi di

alta sostituibilità fra titoli e azioni l’effetto sulle decisioni di investimento non muta:

l’aumento del tasso di interesse si trasmette anche ai rendimenti azionari; al più alto

rendimento corrisponde la discesa delle quotazioni che riduce la convenienza ad

emettere azioni deprimendo l’attività di investimento delle imprese. Nei paesi in cui

ha rilievo la propensione a finanziare il consumo nel mercato del credito

(rateizzazione, etc.), la discesa della domanda aggregata riguarda anche la

componente dei consumi privati. In economia aperta, si determina un ulteriore effetto

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depressivo sulla domanda aggregata: l’aumento del tasso di interesse sui titoli

pubblici indotto dalle emissioni a copertura del deficit genera un afflusso di capitali

dall’estero e il conseguente apprezzamento della valuta ha un impatto riduttivo sulle

esportazioni.

Un forte ricorso del settore pubblico all’indebitamento può dunque causare la

discesa delle tre componenti della domanda aggregata (consumo, investimento ed

esportazioni) e spegnere completamente l’incremento del reddito generato dal

moltiplicatore della spesa pubblica. Inoltre, è possibile che si determini il fenomeno

dei deficit gemelli. A partire da un bilancio pubblico in pareggio, una riduzione delle

tasse in presenza di spesa pubblica costante genera deficit pubblico, ovvero

diminuisce il risparmio pubblico. Nella visione NCE, i soggetti ricardiani

aumenteranno il proprio risparmio. Nella visione NKE, potrebbero anche tagliare gli

investimenti o ridurre le importazioni nette di capitale. Il deficit pubblico dà origine

al deficit estero (deficit gemelli). La discesa del capitale fa salire la PMK ed il tasso

di interesse e declinare la PML ed il salario, con conseguente aggiustamento nelle

decisioni di investimento.

È qui che rilevano gli aspetti istituzionali riguardanti i nessi fra economia reale

e mercati monetari e finanziari e la visione di endogeneità della formazione delle

scorte liquide per effetto della concessione di credito a imprenditori e consumatori. In

un modello di finanziamento del sistema economico imperniato sul credito bancario il

grado di sostituibilità fra obbligazioni ed azioni tende ad essere basso in quanto

moneta e obbligazioni finiscono per formare un unico aggregato. Gli aggiuntivi titoli

emessi per finanziare un’espansione della spesa pubblica hanno in questo caso un

effetto espansivo sul livello del reddito. Infatti, in presenza di un grado di

sostituibilità del debito pubblico maggiore con la moneta che con il capitale

azionario, ad una più elevata quota di titoli pubblici in portafoglio dovrà

accompagnarsi un corrispondente adeguamento verso l’alto della quota di azioni. Tale

aggiuntiva domanda di azioni provoca una salita delle quotazioni di borsa (e la

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correlata riduzione dei tassi di rendimento azionario) che agisce da stimolo sulle

decisioni di investimento delle imprese che si finanziano nel mercato dei capitali.

Pertanto, l’espansione della spesa pubblica in deficit causerà un “effetto

spiazzamento” di ampiezza inferiore a quello del modello di finanziamento in cui

obbligazioni ed azioni formano un unico aggregato.

"Equivalenza ricardiana” ed effetti non-keynesiani della politica fiscale

È giunto il momento di superare lo schema analitico nel quale è solo il reddito

corrente ad influenzare il consumo. Nella realtà, il soggetto massimizza il suo

benessere attraverso la scelta del paniere di consumo corrispondente alle sue

preferenze su un arco temporale pluriperiodale. I piani di consumo dei soggetti

vengono decisi in relazione al reddito permanente, che si definisce come il valore

medio annuale del flusso di reddito atteso lungo tutto il periodo di vita: in breve, lo

stock di ricchezza dell’individuo. Il piano di consumo risultante dalla tangenza del

vincolo intertemporale di bilancio costituito dal valore attualizzato dei flussi di

reddito futuro atteso con la curva di indifferenza più elevata rappresenta la

combinazione di consumo presente e di consumo futuro che rende massima la

soddisfazione dell’individuo.

Nell’equazione del “moltiplicatore” la propensione al consumo dei soggetti è

uno dei parametri che legano un impulso di spesa pubblica alla moltiplicazione del

reddito. Come si interrelano allora settore privato e settore pubblico riguardo alla

formazione della complessiva domanda di consumo in una prospettiva

pluriperiodale? Analizziamo l’approccio alla politica fiscale basato sulla teoria dell’

“equivalenza ricardiana”. Le ipotesi sono le seguenti: i soggetti hanno vita infinita; i

mercati dei capitali sono perfetti; la capacità previsionale dei soggetti è perfetta; la

tassazione, per non risultare troppo distorsiva, è a somma fissa.

Presentiamo ora le equazioni che esprimono il vincolo intertemporale di

bilancio del settore privato e del settore pubblico su un arco temporale ridotto per

semplicità a due anni (i valori del secondo periodo sono attualizzati al presente). Per

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il settore privato, tenendo presente che il consumo dipende dal reddito disponibile al

netto delle tasse, il vincolo di bilancio intertemporale relativo a due periodi è espresso

dall’equazione (12.4) dove la somma di consumo presente e consumo futuro del

consumatore “rappresentativo” eguaglia la somma del reddito disponibile dei due

periodi (t=1,2):

(12.4) rTYTY

rCC

+−

+−=+

+1

)(1

2211

21

Per il settore pubblico, esprimiamo il vincolo nei termini dell’eguaglianza fra la spesa

pubblica presente e futura e le entrate fiscali dei due periodi:

(12.5) rTT

rGG

++=

++

112

12

1

Nel caso in cui un incremento di spesa pubblica venga finanziamento con emissione

di titoli invece che con le tasse, i soggetti ritengono che una eventuale variazione

dello stock di debito pubblico posseduto in portafoglio non rappresenti una effettiva

variazione della loro ricchezza. La consapevolezza che lo Stato, per essere in grado di

restituire il debito contratto con il settore privato, dovrà aumentare le tasse, li induce

infatti a non considerare il valore dei titoli pubblici una aggiunta alla loro dotazione

di ricchezza. Troviamo conferma analitica di questa visione sommando i due vincoli

di bilancio della (12.4) e della (12.5):

(12.6) rGYGY

rCC

+−

+−=+

+1

)(1

2211

21

Come si vede, nell’equazione non compare il finanziamento della spesa pubblica: il

consumo (valore presente e valore futuro attualizzato) risulta eguagliare la differenza

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fra reddito e spesa pubblica (valore presente e valore futuro attualizzato). La

spiegazione è appunto che non conta il modo in cui la spesa pubblica viene

finanziata: nel periodo t, la spesa pubblica può essere finanziata con tassazione,

oppure, alternativamente, con l’emissione di titoli. I soggetti “ricardiani” sono

razionali e in seguito ad un aumento di valore (aumento del prezzo o della quantità)

dei titoli pubblici detenuti in portafoglio non adeguano verso l’alto i piani di consumo

in quanto non si sentono più ricchi. Infatti, essi prevedono un aumento della

tassazione nei periodi futuri, e quindi il reddito permanente (calcolato su due periodi)

non subisce variazioni.

Con il primo tipo di finanziamento (tasse), la copertura della spesa avviene in ciascun

periodo (equazione 12.5); con il secondo tipo di finanziamento (emissione di titoli:

B=G), il reddito verrà decurtato domani dalle tasse future:

T1=0 e T2=B(1+r)+G2.

I piani di consumo non vengono modificati né nel periodo t né nel periodo t+1 ed il

moltiplicatore della spesa pubblica risulta pari a zero. Pertanto, l’equivalenza

ricardiana non riconosce né il sostegno di breve periodo alla stabilità

macroeconomica svolto dal moltiplicatore della spesa pubblica né il sostegno alla

formazione del reddito svolto nel lungo periodo dalla produzione dei beni pubblici, in

primo luogo le infrastrutture e la formazione del capitale umano.

All’“equivalenza ricardiana” viene mossa la critica di non essere valida se i

soggetti sono vincolati nel consumo a causa del basso reddito. Per realizzare i piani di

consumo, non potendo offrire beni in garanzia (collateral) a fronte di un prestito,

questi soggetti sono costretti a pagare alti tassi di interesse (se poi le banche seguono

una politica di “razionamento” del credito a tasso costante, le loro richieste di prestito

saranno certamente respinte) (Stiglitz e Weiss, 1981). Qualora la spesa pubblica non

sia finanziata con la tassazione ma a copertura del deficit vengano emessi titoli

pubblici, i soggetti con vicoli di liquidità sono avvantaggiati. La ragione è che i tassi

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di interesse sui titoli pubblici sono inferiori ai tassi sopportati dai privati nel momento

in cui accendono un mutuo (di norma, la solvibilità di uno Stato sovrano è ritenuta

superiore a quella di un privato). È “come se” il governo “aiutasse” i soggetti privati

ad ottenere dalle banche un finanziamento allo stesso tasso di interesse che esse

praticano al governo. Ad essere avvantaggiati dal finanziamento in titoli pubblici

saranno soprattutto i soggetti a basso reddito, il cui consumo sarà più ampio nel caso

di finanziamento in titoli che nel caso di finanziamento mediante la tassazione. Ad

esempio, il consumo del disoccupato al netto della spesa per interessi è maggiore nel

caso in cui il finanziamento sia costituito dal sussidio di disoccupazione che nel caso

di ricorso al credito bancario. Contrariamente all’equivalenza ricardiana, almeno

sotto il profilo della distribuzione del reddito, la modalità di finanziamento non è

irrilevante ed il moltiplicatore della spesa pubblica presenta un valore positivo.

Il livello di reddito dei soggetti ed il “vincolo di liquidità” in cui i loro piani di

consumo possono incorrere hanno anche rilievo riguardo all’influsso del tasso di

interesse sulla distribuzione del consumo fra presente e futuro. L’impatto di un

aumento del tasso di interesse sulla spesa di consumo dipende infatti dalla circostanza

di finanziare tale spesa con il proprio risparmio oppure con il ricorso al credito. Il

segno di tale impatto è comunque di difficile determinazione.

Nell’originaria funzione del consumo introdotta da Keynes, fondata sul reddito

corrente, un aumento del tasso di interesse avvantaggia i risparmiatori-prestatori (che

incrementeranno il consumo) e penalizza i consumatori-debitori (che ridurranno il

consumo a causa di un ammontare di pagamenti per interessi più elevato).

Nell’aggregato, si realizza una redistribuzione di reddito a favore dei soggetti a più

alto reddito, e quindi a minore propensione al consumo, con conseguente effetto

deflazionistico sulla domanda aggregata. Nella prospettiva intertemporale fondata sul

reddito atteso nei periodi futuri, l’impatto delle variazioni del tasso di interesse sul

consumo è più complesso. L’impatto, ad esempio, di un aumento del tasso di

interesse è la risultante di due effetti ambedue di segno incerto: 1) l’effetto reddito,

che è diverso nel caso dei creditori (che aumentano il consumo presente e futuro) e

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dei debitori (a fronte della decurtazione del reddito causata dai più ingenti esborsi per

interessi, questi soggetti ridurranno il consumo presente); 2) l’effetto sostituzione che

induce il consumatore a ridurre il consumo presente perché è aumentato il costo del

credito potrebbe causare una riduzione della domanda nel presente; ma il tasso di

interesse rappresenta il prezzo intertemporale del consumo, cosicché la caduta del

reddito futuro potrebbe generare un effetto riduttivo sul consumo futuro ancora più

rilevante. Pertanto, l’impatto complessivo di un aumento del tasso di interesse sulla

spesa di consumo risulta essere incerto.

La teoria dell’ “equivalenza ricardiana” è la principale fra le ipotesi su cui si

fonda la tesi dei cosiddetti “effetti non-keynesiani” della politica fiscale. Dopo una

riduzione della spesa pubblica che modifichi le loro previsioni sul reddito

permanente, i soggetti razionali “ricardiani” –- possono avere l’aspettativa di una

riduzione delle tasse. La condizione è la seguente: il “taglio” della spesa pubblica

deve essere percepito dai soggetti come permanente. Tale percezione ha luogo in

particolare quando la spesa pubblica è di tipo strutturale e la sua riduzione è

sostanzialmente irreversibile (ad esempio, una riforma delle pensioni). La restrizione

fiscale – permettendo di realizzare una decumulazione di debito pubblico - crea

l’aspettativa di un ridimensionamento del settore pubblico e quindi di un sentiero

declinante della tassazione futura. Il reddito permanente più elevato indurrà i soggetti

ad aumentare il proprio consumo. L’effetto sul reddito di una variazione della fiscal

stance in senso restrittivo sarebbe dunque opposto rispetto alla visione keynesiana. È

robusta questa tesi di fronte ad un rilassamento dell’ ipotesi di “equivalenza

ricardiana”? In altre parole, se aumentiamo il grado di realismo del complesso di

ipotesi che fondano l”equivalenza ricardiana” - ad esempio, supponendo che un certo

numero di soggetti siano vincolati nel consumo a causa delle condizioni imperfette

del mercato del credito sopra dette - si ottiene ancora il risultato non-keynesiano di un

aumento della domanda privata come conseguenza di una contrazione della spesa

pubblica?

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Sembra che la risposta debba essere negativa. Nei modelli che ipotizzano la

presenza di una certa quota di soggetti non-ricardiani all’interno della popolazione,

ad una contrazione fiscale non conseguono di norma risultati non-keynesiani. Si può

dimostrare che quanto più alta è la percentuale di soggetti non-ricardiani, quanto più

basso il tasso di sconto sul consumo futuro (i consumatori sono poco impazienti) e

quanto più bassa nella percezione dei soggetti è la persistenza della spesa pubblica da

un periodo all’altro, tanto meno è probabile che si riscontri un effetto non-keynesiano

della politica di spesa pubblica (Creel et al., 2005). L’evidenza empirica di effetti

non-keynesiani delle politiche di decumulazione del debito pubblico è finora

piuttosto ridotta, in ciò rispecchiando la particolarità delle ipotesi sotto le quali è

contemplabile il loro manifestarsi.

Il vincolo intertemporale del bilancio pubblico

Approfondiamo ora l’analisi del vincolo del bilancio pubblico, considerando – oltre

alla tassazione – anche il finanziamento in moneta e titoli. Nell’equazione che segue,

tale vincolo viene espresso mediante l’eguaglianza fra disavanzo e suo

finanziamento:

(12.7) ( ) dtdMdtdBiBTG // +=+−

dove G è la spesa pubblica in beni e servizi, T è il gettito fiscale, i è il tasso di

interesse nominale sul debito pubblico, B è il debito pubblico, dB/dt è la derivata

prima rispetto al tempo dello stock di titoli pubblici e dM/dt è la derivata della

quantità di moneta rispetto al tempo, ed esprime la quota di deficit pubblico che viene

finanziata con l’espansione di base monetaria attraverso l’acquisto di titoli pubblici

da parte della banca centrale.

L’espansione della spesa pubblica, non accompagnata da un proporzionale

incremento della tassazione, ha determinato in molte economie avanzate

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l’accumulazione di uno stock di debito pubblico. Pertanto, esprimiamo il vincolo del

bilancio pubblico nel periodo t con l’equazione:

(12.8) ( ) ( )11 )(1 −− −−−−+= ttttttt MMGTBiB

Essa indica che la variazione del debito pubblico (nel periodo t rispetto al periodo t-1)

sarà positiva se lo stock di debito ereditato dal periodo precedente - comprensivo

della spesa per gli interessi su tale ammontare di debito - non sarà eguagliato dalla

somma algebrica fra la differenza fra spesa pubblica ed entrate fiscali e la variazione

della quantità di moneta. Eliminando la notazione di tempo ed annullando il

finanziamento in moneta (abolito nel corso degli ultimi decenni nelle economie

avanzate), risulta che la variazione del debito sarà positiva o negativa a seconda che

la somma algebrica fra saldo primario (G – T) e spesa per interessi (iB) sia positiva o

negativa:

(12.9) iBTGB +−=∆

Per normalizzare le poste della finanza pubblica fra paesi di dimensioni diverse, e

quindi di diversa ampiezza assoluta del PIL, si suole considerare deficit e debito

pubblico come percentuali del PIL. Deriviamo totalmente B/Y, ottenendo:

(12.10) dYYBdB

YYBd

−+=

2

1

il che equivale ad esprimere il lato destro della (12.7), una volta annullato il

finanziamento in moneta, in termini di differenze:

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(12.11) YY

YB

YB

YB ∆

−∆

=

Ponendo b=B/Y e g=∆Y/Y, si ottiene:

(12.12) bgYBb −

∆=∆

Sostituendo la (12.9) nella (12.12) si ottiene:

(12.13) bgY

TiBGb −−+

=∆

Ponendo γ=G/Y e τ=T/Y, si ricava:

(12.14) bgib )( −+−=∆ τγ

Questa equazione evidenzia la questione fondamentale che sta alla base del

concetto di sostenibilità del debito pubblico, ovvero il cosiddetto “effetto palla di

neve” (snowball effect). Sottraendo il tasso di inflazione (π) sia dal tasso di interesse

nominale (i) che dal tasso di crescita del reddito nominale (g) si ottengono,

rispettivamente, (r) ed (x). Un eccesso del tasso di interesse reale (r) rispetto al tasso

di crescita reale (x), benché esprima la condizione di efficienza dinamica del sistema

economico (in breve, la crescita economica è garantita, in quanto l’attività di

investimento è sostenuta da un tasso di rendimento del capitale che è più alto del

tasso a cui cresce l’economia), mette a rischio la sostenibilità del debito pubblico.

L’autorità fiscale è costretta a ricorrere a nuove emissioni di titoli, aggravando il

problema del debito pubblico. Intuitivamente, al dato valore di b l’ammontare delle

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risorse necessarie a finanziare la spesa annua per interessi risulta essere di ampiezza

maggiore rispetto alle risorse aggiuntive che si rendono disponibili nel periodo. Se

infatti il tasso di interesse eccede il tasso di crescita dell’economia, il rapporto debito

pubblico / PIL è destinato a crescere, perché le risorse aggiuntive che vengono a

formarsi in ogni anno non generano entrate fiscali in misura sufficiente a finanziare i

deficit primario (D1) e secondario (D2), è inevitabile procedere a nuove emissioni di

titoli pubblici. La credibilità di un programma di riduzione del debito pubblico

dipende quindi molto dalla capacità di crescere dell’economia, in modo che il

governo non debba ricorrere al mercato finanziario e cioè all’emissione di nuovi titoli

per coprire i deficit primario (D1) e secondario (D2).

Il cosiddetto Ponzi Game rappresenta il caso estremo di insostenibilità

prospettica di una posizione debitoria. Ponzi è il nome del banchiere che, nella

Boston dei primi anni Venti del secolo scorso, inventò uno schema di investimento

finanziario ad alto rischio: gli interessi sulle somme prestate venivano pagati con le

somme ricevute dai nuovi investitori. Ponzi trascinò con sé in una rovinosa

bancarotta migliaia di risparmiatori americani. Molti suoi emuli hanno fatto lo stesso

in Europa, anche in tempi recenti (si pensi alle crisi bancarie, come la “corsa agli

sportelli” della Northern Bank, al fallimento della banca franco-belga Dexia, al

virtuale fallimento della Bankia, salvata dal governo spagnolo, e agli scandali

finanziari causati dalla City nel Regno Unito, e da imprese produttive come la

Parmalat e la Cirio in Italia). Al pari dei soggetti del settore privati, neppure i governi

sono immuni dalla tentazione di volere condurre un Ponzi Game. Esempi recenti sono

l’Argentina e la Grecia. Il governo argentino ha fatto ricorso nel 2001 al ripudio del

proprio debito pubblico, una significativa quota del quale era detenuto da

risparmiatori stranieri, dando poi vita ad una lunga trattativa che ha condotto ad una

restituzione del prestito ai creditori (banche, fondi pensione, risparmiatori, etc.) pari a

circa il 30% del valore nominale. Il caso della Grecia è un po’ diverso. Il governo

greco nella prima metà ha occultato molte poste di spesa pubblica, comunicando dati

inesatti di bilancio pubblico all’agenzia ufficiale di statistica della Commissione

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Europea. Quando è scoppiata la crisi finanziaria, ad ancora più quando la

conseguente recessione ha prosciugato il danaro nelle casse dello stato, la Grecia ha

dovuto dare conto dei dati effettivi di bilancio per ricevere gli aiuti dell’EFSF

(European Financial Stability Fund), il fondo salva-stati dell’Eurozona. L’evidente

impossibilità che la debole economia del paese potesse generare in futuro surplus di

bilancio pubblico tali da riassorbire l’ingentissimo debito pubblico accumulato ha

indotto la Commissione Europea ad imporre alla Grecia un accordo nel quale

l’erogazione di fondi è stata subordinata a drastiche riforme (a cominciare dal

ridimensionamento del settore pubblico ed a un taglio medio del 30% agli stipendi

pubblici)e ad un hair-cut, ovvero un taglio del debito pubblico (con parziale recupero

del danaro investito nei titoli greci garantito solo ai prestatori privati). Considerando

la gravità della crisi economica, con tassi di crescita del PIL ancora negativi, è

probabile che la Grecia non sia in grado di annullare il notevole ammontare di debito

pubblico ancora in essere.

Nel marzo 1933, nel corso della Grande Depressione che seguì il crollo di Wall

Street dell’ottobre 1929, il presidente degli Stati Uniti F.D. Roosevelt presentò una

"Legge bancaria d'emergenza", che venne subito approvata dal Congresso. Essa

rendeva possibile anche delle ristrutturazioni fallimentari con la cancellazione delle

esposizioni speculative delle banche. Anzitutto fu creata e applicata la legge Glass-

Steagall che separava le banche commerciali da quelle di investimento con il divieto

di utilizzo dei risparmi dei cittadini per operazioni fatte nell'interesse delle banche. Fu

inoltre creata la Federal Deposits Insurance Corporation, a cui oggi l'Europa vorrebbe

ispirarsi, che dava la garanzia dello Stato ai risparmi delle famiglie e dei privati.

Venne riorganizzata la Reconstruction Finance Corporation, istituzione statale fino ad

allora utilizzata per il salvataggio delle banche decotte, e trasformata in una specie di

fondo di sviluppo per l'emissione a lungo termine di crediti per la "ripresa

economica", per gli investimenti in infrastrutture e per la creazione di posti di lavoro.

Purtroppo, poco è stato fatto – negli Stati Uniti ed in Europa – per rafforzare la

regolamentazione dell’attività delle banche e elle Borse, per riformare a legislazione

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59

sugli istituti finanziari che hanno dato origine alla crisi e per combattere l’attuale

recessione.

L’equazione contiene anche altri due aspetti del problema della sostenibilità del

debito pubblico. Il primo è che una eventuale differenza positiva fra tasso di interesse

e tasso di crescita è tanto più grave quanto elevato è il valore di b (con un rapporto

pari al 100%, un punto di eccesso del tasso di interesse si scarica in un punto in più di

debito pubblico in rapporto al PIL. Il secondo è il seguente. Definendo il debito

pubblico come:

bt - bt-1 = ( it – gt) bt-1 + D1

affinché lo stock di debito rispetto al PIL sia almeno stabilizzato – e cioè: bt - bt-1 = 0

- è necessario che il lato sinistro dell’equazione sia pari a zero. Ovvero che, nel caso

di valore positivo del primo termine a causa di un eccesso del tasso di interesse sul

tasso di crescita, il surplus primario strutturale (il saldo di bilancio al netto delle

variazione di breve periodo indotte dalle fasi cicliche di espansione e di riduzione del

PIL) sia tale da generare nel secondo termine il valore negativo di ampiezza

sufficiente a validare il segno di eguaglianza con il lato destro.

Pertanto, la sostenibilità del debito pubblico dipenda sia dal’evoluzione del

PIL, sia dall’accumulazione di debito pubblico avvenuta in passato, sia

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60

dall’andamento dei deficit primario e secondario.

La Tabella qui sopra disaggrega le diverse fonti di alimentazione del debito pubblico

nei paesi dell’Eurozona a 12 paesi (prima cioè dell’ingresso di Malta, Cipro,

Slovenia, Slovacchia, Estonia). Prendiamo l’esempio dell’Itaia: dal 2002 al 2007

dalla tabella risulta una variazione in aumento del rapporto debito pubblico /PIL (-

1,6%). Tale valore risulta dalla somma algebrica fra l’apporto riduttivo sul debito

pubblico (alla scadenza, è possibile ripagare l’importo dei titoli di debito pubblico,

senza doverli nuovamente emetterli) determinato dalle aggiuntive entrate fiscali

generate dalla crescita del PIL (1,4%) e da altre voci (1,8%) da un lato, ed i deficit

primario (- 0,9%, ovvero entrate fiscali inferiori alla spesa pubblica) e secondario (il

valore della spesa per interessi pari al 4%) dall’altro. Poiché l’apporto riduttivo sul

debito pubblico (3,2%) è inferiore alla spesa per interessi (4%), fra 2002 e il 2007 si è

determinato un incremento del rapporto debito pubblico /PIL pari a -1,6%.

Possiamo anche aggiungere che in Europa, negli anni ’70 e ’80, oltre alle due

suddette fonti di incremento del rapporto debito pubblico/PIL (un aumento del deficit

primario ed un eccesso del tasso di interesse nominale rispetto al tasso di crescita del

reddito nominale), anche l’alta inflazione ha giocato un ruolo nell’andamento di

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deficit e debito pubblico. Considerando che il tasso di crescita (g) consta di una

componente reale (x) e di una componente monetaria (π): g=x+π e tenendo conto

dell’equazione di Fisher: r=i-πe, poniamo eguale a zero il tasso di crescita

dell’economia (x), in modo da isolare l’impatto dell’inflazione sulla dinamica del

debito pubblico. Dall’equazione (12.14) si ottiene il vincolo del bilancio pubblico

espresso in termini reali:

(12.15) ( )ππτγ −++−=∆ erbb

L’equazione (12.15) esplicita questa terza fonte di incremento del rapporto debito

pubblico / PIL: πe>π. Contrariamente all’ipotesi di aspettative razionali, il tasso di

inflazione che effettivamente si realizza ex post può discostarsi per difetto dal tasso

atteso. Quando le aspettative di inflazione non si realizzano perché il tasso di

inflazione ex post risulta superiore all’inflazione attesa, la tassa da inflazione (una

forma di signoraggio) riduce il valore reale del debito pubblico; ma se le aspettative

di inflazione non si realizzano perché il tasso di inflazione ex post risulta inferiore

all’inflazione attesa, il governo ha aumentato il tasso di interesse nominale in una

misura superiore all’incremento da riconoscere ai possessori del debito pubblico. Di

conseguenza, le emissioni di nuovi titoli a copertura della spesa per interessi sono in

eccesso rispetto all’effettivo bisogno, provocando un incremento non dovuto dello

stock di debito pubblico.

Vediamo ora come si misura la sostenibilità di lungo periodo del debito

pubblico.

In base alle equazioni (12.14) e (12.15) formuliamo ora il vincolo del bilancio

pubblico in termini reali:

(12.16) ( ) ( )tttt brb γτ −−+= −11

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Risolvendo per bt-1 ed iterando per i periodi successivi, dopo k iterazioni si ottiene il

VIBP:

(12.17) ( ) ( ) ( ) ktk

it

ik

it brvrb +

−+

=

+++=∑ 110

dove alla differenza fra entrate ed uscite fiscali (al netto della spesa per interessi) è

sostituito il simbolo del saldo di bilancio primario rispetto al PIL v (se maggiore di

zero, il saldo si definisce surplus). La spia del problema della sostenibilità risiede

nella presenza del termine b nel secondo termine del lato destro dell’equazione: nulla

garantisce che non possa aumentare. L’equazione non vincola infatti b per ogni

valore del programmato surplus v nel primo termine. Il soddisfacimento del vincolo

intertemporale del bilancio pubblico è rispettato se e soltanto se – oltre gli importi

della serie futura dei surplus di bilancio primario ititit +++ −= γτν che compaiono al

primo termine sono opportunamente commisurati ai valori dei tassi di interesse e di

crescita - vale anche la “condizione di trasversalità”, che esclude per ipotesi ogni

eventuale incremento di b causato dall’ eccedenza del tasso di interesse sul tasso di

crescita. In breve, non è possibile programmare l’ampiezza dei surplus in modo tale

da finanziare anche il deficit aggiuntivo provocato da tale eventuale eccedenza. Tale

condizione consiste nell’azzeramento del valore del secondo termine sul lato destro

della (12.17) all’avvicinarsi del tempo all’infinito ( ∞→k ):

(12.18) ( ) 01lim =+ +−

∞→ ktk

kbr

Quando il debito pubblico in rapporto al PIL aumenta nei periodi t+k ad un tasso

inferiore al fattore di sconto 1+r la “condizione di trasversalità” è soddisfatta. Si noti

che l’analisi intertemporale del vincolo del bilancio pubblico presuppone la validità

dell’“equivalenza ricardiana”: soggetti ricardiani che “internalizzano” il valore

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presente del vincolo di bilancio ed il soddisfacimento della condizione di

trasversalità. Dopo un impulso di politica fiscale, la mancata modifica dei piani di

consumo fa sì che il moltiplicatore della spesa pubblica sia pari a zero.

Riscriviamo la (12.17) aggiungendo, nell’equazione (12.19), il segno di

disuguaglianza. Ciò riflette l’esistenza di due diverse possibili strategie a disposizione

dell’autorità fiscale nel perseguimento dell’obiettivo della decumulazione del debito

pubblico:

(12.19) ( ) ( ) ( ) ktk

it

ik

it brvrb +

−+

=

+++≥∑ 110

Assumiamo che il secondo membro sul lato destro sia pari a zero, cosicché la

“condizione di trasversalità” sia rispettata. Poniamoci la seguente domanda: il valore

attualizzato al presente dei surplus futuri in rapporto al PIL che compare al primo

termine deve essere di ampiezza tale da ripagare completamente il debito pubblico in

essere al tempo t? In altre parole, l’equazione (4.19) deve essere necessariamente

soddisfatta con il segno di uguaglianza, oppure è ammissibile anche il segno di

disuguaglianza?

Distinguiamo due posizioni teoriche:

1) nella visione NCE, soprattutto nella versione RBC dove le tasse sono

sempre distorsive e la gran parte della spesa pubblica è considerata un “male

pubblico”, l’obiettivo deve essere il completo “ritiro” del debito. Deve quindi valere

il segno di eguaglianza a zero: 0=tb . In altri termini, il governo deve programmare

una serie di surplus futuri tale da produrre l’azzeramento del debito pubblico;

2) nella visione NKE, un valore positivo del rapporto debito pubblico / PIL non

è di per sé una minaccia per l’equilibrio macroeconomico. L’intervento pubblico non

si giustifica soltanto in base al contributo della spesa pubblica alla stabilizzazione di

breve periodo del reddito dopo uno shock negativo. Le politiche pubbliche

sostengono la crescita nel lungo periodo: quanto maggiore è la qualità dell’intervento

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pubblico nell’economia, tanto maggiore il contributo che la spesa pubblica dà alla

TFP, alla crescita del capitale umano attraverso il sistema educativo, alla sostenibilità

del sistema pensionistico pubblico, date le condizioni demografiche, e della sanità

pubblica, dato il grado di protezione sociale desiderato dai cittadini.

Tuttavia, al pari di quanto vale nel caso delle imprese private, il bilancio del settore

pubblico con il settore creditizio e finanziario può presentare un saldo negativo, ma la

questione della solvibilità non può essere elusa. Benché sia difficile quantificare in un

“numero magico” l’obiettivo di abbattimento del debito pubblico, un valore-limite

per la consistenza dello stock di debito pubblico (b*) è indispensabile. Da tale valore

discende infatti il rating assegnato al paese emittente dalle agenzie internazionali di

valutazione. Nell’attuale contesto di mercati finanziari globalizzati, la valutazione

delle attività finanziarie emesse dai governi dei paesi ad alto debito pubblico – e

quindi il “premio per il rischio” da cui dipende il tasso di interesse da riconoscere ai

risparmiatori che le detengono in portafoglio - sono legati alla credibilità dei piani di

decumulazione. In definitiva, la visione NKE propone la riduzione del debito

pubblico fino a quel valore predefinito, che è considerato – nelle date condizioni

dell’equilibrio macroeconomico del paese - il massimo tollerabile stock di debito

pubblico.

Tuttavia, al pari di quanto vale nel caso delle imprese private, il bilancio del settore

pubblico con il settore creditizio e finanziario può presentare un saldo negativo, ma la

questione della solvibilità non può essere elusa. Benché sia difficile quantificare in un

“numero magico” l’obiettivo di abbattimento del debito pubblico, un valore-limite

per la consistenza dello stock di debito pubblico (b*) è indispensabile. Da tale valore

discende infatti il rating assegnato al paese emittente dalle agenzie internazionali di

valutazione. Nell’attuale contesto di mercati finanziari globalizzati, la valutazione

delle attività finanziarie emesse dai governi dei paesi ad alto debito pubblico – e

quindi il “premio per il rischio” da cui dipende il tasso di interesse da riconoscere ai

risparmiatori che le detengono in portafoglio - sono legati alla credibilità dei piani di

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decumulazione. In definitiva, la visione NKE propone la riduzione del debito

pubblico fino a quel valore predefinito, che è considerato – nelle date condizioni

dell’equilibrio macroeconomico del paese - il massimo tollerabile stock di debito

pubblico: *bbt = .

Regole di politica fiscale

Così come le autorità monetarie possono legare la propria funzione di comportamento

ad una regola di politica monetaria (la Regola di Taylor), i governi variano la fiscal

stance in base a diverse concezioni del ruolo della politica fiscale.

A scopi puramente didattici, ovvero al di là della scarsa applicabilità alla realtà

di profonda crisi che i bilanci pubblici dei governi dell’Eurozona stanno

attraversando, esporremo due regole fiscali (in mancanza di locuzioni italiane entrate

nell’uso, le indichiamo unicamente con i termini inglesi):

1) il perseguimento di una fiscal stance ispirata al Tax Smoothing (TS), che

riflette l’approccio teorico della NCE;

2) il perseguimento di una fiscal stance che definiremo Expenditure Smoothing

(ES), che si ispira all’approccio teorico della NKE.

Il Tax Smoothing (Barro, 1979) è oggi l’approccio dominante in letteratura.

L’obiettivo della politica fiscale consiste in una politica del bilancio pubblico che

interferisca il meno possibile con il funzionamento dei mercati. A tal fine, la politica

fiscale deve seguire i seguenti precetti: a) il saggio di tassazione (τ = T/Y) deve essere

mantenuto tendenzialmente costante; b) il bilancio pubblico va mantenuto in pareggio

come valore medio, azzerando nel medio periodo le oscillazioni del saldo che si

determinano nel corso del ciclo economico. La politica di stabilizzazione va di

conseguenza circoscritta all’operare degli stabilizzatori automatici escludendo il

ricorso alle manovre discrezionali.

Il saldo del bilancio primario rispetto al PIL (vt) sia così definito:

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(12.20) )( ttt

ttt Y

GTγτν −=

−=

dove T sono le entrate fiscali, G è la spesa pubblica, Y il PIL, τ = T/Y è il rapporto

tassazione / PIL e γ = G/Y il rapporto spesa pubblica / PIL. La variazione del rapporto

surplus/PIL implicata da tale regola fiscale è:

(12.21) )(1

ttt

ttt g

YGT

γτν −=∆−∆

=∆−

L’ammontare di surplus di bilancio pubblico primario che si viene a formare nel

corso di una fase ciclica di espansione del reddito (g) – anche nel caso risulti

superiore rispetto al suo valore potenziale (g*) – va accantonato per essere utilizzato

nella successiva fase negativa del ciclo economico. Nel corso di una recessione,

l’operare degli stabilizzatori automatici potrà così essere completamente finanziato

con risorse già disponibili, evitando che la riduzione delle entrate fiscali e

l’incremento delle spese sociali causate dalla diminuzione del reddito (ad esempio, i

sussidi di disoccupazione) aprano un deficit di bilancio. Questa concezione della

fiscal stance, ispirata alla NCE, non è esente da problemi. Come vedremo nel

Capitolo 9, la sua attuazione può inserire una distorsione deflazionistica nella

governance macroeconomica.

L’Expenditure Smoothing è così sintetizzabile. In un’economia di mercato

l’incertezza sul futuro causa l’instabilità della domanda aggregata (Keynes, 1936).

Una normale fluttuazione del reddito può trasformarsi in una recessione prolungata,

con effetti negativi duraturi sulle determinanti della crescita (Galì, 2005; van der

Ploeg, 2005). Per evitare che una recessione sfoci in un equilibrio di isteresi, con

conseguente incremento del NAIRU, la politica fiscale non può consistere

unicamente nell’operare degli stabilizzatori automatici. Gli investimenti pubblici

rappresentano un sostegno alla crescita di lungo periodo e vanno quindi scorporati dal

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calcolo sul saldo di bilancio (la cosiddetta “regola aurea” di politica fiscale) in quanto

non inficiano la sostenibilità fiscale. La variazione del rapporto surplus/PIL implicata

da questa regola fiscale – in presenza di una crescita al tasso potenziale (il valore di

trend g*) – è la seguente:

11 *'' −− −=∆ ttt ggv γτ

Questa equazione dice che dal volume delle entrate determinato dal prodotto fra τt-1

ed il tasso di crescita dell’economia g va sottratto il prodotto fra tasso di crescita

potenziale e quota di spesa pubblica sul PIL nella proporzione del coefficiente γt-1. In

ciascun periodo, infatti, la spesa pubblica va determinata in modo da preservare una

proporzione costante con il trend di crescita del PIL. L’obiettivo consiste nel garantire

che beni pubblici e meritori si mantengano in linea con l’espansione del sistema

economico (von Hagen e Bruckner, 2002).

Inoltre, ogni aggiuntivo surplus di bilancio pubblico che si venga a formare nel

corso di una fase ciclica di espansione del reddito al di sopra del valore di trend (g >

g*) va destinata al finanziamento delle manovre di politica fiscale discrezionale. La

giustificazione teorica di un orientamento pro-ciclico della politica fiscale anche in

una fase di espansione risiede nella presenza di disoccupazione strutturale.

L’approccio keynesiano attribuisce infatti alla politica fiscale il compito di ridurre la

disoccupazione strutturale. La concezione keynesiana della fiscal stance non è di

facile attuazione. Il principale problema consiste nelle voci di spesa pubblica da

privilegiare, allo scopo di garantire un incremento del capitale umano che permetta

l’assorbimento della disoccupazione strutturale e di evitare che sprechi si

accompagnino alla gestione politica dei fondi pubblici.

In sintesi, le due regole fiscali determinano variazioni della fiscal stance il cui

valore è positivo o negativo in relazione al valore che assume la differenza fra la

variazione del surplus risultante dalla crescita del reddito e la sommatoria delle

grandezze in parentesi quadra (le suddette modalità di impiego del surplus che

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caratterizza ciascuna regola fiscale). Un valore positivo della differenza indica una

restrizione fiscale: non tutto il surplus che si è venuto a creare nel periodo viene

speso. Mentre un valore negativo indica un’espansione fiscale, ovvero un ammontare

superiore rispetto al surplus che si è venuto a creare nel periodo viene speso.

Scriviamo la variazione della fiscal stance che esprime la Tax Smoothing (equazione

12.22) e la Expernditure Smoothing (equazione 12.23) al netto della spesa per

interessi:

(12.22) [ ]1 1 2 1( ) * ( *) ( *) /t t t t t tv TS g g g g iB Yν λτ λ γ− −∆ = ∆ + − − − −

la variazione della fiscal stance secondo la regola del TS prescrive che al surplus Δν*

che si forma con il reddito di trend vada aggiunto un accantonamento nel periodo di

“vacche grasse” - al tasso costante τt-1, se (gt–g*) > 0, λ1 = 1; se (gt–g*) < 0, λ1 = 0 - e

sottratta una spesa nel periodo di “vacche magre” - al tasso γ t-1, se (gt–g*) < 0, λ2 = 1;

se (gt – g*) > 0, λ2 = 0.

(12.23) [ ]3 1( ) * ( *) /t t t tES g g iB Yν ν λ γ −∆ = ∆ − − −

la variazione della fiscal stance secondo la regola del ES prescrive che al surplus Δν*

che si forma con il reddito di trend vada sottratta una spesa nella fase di espansione –

λ3 = 1 se (gt – g*) > 0 e λ3 = 0 se (gt – g*) < 0 – che si va ad aggiungere al

finanziamento della spesa pubblica necessaria a mantenere un rapporto costante con il

trend di crescita del PIL (γt-1 g*). Come si è detto, l’obiettivo è assorbire la

disoccupazione strutturale.

L’interazione strategica fra banca centrale e governo

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L’interazione fra politica monetaria e politica fiscale che viene a determinarsi in un

paese è analizzata dalla teoria macroeconomica come un gioco di coordinamento con

conflitto di interessi. Le assunzioni sulle preferenze di banca centrale e governo sono

le seguenti: l’autorità fiscale attribuisce un’importanza prioritaria agli obiettivi di

occupazione e di reddito; l’autorità monetaria ha l’obiettivo prioritario della stabilità

monetaria e cerca di perseguire questi due obiettivi soltanto in via secondaria.

Presenteremo ora le due forme particolari di coordinamento con uno

Stackelberg leader, lo schema di gioco in cui un giocatore muove per primo e

condiziona il comportamento dell’altro giocatore. Nel gioco fra autorità monetaria ed

autorità fiscale, un’autorità si coordina con l’altra in quanto si trova nelle condizioni

di dover accettare l’esito preferito dall’altra. L’opinione della letteratura si divide sul

tema del coordinamento fra autorità monetaria e autorità fiscale. L’analisi viene

condotta secondo l’approccio definito di “dominanza monetaria” adottato dal

monetarismo e dai modelli della “nuova sintesi neoclassica”, e successivamente

secondo l’approccio definito di “dominanza fiscale”.

Dominanza monetaria

Ipotizzando una struttura del gioco di tipo sequenziale, i pay-off in Figura 4.1

riflettono l’assegnazione alla banca centrale del ruolo di Stackelberg leader

nell’interazione strategica con il governo al fine di conseguire l’obiettivo prioritario

dell’inflazione “zero”. Il pay-off massimo per l’autorità monetaria si realizza con il

coordinamento di entrambe le autorità nella strategia restrittiva. Il governo ha invece

l’ordine di preferenza opposto: il livello di reddito è anteposto ad un obiettivo di

inflazione ed il pay-off massimo è quindi associato al coordinamento di entrambe le

autorità nella strategia espansiva. Figura 7. Chicken Game tra politica monetaria e

politica fiscale

POLITICA FISCALE

Restrizione Espansione

Restrizione 4 , 2 -1 , -1

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70

POLITICA MONETARIA

Espansione 0 , 0 1 , 3

La soluzione del gioco fra autorità monetarie e fiscali viene presentata da questo

approccio mediante gli equilibri di Nash del Chicken Game (CG) in Figura 4.1. I

possibili equilibri di Nash sono due: l’equilibrio di “dominanza monetaria” - la

comune adozione della strategia di restrizione, dove è massimo il pay-off delle

autorità monetarie – e l’equilibrio di “dominanza fiscale” - la comune adozione della

strategia di espansione, dove è massimo il pay-off delle autorità fiscali. Dalla matrice

dei pay-off risulta essere Pareto-ottimo l’equilibrio denominato di “dominanza

monetaria” (MD): le autorità monetarie fissano la strategia in grado di assicurare la

stabilità monetaria ed il governo assume un comportamento restrittivo, conforme

all’obiettivo prioritario prescelto dalla banca centrale. Il motivo risiede nell’assunto

secondo il quale il coordinamento fra le due autorità su politiche di segno espansivo

fornisce un pay-off sociale inferiore al coordinamento su politiche di senso restrittivo.

Vediamo in Figura 1 come viene concepito il gioco.

Qualora il governo fosse orientato a perseguire una manovra espansiva, nonostante la

strategia di “restrizione” annunciata dall’autorità monetaria, il gioco rischierebbe di

concludersi con l’esito peggiore per ambedue le autorità: la coppia di pay-off (–1, -1)

corrispondente all’espansione fiscale e alla restrizione monetaria. Nell’agire da

Stackelberg leader, la banca centrale evita di essere indotta a adottare, dopo

un’espansione fiscale, la strategia “espansione” (il basso pay-off rispecchia il

fallimento dell’obiettivo prioritario della stabilità monetaria). La banca centrale è in

grado di imporre la convergenza del governo sul coordinamento di “restrizione” a

condizione che abbia una reputazione anti-inflazionistica tale da rendere credibile

l’impegno annunciato di non deflettere dalla scelta della strategia “restrizione”.

Nel perseguire con coerenza un orientamento rigidamente restrittivo, l’autorità

monetaria riesce a costringere il governo a condividere la decisione sulla monetary

stance e perciò ad imprimere un indirizzo restrittivo alla politica fiscale. In questo

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approccio la comune strategia restrittiva delle due autorità configura l’equilibrio di

Nash di “dominanza monetaria”, che - per i valori assegnati ai pay-off - è anche la

soluzione più vantaggiosa per la società (la somma dei pay-off è massima).

Quando le autorità monetarie perseguono rigorosamente una strategia anti-

inflazionistica la politica monetaria è definita “attiva”. Il comportamento del governo

deve rimanere “passivo” rispetto alla strategia di politica monetaria della banca

centrale e seguire una fiscal stance coerente con il vincolo intertemporale del bilancio

pubblico (VIBP), anche definita Regime Ricardiano (RR). La subalternità del

governo all’autorità monetaria trova legittimazione nella teoria dell’“equivalenza

ricardiana”. Con soggetti ricardiani, gli interventi fiscali di stabilizzazione non hanno

efficacia sull’equilibrio macroeconomico.

Nell’inglobare la proposizione di “inefficacia della politica fiscale”, l’equilibrio

Pareto-ottimo di dominanza monetaria implica la validità della teoria

dell’equivalenza ricardiana.

Dominanza fiscale

Le cose cambiano se si assume che sia invalida l’ipotesi di equivalenza ricardiana (ad

esempio, perché la razionalità limitata degli agenti impedisce il formarsi di

aspettative razionali; oppure, perché la realizzazione dei loro programmi di consumo

è soggetta ad un vincolo di liquidità). Nel cosiddetto “Regime Non-Ricardiano”

(RNR), le politiche fiscali di stabilizzazione possono essere efficaci nell’aumentare il

livello di occupazione e di reddito. Pertanto, nel gioco fra le due autorità, il governo

assume il ruolo di Stackelberg leader e la politica fiscale viene definita “attiva”

(Leeper, 1991). Una parte delle scorte liquide aggiuntive che la formazione di un

deficit pubblico rende disponibili per gli agenti viene destinata al consumo e si mette

in moto un processo di moltiplicazione del reddito. Gli agenti non prendendo in

considerazione l’eventualità di tasse future considerano i titoli pubblici emessi a

fronte della spesa pubblica un’aggiunta alla propria ricchezza netta; di conseguenza

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anche l’“effetto ricchezza” contribuisce ad aumentare le decisioni di consumo.

Abbiamo visto che nell’approccio della “nuova sintesi neoclassica” la matrice dei

pay-off è costruita in modo che si realizzi l’equilibrio Pareto-ottimo di “dominanza

monetaria”. Quale equilibrio si raggiunge nel caso di “dominanza fiscale”?

In effetti, il quadro teorico si presenta meno chiaro che nel caso di “dominanza

monetaria”. Nell’accettare la visione monetarista secondo la quale la determinazione

del livello dei prezzi è di competenza esclusiva della politica monetaria, l’approccio

della “nuova sintesi neoclassica” interpreta il VIBP come un’identità (Buiter, 2002).

Essa afferma che il governo, al pari delle famiglie e delle imprese, è obbligato a

soddisfare il vincolo per qualunque livello dei prezzi e dei tassi di interesse futuri. Di

fronte ad ogni possibile causa di peggioramento delle finanze pubbliche, e quindi di

un eventuale mancato rispetto del VIBP, il governo è obbligato a provvedere,

programmando più elevate entrate fiscali nei periodi futuri. Se non lo fa, oppure se la

strategia annunciata non è credibile, gli operatori finanziari reagiranno imponendo nei

mercati un incremento del tasso di interesse, cosicché ai possessori di titoli pubblici

verrà riconosciuto un “premio per il rischio” di default del governo. Quale che sia la

modalità, quindi, il VIBP è soddisfatto come identità.

La revisione dei prezzi e dei tassi di rendimento che consegue a ciascuna

emissione di titoli del debito pubblico trova però un limite nella credibilità del

governo agli occhi degli operatori finanziari. Nel Chicken Game, in presenza di una

banca centrale che tiene fede all’impegno a giocare “restrizione”, data l’ipotesi di

RR, una fiscal stance espansiva non può che condurre all’esito peggiore. Nella

visione monetarista, l’incapacità delle politiche fiscali keynesiane di incidere sul

livello di attività economica implica che la spesa pubblica finanziata con emissione di

titoli finirà nel lungo periodo per costringere la banca centrale ad innescare un

processo inflazionistico. Due economisti statunitensi, Thomas Sargent e Neil Wallace

(1975), hanno elaborato un modello di “unpleasant arithmetics” dove si dimostra che

l’accumulazione di debito pubblico causata dalle politiche fiscali di stabilizzazione è

destinata ad imbattersi in un “limite massimo”, in ultima analisi riconducibile alla

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solvibilità fiscale del governo. Nel processo di ottimizzazione dei propri portafogli,

infatti, i risparmiatori finiscono per non aumentare al di sopra di una soglia massima

la quota di ricchezza finanziaria in titoli pubblici. L’autorità monetaria è quindi

costretta ad intervenire per soddisfare il VIBP attraverso il “signoraggio”. La politica

che prende il nome di “signoraggio” intende evocare la potestà del signore medievale

si attribuiva di mutare a proprio piacimento il valore della moneta, ad esempio

modificando il contenuto aureo della moneta-merce. Ai nostri giorni, la principale

fonte di signoraggio consiste nell’incremento del tasso di inflazione che consegue

all’immissione di moneta nei mercati primario e secondario per acquistare titoli.

La Fiscal Theory of the Price Level (FTPL) (Leith e Wren-Lewis, 2000);

Canzoneri e Diba, 2003) offre una spiegazione alternativa della dominanza fiscale.

L’incremento dei prezzi sarebbe la conseguenza non di un’espansione monetaria

attuata dalla banca centrale, ma del regime non-ricardiano generato dal

comportamento del governo. Si supponga che il governo ricorra ad un impulso di

spesa pubblica finanziato con emissione di nuovo debito pubblico, e che la banca

centrale tenga fede all’orientamento restrittivo annunciato aumentando il tasso di

interesse. L’“effetto ricchezza” messo in moto dall’incremento delle attività

finanziarie in portafoglio, determina un eccesso di domanda che sfocia in

un’accelerazione dell’inflazione. Pertanto, il processo di moltiplicazione dell’output

viene spento sul nascere e la politica fiscale finisce per influenzare solo le variabili

nominali: tassi di interesse e prezzi. (Christiano e Fitzgerald, 2000). In tal modo, il

VIBP è una condizione di equilibrio che viene soddisfatta attraverso la riduzione che

l’incremento dei prezzi produce nel valore reale del debito pubblico, che verrà così ad

eguagliarsi al valore attualizzato dei surplus di bilancio che nei periodi futuri

dovranno estinguerlo.

Lo schema logico proposto dalla FTPL può essere espresso sinteticamente in

questi termini. Assumiamo che la ricchezza dei soggetti sia composta solo da moneta

(M) e titoli pubblici (B). La ricchezza in termini reali (W) è quindi eguale a:

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W = (M + B) / p

Se la velocità di circolazione è normalizzata a 1, l’identità fra quantità di

moneta (M) e reddito nominale (Yp) può essere espressa come: M/p=Y, e la relazione

fra livello dei prezzi e stock di debito pubblico:

p = B / (W - Y)

La FTPL interpreta questa equazione come una condizione di equilibrio dove

ad ogni incremento dello stock di titoli deve corrispondere un incremento

proporzionale del livello dei prezzi.

In conclusione, la visione monetarista ritiene che il rispetto del VIBP sia

garantito dal coordinamento di “dominanza monetaria” conseguibile in virtù della

reputazione della banca centrale, che deve essere tale da indurre il governo a

convergere nella strategia della restrizione. Nella visione della FTPL, invece, il

governo non si sente impegnato al rispetto del VIBP e i consumatori non ricardiani

hanno la percezione che i titoli posseduti in portafoglio rappresentino ricchezza netta

(Woodford, 2001). Sotto questa ipotesi l’esito del gioco è la dominanza fiscale: il

governo determina la crescita del livello dei prezzi ed il rispetto del VIBP è così

assicurato dall’abbattimento del valore reale dello stock di debito pubblico indotto

dall’effetto espansivo sul consumo dovuto all’effetto ricchezza. Benché la FTPL non

sia riuscita a soppiantare la visione ortodossa della “dominanza monetaria”, è un fatto

che molti processi di decumulazione di alti debiti pubblici si siano giovati di fasi di

inflazione molto elevata, a cominciare dalla crescita rapida e notevolissima dei prezzi

che ha caratterizzato entrambe le “guerre mondiali”.

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Parte Seconda. Politica Monetaria e Fiscale dell’Unione

Monetaria Europea

1. L’Unione Monetaria Europea: la formazione di un’area valutaria

Sulle vicende storiche dalle quali nascono le istituzioni cui fa capo la produzione dei

beni pubblici di un paese – magistratura, polizia, difesa, sistema fiscale, istruzione,

sanità, etc. - la produzione scientifica è abbondante e prodiga di interpretazioni. Lo

stato dell’arte è invece insoddisfacente per quanto riguarda un’altra istituzione

fondamentale: la moneta. Non è infatti semplice dare una definizione perspicua di che

cosa sia la moneta; tanto meno nell’area dell’euro, giacché i paesi che adottano la

nuova valuta non formano uno Stato federale.

Nella figura 1, sull’asse verticale compare il grado di simmetria (tanto minore è il

grado di esposizione di un paese ad uno shock asimmetrico, tanto maggiore la

simmetria con il resto dell’area) e sull’asse orizzontale il grado di integrazione

economica (tanto maggiore è l’interscambio commerciale, tanto più integrati sono i

mercati dei paesi dell’area valutaria, tanto più la competizione di mercato eguaglia il

prezzo di vendita dei beni).

La Figura 1 presenta una linea continua: è la linea costituita dai punti di eguali valori

delle coordinate simmetria e integrazione, ovvero i costi dell’adesione sono eguali ai

benefici dell’adesione. Essa separa l’area superiore di ottima area valutaria (AVO),

da quella inferiore dove i costi dell’adesione a una moneta comune superano i

benefici. La pendenza negativa indica che quanto più basso è il grado di simmetria (e

cioè quanto più esposto è un paese a uno shock asimmetrico) tanto maggiore – per

ogni dato livello di integrazione – dovrà essere la flessibilità del mercato del lavoro.

In tal modo, una più alta elasticità della disoccupazione al salario compenserà una

troppo alta esposizione a shock asimmetrici. Alla destra della linea AVO, dato il

grado di simmetria, la flessibilità del mercato del lavoro è sufficientemente ampia, a

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sinistra è insufficiente. L’assunzione comunemente presente in letteratura è che

all’inizio dell’unione monetaria solo i paesi del Centro (EMU-7) si collocassero

completamente all’interno dell’area superiore (benefici superiori ai costi), mentre

quelli della Periferia (EMU-5) erano al di sotto. Se i paesi della Periferia fossero

riusciti ad aumentare la suddetta elasticità e quindi migliorare la competitività di

prezzo la linea AVO si sarebbe spostata verso il basso, in modo da includere anche

questi paesi nella zona del grafico in cui l’unione monetaria è per loro “ottima”

(benefici superiori ai costi).

Figura 1. Area Valutaria Ottima (Optimal Currency Area)

Integration

symmetry

EMU-7OCA

EMU-5NO OCA

Pertanto, un’area valutaria si definisce “ottima” se la sovranità monetaria esercitata

della valuta comune produce - per l’aggregato degli stati che l’adottano - benefici che

eccedono i costi. Se i criteri in base ai quali si dà vita ad un’area valutaria fossero

esclusivamente quelli economici, una nuova valuta che subentri ad una pluralità di

valute “regionali” non dovrebbe estendere la propria sovranità oltre la “regione

marginale”, da intendersi come la regione che presenta l’eguaglianza al margine fra

benefici e costi dell’inclusione nell’area valutaria. Le vicende storiche finiscono

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comunque per determinare entità statuali i cui confini spesso non sono conformi a

quelli definiti dai criteri di ottimalità economica.

Un processo di integrazione vede di solito coinvolti sistemi economici anche

molto distanti per livello tecnologico delle produzioni e meccanismi di aggiustamento

macroeconomico. Per decidere la propria adesione, i governi hanno dovuto valutare

se le politiche economiche che erano chiamati a realizzare avrebbero consentito di

soddisfare il “vincolo di partecipazione”, ovvero la condizione che per il paese la

differenza attesa fra benefici e costi fosse positiva. D’altro canto, le interdipendenze

economiche sono pervasive: un paese caratterizzato da forte instabilità

macroeconomica può infatti rappresentare un’esternalità negativa per tutti i membri

dell’area valutaria. La formazione dell’area valutaria si è quindi configurata come un

gioco strategico in condizione di incertezza, dove il calcolo del “vincolo di

partecipazione” di un paese dipendeva da quello di tutti gli altri ipotetici membri

dell’area valutaria. In effetti, il progetto di un’area valutaria europea è stato avviato

nell’aspettativa che ne sarebbe sortito un incremento del benessere comune. Non

esiste, d’altro canto, alcuna garanzia che dal valore positivo della somma algebrica

dei guadagni e delle perdite attesi per l’area valutaria nel suo complesso consegua un

valore positivo anche per ciascuno dei paesi che ne avrebbero fatto parte. Occorre

dunque trovare un accordo sui criteri di ammissione. Ad esempio, lo SME, il Trattato

di Maastricht, il PSC, e la più generale cornice istituzionale hanno permesso il

raggiungimento del “miglioramento paretiano” di una minore instabilità

macroeconomica, dopo i decenni di alta inflazione e disoccupazione. Ciascun

governo ha dovuto accettare un trade-off intertemporale: intraprendere politiche

macroeconomiche dirette a creare nel breve periodo la disinflazione ed il riequilibrio

delle finanze pubbliche, nell’aspettativa di ricevere un “dividendo” dall’incremento

di benessere comune che si sarebbe realizzato nel medio-lungo termine.

L’opinione prevalente, come si è detto, è che al suo nascere l’UME non

rappresentasse un’area valutaria “ottima”. La relativa facilità con cui i paesi

dell’UME hanno ciò nonostante raggiunto l’accordo sulla composizione dell’area

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valutaria è così sintetizzabile. L’incertezza sul futuro rende il “velo di ignoranza” sui

guadagni e sulle perdite che si realizzeranno nel corso degli anni sufficientemente

spesso da impedire una precisa valutazione sulla loro distribuzione fra i singoli paesi.

La Germania ed i paesi dell’ “area del marco” osteggiarono a lungo la nascita

dell’UME a dodici paesi, nel timore che la somma algebrica fra benefici e costi

potesse risultare collettivamente negativa nel caso fossero stati ammessi i paesi

mediterranei. Il “velo di ignoranza” e la ragionevole aspettativa che il varo di una

moneta unica che si andava ad affiancare al mercato unico avrebbe permesso un

sostanzioso allargamento della “torta”, aiutò la scelta politica di una “grande UME” a

prevalere sui dubbi dell’economia.

La creazione del mercato unico in Europa, avviata nel 1957 e culminata nel

1993, ha rappresentato una politica dell’integrazione in sintonia con il criterio di

valutazione dell’“ottimalità” di un’area valutaria sostenuto da Ronald Mc Kinnon: il

grado di apertura commerciale. L’unione monetari realizzata nel 1999 dovrebbe

rappresentare il secondo grande cambiamento strutturale in sintonia con

l’integrazione economica. L’area valutaria europea è formata in prevalenza da

imprese in concorrenza monopolistica e da paesi che presentano una netta

preponderanza dei flussi di merci intra-area rispetto a quelli extra-area. Favorendo

l’ulteriore espansione degli scambi commerciali fra paesi che producono gli stessi

beni, l’unione monetaria dovrebbe restringere la divergenza tra i prezzi ( si ricordi la

“legge del prezzo unico”) e ridurre la probabilità di shock asimmetrici.

2. Ottimalità di un’area valutaria

I costi dell’adozione di una valuta comune si connettono innanzitutto alla perdita

dell’opzione alternativa della flessibilità del cambio nominale: tanto maggiore è la

probabilità per un paese di subire uno shock asimmetrico, tanto maggiore è il costo

del passaggio alla valuta comune (il costo-opportunità di non potere utilizzare il tasso

di cambio della propria valuta come strumento di politica economica). L’aspettativa

di benefici eccedenti i costi si fonda sull’idea che all’integrazione commerciale

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conseguirà una maggiore simmetria negli shock. Con la riduzione dell’eterogeneità

dei cicli economici nazionali, ovvero della diversità fra paesi riguardo al periodo in

cui hanno luogo gli shock o all’ampiezza dello scostamento di inflazione e output dai

valori di equilibrio, dovrebbe declinare nel tempo l’antinomia fra l’uniformità

dell’esposizione alla politica monetaria comune e l’eterogeneità delle condizioni

macroeconomiche dei singoli paesi.

In primo luogo, la liberalizzazione dei movimenti di capitale - nel rendere

possibili rapidi spostamenti di attività finanziarie da un mercato all’altro di

dimensioni tali da influenzare in modo significativo i tassi di cambio - ha vanificato il

ruolo di stabilizzazione della politica valutaria. In secondo luogo, la moderna teoria

macroeconomica, nell’attribuire importanza prioritaria alla stabilità monetaria, ha

ridimensionato l’importanza di possedere una propria valuta. Un’economia che

presenta una divergenza reale (una minore dotazione o produttività delle risorse)

rispetto alle economie più “forti” con le quali è in competizione sui mercati, non deve

porvi rimedio con politiche macroeconomiche “non annunciate” che inneschino

un’inflazione “a sorpresa” e la conseguente svalutazione del cambio. Politiche

monetarie e fiscali incoerenti con i valori-obiettivo di inflazione ed output hanno la

sola conseguenza di aggiungere alla divergenza reale la divergenza nominale (il tasso

di inflazione). Alla strategia di breve periodo di sostenere le esportazioni attraverso la

flessibilità del tasso di cambio andrebbe preferito il commitment di evitare la

tentazione dell’aggiustamento nominale “legandosi all’albero maestro”. Nel caso dei

paesi dell’UME, l’albero maestro è l’euro. L’adozione di una valuta comune sancisce

l’impegno a non farsi “guerre commerciali”e ad adottare le politiche più appropriate

per migliorare i “fondamentali” dell’economia. D’altronde, i costi di uscita dalla

valuta comune sarebbero elevatissimi: gli alti tassi di interesse che graverebbero su

attività finanziarie nuovamente denominate nella valuta nazionale, la fiducia nella

quale si è però azzerata con il passaggio all’euro. Nella prospettiva teorica

dell’impulso che l’euro dovrebbe dare alla formazione di un unico ciclo economico

europeo è stata avanzata la tesi che un’insieme di paesi non debba necessariamente

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possedere ex ante la caratteristica di essere un’area valutaria “ottima” per decidere

l’introduzione di una valuta comune. Il crisma dell’ottimalità verrebbe acquisito

dall’UME ex post (Frankel e Rose, 1998; Rose, 2000). Alcuni benefici, relativi alle

funzioni di unità di conto e mezzo di scambio della moneta, sono immediati. Ad

esempio, la maggiore trasparenza dei segnali di mercato, conquistata con l’uniformità

valutaria del prezzo dei beni in tutti i mercati dell’eurozona è un impulso alla

concorrenza. Benefici non secondari sono anche l’azzeramento dei costi di

transazione legati al cambio da una valuta all’altra (le commissioni bancarie) e, più in

generale, la maggiore efficienza nei servizi di liquidità. I più importanti benefici

saranno però appropriabili e verificabili solo nel medio-lungo periodo, in seguito

all’impulso all’integrazione commerciale ed alle funzioni dell’euro come mezzo di

pagamento internazionale.

La fine della volatilità del tasso di cambio nominale esercitò in alcuni paesi

dell’eurozona un forte impulso all’incremento delle imprese esportatrici: le prime

analisi quantitative sull’impatto dell’introduzione dell’euro sul commercio intra-

UME stimano un incremento del loro numero compreso fra il 5% ed il 10%

(Baldwin, 2006). Con l’annullamento del rischio di cambio, le aspettative sulla

domanda futura nei mercati dell’UME risultano meno aleatorie. Ci si attende anche

che la valuta comune riduca notevolmente il rischio sistemico sulle decisioni di

investimento, producendo così un effetto propulsivo sulla crescita economica. Un

rilevante beneficio per il finanziamento degli investimenti proviene

dall’abbassamento del tasso di interesse seguito all’annullamento del “premio per il

rischio” di tasso di cambio. Anche il “premio per il rischio” di default (esigibile in

base al grado di solvibilità fiscale di un paese gravato da un consistente debito

pubblico) è pressoché assente: i differenziali fra i tassi di interesse dei titoli pubblici

sono oggi molto esigui. Va però aggiunto che la riduzione del costo del danaro non è

un beneficio irreversibile. Benché i vincoli del PSC non concernano direttamente il

debito pubblico, tutti i paesi dell’eurozona con uno stock di debito pubblico superiore

al 60% del PIL continuano ad essere soggetti all’impegno di provvedere al ritiro del

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quantitativo eccedente il limite. Né i mercati finanziari internazionali paiono disposti

ad accettare che i governi nazionali confidino sull’euro quale perenne garanzia della

propria solvibilità fiscale per dilazionare l’abbattimento del debito pubblico. La

violazione del limite del 3% per il rapporto deficit / PIL potrebbe indurre gli operatori

finanziari a chiedere nuovamente un “premio per il rischio“ di default, innalzando il

tasso di interesse sul debito pubblico di uno o più paesi dell’UME.

3. Instabilità macroeconomica e convergenza

nominale

Uno dei motivi per i quali un gruppo di paesi ha raramente dato vita ad un’unione

monetaria senza avere in precedenza realizzato un’unione politica è la fiducia che

deve accompagnare la nuova valuta una volta introdotta nei mercati. Una moneta

circola fra i cittadini di una entità statuale in quanto è unanime la fiducia che il segno

monetario verrà accettato come mezzo di estinzione dei debiti. Naturalmente, il

crisma della sovranità monetaria non viene acquisito da una valuta nel momento in

cui un atto giuridico ne dichiara l’entrata in circolazione. I problemi di credibilità che

la lira incontrò nei mercati finanziari europei nei primi due decenni del Regno

d’Italia, al punto da rendere necessaria l’introduzione del corso forzoso, indicano che

la reputazione viene conquistata nel corso di un lungo processo di costruzione della

fiducia.

4. Dal Sistema Monetario Europeo all’Unione Monetaria Europea

Con la costituzione dell’Unione Monetaria Europea (UME) si è creata una valuta che

non porta sui biglietti e sulle monete il sigillo di un potere statuale, ma sarebbe

sbagliato pensare che l’euro sia nato per una sorta di supremazia acquisita

dall’economia sulla politica. Anche nel caso di questa “moneta senza stato”, le

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motivazioni politiche si sono infatti fortemente intrecciate con le motivazioni di

efficienza economica, e spesso hanno fatto aggio su queste ultime. L’aspirazione

all’unificazione monetaria è una costante della storia europea da quasi due secoli.

Sebbene abbia avuto realizzazione soltanto a cavallo del millennio, essa trovò

espressione già nel XIX secolo. La formazione dello stato unitario in Italia (1861) ed

in Germania (1871) generò due unioni monetarie. In quegli stessi anni videro la luce

anche due accordi valutari. Il primo fu l’Unione Monetaria Latina, l’accordo del 1865

(che durò, fra alterne vicende, fino al 1926) fra Belgio, Francia, Italia e Svizzera, con

l’adesione della Grecia nel 1868 e poi anche di altri paesi, consistente nell’emissione

di monete di oro e di argento con eguale contenuto. Il secondo fu l’Unione Monetaria

Scandinava, creata nel 1872 da Danimarca, Norvegia e Svezia e imperniata sulla

doppia circolazione della moneta nazionale e di una moneta comune, nell’ambito del

sistema del gold standard e dissolta con la prima guerra mondiale.

L’aspirazione all’unificazione monetaria ha ricevuto un nuovo impulso nel

1970, quando il Consiglio dei ministri della Comunità Europea diede l’incarico ad un

comitato di esperti presieduto dal Primo ministro lussemburghese Pierre Werner di

studiare la possibilità di dar vita all’unione monetaria. Il Rapporto Werner, fissava

una serie di tappe per la realizzazione dell’unione monetaria, da portare a

compimento entro il 1980. Fra la dissoluzione dell’ordine monetario di Bretton

Woods e la crisi petrolifera del 1973-74, ebbe breve vita (dall’aprile 1972 al dicembre

1974) un accordo, conosciuto con il nome di “serpente valutario”, cui parteciparono

Germania, Belgio, Olanda e Lussemburgo e, per periodi brevi, anche Italia, Francia e

Regno Unito. I paesi aderenti si impegnavano al coordinamento fra i tassi di cambio

con l’obiettivo di ridurre le esternalità negative che reciprocamente si determinavano

fra i paesi europei a causa dell’autonoma fluttuazione delle loro valute rispetto al

dollaro USA. L’accordo tuttavia fallì il suo obiettivo: tutto il peso della correzione

necessaria a preservare la catena di parità fra i tassi di cambio avrebbe dovuto essere

sostenuto dai paesi a valuta debole, senza che fossero previsti strumenti di

concessione di credito che permettessero loro di fronteggiare gli attacchi della

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speculazione internazionale. Nel marzo del 1979 per iniziativa del Cancelliere

tedesco Helmut Schmidt e del Presidente francese Valery Giscard d’Estaing, i paesi

della CEE sottoscrissero un accordo per l’introduzione di cambi fissi fra le rispettive

valute. L’accordo valutario, al quale non aderì il Regno Unito, prese il nome di

Sistema Monetario Europeo (SME).

4.1. L’assetto istituzionale del Sistema Monetario Europeo

L’ambizioso obiettivo che i fondatori dello SME si posero nel 1979 era quello di

instaurare in Europa la stabilità monetaria. Di fronte alla forte instabilità

macroeconomica che negli anni ’70 succedette a due decenni di crescita equilibrata, i

paesi europei si erano trovati impreparati. Nel 1973-74, a seguito della guerra dello

Yom Kippur, il prezzo del petrolio quadruplicò; un ulteriore forte incremento si ebbe

poi nel 1979-80. La traslazione degli accresciuti costi sui prezzi dei beni non fu

sempre completa, perché dipendeva dalla capacità delle imprese di mantenere rigido

il mark-up. I rinnovi dei contratti salariali, e l’introduzione di meccanismi automatici

di indicizzazione, alimentavano una spirale salari-prezzi. In molte economie europee,

si registrò un forte incremento del costo del lavoro per unità di prodotto (CLUP). Alla

crescita dei prezzi contribuiva una politica monetaria diretta ad “accomodare” la

domanda di finanziamento sia del settore privato che del settore pubblico. I processi

inflazionistici indebolivano le bilance commerciali e quindi anche i tassi di cambio

delle valute dei paesi a più alta dinamica del CLUP. Poiché il meccanismo di

inflazione-svalutazione consentiva di recuperare la perdita di competitività subita nei

mercati esteri a causa dell’inflazione, i governi vedevano con favore che il cambio

venisse lasciato libero deprezzarsi. Tuttavia, le politiche monetarie e fiscali espansive,

comportando aspettative e tassi di inflazione in crescita, accentuavano il conflitto

distributivo interno; e le svalutazioni competitive non riuscivano a garantire che brevi

periodi di incremento delle esportazioni. Nel corso degli anni ’70, il sostegno

assicurato alla domanda dalle esportazioni andò declinando. Le difficoltà incontrate

nell’affrontare in maniera non cooperativa l’instabilità macroeconomica convinse gli

otto governi dei paesi aderenti allo SME ad un mutamento radicale di strategia.

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L’impegno a seguire una politica monetaria orientata alla difesa di cambi fissi

significò “legarsi le mani” con un vincolo esterno (Putnam, 1988). L’adesione allo

SME esprimeva la speranza che la bassa inflazione si sarebbe imposta a imprese e

sindacati come il bene pubblico da cui tutti avrebbero tratto vantaggio (Giavazzi e

Pagano, 1988).

L’accordo prevedeva che i tassi di cambio fossero fissi ma aggiustabili. Nei

primi anni di vita dello SME, quando una o più banche centrali dichiaravano di non

riuscire a tenere fede all’impegno di difendere le loro parità con manovre restrittive,

si fece spesso ricorso – durante i week-end, a mercati finanziari chiusi - al

riallineamento delle parità centrali. Lo strumento tecnico consisteva nella

modificazione delle parità bilaterali del cosiddetto meccanismo dei tassi di cambio

(MTC). La duplice banda di oscillazione (verso l’alto e verso il basso) attorno alla

parità centrale definiva l’intervallo di tolleranza entro il quale le banche centrali

erano al riparo da attacchi speculativi alle rispettive valute. Fino al 1993 la banda fu

del ±2,25%, ma margini più ampi (±6%) vennero concessi all’Italia (fino al passaggio

alla banda stretta fra il gennaio 1990 ed il settembre 1992) e al Regno Unito durante

la sua adesione fra il 1990 ed il 1992.

L’assetto istituzionale dello SME è stato definito di tipo asimmetrico. Le

politiche monetarie nazionali non venivano coordinate, in quanto si affermò

progressivamente l’egemonia del marco tedesco. Vediamo allora le ragioni

dell’asimmetria di politica monetaria.

Alla nascita dello SME, i divari fra i tassi di inflazione superavano a volte i 10

punti percentuali. Questi divari posero gravi problemi alle banche centrali. Benché il

cambio della valuta tendesse ad indebolirsi, esse non potevano deflazionare le proprie

economie mediante un’improvvisa “gelata” di liquidità: la cura avrebbe avuto

probabilmente l’effetto di uccidere il malato. Supponiamo che in un paese ad alta

inflazione, ad esempio l’Italia, un peggioramento della bilancia dei pagamenti con la

Germania provochi la riduzione dell’offerta di moneta. È quanto accadde nella prima

metà degli anni ’80 quando l’economia italiana subì una perdita di competitività, che

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causò un saldo commerciale di segno negativo. Un’economia con una dinamica dei

costi di produzione più rapida di quella dei principali concorrenti europei incontra

difficoltà a frenare la perdita di competitività. Un riallineamento delle parità bilaterali

della lira poteva essere solo ritardato dallo strumento amministrativo del controllo dei

movimenti dei capitali e dagli interventi di vendita di marchi nei mercati valutari. Per

ridurre la frequenza delle richieste di riallineamento, fu creata l’unità di conto

europea (European Currency Unit: ECU), una valuta fittizia consistente nel paniere

delle valute, ciascuna pesata per il PIL del proprio paese sul PIL totale. In caso di

tensioni sui cambi, l’ECU avrebbe dovuto segnalare tempestivamente se, all’interno

della banda bilaterale di oscillazione, andasse considerata responsabile del

raggiungimento del margine massimo di deprezzamento la valuta a rischio di

svalutazione o invece la valuta in apprezzamento. Pertanto, l’ECU avrebbe dovuto

fungere da indicatore di divergenza, segnalando alla banca centrale della valuta

“deviante” la necessità di porre un deciso ed immediato freno alla crescita monetaria.

L’ECU non venne di fatto mai utilizzato allo scopo di individuare la valuta

“deviante”. Lo SME divenne presto un sistema di cambi fissi nel quale le condizioni

di liquidità all’interno dell’area non venivano determinate su base cooperativa dalle

banche centrali ma piuttosto in modo egemonico dalla Bundesbank. Non è difficile

comprendere le ragioni che portarono a questo assetto asimmetrico dello SME. In un

sistema di cambi fissi fra n paesi occorre stabilire solo n-1 parità bilaterali. Se le

parità bilaterali fossero state determinate come il valore di ciascuna valuta rispetto

all’ECU, si sarebbe dato vita ad uno SME “cooperativo”. In assenza di un credibile

meccanismo di coordinamento, le n-1 parità bilaterali finiscono per essere vincolate

al tasso di cambio determinato dalla politica monetaria della banca centrale che si

guadagna il privilegio di essere considerata quella che emette l’n-sima valuta. In un

accordo finalizzato al ripristino della stabilità monetaria, la Bundesbank emerse come

la banca centrale che mostrava maggior determinazione a seguire una rigorosa

strategia anti-inflazionistica, ed al contempo apparteneva al paese dotato della

struttura produttiva più forte e con estese ramificazioni nel sistema finanziario

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europeo (l’area finanziaria formata da Germania, Danimarca e Benelux si presentava

molto integrata già all’avvio dello SME). Le parità bilaterali del MTC furono

concepite come rapporto di ciascuna delle n-1 valute rispetto ad una n-esima valuta.

Alla Bundesbank fu di fatto riconosciuta la posizione di n-esima banca centrale. Di

conseguenza, il marco tedesco conquistò il ruolo di àncora nominale del MTC e la

Bundesbank poté godere del privilegio consistente nella libertà di determinare un

obiettivo quantitativo di crescita monetaria tarato sulle condizioni macroeconomiche

della sola Germania, piuttosto che su quelle dell’intera zona valutaria a cambi fissi.

Nei paesi ad “alta” inflazione, la svolta restrittiva di politica monetaria imposta

dalla partecipazione allo SME limitò l’autonomia delle banche centrali

nell’accomodare gli incrementi dei costi di produzione attraverso l’aggiustamento

delle grandezze nominali. Tuttavia permaneva il problema della divergenza reale,

ovvero una dinamica del CLUP tale da mettere a repentaglio la competitività sui

mercati esteri e spingere il deprezzamento della valuta fino al limite superiore della

banda di oscillazione.

Tutti i paesi partecipanti al MTC – ad eccezione della Germania - dovettero

ricorrere a numerosi aggiustamenti delle parità di cambio nel periodo 1979-86. I

riallineamenti fra le valute non compensavano in tutta la loro ampiezza i differenziali

inflazionistici. La logica dei cambi dello SME era quella di essere fissi ma

aggiustabili. Tale grado di flessibilità andava però interpretato in modo che non

venissero vanificati né l’impegno alla difesa dei cambi né l’incentivo a perseguire

l’obiettivo della disinflazione. Pertanto, fra i governatori delle banche centrali si

affermò la convenzione per cui la percentuale di aggiustamento delle parità bilaterali

da concedere alle valute in difficoltà non dovesse coprire l’intero differenziale di

tasso di inflazione di quei paesi con l’ECU.

Una prima prova del fatto che il funzionamento dello SME andò

progressivamente imperniandosi sulla posizione dominante della Germania è la

politica di pegging col marco tedesco seguita dalle altre banche centrali. Come

mostrano le stime econometriche (Fratianni e von Hagen, 1990), esse hanno teso a

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regolare la crescita monetaria in funzione della stabilità del cambio delle rispettive

valute con il marco. Con la politica di pegging, i governatori delle banche centrali

degli altri paesi dello SME si prefiggevano l’obiettivo di acquisire – attraverso una

maggiore credibilità dell’orientamento anti-inflazionistico della politica monetaria –

la fiducia nella serietà dell’impegno a difendere i cambi fissi. La Bundesbank ha

potuto di fatto decidere la liquidità dell’intera area dello SME appunto perché le n-1

banche centrali degli altri paesi regolavano la propria politica monetaria sulla crescita

monetaria del paese con l’n-esima banca centrale.

Una seconda prova dell’assetto egemonico assunto dallo SME è il fatto che

l’autonomia della Bundesbank nella determinazione della crescita del proprio

aggregato monetario non ha sostanzialmente incontrato ostacoli (Farina, 1990). Le

banche centrali impegnate a superare una fase di instabilità macroeconomica ed a

difendere la propria valuta da attacchi speculativi effettuano di routine interventi nei

mercati valutari impiegando le proprie riserve internazionali nel riacquisto della

propria valuta. Per facilitare tali operazioni di mercato aperto, lo SME prevedeva la

concessione di credito della durata di 3 mesi (very short-term financing facility) da

prelevare da un fondo comune alimentato dai contributi di tutti i paesi partecipanti.

Poiché questo strumento non era in grado di entrare in funzione tempestivamente, le

banche centrali dello SME le cui valute attraversassero una fase di deprezzamento

hanno spesso fatto ricorso a manovre di acquisto della propria valuta nel mercato –

mediante la vendita di marchi detenuti nelle proprie riserve internazionali – al fine di

sostenere il tasso di cambio all’interno della griglia delle parità bilaterali.

Tali operazioni di mercato aperto contrastavano però con la politica monetaria

della Bundesbank, orientata a stabilizzare le condizioni macroeconomiche della

Germania. Ogniqualvolta la banca centrale di un paese con una bilancia dei

pagamenti in rosso (ed eventualmente sottoposta ad un attacco speculativo allo scopo

di lucrare profitti puntando alla revisione della parità ufficiali nei mercati valutari)

abbia operato un intervento di vendita di marchi per sostenere la propria valuta, la

Bundesbank ha provveduto a ripristinare le condizioni monetarie preesistenti. Onde

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impedire l’incremento della quantità di marchi in circolazione provocato dalle

vendite effettuate dalle banche centrali della valuta in difficoltà, la Bundesbank

attuava una manovra di “sterilizzazione”: la distruzione, attraverso operazioni di

mercato aperto di segno opposto, dell’eccesso di marchi rispetto alla circolazione

fissata dal proprio obiettivo di crescita monetaria. Le autorità monetarie tedesche non

hanno mai voluto tenere in conto l’eventualità che all’origine di una forte deviazione

del marco dalla parità centrale - piuttosto che la debolezza di una o più valute dello

SME - vi fosse la propria politica del cambio (ad esempio, una manovra diretta a

contrastare una tendenza del marco a svalutarsi rispetto al dollaro). È stata questa una

ragione non secondaria del mancato impiego dell’ECU come strumento di

individuazione della valuta deviante. Con la strategia di volere stabilire in piena

autonomia le complessive condizioni di liquidità dell’area dello SME, la Bundesbank

ha inteso comunicare a banche centrali, governi e mercati che la Germania non era

disposta a condividere con le banche centrali di altre valute il costo

dell’aggiustamento di tensioni in cui fossero coinvolte le proprie parità bilaterali.

4.2. L’evoluzione del Sistema Monetario Europeo

Esamineremo ora la performance macroeconomica delle varie economie partecipanti

allo SME lungo i venti anni che vanno dalla sua costituzione (1979) al passaggio ai

cambi irrevocabilmente fissi (1999), preludio all’introduzione dell’euro il 1 gennaio

2002. Ripartiamo i paesi in tre gruppi: 1) Centro, costituito dalla Germania, dai

cosiddetti paesi dell’area del marco (Belgio, Olanda, Lussemburgo e Danimarca) e

dalla Francia (che, dopo i primi anni di alta inflazione, nel 1989-91 raggiunse una

stabilità monetaria pari a quella tedesca); 2) Periferia A, costituita da Italia, Spagna e

Regno Unito; 3) Periferia B, costituita da Irlanda, Portogallo e Grecia.

Questa ripartizione, benché aggreghi paesi che hanno aderito allo SME in date

differenti – tra i paesi della Periferia, soltanto Italia ed Irlanda hanno partecipato allo

SME fin dall’inizio - mette in luce la loro diversa posizione riguardo ai due caratteri

di fondo del cammino verso l’integrazione monetaria ed economica: 1) il processo di

convergenza nominale, che è riflesso dalla distinzione fra Centro e Periferia, in

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quanto la Germania (e gli altri paesi della cosiddetta “zona del marco”) hanno

mediamente presentato tassi di inflazione e di interesse nominale alquanto inferiori

rispetto a quelli dei paesi periferici; 2) il processo di convergenza reale, che vede i

paesi della Periferia A collocarsi a metà strada fra il Centro ed il gruppo di paesi della

Periferia B che nel 1979 presentavano un ritardo in termini di reddito pro capite più

elevato rispetto al Centro.

Per i paesi che di volta in volta vi hanno aderito, lo SME ha rappresentato il

sistema di incentivazione per la lotta all’inflazione. Il conseguimento della

convergenza nominale era infatti la pre-condizione per affrontare il problema della

convergenza reale. Le vicende dello SME si possono suddividere in tre periodi. Il

primo periodo dello SME (1979-86) vide molte revisioni delle parità centrali. Il

secondo periodo (1987-1993) fu caratterizzato dall’assenza di riallineamenti dei

cambi fissi. Dopo la crisi dello SME del 1992-93, il margine di oscillazione fu

allargato dal ±2,25% al ±15%. Consentire un deprezzamento di ben 15 punti rispetto

alla parità centrale mette di fatto una valuta al riparo dal pericolo di attacchi: gli

speculatori internazionali non sono in grado di mobilitare gli enormi quantitativi di

capitale necessari a provocare una svalutazione. Durante il terzo periodo dello SME

(1993-98), il meccanismo di imposizione della regola (enforcement) della stabilità

monetaria, rappresentato dall’impegno delle banche centrali a difendere le parità fisse

– pena la svalutazione e la conseguente perdita di credibilità della politica monetaria

come principale strumento della lotta all’inflazione – era ormai privo di efficacia.

L’enforcement della convergenza nominale passò così dallo SME ai “criteri di

Maastricht”. All’impegno a difendere le parità bilaterali del MTC si sostituì la “regola

fissa” dei valori cui fare convergere tasso di inflazione, tasso di interesse, deficit

pubblico e debito pubblico.

A conclusione di questa ricostruzione dell’avvio del processo di unificazione

monetaria in Europa, descriviamo sinteticamente l’evoluzione dello SME e

l’andamento delle principali variabili coinvolte nella convergenza nominale. I molti

riallineamenti che ebbero luogo nel corso della prima fase dello SME (1979-86)

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erano la conseguenza della debolezza della bilancia commerciale causata dagli ampi

differenziali di tasso di inflazione. Se non avessero potuto beneficiare dello “scudo”

dei controlli sui movimenti dei capitali, molti paesi dello SME non sarebbero stati in

grado di partecipare al MTC al fianco di paesi con una più ridotta dinamica dei

prezzi. Gli ampi differenziali di inflazione, dovuti al fatto che le dinamiche dei costi

di produzione ed il grado di rigore di governatori e ministri del Tesoro differivano

molto fra i vari paesi, rendevano poco credibili le parità bilaterali (Farina, 1993).

Nonostante il controllo sui movimenti di capitali consentisse di allontanare nel tempo

l’aggiustamento delle parità bilaterali, i riallineamenti dei tassi di cambio –

soprattutto nei primi quattro anni - furono numerosi. L’intonazione restrittiva della

politica monetaria non riusciva infatti a porre un freno alla spirale salari-prezzi

alimentata da aspettative di inflazione al rialzo. Il conseguente basso grado di

credibilità della politica monetaria spingeva gli operatori dei mercati finanziari a

frequenti attacchi speculativi nei confronti delle valute che si avvicinavano al

margine superiore della banda. Nella Tabella 7.1, sono riportate date ed ampiezza

degli aggiustamenti nelle parità centrali espresse in rapporto al marco tedesco,

conformemente alla strategia “egemonica” mediante la quale la Bundesbank finiva

per regolare la quantità di moneta circolante in tutta l’area dello SME.

Nonostante i riallineamenti, l’impegno delle banche centrali a realizzare la

disinflazione non venne meno. L’adeguamento del cambio nominale alle divergenze

fra le economie reali veniva di volta in volta attuato in una misura tale da annullare

solo una percentuale mediamente compresa fra un mezzo e i due terzi del

differenziale di inflazione maturato da una svalutazione all’altra. Lo scopo era quello

di rendere efficace la partecipazione allo SME “legandosi all’albero maestro”,

secondo la nota metafora ispirata al comportamento di Ulisse di fronte alle sirene, e

cioè tenere a freno la tentazione di risolvere le tensioni inflazionistiche sul piano dell’

“accomodamento” monetario. L’ancoraggio della propria valuta a quella emessa da

una banca centrale ad elevata reputazione anti-inflazionistica era considerata la

strategia migliore per convincere da un lato le imprese ed i lavoratori a migliorare

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l’efficienza del sistema produttivo contenendo la dinamica dei costi, e dall’altro i

mercati finanziari del rigore con cui venivano difese le parità di cambio della propria

valuta.

Tabella 7.1 – Riallineamenti delle parità bilaterali con il marco tedesco: 1973-1993 Francia Italia

(*) Olanda Belgio Danimarca Irlanda Spagna

(*) Portogallo (*)

Regno Unito (**)

24/09/1979 -2,00 -2,00 -2,00 -2,00 -5,00 -2,00 30/11/1979 - - - - -5,00 - 23/03/1981 - -6,00 - - - - 05/10/1981 -8,50 -8,50 - -5,50 -5,50 -5,50 22/02/1982 - - - -8,50 -3,00 - 14/06/1982 -10,00 -7,00 - -4,25 -4,25 -4,25 21/03/1983 -8,00 -8,00 -2,00 -4,00 -3,00 -9,00 22/07/1985 - -8,00 - - - - 07/04/1986 -6,00 -3,00 - -2,00 -2,00 -3,00 04/08/1986 - - - - - -8,00 12/01/1987 -3,00 -3,00 - -1,00 -3,00 -3,00 08/01/1990 - -3,70 - - - - 14/09/1992 - -7,00 - - - - - - 16/09/1992 - - - - - -5,00 23/11/1992 - - - - - -6,00 -6,00 01/02/1993 - - - - -10,00 - - 14/05/1993 - - - - - -8,00 -6,50 cumulativa -25,50 -44,10 -4,00 -24,40 -27,00 -37,10 -17,80 -12,10

Il trattino indica che la parità della valuta con il marco non ha subito variazioni nel riallineamento delle parità bilaterali. (*) Una casella vuota indica che la valuta non faceva parte al meccanismo di tassi di cambio nell’anno in questione: è il caso della peseta spagnola e dello scudo portoghese fino al 1990 e della lira italiana dopo all’uscita dallo SME nel 1992; (**) la sterlina inglese non ha subito alcun riallineamento durante la permanenza del Regno Unito nello SME 1990- 92.

La seconda fase (1987-92) si caratterizzò per l’assenza di riallineamenti. Il

processo di completamento del mercato unico si riverberava sullo SME attraverso un

più deciso impegno delle banche centrali a rafforzare l’orientamento restrittivo della

politica monetaria a difesa delle parità bilaterali con il marco. Una certa convergenza

nominale fra le economie - dovuta alla riduzione nei differenziali di costo del lavoro

per unità di prodotto, ed alla strategia di disinflazione perseguita da banche centrali e

governi – stava producendo l’effetto di rallentare la perdita di competitività dei paesi

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a più alta inflazione e perciò di rendere le valute “deboli” meno esposte ad attacchi

speculativi. La stabilità delle parità fra le valute indusse molti economisti a formarsi

l’opinione che lo SME stesse conoscendo un “cambiamento strutturale”. Le autorità

monetarie e fiscali dei paesi della Periferia, considerando come ormai acquisita la

fiducia dei mercati internazionali nella credibilità delle politiche macroeconomiche,

finirono per ritenere che non sussistessero più motivi per attacchi speculativi alla

griglia di parità fisse del MTC; in altre parole, che si fosse ormai realizzato il

passaggio ad uno SME “forte” (Giavazzi e Spaventa, 1990). Tale convinzione aprì le

porte alla decisione dei governi europei ad adeguarsi senza indugi alla tendenza

internazionale alla liberalizzazione dei movimenti dei capitali.

Benché i persistenti differenziali fra i valori del CLUP non lasciassero presagire una

diminuzione della pressione delle bilance commerciali sulle parità di cambio, si

procedette con rapidità al definitivo smantellamento degli ostacoli amministrativi alle

operazioni finanziarie e valutarie. In tal modo, si finì per aggiungere una fonte nuova

di volatilità dei cambi – i movimenti dei capitali – alla tradizionale tendenza a

deprezzarsi delle valute delle economie meno competitive. La decisione di

liberalizzare conferì ai mercati finanziari internazionali il ruolo di arbitri dell’operato

delle banche centrali e dei governi. L’esposizione delle valute dello SME alla

speculazione internazionale ne risultò notevolmente accresciuta.

In presenza di una progressiva crescita dimensionale degli spostamenti di

capitali da un mercato finanziario all’altro, l’andamento dei cambi a termine divenne

un segnale rilevante per comprendere le aspettative dei mercati sulle prospettive delle

valute “deboli” all’interno delle bande di oscillazione delle parità di cambio. Tale

segnale esercitava una pressione sulle banche centrali delle economie con un alto

differenziale di inflazione rispetto alla Germania affinché realizzassero una difesa più

rigorosa del tasso di cambio fisso con il marco. Il timore che le aspettative di

svalutazione causate dai differenziali di inflazione innescassero tensioni speculative

contro la valuta indusse le banche centrali dei paesi più esposti ad innalzare i tassi di

interesse in una misura superiore a quella richiesta dal pegging con il marco.

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D’altro canto, la politica fiscale discrezionale si manteneva espansiva,

soprattutto nei paesi con alta disoccupazione. Di conseguenza, l’incremento dei tassi

di interesse si rendeva necessario anche per la necessità di piazzare i titoli a copertura

dei crescenti deficit pubblici. La lunga fase di alti tassi di interesse, perdurata fino a

metà anni novanta, si affermò sia per segnalare la credibilità alla difesa dei cambi

fissi sia per la necessità di accomodare per tutta la sua ampiezza - e cioè senza il

contributo di una riduzione del tasso di interesse tedesco – la remunerazione da

riconoscere agli operatori finanziari per due tipi di rischio: 1) il rischio di

svalutazione; 2) il rischio di ripudio del debito pubblico (vedi Box 2). Il differenziale

di rendimento (rispetto alle attività finanziarie denominate nella valuta leader dello

SME) delle attività finanziarie denominate nelle valute “deboli”, ed emesse da

governi gravati da un elevato rapporto tra debito pubblico e PIL, si è mantenuto

molto ampio per tutti gli anni ‘80. Gli istogrammi in Figura 7.4 mostrano come i

paesi della Periferia A - in presenza di tassi di interesse molto elevati – abbiano

presentato nella seconda metà degli anni ottanta tassi di crescita molto bassi, inferiori

persino a quelli della Periferia B.

L’adesione alla Comunità Europea ed il diffondersi in Europa di un clima

intellettuale favorevole ad una bassa inflazione indusse altri governi a chiedere ed

ottenere l’ammissione nello SME. Il MTC si estese così a tre nuove valute: la peseta

spagnola nel giugno 1989, la sterlina inglese nell’ottobre 1990 e lo scudo portoghese

nell’aprile 1992. La contraddizione fra cambi fissi ed egemonia del marco tedesco

continuava però a rappresentare una minaccia per la stabilità dello SME. Questa

debolezza strutturale non era destinata ad emergere fino a che il ciclo economico del

paese leader non si fosse distaccato drasticamente dal ciclo economico degli altri

paesi dello SME. La ragione è semplice. Immaginiamo che un paese appartenente ad

un meccanismo di cambi fissi si trovi in una fase declinante del ciclo economico. Nel

piano tasso di interesse-domanda di moneta (Figura 1.2), ciò determina uno

spostamento verso sinistra e verso il basso della funzione di domanda di moneta.

Saranno gli stessi meccanismi di mercato innescati dalla diversità delle fasi cicliche

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attraversate dalle economie dei diversi paesi del MTC a determinare spontaneamente

lo spostamento di fondi da un paese all’altro, generando una riduzione della

circolazione monetaria del paese in fase recessiva ed un aumento della circolazione

monetaria degli altri paesi. Una fase declinante del ciclo economico dei paesi della

Periferia avrebbe quindi dovuto causare la discesa del tasso di interesse ed una

tendenza dei capitali ad abbandonare il mercato finanziario interno in cerca di

investimenti più redditizi, in primo luogo in Germania. Questo processo di

aggiustamento si inceppò nella realtà più complessa che venne a determinarsi a

cavallo degli anni ’90.

In quei convulsi anni che videro il crollo dell’Unione Sovietica e dei regimi dei

paesi dell’Europa dell’Est, lo shock istituzionale dell’unificazione politica tedesca

andò a sommarsi allo shock che le bilance dei pagamenti stavano subendo con il

progressivo passaggio alla piena libertà dei movimenti dei capitali: la liberalizzazione

dei mercati finanziari fu completata entro la data stabilita del luglio 1990, e la

proclamazione della repubblica di Germania avvenne nel novembre del 1990. Questi

due shock si rivelarono troppo destabilizzanti per un accordo di cambi fissi che aveva

nella “dominanza tedesca” il suo punto di forza ed al tempo stesso la sua principale

debolezza. Le tensioni valutarie che ne conseguirono portarono nel settembre 1992

all’uscita di lira e sterlina dallo SME.

Esaminiamo allora brevemente le cause di fondo del collasso dello SME. Le

crisi valutarie del 1992-93 fecero emergere il problema che si determina in ogni

processo di integrazione sia reale che monetaria fra paesi caratterizzati da diverse

condizioni macroeconomiche. Tale problema è rappresentato dal cosiddetto

“quartetto impossibile”: in presenza di un mercato unico (la libera circolazione di

merci, servizi e lavoro), di cambi fissi e di libertà dei movimenti dei capitali, non si

dà anche l’autonomia della politica monetaria. La metafora del “quartetto

impossibile” intende suggerire che l’obiettivo che aveva dato origine allo SME - il

bene pubblico della stabilità monetaria attraverso politiche monetarie che impedissero

il verificarsi di processi di inflazione-svalutazione - diventava di dubbia realizzazione

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una volta giunto a compimento il processo di liberalizzazione dei capitali. I mercati

finanziari, consapevoli del fatto che i “fondamentali” di un paese non potevano più a

lungo permettere alla banca centrale di mantenere fisse le parità della valuta nella

griglia del MTC, avrebbero con ogni probabilità proceduto ad un attacco speculativo.

Infatti, fino a che esercitano il potere di emettere moneta, le autorità monetarie

dispongono di un’autonomia decisionale che rende incompleto il “contratto” con il

quale si sono impegnate con gli altri banchieri centrali a difendere i cambi fissi. Il

potere di signoraggio fa sì che le banche centrali, anche se sono vincolate da un

accordo di cambi fissi, possano pur sempre venire meno all’impegno della difesa del

cambio e mettere in atto un’ “inflazione a sorpresa”.

Il problema del “quartetto impossibile” da questione teorica divenne realtà

appena dopo il manifestarsi dello shock asimmetrico dell’unificazione tedesca. A tale

evento va infatti ricondotto il forte “scollamento” che per la prima volta dalla nascita

dello SME si determinò fra il ciclo economico della Germania e quello degli altri

paesi dell’Europa continentale (e in particolare l’Italia) che attraversavano una fase

recessiva. Questi paesi seguivano il ciclo economico declinante degli Stati Uniti; la

Germania conosceva invece un’espansione caratterizzata da forti tensioni

inflazionistiche: dal lato della domanda, a causa dei programmi di spesa in

investimenti pubblici all’Est e della conversione del marco della DDR con il marco

occidentale secondo l’irrealistico rapporto di 1 a 1; e dal lato dell’offerta, a causa del

vuoto di produzione creatosi con il collasso industriale nei Laender della Germania

Orientale.

Nel settembre 1992 la lira italiana e la sterlina inglese, dopo che le rispettive

banche centrali ebbero dilapidato nel corso dell’estate ingenti riserve valutarie per

resistere ai forti e ripetuti attacchi speculativi, vennero costrette ad uscire dal MTC.

Nel corso del 1993, una nuova ondata speculativa investì il franco francese, la peseta

spagnola, il franco belga e la corona danese. Questa seconda fase speculativa portò

alla decisione di ampliare al 15% i margini di oscillazione. Dal momento che il tasso

di inflazione francese era divenuto il più basso dello SME, apparve evidente (quanto

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meno con riferimento al caso francese) che la valuta alla quale attribuire lo

scostamento dalla normale oscillazione attorno alla parità centrale, fosse il marco e la

causa risiedesse nelle difficoltà post-unificazione attraversate dalla Germania.

Nel dibattito sui regimi di cambio, un orientamento teorico sostiene che le

aspettative di svalutazione degli operatori impegnati in attacchi speculativi ad una

valuta tendano ad auto-avverarsi (Obstfeld, 1986). Questa tesi delle aspettative che si

autorealizzano (self-fulfilling expectations) è senza dubbio attraente. Ed è vero che la

liberalizzazione e la globalizzazione finanziaria hanno messo la speculazione

internazionale in grado di mobilitare ingenti flussi di moneta trasferibili in tempo

reale da un mercato all’altro e da una valuta all’altra. Riguardo allo SME, tuttavia,

attribuire ai mercati finanziari la responsabilità del collasso sarebbe una conclusione

affrettata. In effetti, diversamente da quanto sostiene la tesi delle self-fulfilling

expectations, si può dire che il MTC con margini di oscillazione del ±2,25% avrebbe

potuto superare lo shock asimmetrico della riunificazione tedesca.

Nell’estate del 1992, di fronte all’indisponibilità della Bundesbank a rinunciare

alla propria politica monetaria restrittiva, molti speculatori internazionali si

convinsero che la debolezza di lira e sterlina rendeva elevata l’aspettativa di profitti

da speculazione sui cambi. La speculazione si realizzò attraverso la vendita di

posizioni non coperte in lire e sterline, per poi riacquistare queste valute al più basso

prezzo conseguito alla svalutazione ed onorare i contratti a termine. Se la

Bundesbank avesse accettato di concedere un ampio finanziamento ai governatori in

difficoltà, il coordinamento fra le operazioni valutarie delle banche centrali avrebbe

posto a difesa dello SME un ammontare di riserve internazionali da impegnare

nell’acquisto di queste valute ben superiore all’ammontare dei capitali mobilitati

dalla speculazione finanziaria (Buiter, Corsetti e Pesenti, 2001). Lo SME a banda

stretta ebbe termine con la nuova ondata speculativa dell’estate del 1993. La banca

centrale tedesca non volle invece accordare pieno sostegno alle richieste di crediti in

marchi avanzate dalla Francia. Il timore fu che un ampliamento della circolazione

monetaria del marco avrebbe messo a repentaglio la strategia anti-inflazionistica

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diretta a contrastare l’instabilità macroeconomica seguita alla riunificazione. D’altro

canto, le pressioni esercitate nel 1993 sulla Banca di Francia, perché si assumesse

l’onere di risolvere la crisi svalutando il franco all’interno della griglia delle parità

bilaterali del MTC, non andarono a buon fine. La Francia, promotrice dello SME di

concerto con la Germania, non volle che il franco francese apparisse in posizione

subordinata rispetto al marco.

La terza fase dello SME (1993-98) vide il MTC divenire un semplice simulacro

di regime di cambi fissi: la banda allargata del ±15% metteva le banche centrali al

riparo da attacchi speculativi. La crisi del 1992-93 segnò lo spartiacque fra la

strategia dei cambi fissi e quella dei criteri di convergenza che avrebbe condotto

all’unificazione monetaria. La convergenza nominale venne affidata all’impegno

delle autorità monetarie e fiscali a raggiungere gli obiettivi fissati dai criteri

quantitativi di Maastricht. I quattro criteri per superare l’esame di ammissione alla

terza fase del programma di unificazione monetaria, che ha portato alla nascita

dell’euro, furono i seguenti: 1) un tasso di inflazione che non eccedesse di più

dell’1,5% la media dei tre più bassi valori dei tassi di inflazione nello SME; 2) un

tasso di interesse a lungo termine che non eccedesse di più del 2% i tre più bassi

valori registrati nei paesi dello SME; 3) un rapporto deficit pubblico / PIL che non

eccedesse il 3%; 4) un rapporto debito pubblico / PIL che non eccedesse il 60%.

Inoltre, nei due anni precedenti l’ingresso nell’unione monetaria, la valuta doveva

fare parte del MTC e non subire svalutazioni.

La storia dello SME è racchiusa nelle seguenti evidenze empiriche più

significative:

1) La lenta riduzione dell’inflazione (Figura 7.1). Dopo la discesa iniziale del 1982-

86 (favorita dal contro-shock di riduzione del prezzo del petrolio) il tasso di

inflazione subisce una risalita alla fine degli anni ’80 (soprattutto nei paesi della

Periferia) e soltanto dopo le crisi del 1992 e del 1993 si avvicina o raggiunge il basso

livello cui l’inflazione era stata portata in Germania.

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2) L’incremento della disoccupazione (Figura 7.2). Successivamente alla riduzione

degli anni 1987-89, la disoccupazione si stabilizza attorno a valori ancora piuttosto

elevati, in particolare nella Periferia A (dove si registrarono tassi di interesse in salita

ed una prolungata caduta del tasso di crescita del reddito). Questi dati hanno indotto a

formulare l’ipotesi che la devoluzione di fatto alla Germania della determinazione

dello stock di moneta in circolazione nell’area dello SME abbia comportato una

restrizione monetaria superiore all’obiettivo di sconfiggere l’inflazione, e cioè ad una

distorsione in senso deflazionistico della crescita europea.

Figura 7.1. SME: tassi di inflazione

0

5

10

15

20

25

1978

1980

1982

1984

1986

1988

1990

1992

1994

1996

1998

Centro Periferia A Periferia B

Figura 7.2. SME: tassi di disoccupazione

4

6

8

10

12

14

16

1978

1980

1982

1984

1986

1988

1990

1992

1994

1996

1998

Centro Periferia A Periferia B

3) Lo squilibrio nei flussi commerciali intra-SME (Figura 7.3). I paesi che hanno

dato vita all’Unione monetaria europea costituiscono un’area relativamente chiusa.

Di conseguenza, i flussi commerciali intra-SME hanno rappresentato un indicatore di

competitività molto importante nella valutazione della credibilità del MTC da parte

dei mercati finanziari, esercitando un’influenza rilevante sull’andamento dei cambi.

Dall’andamento dei valori del rapporto Partite correnti / PIL in alcuni paesi dello

SME si rileva come il surplus commerciale della Germania cresca dalla costituzione

dello SME fino allo shock asimmetrico rappresentato dalla riunificazione politica

tedesca. All’opposto, si registrano trend decrescenti e caratterizzati da forti deficit per

le tre economie della Periferia A (ad esempio, nella fase di cambi stabili 1987-92

l’Italia registra crescenti passivi della bilancia commerciale).

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Figura 7.3. SME: partite correnti / PIL

-6

-4

-2

0

2

4

6

8

1980

1982

1984

1986

1988

1990

1992

1994

1996

1998

Germania Italia Spagna Regno Unito

Figura 7.4. Tassi di inflzione, tassi di crescita reali e tassi di interesse a breve termine

-2

0

2

4

6

8

10

12

14

16

18

1979/86Centro

1987/92Centro

1993/98Centro

1979/86Periferia

A

1987/92Periferia

A

1993/98Periferia

A

1979/86Periferia

B

1987/92Periferia

B

1993/98Periferia

B

Tassi di inflazione Tassi di crescita del PIL realeTassi di interesse reali a breve termine

Negli anni successivi alle crisi 1992-93, invece, ai valori negativi del rapporto in

Germania (causati dalle conseguenze economiche del processo di riunificazione)

corrispondono notevoli recuperi nella Periferia A, con il passaggio ad elevati surplus

in Italia. Si può ipotizzare che questa robusta correlazione fra gli andamenti speculari

dei flussi commerciali del Centro e della Periferia abbia contribuito a determinare i

trend di deprezzamento reale del marco e di apprezzamento reale delle valute della

Periferia prodotti dai differenziali inflazionistici con la Germania in presenza di

cambi fissi.

4) La stagnazione della crescita (Figura 7.4). Il forte incremento dei tassi di

interesse ed i bassi valori del tasso di crescita sono probabilmente legati da un

rapporto di causalità. Questa evidenza empirica di alti tassi di interesse e bassa

crescita è particolarmente chiara nei paesi della Periferia. Nella seconda e nella terza

fase, nei paesi della Periferia la tendenza dei tassi di inflazione a decrescere è

accompagnata da un forte incremento dei tassi di interesse e dalla caduta dei tassi di

crescita dell’economia (tali fenomeni appaiono meno evidenti nella Periferia A che

non nella Periferia B perché due paesi - Spagna e Regno Unito - hanno partecipato

allo SME per un numero di anni molto esiguo).

Il bilancio complessivo dello SME è moderatamente positivo sul piano della

disinflazione, e alquanto negativo per quanto riguarda l’incremento della

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disoccupazione. Il risultato della bassa inflazione è maturato molto lentamente ed è

stato pienamente conseguito dallo SME soltanto successivamente ai 15 anni di

funzionamento del MTC con banda “stretta” del ±2,25%, e cioè nella terza fase,

durante la quale la strategia di integrazione monetaria si è imperniata sui criteri di

Maastricht, che imponevano politiche macroeconomiche restrittive. Una possibile

spiegazione per la vischiosità delle aspettative di inflazione deriva dalla semplice

osservazione che il progressivo – per quanto lento - restringimento del differenziale

di tassi di inflazione fra un paese della Periferia e la Germania (il paese con il più

basso tasso di inflazione nello SME fino al 1990) non chiudeva, ma rendeva soltanto

progressivamente più lento, l’ampliarsi della “forbice” di prezzo fra le merci del

paese della Periferia e quelle tedesche.

Questa evidenza empirica fa sorgere un interrogativo sul rapporto fra i costi e i

benefici di una strategia di disinflazione rigidamente imperniata sull’acquisizione di

credibilità delle n-1 banche centrali. L’impegno delle autorità monetarie dei paesi

partecipanti allo SME a promuovere la disinflazione si confrontava con un forte

disincentivo. Mantenere la valuta all’interno delle bande di oscillazione attorno alla

parità centrale del meccanismo di cambi fissi era in contraddizione con il desiderio di

politiche monetarie e fiscali “attive”, in grado cioè di sostenere il livello di attività

economica con impulsi espansivi sul reddito. In effetti, si tratta di un conflitto fra

obiettivi che si presenta ogni volta che un paese accetti di adottare un regime di

cambi fissi: l’esigenza di segnalare l’impegno alla difesa del cambio fisso costringeva

le n-1 banche centrali – in misura ovviamente diversa, in ragione della diversa

reputazione delle autorità monetarie e della diversa affidabilità dei governi – a

mantenere elevati i livelli dei tassi di interesse. Un processo di disinflazione che dura

più di 15 anni rappresenta un periodo troppo lungo perché la “cura” (le politiche

macroeconomiche restrittive) non provochi l’effetto collaterale di debilitare

l’organismo. Sono state forse sottostimate le ricadute sull’espansione produttiva e

occupazionale della strategia di difendere le parità con il marco legando la creazione

di moneta alla politica monetaria della Bundesbank. Se è vero che gli “alti” tassi di

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interesse hanno contribuito a determinare la bassa a crescita economica, ci si deve

chiedere se la stabilità monetaria avrebbe potuto essere ottenuta ad un costo inferiore.

Non avendo l’ambizione di offrire risposte definitive, nei prossimi paragrafi ci

limiteremo a presentare l’apparato analitico necessario a formarsi un’opinione

argomentata sui vari aspetti del processo di convergenza nominale e reale in Europa.

4.3. L’Unione Monetaria Europea

Con l’adozione da parte del Consiglio europeo del rapporto Delors (dal nome del

presidente della Commissione Europea dell’epoca), nel 1989 si diede l’avvio alla

costruzione dell’Unione Economica e Monetaria. Il rapporto Delors prevedeva tre

tappe per il cammino che avrebbe condotto all’unificazione monetaria. La prima

tappa (1990-1993) consisteva nel rafforzamento della cooperazione nella politica

monetaria, dopo la completa liberalizzazione dei movimenti di capitale. Per le tappe

successive, che comportavano la creazione della banca centrale e il varo della moneta

comune, fu necessario un adeguamento costituzionale. La ratifica del Trattato sull’UE

(TUE) - detto anche Trattato di Maastricht, dal nome del luogo in cui fu firmato nel

1991 – rese possibile la seconda tappa (1994-1998) rivolta alla creazione dell’Istituto

Monetario Europeo, un’istituzione designata alla preparazione all’integrazione

monetaria. Tale organismo ha provveduto a mettere i mercati monetari e finanziari ed

il sistema dei pagamenti nelle condizioni di affrontare il passaggio ai cambi

irrevocabilmente fissi e l’entrata in operatività della Banca Centrale Europea (BCE).

La terza tappa, che corrisponde al periodo di cambi irrevocabilmente fissi (1 gennaio

1999 - 31 dicembre 2001), vide l’adozione dell’euro nelle transazioni finanziarie,

l’emissione di titoli pubblici in euro e la possibilità per risparmiatori ed imprese di

optare per conti bancari in euro.

I criteri di Maastricht segnarono l’accelerazione del processo di integrazione

monetaria e l’ampliamento della strategia di coordinamento dalla moneta al bilancio

pubblico. La logica del cambio di strategia dai cambi fissi dello SME a banda stretta

ai quattro indicatori di convergenza è così riassumibile. Fra il 1979 ed il 1993,

l’enforcement della monetary stance anti-inflazionistica era stato affidato alla

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sanzione dei mercati finanziari internazionali nella forma del riconoscimento di un

“premio per il rischio” di svalutazione e di default del governo, da inglobare nel tasso

di interesse sulle attività finanziarie denominate nella valuta “debole”. Con

l’adozione della banda larga del ±15%, i paesi impegnati nel processo di integrazione

monetaria posero virtualmente fine agli attacchi speculativi nei confronti della valuta

della banca centrale inadempiente all’impegno anti-inflazionistico.

Dal 1993 al 1998 il processo di convergenza nominale venne a fondarsi sulla

strategia di enforcement basata su indicatori numerici. Poiché il rispetto dei criteri di

Maastricht rappresentava la condizione per la definitiva fissazione delle parità,

all’enforcement della minaccia di attacchi speculativi si sostituì l’enforcement della

minaccia dell’esclusione dall’unione monetaria. Il criterio aggiuntivo che imponeva

la permanenza nel MTC per almeno due anni prima della fissazione definitiva delle

parità bilaterali fu soddisfatto con l’adesione dello scellino austriaco nel gennaio

1995, del marco finlandese nell’ottobre 1996 e con il rientro nel MTC della lira

italiana nel novembre 1996. Nel maggio 1998, al momento della verifica di

congruenza dei quattro indicatori macroeconomici con i parametri di Maastricht,

l’obiettivo della convergenza nominale risultò sostanzialmente raggiunto. Undici

paesi rispettavano il limite massimo fissato per tassi di inflazione e di interesse,

nonché i criteri per deficit e debito pubblico sul PIL. In base ad un comma del

Trattato, fu infatti possibile considerare in “sicuro trend decrescente” i rapporti debito

pubblico/PIL ben più alti del limite del 60%, di Italia e Belgio e poi anche della

Grecia.

Una volta definiti i tassi di cambio irrevocabilmente fissi undici valute il 1

gennaio 1999 diedero vita all’unione monetaria. Esattamente un anno dopo,

l’ingresso nell’UME della dracma greca (rientrata nel MTC solo nel marzo 1998)

portò a dodici il numero di paesi dell’UE che il 1 gennaio 2002 misero in circolazione

l’euro. Il 1 gennaio 2007 la Slovenia diviene il tredicesimo paese dell’UME.

Nel gioco strategico del coordinamento monetario per ciascuno dei paesi

dell’UME il pay-off della partecipazione ha un valore che è funzione del numero

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103

degli aderenti. Molti paesi – a cominciare dalla Germania – avrebbero voluto che

alcuni paesi dello SME non fossero nel gruppo dei paesi fondatori dell’UME per

timore che la loro instabilità macroeconomica e l’inaffidabilità dei loro governi si

riverberassero sulla credibilità del nuovo segno monetario. L’“uscita” da un accordo

di cambi fissi ma aggiustabili come lo SME, e a maggior ragione l’“uscita” da un

accordo di cambi irrevocabilmente fissi, comporta la sanzione di mercato consistente

nella perdita di reputazione da parte della banca centrale e del governo che si erano

assunti l’impegno di difendere le parità bilaterali. Benché la valuta europea sia un

segno monetario cui non corrisponde il potenziale economico di uno stato. I legami

fra paesi che si stabiliscono in un’unione monetaria sono ben maggiori di quelli

implicati da un accordo di cambi fissi.

Il ripristino dell’autonomia di politica monetaria si configura come una vera e

propria “secessione”. Si può dire che se un qualunque paese dell’UME decidesse di

ritornare al proprio segno monetario i “costi” di uscita (exit) - quelli sopportati dal

paese stesso e quelli a carico dei paesi membri - sarebbero molto elevati. I benefici

della riduzione dei costi di transazione e dell’incertezza sul cambio, nonché il

probabile incremento della quota in euro sul totale delle riserve ufficiali detenute

dalle maggiori banche centrali non europee una volta consolidatosi il ruolo dell’euro

nei mercati internazionali, sono fattori che innalzano il costo dell’uscita e dovrebbero

accrescere il valore della lealtà ai comuni obiettivi (loyalty). Il vero problema, come

vedremo più avanti, è la corretta definizione dei comuni obiettivi.

Il sostanziale successo della creazione della moneta europea ha indotto i Paesi

dell’Europa Centro-Orientale, per i quali il valore dell’adozione dell’euro è molto

alto, ad accelerare l’ingresso nell’UME. Tali paesi, oltre ad adeguare norme

giuridiche e regolamentazione dei mercati monetari e finanziari, sono impegnati nella

realizzazione delle politiche macroeconomiche necessarie per ridurre inflazione e

deficit pubblico.

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5. Tassi di inflazione

Applichiamo l’analisi della disinflazione svolta nella Parte Prima, identificando un

paese della Periferia (I) con l’Italia e uno del Centro (G) con la Germania. Come si

è osservato introducendo il concetto del “quartetto impossibile”, la lunga fase di

stabilità valutaria che caratterizzò lo SME fra il 1987 ed il 1992 provocò in molti

paesi della Periferia una situazione di incompatibilità fra gli obiettivi della

disinflazione e del mantenimento del livello di attività economica. Data la scelta,

maturata a metà anni ’80, di evitare aggiustamenti del MTC, il tasso di cambio

nominale con le altre valute doveva mantenersi fisso e quindi la monetary stance

doveva seguire l’orientamento restrittivo della Bundesbank. Le economie dei paesi

della Periferia avevano però performance troppo difformi da quelle dei paesi del

Centro.

Il tasso di inflazione nel primo paese (πI) superava il tasso di inflazione nel

secondo (πG), nella misura determinata dal rispettivo eccesso del tasso di crescita del

salario (•

w ) rispetto alla dinamica della produttività del lavoro (•

ξ ). Dato il divario ••••

> GGII ww ξξ // , si determinava un differenziale inflazionistico: πI>πG. Pertanto, un

livello del CLUP maggiore in Italia che non in Germania costituiva un fattore di

squilibrio di competitività fra i due paesi.

Precedentemente al regime di cambi fissi ma aggiustabili dello SME, la

compensazione di un valore minore di uno del rapporto fra il tasso di inflazione in

Germania ed il tasso di inflazione in Italia (πG/πI<1) si realizzava attraverso il

deprezzamento della lira rispetto al marco (un innalzamento di ê) proporzionale al

differenziale inflazionistico determinato dal divario fra i due CLUP, in modo da

mantenere invariato il tasso di cambio reale, IGe ππe /ˆˆ ⋅= . Con il passaggio ai cambi

fissi, il tasso di cambio nominale deve essere mantenuto fisso dalla politica monetaria

della Banca d’Italia ( 0ˆ =•

e ). Poiché la produttività non è modificabile nel breve

periodo, la discesa del rapporto IG ππ / è sanata dalla variazione del valore del tasso di

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105

cambio reale (e ), nella misura richiesta dall’eccesso di salario che si registra in Italia.

In luogo dell’aggiustamento del cambio nominale (una maggiore quantità di lire per

acquistare un marco) si realizza l’apprezzamento del cambio reale (una maggiore

quantità di beni italiani per acquistare la medesima quantità di beni tedeschi). Il tasso

di cambio reale subisce pertanto una riduzione al di sotto del suo valore di lungo

periodo ( Ne ) corrispondente alla parità dei poteri d’acquisto: ee >N .

6. Deficit pubblico e debito pubblico

Nel processo di convergenza nominale, uno dei criteri da soddisfare per la

partecipazione all’unione monetaria era il limite del 3% per il rapporto deficit

pubblico/PIL. La Commissione Europea ha imputato ai governi europei di non avere

introdotto le riforme necessarie a rendere la struttura delle finanze pubbliche adeguata

ai due obiettivi della stabilizzazione macroeconomica e della decumulazione del

debito pubblico. Le fiscal stance dei paesi dell’UME sono state oggetto dei seguenti

rilievi: 1) non avere applicato il Tax Smoothing (§ 4.5), lasciando incrementare il

rapporto deficit pubblico/PIL nelle fasi espansive del ciclo invece di accantonare un

surplus di bilancio da utilizzare nei periodi di “vacche magre”; 2) avere rinunciato ad

una strategia di lungo periodo rivolta alla riduzione degli alti rapporti debito

pubblico/PIL, lasciando che nelle fasi recessive la lenta dinamica del denominatore

accrescesse il valore del rapporto debito pubblico/PIL.

La tesi sostenuta dalla Commissione Europea è che nei paesi dell’UE - ad

esclusione di Lussemburgo, Regno Unito, Finlandia, Irlanda e Svezia - “la maggior

parte dell’incremento del rapporto debito pubblico/PIL ebbe luogo nei periodi di non-

recessione, allorché le politiche di bilancio non controbilanciarono gli effetti della

recessione sulla dinamica del debito, ma lo aumentarono ulteriormente” (Buti, et al.,

1997).

La prima domanda che allora ci dobbiamo porre riguarda le cause

dell’incremento registrato dal rapporto fra il deficit pubblico ed il PIL nei paesi

dell’UE fra gli anni ’70 e gli anni ’90.

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La politica fiscale si compone dell’operare degli stabilizzatori automatici nel

corso del ciclo economico e della politica discrezionale del governo. Rispetto agli

effetti sul saldo di bilancio pubblico che gli stabilizzatori automatici determinano nel

corso del ciclo economico attraverso gli effetti di “smussamento” delle oscillazioni

del reddito, ogni manovra discrezionale attuata dal governo opera una variazione in

aumento o in diminuzione. La “regola fiscale” seguita dal governo consiste appunto

nella variazione del saldo di bilancio, e cioè nella variazione da imprimere ogni anno

alla fiscal stance, al fine di renderla conforme agli obiettivi della politica fiscale.

La misurazione della fiscal stance avviene isolando la componente strutturale

del saldo di bilancio, e cioè sottraendo dal saldo complessivo la componente ciclica

del saldo di bilancio determinata dall’operare degli stabilizzatori automatici del ciclo

economico. Per calcolare la componente ciclica occorre misurare l’output gap, la

divergenza della produzione effettiva dalla produzione potenziale di lungo periodo.

Per ottenere una proxy di quest’ultima, si ricorre al reddito “tendenziale” mediante

l’applicazione alla serie del prodotto lordo effettivo del filtro Hodrick-Prescott.

Questo metodo di livellamento dei valori annuali mediante medie mobili concatenate,

benché comporti una distorsione della stima per gli anni più recenti, è solitamente

preferito al metodo alternativo - la stima econometrica del prodotto potenziale – che

implica il ricorso ad una funzione Cobb-Douglas. Pertanto, la componente ciclica del

bilancio pubblico dal saldo complessivo viene calcolata moltiplicando l’output gap

per il valore che esprime la sensibilità al ciclo delle entrate e delle uscite fiscali

(l’elasticità delle entrate moltiplicato il rapporto (τ) tassazione/PIL e l’elasticità delle

uscite moltiplicato il rapporto (γ) spesa pubblica/PIL). La variazione della fiscal

stance viene così stimata mediante la sottrazione di questa componente ciclica dal

saldo di bilancio complessivo.

Come valutare il comportamento del governo? Un giudizio sulla politica fiscale

può essere espresso con la semplice comparazione fra questa stima della variazione

della fiscal stance al netto degli effetti del ciclo nell’anno t e l’effettivo saldo di

bilancio primario nell’anno precedente. Ci chiediamo, di fatto, quale fiscal stance

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sarebbe risultata dalla politica discrezionale se il livello del PIL fosse rimasto

invariato rispetto al periodo precedente (depurando cioè il saldo dalla sua

componente “ciclica”. Il saldo di bilancio “corretto per il ciclo” (cyclically adjusted)

può essere anche definito come il valore che il saldo primario del bilancio pubblico

avrebbe assunto se il PIL fosse rimasto costante dal tempo t-1 al tempo t: vt(Yt-1)/Yt.

Il saldo primario registra, per ogni periodo, le decisioni di diretta emanazione

delle autorità fiscali. Non essendo incluse le spese per interessi sul debito, si tratta in

effetti – è bene sottolinearlo - del “saldo primario strutturale”. Il metodo statistico per

determinare il saldo primario strutturale è la stima econometrica dei parametri che

legano la crescita dell’occupazione (Blanchard, 1990) oppure del reddito ai rapporti

Tt/Yt e Gt/Yt (Farina e Tamborini, 2002). I valori stimati vanno inseriti come parametri

noti in una nuova regressione che lega questa volta la crescita del reddito

all’incognita che vogliamo determinare, il valore in ogni anno della fiscal stance. La

variazione del saldo primario strutturale del bilancio pubblico è misurata dalla

differenza fra valore stimato (il saldo primario corretto per il ciclo) e valore effettivo

del periodo precedente: vt(Yt-1)/Yt− vt-1/Yt-1. La variazione della fiscal stance al netto

degli effetti del ciclo si definisce anche “impulso fiscale”. Se il valore della differenza

è positivo, l’“impulso fiscale” è in senso restrittivo; se è negativo, l’“impulso fiscale”

è in senso espansivo.

____________________________________________________________________

BOX. Fiscal Impulses

1.Public deficit / GDP ratio In order to evaluate the FAs behaviour net of the cycle, we have to single out

the discretionary fiscal policy. We then compute the value that the fiscal stance would have taken if the GDP would have remained constant from time t-1 to time t, that is the structural budget net of the impact of automatic stabilizers on Y.

The budget, on both the revenue and expenditure sides, responds directly to the first differences in GDP measured by the real growth rate (g t = Yt / Yt-1 – 1); to avoid the endogeneity problem, the employment rate could be chosen instead of g.

The variation of the structural budget (or ‘fiscal impulse’) is measured by the difference between the simulated budget at time t and the actual budget at time t–1.

Therefore, considering also a trend component t and the error u:

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Gt/Yt = a1 + b11(gt) + b12 trend + u1t is the relation between total expenditure and GDP, and Tt/Yt = a2 + b21(gt) + b22 trend + u2t is the relation between total revenue and GDP. By using the coefficients

of the two equations, it is possible to compute the overall balance F = T-G , which would have resulted at time t had the GDP remained constant (i.e. if its value were that of the previous year). The overall balance / GDP ratio (considering the GDP constant at time t-1) is then:

Therefore, Ft(Yt-1) / Yt Ft-1 / Yt-1 (simulated – actual value) is the variation of the structural budget or ‘fiscal impulse’. This change in the fiscal stance indicates a fiscal restriction independent of the cycle if the value is positive, and a fiscal expansion if the value is negative. We shall use f to denote the ratio between F and GDP, and f^ to denote the ratio between Ft (Yt-1) and GDP. Overall, fiscal impulses seem to have complied with the logic of Tax Smoothing in almost all EMS years. For example, an actual budget balance of expansionary sign (the line of the actual budget balance lies below the neutral budget line) gives rise to restrictive discretionary measures (the histogram of the fiscal impulse is above the neutral budget line). The more pronounced a variation of the budget balance tends to be, the greater is the subsequent change of fiscal stance (f^t – ft-1 ). ____________________________________________________________________

Valutiamo allora la prima critica della Commissione Europea. Per analizzare la

strategia di politica fiscale perseguita dai paesi dell’UE, abbiamo scelto l’andamento

del rapporto deficit pubblico/PIL in Germania ed Italia (Figura 7.6). Questi due paesi

di grandi dimensioni e di lunga partecipazione al sistema di cambi fissi dello SME

presentano un grado di stabilizzazione del ciclo attraverso gli stabilizzatori

automatici, ed anche di correlazione della sensibilità del bilancio con la dimensione

del settore pubblico, abbastanza rappresentativi della media UE. Nella Figura 7.6, con

v si indica il rapporto vt-1/Yt-1 e con ύ si indica il rapporto vt(Yt-1)/Yt. L’indice di

variazione della fiscal stance di Germania mostra che nel complesso gli impulsi

fiscali paiono avere seguito, in quasi tutti gli anni, la logica del Tax Smoothing. I

1 2 1 21 11 1 22 12ˆ ˆ ˆ ˆˆ ˆ( ) / ( ) ( ) g ( )t t t t tF Y Y a a b b b b− −= − + − + −

ttttt bbbbaaYYF )ˆˆ( g )ˆˆ()ˆˆ(/)( 122211121121 −+−+−= −−

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tracciati degli impulsi fiscali hanno infatti un andamento pressoché speculare rispetto

a quello del saldo di bilancio effettivo, oscillando attorno alla linea di bilancio

neutrale. Se si escludono la crisi dello Yom Kippur (1973-74) e la riunificazione

tedesca (1989-90), a saldi di bilancio effettivo vt-1 di segno espansivo (il tracciato è

sotto la linea di bilancio neutrale) corrispondono di norma interventi discrezionali

restrittivi (l’istogramma dell’impulso fiscale (ύt–vt-1) è sopra la linea di bilancio

neutrale). La manovra discrezionale di riduzione del deficit primario strutturale creato

nel periodo precedente è di norma di ampiezza sufficiente.

Il grafico dell’Italia delinea uno scenario diverso. La variazione del saldo

primario strutturale operata dall’autorità fiscale non è mai tale da riportare in

pareggio il saldo primario del bilancio pubblico. Alla tendenza espansiva dei deficit

pubblici al netto del ciclo (valori costantemente negativi del saldo primario strutturale

intorno al 4%) corrispondono per tutto il periodo 1976-91 variazioni compensative

della fiscal stance ampiamente insufficienti (intorno al 2%). Di conseguenza, i deficit

primari contribuivano di anno in anno ad alimentare la formazione di debito pubblico.

Figura 7.6. Impulsi fiscali

(a) Germania

-5-4-3-2-101234

1970 1975 1980 1985 1990 1995

ύ(t)-v(t-1) v(t-1)

-8

-6

-4

-20

2

4

6

8

1970 1975 1980 1985 1990 1995

ύ(t)-v(t-1) v(t-1)

(b) Italia

Fonte: Farina e Tamborini (2002)

Dopo il varo dello SME, a valori del deficit pubblico via via più moderati

seguono impulsi fiscali restrittivi sul saldo strutturale primario via via più rilevanti. A

partire dal 1991 si registra il passaggio del rapporto saldo di bilancio pubblico

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primario / PIL a un valore positivo. Sebbene il comportamento delle autorità fiscali

non appaia incline a fare lievitare senza limiti la spesa pubblica, la gestione del deficit

non appare conforme alla “disciplina fiscale”, in quanto vengono sottovalutate le

conseguenze dei deficit in termini di accumulazione di debito pubblico. Nel loro

complesso, questi risultati suggeriscono che le autorità fiscali tedesche, ma non quelle

italiane, orientarono le fiscal stance al rispetto del Tax Smoothing.

La seconda critica della Commissione Europea mette in questione la volontà delle

autorità fiscali dei paesi dell’UE di realizzare una stabilizzazione compatibile con il

vincolo intertemporale del bilancio pubblico.

Ricordando le prime due fonti di incremento di debito pubblico nell’equazione

(4.10), in ciascun anno il rapporto debito pubblico/PIL viene stabilizzato – e cioè il

suo tasso di variazione è nullo - se il saldo del bilancio pubblico primario è : ν=(i–

g)b. Per valutare questa critica della Commissione Europea, occorre individuare il

saldo strutturale di stabilizzazione del debito (ύ*). Suddividendo il saldo del bilancio

pubblico nella componente strutturale (ύ) e nella componente ciclica (νc), possiamo

definire (ύ*) come il valore del saldo strutturale primario di ogni anno t che stabilizza

il debito pubblico primario al livello t-1. Il saldo strutturale di stabilizzazione del

debito (ύ*) si ricava calcolando la differenza fra il tasso di interesse nominale al netto

della dinamica del reddito nominale moltiplicato il rapporto debito pubblico/PIL e la

componente ciclica del saldo di bilancio pubblico:

(7.10) ύ*=(i-g)b-νc

Il perseguimento dell’obiettivo del debito pubblico dipende dai due fattori del

prodotto (i–g)b. Quanto più elevati sono la differenza fra tasso di interesse e tasso di

crescita e/o l’indebitamento pubblico in rapporto al PIL, tanto più ampia deve essere

la restrizione fiscale da attivare. Benché sia una strategia di politica fiscale diretta a

mantenere il bilancio pubblico mediamente in pareggio, il Tax Smoothing non

coinvolge questi due fattori, ma esplicita soltanto un criterio riferito al saldo primario:

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(§ 4.2). Tale criterio non è però sufficiente, in quanto per valutare l’operato dei

governi la Commissione Europea prende in considerazione la somma dei deficit

primario e secondario. Un giudizio formulato unicamente in base al Tax Smoothing

conduce ad ambiguità interpretative. Supponiamo che gli stabilizzatori automatici – a

partire da un bilancio pubblico in pareggio - creino un deficit primario nel corso di

una fase recessiva. Supponiamo anche che una precedente fase espansiva abbia

consentito l’accantonamento di entrate fiscali che possano ora esse impiegate a

copertura del deficit. Possiamo concludere che l’attuazione del principio del Tax

Smoothing – ovvero un valore costante del saggio di tassazione ed un andamento

oscillatorio delle finanze pubbliche conforme alla fase del ciclo – sia sufficiente a

garantire la permanenza in pareggio del bilancio nel medio periodo? La risposta non

può che essere negativa. Infatti, tale principio prescinde dalla copertura del deficit

secondario. Un esogeno aumento livello del tasso di interesse potrebbe aprire nel

bilancio pubblico un deficit destinato a durare per più periodi. Egualmente, una

caduta strutturale del tasso di crescita potrebbe causare un innalzamento del rapporto

deficit pubblico complessivo / PIL (il che renderà necessario un adeguamento verso

l’alto del saggio di tassazione e/o verso il basso della spesa pubblica).

Il problema è allora che la Commissione Europea misura correttamente la

fiscal stance dei paesi dell’Unione Europea con riferimento al saldo strutturale

primario (escludendo cioè la spesa per interessi), ma emette il suo giudizio con

riferimento al deficit pubblico complessivo. Viene abbracciata la concezione della

regolazione del bilancio pubblico in funzione dell’obiettivo di lungo periodo di

mantenere in equilibrio il VIBP. Non è solo l’indebitamento consistente negli

aggiuntivi titoli (emessi a copertura di una nuova spesa pubblica) e la relativa spesa

per interessi - come vuole il Tax Smoothing a dovere essere estinto nel breve termine

(nel corso della successiva ripresa economica). Quale che sia infatti l’origine di un

deficit pubblico (deficit primario oppure deficit secondario), al fine di mantenere in

equilibrio il VIBP, l’autorità fiscale deve farsi carico del deficit pubblico complessivo

e non solo di quello primario. Se la differenza (i–g) presenta un valore positivo, la

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112

restrizione fiscale dovrà eccedere la semplice copertura di un eventuale saldo

negativo primario per tutto l’importo della differenza moltiplicata per il “peso”, il

rapporto (b) debito pubblico / PIL. Ogniqualvolta si determini un trade-off fra

stabilizzazione del debito pubblico (o decumulazione, nel caso di un paese con

rapporto debito / PIL superiore al 60%) e stabilizzazione del reddito attraverso una

politica fiscale discrezionale espansiva, deve essere quest’ultima a cedere il passo.

La Commissione Europea riconduce ogni incremento del rapporto (b) deficit

pubblico/PIL ad un eccessiva formazione di deficit primario da parte delle autorità

fiscali. Nell’avanzare la tesi secondo la quale negli ultimi decenni molti paesi dell’UE

non si sarebbero comportati in accordo con le prescrizioni del Tax Smoothing, viene

così sottaciuto che il primo termine dell’equazione (7.10) può costituire

un’importante causa della salita dei rapporti medi di deficit pubblico/PIL dell’UE. Se

nei periodi di output gap positivo tale rapporto ha continuato ad aumentare, anche se

ad una velocità minore, l’origine potrebbe risiedere nell’avvitamento fra salita dei

tassi di interesse ed incremento delle emissioni di titoli pubblici. La domanda da porsi

è allora la seguente: quali fattori hanno causato nei paesi europei fiscal stance non

conformi alla stabilizzazione del rapporto debito pubblico/PIL e alla decumulazione

del debito pubblico in eccesso?

I tracciati della Figura 7.7 mettono a confronto, per ciascun paese, il saldo

strutturale primario che la fiscal stance ha determinato (ύ(t)) ed il saldo strutturale

primario che sarebbe stato necessario per stabilizzare il debito pubblico sul PIL

(ύ*(t)). In Germania, gli andamenti speculari dei tracciati dei saldi primari effettivi e

stimati dimostrano che la differenza (i–g) non ha contribuito ad alimentare il debito

pubblico. Il saldo strutturale primario oscilla prima attorno alla linea di neutralità, per

poi conoscere variazioni della fiscal stance di segno restrittivo, soprattutto nel corso

degli anni ’90, quando gli elevati valori raggiunti dal debito pubblico provocano

picchi molti alti del saldo strutturale primario che stabilizza il debito pubblico.

Di nuovo, il quadro si presenta completamente diverso in Italia. Le insufficienti

manovre discrezionali di restrizione fiscale aprirono ampi divari fra spesa pubblica e

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113

entrate fiscali e richiesero quindi emissioni di titoli tali da alimentare l’accumulazione

di debito pubblico. Il trend di impulsi fiscali sempre meno espansivi, che ha inizio nel

1976 e che prosegue quasi costantemente fino al passaggio a variazioni della fiscal

stance sempre restrittive già nel 1988, appare sovrastato dal tracciato dell’attivo

strutturale di bilancio pubblico che sarebbe stato necessario – dal 1980 fino al 1989 –

per stabilizzare il rapporto (b) debito pubblico/PIL: solo nella seconda metà degli

anni ’90, con la discesa dei tassi di interesse, si determinò un’inversione nei valori del

nuovo indicatore. La valutazione dell’operato delle autorità fiscali è allora la

seguente.

Figura 7.7. Stabilizzazione del debito pubblico

(a) Germania

-4-3-2-10123456

1970 1975 1980 1985 1990 1995

ύ(t) ύ*(t)

(b) Italia

-12-10

-8-6-4-202468

1970 1975 1980 1985 1990 1995

ύ(t) ύ*(t)

Fonte: Farina e Tamborini (2002)

Dai primi anni ’80 in poi, le autorità fiscali hanno avuto come punto di riferimento

per i loro interventi discrezionali la compensazione di medio periodo di tendenze

espansive del deficit di bilancio pubblico. I governi non si preoccupavano dello

squilibrio che l’andamento del deficit pubblico complessivo andava producendo

nell’equazione del VIBP. D’altro canto, la crescente dinamica del rapporto debito

pubblico/PIL fu alimentata da un’espansione della spesa per interessi in buona misura

determinata dalla politica di difesa del cambio della lira nello SME, che richiedeva

ampi differenziali di tasso di interesse con la Germania.

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114

I tracciati mostrano che la distanza fra fiscal stance effettiva e fiscal stance “di

stabilizzazione del debito pubblico” è stata notevole: per neutralizzare l’impatto di

incremento del rapporto causato dalla fonte “esogena” tasso di interesse, sarebbero

state necessarie rilevanti manovre fiscali restrittive. Nel corso degli anni ’80, le

autorità fiscali italiane non riuscirono ad avviare la decumulazione; negli anni ‘90 ad

alimentare la formazione di nuovo debito non è stato il deficit primario ma il deficit

secondario, a causa degli alti tassi di interesse. Una strategia di rapida decumulazione

avrebbe richiesto, piuttosto che la semplice rinuncia a politiche fiscali discrezionali,

manovre restrittive anche durante le fasi di recessione. Considerando anche

l’orientamento restrittivo della politica monetaria, tali impulsi di restrizioni fiscali

avrebbero probabilmente generato effetti deflazionistici.

7. Tassi di interesse

L’ultimo criterio di Maastricht che rimane da esaminare è la convergenza fra i tassi di

interesse. Questa grandezza rileva non solo nella determinazione della dinamica dei

deficit pubblici attraverso la spesa per interessi ma influenza anche direttamente il

sentiero di crescita di un’economia. L’evidenza empirica suggerisce che i differenziali

di tasso di interesse di molti degli n-1 paesi del MTC nei confronti del paese leader

dello SME non sempre ha rispecchiato l’andamento del tasso di cambio (vedi in

Figura 8.2 i differenziali (spread) rispetto ai titoli pubblici tedeschi). Perché la “parità

dei tassi di interesse” è stata spesso in disequilibrio?

La teoria macroeconomica ci propone le seguenti possibili spiegazioni della

divergenza (§ 3.4): 1) il premio per il rischio di cambio (svalutazione). I valori attesi

e realizzati delle parità bilaterali fra le valute del MTC erano influenzati da un

insufficiente grado di credibilità della politica monetaria delle n-1 banche centrali

impegnate a perseguire la disinflazione delle rispettive economie mediante la

strategia di pegging nei confronti del marco; 2) il premio per il rischio di ripudio del

debito pubblico da parte di un governo. Come spiega il modello di Sargent e Wallace

(§ 4.3.2), i mercati finanziari si attendono che la banca centrale, di fronte alla

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115

difficoltà del governo a piazzare le nuove emissioni, faccia ricorso alla

“monetizzazione” del debito pubblico.

Ricordando l’equazione (4.16), che esplicita la terza fonte di incremento del

rapporto debito pubblico / PIL, è possibile che l’eccesso del livello dei tassi di

interesse, rispetto alla svalutazione registrata ex post, in molti paesi della Periferia

dello SME sia stato causato da un errore di previsione. Le aspettative razionali non

vengono realizzate: πe–π≠0. L’impulso alla crescita del rapporto debito pubblico/PIL

sarebbe quindi provenuto da aspettative di inflazione superiori al tasso di inflazione

realizzatosi ex post (πe–π>0). Un eccesso di inflazione attesa nei mercati rispetto al

valore che si realizza ex post comporta un livello dei tassi di rendimento nominale dei

titoli pubblici più elevato di quello che risulta nella condizione di “parità dei tassi di

interesse”, e l’aumento della spesa per interessi viene finanziato con emissione di

debito. In molti paesi dello SME, il divario (πe>π) ha rappresentato un’importante

determinante della crescita del rapporto debito pubblico/PIL. Se il divario (πe>π) si

ripresenta per più periodi, l’accelerazione nell’accumulazione di debito pubblico può

essere notevole. Infatti, la crescita della spesa per interessi verrà alimentata sia nella

sua componente di prezzo (i) che nella sua componente di quantità (B). Non è però

semplice, anche ricorrendo a stime econometriche, stabilire in che misura l’errore di

previsione spieghi il divario fra differenziale di tasso di interesse e variazione del

tasso di cambio e/o la spinta verso l’alto che la crescita del debito pubblico imprime

al tasso di interesse. Le aspettative di inflazione e le aspettative di variazione del

tasso di cambio, non essendo misurabili ex ante, non sono verificabili ex post.

8. Regimi di cambio

Consideriamo i due principali regimi di tasso di cambio fra le valute:

1. il regime di tassi di cambio flessibili consiste nella determinazione del

rapporto di cambio mediante le libere contrattazioni che avvengono fra gli operatori

nei mercati valutari;

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116

2. il regime di tassi di cambio fissi consiste nell’accordo cooperativo mediante

il quale le banche centrali di vari paesi fissano le parità bilaterali fra le loro valute -

con bande di oscillazione sufficientemente strette, definite da un livello massimo e da

un livello minimo del cambio rispetto alla parità centrale - e si impegnano a

difenderle, mediante appropriati interventi di compravendita nei mercati valutari, in

presenza di movimenti che rischiano di provocare uno scostamento dalla parità

centrale di ampiezza superiore all’oscillazione massima concordata.

Il tasso di cambio nominale indica il rapporto in cui due valute vengono

scambiate. Esprimendo il prezzo di una valuta relativamente ad un’altra, il tasso di

cambio nominale può essere definito in due modi: 1) quotazione certo per incerto (e):

la quantità di valuta estera richiesta per l’acquisto di un’unità di valuta nazionale; 2)

quotazione incerto per certo(ê): la quantità di valuta nazionale richiesta per un’unità

di valuta estera. Poiché le due quotazioni sono l’una il reciproco dell’altra (e=1/ê),

nel valutare gli effetti di una variazione del tasso di cambio occorre fare attenzione

alla definizione cui si fa riferimento. In seguito all’introduzione dell’euro è divenuta

di uso più comune la prima quotazione: quanti dollari vengono richiesti per un euro

nei mercati valutari internazionali. Un apprezzamento della nostra valuta, l’euro, si

traduce in un aumento del tasso di cambio. È facile constatare che, se il valore del

tasso di cambio dollaro-euro aumenta quando l’euro si apprezza e, quindi, il dollaro si

deprezza, lo stesso valore rappresenta per un cittadino statunitense la quotazione

incerto per certo.

Facciamo un esempio. Il prezzo della moneta estera (dollaro) in termini della

moneta interna (euro) sia: 1,30$ = 1€. Al converso, il prezzo della moneta nazionale

in termini di moneta estera sarà: 0,7€ = 1$ il tasso di cambio Euro/US dollar è il

tasso di cambio nominale come prezzo della moneta estera in termini della moneta

nazionale: quante unità della moneta estera (US dollar) sono necessarie per acquisire

una moneta nazionale (euro) (certo per incerto). Nel regime di tassi di cambio fissi

(ma aggiustabili) dello SME il tasso di cambio veniva così calcolato: quante unità

della moneta nazionale (lira) erano necessarie per acquisire una moneta estera (DM).

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Il valore “incerto” veniva attribuito alla valuta interna; “certo” era il valore della

valuta estera. Con l’Euro, al contrario, “certo” è divenuto il valore della valuta interna

e “incerto” il valore della valuta estera.

Pertanto, il tasso di cambio reale con la quotazione certo per incerto è:

Tasso di cambio reale: ε = e p / pW

E con la quotazione incerto per certo è:

Tasso di cambio reale: ε’ = e’ pW / p

Ricordiamo infine due definizioni. 1, La “Legge del prezzo unico”: il libero

scambio rende eguale il prezzo di un bene in tutti i mercati del mondo, a meno della

conversione da una valuta all’altra (e naturalmente di eventuali costi di transazione).

2. La Parità dei Poteri d’Acquisto: secondo questa condizione, ancora più

ipotetica della prima perché riguarda tutti i beni, il tasso di cambio di equilibrio fra

due paesi è uguale al rapporto fra i loro livelli dei prezzi, a meno naturalmente dei

costi di trasporto e delle condizioni tendenzialmente non concorrenziali che

caratterizzano il settore dei servizi.

Pertanto, l’evidenza empirica non può fornire conferma alla PPP e alla legge

del prezzo unico. Troppo pervasive sono le condizioni di invalidità delle due

condizioni, causate dal grado di scostamento dei mercati dalla condizioni di

concorrenza perfetta, dalla presenza di barriere commerciali e di beni non

commerciabili, e dalle differenze internazionali nella misura ufficiale del livello dei

prezzi.

Il tasso di cambio reale (o ragione di scambio) indica il rapporto di scambio tra beni

nazionali ed esteri: in altre parole, determina la quantità di beni esteri che è possibile

ottenere contro un’unità di beni nazionali. Si definisce tasso di cambio reale effettivo

il rapporto fra l’indice dei prezzi ed il livello medio dei prezzi esteri (una media

ponderata i cui pesi esprimono la rilevanza che ciascun paese estero riveste

nell’interscambio commerciale). Con la quotazione certo per incerto, il tasso di

cambio reale )(e di un paese in relazione ad un paese estero (le cui variabili saranno

indicate con W in apice) è definito dal rapporto tra il livello del prezzo interno (p) ed

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il livello del prezzo estero (pW) espressi nella stessa valuta attraverso il tasso di

cambio nominale:

Wpep /=e ( ppe W /ˆˆ =e se si utilizza la quotazione incerto per certo).

Se, ad esempio, esistesse un solo bene e fosse prodotto sia negli Stati Uniti che

nell’Unione Europea, per calcolare il tasso di cambio reale un europeo dovrebbe

trasformare in euro il prezzo del bene estero espresso in dollari - dividendo il prezzo

in dollari per il tasso di cambio nominale (e) quotato certo per incerto (oppure

moltiplicandolo per la quotazione (ê=1/e) incerto per certo) - e rapportarlo al prezzo

del bene nazionale espresso in euro. Estendendo questo ragionamento all’insieme dei

beni prodotti nell’UE e negli US, il tasso di cambio reale raffronta l’indice dei prezzi

delle due economie espressi nella stessa valuta. Data la piena libertà di circolazione

dei beni, la condizione di “parità dei poteri d’acquisto” (PPA) ci dice che – nelle

condizioni ideali di assenza di costi di transazione – il libero scambio fa sì che

ciascun prodotto abbia lo stesso prezzo in qualsiasi luogo del mondo, a meno della

conversione da una valuta all’altra effettuata in base al tasso di cambio nominale. La

“legge del prezzo unico” vuole che ppe W /= . In altre parole, almeno nel lungo

periodo, il tasso di cambio reale (e ) deve essere uguale a 1.

Il tasso di cambio reale, essendo il rapporto tra prezzi interni e prezzi esteri

espressi nella stessa valuta, è il principale indicatore della competitività con l’estero.

Il suo valore rimane costante quando il differenziale di inflazione del paese rispetto

all’estero si trasmette completamente in una variazione del tasso di cambio nominale.

Ad esempio un deprezzamento nominale della valuta nazionale (in regime di cambi

fissi: una svalutazione) indica una riduzione del suo potere d’acquisto e corrisponde

ad una diminuzione del tasso di cambio quotato certo per incerto (ad un aumento, se

quotato incerto per certo). Un deprezzamento nominale dell’euro rende meno

conveniente per i residenti nell’UE l’acquisto dei beni di importazione dagli US e più

conveniente per i cittadini statunitensi acquistare i beni prodotti nei paesi dell’UE. Un

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119

effetto prevedibile è l’incremento delle esportazioni dall’UE verso gli US. La

condizione di Marshall-Lerner prescrive che, affinché tale riequilibrio possa avvenire,

l’aggiustamento nelle quantità scambiate deve essere più che proporzionale rispetto

alle variazioni dei loro prezzi relativi. Ciò richiede che la somma delle elasticità della

domanda di importazioni e di esportazioni rispetto al tasso di cambio sia maggiore di

1. In altre parole, nel medio termine l’aumento del valore delle esportazioni deve

essere superiore all’aumento del valore delle importazioni. Gli operatori esteri

troveranno conveniente accrescere la domanda di beni prodotti nel paese la cui valuta

è divenuta più a buon mercato. Tuttavia, per quanto si debba ipotizzare una riduzione

delle importazioni divenute più costose, il valore degli esborsi per pagare i beni

importati si accresce per il loro maggiore costo unitario. Questo saldo netto positivo

nella bilancia commerciale durerà fintantoché l’incremento dell’inflazione importata

non si sarà tradotto in un adeguamento dei salari e del livello generale dei prezzi. Una

volta che il vantaggio di competitività acquisito con la discesa del cambio si sia

esaurito, il disavanzo commerciale torna a salire (di qui la nota definizione di curva

J).

Con riferimento alla quotazione (e) certo per incerto che qui seguiremo, la

variazione percentuale del tasso di cambio reale ( eee /∆=•

) è data dalla somma della

variazione percentuale del tasso di cambio nominale ( eee /∆=•

) e del tasso di

inflazione nazionale (π ) al netto del tasso di inflazione estero ( Wπ ):

We ππe −+=••

.

In termini di tasso di cambio nominale tale relazione è:

ππe −+=••

We .

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120

In regime di cambi flessibili, il tasso di apprezzamento nominale è dato dalla

somma fra il tasso di apprezzamento reale ed il differenziale di inflazione che si

registra tra i due paesi. Un tasso di inflazione interno più basso del tasso di inflazione

estero (πW – π > 0) si riflette in una corrispondente differenza fra tasso di cambio

nominale e tasso di cambio reale. Il tasso di cambio nominale della valuta interna si

apprezza, mentre il tasso di cambio reale rimarrà invariato al livello naturale di lungo

periodo )( Ne corrispondente alla PPA. In regime di cambi fissi invece ciò non accade:

poiché il tasso di cambio nominale rimane costante è il tasso di cambio reale a

ridursi, discostandosi dal suo livello Ne .

Quando il tasso di cambio reale )(e di un paese scende, si realizza un

deprezzamento reale della valuta nazionale. Il contrario accade nel caso di

apprezzamento reale. Se i due paesi non producono gli stessi beni e/o producono beni

non commerciabili, il tasso di cambio reale può essere diverso da 1 anche nel lungo

periodo. In altre parole, viene meno la validità della versione assoluta della parità dei

poteri d’acquisto (la cosiddetta “legge del prezzo unico”). L’epoca successiva alla

fine del sistema di Bretton Woods nel 1971 è stata caratterizzata da un notevole

incremento della volatilità dei cambi. I disallineamenti del tasso di cambio reale fra le

principali valute, rispetto al valore di equilibrio di lungo periodo indicato dalla PPA,

risultano molto più ampi in regime di cambi flessibili che in regime di cambi fissi e

presentano una durata molto maggiore di ciò che intendiamo per “breve periodo”.

L’evidenza empirica di lunghi cicli di allontanamento del tasso di cambio reale

effettivo dal suo valore di equilibrio di lungo periodo può essere ricondotta

all’incremento della produzione dei beni non commerciabili (NT) rispetto alla

produzione di beni commerciabili (T). In assenza di barriere tariffarie, l’integrazione

dei mercati fa sì che si determini l’eguaglianza dei prezzi dei beni commerciabili fra i

paesi, ma nei settori dei beni non commerciabili – non esposti alla concorrenza

internazionale e con una dinamica della produttività più lenta – tale processo di

livellamento non si genera. Ad esempio, alcuni dei periodi, lunghi anche un decennio,

di fluttuazione del tasso di cambio tra il dollaro USA e il marco tedesco e tra il

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121

dollaro USA e lo yen sono interpretati in base ad una più lenta crescita della

produttività del lavoro rispetto alla dinamica salariale, con conseguente variazione del

cambio della valuta.

Consideriamo due paesi e supponiamo che la dinamica della produttività abbia

un’accelerazione nel settore T nel paese 1, ma non nel paese 2. La dinamica salariale

che nel paese 1 consegue agli incrementi di produttività nel settore T si trasmette

anche al settore NT, dove invece la produttività aumenta più lentamente. Quanto più

ampio è il divario fra la dinamica della produttività nel settore T e quella del settore

NT nel paese 1 rispetto al paese 2, tanto maggiore sarà l’incremento relativo nel tasso

di inflazione nel paese 1. Infatti, il differenziale di tasso di inflazione risulta dal

divario fra i rapporti tra il settore T ed il settore NT nei due paesi. Il cosiddetto

“effetto Balassa-Samuelson” prevede appunto che il tasso di inflazione sia più elevato

nel paese 1 che nel paese 2:

))(1( 2121 PMLPML −Φ−=−ππ

nella misura determinata dalla quota sul PIL del settore NT. Il divario nella

proporzione tra il settore tradable ed il settore non tradable determina il

peggioramento della posizione competitiva relativa del paese 1.

Nel breve periodo, il conseguente disavanzo commerciale potrebbe essere

compensato da un avanzo nei movimenti di capitali. Nel lungo periodo, tuttavia, il

ritorno al tasso di cambio reale di equilibrio di lungo periodo può realizzarsi solo per

effetto di un aggiustamento strutturale. Menzioniamo due possibili percorsi: a) un

prolungato periodo di crescita monetaria nel paese 1 inferiore a quella del paese 2,

tale da annullare il differenziale di inflazione attraverso la deflazione dei consumi in

beni del settore T; b) una traslazione verso l’esterno della frontiera delle possibilità di

produzione (indotto da un aumento del progresso tecnico, oppure da un aumento delle

risorse disponibili, qual è ad esempio la scoperta di un giacimento petrolifero) che

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122

produce un innalzamento del tasso di cambio reale e colloca stabilmente il paese 1 ad

un più alto livello di benessere.

9. Parità dei tassi di interesse

Supponiamo che l’operatore europeo sappia che sui mercati internazionali si è

formata la comune opinione che il tasso di cambio fra dollaro ed euro nel prossimo

anno vedrà un apprezzamento dell’euro ( tet ee >+1 ). La condizione di arbitraggio dovrà

tener conto di tali aspettative. Il rendimento atteso dall’investimento di un euro negli

Stati Uniti, tenuto conto della variazione attesa del valore del dollaro, in equilibrio

sarà dato da:

et

tUStUMEt e

eii

1

)1()1(+

+=+

Facciamo un esempio. Supponiamo che il tasso di interesse sulle attività finanziarie

denominate in dollari dal 3% salga al 4% (iUS=0,04), mentre quello sulle attività

finanziarie denominate in euro resti al 3% (iUME=0,03) e che occorrano 1,21 dollari

per un euro. In base all’equazione della parità scoperta, il verificarsi di una variazione

nei tassi di interesse comporta una variazione nel tasso di cambio atteso. Applicando

la (3.4) si otterrà un apprezzamento atteso dell’euro che verrà scambiato a 1,22

dollari per un euro:

et

tUStUMEt e

eii

1

)1()1(+

+=+ (1+0,03)=(1+0,04)(1,21/1,22)

Questa equazione definisce la parità scoperta dei tassi di interesse. Se gli operatori

fossero neutrali rispetto al rischio, l’equivalenza fra gli investimenti nei due mercati

si raggiungerebbe in corrispondenza del tasso di cambio atteso al quale l’investitore

europeo ottiene, negli Stati Uniti, lo stesso tasso di interesse che guadagnerebbe

nell’Unione Monetaria Europea.

L’equazione della parità scoperta dei tassi di interesse può essere scritta come:

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et

t

USt

UMEt

ee

ii

111

+

=++

da cui, riordinando i termini: t

tet

UMEt

USt

eee

ii −

+=++ +11

11

Per valori contenuti dei tassi, il tasso di interesse nazionale può essere approssimato

dalla somma algebrica tra tasso di interesse estero e tasso di variazione attesa della

valuta nazionale:

t

tet

UStUMEt eee

ii−

−≅ +1 ovvero:

t

tet

UMEtUSt eee

ii−

+≅ +1

Un deprezzamento atteso dell’euro rispetto al dollaro, che equivale ad un

apprezzamento atteso del dollaro ( tet ee <+1 ), implica quindi un valore negativo del

secondo termine sul lato destro dell’equazione (3.5) e comporta un eccesso del tasso

di interesse UME rispetto al tasso di interesse US. Al converso, un apprezzamento

atteso dell’euro rispetto al dollaro, che equivale ad un deprezzamento atteso del

dollaro ( tet ee >+1 ), implica un valore positivo del secondo termine sul lato destro e

comporta un eccesso del tasso di interesse US rispetto al tasso di interesse UME:

t

tet

UStUMEt eee

ii−

+≅ +1 ovvero:

t

tet

UMEtUSt eee

ii−

−≅ +1

Abbiamo finora assunto che l’operatore europeo accetti di sostenere il rischio del

rendimento incerto connesso all’aspettativa di apprezzamento atteso del dollaro.

Infatti, all’operatore si è attribuita una neutralità al rischio. Tuttavia, l’alta volatilità

del tasso di interesse e/o del tasso di cambio rende molto plausibile l’ipotesi che

l’operatore non sia neutrale, ma sia avverso al rischio.

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Il differenziale fra tassi di interesse e deprezzamento di una valuta rispetto all’altra

nella realtà si discosta spesso da zero. Come vedremo, a meno che non si tratti di

allontanamento dall’ipotesi di aspettative razionali (i soggetti non riescono a

prevedere con esattezza il cambio futuro), la divergenza viene attribuita alla

ricompensa per l’avversione al rischio.

La parità scoperta deve allora essere corretta per tenere conto del fattore di rischio: il

premio che l’operatore europeo desidera ricevere per il rischio connesso

all’investimento in dollari. Nell’equazione che descrive la parità scoperta dei tassi di

interesse dovremo perciò aggiungere un termine (ϕt) legato al possesso dell’attività

finanziaria denominata in dollari:

tt

tet

UStUMEt eee

ii ϕ+−

+≅ +1

Esiste tuttavia il mezzo per coprirsi dal rischio connesso al possesso del titolo estero:

l’informazione sul prezzo futuro a pronti di ogni valuta è disponibile nei listini

finanziari. Il mercato finanziario offre infatti – sotto forma del valore del tasso di

cambio a termine (f) - la propria aspettativa riguardo al valore del dollaro rispetto

all’euro ad una data futura. Il premio per il rischio (ϕt), che deve coprire proprio un

eventuale errore di previsione sull’ampiezza del futuro apprezzamento del dollaro,

dipende dalla differenza fra l’aspettativa del futuro cambio a pronti ( 1ete + ) ed il tasso di

cambio a termine ( tf ). Sottraendo il tasso di cambio da ambedue i termini e

dividendoli entrambi ancora per (et), possiamo scrivere:

t

tt

t

tet

t eef

eee −−

−= +1ϕ

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In effetti, è l’insieme di tutte le operazioni sul futuro realizzate da tutti gli investitori

del mercato finanziario a determinare l’informazione sul cambio a termine (ft) che

riflette l’aspettativa riguardo al futuro cambio a pronti ( ete 1+ ). Nell’ipotesi di

aspettative razionali, tale previsione risulta confermata ex post: 11 ++ = tet ee . Prendiamo

perciò le mosse dal comportamento del singolo investitore, osservando che

l’eventuale errore di previsione sul tasso di cambio a termine in cui incorre può avere

due cause:

1) la presenza del premio per il rischio: ttett efe /)( 1 −= +ϕ

2) un errore di previsione sul tasso a pronti futuro a causa di condizioni di

“razionalità limitata”, la ridotta capacità di calcolo e di previsione probabilistica

relativamente agli eventi futuri: tett eee /)( 11 ++ − .

Sotto l’ipotesi di aspettative razionali l’errore di previsione sul futuro tasso a pronti è

eguale a zero. A determinare un errore di previsione del cambio a termine residua

allora solo la presenza del premio per il rischio. L’operatore ha due possibilità. Se

ritiene di possedere una corretta informazione sul premio per il rischio tenterà di

“battere” il mercato e farà guadagni da arbitraggio se la sua aspettativa sul futuro

cambio a pronti risulterà più precisa di quella prevalente nel mercato. Se, invece,

l’operatore si è formato il convincimento che le aspettative prevalenti nel mercato

siano effettivamente “aspettative razionali”, preferirà allinearsi all’aspettativa

prevalente e fare riferimento all’informazione offerto dal mercato, rappresentata dal

tasso di cambio a termine (f). L’operatore si coprirà dal rischio costituito dal

rendimento incerto del titolo estero, contrattando la vendita a un anno da oggi - al

prezzo rappresentato dal tasso di cambio a termine - del ricavo in dollari che riceverà

dall’investimento nei titoli USA. In assenza di controlli dei capitali, di nuovo per

approssimazione, si ottiene la formulazione della parità coperta dei tassi di interesse:

(3.8) t

ttUStUMEt e

efii

−−≅

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126

Il termine che si aggiunge al tasso di interesse statunitense è detto “sconto” se di

valore negativo (si accetta un tasso di interesse più basso nell’UME se il mercato

prevede un apprezzamento dell’euro) e “premio” se di valore positivo (l’operatore

richiede un differenziale positivo di rendimento se il mercato prevede un

deprezzamento dell’euro). Data l’ipotesi di aspettative razionali, il mercato dovrebbe

essere in grado di prevedere con sufficiente esattezza (di norma, più è lungo il

periodo, meno precisa è la stima) quale sarà il futuro tasso di cambio a pronti. In tal

caso, il tasso di cambio a termine, che esprime appunto l’aspettativa di mercato sul

tasso di cambio a pronti futuro, risulterà a posteriori eguale al tasso di cambio a

pronti atteso: ett ef 1+= .

Se nelle due equazioni i rispettivi termini risultano ex ante diversi fra loro:

t

tt

t

tet

eef

eee −

≠−+1

Ricapitolando, la differenza fra cambio atteso e cambio a termine ex post sarà data

da:

t

tet

t

ett

t

tt

efe

eee

efe −

+−

=− ++++ 1111

.

Tale differenza può avere due origini. La prima è una previsione errata: l’aspettativa

sul tasso di cambio non viene convalidata ex post (un valore positivo del primo

termine a destra). Se escludiamo tale eventualità adottando l’ipotesi di aspettative

razionali, a spiegare il mancato realizzarsi della previsione sul tasso di cambio a

pronti futuro sarà la seconda causa: il premio per il rischio (un valore positivo del

secondo termine a destra).

Sotto l’ipotesi di aspettative razionali a determinare un errore di previsione del

cambio a termine residua solo la presenza di un premio per il rischio. L’operatore ha

due possibilità. Se ritiene di valutarlo meglio del mercato tenterà di “batterlo” : farà

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127

guadagni da arbitraggio se la sua aspettativa sul futuro cambio a pronti risulterà più

precisa di quella prevalente nel mercato.

Sotto l’ipotesi di aspettative razionali a determinare un errore di previsione del

cambio a termine residua solo la presenza di un premio per il rischio. L’operatore ha

due possibilità. Se ritiene di valutarlo meglio del mercato tenterà di “batterlo” : farà

guadagni da arbitraggio se la sua aspettativa sul futuro cambio a pronti risulterà più

precisa di quella prevalente nel mercato.

Se, invece, l’operatore si è formato il convincimento che le aspettative prevalenti nel

mercato siano effettivamente “aspettative razionali”, preferirà allinearsi

all’aspettativa prevalente e fare riferimento all’informazione offerto dal mercato,

rappresentata dal tasso di cambio a termine (f). L’operatore si coprirà dal rischio

costituito dal rendimento incerto del titolo estero, contrattando la vendita a un anno

da oggi - al prezzo rappresentato dal tasso di cambio a termine - del ricavo in dollari

che riceverà dall’investimento nei titoli USA.

Il termine che si aggiunge al tasso di interesse statunitense è detto “sconto” se di

valore negativo (si accetta un tasso di interesse più basso nell’UME se il mercato

prevede un apprezzamento dell’euro) e “premio” se di valore positivo (l’operatore

richiede un differenziale positivo di rendimento se il mercato prevede un

deprezzamento dell’euro). Data l’ipotesi di aspettative razionali, il mercato dovrebbe

essere in grado di prevedere con sufficiente esattezza (di norma, più è lungo il

periodo, meno precisa è la stima) quale sarà il futuro tasso di cambio a pronti. In tal

caso, il tasso di cambio a termine, che esprime appunto l’aspettativa di mercato sul

tasso di cambio a pronti futuro, risulterà a posteriori eguale al tasso di cambio a

pronti atteso.

La crisi dello SME nel 1992-93, che determinò l’uscita di lira e sterlina dal

meccanismo di tassi di cambio, portò al superamento dei cambi fissi come strategica

dell’unificazione monetaria. La causa di fondo della crisi fu il “quartetto impossibile”

di cui si è già parlato: 1. Mercato unico; 2. Tassi di cambio fissi; 3. Autonomia della

politica monetaria e 4. Liberalizzazione movimenti di capitale sono mutualmente

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128

incompatibili. Una volta realizzato nel 1990 anche in Europa il punto 4., la politica

monetaria perde la residua autonomia. Occorre dunque prenderne atto ed accelerare

l’unione monetaria sottoponendo il processo di integrazione monetaria alla

convergenza nominale descritta dai criteri di Maastricht.

10. Tassi di interesse e integrazione monetaria europea

Un importante criterio di Maastricht è la convergenza fra i tassi di interesse. Questa

grandezza rileva non solo nella determinazione della dinamica dei deficit pubblici

attraverso la spesa per interessi ma influenza anche direttamente il sentiero di crescita

di un’economia. L’evidenza empirica suggerisce che i differenziali di tasso di

interesse di molti degli n-1 paesi del MTC nei confronti del paese leader dello SME

non sempre ha rispecchiato l’andamento del tasso di cambio (vedi in Figura 8.2 i

differenziali (spread) rispetto ai titoli pubblici tedeschi). Perché la “parità dei tassi di

interesse” è stata spesso in disequilibrio?

La teoria macroeconomica ci propone le seguenti possibili spiegazioni della

divergenza (§ 3.4): 1) il premio per il rischio di cambio (svalutazione). I valori attesi

e realizzati delle parità bilaterali fra le valute del MTC erano influenzati da un

insufficiente grado di credibilità della politica monetaria delle n-1 banche centrali

impegnate a perseguire la disinflazione delle rispettive economie mediante la

strategia di pegging nei confronti del marco; 2) il premio per il rischio di ripudio del

debito pubblico da parte di un governo. Come spiega il modello di Sargent e Wallace

(§ 4.3.2), i mercati finanziari si attendono che la banca centrale, di fronte alla

difficoltà del governo a piazzare le nuove emissioni, faccia ricorso alla

“monetizzazione” del debito pubblico.

Ricordando l’equazione (4.16), che esplicita la terza fonte di incremento del rapporto

debito pubblico / PIL, è possibile che l’eccesso del livello dei tassi di interesse,

rispetto alla svalutazione registrata ex post, in molti paesi della Periferia dello SME

sia stato causato da un errore di previsione. Le aspettative razionali non vengono

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129

realizzate: πe–π≠0. L’impulso alla crescita del rapporto debito pubblico/PIL sarebbe

quindi provenuto da aspettative di inflazione superiori al tasso di inflazione

realizzatosi ex post (πe–π>0). Un eccesso di inflazione attesa nei mercati rispetto al

valore che si realizza ex post comporta un livello dei tassi di rendimento nominale dei

titoli pubblici più elevato di quello che risulta nella condizione di “parità dei tassi di

interesse”, e l’aumento della spesa per interessi viene finanziato con emissione di

debito. In molti paesi dello SME, il divario (πe>π) ha rappresentato un’importante

determinante della crescita del rapporto debito pubblico/PIL. Se il divario (πe>π) si

ripresenta per più periodi, l’accelerazione nell’accumulazione di debito pubblico può

essere notevole. Infatti, la crescita della spesa per interessi verrà alimentata sia nella

sua componente di prezzo (i) che nella sua componente di quantità (B). Non è però

semplice, anche ricorrendo a stime econometriche, stabilire in che misura l’errore di

previsione spieghi il divario fra differenziale di tasso di interesse e variazione del

tasso di cambio e/o la spinta verso l’alto che la crescita del debito pubblico imprime

al tasso di interesse. Le aspettative di inflazione e le aspettative di variazione del

tasso di cambio, non essendo misurabili ex ante, non sono verificabili ex post.

Prescindiamo allora da questa possibile causa di divergenza e concentriamo

l’attenzione sul ruolo avuto dal “premio per il rischio” di svalutazione e/o “ripudio”

sull’evoluzione del rapporto debito pubblico / PIL. Per essere nelle condizioni di

effettuare questa indagine, occorre assumere che – anche riguardo a mercati molto

volatili come quelli finanziari e valutari - sia formulabile l’ipotesi di aspettative

razionali. Se adottiamo l’ipotesi che gli agenti abbiano aspettative razionali di

variazione del tasso di cambio (ragionando su una valuta dello SME rispetto al marco

si tratta di aspettative di svalutazione), la svalutazione attesa è misurabile con la

svalutazione effettivamente determinatasi ex post. Nell’attuare una politica di pegging

del marco, a causa di entrambi i “premi per il rischio”, le banche centrali dei paesi ad

alta inflazione furono costrette a riconoscere a risparmiatori ed operatori finanziari

ampi margini di tasso di interesse in eccesso rispetto a quelli pagati sulle attività

finanziarie denominate nel marco.

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130

Naturalmente, il problema della scarsa credibilità dell’impegno al rispetto della

parità bilaterali con il marco tedesco e della solvibilità dei governi riguardava

essenzialmente le valute delle economie ad alta inflazione, quelle dei paesi della

Periferia. Nella Figura 7.5, abbiamo visto che, successivamente ad uno shock di

ampiezza pari a quella della Germania, sarebbe occorsa una manovra restrittiva della

Banca d’Italia per fare scendere l’economia lungo la curva di Phillips di breve

periodo fino al punto I” ed evitare che il differenziale di inflazione con la Germania

si allargasse. La stretta monetaria avrebbe però comportato una contrazione troppo

drastica dell’output e dell’occupazione. Le banche centrali della Periferia lasciavano

così che i differenziali di inflazione si ampliassero, con conseguente ampliamento

anche dei differenziali di tasso di interesse. Ricordando le equazioni (3.4-3.8) del §

3.4, nell’equazione (7.11) il primo termine esprime il divario fra il tassi di interesse

(i) di un paese rappresentativo della Periferia e quello del paese leader dello SME, la

Germania (iG); il secondo termine rappresenta il deprezzamento atteso della valuta

della Periferia (ad esempio, l’Italia) rispetto al marco; inoltre sia ft il tasso di cambio a

termine:

(7.11)

1 1ˆ ˆ ˆ ˆ ˆ

( ) [( ) ] [ ]ˆ ˆ ˆ ˆ

e eG Gt t t t t t t t

t t t tt t t t

e e f e f e e ei i i ie e e e

+ +− − − −− − = − − + −

Se si adotta l’ipotesi di aspettative razionali e si misura la variazione attesa del tasso

di cambio mediante il tasso di cambio ex post (et+1), dal computo della (7.11) risulta

che i valori del primo termine sono stati sistematicamente in eccesso rispetto a quelli

del secondo termine. Come si è spiegato nel § 3.4, in equilibrio il differenziale di

interesse eguaglia il deprezzamento del tasso di cambio. Nell’equazione (7.11),

un’eventuale divergenza fra differenziale di inflazione con la Germania e

deprezzamento rispetto al marco può dipendere da un valore diverso da zero della

somma algebrica delle due parentesi che compaiono sul lato destro. Descriveremo ora

le probabili cause di tale divergenza (Farina, 1990).

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131

Nella prima fase dello SME (1979-1986), la differenza sul lato sinistro assunse

valore negativo. Come sappiamo, dal momento che i primi anni dello SME furono

caratterizzati da frequenti riallineamenti fra le valute, questo risultato non può

derivare da un’elevata credibilità della politica monetaria del paese della Periferia nel

perseguire la difesa delle parità di cambio. L’evidenza empirica suggerisce che questa

diseguaglianza dipese essenzialmente dal valore negativo del primo termine sul lato

destro. La parità scoperta dei tassi di interesse assunse valore negativo in molti paesi

della Periferia a causa di un divario positivo fra cambio a termine e cambio a pronti

che presentava un’ampiezza maggiore del differenziale di interesse. Ciò accade se è

presente il “rischio paese”. Il grado di libertà che i controlli amministrativi adottati

nella prima fase dello SME in alcuni paesi a valuta debole (ad esempio, Italia e

Francia nei primi anni ’80) assicuravano alla politica monetaria condusse alla

formazione di un “cuneo” fra i differenziali di tassi di interesse on shore (determinato

sul mercato finanziario interno) e off shore (determinato sui mercati finanziari

internazionali) con la Germania. I vincoli posti alla fuoriuscita di capitali

permettevano infatti ai tassi di interesse del mercato interno di evitare un

aggiustamento verso l’alto di ampiezza congrua all’ ampliamento dei differenziali di

interesse con la Germania – approssimati dalle variazioni percentuali del “premio a

termine” della valuta rispetto al marco, e cioè l’aspettativa di mercato sul futuro tasso

spot – che si veniva a determinare sui mercati finanziari internazionali. Nella seconda

metà degli anni ’80, parallelamente all’abolizione dei controlli, tale “cuneo” andò

restringendosi, fino ad annullarsi con il completamento della liberalizzazione dei

movimenti dei capitali in tutti i paesi dello SME nel maggio del 1990.

Nella seconda fase dello SME (1987-1992), in molti paesi della Periferia la

parità scoperta dei tassi di interesse (equazione 7.11) tese a discostarsi ancora dallo

zero, ma per assumere questa volta valori positivi. L’origine di tale inversione di

segno risiede questa volta nell’andamento della seconda parentesi quadra sul lato

destro. La differenza positiva fra cambio a termine e cambio a pronti con il marco –

risultando più ampia del deprezzamento registrato dalla lira ex post - indica la

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132

presenza di un “rischio valuta” che sostanzialmente dà origine alla divergenza

positiva – sul lato sinistro – fra differenziale di interesse con la Germania e

deprezzamento ex post della valuta nei confronti del marco. Lungo tutto il periodo di

perfetta stabilità dei tassi di cambio all’interno del MTC si riscontra un eccesso del

differenziale di tasso di interesse rispetto a variazioni di tasso di cambio. Questa

persistenza non può che riflettere l’incompatibilità – percepita nei mercati finanziari –

fra cambi fissi e credibilità della politica monetaria dei paesi ad alta inflazione che

seguivano una strategia di pegging nei confronti del marco. La spiegazione della

diseguaglianza fra differenziali di interesse e variazione del cambio con il marco

risiede quindi nella sfiducia nutrita dagli operatori dei mercati finanziari nei confronti

dell’annuncio di una monetary stance anti-inflazionistica da parte delle autorità

monetarie (premio per il rischio di svalutazione) e/o nella solvibilità del governo

(premio per il rischio di ripudio del debito pubblico). Questa sfiducia faceva anche sì

che le aspettative di svalutazione implicite nei differenziali di tassi di interesse della

Periferia con la Germania - benché trovassero una conferma soltanto parziale nel

successivo deprezzamento del tasso di cambio delle valute più deboli nei confronti

del marco – venissero corrette con molta lentezza.

11. La politica monetaria nell’Unione Monetaria

Europea

La moneta comune è entrata nella vita quotidiana dei cittadini europei nel periodo

compreso fra il 1 gennaio e il 1 luglio 2002, quando le banconote e le monete in euro

sostituirono le valute nazionali in 12 paesi. Il successo della moneta unica non va

circoscritto alla conferma dell’acquisita stabilità monetaria, con un tasso di inflazione

dell’area valutaria che si è mantenuto intorno al 2%. In effetti, parallelamente alla

convergenza dei tassi di interesse nominali, indotta dall’accelerazione nella discesa

dei tassi di inflazione, già a partire dal 1994, anche la dispersione dei valori tassi di

interesse reali a breve termine conobbe una riduzione rapida e di crescente ampiezza.

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133

Successivamente alla decisione di dare avvio all’unione monetaria, il processo di

convergenza nominale fra i paesi dell’UME subì una ulteriore accelerazione.

Figura 8.1. Convergenza nei tassi di interesse a breve termine, area dell'euro (deviazione standard)

0

1

2

3

4

5

6

1980 1984 1988 1992 1996 2000

nominali reali reali senza Grecia

Figura 8.2. Spread dei titoli pubblici decennali rispetto ai corrispondenti titoli

tedeschi

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134

Dal 1999 in poi, si è registrato il sostanziale uguagliamento fra i tassi di rendimento

dei titoli pubblici a breve termine (Figura 8.1) ed un notevole restringimento degli

spread dei titoli pubblici decennali dei maggiori paesi rispetto ai corrispondenti titoli

tedeschi. (Figura 8.2). È infatti aumentata la fiducia sulla solvibilità fiscale dei paesi

ad alto debito pubblico, come dimostra il sostanziale azzeramento del premio per il

rischio sui titoli pubblici. Per quanto si sia manifestata una tendenza

all’avvicinamento fra i tassi di rendimento azionari, la percezione del rischio-nazione

è invece ancora elevata riguardo alle attività finanziarie del settore privato.

12. La regola monetaria

Fra i cambiamenti strutturali avvenuti negli anni ’70 ed ’80 va annoverato anche

l’affermarsi di un nuovo clima intellettuale riguardo al dilemma di fronte al quale le

autorità monetarie si trovano di fronte, la scelta fra discrezionalità e regole di politica

monetaria. Il principale schema interpretativo di questi due decenni di “alta

inflazione” è stato il modello dell’ “incoerenza temporale” della politica monetaria.

Tale modello ha contribuito a diffondere nella teoria della politica monetaria

un’opinione sfavorevole riguardo al potere discrezionale delle autorità monetarie ed

al loro comportamento “attivistico” nelle politiche di stabilizzazione. I sostenitori

dell’adozione di una “regola fissa” hanno proposto una commitment technology (ad

esempio, la sanzione della penalità pecuniaria a carico del governatore che non si

attenga alla regola, § 8.8) che vincoli in modo credibile l’azione delle autorità

monetarie. Un evidente vantaggio della regola fissa, rispetto alla discrezionalità, è

che una banca centrale la cui volontà di tenere fede alla regola risulti credibile riesce

ad ottenere comportamenti di minore incremento dei prezzi da parte delle imprese

price-setter. Il problema di determinare la regola ottima consiste nell’incompletezza

dell’informazione a disposizione delle autorità monetarie. Riguardo al meccanismo di

trasmissione della politica monetaria e alle determinanti dell’inflazione, è difficile

stabilire in che misura il governatore debba tenere conto dello scostamento

dell’inflazione e dell’output dai valori-obiettivo e di quanto occorra variare il tasso di

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135

interesse. Va rilevato, tuttavia, che nell’ultimo decennio l’affidabilità delle stime delle

variabili rilevanti è notevolmente migliorata.

Concentreremo l’attenzione sulla Regola di Taylor, che oggi rappresenta la

funzione di reazione delle principali banche centrali. Con l’adozione di questa regola

di politica monetaria, il tasso di interesse ha soppiantato la quantità di moneta quale

strumento di attuazione della politica monetaria. Ecco l’equazione che esprime la

Regola di Taylor:

1212110 *)(*)(* −+ ++−+−++= tttett eeYYi ζζλππλλi

l’equazione in base alla quale le autorità monetarie determinano il valore

dell’obiettivo di tasso di interesse perseguito in funzione dei valori noti dello

scostamento del tasso di inflazione e dell’output gap dal valore-obiettivo e

dall’andamento del tasso di cambio. Il valore corrente del tasso di interesse va

ricondotto ad eguaglianza con quello che si stima essere il suo valore di lungo

periodo.

La contraddizione fra l’obiettivo di un rigoroso perseguimento della stabilità

monetaria e l’obiettivo della stabilizzazione del reddito è meno rilevante di quanto

appaia con riferimento ad un modello macroeconomico di concorrenza perfetta con

perfetta flessibilità di salari e prezzi. Tasso di inflazione e output gap non sempre

sono perfetti sostituti nel segnalare le tensioni di domanda presenti nel sistema

economico. Un processo di aggiustamento divergente fra i due mercati – ad esempio,

per una disomogeneità fra wage gap e price gap in concorrenza monopolistica - può

influenzare la strategia di politica monetaria. Se la flessibilità del mercato dei beni

differisce da quella del mercato del lavoro, soprattutto nel caso di una manovra di

stabilizzazione diretta ad assorbire uno shock negativo di offerta, le autorità

monetarie – per determinare l’opportuna variazione del tasso di interesse - debbono

tenere conto sia dell’uno che dell’altro scostamento delle due grandezze dai rispettivi

valori-obiettivo.

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136

L’originario studio di Taylor determina il tasso di interesse della Federal

Reserve sulla base dei due termini noti (inflation gap e output gap) ed attribuendo dei

valori noti ai parametri λ1, λ2. Affinché la determinazione del tasso-obiettivo it* sia

precisa, è tuttavia necessaria la stima econometrica dei valori dei parametri. Essa

consiste nell’utilizzare come termine noto il valore corrente del tasso di interesse sul

lato sinistro dell’equazione, cosicché i due parametri diventano le incognite da

determinare. Una regressione condotta sulla politica monetaria degli anni 1987-89 ha

stimato i seguenti coefficienti: per la Bundesbank λ1=1,3 e λ2= 0,2, e per la Federal

Reserve i λ1=1,0 e λ2=0,9. Il confronto mostra che nel trade-off inflazione-

disoccupazione la banca centrale che guidato la creazione di moneta in Europa negli

anni dello SME dava all’obiettivo di inflazione un peso superiore ed all’obiettivo di

reddito (e di riduzione della disoccupazione) un peso molto inferiore a quelli della

banca centrale degli Stati Uniti. I coefficienti recentemente stimati per la BCE

(λ1=1,5, e λ2=0,5) indicano come la banca centrale europea sia ancora più rigorosa

della Bundesbank nel fissare un alto valore del parametro relativo alla stabilità

monetaria; il valore superiore a quello della Bundesbank del parametro relativo

all’obiettivo della stabilizzazione dell’output sembra da attribuire al fatto che nei

primi anni dell’euro si è manifestato un forte shock di domanda, a fronte della

dominante presenza di shock di offerta negativi negli anni dello SME.

Non va poi dimenticato che le politiche di stabilizzazione sono la risultante

delle due stance monetaria e fiscale. Il policy mix che scaturisce dalle decisioni delle

due autorità può alternativamente consistere in un equilibrio di Nash, dove ciascuna

autorità massimizza la propria funzione di comportamento sulla base dell’aspettativa

sulle credenze e sulle strategie dell’altra autorità, oppure in un equilibrio cooperativo,

dove le autorità agiscono di concerto. La Commissione Europea si attende che la

politica fiscale – in particolare nei paesi dell’UME ad “alto” debito pubblico -

privilegi l’obiettivo della decumulazione del debito su quello della stabilizzazione

dell’output. L’obiettivo della stabilizzazione dell’output viene così a ricadere sulla

sola politica monetaria. In presenza di uno shock d’offerta negativo simmetrico, la

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137

BCE può rendere il perseguimento dell’obiettivo di stabilizzazione compatibile con

l’obiettivo prioritario della stabilità monetaria realizzando una correzione al rialzo del

tasso di interesse meno che proporzionale rispetto alla variazione del tasso di

inflazione. Il tasso di interesse-obiettivo viene perciò determinato mediante la somma

fra tasso di interesse-obiettivo della Regola di Taylor e tasso di interesse del periodo

precedente moltiplicati ciascuno per un “peso” (θ<1 e μt è l’errore stocastico):

(8.1) tttt iii µθθ +−+= −1)1(*

Tanto minore è il valore attribuito al “peso” che la banca centrale applica al tasso di

interesse-obiettivo di lungo periodo (θ) – e, quindi, tanto più conta il tasso del

periodo precedente (1-θ) - tanto più “lento” è l’adeguamento del tasso di interesse di

mercato al valore-obiettivo it* perseguito dalla banca centrale.

13. La funzione di comportamento del governatore

A causa del problema dell’“incoerenza temporale”, un paese può avere ereditato una

distorsione inflazionistica dalla “storia passata” della politica monetaria della propria

banca centrale. È quanto è accaduto nei decenni scorsi alla maggior parte dei paesi

europei. Negli anni di “alta” inflazione, le autorità monetarie sono esposte al pericolo

di un insufficiente grado di credibilità dei loro annunci di crescita monetaria. Di qui,

l’idea di contrastare il problema dell’“incoerenza temporale” rafforzando

l’indipendenza, la responsabilità e la trasparenza della banca centrale. Kenneth S.

Rogoff (1985) è l’economista che ha elaborato un modello formale nel quale dimostra

che la funzione di benessere sociale di un paese conoscerebbe un “miglioramento

paretiano” con la nomina di un governatore “conservatore”, definito come una

personalità nota per la sua fedeltà al perseguimento della stabilità monetaria

attraverso segnali e comportamenti diretti a sottolineare l’impegno anti-

inflazionistico della banca centrale. Un banchiere centrale “alla Rogoff” conferisce

una elevata credibilità alla propria strategia, assumendosi la responsabilità di una

tolleranza per la disoccupazione maggiore di quella della società. Tale orientamento

si riflette in comportamenti di politica monetaria indipendenti dalla preferenza del

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138

governo, che viene invece influenzata dall’effetto negativo che un aumento della

disoccupazione avrebbe sul voto degli elettori. Con una strategia dell’informazione

trasparente, tale da convincere i mercati della sincerità della promessa di aggiungere

un fattore additivo Ω>0 all’“avversione all’inflazione” della società (β+Ω), la banca

centrale guadagna una forte reputazione anti-inflazionistica, il che le dà un vantaggio

nell’affrontare il problema di credibilità causato dall’“incoerenza temporale”. Di

fronte al trade-off fra credibilità e flessibilità, il prezzo che un governatore

“conservatore” si troverà spesso a dover pagare è la rinuncia alla flessibilità – tipica

del governatore “tradizionale” - nell’azione di politica monetaria, ricorrendo in

misura molto limitata a manovre di stabilizzazione macroeconomica (Schaling,

1995).

Considerando queste ipotesi, l’equazione presentata nella Parte Prima diviene:

(8.2) 22 *)][(*))([( YYLoss −+−Ω+= ππβ

con π* = 0 e Y*=δYN , dove δ>1. Da questa equazione si ottiene il tasso di inflazione

d’equilibrio; rispetto alla (2.13), al denominatore ora compare il termine aggiuntivo

Ω, che riflette la diminuzione del tasso di inflazione che si associa alla nomina di un

governatore “conservatore”:

(8.3) ( ) NY1−

Ω+= δβαπ

Pertanto, il tasso di inflazione presenta una correlazione diretta con la pendenza della

curva di Phillips (α), ed una correlazione inversa con: 1) l’“avversione inflazione” (β)

aumentata del più forte impegno anti-inflazionistico del governatore “conservatore”

(il fattore additivo Ω>0), e 2) l’obiettivo di reddito al di sopra del suo livello

“naturale” (δ>1).

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139

In base alla descrizione sopra fatta, il comportamento del banchiere centrale

“conservatore” si connota per l’indipendenza. In che misura il governatore di

Francoforte rispecchia questo identikit?

Lo Statuto assegna un’indipendenza pressoché totale agli organi decisionali

della BCE. La definizione di obiettivi di crescita del reddito e dell’occupazione da

affiancare all’obiettivo primario della stabilità dei prezzi viene lasciata nel vago.

Sull’indipendenza dalle autorità monetarie nazionali, in primo luogo dai rispettivi

governi, vigila la Corte di Giustizia Europea. Essa ha il potere si rimuovere un

membro del Consiglio Direttivo della BCE che si renda responsabile dei

comportamenti vietati dall’art. 108 del Trattato, secondo il quale i membri del CD

non “possono sollecitare o accettare istruzioni dalle istituzioni o dagli organi

comunitari, dai governi degli Stati membri né da qualsiasi altro organismo”. Si suole

perciò dire che l’UME soffre di un “deficit democratico”, in quanto manca un organo

con effettivi poteri di controllo preposto alla verifica delle decisioni delle autorità

monetarie. Ad esempio, il Presidente della Federal Reserve statunitense deve

rispondere riguardo agli effetti che la politica monetaria ha sulla dinamica

occupazionale, relazionando dinanzi al Congresso nella cosiddetta “Humphrey-

Hawkins testimony”. Il Presidente della BCE presenta un rapporto annuale sulla

politica monetaria davanti al Parlamento Europeo ed informa i capi di governo dei

paesi dell’UME negli incontri periodici. Tali forme di comunicazione ex post non

configurano comunque un credibile meccanismo di pesi e contrappesi (check and

balances) esercitato dagli organismi politici nei confronti dell’istituzione monetaria.

Fintantoché sarà dotata di poteri limitati, l’assemblea del Parlamento Europeo, per

quanto legittimata dal voto popolare, non potrà godere dell’autorità per rappresentare

un’istituzione di controllo sull’operato del Comitato Esecutivo e/o del Consiglio

Direttivo della BCE.

D’altro canto, esiste un’ambiguità nella posizione di teoria monetaria secondo

la quale una banca centrale dovrebbe essere statutariamente obbligata ad ottemperare

al contempo ai due principi dell’indipendenza dalle altre istituzioni e della

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140

responsabilità (accountability) di fronte ad una o più organi costituzionale. Negli Stati

Uniti, il Congresso detiene un potere di sanzione, consistente nella possibilità di

votare un emendamento costituzionale che modifichi le prerogative della Federal

Reserve. Un’istituzione di controllo democratico sulle decisioni della BCE potrebbe

avere obiettivi diversi da quelli del governatore, ad esempio riguardo al livello di

occupazione come nel caso del Congresso USA. Gli operatori finanziari potrebbero

d’altro canto formarsi l’aspettativa che l’indipendenza acquisita della banca centrale

con la nomina di un governatore “conservatore” che ha rafforzato l’avversione

all’inflazione rispetto al valore preferito della società è destinata ad affievolirsi. In

altre parole, esiste anche un trade-off fra indipendenza (β+Ω) e responsabilità (ϑ).

Considerando tutti questi parametri (β+Ω-ϑ), la funzione di perdita sociale diviene:

(8.4) 22 ])1(*)([)( NYLoss δππαπϑβ −+−+−Ω+=

L’indipendenza della BCE ha il suo “tallone d’Achille” nell’eccesso di discrezionalità

nell’informazione dei mercati. Non vengono comunicati i risultati delle eventuali

votazioni a maggioranza ed il processo decisionale non è neppure conoscibile ex post,

dato che non esiste obbligo di pubblicare i verbali delle riunioni del Consiglio

Direttivo. L’obiettivo di accrescere il grado di legittimazione democratica della

politica monetaria può in effetti essere perseguito soltanto accrescendo la

responsabilità. In effetti, il controllo da parte di un organo costituzionale implica una

forte trasparenza che a sua volta finisce per ridurre l’indipendenza, in quanto il

condizionamento da parte delle istituzioni politiche elettive è destinato ad aumentare.

Il vero trade-off sembra dunque essere quello fra indipendenza e trasparenza.

La condotta della BCE potrebbe guadagnare in trasparenza con l’adozione

della strategia di comunicazione ex ante, imperniata sulla distinzione fra

indipendenza di obiettivo e indipendenza di strumento. Secondo questa soluzione

istituzionale, seguita dalla Bank of England, una banca centrale deve godere di piena

indipendenza sul modo in cui perseguire gli obiettivi, ma non sugli obiettivi stessi. La

decisione politica fissa l’obiettivo di tasso di inflazione, e questo valore viene poi

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141

liberamente perseguito dalla banca centrale in virtù dell’indipendenza riconosciutale

limitatamente alla variazione da imprimere al tasso di interesse. Nell’intraprendere

una manovra monetaria espansiva, la banca centrale dovrà però rendere trasparente la

base analitica del proprio convincimento. Ad esempio, il governatore dovrà

giustificare con l’evidenza econometrica che un livello di reddito più elevato sia

compatibile con l’obiettivo di inflazione.

Tracciamo le rette di stabilizzazione di tre modelli di comportamento del

governatore: tradizionale, conservatore e “con obiettivo espresso in termini di tasso

d’inflazione” (inflation targeting). Nella Figura 8.3, curve di Phillips sono lineari e

l’intercetta per i primi due modelli parte da zero anche per la disoccupazione. Al

governatore “tradizionale” viene attribuita la retta di stabilizzazione con la pendenza

più elevata (T): si assume che tale governatore conduca una politica monetaria

secondo una funzione di perdita sociale in cui il peso per l’“avversione all’inflazione”

(β) riflette la valutazione della società. Al governatore “conservatore” viene attribuita

la retta di stabilizzazione con pendenza inferiore (C): si assume che conduca una

politica monetaria ispirata ad una funzione di perdita sociale che incorpora un peso

per l’“avversione all’inflazione” superiore a quello della società. Infine, nella

strategia di inflation targeting, il comportamento delle autorità monetarie è vincolato

al perseguimento di un valore-obiettivo annunciato espresso in termini di tasso di

inflazione annuo (Z).

Il governatore “tradizionale”, nell’adottare per l‘inflazione lo stesso peso della

società, accetta anche la distorsione inflazionistica implicita nei comportamenti delle

cosiddette parti sociali, le organizzazioni delle imprese e dei lavoratori. Anche il

governatore inflation targeting accetta il peso che al valore-obiettivo dell’inflazione è

assegnato dalla società; tuttavia, la preferenza per un obiettivo di inflazione

puramente “frizionale” compreso fra lo 0% e il 2% è resa credibile dall’impegno a

tenere fede al valore-obiettivo del livello di reddito “naturale” (con il parametro δ=1).

La pendenza della retta di stabilizzazione del governatore inflation targeting (Z) è

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142

identica a quella del governatore “tradizionale” (T), ma l’intercetta zero esprime

l’adesione all’obiettivo di “inflazione zero”.

Un annuncio da parte delle autorità monetarie di perseguire l’obiettivo di

“inflazione zero” implica la rinuncia alla distorsione inflazionistica. Con tale

impegno, il governatore inflation targeting abbandona la visione della politica

monetaria basata sul trade-off fra credibilità e flessibilità. Infatti, allo scopo di

segnalare la credibilità della propria politica monetaria, una banca centrale rinuncia a

ridurre il tasso di disoccupazione al di sotto del valore naturale: il punto di

intersezione fra la curva di Phillips di breve e quella di lungo periodo si sposta da A

ad A’. Il governatore inflation targeting esprime così la disponibilità a una manovra

monetaria di stabilizzazione successiva a uno shock in base alla pendenza della retta

di stabilizzazione desiderata dalla società, ma è indisponibile a spingere il reddito al

di sopra del livello “naturale”. Una tale strategia, infatti, innalzando le aspettative

inflazionistiche, finirebbe per incorporare nel sistema economico un tasso di

inflazione “medio” positivo superiore al valore frizionale compreso fra l’1% ed il 2%,

con conseguente perdita di reputazione anti-inflazionistica.

L’impegno del governatore inflation targeting a realizzare un obiettivo di

“inflazione zero” potrebbe essere sostenuto da un disincentivo a deviare

dall’annuncio. In letteratura si ipotizza che il contratto del governatore preveda come

meccanismo di enforcement una sanzione in caso di mancato conseguimento.

Secondo Carl E. Walsh (1995), la sanzione a carico delle autorità monetarie dovrebbe

consistere nella penale di una somma di danaro per ciascun punto di scostamento

dall’obiettivo. In caso di shock di offerta negativo, il governatore inflation targeting

deve lasciare aumentare il tasso di disoccupazione. Nella Figura 8.3, tale

comportamento è rappresentato con la traslazione verso destra della retta di

stabilizzazione da Z a Z’. In assenza di politica di stabilizzazione, l’incremento della

disoccupazione dà luogo a una nuova curva di Phillips di lungo periodo (uN’). In

corrispondenza dell’incrocio fra questa curva e la curva di Phillips successiva allo

shock negativo, verrà così raggiunto un equilibrio nel punto A”. La strategia

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143

dell’inflation targeting mantiene l’economia ancorata all’inflazione zero al prezzo di

“accettare” tutto l’incremento del tasso di disoccupazione (A’–A”) indotto dallo shock

negativo.

Consideriamo le funzioni di comportamento dei governatori (T) e (C).

Successivamente ad uno shock negativo rappresentato dallo spostamento verso l’alto

a destra (Figura 8.3) della curva di Phillips, l’incremento della disoccupazione risulta

contenuto in un’ampiezza minore nella nuova posizione di equilibrio. In

corrispondenza delle rette di stabilizzazione dei governatori T e C si individuano i

tassi di disoccupazione AT e AC. Tali valori sono inferiori a quello (A”) determinato

dal governatore Z.

Figura 8.3. Tre modelli di governatore: tradizionale, conservatore e inflation targeting

La funzione di comportamento del governatore “conservatore”, tuttavia, prevedendo

un grado di stabilizzazione minore, determina un tasso di disoccupazione superiore a

quello del governatore “tradizionale”. Quest’ultimo, infatti, è nelle condizioni di

sfruttare il trade-off fra flessibilità e credibilità, assegnando un peso maggiore alla

“flessibilità” di produzione ed occupazione che non alla “credibilità”

dell’orientamento anti-inflazionistico della propria politica monetaria.

uN’ uN

A”

Z’

u A’ AT AC A

π

π=0

T

C Z

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144

Attualmente, la strategia di politica monetaria dell’ inflation targeting è

ufficialmente adottata dalle banche centrali dei seguenti paesi: Regno Unito, Canada,

Australia, Nuova Zelanda, Svezia, Brasile, Corea del Sud. I detrattori di tale strategia

ritengono che essa inglobi una potenziale distorsione in senso deflazionistico, per

l’impossibilità di deviare dal valore numerico assegnato all’obiettivo finale di politica

monetaria. I sostenitori della sua adozione da parte delle banche centrali ritengono al

contrario che essa conferisca una maggiore flessibilità alla politica monetaria. Al di là

di questo dibattito teorico, si può osservare che un contratto che commini al

governatore una sanzione commisurata all’eccesso sul tasso di inflazione annunciato

presenta il rischio di distorsione nel comportamento di attuazione del contratto.

Infatti, in presenza di uno shock negativo di offerta, il governatore razionale potrebbe

essere indotto dal disincentivo rappresentato dalla sanzione ad un comportamento

fortemente “avverso al rischio” ed ipotizzare a priori un’origine reale (una variazione

delle preferenze o della TFP) dello shock. Il governatore si astiene dall’attuare una

manovra monetaria di stabilizzazione evitando così di incorrere nella sanzione in caso

di ripresa dell’inflazione.

La giustificazione teorica per tale comportamento si trova nei modelli della

NCE, dove si argomenta che le politiche macroeconomiche dirette a contrastare uno

shock di offerta negativo producono soltanto una perdita di benessere. In particolare, i

modelli che si ispirano al RBC riconducono la persistenza di shock negativi di offerta

a fattori strutturali, quali ad esempio rigidità del mercato del lavoro oppure tasse

distorsive. In presenza di un impiego inefficiente delle risorse (un tasso di

disoccupazione che viene giudicato eccessivamente alto), una traslazione verso

sinistra della curva di Phillips verticale e verso destra della AS verticale non

sarebbero conseguibili attraverso politiche macroeconomiche, ma unicamente

attraverso riforme microeconomiche tali da eliminare le suddette distorsioni.

Nella Figura qui sopra, uno shock negativo si riflette nello spostamento verso

sinistra della curva di Phillips di lungo periodo in corrispondenza dell’inflazione

“zero” e dell’equilibrio al valore del NRU o del NAIRU (uN). Secondo il punto di

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145

vista della RBC, tale spostamento andrebbe considerato dalla banca centrale come

una nuova posizione di lungo periodo del NRU (uN’) determinata da fattori reali.

Secondo i modelli della NKE, invece, a rendere strutturale l’innalzamento del

NAIRU è proprio il mancato ricorso alle politiche macroeconomiche di

stabilizzazione, che crea le condizioni per il manifestarsi del fenomeno dell’isteresi.

Una strategia monetaria di moderato e lento incremento del tasso di interesse

consente invece quella salita dei prezzi necessaria a ridurre il salario reale e favorire

la ripresa della domanda di lavoro. Tuttavia, una funzione di reazione che contempli

un “peso” θ vicino a zero può indurre gli agenti del settore privato a formulare la

congettura che la banca centrale stia cedendo alle pressioni per l’attuazione di una

politica accomodante; di conseguenza, imprese e lavoratori ritoccherebbero verso

l’alto prezzi e salari e le aspettative di inflazione finirebbero per aumentare. Questa

preoccupazione diventa una certezza per i teorici del “ciclo economico reale”. Questa

scuola di pensiero si pronuncia decisamente a favore dell’inflation targeting. Una

banca centrale che riferisca la propria manovra ad un esplicito obiettivo tasso di

inflazione risponde al canone di comportamento che esige obiettivi chiari annunciati

in termini numerici. La strategia dell’inflation targeting si fonda su uno spettro di

informazioni che copre tutto l’insieme di possibili shock di offerta e di domanda. La

Regola di Taylor sarebbe sub-ottimale perché – non tenendo conto dei fattori di

origine reale come determinanti delle fluttuazioni cicliche - comunicherebbe segnali

ambigui ai mercati.

14. La politica monetaria della BCE

Il lungo processo di integrazione monetaria era stato caratterizzato da un lungo

periodo di “alti” tassi di interesse reale determinati dalla Bundesbank per l’intera area

dello SME. Una spiegazione alternativa della lenta crescita del decennio 1985-95 è

stata individuata nei bassi tassi di crescita del reddito, che vengono messi in relazione

con gli alti tassi di interesse e con l’abbandono in Europa delle politiche

macroeconomiche di sostegno ai livelli di attività economica (Phelps, 1994; Fitoussi

et al., 2000).

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146

L’evidenza empirica presentata nella Figura qui sotto mostra come per tutto il periodo

centrale dello SME, il tasso di interesse fosse superiore al tasso di crescita. Se si

escludono episodi particolari (il picco della recessione nel 1982 per gli Stati Uniti e

nel 1993 per Germania, Francia ed Italia) , il confronto fra i tracciati per i tre

maggiori paesi dello SME e gli Stati Uniti è particolarmente illuminante. Mentre i

valori delle due variabili sono mediamente in equilibrio negli Stati Uniti, si registra

mediamente un eccesso del tasso di interesse sul tasso di crescita, che a volte

raggiunge una notevole ampiezza (in tutto il decennio 1985-95 i tassi di interesse

sono stati in Europa superiori a quelli statunitensi; nel periodo 1989-93 i tassi a breve

hanno sopravanzato i tassi a lungo termine).

Figura. Tassi di interesse e tassi di crescita (valori reali): Germania, Francia, Italia e

Stati Uniti (1979-2004)

Germania

-2

0

2

4

6

8

1979

1981

1983

1985

1987

1989

1991

1993

1995

1997

1999

2001

2003

crescita tasso di interesse a breve termine

Francia

-2

0

2

4

6

8

1979

1981

1983

1985

1987

1989

1991

1993

1995

1997

1999

2001

2003

crescita tasso di interesse a breve termine

Italia

-6

-4

-2

0

2

4

6

8

10

1979

1981

1983

1985

1987

1989

1991

1993

1995

1997

1999

2001

2003

crescita tasso di interesse a breve termine

Stati Uniti

-4

-2

0

2

4

6

8

1979

1981

1983

1985

1987

1989

1991

1993

1995

1997

1999

2001

2003

crescita tasso di interesse a breve termine

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147

Nei tre paesi dello SME, il periodo di maggiore eccesso del tasso di interesse rispetto

al tasso di crescita è quello che va dalla fine della prima fase (1979-86) alla fine della

seconda fase (1987-92) dello SME. I tracciati di Germania da un lato e Francia ed

Italia dall’altro, sono molto diversi. In Italia, i divari positivi appaiono molto più

pronunciati rispetto a quelli del paese leader dello SME già a partire dalla prima fase:

nel § 6.6 ne abbiamo individuato l’origine nel differenziale di tasso di interesse

dovuto ai premi per il rischio di cambio e di default.

Nelle principali fasi recessive conosciute dai paesi dello SME (1980-82 e 1991-93), si

può ipotizzare che l’orientamento restrittivo della politica monetaria della

Bundesbank abbia finito per penalizzare non solo l’evoluzione del rapporto deficit

pubblico/PIL (a causa dell’impatto negativo che alti tassi inducevano sul deficit

secondario al numeratore e della lenta dinamica del PIL al denominatore) ma anche la

crescita economica. Come viene illustrato nella Figura 8.4 in Germania, Francia ed

Italia soltanto la drastica discesa dei tassi di interesse determinata dal passaggio

all’unione monetaria rende nuovamente possibile quell’eccesso del tasso di crescita

sul tasso di interesse che era scomparso con l’inizio dello SME.

Figura 8.5. Tasso di cambio dollaro/euro

0.8

0.9

1.0

1.1

1.2

1.3

1.4

gen-99

lug-99

gen-00

lug-00

gen-01

lug-01

gen-02

lug-02

gen-03

lug-03

gen-04

lug-04

gen-05

lug-05

gen-06

lug-06

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148

L’unione monetaria ha anche coinciso con una fase di bassi tassi di interesse reali nei

mercati finanziari internazionali. L’ambiente economico in cui la BCE si trova ad

operare è dunque fondamentalmente diverso rispetto a quello in cui erano venute a

trovarsi la Bundesbank e le altre banche centrali europee. La monetary stance fino ad

oggi realizzata dalla BCE va valutata su due questioni: 1) la forte oscillazione del

cambio euro-dollaro; 2) la recessione economica che ebbe inizio nel 2001.

Alla crescente divaricazione fra Stati Uniti ed Unione Monetaria Europea degli

ultimi venti anni ha senza dubbio contribuito la diversa concezione delle politiche

macroeconomiche. All’indomani di ogni recessione che colpisca l’economia

statunitense, mentre le forze di mercato ripristinano le condizioni dell’equilibrio

macroeconomico attraverso un rapido aggiustamento di salari e prezzi, le autorità

monetarie e fiscali convergono nel sostegno della domanda necessario a permettere la

ripresa economica. Dopo l’interruzione causata dallo scoppio della bolla dei titoli ICT

del 2000, la crescita del PIL favorita dalla stagione di bassi tassi di interesse

inaugurata dalla Fed di Greenspan, è continuata senza significative fluttuazioni

cicliche. La risalita delle quotazioni di borsa ha innescato un prolungato effetto-

ricchezza sulla domanda di consumo che ha permesso all’economia statunitense -

fino allo scoppio della crisi finanziaria - di mantenere sostenuta la crescita del PIL.

Pertanto, la coesione sociale è perseguita mantenendo alto il tasso di

occupazione con le politiche monetaria e fiscale “attive”, mentre il ruolo dello Stato

sociale è limitato ai programmi per i più poveri. Obiettivo delle amministrazioni

americane è il contrasto di gravi condizioni di povertà e di esclusione sociale, non la

riduzione della diseguaglianza di reddito. Distanze anche ingenti fra i guadagni sono

legittimate dal capitale umano di cui si dispone, e quindi dal “merito”, qualsiasi fosse

l’”insieme di opportunità” di cui disponeva il soggetto nel corso della propria

formazione. Questa visione trova spiegazione con la priorità lessicografica data alla

tutela degli incentivi di mercato, che consigliano di favorire l’iniziativa privata nel

campo dell’istruzione e di mantenere deregolamentato il mercato del lavoro.

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149

Il coinvolgimento delle autorità pubbliche nell’economia non è circoscritto alla

stabilizzazione del reddito nel breve periodo, ma interessa anche la dinamica di lungo

periodo. Negli Stati Uniti, un paese di libero mercato che in molti settori si colloca

sulla frontiera tecnologica, le agenzie dello Stato federale svolgono una politica di

sostegno alla ricerca, garantendo al sistema produttivo un flusso continuo di brevetti

che sostengono la dinamica della Produttività Totale dei Fattori (Total Factor

Productivity: TFP) (Vanderbussche et al., 2004). Le recenti vicende delle economie

avanzate mostrano però come nel corso della crescita le forze di mercato tendano ad

allargare le disparità di reddito e di ricchezza, in misura tanto maggiore quanto più

ridotti sono i programmi pubblici di protezione sociale e di redistribuzione. Negli

ultimi venti anni, il rapporto fra i redditi dei top-incomes e quelli del ceto medio è

così passata negli Stati Uniti da 40 a 419, il reddito della popolazione più povera (il

primo centile) è pari a ¼ del PIL totale ed il 40% della ricchezza si concentra oggi

nell’1% più ricco della popolazione (Stiglitz, 2013).

Per quanto riguarda la politica monetaria, va ricordato che all’avvio

dell’unione monetaria la strategia della BCE era diretta ad orientare verso l’alto il

tasso di cambio dell’Euro rispetto al dollaro statunitense. L’obiettivo era quello di

fare acquisire una forte “reputazione” ad una valuta nuova la cui banca centrale non

ha alle spalle un potere sovrano. Fra il 2000 ed il 2001, l’apprezzamento dell’Euro

venne realizzato spingendo verso l’alto il costo del danaro, con l’obiettivo di

“anticipare” un presunto aumento dell’inflazione attesa (la core inflation era infatti

stabile) . Nel corso di questa manovra restrittiva intervenne lo shock delle “Twin

Towers”, che ebbe l’effetto di aggravare la tendenza deflazionistica che la monetary

stance stava già imprimendo all’attività economica.

Tabella 3. Output gap nell’UME e negli Stati Uniti

200

0

200

1

200

2

200

3

T1 T2 T3 T4 T2 T2 T2

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150

T1 T3 T4 T1 T3 T4 T1 T3 T4

UME

0,

5 0,8 0,6 0,7 0,8 0,3

-

0,1

-

0,7

-

0,8 -0,9

-

1,2

-

1,6

-

2,1 -2,4

-

2,7

-

2,8

US

2,

4 2,8 2,1 1,5 0,6 -0,6

-

1,4

-

1,5

-

1,0 -1,4

-

1,1

-

1,5

-

1,9 -1,9

-

1,3

-

1,3

Fonte: Croci Angelini e Farina (2007)

Dopo la discesa dell’euro nei confronti del dollaro all’avvio dell’UME nel gennaio

del 1999, nel luglio 2001 ha inizio una eccezionale risalita. La rivalutazione dell’euro

si colloca attorno al 40% (Figura 8.5) rispetto al valore minimo. Un problema

interpretativo della strategia della BCE è che non è chiara la funzione di

comportamento delle autorità di fronte al rapporto di cambio dell’euro con il dollaro.

Qualora l’inflazione media attesa nell’UME sia in aumento, ma il dollaro tenda a

deprezzarsi nei confronti dell’euro, un intervento della BCE di correzione verso l’alto

del tasso di interesse, allo scopo di contrastare l’accelerazione nella dinamica dei

prezzi nell’area dell’euro, entra in conflitto con l’esigenza di evitare che un tasso di

cambio troppo forte con il dollaro indebolisca la competitività delle merci europee. Il

dilemma sul valore più appropriato da fare assumere alla velocità di adeguamento del

costo del danaro sembra avere messo in difficoltà la BCE nei primi anni del nuovo

millennio.

All’apprezzamento dell’euro ha contribuito il progressivo innalzamento del

tasso di interesse da parte della BCE. Fra il 2000 ed il 2001, il costo del danaro

sembra aumentare in conformità con l’approccio teorico sotteso alla nuova curva di

Phillips, e cioè allo scopo di “anticipare” un presunto aumento dell’inflazione attesa

(la core inflation era infatti stabile). Nel corso di questa manovra restrittiva, è

intervenuto lo shock delle “torri gemelle”, che ha finito per aggravare la tendenza

deflazionistica che la monetary stance stava già imprimendo all’attività economica.

Ci sono dunque indizi che inducono a formulare l’ipotesi che la governance

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macroeconomica - il mandato della BCE a perseguire prioritariamente l’obiettivo

della stabilità monetaria e la subordinazione delle politiche fiscali nazionali al PSC –

finisca per orientare l’eurozona in senso deflazionistico. A partire dal terzo trimestre

del 2002, la crescita nell’UME, già lenta, ha subito un ulteriore caduta ed i divari di

output gap con gli Stati Uniti hanno teso ad ampliarsi. A partire dal 2003, alla ripresa

negli Stati Uniti ha corrisposto la continuazione della stagnazione della domanda in

Europa (vedi Tabella qui sotto).

Figura. Output gap e politiche di stabilizzazione nell’UME e negli USA.

Eurozona

-6

-5

-4

-3

-2

-1

0

1

2

1994

1995

1996

1997

1998

1999

2000

2001

2002

2003

2004

% d

el P

IL p

oten

zial

e

0

1

2

3

4

5

6

7

8

output gap

deficit % PIL

tassi di interesse a breve (scala a destra)

USA

-5

-4

-3

-2

-1

0

1

2

1994

1995

1996

1997

1998

1999

2000

2001

2002

2003

2004

% d

el P

IL p

oten

zial

e

0

1

2

3

4

5

6

7

output gap

deficit % PIL

tassi di interesse a breve (scala a destra)

La Figura qui sopra offre due spunti di riflessione riguardo a questa ipotesi: 1)

successivamente alla recessione dei primi anni novanta, ad output gap negativi di

ampiezza maggiore nell’eurozona rispetto agli Stati Uniti corrisposero ancora nel

1994 e 1995 rapporti deficit /PIL altrettanto più elevati. I paesi dell’eurozona

espansero i deficit pubblici in misura molto maggiore di quanto non abbiano fatto

dopo la recessione causata dallo shock di domanda delle “torri gemelle”. Le politiche

di stabilizzazione macroeconomiche furono efficaci perché il Trattato di Maastricht

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non aveva ancora incominciato a “mordere”. Gli output gap negativi indussero i

governi a manovrare sia il tasso di interesse che i deficit pubblici in funzione anti-

ciclica; 2) durante la recessione dei primi anni del nuovo millennio, il confronto con

gli Stati Uniti mette in evidenza come l’azione di stabilizzazione sia della Fed che del

Tesoro sia stata molto più intensa che non quella della BCE e dei governi nazionali

vincolati dal PSC. Rispetto all’eurozona, nel 2003 e 2004 il tasso di interesse

nominale presenta negli Stati Uniti valori molto più bassi e l’ampiezza del deficit

pubblico supera di molto l’ampiezza dell’output gap.

L’evidenza empirica sopra presentata suggerisce che l’azione della BCE abbia

dato priorità assoluta alla stabilità monetaria, in quanto fra il 2002 e il 2005 gli

aggiustamenti verso l’alto del tasso di interesse sono stati adottati in presenza di

output gap negativi e sembrano quindi avere voluto anticipare possibili tensioni al

rialzo dei prezzi. Ci sono dunque elementi per sostenere che la BCE abbia di fatto

adottato la strategia inflation targeting di immediata reazione all’inflazione attesa,

ponendo il “peso” θ=1. Con un tasso di inflazione medio UME attorno al 2%,

l’output gap può rivelarsi un’informazione indispensabile sulla fase ciclica. Tale

informazione è particolarmente preziosa nell’area valutaria europea, dove la

persistente dispersione dell’ampiezza delle fluttuazioni cicliche fra i paesi comporta il

rischio per i paesi a minore tasso di inflazione e più ampio output gap di subire una

insufficiente stabilizzazione di politica monetaria.

Pertanto, anche quando la sua funzione di reazione fa riferimento al solo

scostamento del tasso di inflazione dal suo valore-obiettivo, l’autorità monetaria non

può non tenere conto dell’output gap. Nella prospettiva interpretativa della NKE, che

sottolinea l’esigenza di evitare spinte deflazionistiche in regime di “bassa inflazione”,

soltanto dopo che la variazione del tasso di interesse abbia ridotto l’output gap la

banca centrale dovrebbe concentrarsi sull’obiettivo di riportare l’inflazione sul

sentiero di convergenza al valore annunciato. La monetary stance della BCE (Figura

8.6) non evidenzia una particolare sagacia nel modulare le variazioni del tasso di

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interesse in modo che i segnali tesi a scoraggiare le aspettative inflazionistiche non

abbiano un effetto depressivo sulla domanda aggregata dei paesi UME.

In conclusione, la politica monetaria comune dei primi cinque anni è stata

condotta sotto il segno della prudenza. Una delle principali motivazioni risiede nel

difficile equilibrio fra l’esigenza della BCE di costruirsi una reputazione anti-

inflazionistica e l’esigenza di impedire che i fattori di instabilità macroeconomica –

ad esempio, lo shock (simmetrico negativo) di domanda rappresentato dall’attacco

alle “torri gemelle” - compromettano le già molto deboli prospettive della crescita

economica nell’area dell’euro. Questa difficoltà è stata accresciuta dalla circostanza

che, se si esclude un breve intervallo fra metà 2000 e metà 2001, l’obiettivo

intermedio della politica monetaria – un tasso di crescita dell’aggregato M3 fissato

dalla BCE al 4,5% annuo - è stato sempre mancato per eccesso, in una misura fra i 2

ed i 4 punti percentuali per anno. Una possibile spiegazione chiama in causa i valori

immobiliari. Il rapido abbassamento dei tassi di interesse potrebbe avere stimolato la

domanda di abitazioni con conseguente esplosione dei prezzi, oppure, all’inverso,

l’alta percentuale europea di residenti proprietari potrebbe avere beneficiato di un

effetto ricchezza da incremento dei valori immobiliari tale da provocare un notevole

innalzamento della domanda di moneta. Diversamente da altre banche centrali, la

BCE non utilizza un indice del costo della vita che includa anche il prezzo delle case.

La lentezza e la timidezza con cui la BCE ha corretto il tasso di interesse al ribasso

potrebbe avere origine dall’incertezza sull’effettivo significato del livello abnorme di

M3. Una strategia di politica monetaria sostanzialmente imperniata sull’inflation

targeting, ma che si sviluppa senza un relativo annuncio e basandosi sul

monitoraggio della M3, non è in grado né di intervenire con prontezza né di

comunicare segnali credibili ai mercati.

BOX. LA STRATEGIA DI INFLATION TARGETING, LA FED E LA BCE

Le vicende che hanno posto fine alla fase espansiva degli Stati Uniti, prolungatasi per tutti gli anni ’90, sono molto illuminanti a proposito della strategia di inflation targeting. La Federal Reserve si è trovata di fronte al dilemma fra due interpretazioni

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alternative di questo ciclo economico di inusuale lunghezza: i) la prima ipotizzava un “salto” indotto dal cambiamento tecnologico nel livello della TFP, connesso al largo impiego nelle imprese delle nuove tecnologie dell’informatica e delle telecomunicazioni; ii) la seconda riteneva che la lunga fase espansiva consistesse in uno shock positivo di domanda: l’incremento indotto nella domanda di consumo dall’effetto ricchezza conseguente alla lunga crescita dei valori dei titoli delle imprese delle nuove tecnologie. Se fosse stata vera la prima ipotesi, la Federal Reserve avrebbe dovuto evitare di intervenire. Allorché il cambiamento tecnologico determini un innalzamento del reddito potenziale, il sostegno di una politica monetaria espansiva alla crescita della produzione non troverebbe un limite nelle condizioni dell’offerta, ma si tradurrebbe piuttosto in una riduzione strutturale del tasso naturale di disoccupazione che la politica monetaria dovrebbe guardarsi bene dal contrastare. Se fosse invece stata vera la seconda ipotesi, una restrizione monetaria “preventiva” avrebbe consentito un progressivo calo dei valori azionari, in modo da evitare che le aspettative - prendendo atto che le quotazioni esprimevano un valore attuale dei profitti futuri di molto superiore all’effettiva capitalizzazione – sgonfiassero repentinamente la “bolla speculativa”, con conseguente grave rischio di recessione per il crollo dei prezzi di borsa e quindi della domanda aggregata. Nella stima del tasso di inflazione, la Federal Reserve avrebbe perciò dovuto tenere conto, oltre che dell’indice dei prezzi dei beni, anche delle quotazioni delle attività finanziarie e procedere ad un innalzamento del tasso di interesse. È probabile che questo sia stato il percorso logico seguito dal governatore Alan Greenspan e che fra le due opposte ipotesi sull’espansione USA la verità stesse nel mezzo. La strategia seguita è consistita in una moderata e graduale restrizione monetaria (un valore di θ vicino a 0 nella 8.1 del § 8.5), diretta innanzitutto ad influenzare al ribasso le aspettative degli operatori di mercato sui rendimenti azionari. Tale strategia non è tuttavia riuscita ad evitare lo scoppio della “bolla” e la conseguente recessione. Ma le cose sarebbero probabilmente andate ancora peggio se la Fed avesse deciso – erroneamente – che il decremento del tasso di disoccupazione fosse unicamente il segnale di un incremento di produttività di tutto il sistema economico e non avesse favorito l’adeguamento al ribasso delle aspettative di crescita.

Il governatore Greenspan, che ha guidato la Federal Reserve fino al dicembre 2005, è stato contrario ad ancorare la politica monetaria del suo paese all’annuncio di un obiettivo in termini di tasso di inflazione. Di fronte ad un peggioramento delle condizioni macroeconomiche (ad esempio, una caduta della domanda) la banca centrale si trova nell’impossibilità di adottare una manovra di stabilizzazione, pena la perdita di reputazione. La caratteristica principale della sua azione è stata quella di interpretare la regola di Taylor utilizzando nel modo più esteso possibile lo “smussamento” della variazione del tasso di interesse per il perseguimento dell’obiettivo della stabilizzazione degli output gap. Il nuovo governatore, Ben S. Bernanke, anche se non ha ancora adottato l’inflation targeting, ritiene che la chiarezza e la trasparenza dell’annuncio di un valore-obiettivo per il tasso di inflazione ponga la banca centrale nelle condizioni di affrontare una recessione con una maggiore flessibilità di politica monetaria.

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La funzione di comportamento della BCE si ispira alla strategia dell’inflation targeting. Nonostante lo shock negativo delle “torri gemelle” sia stato di domanda e non di offerta, il comportamento della BCE è stato molto prudente. Il suo primo governatore, l’olandese Willem F. Duisenberg, ha abbassato il tasso di interesse con ritardo ed in maniera molto più progressiva di quanto non abbia fatto il governatore Greenspan. Il secondo governatore della BCE, il francese Jean-Claud Trichet, si è mosso sulle orme del suo predecessore. Il terzo governatore, l’italiano Mario Draghi, si è trovato a dovere affrontare la più grave crisi dopo quella del ’29.

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15. Nuova Economia Classica, Nuova Economia Keynesiana e mercati finanziari

All’inizio degli anni ’80 del secolo scorso, l’approccio neo-classico e monetarista

divenne il paradigma di teoria economica dominante. Successivamente, una volta che

il pensiero keynesiano accolse l’ipotesi di aspettative razionali, i modelli della Nuova

Economia Classica (NCE) e della Nuova Economia Keynesiana (NKE) hanno

condiviso l’apparato analitico che prende il nome di Nuova Sintesi Neoclassica

(Goodfriend e King, 1997). Più recentemente, con l’avvento dei modelli DSGE

(Dynamic Stocastic General Equilibrium), l’economia neo-keynesiana si è

ulteriormente avvicinata alla Nuova Economia Classica, con la scelta metodologica di

adottare l’ipotesi di mercati dei capitali efficienti. Un aspetto non secondario continua

comunque a differenziare i modelli DSGE ispirati alla NKE da quelli ispirati alla

NCE: diversamente dalle ipotesi di mercati di concorrenza perfetta e di prezzi

completamente flessibili tipiche di quest’ultimo approccio, i modelli Neo-Keynesiani

innestano sull’impianto analitico dell’equilibrio intertemporale le ipotesi di mercati di

concorrenza monopolistica e di salari e prezzi vischiosi.

Ricordiamo alcuni caratteri del comportamento microeconomico dei soggetti, già

esposti precedentemente. Coerentemente con l’ipotesi di mercati completi, i vincoli

di bilancio intertemporali di tutti soggetti sono soddisfatti in mercati in cui domanda

ed offerta dipendono da tutti i possibili stati di natura futuri. In particolare, nel

modello NCE, poiché il ruolo della moneta è indebolito dall’avere legato il ciclo

economico esclusivamente a fattori reali (preferenze e tecnologia), non sono possibili

non solo fallimenti ed insolvenze, ma neppure frizioni nel sistema dei pagamenti

dovute a situazioni di illiquidità, in quanto manca un ruolo per il bene moneta. I

prezzi delle attività finanziarie riflettono perfettamente tutta l’informazione rilevante

e perciò sono in grado di fornire i segnali corretti per l’allocazione delle risorse. Tali

prezzi dipendono però da una lunga catena di aspettative. L’assunzione è quindi che i

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soggetti anticipino correttamente i prezzi che verranno fissati ad ogni data futura

dagli operatori dei mercati futuri. Poiché le tecniche di ottimizzazione dinamica

impongono che l’impatto sul prezzo oggi di un futuro infinitamente distante sia zero,

le aspettative sui prezzi nel lungo periodo sono realizzate per definizione. Il problema

è che nella realtà non esiste nessun banditore walrasiano o pianificatore di

un’economia centralizzata, che garantiscono il realizzarsi di questo equilibrio

intertemporale. Nei mercati decentralizzati dell’economia reale le aspettative non

rispettano le stringenti condizioni del modello matematico, ma sono esposte alle più

diverse influenze.

Al progressivo avvicinamento fra le due visioni neoclassica e neo-keynesiana della

macroeconomia – con la condivisione nei modelli DSGE delle due ipotesi di

aspettative razionali e mercati dei capitali efficienti - ha contribuito anche il processo

di deregolamentazione dei mercati dei capitali e del sistema bancario. Fu proprio

l’influenza intellettuale della NCE a portare negli Stati Uniti al rigetto del Glass-

Steagall Act. Nel 1999, il Gramm Leach Bliley Act revocò la netta separazione

giuridica fra banche commerciali e banche d'investimento, e il divieto a uno stesso

soggetto di svolgere entrambe le attività. Inoltre, per allineare gli interessi di manager

e azionisti e risolvere il problema di agenzia (i principali-azionisti erano i beneficiari

dei profitti ottenuti dagli agenti-managers), furono creati i bonus. I bassi tassi di

interesse determinati dalla politica monetaria espansiva a partire dall’inizio degli anni

90, stimolarono la domanda di mutui; la concessione di mutui anche a soggetti a

basso reddito produsse l’aumento del moltiplicatore del credito senza che dovesse

intervenire alcun incremento della base monetaria. Al contempo, l’innovazione

finanziaria consentita dalla deregolamentazione condusse alla creazione di nuovi

prodotti che permisero la suddivisione del rischio su una vasta platea di acquirenti

(risparmiatori, banche, istituzioni finanziarie). A tale risultato ha probabilmente

contribuito anche la Federal Riserve. La politica monetaria negli Stati Uniti è stata

così accomodante, ed i tassi di interesse così bassi, da incentivare l’incremento del

leverage delle banche, interessate ad accrescere i propri profitti attraverso

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l’intermediazione dei nuovi prodotti (titoli derivati, etc.). La forte espansione della

liquidità potrebbe essere stata una concausa di trend di forte crescita delle quotazioni

di borsa, con la formazione e l’esplosione di due importanti bolle speculative negli

ultimi quindici anni.

Come vedremo più approfonditamente in seguito, le banche commerciali, essendo

state autorizzate ad operare nell’emissione e nel trading di attività ad alto rischio, si

dedicarono alla cartolarizzazione dei prestiti subprime in asset-backed-securities

(ABS) agendo di fatto come banche di investimento. D’altro canto, le banche di

investimento cominciarono ad effettuare prestiti al pari delle banche commerciali.

Tuttavia, prestando liquidità agli Hedge Funds e prestando le attività finanziarie da

loro ricevute in garanzia, si trovarono in bilancio un eccesso di attività a breve e di

passività a lungo termine proprio mentre i prezzi delle attività finanziarie e degli

immobili cominciarono a declinare. Affinché non si producano bolle speculative

occorre che le banche tengano conto dell’informazione fornita dalle agenzie di rating

sulla loro salute ed iscrivano nei propri bilanci le attività finanziarie aggiornando il

loro valore in base all’evoluzione dei prezzi di mercato. Ciò non è accaduto perché

sono mancati gli incentivi appropriati perché questi comportamenti virtuosi si

radicassero nei mercati finanziari. Negli Stati Uniti, l'assunzione di rischi

sproporzionati è stata resa possibile dalla decisione delle autorità di sorveglianza di

liberare le banche dai requisiti di capitale: nel 2004, l’indebolimento del limite sul

grado di leverage indusse le banche di investimento di Wall Street ad accrescere i

loro investimenti finanziari ad alto rischio. Il tasso di rischiosità del sistema bancario

statunitense era accresciuto dal fatto che con l’assorbimento delle banche

commerciali da parte delle principali banche di investimento tutte le banche USA

erano “troppo grandi per fallire”. Si è così ignorato che le banche stavano

accumulando rischi insostenibili alla luce del rapporto fra indebitamento e capitale.

Ciò del resto avveniva anche in Europa, dove la collusione fra controllanti e

controllati è stata altrettanto estesa che negli Stati Uniti: i requisiti di capitale previsti

dalla regolamentazione conosciuta come Basilea1 si sono rivelati del tutto inadeguati

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ad impedire che rating compiacenti nascondessero le situazioni di rischio e che i

contratti di credit default swap (CDS) li assicurassero in maniera del tutto

inconsistente.

16. L’ipotesi di mercati dei capitali efficienti

L’ipotesi di mercati dei capitali efficienti può essere espressa mediante l’equazione

del tasso di rendimento R di un’attività finanziaria:

C + Pt+1 - Pt

(1) R = _____________

Pt

dove:

R = rendimento derivante dall’investimento in un titolo da t a t+1

Pt+1 = prezzo di un titolo al tempo t+1 alla fine del periodo dell’investimento

Pt = prezzo di un titolo al tempo t all’inizio del periodo di investimento

C = flusso di cassa (cedola o dividendo) ricevuto nel periodo da t a t+1.

Essendo noti il prezzo corrente ed il pagamento C, l’unica variabile incerta è il prezzo

del periodo successivo Pt+1. Indicando con Pt+1e l’aspettativa del prezzo di un titolo,

per ottenere l’equazione che esprime il rendimento atteso Re è sufficiente sostituire

nella (1) Pt+1 il suo valore atteso Pt+1e

L’ipotesi di mercato efficiente considera le aspettative come previsioni ottimali

formulate sulle informazioni disponibili. Pertanto, il mercato è efficiente perché

riflette tutte le informazioni disponibili. Definiamo Pp la migliore previsione di

prezzo possibile sulla base dell’informazione disponibile è Pt+1 e = Pt+1 p

L’aspettativa del rendimento al tempo t è uguale alla migliore previsione possibile:

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(2) Re = Rp

Non potendo osservare né Re né Pt+1e , l’equilibrio fra domanda ed offerta di titoli

eguaglia l’aspettativa sul rendimento del titolo Re:

Re = R*

Sostituendo Re con R* nella equazione 2, si ha: Rp = R*

I prezzi correnti in un mercato finanziario saranno fissati in modo che la previsione

ottimale del rendimento di un titolo ottenuta usando tutte le informazioni disponibili

sia eguale al rendimento di equilibrio del titolo. Chi acquista un’attività finanziaria

assume una posizione lunga, chi vende una posizione corta. In ambedue i casi, il

soggetto si assume il rischio sul prezzo dell’attività indotto da una variazione del

tasso di interesse: una posizione lunga può incorrere nella caduta del prezzo

dell’attività acquistata; una posizione corta può incorrere nell’aumento del prezzo

dell’attività venduta).

Supponendo che il prezzo di un’azione sia pari a $90 e che nuove informazioni

inducono a ritenere che l’anno prossimo il prezzo sarà Pt+1 e = $120, se il rendimento

annuale di equilibrio R* è 15% (uguale alla migliore previsione Rp ) e non sono pagati

dividendi (C=0), dopo l’apertura il prezzo aumenterebbe a $104,35. Inserendo tali

valori nell’equazione (1) si ottiene:

120 - Pt

(1) 0,15 = _____________

Pt

Supponiamo che il valore dell’azione sia del 10% su base annuale, ed il suo prezzo

corrente sia inferiore alla previsione per domani Pt+1 p; la previsione ottimale del

rendimento sarà 50%, superiore a 10%. La condizione di mercato efficiente riflette il

comportamento di prezzo perché – come l’esempio rivela – esistono opportunità di

profitto che verranno sfruttate: se Pt+1 e > Pt, l’acquisto del titolo provocherà la salita

del suo prezzo in rapporto al prezzo futuro Pt+1e , con conseguente riduzione di Rp .

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La condizione di mercato efficiente è soddisfatta quando il prezzo corrente è

aumentato abbastanza da fare sì che Rp sia eguale a R*.

La versione “forte” della condizione di mercato efficiente prevede non solo che siano

sfruttate tutte le opportunità di profitto (in quanto si utilizzano tutte le informazioni

pubblicamente disponibili), ma anche che i prezzi siano correttamente determinati,

ovvero riflettano il “valore fondamentale” dei titoli. Si intende dire che il livello di

prezzo è fissato tenendo conto delle aspettative future dei prezzi e dei dividendi

pagati dal titolo, scontati mediante un tasso che incorpora anche il premio al rischio.

Pertanto, la teoria dei mercati efficienti si basa su due assunzioni: 1) i prezzi delle

attività finanziarie riflettono con esattezza il valore del capitale fisico, permettendo

un fluido trasferimento del risparmio all’investimento; 2) i mercati finanziari sono in

grado di autoregolarsi. Queste due ipotesi espungono dalla macroeconomia qualsiasi

ruolo per l’informazione imperfetta e per comportamenti di razionalità limitata.

Akerlof e Shiller (2007) hanno ad esempio lamentato come l’ipotesi di aspettative

razionali abbia eliminato il concetto di animal spirits - le aspettative ottimistiche o

pessimistiche degli imprenditori - dai modelli macroeconomici.

D’altro canto, come dimostrato da Grossman e Stiglitz, la fluttuazione dei prezzi

attorno ai valori corretti rappresenta una condizione necessaria per incentivare gli

investitori razionali ad acquisire l'informazione. Se infatti i prezzi fossero sempre

esattamente eguali al valore corretto, si presenterebbe un paradosso

dell'informazione: i prezzi rifletterebbero l'informazione disponibile, ma nessuno

avrebbe interesse a raccogliere l'informazione perché non ci sarebbe modo di trarre

profitto da essa.

La teoria dominante assume invece che agenti perfettamente razionali inseriscano nel

sistema di equazioni che esprime il funzionamento dell’economia tutta la

informazione disponibile per calcolare le probabilità ed i payoff attesi in relazione al

verificarsi di ciascun possibile stato di natura. Il processo di massimizzazione delle

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imprese mette capo alla scelta dei progetti con la più alta utilità attesa. L’inserimento

nel modello della nuova informazione disponibile porta – noti i termini noti ed i

valori dei coefficienti - a ricalcolare i valori delle incognite. L’assunzione di

comportamento razionale e le condizioni di informazione completa consentono

l’efficiente funzionamento dei mercati finanziari e conseguentemente escludono la

possibilità che si presentino “bolle speculative”.

Nel corso degli anni che precedettero la crisi finanziaria 2007-09, tuttavia, le

condizioni che dovrebbero impedire il formarsi delle bolle speculative erano assenti.

L’informazione fornita dalle agenzie di rating era distorta, in quanto esse operavano

in pieno conflitto di interessi, dovendo essere imparziali nei confronti delle banche

monitorate ma al contempo essendo interessate a sopravvalutare la redditività delle

banche in quanto facevano anche profitti con la consulenza alle banche sui nuovi

prodotti finanziari in cui investire. La ragionevole regola di valutare le attività

finanziarie in base ai prezzi di mercato diviene perversa in presenza di mercati dei

capitali imperfetti: se una bolla finanziaria nasce ma non viene riconosciuta, si è

indotti a presumere – erroneamente - di trovarsi di fronte ad un corretto rating delle

banche. Ex post, e cioè dopo lo scoppio della bolla, tale presunzione si rivelerà

infondata, in quanto ad elevate quotazioni non corrisponderanno elevati profitti.

La crisi finanziaria 2007-09 ha gettato un’ombra sugli anni della “Grande

Moderazione”. Con tale espressione si intende la crescita del reddito e

dell’occupazione in presenza di inflazione bassa e stabile che caratterizzò le

economie avanzate negli anni ’90. Alla Federal Reserve è stato da molti economisti

attribuito il merito di avere saputo favorire quest’epoca di crescita continua con alto

tasso di occupazione e senza inflazione. Benché il 2000 fu l’anno in cui scoppiò la

bolla dot.com, fino all’esplodere della crisi finanziaria del 2007-09 il giudizio sulla

politica monetaria del governatore Greenspan era più che lusinghiero. Al governatore

veniva solo imputato di avere troppo a lungo favorito con bassi tassi di interesse la

crescita dei listini finanziari, senza rendersi conto che alla fine degli anni ’90 i prezzi

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delle azioni erano troppo elevati rispetto alle aspettative di profitto futuro delle

imprese dei settori ICT. La crisi finanziaria 2007-09, nel dimostrare quanto tali

economie fossero in effetti esposte a gravi pericoli, ha anche rimosso molte certezze.

Ci si interroga ad esempio sull’intonazione costantemente espansiva che Greenspan

diede alla politica monetaria della Fed, con l’effetto di sostenere dal 1992 al 2000 una

crescita dell’economia statunitense mai interrotta da fasi cicliche negative, ma anche

di generare un trend di crescita delle quotazioni di Wall Street che si è rivelato non

conforme alle prospettive di profitto delle imprese. Come ha documentato Robert

Shiller, una bolla finanziaria si caratterizza per un'anomala convergenza delle

opinioni e delle aspettative degli investitori e degli intermediari finanziari

sull'andamento dei prezzi delle attività patrimoniali: non solo diminuisce la

percezione del rischio, ma viene meno la normale differenza di opinioni che, quando i

prezzi salgono, induce alcuni a comperare e altri a vendere. Questo accade quando la

giusta preoccupazione delle autorità monetarie e governative di intervenire nei

mercati allo scopo di impedire crisi di sfiducia è usata male dal sistema bancario.

Negli anni precedenti le bolle speculative di fine secolo scorso, a Wall Street si

consolidò l'opinione secondo cui la Federal Reserve americana e il Tesoro sarebbero

intervenuti per salvare i finanzieri dai loro errori, da un lato con la creazione di

moneta, dall'altro evitando il fallimento delle banche troppo esposte. Questa

aspettativa ha creato un perverso incentivo per le banche, invogliandole ad assumere

un atteggiamento opportunistico. Le banche hanno scambiato la giusta

preoccupazione di proteggere i risparmiatori per la licenza di accrescere a dismisura

il grado di rischio della loro attività. A favorire l’azzardo morale delle banche è stata

anche la presenza di un grave conflitto di interessi: i ministri del Tesoro provengono

spesso dai ranghi di Wall Street.

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17. Mercati efficienti e modello macroeconomico

Due aspetti del modello macroeconomico - comuni sia alla NCE che alla NKE –

vengono oggi sottoposti a critica: 1) il passaggio dall’utilizzo della quantità di base

monetaria al tasso di interesse come principale strumento della politica monetaria

(com’è noto, a partire dalla fine degli anni ’70 la forte volatilità della domanda di

moneta determinata dalla innovazione finanziaria ha destituito di fondamento l’idea

che gli aggregati monetari M1,M2 ed M3 rappresentino indicatori affidabili del grado

di monetizzazione dell’economia); 2) l’utilizzo della Regola di Taylor come

funzione-obiettivo della politica monetaria (com’è noto, questa regola prevede che il

tasso di interesse venga manovrato dalla banca centrale verso l’alto o verso il basso

con l’obiettivo di annullare un eventuale divario del tasso di inflazione dal tasso di

inflazione scelto - esplicitamente o implicitamente - come target della politica

monetaria e dell’output dal suo livello di equilibrio corrispondente al tasso naturale di

disoccupazione). Queste due critiche convergono nella conclusione secondo cui il

controllo dell’economia attraverso la manovra del tasso di interesse alla luce dello

scostamento dal suo valore di lungo periodo risultante dall’equazione di Taylor

presenti due limiti fondamentali sul piano teorico:

A) la regola di Taylor non dovrebbe tenere conto soltanto dell’inflazione dei beni ma

anche dell’inflazione dei valori delle azioni e dei valori immobiliari. Mentre da un

lato si diffondeva rapidamente l’uso del tasso di interesse per il controllo

dell’economia da parte delle Banche centrali, dall’altro non ci si rendeva conto che la

centralità in tal modo acquisita dal nesso fra politica monetaria e mercato finanziario

imponeva la considerazione anche dell’andamento dei prezzi delle azioni nel

computo del tasso di inflazione. Se vengono la politica monetaria reagisce ad

incrementi dei valori borsistici che non trovano spiegazione nei bilanci delle imprese

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ma derivano da un eccesso di liquidità, l’inflation gap positivo che risulterà

nell’equazione di Taylor imporrà un aumento del tasso di interesse e una probabile

bolla finanziaria verrà eliminata sul nascere. Tuttavia, la mancata considerazione dei

prezzi finanziari e immobiliari nell’equazione di Taylor rende il ruolo centrale

attribuito al tasso di interesse ed al nesso fra politica monetaria e mercato finanziario

inutilizzabile ai fini di una corretta interpretazione dell’andamento del mercato dei

capitali. Come ha riconosciuto lo stesso Lucas, “The problem is that the new theories,

the theories embedded in general equilibrium dynamics […] don't let us think about

the US experience in the 1930s or about financial crises and their consequences […]

We may be disillusioned with the Keynesian apparatus for thinking about these

things, but it doesn't mean that this replacement apparatus can do it either" (Lucas,

2004, p. 23).

B) La considerazione in un modello di equilibrio intertemporale delle ipotesi di

agenti perfettamente razionali e di perfetto funzionamento dei mercati dei capitali

destituisce di rilevanza eventuali squilibri fra risparmi ed investimenti. Ogni eccesso

degli investimenti sui risparmi determinata da prezzi errati delle attività finanziarie

non rappresenta la spia di un’allocazione delle risorse incompatibile con l’equilibrio

di lungo periodo, ma viene interpretato come squilibrio temporaneo che sarà

rapidamente eliminato da mercati finanziari capaci di autoregolarsi.

Il fatto è che la realtà dei mercati finanziari degli ultimi anni ha finito per distanziarsi

di molto dalle ipotesi dei modelli teorici. Il mutamento strutturale avvenuto a partire

dagli anni ’70 - la crescente volatilità di tassi di interesse e quotazioni delle attività

finanziarie – ha però favorito lo sviluppo di un filone alternativo ai modelli basati su

aspettative razionali e mercati dei capitali efficienti, basato sull’idea che i

cambiamenti futuri nei prezzi delle azioni non sono prevedibili. E’ stato osservato

che i prezzi delle azioni sovra-reagiscono alle notizie (un alto fatturato fa crescere di

molto la quotazione), per poi diminuire nel medio periodo. Tale andamento dei valori

azionari suggerisce che almeno parte dell’erraticità delle quotazioni di borsa, la

cosiddetta random walk , può trovare spiegazione in fenomeni psicologici. Dal

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momento che le quotazioni hanno un andamento casuale, è difficile “battere” il

mercato, ovvero guadagnare un rendimento superiore al valore di equilibrio: con

l’arbitraggio vengono immediatamente sfruttate tutte le opportunità di profitto.

18. Grande Depressione (1929) e Crisi finanziaria (2007-09)

L’interpretazione più condivisa delle cause della Grande Depressione degli anni ’30

del secolo scorso, che seguì il crollo di Wall Street del ’29, si incentra su due aspetti

principali: 1) Il ritorno al gold standard, che vincolò fortemente la creazione di

moneta negli Stati Uniti: la politica monetaria restrittiva portò a tassi di interesse

nominali dal 4% in sù, cui fecero seguito una forte deflazione dei prezzi (- 25% nel

1929-33) e tassi di interesse reale negativi superiori al 10% che “tagliarono” gli

investimenti (Friedman-Schwartz,1963;Bernanke,2000, 2004); 2) La forte

sottovalutazione della stabilità del sistema bancario: poiché nessuna banca era così

grande da dovere essere considerata “sistemica” (e cioè con troppe interconnessioni

con il sistema bancario nel suo complesso perché potesse essere lasciata fallire), non

si fece molto per impedire i fallimenti, con gravi conseguenze per il finanziamento

delle imprese.

La sospensione del Gold Standard e la svalutazione del dollaro (una

“bancarotta” di fatto degli Stati Uniti) decise da F.D. Roosevelt consentirono alla

Federal Reserve di attuare la politica monetaria espansiva che innescò la ripresa

economica, con la rapida risalita degli investimenti alla fine degli anni ‘30; il ruolo

della politica fiscale nell’uscita dalla crisi tende oggi ad essere ridimensionato, o

perché si ritiene che gli interventi di deficit spending degli anni ’30 non furono affatto

massicci (il rapporto deficit pubblico/PIL non superò il 5%) o perché alla spesa

pubblica in infrastrutture non si attribuisce un elevato valore del moltiplicatore nel

breve periodo.

La Grande Depressione, infatti, venne innescata da una bolla del mercato

finanziario, non del mercato immobiliare. Pertanto, stabilire un parallelo fra la

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167

Grande Depressione e la crisi finanziaria 2007-09 è più agevole in termini di

conseguenze che di cause. Guardiamo allora all’impatto rispettivamente della crisi

del ’29 e della crisi finanziaria 2007-09. Come si osserva nei tre grafici che seguono

(tratti da Eichengreen-O’Rurke, 2009), rispetto ai mesi successivi alla crisi del ’29,

l’impatto iniziale è stato invece oggi altrettanto pronunciato sul PIL mondiale e molto

più grave su un indice delle quotazioni dei mercati finanziari internazionali, e sul

commercio mondiale.

19.Banche commerciali e banche di investimento

Dopo la grande crisi degli anni ’30, la riforma del sistema bancario degli Stati Uniti si

articolò in tre provvedimenti: 1) la Banca centrale assunse la funzione di prestatrice

di ultima istanza (lender of last resort) del sistema economico; 2) lo Stato istituì il

meccanismo dell’assicurazione pubblica dei depositi (con l’istituzione della Federal

Deposit Insurance, il governo dà la garanzia della restituzione della liquidità ai

depositanti delle banche insolventi, il che sollevò le banche dal timore di “corsa agli

sportelli” in caso di panico finanziario); 3) la regolamentazione del sistema bancario

divenne più stringente: il Glass-Steagall Act introdotto nel 1933 istituì la separazione

fra banche commerciali (autorizzate a raccogliere depositi presso i risparmiatori) e

banche di investimenti (che si finanziano esclusivamente sui mercati finanziari). La

logica di questo assetto istituzionale è molto semplice. Da un lato, le banche

commerciali beneficiano della prerogativa di reperire liquidità attraendo depositi e

sono protette dalla assicurazione dei depositi e dalla funzione di prestatore di ultima

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istanza della banca centrale. Dall’altro, le banche di investimento, non godendo della

raccolta dei depositi devono essere autorizzate a finanziare le loro attività illiquide

con linee di credito a breve termine aperte dalle banche commerciali, e sono costrette

a legare strettamente la durata delle passività alla durata delle loro attività. Pertanto,

il regime di separazione fra banche commerciali e di investimento ha la funzione di

impedire la commistione di entità finanziarie diverse. Il punto è che le prime non

dovrebbero essere autorizzate a vendere il loro portafoglio di prestiti (securization). Il

motivo di fondo è che la securization non elimina il rischio per le banche: anche

ricorrendo alla cartolarizzazione, infatti, il materializzarsi del rischio del credito

impone il ritorno dei prestiti nei bilanci delle banche, indebolendo la loro struttura

patrimoniale. Pertanto, risulta inevitabile il trasferimento del rischio alla Banca

centrale, che attraverso la funzione di prestatore di ultima istanza garantisce la

solvibilità della banca.

Nella teoria economica, dagli anni ’70 in poi, si è imposta una visione del

funzionamento di un’economia monetaria fondata su tre ipotesi: 1) aspettative

razionali consentono ai mercati finanziari di allocare i risparmi fra progetti di

investimento alternativi così da massimizzare il benessere; 2) mercati efficienti

garantiscono che i prezzi delle attività finanziarie riflettano i fondamentali, ovvero le

aspettative (razionali) sui profitti futuri delle imprese; 3) i mercati sono in grado di

auto-regolarsi. Come viene spesso ricordato, il governatore della Federal Reserve del

decennio scorso ha affermato nella sua autobiografia, pubblicata nel 2007, che “le

autorità (monetarie e fiscali) non dovrebbero interferire nell’attività di impollinazione

svolta dalle api di Wall Street”. Il clima intellettuale favorevole al modello NCE fece

guadagnare credibilità alle ipotesi di aspettative razionali e mercati dei capitali

efficienti. Si diffuse la convinzione che la promozione dell’efficienza economica si

esaurisca nel liberare il funzionamento dei mercati dalle limitazioni imposte dalla

regolamentazione. Sull’onda della deregolamentazione nel 1999 fu abolito il Glass-

Steagall Act.

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Com’è noto, la funzione svolta dalle banche di raccogliere depositi a breve

termine e prestare a lungo termine è essenziale per la crescita economica, in quanto la

moneta bancaria favorisce il trasferimento dei risparmi delle famiglie agli

investimenti delle imprese. L’espansione dell’attività delle banche commerciali e di

investimento ha contribuito a accrescere l’instabilità macroeconomica seguita ala

deregolamentazione ha determinato un forte incremento dell’attività bancaria. Alla

moltiplicazione delle attività finanziarie si è accompagnata la creazione di nuovi tipi

di contratti a termine (vedi BOX 1).

____________________________________________________________________

BOX 1. CONTRATTI A TERMINE

I soggetti avversi al rischio si difendono dal rischio di variazione dei prezzi delle attività finanziarie con la copertura offerta dai contratti forward. La copertura del rischio sui tassi di interesse avviene con i contratti a termine: vendere l’attività finanziaria ad una data futura al prezzo forward corrente (alla pari) consente di eliminare il rischio sul prezzo che una variazione del tasso di interesse potrebbe creare.

Il contratto forward fa tuttavia nascere due problemi: 1. Rischio di liquidità. Nonostante i broker avvicinino le parti acquirente e

venditrice, non sempre i mercati offrono un numero adeguato di offerenti ed acquirenti, cosicché la carenza di operatori comporta una mancanza di liquidità per una data attività finanziaria.

2. Rischio di insolvenza. Se al tempo t+1 cade il prezzo dell’attività che è stata rivenduta con un contratto forward che scade al tempo t+2, l’acquirente potrebbe rifiutarsi di acquistarlo al prezzo (più alto) convenuto al tempo t.

Un financial future si differenzia dal contratto forward per caratteristiche che

riducono i due suddetti rischi. Il rischio di liquidità viene contrastato dal fatto che la data di scadenza del contratto è standardizzata, il che accresce il numero di acquirenti e venditori disponibili ad entrare in contatto. Inoltre, il contratto può essere venduto in ogni momento prima della scadenza; il trasferimento può riguardare non solo il titolo su cui si è costruito il future, ma una molteplicità di titoli. L’operatore non si viene a trovare nelle mani da chi voglia monopolizzare il mercato rastrellando tale titolo. In tal modo, gli investitori con posizione corta evitano di non trovare i titoli che per contratto forward è obbligato a trasferire alla data convenuta. Il rischio di insolvenza è ridotto dalla stipula in una stanza di compensazione associata alla borsa dei future. Compratori e venditori debbono versare un deposito iniziale – il margine obbligatorio – in un conto di garanzia tenuto dal loro intermediario. Mediante il mark to market, ad ogni chiusura quotidiana dei mercati le variazioni nel valore dei titoli vanno aggiunte o sottratte dal conto di garanzia. Il rischio che un trader risulti

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insolvente è di molto ridotto: se il saldo scende sotto il margine obbligatorio di mantenimento, dovrà versare danaro nel conto.

Una option call (put) è un contratto che dà al compratore il diritto di acquistare (vendere) un’attività finanziaria a un prezzo specificato - prezzo di esercizio - entro un determinato periodo di tempo. Chi acquista un contratto future al prezzo di 115 si accetta di pagare 115.000 dollari per un valore nominale di 100.000 dollari.

Se un investitore, pagando un premio di 2000 dollari, acquista un contratto di opzione call sul contratto su obbligazioni del Tesoro scadenza giugno, con un prezzo di esercizio di 115, di fatto ottiene il diritto ad acquistare il contratto future per le obbligazioni del Tesoro a giugno al prezzo di 115 (115.000 dollari per contratto), diritto esercitabile in ogni momento fino alla scadenza. Alla scadenza, se il prezzo del contratto future fosse 115, l’opzione call è at the money: ovvero, è indifferente esercitare o meno l’opzione per acquistare l’opzione future, dal momento che l’esercizio dell’opzione a 115 quando il prezzo di mercato è anch’esso a 115 non produce né guadagni né perdite. Poiché l’investitore ha pagato 2000 dollari per l’opzione, l’operazione è in perdita. Se invece il prezzo fosse 120, l’opzione sarebbe on the money e l’investitore esercitando l’opzione paga il prezzo di esercizio 115 per vendere a 120, con un guadagno del 5% (5000 dollari) sul contratto di 100.000 dollari in obbligazioni del Tesoro. Il guadagno netto è 5000-3000=2000.

L’opzione call protegge l’investitore da perdite superiori al premio di 2000 dollari. La perdita sul contratto future sarà di 5000 dollari se il prezzo scende alla scadenza scende a 110 e aumenterà via via che il prezzo diminuisce. Il prezzo di acquisto è chiamato premio per la caratteristica di tipo assicurativo dei contratti. Se il prezzo dell’attività finanziaria sottostante aumenta rispetto a quello di esercizio, i guadagni crescono con una progressione lineare. L’investitore, rinunciando a qualcosa acquistando un contratto di opzione in luogo di un contratto future. Quando il prezzo dell’attività finanziaria sottostante supera il prezzo di esercizio, i guadagni sono sempre inferiori a quelli del contratto future, di importo pari al premio di 2000 dollari che ha pagato. Quando è inferiore, l’opzione put è on the money e i profitti aumentano via via che il prezzo del contratto future diminuisce.

Quando la durata aumenta, cresce la probabilità che il prezzo sia molto alto o molto basso entro la data di scadenza. Se il prezzo sale molto e supera notevolmente il prezzo di esercizio, l’opzione call frutterà un forte guadagno. Similmente, per l’opzione put la variabilità dei prezzi dell’attività finanziaria sottostante cresce a mano a mano che la durata si allunga: l’opzione put avrà valore maggiore all’aumentare della durata. Per questi contratti di opzione vale il motto: “se esce croce vinco; se esce testa non perdo troppo”. La più grande variabilità dei prezzi alla scadenza aumenta i profitti medi per l’opzione, alzando il premio che gli investitori saranno disposti a pagare. ____________________________________________________________________

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TABELLA 1: I sei più ampi movimenti dell’indice medio industriale Dow-Jones (ottobre

2008)

Date Var.Per. (1) Frequenza media “normale” (2)

07/10/2008 -5.11% Una volta in 5.345 anni

09/10/2008 -7.33% Una volta in 3,373,629,757 anni

13/10/2008 11.08% Una volta in 603.033610921669000000000 anni

15/10/2008 -7.87% Una volta in 171,265,623,633 anni

22/10/2008 -5.86% Una volta in 117,103 anni

28/10/2008 10.88 Una volta in 73.357.946.799.753.900.000.000 anni

(1) Rendimenti giornalieri dal 01/01/1971 al 31/10/2008 (Source Datastream)

(2) Media della distribuzione = 0; Dev. St. = 1.032%

Le bolle speculative con successivo crollo delle quotazioni di borsa sono

divenute sempre più frequenti (Tabella 1). Negli anni ’80 e ’90 si ebbero due bolle nei

mercati valutari: un eccessivo apprezzamento del dollaro rispetto al marco tedesco

(DM). Nel 1999-2002 ebbe luogo un’ondata di euforia seguita dallo scoppio della

bolla dot-com (anche detta IT bubble) seguita da una forte depressione (vedi Figura

8).

La crescita della capitalizzazione del mercato azionario di Wall Street del 30%

nel 2007 (la capitalizzazione arriva fino a 15 trilioni di dollari, con 3,5 trilioni in più

rispetto al 2006) non trova giustificazione nella crescita del PIL del 5% (pari a solo

650 miliardi di dollari) (vedi Figura 9).

L’ incremento del leverage è stato notevole: il rapporto attività/depositi delle 5

banche maggiori a livello mondiale ha superato nel 2007 il 200%. Anche i bilanci

delle banche europee hanno registrato questi aumenti (vedi Figura 10). Il problema è

che i rendimenti delle attività non hanno una distribuzione normale ma ampie code,

ovvero esiste un’alta probabilità che si verifichino bolle.

I modelli con distribuzione normale dei rendimenti sottostimano ampiamente

gli shocks: un’osservazione (giornaliera) che devia dalla media di 5 volte la

deviazione standard si presenta solo una volta in 7000 anni. Ma nella realtà degli

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ultimi 80 anni tali ampi cambiamenti si sono presentati ben 74 volte. La Tabella 1

mostra i 6 maggiori cambiamenti percentuali dell’indice Dow Jones Industrial

Average nel molto turbolento ottobre 2008 e misura quanto frequenti sarebbero

nell’ipotesi di distribuzione normale di questi eventi. I risultati sono sorprendenti: con

una deviazione standard di cambiamenti giornalieri di 1,032% (sul periodo 1971-

2008) cambiamenti di tali ampiezza possono avvenire solo una volta in un intervallo

da 73 a 603 miliardi di anni. Nonostante la teoria dei mercati finanziari assuma

proprio una distribuzione normale, si sono avuti due cambiamenti giornalieri

superiori al 10% durante lo stesso mese. Inoltre, nella simulazione sugli altri quattro

avvenuti nel mese di ottobre la frequenza risulta ancora più elevata.

Dal luglio 2006 al luglio 2007, l’economia USA ha visto aumentare il valore

del capitale del 30%, con una capitalizzazione che è passata da 11,5 a 15 migliaia di

miliardi. Come è stato possibile un incremento di 3,5 trilioni quando il PIL

aumentava soltanto di 650 miliardi (5%)? (vedi Figura 9). La causa di questa crescita

dei valori azionari del 30% e della successiva caduta di nuovo del 30% probabilmente

risiede in un’ondata di ottimismo eccessivo seguita da un’ondata di pessimismo

eccessivo (l’indice Dow Jones, dopo essere sceso a 7.000, nel settembre del 2009 ha

recuperato il 50% della perdita, tornando attorno ai 9.000 dollari). Similmente, nel

periodo 2000-07 secondo l’indice Case-Shiller i prezzi delle case negli Stati Uniti

sono più che raddoppiati, ma fra luglio 2007 e luglio 2008 sono caduti del 20%.

Pertanto, dopo avere favorito alti tassi di crescita, la deregolamentazione e la

conseguente innovazione finanziaria ha aumentato la volatilità dei mercati ed

innalzato la probabilità di una crisi finanziaria. Le banche hanno infatti incominciato

ad operare in attività finanziarie precedentemente trattate solo dalle banche di

investimento; queste ultime hanno cominciato a prestare liquidità agli hedge funds

accettando azioni come garanzia del prestito; in tal modo, si trasformavano in aziende

creatrici di credito al pari delle banche commerciali, ma con la particolarità di venirsi

a trovare con una forte polarizzazione fra attività a lungo termine e passività a breve

termine.

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La deregolamentazione presenta senza dubbio dei vantaggi: 1) la suddivisione

dei rischi su una vasta platea di risparmiatori ed operatori finanziari; 2) la maggiore

offerta di credito ad imprenditori e consumatori; 3) la diminuzione del costo del

credito. Il problema è che l’auto-regolazione del sistema bancario non è di norma

efficiente.

In primo luogo, una volta che banche commerciali e banche di investimento

hanno finito per condividere una lunga gamma di operazioni, nella struttura di attività

e passività il rischio di liquidità ha finito con il fondersi pericolosamente con il

rischio di solvibilità.

Figura 9. Le quotazioni di Wall Street (2006-2008): gli indici Dow Jones e

Standard and Poor’s

2007: US GDP growth: + 5%, does not explain Wall Street capitalization: + 30% (3,5 trillions more than in 2006)

In secondo luogo, il mark-to-market, ovvero la regola di inserire in bilancio alla

quotazione di mercato le attività possedute, è un segnale troppo spesso ingannevole

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della solidità della banca: allorché il mercato finanziario è soggetto ad una bolla il

mark-to-market determina una stima del valore delle attività gonfiata rispetto

all’effettiva profittabilità attesa.

In terzo luogo, l’assicurazione sui prestiti (i CDS, credit default swaps) era

determinata in base a modelli che prevedevano rendimenti distribuiti normalmente, il

che non trova riscontro nella realtà in mercati finanziari caratterizzati da una

crescente volatilità dei prezzi a causa dell’esposizione alle bolle speculative.

In quarto luogo, le agenzie di rating, dovendo valutare i bilanci delle banche alle

quali fornivano i CDS, non erano indotte ad attribuire il corretto “valore di merito”

alla banca, ma a segnalare una condizione migliore della realtà. Pertanto,

contrariamente alla teoria economica dominante, i mercati non sono efficienti,

essenzialmente per due motivi: 1) la nascita di bolle speculative è endemica ai

mercati finanziari; 2) i mercati finanziari non sono capaci di auto-regolarsi. La prova

che le agenzie di rating sono colluse con le banche da esse supervisionate è che –

contrariamente al Teorema di Modigliani-Miller - il mercato finanziario è più costoso

del mercato del credito. Se gli acquirenti di obbligazioni bancarie fossero state

correttamente informate riguardo alla effettiva probabilità di restituzione del prestito,

avrebbero domandato adeguati premi di rischio o riduzioni del prezzo delle

obbligazioni sufficienti ad equalizzare il costo dell’indebitamento nel mercato del

credito con quello del mercato finanziario. Chi non utilizza il leverage di

indebitamento sul mercato creditizio ma rispetta un valore prudenziale del rapporto

capitale/prestito non viene premiato ma penalizzato dal mercato finanziario. In teoria,

sia i risparmiatori che prestano alle banche che i governi potrebbero prevedere il

rischio addizionale cui vanno incontro nel caso in cui una banca scelga un rapporto

capitale/indebitamento troppo basso. I risparmiatori potrebbero chiedere un tasso di

interesse più alto sui prestiti alle banche oppure un tasso di rendimento più basso

sulle azioni ed i governi dovrebbero applicare una percentuale di tassazione più alta

sul mercato del credito. Quello che invece accade è che non si tiene conto

dell’assenza di informazione sulla probabilità di restituzione del prestito.

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Secondo autorevoli economisti, non sospettabili di simpatie dirigiste, è

auspicabile il ritorno alla separazione fra banche commerciali e banche di

investimento. Le prime devono limitarsi a raccogliere depositi (o se li scambiano

attraverso il credito interbancario) a breve ed a trasformarli in un portafoglio di

attività prestando a lungo termine, senza cadere nella tentazione di effettuare la

securization dei prestiti erogati (la cartolarizzazione non annulla la natura dei prestiti

di rappresentare una passività, in quanto essa riemerge nel caso in cui si materializzi

il rischio di credito). Le seconde devono rinunciare a finanziarsi a breve presso le

banche commerciali ed operare mantenendo passività con eguale durata delle attività.

In quinto luogo, il funzionamento dei mercati finanziari è indebolito dalla

sottovalutazione della limited liability (d’ora in avanti, LL) degli azionisti: i creditori

delle corporations non hanno diritti da vantare sulle attività personali degli azionisti.

Il problema della LL porta alla sottovalutazione dei rischi, ovvero alla realizzazione

di progetti di investimento con un eccessivo grado di rischio. Gli investitori prendono

tutti i profitti dei loro investimenti in caso di successo, mentre se le cose vanno male

la loro perdita è limitata allo stock di capitale investito senza estendersi anche alle

loro proprietà. Questa asimmetria ha provocato l’assunzione di eccessivo rischio.

La LL venne introdotta negli Stati Uniti ed in Europa nel XIX secolo per

facilitare l’attività di finanziamento di progetti di investimento industriali che gli

imprenditori non avrebbero altrimenti potuto intraprendere. Gli imprenditori si

trasformano però in scommettitori in un mondo di enorme incertezza economica

come quello attuale. Il punto è che essi non dovrebbero essere nelle condizioni di

decidere autonomamente il grado di loro liability, e cioè di scegliere da soli quale sia

l’adeguato rapporto capitale/prestiti della loro corporation. Questa autonomia fa sì

che scelgano un rapporto troppo basso e che distribuiscono agli azionisti come

dividendi una quota troppo ampia dei profitti invece di accrescere il capitale. Le

banche di investimento US hanno operato con un rapporto del 4% in quanto non sono

state soggette alla stessa supervisione delle banche commerciali US (che infatti

operano con un rapporto di almeno il 7%).

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In sesto luogo, a livello internazionale, la competizione fra i sistemi bancari ha

eroso la qualità dei prodotti finanziari a causa dell’informazione asimmetrica: il

risparmiatore non ha la possibilità di determinare la probabilità della restituzione del

proprio prestito. La competizione fra i sistemi bancari non può essere paragonata con

la competizione fra gli Stati, che si fanno concorrenza per attrarre capitali nei mercati

globali liberalizzati attraverso la riduzione della tassazione sul capitale. In

quest’ultima, infatti, è assente un sistema di regolamentazione. Tuttavia, la

regolamentazione bancaria non ha funzionato. Le banche hanno approfittato della

informazione asimmetrica ed hanno accresciuto la propria attività lasciando troppo

scarse riserve di capitale a garanzia dell’estinzione dei debiti assunti a fronte dei

prodotti venduti, hanno cioè venduto obbligazioni come collaterale del debito,

allungando la catena delle attività finanziarie collegate fra loro.

20. La diffusione dei mutui subprime e le cartolarizzazioni (securization)

I mutui subprime consistono in prestiti per acquisto casa che le banche degli Stati

Uniti hanno concessi a soggetti a basso reddito e/o occupazione precaria e quindi ad

alto rischio di non restituzione del debito (e dei relativi interessi). La forte crescita dei

mutui fu dovuta ad un comportamento miope (o forse sarebbe meglio dire azzardato)

delle banche. La continua salita dei prezzi delle case ha infatti indotto le banche a

considerare come un trend di crescita di lungo periodo quello che era semplicemente

un andamento ciclico crescente dei valori immobiliari innescato dalla politica

monetaria espansiva di Greenspan. Sia gli acquirenti delle case che le banche si

attendevano che un’eventuale insostenibilità del piano di restituzione del mutuo

avrebbe portato alla vendita della casa con un guadagno in conto capitale per chi è

costretto a rivendere la casa e nessuna perdita per la banca mutuataria. Alla crescita

del prezzo delle case, pertanto, si è accompagnata una crescente fiducia nella

virtuosità della strategia aggressiva di offerta di mutui a condizioni molto meno

stringenti di quanto il grado di rischio delle concessioni di prestito avrebbe richiesto.

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D’altro canto, a mano a mano che i nuovi soggetti mutuatari si rivelavano essere a

sempre più basso reddito e capacità di sostenere il piano di ammortamento del mutuo,

aumentava anche il ricorso al trasferimento al mercato del rischio di credito (la

securization o “cartolarizzazione”).

Negli Stati Uniti, i mutui si distinguono in base alla seguente scala di rischio

crescente: Agency, Jumbo, Alt-A, Subprime. Queste due ultime categorie di mutui

sono concessi a soggetti definiti “non-prime borrowers” (vedi Tabella qui sotto):

Loans (Agency, Jumbo, Alt-A, Sub-prime) and Securization

Subprime % Alt-A %N. Secur. N. Secur.

2001 190 87 46 60 11 192002 231 123 53 68 54 792003 335 195 58 85 74 872004 540 362 67 200 159 792005 625 465 74 380 332 872006 600 448 75 400 366 912007 191 275Fonte: Inside Mortgage Finance

La cartolarizzazione dei mutui sub-prime consiste nella suddivisione di un

portafoglio di mutui in diverse tranche, ciascuna con un diverso grado di rischio.

L’efficienza nell’allocazione del rischio aumenta, perché gli acquirenti dei pacchetti

di tranche rappresentano un’ampia platea di investitori con diverso profilo di rischio.

La categoria più rischiosa – la tranche equity, solitamente piazzata ad hedge funds –

è stata abolita perché le perdite hanno raggiunto il 5% del portafoglio (impegnava

l’investitore a coprire il primo 5% delle perdite sul miliardo di mutui, a fronte di un

altrettanto elevato tasso di interesse sul capitale (30%)). La categoria meno rischiosa

è la tranche senior che permette di ricevere una AAA dalle agenzie di rating. Per

raggiungere lo stesso risultato, un portafoglio di mutui della categoria mezzanine (la

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tranche attualmente più rischiosa) viene suddiviso e “impacchettato” assieme a

tranche di mutui di categoria meno rischiosa.

La cartolarizzazione di II livello consiste nella seguente operazione. Tranche

provenienti da differenti portafogli di mutui cartolarizzati vengono riunite in un

nuovo portafoglio, a sua volta diviso in tranche costruite in modo da generare

un’aggregazione di rischi eterogenei: il 60% di tali prodotti riesce ad ottenere un

rating AAA, cosicché il 90% dei mutui originari riesce ad ottenere AAA. Il

differenziale molto grande fra la rata dei mutui e i coupon consegnati dalle tranche

consente alle banche di pagare un tasso su titoli AAA ben più elevato di altri prodotti

e continuare ad ottenere un significativo margine.

L’offerta di obbligazioni “rappresentative” di quote di mutui venne presentata

dalle banche come un esempio delle virtù dei mercati: l’assorbimento di tali titoli da

parte del pubblico e delle istituzioni finanziarie (banche commerciali e banche di

investimento) avrebbe consentito la distribuzione del rischio su una vastissima platea

di soggetti istituzionali e non. Lo scoppio della bolla immobiliare avrebbe quindi

dovuto essere assorbito senza eccessivi problemi, in quanto il brusco calo dei prezzi

avrebbe colpito non poche grandi banche ma una miriade di acquirenti di piccoli

pacchetti di attività finanziarie legate ai mutui subprime. La grave crisi finanziarie

che è conseguita allo scoppio della bolla immobiliare ha tre principali cause: 1)

l’opacità delle attività finanziarie legate ai subprime: i derivati creati come tranche di

pacchetti di mutui subprime (CDO) ed i titoli derivati creati come tranche di titoli

derivati (CDO2) sono titoli troppo complessi perché se ne possa determinare con

precisione il valore di mercato; 2) l’incertezza crescente che ha investito l’attività

della moltitudine di istituzioni bancarie con CDO in portafoglio; 3) l’acquisto a

debito dei derivati ha comportato l’incremento vertiginoso del grado di leverage delle

banche: una volta iniziato il declino dei prezzi dei titoli, è aumentata la probabilità di

insolvenza delle banche ad alto leverage.

Se il valore delle passività eccede il valore delle attività, il capitale ha valore

negativo ed il rischio di insolvenza è elevato. Il processo di auto-aggravamento della

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crisi bancaria ha una semplice spiegazione: il default di una categoria di titoli

particolarmente rischiosa provochi l’aspettativa di perdite sul lato delle attività;

quanto più esiguo è l’ammontare del capitale a sostegno dell’eccesso di passività su

un valore declinante delle attività, tanto maggiore è il rischio che la crisi di liquidità

si trasformi in vera e propria insolvenza.

Il modello “originate and redistribute” prevedeva che le banche

“impacchettassero” i mutui di diverso grado di rischio da esse creati attraverso

special purpose vehicles (SIV), branche esterne al bilancio delle banche che

detenevano larghe posizioni in asset-backed securities (ABS), che nel caso dei titoli

dei mutui subprime prendevano il nome di mortgage-based securities (MBS). Le SIV,

che si finanziavano con linee di credito ottenute nel mercato dei prestiti a breve

termine, acquisirono un’ampia liquidità allo scopo di ottenere una valutazione AAA

delle agenzie di rating. La solvibilità dei titoli ABS e MBS creati dalle banche e

venduti sul mercato finanziario interno ed internazionale dipendeva dai piani di

rientro della liquidità prestata ai mutuatari. Quando il prezzo delle case cominciò a

calare, si diffuse la sfiducia nei MBS, le banche incontrarono difficoltà nel

rifinanziare i MBS, ed anche il mercato degli ABS venne investito da una crescente

incertezza. Il collasso del mercato dei prestiti a breve termine negli USA nell’estate

del 2007 obbligò le banche a fare rientrare nei loro bilanci i portafogli di ABS delle

rispettive SIV. L’innovazione finanziaria dei CDS venne utilizzata per assicurare il

rischio sulle ABS, in modo da mantenerle nei propri bilanci ma liberarsi del rischio

sui prestiti. Ciò creò nelle banche l’illusione di un basso grado di rischio della propria

attività. D’altro canto, chi sottoscrive un CDS relativo al fallimento di una società cui

ha prestato un milione di dollari non deve – a differenza di quando acquista

un’obbligazione - pagare nulla oggi. Il che ha naturalmente portato ad una enorme

crescita dell’assunzione di rischio attraverso i CDS.

La diffusione dei derivati in un grande numero di banche di vari paesi,

nell’accrescere l’integrazione fra i mercati finanziari, ha anche aumentato il rischio

sistemico. Gli ABS venivano anche venduti sui mercati finanziari internazionali. Data

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la scarsa trasparenza sul contenuto degli ABS e dei MBS, alla iscrizione in bilancio

dei titoli precedentemente collocati nei SIV si accompagnò una grave crisi di fiducia.

L'instabilità sistemica non nasce dal fatto che un intermediario o un fondo possa non

rimborsare i denari ricevuti dagli investitori, infliggendo loro delle perdite. Nasce

quando su tali passività vi è una garanzia esplicita o implicita di restituzione a vista

senza perdite - che è appunto la caratteristica dei depositi bancari. Le banche sono

sottoposte a vincoli prudenziali proprio perché, accettando passività garantite, li

impieghino a scadenza più lunga con oculatezza; a garanzia dei depositanti, devono

tenere adeguati cuscinetti di capitale, cui ricorrere per soddisfare le richieste di

rimborso dei depositanti.

Un modo per superare una crisi di liquidità è la vendita di attività finanziarie.

Anche nelle banche di investimento con forte debito a breve, la richiesta dei creditori

di ripagare questi crediti costrinse a liquidare rapidamente parte dell'attivo,

sopportando grosse perdite. A parità di leva finanziaria, la quantità di debito a breve è

un forte meccanismo d'instabilità sistemica. La decumulazione di attività fa infatti

scendere la valutazione di mercato delle stesse banche, in quanto la caduta del valore

delle attività finanziarie possedute dalle banche potrebbe trasformare una crisi di

liquidità in crisi di insolvenza. I governi potrebbero perciò sentirsi obbligati ad

accrescere i fondi destinati alla ricapitalizzazione delle banche. L’ingente sostegno

finanziario dei governi alle banche ha il risvolto negativo di sostituire debito privato

con debito pubblico.

Le banche a rischio di insolvenza vedono crollare la loro affidabilità, e perciò

trovano crescente difficoltà nel reperire il nuovo credito necessario per aumentare il

tasso di capitalizzazione (il rapporto valore delle attività/valore delle passività). La

vendita di attività rischiose causa un caduta del loro prezzo; a sua volta, cade anche il

prezzo di attività finanziarie simili, che condividono il problema di una difficile e

incerta valutazione. Tutte le istituzioni finanziarie gravate da titoli di incerto valore,

ed anche le banche solvibili che posseggono in portafoglio tali attività con valore in

ribasso, vengono trascinate nella crisi. Infatti, la diffusione del panico fa sì che anche

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le banche più solide siano colpite dal ritiro dei depositi e debbano vendere attività

finanziarie. Ciò che accadde negli anni 30, però, non avrebbe dovuto ripetersi oggi,

perché dopo la Grande Depressione seguita al crollo di Wall Street del ‘29 vennero

attuate le tre grandi riforme prima ricordate (1) la funzione di prestatori di ultima

istanza delle banche centrali; 2) l’assicurazione dei depositi fornita dai governi; 3) la

regolamentazione bancaria, quale ad esempio la separazione dal lungo termine delle

banche commerciali introdotto negli Stati Uniti nel 1933 con il Glass-Steagall Act).

La perdita di valore delle attività in portafoglio che si determina nel corso di

una crisi finanziaria è un incentivo per le banche di investimento a fare fronte ai

pagamenti ed alla richiesta di restituzione dei crediti e per le banche commerciali a

reagire alla “corsa” al ritiro dei depositi (anche quando il governo ha stabilito la

garanzia pubblica sui depositi) frenando i prestiti interbancari piuttosto che

ricorrendo alla onerosa vendita delle proprie attività a prezzi in continuo calo. Il

prosciugarsi dell’importante fonte di liquidità rappresentata dal credito interbancario

si è ripercossa sulla economia reale sotto forma di restrizione del credito ad imprese e

famiglie. Il razionamento del credito è stata una delle cause che hanno portato alla

trasformazione della crisi finanziaria in crisi economica.

Il limite della visione di regolamentazione denominata Basilea2 è consistito

nell’avere adottato l’ipotesi di mercati dei capitali efficienti. Ciò ha consentito alle

banche di individuare il capital ratio che massimizzasse i profitto anche al costo di

incrementare il grado di rischio della propria attività. Dal momento che tale grado di

rischio non è quantificabile, a causa delle bolle che nascono continuamente in mercati

dei capitali imperfetti, le banche sono state incentivate all’azzardo morale, e cioè

all’aumento del grado di rischio. Ciò induce a ritenere che per evitare nuove crisi non

sarà sufficiente aumentare il rapporto di capitalizzazione delle banche rispetto alla

normativa di Basilea2. Nessun livello di capitale per fare fronte alle crisi di liquidità

può evitare che lo svilupparsi della crisi con la discesa dei valori delle attività

finanziarie possa trasformare una crisi di liquidità in crisi di solvibilità. E’ in primo

luogo l’attività delle banche a dovere essere oggetto della regolamentazione bancaria.

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Le banche dovrebbero essere incentivate a legare la durata delle proprie passività alla

durata delle loro attività, le banche di investimento non dovrebbero procedere al

finanziamento con credito a breve termine delle attività a lungo termine e quindi

meno liquide.

Pertanto, una nuova crisi finanziaria può essere evitata solo con interventi

strutturali che ripristini la separazione fra banca commerciale e banca di

investimento, impedendo la securization dei prestiti, il modello “originate and

distribute”. Riassumiamo la formazione di una piramide di titoli derivati che

contengono altri titoli. La cartolarizzazione, infatti, fa giungere alle banche liquidità

che viene reinvestita in nuovi prestiti, cui fa nuovamente seguito la securization. I

mutui subprime sono stati aggregati negli structured investment vehicle (SIV) e

frazionati per ottenere un AAA; sono state poi emesse obbligazioni di debito

collateralizzato (CDO), frazionato nuovamente in AAA, e collocate prevalentemente

nei portafogli di istituzioni non-levered, come banche centrali, fondi sovrani, fondi

pensione, etc, ma detenute anche dal settore levered (banche domestiche ed estere)

per la loro caratteristica di attività “sicure”. Le tranche di AAA erano però troppo

larghe rispetto alla capacità dei sottostanti strumenti rischiosi di giustificare una

valutazione così lusinghiera. Le banche commerciali hanno preso troppo a prestito

per comprare attività tossiche. Istituzioni ad alto leverage detenevano attività molto

vulnerabili, perché l’assenza di informazione sul loro contenuto le rendeva attività

caratterizzate da incertezza piuttosto che da rischio assicurabile (Caballero and

Krishnamurthy 2008a). Di conseguenza, il verificarsi di illiquidità dovute ad un

eccessivo leverage diffonde la sfiducia, inceppa il meccanismo dei prestiti

interbancari e finisce per generare il blocco dell’attività creditizia.

Quando un’ondata di pessimismo induce i depositanti a ritirare la propria

liquidità, le banche incorrono in una crisi di liquidità. Quando la caduta della fiducia

è originata da prestiti che non vengono restituiti alle banche la situazione è ancora più

grave, perché le banche incorrono in una crisi di insolvenza. Ciò accade quando per

fare fronte ai propri debiti la banca vende attività. La decumulazione di attività dai

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portafogli contribuisce però a deprimere i corsi delle azioni. Una crisi di insolvenza

che travolge alcune banche può infatti contagiare anche le banche sane se la caduta di

fiducia si generalizza. Le banche sane rischiano al pari delle banche fortemente

indebitate un massiccio ritiro di depositi. Ciò le costringe a vendere attività di loro

proprietà. L’eccesso di offerta di attività sui mercati provoca la riduzione dei prezzi

azionari e quindi anche della quotazione di borsa delle banche sane. In tal modo, la

crisi di insolvenza si diffonde dalle banche colpite da mancata restituzione dei prestiti

alle banche sane.

Poiché lo scoppio di una bolla speculativa interrompe la catena fiduciaria fra

debitori e creditori, il processo di propagazione della crisi finanziaria ha l’effetto di

bloccare il processo di moltiplicazione del credito. Non essendo più in grado di

ricevere credito, le banche sono costrette a ridurre drasticamente la concessione di

credito all’economia e alle altre banche. La riduzione dell’attività di intermediazione

ha quindi prodotto un processo di deleveraging, ovvero una riduzione del rapporto fra

fondi presi a prestito e capitale proprio. Il problema è che il deleveraging rischia di

non fermarsi e può quindi sfociare in una grave recessione.

La svalutazione dei prezzi delle attività possedute ha pericolosamente ridotto la

capitalizzazione delle banche, costringendo le banche centrali ad un’immissione di

liquidità diretta ad impedire i fallimenti bancari, ed i governi ad offrire la garanzia

non solo sui depositi dei risparmiatori ma anche sul prestito interbancario. In tal

modo, si è impedito un collasso completo della fiducia di una banca nella solvibilità

della banca che le chiede prestiti, ed evitato che si bloccasse completamente il

meccanismo di trasmissione della liquidità all’interno del settore bancario, con grave

nocumento per il finanziamento delle imprese.

In alcuni casi, si è reso necessario procedere alla ricapitalizzazione o alla

nazionalizzazione delle banche. Un problema dell’attuale fase di ristrutturazione del

sistema bancario è che le fusioni indotte dalla necessità di evitare il fallimento di

alcune banche ha determinato un innalzamento ulteriore della dimensione media, il

che rende meno credibile il ripudio annunciato dalle autorità monetarie e governative

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del principio “troppo grande per fallire” che aveva indotto numerose banche ad

accrescere il grado di rischio delle proprie operazioni.

I prodotti delle banche insolventi sono stati definiti lemons (bidoni) perché la

cartolarizzazione ha fatto sì che la banca venditrice di tali prodotti finanziari

sfruttasse la mancanza di informazione dell’acquirente riducendone la qualità. In tal

modo, il risparmiatore acquirente di tali CDO si è trovato nell’impossibilità di

stabilire il valore di credito (l’affidabilità) dei clienti all’inizio della catena del

prestito (ad esempio, coloro che hanno sottoscritto i mutui sub-prime). D’altro canto,

negli Stati Uniti chi domandava un mutuo sulla casa sapeva che in caso di insolvenza

avrebbe dovuto dare soltanto alla banca le chiavi di casa, senza alcuna penalità

ulteriore. Questo ha fatto sì che anche dal lato della domanda di mutui si sia scelto di

aumentare il grado di rischio.

La propensione a finanziare acquisti di attività finanziarie a lungo termine con

ingenti quantità di credito a breve termine rappresenta un grave comportamento di

azzardo morale che allontana i mercati da un corretto funzionamento. Infatti, gli

agenti razionali reagiscono riducendo il proprio grado di fiducia, con conseguenze

negative sulle transazioni in beni ed in titoli; e gli agenti che sono invece più inclini a

seguire i “sentimenti” dei mercati finanziari adottano un comportamento “imitativo”

e si accodano al “gregge” che spinge la corrente ascensionale dei prezzi delle attività

finanziarie, senza tenere conto che le quotazioni eccedono di gran lunga i rendimenti

attesi. L’ingente indebitamento dello Stato che consegue ai salvataggi delle banche è

nient’altro che la conseguenza dell’avere consentito l’eccezionale indebitamento

delle grandi istituzioni finanziarie che accumulavano attività usando la leva dei

finanziamenti a breve termine confidando - esattamente come le banche concedevano

mutui ad elevata rischiosità confidando che la salita dei prezzi delle case non si

sarebbe esaurita - sull’illusione che la crescita economica non avrebbe avuto fine, e

che prezzi dei prezzi delle attività finanziarie in continuo incremento fossero

sostenibili.

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Gli squilibri macroeconomici globali sono stati indirettamente favoriti dalla

carenza di regolamentazione dell’attività bancaria. Infatti, le attività di investimento

negli Stati Uniti sono state finanziate in maniera crescente attraverso l’indebitamento

estero (la vendita all’estero di attività finanziarie) invece che attraverso il risparmio.

L’eccesso di importazione sulle esportazioni, che ha raggiunto un picco del 5,5% del

PIL, è stato finanziato con prodotti finanziari il cui valore si è rivelato non

corrispondente al rating attribuito dalle agenzie agli istituti emittenti. D’altro canto, la

regolamentazione europea ha varato il Basilea2 ma non ha modificato la

regolamentazione sul calcolo dei rischi. Le banche continuano ad operare sulla base

dei modelli di rischio commerciale invece che su modelli di rischio sistemico e non

richiedono alcun coefficiente di riserva di capitale sulle attività off-shore.

Riassumiamo brevemente alcuni aspetti centrali dell’analisi fin qui svolta. Il

giudizio complessivo sulle origini della crisi finanziaria chiama in causa la teoria dei

“fallimenti del mercato”. La scarsa e difettosa regolamentazione dei mercati

finanziari ha provocato una grave sottostima dei rischi insiti nella creazione di

derivati. Molti intermediari hanno costruito strumenti finanziari di cui non erano in

grado di valutare il grado di rischio hanno preso eccessivi rischi ignorando il rischio

sistemico, ovvero la rapida propagazione dell’insolvenza da un operatore all’altro. Il

modello “originate and distribute” separa la concessione del prestito dalla decisione

di investimento finanziario, determinando così problemi di azzardo morale. Le

agenzie di rating sono incorse nel conflitto di interessi L’elevata remunerazione dei

managers ha creato la tendenza allo short-termism, ovvero la strategia di accelerare il

conseguimento di elevati utili, in modo da avvantaggiarsi dell’incremento probabile

nelle quotazioni di borsa. La regolamentazione ha fallito nel permettere alle banche di

accumulare passività al di fuori del proprio bilancio e di tollerare una crescita

eccessiva dei prestiti nel grado di leverage (attività totali / capitale degli azionisti) e

nel calcolare il value at risk degli intermediari finanziari su base individuale,

escludendo il rischio sistemico. D’altro canto, le cause della crisi finanziaria non

possono neppure essere circoscritte al mercato dei sub-prime, la cui dimensione

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(3.000 dollari) è una piccolissima quantità rispetto al totale delle attività mondiali

(80 trilioni di dollari). L’effetto di amplificazione della crisi è stato indotto da tre

fattori: 1) la deregolamentazione bancaria ha sortito la conseguenza di amplificare i

cicli economici positivi; 2) la prociclicità del leverage a causa dei vincoli imposti dal

grado di leverage delle banche; 2) la necessità di calcolare il valore delle attività in

base alla quotazione di mercato (nel caso una perdita sull’investimento provochi una

crisi di insolvenza che erode il capitale della banca commerciale o di investimento, il

vincolo sull’adeguatezza di capitale impone di vendere attività per ottenere liquidità.

Vendite forzate producono però crolli dei prezzi di borsa che hanno a loro volta

l’effetto di peggiorare i conti delle banche con conseguente ulteriore ricorso a vendita

di attività. L’opposto accade durante un boom: l’aumento di valore del proprio

portafoglio induce le banche ad accrescere la propria attività rifornendosi in base ad

una sorta di “effetto ricchezza”. Un motivo per cui si afferma oggi che la politica

monetaria esageratamente espansiva per un numero troppo alto di anni sia stata

dissennata: un innalzamento dei tassi di interesse durante un ciclo economico

espansivo non si consiglia soltanto per spegnere sul nascere tensione di aumento dei

prezzi dei beni, ma anche per impedire che la salita delle quotazioni di borsa faccia

sentire più ricchi gli intermediari finanziari e quindi generi un aumento della

domanda di prestiti che si riflette nella nascita di bubbles.

21. Il ruolo degli Hedge Funds

Gli Hedge Funds sono pool formati da un piccolo numero di investitori che hanno

costruito un fondo che gestisce un portafoglio di attività finanziarie e sono molto

attivi nei mercati dei titoli derivati. Il loro numero è passato da 3500 a 10000 dal

1999 ed il 2008. La regolamentazione degli Hedge Funds è molto leggera, cosicché

l’assunzione di rischio è elevata. Anche l’introduzione del divieto di detenere

posizioni corte (short selling) ha causato un incremento della volatilità ed una

riduzione della liquidità del mercato, ma non ha portato alla stabilizzazione dei valori

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delle attività finanziarie. Gli HF operano con un alto leverage: le strategie a basso

rischio utilizza un grado di leva pari a 10 volte il capitale; a un grado di rischio più

elevato corrisponde un grado di leva pari a 2 volte il capitale. Una tipica operazione

consiste nella vendita di titoli allo scoperto, che permette di lucrare – al momento in

cui vengono acquistati nel mercato, allo scopo di consegnarli agli acquirenti - il

differenziale fra il loro valore corrente ed il minore valore che la speculazione al

ribasso ha permesso di conseguire. Molti HF forniscono al proprio broker solo una

quota del capitale, prendendo a prestito liquidità per la restante parte dietro garanzia

di titoli. Se però il valore dell’investimento scende al di sotto di una certa soglia, il

broker ha diritto di liquidare parte dei titoli per rientrare nel margine. Se i titoli

risultano essere illiquidi, la discesa del prezzo si ripercuote un una perdita che si

traduce in una perdita di valore del portafoglio sottoscritto dagli investitori. Inoltre,

poiché operano su mercati molto sottili, eventuali vendite forzate danno luogo a un

aggravamento reciproco della solvibilità di HF accomunati da strategie simili.

Pertanto, il ricavato dei titoli venduti allo scoperto permette all’HF di pagare il loro

acquisto per consegnarli all’acquirente lucrando un profitto speculativo. Tuttavia, se

l’investitore non vuole subire la discesa del prezzo procurata dalla vendita, i titoli in

garanzia vengono venduti: quanto maggiore è il capitale preso a prestito dall’HF,

tanto maggiore è la perdita del valore capitale dato in garanzia per la posizione

debitoria aperta per acquistare i titoli da consegnare all’acquirente-investitore.

Qual è stato il ruolo degli Hedge Funds in questa crisi finanziaria? L’opinione

degli economisti si divide fra coloro che ritengono queste istituzioni finanziarie del

tutto estranee allo scoppio delle bolle immobiliare e finanziaria, chi li ritiene

colpevoli della gravità degli effetti, ovvero della profondità della crisi che ha colpito

il sistema bancario, e chi li considera direttamente all’origine della crisi finanziaria.

La terza tesi può essere così argomentata. Negli ultimi anni ’90, il tasso di

rendimento degli Hedge Funds aveva raggiunto la ragguardevole cifra del 20%. Le

banche furono soggette alla pressione di dovere mettersi in grado di raggiungere lo

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stesso risultato. Nel perseguire l’obiettivo di innalzare il tasso di rendimento sui

capitali i manager fanno riferimento alle seguenti equazioni:

(1) R’ = α E’ + (1 – α )i

(2) E’ = (1/ α) R’ - [(1- α) / α] i

(3) E’ = (1 / α ) R’ - [(i / α) – i ]

(4) E’ = i + (1/ α) (R’ – i)

La banca può accrescere i propri profitti sfruttando il differenziale R’ – i. La

strategia consiste nell’abbassare il rapporto fra capitale e titoli (α); in alternativa, la

banca può accrescere il differenziale R’ – i.

E’ opportuno ricordare che nell’ipotesi di mercati dei capitali efficienti è

implicita l’accettazione del Teorema di Modigliani-Miller, secondo il quale il saggio

di rendimento del capitale non è influenzato da quale sia la fonte di finanziamento, il

credito bancario oppure l’emissione di azioni. La strategia di elevare il leverage (una

riduzione di α) provocherà un aumento del tasso di interesse praticato dalla banca che

finirà per compensare l’ abbassamento del rapporto fra capitale ed indebitamento (α).

L’incremento del premio per il rischio della banca neutralizzerà l’impatto del più

basso α. Se però i mercati dei capitali sono imperfetti, con α = 1/10, i = 5% ed R’ =

6%, la banca può aumentare l’iniziale saggio di rendimento sulle attività (15%)

innalzando il leverage.

Il rapporto capitale/indebitamento si ridurrà a 1/20, cosicché il saggio di

rendimento crescerà dal 15% al 25%: da E’ = 5% + 10% (1) si passa a E’ = 5% +

20% (1). In alternativa, la banca potrebbe lasciare invariato α = 1/10 e ampliare il

differenziale dall’1% al 2%: E’ = 5% + 10% (2).

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Tuttavia, considerando che il tasso di interesse nominale ingloba il tasso

di inflazione atteso (con aspettative razionali: π = πe , l’equazione di Fisher è: i = r +

π), e che nel lungo periodo si deve realizzare l’eguaglianza fra tasso di crescita e

tasso di interesse reale (G = r), l’obiettivo di un saggio di rendimento del 25% è poco

realistico. Il saggio di rendimento E’ = E’ – π è dato da:

E’ = gY + (1/ α ) [R’ – (gY + π )]

Ponendo R’ = R’ - π , possiamo scrivere il saggio di rendimento E’ in funzione

di R’ (…):

E’ = [1 – (1/ α )] gY + [1/ α] R’ ( Z, gY , A)

Assumendo per semplicità che il saggio complessivo di rendimento sul capitale R’

dipenda dal premio per il rischio Z della banca “rappresentativa” (che corrisponde al

saggio di crescita del mercato, supposto pari al tasso di crescita del reddito gY),

considerando il tasso di progresso tecnico (A) , abbiamo: R’ = q’Z + q’’ gY + q’’’A

(con q’,q’’, q’’’ > 1), per q’>1 si ottiene che la produzione ha sempre un impatto

positivo su E’:

E’ = [1 – (1/ α ) (1-q’)] gY + [1/ α ] q’Z + q’’’A

In un periodo di forte crescita del progresso tecnico A, il saggio di rendimento

della banca rappresentativa cresce, dato il premio per il rischio Z. Se il saggio di

rendimento deve essere eguale al tasso di interesse sui titoli pubblici privi di rischio

più il premio per il rischio (il premio moltiplicato per la varianza delle quotazioni di

borsa). Se il tasso di interesse sui titoli pubblici è pari al 4%, ed il saggio di

rendimento richiesto sul capitale è pari al 25%, il management della banca deve

impegnarsi in progetti di investimento con un premio per il rischio che in media sia

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pari al 21%. In Europa, le banche furono così costrette ad accrescere il leverage e ad

aggirare il vincolo sul minimo rapporto capitale/indebitamento imposto da Basilea2

ponendo le attività finanziarie rischiose in strutture fuori bilancio (i SIV).

Basilea1 aveva imposto un basso coefficiente di rischio sui prestiti delle banche

commerciali alle banche di investimento, invogliando le prime a trasferire attività

rischiose fuori bilancio. Poiché i crediti interbancari, a differenza dei depositi, non

sono garantiti dallo Stato, l’espansione del credito generata attraverso il mercato

interbancario accrebbe la rischiosità dei bilanci delle banche commerciali.

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Parte Terza. La crisi dell’Eurozona

1. Squilibri macroeconomici globali

Mentre la volatilità del reddito è molto diminuita negli anni della “Grande

Moderazione”, le crisi finanziarie sistemiche sono state numerose: le “big five

financial crisis” (Reinhardt-Rogoff, 2008) delle economie avanzate (Spagna 1977,

Norvegia 1987, Finlandia, 1991, Svezia, 1991, and Giappone, 1992), la crisi di

Colombia (1998) ed Argentina (2001) e le crisi asiatiche (Hong Kong, Indonesia,

Malaysia, Filippine, e Thailandia).

Il nesso fra la crisi finanziaria 2007-09 e gli squilibri macroeconomici internazionali

è dimostrato dal fatto che contestualmente alle maggiori crisi finanziarie si sono

verificate forti deviazioni dei tassi di cambio dai valori dell’equilibrio di lungo

periodo. Nell’attuale crisi, questo nesso è la risultante di tre fattori: 1) La crescita

continua senza oscillazioni cicliche rilevanti conosciuta dagli Stati Uniti ha indotto un

esagerato grado di ottimismo ed una minore avversione al rischio; 2) la politica

monetaria espansiva della Fed ha stimolato le banche a sfruttare i bassi tassi di

interesse per accrescere a dismisura il loro grado di leverage; 3) l’atteggiamento di

benign neglect con cui le banche centrali ed istituzioni internazionali (IMF,WB)

hanno guardato a tali squilibri ha consentito che si prolungassero le deviazioni dal

valore di lungo periodo PPP dei tassi di cambio reali di valute le cui economie hanno

un notevole rilievo nel commercio internazionale.

L’equilibrio macroeconomico consiste della soma algebrica dei bilanci dei settori

private, pubblico ed estero. Nel caso il risparmio ecceda l’investimento, il flusso in

eccesso viene trasmesso dai mercati finanziari al settore pubblico per coprire un

deficit (l’eventuale eccesso di spesa pubblica sulla tassazione: G>T) e/o per

permettere agli operatori esteri di pagare l’eccesso di importazioni (i beni esportati

dal paese stesso in eccesso rispetto alle proprie importazioni:X>M)

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Nel caso in cui sia l’investimento a sopravanzare il risparmio (S < I), l’eccesso di

domanda interna deve essere compensato da un surplus del bilancio pubblico (G < T)

e/o di capitali provenienti dall’estero. (un eccesso di importazioni sulle importazioni:

X < M). In altri termini, i flussi di capitale finanzieranno l’eccesso di spesa pubblica

sulla tassazione (il deficit pubblico interno) e/o l’eccesso di importazioni sulle

esportazioni.

Gli Stati Uniti sono un caso speciale: come paese che “vive al di sopra dei propri

mezzi”, il deficit del settore privato viene coperto dagli investitori esteri, il cui

apporto di capitali non solo consente di acquistare le importazioni nette, ma va ad

acquistare il debito pubblico emesso a fronte del deficit pubblico (l’eccesso della

spesa pubblica sulla tassazione).

Un eccesso di risparmio sull’investimento è cosa positiva o negativa? E’ cosa positiva

se è utilizzato dai pensionati all’acquisto di attività finanziarie o di fondi pensione,

oppure se le imprese investono i propri profitti all’estero a causa dei più alti profitti

attesi; negativa se riflette la necessità di assicurazione dei lavoratori rispetto ai rischi

microeconomici o macroeconomici in un paese con un ristretto Stato sociale (un

esempio è la China).

Non è facile stabilire se una crescita export-led sia cosa positiva o negativa (ad

esempio, Cina e Germania) dsl momento che sottrae domanda ai principali

competitori (gli Stati Uniti e gli altri paesi dell’Unione Europea). I regimi di cambio,

gli accordi commerciali e le politiche macroeconomiche contano. Gli Stati Uniti

hanno conosciuto nel 1996-2000 un boom delle quotazioni di borsa (trainato dalle

azioni high-tech) che ha sostenuto le decisioni di investimento; nel 2000-2008 hanno

conosciuto un deficit pubblico del 6% (per i 3/4 causato dai tagli alle tasse sui redditi

alti introdotti da Bush) ed un deficit commerciale del 6%. Tali “deficit gemelli” sono

spiegati nel modello Mundell-Fleming come l’esito di un elevato tasso di interesse

che attrae capitali dall’estero, con conseguente apprezzamento reale ed eccesso delle

importazioni sulle esportazioni (il surplus commerciale della Cina fu pari all’11% nel

2006. L’eccesso di riserve internazionali viene accumulato per i tradizionali scopi

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precauzionali, oppure viene destinato all’acquisto di titoli pubblici sicuri, come i titoli

emessi dagli Stati Uniti, il paese emittente della valuta utilizzata come principale

mezzo di pagamento internazionale). Il processo di deregolamentazione dell’attività

bancaria, rapidamente estesosi dagli Stati Uniti all’Unione Europea ed all’Asia, fu

all’origine di un’enorme crescita del credito in paesi come Spagna ed Irlanda (dove

l’inflazione superiore alla media dei paesi UME rendeva il già basso tasso di interesse

vicino allo zero in termini reali) e la nuova bolla (questa volta anche immobiliare)

negli Stati Uniti accrebbero l’instabilità macroeconomica. La crisi finanziaria 2007-

09 ha progressivamente ridotto il deficit commerciale, ma il debito pubblico è

aumentato a causa della spesa sostenuta dal Tesoro USA per ripianare i debiti delle

banche. Infine, i rapporti deficit/PIL e debito pubblico /PIL sono saliti notevolmente

anche per il passaggio a valori negativi dei tassi di crescita. La caduta della

produzione è anche comportato la caduta dell’occupazione: dal 2007 al 2009 il tasso

di disoccupazione è cresciuto nei paesi avanzati di 14,3 milioni e nei paesi emergenti

di 8 milioni. L’aspetto più preoccupante è che si prevede che il tasso di occupazione

precedente la recessione verrà recuperato soltanto nel 2015, con la conseguenza che

un gran numero di disoccupati non rientrerà nel mercato del lavoro (il 37% della

disoccupazione viene infatti considerata di lungo periodo).

La crisi è stata affrontata negli Stati Uniti con il sostegno finanziario del Tesoro alle

banche in crisi e con la politica monetaria espansiva della Fed diretta a rimettere in

moto il circuito del credito interbancario, che era stato bloccato dalla caduta della

fiducia di ciascuna banca nella solvibilità della banca che le chiedeva un

finanziamento di liquidità. Queste forti immissioni di liquidità hanno aiutato famiglie

ed imprese a dare inizio alla riduzione del loro indebitamento privato. Tuttavia, la

necessità per le banche di aggiornare il valore del loro attivo in attività finanziarie in

base agli attuali prezzi di mercato rende difficile accrescere il credito. Inoltre, la crisi

finanziaria ha grandemente intaccato il venture capital. La domanda interna ristagna

anche perché la caduta dell’occupazione è stata maggiore rispetto ai paesi europei,

non solo per la minore protezione dei posti di lavoro tipica del mercato del lavoro

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flessibile degli Stati Uniti, ma anche perché ad essere fortemente colpito dalla

recessione è stato il settore edile che è quello a maggiore intensità di lavoro (il tasso

di disoccupazione USA ha raggiunto nel 2010 il 9,6%. Del resto, è stato calcolato che

nelle passate crisi economiche il deleveraging ha richiesto in media sette anni

(Reinhardt e Rogoff, 2008).

L’incremento del deficit e del debito pubblico causato dai programmi di stimolo

fiscale ha permesso la ripresa economica nel breve periodo. ll riequilibrio strutturale

dei bilanci pubblici e privati richiede però che si realizzino entrambe o almeno una

delle seguenti due condizioni: 1) l’incremento del tasso di risparmio; 2) l’incremento

delle esportazioni nette. Dal 2008 al 2010, la propensione al risparmio è già

aumentata dal 2,7% al 6%. Le esportazioni non sono però aumentate a sufficienza, in

quanto la competitività delle merci USA sui mercati in forte espansione (quelli dei

paesi emergenti) è possibile solo mediante la rivalutazione delle valute di quei paesi,

in primo luogo attraverso una forte svalutazione del dollaro rispetto al renmimbi.

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195

I paesi che perseguono una crescita export-led sono interessati ad evitare afflussi di

capitali, in quanto l’eccesso di domanda di valuta interna (in cambio della cessione di

valuta estera incassata con le esportazioni) ne provoca l’apprezzamento nei mercato

valutario. Inoltre, benché presenti il vantaggio di frenare le esportazioni ed indebolire

la valuta (il che aiuta la ripresa delle esportazioni), la conversione dei capitali in

valuta interna rischia di creare pressioni inflazionistiche. In alternativa, i capitali

possono essere esportati. I capitali in entrata come pagamento delle elevate

esportazioni cinesi in parte vengono accumulati come riserve internazionali, in parte

entrano nel portafoglio dei fondi sovrani cinesi, e in parte sono destinati all’acquisto

di titoli pubblici (soprattutto le emissioni del Tesoro USA).

Il restringimento degli squilibri macroeconomici globali rappresenta un

miglioramento paretiano. Il motivo è che gli afflussi di capitale nei paesi avanzati si

riflettono in investimenti che non saranno altrettanto redditizi di quanto sarebbero

investimenti effettuati in paesi emergenti nel caso in cui verso questi paesi venissero

ri-orientati in seguito al riequilibrio dei flussi commerciali. L’aspetto negativo

consiste nella reazione dei paesi in deficit commerciale, che potranno ricorrere a

misure protezionistiche (le tariffe commerciali, utilizzate dagli Stati Uniti), oppure

alla manipolazione del mercato dei cambi (la manovra al ribasso della sterlina svolto

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196

dal Regno Unito) oppure al controllo dei movimenti di capitale (la tassazione sugli

afflussi di capitale effettuata dal Giappone e dalla Tailandia).

Le due figure (vedi i due grafici sopra) testimoniano i divari di bilancia commerciale

che caratterizzano le relazioni economiche fra le varie aree economiche. Nel secondo

grafico, si nota in particolare come la Germania abbia un notevole surplus

commerciale, mentre i paesi dell’Unione Europea compaiono nell’aggregato “resto

del mondo” in leggero deficit dei conti correnti.

Pertanto, un’eventuale divergenza (positiva o negativa) fra risparmi (S) ed

investimenti (I) nel settore privato viene annullata dalla somma algebrica di eventuali

divari fra le spesa pubblica e le entrate fiscali (T) nel settore pubblico e fra

importazioni (M) ed esportazioni (X) nel settore estero:

S - I = (G - T) - (X – M)

L’economia degli Stati Uniti ha a lungo vissuto “al di sopra dei propri mezzi”. Gli

Stati Uniti, prima della crisi finanziaria 2007-09, si registrava sia un eccesso degli

investimenti rispetto ai risparmi che il deficit commerciale ed il deficit pubblico. Le

istituzioni private (banche, etc.), i fondi sovrani e le Banche Centrali di Cina,

Giappone, India e Sud-Est Asiatico sono i principali acquirenti dei titoli emessi da

imprese private e dal Tesoro degli Stati Uniti a fronte di tali deficit. Gli Stati Uniti si

sono sempre più caratterizzati come un’economia del debito: il settore privato (dove

le banche figurano in un unico aggregato con le imprese produttrici di beni) era in

forte deficit perché i consumatori hanno accresciuto il proprio indebitamento con le

banche (l’esempio tipico sono i mutui subprime) e le imprese private hanno

finanziato con emissioni di attività finanziarie i loro eccessi di spesa; il settore

pubblico, dopo avere quasi raggiunto a fine anni ‘90 il pareggio di bilancio, ha

ripreso a creare deficit ed ha perciò accresciuto la vendita del debito pubblico,

soprattutto all’estero.

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197

Il potenziale economico degli Stati Uniti, e la funzione finora svolta dalla sua Banca

centrale di creare la valuta che è il principale mezzo di pagamento internazionale,

hanno fatto sì che il dollaro abbia goduto di una notevole credibilità finanziaria e di

non essere indebolito sui mercati valutari da tali squilibri macroeconomici. Nel breve

periodo, le esportazioni vengono sostenute dal trend di lento deprezzamento del

dollaro rispetto allo Yen ed all’Euro. Nel lungo periodo, tuttavia, occorrerà che lo

squilibrio venga sanato in termini reali. Infatti, benché il deprezzamento del dollaro

consenta agli Stati Uniti di rendere meno care sui mercati esteri le proprie merci, la

perdita di valore in termini nominali non è sufficiente. Fintantoché il tasso di cambio

reale – che rappresenta in ultima analisi l’indicatore della competitività di un paese –

riflette un rapporto salario/produttività più elevato rispetto ai concorrenti, ogni

aggiustamento nominale apporta un sollievo solo temporaneo alla bilancia

commerciale. L’aggiustamento deve quindi essere reale.

Per ripristinare l’equilibrio del settore reale, le strade sono due: o si accrescono la

moderazione salariale e la dinamica della produttività, di modo che un rapporto

salario/produttività al livello dei concorrenti e la minore inflazione spingano le

esportazioni, oppure occorre comprimere il consumo, in modo da ridurre le

importazioni. La prima strada agisce direttamente sul tasso di cambio reale; la

seconda, elimina lo squilibrio del settore privato e migliora indirettamente il tasso di

cambio reale attraverso l’apprezzamento nominale determinato dalla discesa delle

importazioni nette.

Per ridurre l’importazione di beni di consumo dall’estero, gli Stati Uniti dovrebbero

essere in grado di riequilibrare il rapporto fra risparmi e consumi, aumentando la

formazione di risparmio attraverso la riduzione del consumo (è infatti improbabile

che il tasso di crescita possa essere portato al livello necessario a sostenere il volume

in essere di consumo). Il crollo dei prezzi delle attività finanziarie e la disoccupazione

generata dalla recessione economica hanno prodotto la caduta della domanda privata

al di sotto del livello corrispondente alla capacità produttiva. L’aggiustamento di

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mercato è così cominciato: i fallimenti e le ristrutturazioni industriali hanno fatto

crollare il reddito e i consumi.

La contraddizione presente nell’attuale situazione macroeconomica degli Stati Uniti è

che mentre l’aggiustamento di mercato sta consentendo al settore privato di

riequilibrare i risparmi agli investimenti (l’eccesso di investimenti si va

ridimensionando), l’aggiustamento attraverso le politiche macroeconomiche di

stabilizzazione va in direzione opposta a quella richiesta dal riequilibrio. Infatti,

occorrerebbe che la diminuzione del reddito venisse accompagnata da una politica

monetaria moderata e che una restrizione fiscale contribuisse alla diminuzione della

domanda di consumo necessaria al riequilibrio fra risparmi ed investimenti. Al

contrario, assistiamo: 1) ad una poderosa creazione di moneta da parte della Fed allo

scopo di effettuare i salvataggi delle banche di investimento in crisi di solvibilità, di

sollevare le banche dai titoli peggiori in modo da ripristinare la fiducia e permettere

la ripresa del credito interbancario, e di sostenere con iniezioni di liquidità a

bassissimo tasso di interesse i bilanci delle imprese produttrici in crisi; 2) ad una forte

espansione della spesa pubblica, che rende inevitabile l’incremento del debito

pubblico.

L’attuazione di politiche monetarie e fiscali di segno espansivo, quando invece il

riequilibrio macroeconomico reale imporrebbe la restrizione, ha una spiegazione:

impedire che la recessione si avviti in una stagnazione di lungo periodo. Se le

manovre fiscali fossero di segno restrittivo, allo scopo di ripristinare il pareggio del

bilancio pubblico, si potrebbe innescare un meccanismo simile al paradosso della

parsimonia di Keynes: una diminuzione della domanda di consumo che determina

una discesa del reddito di ampiezza tale da impedire che si raggiunga l’obiettivo di

incrementare il risparmio. Come si è accennato nel par.2 della Parte Seconda, il crollo

di Wall Street del ’29 fu aggravato proprio dall’adozione del gold standard nel Regno

Unito (1931) e negli Stati Uniti (1933): riserve in oro mantenute costanti e bilancio

pubblico in pareggio costrinsero in un primo tempo il Tesoro ad impulsi fiscali

restrittivi. Come si è anche detto, durante la crisi 2007-09 la stasi dell’attività di

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credito per la crisi di fiducia che blocca il credito interbancario, ed il deleveraging

delle banche impegnate ad innalzare il rapporto capitale/ indebitamento, è sfociato in

una forte discesa dell’attività produttiva. In assenza di un sostegno anti-ciclico della

domanda pubblica, il rischio è che la recessione si trasformi in una lunga depressione

economica.

Questo è il rischio che attualmente corre l’Unione Europea. Dopo l’espansione degli

anni 2004-08 dove – rispetto al periodo precedente 1999-03 (vedi il grafico qui sopra)

- la forte espansione del credito e del PIL generavano deficit nella bilancia

commerciale, la crisi finanziaria ha reso necessari i salvataggi bancari a carico dei

bilanci pubblici. I conseguenti impulsi fiscali restrittivi diretti a ridurre deficit e

debito pubblico hanno provocato gravi tendenze deflattive. . Alla strutturale assenza

in Europa di una economia che svolga il ruolo di “locomotiva” generando domanda

per il resto dell’area economica (la Germania continua ad essere, anzi è sempre più,

un’economia export-led), si aggiunge oggi la scarsa propensione a manovre

reflazionistiche dei governi. Un paese come la Grecia ha un alto deficit pubblico ed

un alto moltiplicatore del reddito. Una restrizione fiscale diretta a risanare i conti

pubblici ha pertanto un impatto deflattivo molto grande. L’impatto sull’output del

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moltiplicatore negativo è probabilmente insostenibile sul piano sociale. D’altro canto,

la Germania ha interesse a proseguire nella strategia della crescita export-led e quindi

non accetta di innalzare la domanda interna con un’espansione fiscale (e infatti è stato

molto limitato lo stimolo di spesa pubblica per superare la recessione).

I governi delle grandi economie europee (soprattutto quelli dei paesi gravati da un

ingente debito pubblico, in primo luogo l’Italia) stanno seguendo una manovra fiscale

prudente, diretta ad evitare il sostegno pubblico ad una domanda aggregata ridottasi

in seguito alla recessione seguita alla crisi finanziaria. In parte, il rifiuto ad attivare

manovre di bilancio espansive dipende dal timore che incrementi della tassazione

vengano pagati sul piano elettorale e che ulteriori emissioni di debito pubblico

comportino il riconoscimento di un premio per il rischio più elevato. Ma il problema

è l’interdipendenza strategica che orienta alla deflazione competitiva le economie

europee: il timore maggiore di ciascun governo europeo è che tutti gli altri governi

assumano un atteggiamento free-riding e cioè non espandano la spesa pubblica

nell’aspettativa che siano gli altri a farlo, in modo da beneficiare di un incremento

della domanda senza dovere sopportare il costo del finanziamento del deficit

pubblico. Per eliminare l’esternalità positiva , che avvantaggia i paesi che godono di

un aumento di domanda per lo stimolo fiscale espansivo deciso un altro paese, ed

impedire perciò che si realizzi l’equilibrio Pareto-non-ottimo in cui tutti i paesi

scelgano di mantenere il bilancio vicino al pareggio, sarebbe necessario coordinare le

politiche fiscali. Ma la strategia della cooperazione è ancora estranea alla visione

spesso miopemente opportunistica che i governi hanno dell’integrazione economica

europea.

Nel 2009, il PIL dell’UE dovrebbe calare del 3,6% ed il PIL degli Stati Uniti del

3,7%. Negli Stati Uniti (come anche negli altri paesi maggiormente colpiti dallo

scoppio della bolla finanziaria, in primo luogo il Regno Unito), l’attuale crisi

economica sta consentendo il riassorbimento dell’eccesso di deficit del settore

privato, con un aumento del risparmio ed una caduta degli investimenti. Al converso,

in un paese con grande surplus come la Germania si assiste ad una riduzione

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201

dell’eccesso del reddito sulla spesa ( risparmio meno investimenti). In questo paese, il

deterioramento dei conti pubblici rappresenta anche la compensazione del

ridimensionamento del surplus nel bilancio con l’estero (la caduta delle esportazioni

per la crisi della domanda mondiale è la principale causa del decremento della

crescita superiore alla media UE). In generale, rispetto agli Stati Uniti, la ripresa

economica dopo la recessione è meno sostenuta dalle politiche macroeconomiche in

Europa. La BCE, diversamente dalla Federal Reserve, non ha il potere di gestire le

situazioni d'insolvenza (la clausola di no bail-out vincola l’apporto di liquidità ai

paesi in difficoltà). Il PSC limita non solo le politiche di sostegno della domanda

aggregata, ma anche il salvataggio o la nazionalizzazione delle banche insolventi.

Questo è il rischio che attualmente corre l’Unione Europea. Alla strutturale assenza in

Europa di una economia che svolga il ruolo di “locomotiva” generando domanda per

il resto dell’area economica (la Germania continua ad essere, anzi è sempre più,

un’economia export-led), si aggiunge oggi la scarsa propensione a manovre

reflazionistiche dei governi. Un paese come la Grecia, con un alto deficit pubblico ed

un alto moltiplicatore del reddito (a causa di un elevato tasso di risparmio (12%) ed

una forte apertura commerciale (+25%). Una restrizione fiscale diretta a risanare i

conti pubblici ha pertanto un impatto deflattivo molto grande. L’impatto sull’output

del moltiplicatore negativo è probabilmente insostenibile sul piano sociale. D’altro

canto, la Germania ha interesse a proseguire nella strategia della crescita export-led e

quindi non accetta di innalzare la domanda interna con un’espansione fiscale (e infatti

è stato molto limitato lo stimolo di spesa pubblica per superare la recessione).

I governi delle grandi economie europee (soprattutto quelli dei paesi gravati da un

ingente debito pubblico, in primo luogo l’Italia) stanno seguendo una manovra fiscale

prudente, diretta ad evitare il sostegno pubblico ad una domanda aggregata ridottasi

in seguito alla recessione seguita alla crisi finanziaria. In parte, il rifiuto ad attivare

manovre di bilancio espansive dipende dal timore che incrementi della tassazione

vengano pagati sul piano elettorale e che ulteriori emissioni di debito pubblico

comportino il riconoscimento di un premio per il rischio più elevato. Ma il problema

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202

è l’interdipendenza strategica che orienta alla deflazione competitiva le economie

europee: il timore maggiore di ciascun governo europeo è che tutti gli altri governi

assumano un atteggiamento free-riding e cioè non espandano la spesa pubblica

nell’aspettativa che siano gli altri a farlo, in modo da beneficiare di un incremento

della domanda senza dovere sopportare il costo del finanziamento del deficit

pubblico.

Per eliminare l’esternalità positiva che avvantaggia i paesi che godono di un aumento

di domanda per lo stimolo fiscale espansivo deciso un altro paese, ed impedire perciò

che si realizzi l’equilibrio Pareto-non-ottimo in cui tutti i paesi scelgano di mantenere

il bilancio vicino al pareggio, sarebbe necessario coordinare le politiche fiscali. Ma la

strategia della cooperazione è ancora estranea alla visione spesso miopemente

opportunistica che i governi hanno dell’integrazione economica europea.

Nel 2009, il PIL dell’UE dovrebbe calare del 3,6% ed il PIL degli Stati Uniti del

3,7%. Negli Stati Uniti (come anche negli altri paesi maggiormente colpiti dallo

scoppio della bolla finanziaria, in primo luogo il Regno Unito), l’attuale crisi

economica sta consentendo il riassorbimento dell’eccesso di deficit del settore

privato, con un aumento del risparmio ed una caduta degli investimenti. Al converso,

in un paese con grande surplus come la Germania si assiste ad una riduzione

dell’eccesso del reddito sulla spesa ( risparmio meno investimenti). In questo paese, il

deterioramento dei conti pubblici rappresenta anche la compensazione del

ridimensionamento del surplus nel bilancio con l’estero (la caduta delle esportazioni

per la crisi della domanda mondiale è la principale causa del decremento della

crescita superiore alla media UE). In generale, rispetto agli Stati Uniti, la ripresa

economica dopo la recessione è meno sostenuta dalle politiche macroeconomiche in

Europa. La BCE, diversamente dalla Fed.Reserve, non ha il potere di gestire le

situazioni d'insolvenza (la clausola di no bail-out vincola l’apporto di liquidità ai

paesi in difficoltà). Il PSC limita non solo le politiche di sostegno della domanda

aggregata. Ma anche il salvataggio o la nazionalizzazione delle banche insolventi.

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2. L’origine della crisi finanziaria e i flussi di capitali internazionali

E’ molto diffusa l’opinione che l’efficienza dell’economia di mercato dipenda dal

fatto che essa poggia su incentivi solidi: le imprese che fanno bene ricevono il premio

del profitto, le imprese che fanno male ricevono la punizione dell’espulsione dal

mercato. In base a questo principio, che ha fatto tollerare all'americano medio le

centinaia di milioni di dollari guadagnati dai top manager, Drexel ed Enron erano

state lasciate fallire, perché la maggioranza degli americani credeva fermamente nel

principio "chi sbaglia paga". Nella crisi attuale, tuttavia, i comportamenti arrischiati

non sempre sono stati puniti. Il motivo è noto: date le notevoli implicazioni

sistemiche di questa crisi, si vogliono evitare fallimenti a catena che potrebbero

generare costi sociali molto pesanti: la disoccupazione e la distruzione di capitale

umano.

Non andrebbe comunque dimenticata l’esigenza di ripristinare una

regolamentazione dell’attività bancaria di cui si è troppo ottimisticamente pensato di

potere fare a meno. La tesi secondo cui controllare l’innovazione finanziaria ha il

solo effetto di rallentare la crescita economica, con pochi benefici riguardo alla

prevenzione di crisi future, si fonda sull’assunto errato che l’efficienza operativa delle

istituzioni finanziarie coincida sempre con l’ottimo economico. Ciò non è

necessariamente vero in presenza di mercati dei capitali imperfetti, quando cioè la

massimizzazione del profitto delle istituzioni finanziarie non riflette l’efficienza

allocativa della liquidità investita a causa dell’informazione asimmetrica. La

massimizzazione del profitto è garantita – limitatamente al breve termine -

dall’effetto imitativo che spinge gli investitori ad acquistare i titoli con prezzo in

ascesa, favorendo così la formazione della bolla; l’efficienza allocativa è sempre più

precaria perché la disponibilità di liquidità genera una eccessiva creazione di attività

finanziarie senza che sia stato controllato il titolo di merito dei titoli derivati. Ad

esempio, le banche che cartolarizzano svolgono la virtuosa funzione di ripartire il

rischio in modo da diluirli nel sistema dei pagamenti, ma tendono spesso a non

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assumersi i costi informativi (ed il monitoraggio) delle proprie operazioni, non

assumendosi quindi la responsabilità di assicurarsi sulla solvibilità dei debitori.

Occorre uscire da una regolamentazione troppo blanda che permette un forte

indebitamento a breve termine a fronte di attività a lungo termine, da cui

inevitabilmente deriva un’eccessiva assunzione di rischi. E’ stato osservato che il

problema della regolamentazione è di essere sempre imperfetta e comunque destinata

a restare sempre un passo indietro rispetto all’innovazione finanziaria (Blanchard,

2008). Tale rischio è senza dubbio presente, ma non può esimere dalla ricerca – by

trial and errors – del più appropriato insieme di strumenti di controllo compatibile

con un funzionamento efficiente del sistema bancario.

I più importanti indicatori della solidità di una banca sono: 1. il Tier1 (Capital Ratio

), che è dato dal rapporto fra il patrimonio di base della banca e le sue attività

ponderate in base al rischio e rappresenta la quota più solida facilmente disponibile

del patrimonio della banca; 2. il Core Tier 1, ovvero il Tier 1 al netto degli strumenti

ibridi (gli strumenti finanziari che possono essere emessi dalle banche sotto forma di

obbligazioni, certificati di deposito e buoni fruttiferi o altri titoli).

I principali provvedimenti suggeriti sono i seguenti: 1) Il fabbisogno di capitale deve

essere fissato a livelli più alti (le azioni ordinarie devono rappresentare la gran parte

del capitale Tier1) in base a parametri graduati in funzione del grado di

interconnessione che ciascuna banca ha all’interno del complessivo sistema bancario;

2) I requisiti minimi di capitale debbono variare in relazione al ciclo economico: in

altri termini, invece di un indebitamento con andamento pro-ciclico, che cioè

aumenta al peggiorare della condizione di bilancio, occorre che in periodi di

espansione si richieda alle banche di accumulare quel capitale in eccesso che dovrà

servire a ripianare senza scosse eventuali perdite che dovessero manifestarsi nel corso

delle fasi recessive; 3) L’attribuzione di un valore di rischio più alto ai titoli detenuti

dalle banche, il che dovrebbe scoraggiare la cartolarizzazione.

Quale che sia l’opinione sulle proposte di riforma, è forse utile riconsiderare il

dibattito che negli anni ’70 vide i proponenti della “New Theory of the Bank” che

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propugnavano l’ipotesi di “Informazione imperfetta” (IIH) (Stiglitz, Weiss, Hellwig

ed altri) contrapporsi alla teoria dominante che propugnava l’ipotesi dei “Mercati dei

capitali efficienti” (EMH) avanzata da Fama. Il fulcro della critica alla (IIH)

consisteva nel sottolineare che le banche sono speciali istituti finanziari perché

incorrono nel “rischio di controparte” che sorge nella relazione bilaterale con un

prenditore di prestito singolo. Diversamente dal rischio di un’attività finanziaria

scambiata in un grande mercato fra anonimi operatori, il “rischio di controparte”

varia in funzione del tipo di contratto e dei costi di valutazione e di monitoraggio

della transazione che il prestatore deve sostenere. Un assetto efficiente dei mercati,

tale cioè da dare soluzione all’asimmetria informativa fra banca prestatrice ed

prenditore del prestito impedendo che l’imperfezione conduca al fallimento di

mercato, richiede un intermediario che investa massicciamente nella raccolta di

informazione. La stagione della deregolamentazione degli anni ’80 relegò

rapidamente nell’oblio l’analisi della IIH e diede impulso a “conglomerazioni

finanziarie” dove la banca raccoglitrice di depositi ha finito per rappresentare il

braccio collettore di liquidità di un complesso sistema di entità finanziarie che fanno

trading in titoli derivati di varia natura (Tamborini, 2009).

Il bilancio di queste entità finanziarie presenta peculiari caratteristiche: 1) un’alta

quota di attività finanziarie scambiabili nel mercato rispetto ai prestiti diretti; 2) un

alta percentuale di passività a breve termine rispetto ai depositi; 3) alti rendimenti da

operazioni di mercato rispetto a bassi margini di intermediazione diretta; 4) un grado

di leverage superiore al 30%. La nascita delle “conglomerate finanziarie” ha condotto

all’abbandono della tradizionale concezione dell’attività bancaria, nell’illusoria

convinzione che sia possibile sostituire gli standard debt contracts come i CDO,

senza sopportare i costi di valutazione e di monitoraggio. L’errore è stato quello di

ritenere che il rischio legato all’asimmetria informativa inerente alla relazione

bilaterale (ad esempio, fra banca che concede un mutuo e mutuatario) potesse essere

trattato come rischio diversificabile, assicurabile e commerciabile (il modello

”originate and redistribute”).

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L’espansione delle negoziazioni in titoli derivati ha un diretto collegamento con gli

squilibri macroeconomici globali: 1) L’accumulazione di riserve internazionali in

dollari, e azioni e titoli pubblici del Tesoro statunitense, con cui le banche centrali

delle economie emergenti hanno intermediato l’eccesso di risparmio dei loro paesi

presenta dal 2003 ad oggi una forte correlazione il deficit commerciale degli Stati

Uniti; 2) I mutui a lungo termine ed i CDO hanno finito per spiazzare nei portafogli

di risparmiatori e banche dei paesi emergenti i ben più sicuri e liquidi titoli pubblici

del Tesoro statunitense. Negli anni 2000-2007, l’offerta di titoli legata all’enorme

risparmio negativo delle famiglie (su 7.000 miliardi di dollari, ben 5.000 sono sotto

forma di mutui) non trovava sufficiente copertura nella domanda dei paesi emergenti,

perché il surplus commerciale di questi ultimi (determinato dall’incremento del

deficit delle partite correnti US, pari a 5.000 miliardi di dollari) era dedicato dalle

banche centrali all’accumulazione di riserve internazionali in dollari sotto forma di

debito pubblico statunitense. La securization è stato lo strumento finanziario che ha

consentito ai mutui sottostanti i Mortgage Backed Securities (MBS) di acquisire il

grado di affidabilità e di liquidità necessario per essere assorbito nei portafogli delle

banche e degli operatori finanziari di Giappone e paesi emergenti, che erano stati

spiazzati dalle banche centrali nel mercato dei più sicuri titoli pubblici statunitensi

(Gros, 2009).

In assenza di una governance internazionale, successivamente alla ripresa economica

gli squilibri macroeconomici internazionali sono destinati ad ampliarsi nuovamente.

Il coordinamento internazionale delle politiche economiche ed un nuovo sistema

monetario internazionale rappresentano la pre-condizione per il loro assorbimento nel

lungo periodo.

Gli Stati Uniti potrebbero ricorrere all’introduzione di nuove tariffe nei confronti

delle merci cinesi, mentre il quadro istituzionale che regola il mercato unico europeo

impedisce ai paesi dell’Unione monetaria europea di fare lo stesso con la Germania.

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Un mondo con meno squilibri macroeconomici richiede che gli Stati Uniti risparmino

di più e la Germania risparmi di meno. In tal modo, i maggiori partner commerciali

dei due paesi avranno la possibilità di accrescere le proprie esportazioni e rilanciare la

crescita. Un eccessivo (insufficiente) valore delle esportazioni della Cina (dei paesi

UME, Germania esclusa) ed un livello eccessivamente basso (alto) del consumo in

Germania (negli Stati Uniti), implicano che vi sarà una carenza di commercio

internazionale e di crescita nell’economia globale. Il livello interno di domanda conta

per il commercio internazionale e per la crescita.

Con l’introduzione dell’euro, i regolatori hanno permesso alle banche di acquisire

somme illimitate di obbligazioni statali senza mettere da parte alcun capitale

azionario, mentre la BCE ha ridotto il prezzo dei titoli di stato di tutta l’eurozona in

ugual misura. Le banche commerciali hanno trovato vantaggioso accumulare le

obbligazioni dei paesi più deboli per guadagnare qualche punto base extra, il che ha

portato ad una convergenza dei tassi di interesse in tutta l’eurozona. In questo

contesto, la Germania, in difficoltà a causa del peso della riunificazione, ha

implementato una serie di riforme strutturali diventando più competitiva, mentre altri

paesi hanno goduto invece del boom immobiliare e dei consumi sulla spinta del

credito a basso tasso di interesse, diventando così meno competitivi.

Poi è arrivato il crollo del 2008 e i governi si sono trovati a dover salvare le loro

banche. Alcuni di loro si sono trovati nella posizione dei paesi in via di sviluppo con

un eccesso di indebitamento in una valuta sulla quale non avevano il controllo.

L’Europa si è quindi divisa tra paesi creditori e debitori, rispecchiando in tal modo la

divergenza delle prestazioni economiche.

Quando i mercati finanziari hanno scoperto che le obbligazioni statali,

presumibilmente prive di rischio, potevano in realtà finire in un default forzato,

hanno deciso di alzare vertiginosamente il premio di rischio. Questa mossa ha reso le

banche commerciali potenzialmente insolventi a causa del peso di tali obbligazioni

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208

sul loro bilancio, provocando le cosiddette crisi gemelle del debito sovrano e del

sistema bancario.

All’inizio della crisi, un crollo dell’euro sembrava inconcepibile. Gli attivi e passivi

denominati nella moneta unica erano talmente intrecciati che un eventuale fallimento

avrebbe portato ad un tracollo incontrollabile. Ma con il progredire della crisi, il

sistema finanziario è stato ridefinito sempre di più su base nazionale, una tendenza

che ha preso slancio soprattutto negli ultimi mesi, mentre l’operazione di

rifinanziamento a lungo termine della BCE ha permesso alle banche di Spagna e

Italia di acquistare le proprie obbligazioni statali. Allo stesso tempo, le banche hanno

preferito liberarsi delle attività finanziarie degli altri paesi, mentre i risk manager

tentano di trovare una corrispondenza tra attivi e passivi a livello nazionale piuttosto

che operando sull’intera consistenza delle attività finanziarie dell’Eurozona.

Per evitare un ritorno - pericoloso oltre che inefficiente - a mercati separati,

l’eurozona ha bisogno di un’unione bancaria: uno schema di assicurazione-deposito

per contenere la fuga di capitali, una fonte europea di finanziamento per la

ricapitalizzazione delle banche ed un sistema di supervisione e regolamentazione per

tutta l’eurozona. I paesi altamente indebitati avrebbero poi bisogno di un

alleggerimento dei costi finanziari che potrebbe essere attuato in diversi modi. Il

problema è che tutte le modalità possibili richiedono il sostegno attivo della

Germania.

In una serie di paper con Carmen Reinhart, Rogoff ha mostrato che livelli di debito

molto elevati pari al 90% del Pil rappresentano un peso secolare che si ripercuote

sulla crescita economica nel lungo termine e che spesso dura per due decenni o più. I

costi cumulativi possono essere sbalorditivi. Gli episodi di debito elevato registrati

dal 1800 sono durati 23 anni e sono associati a un tasso di crescita che è oltre un

punto percentuale al di sotto del tasso previsto per i periodi con livelli debitori

inferiori. Dunque, dopo un quarto di secolo di debito elevato, il reddito potrebbe

essere il 25% in meno di quanto non sarebbe con normali tassi di crescita.

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Fa riflettere il fatto che quasi la metà dei casi di debito elevato avvenuti dal 1800

siano associati a tassi di interesse reali (depurati dell’inflazione) bassi o normali. La

lenta crescita del Giappone e i bassi tassi di interesse degli ultimi due decenni sono

emblematici. Inoltre, sostenere un enorme peso debitorio rischia di far lievitare in

futuro i tassi di interesse globali, anche senza un tracollo in stile greco. È esattamente

ciò che accade oggi, quando, dopo il massiccio e prolungato allentamento monetario

messo in atto dalle principali banche centrali, molti governi si ritrovano con titoli

correlati al proprio debito a scadenze eccezionalmente brevi. Di conseguenza,

corrono il rischio che un’impennata dei tassi di interesse si traduca rapidamente in

costi di indebitamento più elevati.

L’attività di arbitraggio fa sì che in equilibrio il rapporto tra i rendimenti dei titoli sia

pari al rapporto tra i tassi di cambio: a parità di rischio, liquidità e durata, un euro

investito nell’UE deve rendere come un dollaro investito negli US. Supponendo una

perfetta mobilità dei capitali, che si traduce in assenza di costi di transazione

nell’operazione di cambio delle valute, un operatore europeo può decidere

indifferentemente di investire un euro sul mercato nazionale dei titoli al tempo t ed

ottenere al tempo t+1 la restituzione dell’euro investito oltre al tasso di interesse

nominale corrisposto (1+iUME), oppure può decidere di cambiare l’euro in dollari

(moltiplicandolo per il tasso di cambio e) ed investire gli e dollari così ottenuti sul

mercato US riscuotendo, al termine del periodo, e(1+iUS) dollari che verranno a loro

volta cambiati in euro dividendoli per il tasso di cambio atteso.

3. Le autorità governative e monetarie e la crisi finanziaria

Il comportamento delle autorità è stato ondivago. Poiché le cause profonde della crisi

non sono state chiare per un lungo periodo, a logica di intervento è stata decisa passo

dopo passo: Bear Stearns, fu salvata, Lehman Brothers fu lasciata fallire, AIG fu

salvata, in alcuni casi si è proceduto la ricapitalizzazione delle banche, per salvare

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due fondi immobiliari semi-pubblici (Fannie Mae e Freddie Mac) si è scelta la strada

della completa nazionalizzazione. Una plausibile spiegazione per la soluzione

drastica scelta per una banca di investimento di grandi dimensioni come Bear Stearns

e per il colosso assicurativo AIG è che erano troppo interconnesse con il sistema

bancario perché potessero fallire senza provocare una grave crisi sistemica.

Negli Stati Uniti, a partire dalla metà del 2007 lo spread fra il tasso di interesse

medio sui prestiti interbancari a tre mesi (“Libor”) ed il tasso di interesse dei T-Bills a

tre mesi è cresciuto continuamente e si è poi impennato successivamente al

fallimento della Lehman Brothers, segnale ai mercati finanziari che il governo non

avrebbe necessariamente continuato ad impedire il fallimento delle grandi banche (il

motto “too big to fail” non valeva più). Si è molto dibattuto sulla decisione di lasciare

fallire la Lehman Brothers. Questa banca di investimento aveva attività in portafoglio

pari a ben il 5% del totale del sistema bancario US ed aveva immesso nel mercato

titoli a breve e lungo termine per un valore pari al 50% di tutte le obbligazioni emesse

dalle banche commerciali. Benché Lehman Brothers non operasse in depositi, il forte

impatto che perdite non ingenti di depositi nei fallimenti bancari ebbero sull’attività

economica dopo il crollo del ’29 avrebbe dovuto suggerire che il sistema bancario US

sarebbe stato grandemente colpito dalla sua scomparsa (Gros-Alcidi, 2009).

Nell’ottobre 2008 venne varato il Troubled Assets Relief Program (TARP), per

consentire al Tesoro di rifinanziare le banche (o acquistare le loro attività) fino a 700

miliardi di dollari 8° tale cifra va poi aggiunta la spesa di 250 miliardi di dollari per

salvare Bear Stearns e Fannie Mae e Freddie Mac.

In alcuni paesi il piano di salvataggio prevede anche la creazione di una “bad bank”

nella quale convogliare i titoli tossici. Il principale problema è consistito nella

determinazione del prezzo di acquisto: in questo caso il valore di equilibrio si colloca

fra il prezzo (basso) offerto dall’istituzione che si accolla la “bad bank” sulla base

dell’aspettativa di ulteriore calo dei prezzi di mercato delle attività tossiche possedute

dalle banche ed il prezzo (alto) con cui i titoli sono iscritti nel bilancio della banca;

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quanto più al rialzo è la stima a lungo termine del prezzo del titolo, tanto minore è la

discesa del prezzo di vendita del titolo rispetto al suo valore in bilancio;

Le banche centrali hanno continuamente ampliato la lista di istituzioni finanziarie

meritevoli di sostegno e di attività finanziarie considerate come garanzia. La

discriminante non è fra istituzioni come le banche d’investimento che possono

svolgere il trading e banche commerciali cui va invece vietato di assumere gli alti

rischi dell’attività di trading perché operano con depositi che godono

dell’assicurazione pubblica. La discriminante è piuttosto fra banche “non sistemiche”

e banche “sistemiche”: queste ultime, essendo molto grandi e molto interconnesse

con il sistema bancario, possono causare con la loro scomparsa una catena di

fallimenti. Lo sforzo sostenuto dalla Fed per permettere al settore bancario di

recuperare la solvibilità e ricostruire la catena di relazioni fiduciarie fra i vari istituti è

stato di enorme portata. Il contribuente è stato chiamato ad accollarsi il 76 ed il 40%

dell’intervento di iniezione di capitale pubblico nelle 50 maggiori banche USA ed

UE. Le principali misure sono state: 1) per impedire la dissoluzione del sistema

bancario, a portare fra 0 e 0,25 il tasso di interesse, la Fed ha provveduto ad iniezioni

di liquidità mediante l’acquisto di attività finanziarie, il cosiddetto quantitative easing

(vedi BOX 4), operazioni di mercato aperto in acquisto di attività finanziarie diverse

dai titoli pubblici; 2) le garanzie sui depositi interbancari per impedire il collasso

dell’attività bancaria, minacciata dalla crisi di fiducia nella rispettiva solvibilità che

interrompeva la trasmissione di liquidità attraverso il credito interbancario. E’

opinione diffusa che adottare una sola di queste misure sarebbe stato insufficiente. Ad

esempio, il solo acquisto dei titoli tossici non necessariamente avrebbe potuto

risolvere il problema del rischio di insolvenza. E’ indispensabile una

regolamentazione che imponga standard minimi di capitale di rischio differenziato

per categorie di banche: un più alto capital ratio per le banche che essendo di grandi

dimensioni e molto interconnesse comportano un rischio sistemico più elevato.

Sono necessarie misure non convenzionali: come aumentare la qualità di moneta

comprando titoli di stato. E' quanto ha fatto la FED che ha seguito una strategia

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basata su tre misure: prestare alle istituzioni finanziarie, fornire liquidità direttamente

ai mercati monetari e del credito, acquistare titoli a lungo termine.. La BCE. Invece,

non ha intrapreso questa via. Il motivo è che il prestatore di ultima istanza è uno solo,

lo Stato. Difficile svolgere questo ruolo senza un'autorità fiscale alle spalle, che

ripiani eventuali perdite.

Il 2 aprile 2009 la BCE ha tagliato il tasso d’interesse di riferimento all’1,25%, il 5

luglio del 2012 il tasso è stato ulteriormente ridotto all’1%. Ci stiamo avvicinando al

livello minimo, ossia zero, già raggiunto dall’americana Federal Reserve (Fed). Per

valutare il grado di restrizione monetaria, concentrare l’attenzione sui tassi, come si

fa in tempi normali, è oggi fuorviante. In tempo di crisi, il classico meccanismo di

trasmissione della politica monetaria non funziona: da un lato l’aumento della base

monetaria non si trasmette in aumento della quantità di moneta, perché le banche

tesaurizzano la liquidità presso i depositi della banca centrale; dall’altro, i movimenti

del tasso EONIA non si riflettono sugli altri tassi.

La politica monetaria in tempo di crisi si attua mediante misure non convenzionali,

che vanno sotto il nome di quantitative easing. In breve, il quantitative easing

consiste nell’aumentare la quantità di moneta acquistando attività finanziarie. Le

maggiori banche centrali del mondo (tranne la BCE) lo stanno facendo. La strategia

di quantitative easing adottata dalla Fed non è però sufficiente: l’aumento della base

monetaria non si trasforma in aumento della quantità di moneta, ossia, questo

aumento di liquidità non è trasferito dalle banche al mercato del credito, ma

tesaurizzato in riserve in eccesso presso le banca centrale.: Il credit easing, anch’esso

molto praticato dalla Fed, si basa sulla variazione della dimensione e della

composizione del lato dell’attivo del bilancio. Per comprendere come la politica

monetaria agisca in tempo di crisi si deve, quindi, guardare al bilancio della Fed.

Prima della crisi il totale delle attività della Fed è di circa 880 miliardi di dollari. A

fronte di passività consistenti sostanzialmente in larghissima parte di circolante, la

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banca centrale detiene una quantità di titoli in portafoglio, pari a circa il 90% del

budget totale.

I principali motivi per cui la BCE ha tardato ad adottare misure di quantitative easing

sono: 1. il sistema economico europeo è più banco-centrico e meno “finanziarizzato”

di quello degli Stati Uniti, e il budget della BCE rispetto al PIL dell’Eurozona è più

grande di quello della Fed rispetto al PIL USA; 2. Il prestatore di ultima istanza, in

fin dei conti, è uno solo: lo Stato. Per la BCE è difficile svolgere appieno questo

ruolo, non avendo un’autorità fiscale alle spalle che possa appianare eventuali

perdite.

4. La Grande Recessione (2010-13) e gli squilibri macroeconomici globali

Negli ultimi decenni, le crisi finanziarie sistemiche sono state numerose: le “big

five financial crisis” (Reinhardt-Rogoff, 2008) delle economie avanzate (Spagna

1977, Norvegia 1987, Finlandia, 1991, Svezia, 1991, and Japan, 1992), la crisi di

Colombia (1998) ed Argentina (2001) e le crisi asiatiche (Hong Kong, Indonesia,

Malesia, Filippine, e Tailandia). Nei primi anni del nuovo millennio, tuttavia, la

volatilità del reddito era molto diminuita. In particolare, nell’Eurozona, la bassa

dinamica dei salari e dei prezzi – la cosiddetta “Grande Moderazione”, aveva

favorito mediamente una leggera accelerazione della crescita economica. Tutto è

cambiato a partire dalla crisi finanziaria 2007-09, che ha provocato una grave

recessione da cui le economie europee stentano ad uscire, anche per la ridotta

domanda da parte di Stati Uniti e Cina.

Il nesso fra la crisi finanziaria 2007-09 e gli squilibri macroeconomici internazionali

è dimostrato dal fatto che contestualmente alle maggiori crisi finanziarie si sono

verificate forti deviazioni dei tassi di cambio dai valori dell’equilibrio di lungo

periodo. Nell’attuale crisi, questo nesso è la risultante di tre fattori: 1) La crescita

continua senza oscillazioni cicliche rilevanti conosciuta dagli Stati Uniti ha indotto

aspettative esageratamente ottimistiche ed una minore avversione al rischio; 2) la

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politica monetaria espansiva della Fed ha stimolato le banche a sfruttare i bassi tassi

di interesse per accrescere a dismisura il loro grado di leverage; 3) l’atteggiamento di

benign neglect con cui le banche centrali ed istituzioni internazionali (IMF, World

Bank) hanno guardato a tali squilibri ha consentito che si prolungassero le deviazioni

dal valore di lungo periodo PPP dei tassi di cambio reali di valute le cui economie

hanno un notevole rilievo nel commercio internazionale.

L’equilibrio macroeconomico consiste della somma algebrica dei bilanci dei settori

private, pubblico ed estero. Nel caso il risparmio ecceda l’investimento, il flusso in

eccesso viene trasmesso dai mercati finanziari al settore pubblico per coprire un

deficit (l’eventuale eccesso di spesa pubblica sulla tassazione: G>T) e/o per

permettere agli operatori esteri di pagare l’eccesso di importazioni (i beni esportati

dal paese stesso in eccesso rispetto alle proprie importazioni:X>M)

Nel caso in cui sia l’investimento a sopravanzare il risparmio (S < I), l’eccesso di

domanda interna deve essere compensato o da un surplus del bilancio pubblico (G <

T), oppure da capitali provenienti dall’estero (un eccesso di importazioni sulle

importazioni: X < M), oppure, naturalmente, in parte dall’uno e in parte dall’altro dei

due flussi. I flussi di capitale provenienti dall’estero finanzieranno l’eccesso di spesa

pubblica sulla tassazione (il deficit pubblico interno) e/o l’eccesso di importazioni

sulle esportazioni.

Gli Stati Uniti sono un caso speciale: come paese che “vive al di sopra dei propri

mezzi”, il deficit del settore privato viene coperto dagli investitori esteri, il cui

apporto di capitali non solo consente di acquistare le importazioni nette, ma va ad

acquistare il debito pubblico emesso a fronte del deficit pubblico (l’eccesso della

spesa pubblica sulla tassazione).

Un eccesso di risparmio sull’investimento è cosa positiva o negativa? E’ cosa positiva

se è utilizzato dai pensionati all’acquisto di attività finanziarie o di fondi pensione,

oppure se le imprese investono i propri profitti all’estero a causa dei più alti profitti

attesi; negativa se riflette la necessità di assicurazione dei lavoratori rispetto ai rischi

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microeconomici o macroeconomici in un paese con un ristretto Stato sociale (un

esempio è la Cina).

Non è facile stabilire se una crescita export-led sia cosa positiva o negativa (ad

esempio, Cina e Germania) dsl momento che sottrae domanda ai principali

competitori (gli Stati Uniti e gli altri paesi dell’Unione Europea). I regimi di cambio,

gli accordi commerciali e le politiche macroeconomiche contano. Gli Stati Uniti

hanno conosciuto nel 1996-2000 un boom delle quotazioni di borsa (trainato dalle

azioni high-tech) che ha sostenuto le decisioni di investimento; nel 2000-2008 hanno

conosciuto un deficit pubblico del 6% (per i 3/4 causato dai tagli alle tasse sui redditi

alti introdotti da Bush) ed un deficit commerciale del 6%. Tali “deficit gemelli” sono

spiegati nel modello Mundell-Fleming come l’esito di un elevato tasso di interesse

che attrae capitali dall’estero, con conseguente apprezzamento reale ed eccesso delle

importazioni sulle esportazioni (il surplus commerciale della Cina fu pari all’11% nel

2006. L’eccesso di riserve internazionali viene accumulato per i tradizionali scopi

precauzionali, oppure viene destinato all’acquisto di titoli pubblici sicuri, come i titoli

emessi dagli Stati Uniti, il paese emittente della valuta utilizzata come principale

mezzo di pagamento internazionale). Il processo di deregolamentazione dell’attività

bancaria, rapidamente estesosi dagli Stati Uniti all’Unione Europea ed all’Asia, fu

all’origine di un’enorme crescita del credito in paesi come Spagna ed Irlanda (dove

l’inflazione superiore alla media dei paesi UME rendeva il già basso tasso di interesse

vicino allo zero in termini reali) e la nuova bolla (questa volta anche immobiliare)

negli Stati Uniti accrebbero l’instabilità macroeconomica.

La crisi finanziaria 2007-09 ha progressivamente ridotto il deficit commerciale, ma il

debito pubblico è aumentato a causa della spesa sostenuta dal Tesoro USA per

ripianare i debiti delle banche. Infine, i rapporti deficit/PIL e debito pubblico /PIL

sono saliti notevolmente anche per il passaggio a valori negativi dei tassi di crescita.

La caduta della produzione è anche comportato la caduta dell’occupazione: dal 2007

al 2009 il tasso di disoccupazione è cresciuto nei paesi avanzati di 14,3 milioni e nei

paesi emergenti di 8 milioni. L’aspetto più preoccupante è che si prevede che il tasso

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di occupazione precedente la recessione verrà recuperato soltanto nel 2015, con la

conseguenza che un gran numero di disoccupati non rientrerà nel mercato del lavoro

(il 37% della disoccupazione viene infatti considerata di lungo periodo).

La crisi è stata affrontata negli Stati Uniti con il sostegno finanziario del Tesoro alle

banche in crisi e con la politica monetaria espansiva della Fed diretta a rimettere in

moto il circuito del credito interbancario, che era stato bloccato dalla caduta della

fiducia di ciascuna banca nella solvibilità della banca che le chiedeva un

finanziamento di liquidità. Queste forti immissioni di liquidità hanno aiutato famiglie

ed imprese a dare inizio alla riduzione del loro indebitamento privato. Tuttavia, la

necessità per le banche di aggiornare il valore del loro attivo in attività finanziarie in

base agli attuali prezzi di mercato rende difficile accrescere il credito. Inoltre, la crisi

finanziaria ha grandemente intaccato il venture capital. La domanda interna ristagna

anche perché la caduta dell’occupazione è stata maggiore rispetto ai paesi europei,

non solo per la minore protezione dei posti di lavoro tipica del mercato del lavoro

flessibile degli Stati Uniti, ma anche perché ad essere fortemente colpito dalla

recessione è stato il settore edile che è quello a maggiore intensità di lavoro (il tasso

di disoccupazione USA ha raggiunto nel 2010 il 9,6%. Del resto, è stato calcolato che

nelle passate crisi economiche il deleveraging ha richiesto in media sette anni

(Reinhardt e Rogoff, 2008).

L’incremento del deficit e debito pubblico causato dai programmi di stimolo fiscale

hanno permesso la ripresa economica nel breve periodo. ll riequilibrio strutturale dei

bilanci pubblici e privati richiede però che si realizzino entrambe o almeno una delle

seguenti due condizioni: 1) l’incremento del tasso di risparmio; 2) l’incremento delle

esportazioni nette. Dal 2008 al 2010, la propensione al risparmio è già aumentata dal

2,7% al 6%. Le esportazioni non sono però aumentate a sufficienza, in quanto la

competitività delle merci USA sui mercati in forte espansione (quelli dei paesi

emergenti) è possibile solo mediante la rivalutazione delle valute di quei paesi, in

primo luogo attraverso una forte svalutazione del dollaro rispetto al renmimbi.

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Lo squilibrio macroeconomico all’interno dell’Eurozona, che vede il surplus di conto

corrente della Germania contrapporsi (anche nel senso di impedirne il

riassorbimento) dei deficit presenti in molti paesi della Periferia) prtesenta analogie

con quello esistente fra Cina e Stati Uniti. Prima della crisi finanziaria, lo squilibrio

macroeconomico interno USA era all’ingrosso così quantificabile:

(S - I) = (G - T) + (X - M)

-3 +4 -7

In breve, il resto del mondo, in primo luogo la Cina, stava finanziando il deficit

commerciale USA, acquistandone i titoli pubblici e delle imprese private. Dopo che

la recessione seguita alla crisi finanziaria ha fortemente ridotto la domanda interna,

ed il deficit pubblico viene alimentato dal trasferimento dei debiti delle banche al

governo federale, il settore privato presenta uno squilibrio in diminuzione, il settore

pubblico ha accresciuto la propria esposizione debitoria, mentre il settore estero ha

visto ridursi il proprio deficit:

(S - I) = (G - T) + (X - M)

-1 +5 -6

Questo lento processo di riequilibrio vede in primo piano il ruolo del tasso di cambio.

Con l’alleggerimento dei controlli sui movimenti di capitale, che limitano la

conversione in renmimbi dei dollari ricevuti dagli esportatori dei settori pubblico e

privato cinesi, l’eccesso di offerta di dollari a Pechino ha apprezzato il cambio della

valuta cinese con il dollaro. La rivalutazione consentita dalle autorità cinesi al

renmimbi ha ridotto il surplus commerciale della Cina ed il deficit degli Stati Uniti.

Lo stesso riequilibrio non può accadere nell’UME, dal momento che la valuta

comune rende impossibile la rivalutazione nominale della Germania e la svalutazione

nominale dei paesi periferici. Un eventuale riequilibrio rimane così affidato ad un

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apprezzamento reale della Germania - attraverso un tasso di inflazione più alto della

media UME che ne riduca le esportazioni nette verso il resto dell’UME - e un

deprezzamento reale dei paesi periferici – attraverso quella discesa dei salari e dei

prezzi che renderebbe più competitive le merci di queste economie a più alto CLUP.

Il rifiuto della Germania ad avere un tasso di inflazione più alto del 2%, e

l’indisponibilità dei governi delle economie “deboli” ad affrontare, in una fase di

grave recessione, il costo sociale della deflazione (meno salario e più disoccupazione)

rendono molto improbabile questo processo di riequilibrio.

I valori dei tre settori, da cui risulta l’equilibrio macroeconomico per la media

dell’UME, possono essere all’incirca quantificati come segue:

(S - I) = (G - T) + (X - M)

+6 +6 0

Dal momento che i paesi periferici non posseggono potere di contrattazione rispetto

alla Germania, è quest’ultima a dettare condizioni per la sopravvivenza dell’euro. La

strategia suggerita ai paesi periferici dalla Germania consiste in una restrizione fiscale

che elimini o quanto meno riduca il deficit pubblico in modo da tranquillizzare i

mercati finanziari ed in riforme economiche di flessibilizzazione dei mercati del

lavoro e dei prodotti tali da avviare una deflazione di salari e prezzi e da spostare la

domanda dal mercato interno al settore esterno in modo da volgere ad un valore

positivo le esportazioni nette:

(S - I) = (G - T) + (X - M)

+6 +4 +2

Tabella. Paesi periferici: ULC relativi alla media UME (1970-2010) =100

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Come la tabella qui sopra mostra, fino al 2011 l’Irlanda è riuscita a realizzare una

(più che) completa deflazione, e cioè la svalutazione interna conseguente a una

discesa degli Unit Labour Costs (CLUP) che permette di recuperare la competitività

perduta.

Per la prima volta, i paesi emergenti e quelli in via di sviluppo hanno partecipato agli

sforzi coordinati e concertati per superare la Grande Recessione.

Nel 2008 tutti sapevano che l'ascesa dei paesi emergenti e in via di sviluppo stava

ridisegnando la cartina economica globale. Si credeva però che questo sarebbe stato

un trend graduale. In realtà, quello che si supponeva dovesse richiedere dieci o

vent'anni è accaduto in appena cinque. A dimostrarlo con chiarezza è un semplice

dato statistico: nel 2007 i paesi avanzati producevano quasi i tre quarti del PIL

combinato dei G-20. Nel 2012 questa percentuale è scesa al 63%. I differenziali di

crescita, unitamente agli alti prezzi del petrolio e delle materie prime, hanno

determinato un consistente spostamento nella distribuzione dei redditi nel mondo. La

ripresa ha subito dimostrato che l'economia globale aveva più di un solo motore

trainante. La Cina e gli altri paesi emergenti, benché siano stati colpiti da un grave

shock della domanda che ha avuto severe ripercussioni sulle loro esportazioni, non

sono stati investiti dal caos finanziario. Al contrario, il valore dei titoli di stato

americani posseduti da Cina e altri paesi si è impennato in conseguenza del calo dei

tassi di interesse.

Un'altra ragione all'origine della ripresa dell’economia internazionale è stata la

tempestiva risposta messa a punto nel 2009 dai paesi del G-20, che ha concesso

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all'economia statunitense il tempo di riprendersi. Fra il 2011 e il 2013, la politica

della Fed di continui Quantitative Easing – l’acquisto di titoli diretto ad abbassare i

tassi di interesse a lungo termine e stimolare gli investimenti – ha prodotto l’effetto di

invertire il tradizionale afflusso dei capitali internazionali (prevalentemente dei paesi

emergenti) verso le economie avanzate. Infatti, i capitali si sono diretti verso i paesi

emergenti, e cioè i mercati finanziari nei quali si era aperto un differenziale positivo

di tasso di interesse. A fine 2013, con l’annuncio della Fed di riduzione progressiva

della creazione di moneta da dirottare attraverso i QE agli operatori di mercato, la

direzione dei flussi si sta nuovamente modificando.

I paesi emergenti avevano interpretato l'acquisto di titoli a lunga scadenza della Fed

come una svalutazione competitiva del dollaro e temuto un massiccio afflusso di

liquidità, provocando il rialzo dei loro tassi. Questo fenomeno, oltre a ridurre la

competitività del loro export, li avrebbe esposti ai contraccolpi della brusca

interruzione dei flussi di capitale quando gli Usa avessero invertito il corso. Il timore

era fondato: il solo annuncio che la Fed ridimensioni le operazioni non convenzionali

di QE ha portato alla fuga di capitali dai paesi emergenti ed al ritorno al tradizionale

“modello” secondo cui sono i paesi meno avanzati a finanziare la crescita (ed il

deficit pubblico) dei paesi avanzati.

Qual è stato l’effetto dell’iniziale dirottamento dei flussi di capitale verso i paesi

emergenti? Non si sono avuti effetti sulle partite correnti, né di questi né degli Stati

Uniti. Infatti, a più esportazioni degli Stati Uniti (meno degli emergenti, la cui

crescita del PIL rallentava in seguito alla crisi mondiale) hanno corrisposto meno

importazioni negli emergenti (più negli Stati Uniti). Le cose sono andate

diversamente nell’UME, dove dopo la crisi dell’euro si è registrato un rapido rientro

verso il Centro dei capitali investiti nella prima metà dei 2000 nei paesi periferici.

L'interruzione dei flussi di capitale verso i membri meridionali dell'area ha costretto

questi paesi a intervenire sulle partite correnti, portandole dal deficit combinato di

300 miliardi di dollari di tre anni fa all'attuale piccolo surplus. In altre parole, la

necessità di ridurre deficit e debito pubblico ha indotto la Periferia a tagli di spesa

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pubblica e incrementi delle tasse che hanno depresso la domanda interna (con

conseguente caduta delle importazioni) e prodotto il miglioramento del CLUP che ha

favorito la ripresa delle esportazioni.

Siccome i paesi del Centro non hanno aumentato la loro domanda, nell'eurozona si

riscontra il più forte surplus nelle partite correnti a livello mondiale, superiore persino

a quello della Cina. Come dimostra il fatto che l'euro è forte, questa straordinaria

fluttuazione di quasi 400 miliardi di dollari nel saldo delle partite correnti

dell'eurozona non è il risultato di una «svalutazione competitiva». La vera causa del

forte surplus commerciale è stata una domanda interna così debole che negli ultimi

cinque anni si è avuto un ristagno delle importazioni (con un tasso di crescita annuale

media dello 0,25%). La causa della situazione attuale è l’effetto congiunto

dell'austerità nella Periferia e dell’assenza di un aumento della domanda interna in

Germania e quindi nel Centro (di cui l’economia tedesca è gran parte). La debolezza

della domanda europea è la ragione per cui i saldi delle partite correnti dei mercati

emergenti sono peggiorati.

5. La divergenza macroeconomica all’interno dell’Eurozona

L’unione monetaria diede un forte impulso all’integrazione finanziaria. Sull’onda

della fine del rischio di tasso di cambio e dell’abbattimento del premio di rischio sui

titoli pubblici per il grande valore attribuito alla loro denominazione in euro, si

ebbero importanti fusioni fra grandi banche europee ed acquisti reciproci in notevoli

quantità di titoli pubblici degli altri paesi dell’Eurozona da parte di banche e operatori

privati. Gli squilibri macroeconomici che si sono successivamente formati fra Centro

e Periferia dell’Eurozona hanno due spiegazioni, probabilmente complementari (vedi

le due Figure qui sotto: la prima mette in relazione l’andamento del rapporto conto

corrente / PIL con l’evoluzione della domanda interna; la seconda mostra la dinamica

della REER - real effective exchange rate - divergente nella Periferia rispetto alla

Germania).

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La prima spiegazione consiste nel fatto che la forte espansione indotta

dall’integrazione finanziaria nei finanziamenti cross-border ed i bassissimi tassi di

interesse hanno causato eccessi di domanda di credito da parte delle imprese, ma

l’espansione della domanda ha riguardato – oltre che le attività finanziarie, con la

formazione di bolle speculative - soprattutto settori non suscettibili di accelerare la

crescita e favorire la convergenza del PIL pro capite verso i valori dei paesi più

avanzati. Pertanto, ne è conseguito un notevole incremento delle importazioni che ha

contribuito a formare i deficit commerciali dei paesi periferici (vedi tabella qui sotto).

-1

-0,5

0

0,5

1

1,5

-20 -15 -10 -5 0 5 10 15

Total

dome

stic d

eman

d gr

owth

rate

,%

w.r.t

. EM

U av

erag

e

Current account balance, % of GDP

Figure 1 - Domestic demand and current account(average 2002-2007)

FRFI

IT

DE

PT

GRES IE

BENL

ATEurozone

La seconda spiegazione degli squilibri all’interno dell’Eurozona è che una volta

private della “valvola di sfogo” della svalutazione de tasso di cambio, I paesi

periferici a più rapida crescita del CLUP (più che per la dinamica salariale a causa del

lento miglioramento della produttività del lavoro) hanno visto progressivamente

peggiorare il loro REER. Si è perciò ridotta la loro competitività sui mercati esteri,

con forti perdite di quote di mercato. La diminuzione delle esportazioni, assieme

all’aumento delle importazioni, ha causato ingenti deficit di conto corrente (vedi

tabella qui sotto).

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80

90

100

110

120

130

140

2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010

Figure 2 - REER based on relative ULC

BE DE IE GR ES FRIT NL AT PT FI

La moneta unica fu salutata dai mercati come una specie di bonanza. Come si è visto

con i due grafici qui sopra, le bolle speculative alimentate da tassi reali di interesse

vicini allo zero negli anni 2004-07 – soprattutto in Irlanda e Spagna – e la

competitività declinante in concomitanza con politiche di consolidamento del

bilancio pubblico monitorate dal PSC – soprattutto in Grecia, Portogallo ed Italia -

erano chiari segnali di una crescita poco solida, ben prima dell’arrivo della crisi

finanziaria nata oltre-oceano. Evidentemente, le prospettive di facili guadagni

indussero gli operatori finanziari – in primo luogo le banche – a puntare sui profitti di

breve periodo. In nome dello short-termism, l’attrazione esercitata da prospettive di

profitto a breve termine, in alcuni paesi della Periferia si alimentò un ciclo espansivo

imperniato sul settore immobiliare e sulla continua salita dei listini della borsa.

Attratti dai più elevati rendimenti, i capitali si trasferivano dal Centro alla Periferia.

Si preferì ignorare che a risparmi in calo per la crescita dei consumi si sommavano

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decisioni di investimento che erano lungi dal garantire un sano processo di catching-

up basato sui settori produttivi avanzati.

Il fatto è che nei mercati dei paesi periferici si determinarono erronei segnali di

prezzo: dal momento che gli operatori finanziari non chiedevano che un premio per il

rischio quasi nullo rispetto al tasso di interesse benchmark tedesco, il tasso di

interesse nominale sul credito rifletteva da vicino il tassi di interesse “comune”

sull’euro. I mercati non tenevano quindi conto delle condizioni di capitalizzazione

delle banche nè del fatto che il tasso di interesse reale era quasi zero (registrando i

forti differenziali di tasso di inflazione rispetto ai paesi del Nord dell’unione

monetaria). Di conseguenza, il tasso di interesse sui titoli pubblici del Sud Europa,

che dovrebbe essere sensibile all’andamento di deficit e debito pubblici, presentava

spread quasi nulli con i Bund tedeschi. In questa ”bolla” di “illusione finanziaria” i

mercati si comportarono come se si fosse in presenza di un’area valutaria che

prevedesse la funzione di prestatore di ultima istanza per la banca centrale ed una

garanzia “comune” sullo stock di titoli sovrani dei paesi del Nord come del Sud

Europa. Primo, le banche centrali nazionali (BCN) dei paesi periferici

sottovalutavano il rischio preso da istituti bancari fortemente esposti a breve termine

nel finanziamento di investimenti di lungo termine, cui si aggiungeva l’azzardo di

portafogli squilibrati verso titoli ad alta volatilità. Secondo, la condizione di

“sostenibilità” del debito pubblico era clamorosamente assente. Qualche anno di

crescita accelerata non basta a generare aspettative di flussi di reddito futuri – e

perciò di entrate fiscali - adeguati al rimborso del debito pubblico. Su tale miopia

delle BCN si innestò la crisi economica. All’insolvenza delle banche, a fronte di

crediti inesigibili, si sommò - una volta che il loro debito privato veniva trasformato

in debito pubblico – il perverso “moltiplicatore” della crisi determinato dall’intreccio

debito bancario-debito sovrano. Seguirono la stasi del credito, il crollo della

domanda, la sfiducia dei consumatori a basso reddito e la forte restrizione fiscale

(l’”austerità”) imposta dall’esplosione del rapporto debito pubblico / PIL .

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I leader europei non sono riusciti a fare abbastanza per evitare che nell’unione

monetaria rimanesse alla mercé dei mercati. Si è dovuto aspettare fino al vertice di

Bruxelles del 28 giugno 2012 per assistere a due decisioni efficaci.

1. La fine del nesso fra debito delle banche e debito pubblico. Con l’intervento

finanziario a favore delle banche da parte dell’Esm - invece che degli Stati - viene

sanata l’assurdità dell’incremento – del tutto gratuito – che ne conseguiva nel debito

pubblico. L’incremento del rapporto debito pubblico / PIL, a sua volta, si veniva a

ripercuotere sull’affidabilità e sulla capitalizzazione delle banche stesse. ed il valore

dei titoli pubblici dati in garanzia alla BCE diminuiva, con gravi effetti sulla strategia

di rafforzamento dei capitali voluta da Basilea3. C’erano poi altri due effetti perversi:

(i) l’incremento sulla spesa per interessi - e quindi aggiuntive emissioni di titoli -

conseguente all’aumento dello spread dopo un aumento del debito sovrano; (ii) il

grave nocumento alla concorrenza, in quanto imprese simili – ma appartenenti a

sistemi-paese diversi – finivano con il finanziarsi a tassi di mercato molto divaricati

fra Centro e Periferia.

L’ostinazione tedesca nell’opporsi ad una garanzia collettiva sulle situazioni debitorie

nazionali era stata solo mitigata dalla scelta di Draghi a fine 2011 di inondare le

banche di liquidità al tasso dell’1% per permettere loro di acquistare il debito sovrano

di paesi a rischio di chiusura del finanziamento dei mercati. Il nuovo fondo salva-stati

Esm sarà probabilmente autorizzato ad acquistare - direttamente e sul mercato

primario - i titoli pubblici una volta che lo spread si avvicina ad una soglia (ancora da

definire) e la BCE dovrebbe ricevere l’autorizzazione ad agire in simbiosi con l’Esm.

Se riceverà la licenza bancaria, il fondo potrà chiedere liquidità alla BCE (dietro

cessione di titoli a garanzia) e dotarsi così di munizioni ben superiori agli attuali 500

miliardi di euro (del tutto insufficienti, se fosse ad esempio l’Italia a trovarsi nelle

condizioni di richiedere un prestito). Siamo molto vicini - in via indiretta – a quella

funzione di “prestatore di ultima istanza” della BCE il cui divieto la Germania volle

inserire nello Statuto della banca centrale. Ragionevolmente, la sola condizione per

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esaudire una richiesta di intervento è che il sostegno finanziario non fronteggi una

crisi di insolvenza, ma una crisi di liquidità causata da un’impennata dello spread.

Infine, la fiducia degli investitori privati dovrebbe essere rafforzata dall’avere deciso

che i prestatori istituzionali (come l’Esm) non godranno più dello status di creditori

privilegiati in caso di insolvenza.

2. Un primo passo verso l’Unione bancaria. In attesa del passaggio a Francoforte

anche della regolamentazione e vigilanza sui sistemi creditizi e finanziari è stato

approvato l’intervento finanziario dell’Esm a favore delle banche in difficoltà e delle

loro esigenze di ricapitalizzazione, con la supervisione finanziaria dei bilanci delle

banche assegnata alla BCE. L’aspetto innovativo di tale decisione risiede nell’avere

di fatto superato l’altro veto tedesco: il pooling – la garanzia “comune” – delle

passività. Si tratta di una condivisione del rischio che per ora è limitata alle passività

delle banche private e domani – quando, e se, si darà avvio all’Unione fiscale –

dovrebbe estendersi alle passività degli Stati.

Il problema più grave e di più difficile soluzione è quello della crescita. Nella

struttura istituzionale disegnata a Maastricht alle politiche fiscali nazionali venne

demandato il compito di fronteggiare con interventi espansivi gli shock asimmetrici

(mentre alla politica monetaria della BCE fu assegnata la responsabilità di reagire

agli shock che colpiscono allo stesso modo tutti i paesi membri). Maastricht

immaginava che squilibri limitati ad un paese - causati da cadute della domanda o da

incrementi nei costi di produzione - avrebbero potuto essere agevolmente risolti

utilizzando riserve di entrate fiscali e - nei casi di grave recessione - sostegni pubblici

finanziati con emissione di titoli. L’unica condizione era un livello basso del

rapporto debito pubblico / PIL.

Non è andata così, come dimostrano le gravi crisi in cui si dibattono ancora oggi due

paesi inizialmente a basso debito pubblico come Irlanda e Spagna. Il perché è presto

detto. Maastricht ha avuto la colpa di sottostimare la forte eterogeneità dei paesi

periferici rispetto al Centro. In particolare, due “ritardi” strutturali: (i) la debolezza di

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alcuni sistemi bancari, dovuta all’inefficienza della regolamentazione nazionale; (ii)

il divario di efficienza produttiva della Periferia nei confronti del Centro, che prima

del passaggio all’euro veniva mascherato dal progressivo riallineamento nominale del

tasso di cambio e che ha poi generato l’accumularsi di perdite nella bilancia

commerciale di paesi come Grecia, Portogallo, Spagna e (in misura molto minore)

Italia.

Come si è già detto, l’equazione :

(S – I) = (G – T) + (X – M)

rappresenta l’equilibrio macroeconomico complessivo di un sistema economico. Ogni

diseguaglianza fra le variabili all’interno di ciascuno dei tre settori - Risparmi e

Investimenti nel settore privato, Spesa pubblica (G) e Tassazione nel settore pubblico,

ed Esportazioni (X) ed Importazioni (M) nel settore estero - viene a scomparire nella

somma algebrica delle varie poste. Ciò vale sia riguardo ai singoli settori all’interno

di ciascun paese, sia nell’annullamento degli squilibri reciproci all’interno di un’area

valutaria.

L’equilibrio macroeconomico dell’Eurozona nel suo complesso è naturalmente

un’identità contabile. Al netto dell’interscambio dell’Eurozona con il resto del mondo

(il cui bilancio non si allontana mai troppo dal pareggio) una posizione di squilibrio

in surplus in un paese o gruppo di paesi (Centro o Periferia) corrisponde una

posizione di squilibrio in deficit in un altro paese o gruppo di paesi (Centro o

Periferia). L’Eurozona si presenta oggi fortemente divaricata fra un Centro in surplus

ed una Periferia in deficit.

A partire dall’avvio dell’unione monetaria – ed in misura crescente all’indomani della

crisi finanziaria - in alcuni paesi (in primis la Germania, seguita da Austria e

Finlandia) si registra un surplus dei risparmi sugli investimenti cui corrisponde un

surplus di bilancia commerciale, mentre i paesi della Periferia sono gravati da deficit

di conto corrente provocati da una forte dinamica del tasso di cambio reale effettivo,

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la cui misura, il costo del lavoro per unità di prodotto (CLUP), indica la competitività

del sistema economico. Nella Periferia, in particolare in Irlanda e Spagna dove il

tasso di crescita è stato fino al 2007 superiore alla media UME, l’origine del

problema risiede nella rapida espansione della domanda domestica, dove alla discesa

del risparmio hanno corrisposto le “bolle speculative” invece che gli investimenti

produttivi necessari alla crescita e alla “sostenibilità” dell’indebitamento bancario e

sovrano. In Portogallo ed Italia, dove il tasso di crescita è stato fino al 2007 inferiore

alla media UME (come anche in Grecia, alla luce della revisione dei dati sul PIL) un

ruolo importante nel favorire l’accumularsi di deficit commerciali con l’estero (il cui

corrispettivo è il surplus commerciale del Centro) è stato svolto in anni passati anche

dai deficit presenti nel bilancio pubblico.

Il messaggio di questa contabilità macroeconomica è semplice. I paesi della Periferia

non hanno individualmente le risorse non solo per realizzare il catching-up di lungo

periodo, ma neppure per uscire dalla recessione e stimolare la ripresa economica per

bloccare i deficit con l’estero di breve periodo. L’attuale crisi dimostra come la

struttura istituzionale dell’unione monetaria fosse inadeguata a fronteggiare un grave

shock esogeno, qual è stata la crisi finanziaria nata negli Stati Uniti.

Per riequilibrare esportazioni ed importazioni, questi paesi non hanno altra strategia

che di deflazionare l’economia, provocando una discesa del CLUP, e quindi del

reddito e dei consumi. Gli elevati costi sociali di una tale strategia sono già sotto gli

occhi di tutti. La conseguente risalita del risparmio, da cui ci si aspetta un

miglioramento della bilancia commerciale, potrebbe però bastare. Essa, infatti, causa

una variazione di segno positivo sul lato sinistro dell’equazione, proprio mentre sul

lato destro la forte restrizione fiscale produce nel bilancio pubblico una variazione

negativa. Il fatto è che nel settore estero si registra un andamento diverso da paese e

paese (in 3 delle 5 economie periferiche le esportazioni conoscono una riduzione

superiore alla discesa indotta dalla recessione nelle importazioni) ma

complessivamente ben lontano dal generare quel valore ampiamente positivo di

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ripresa delle esportazioni che sarebbe necessario per ripristinare l’equilibrio

macroeconomico complessivo e frenare così la recessione evitando ulteriori cadute

del reddito. In sintesi, al prezzo di una drastica deflazione anche la Periferia ora

presenta un risparmio netto nel settore privato, ma lo squilibrio macroeconomico – e

quindi la necessità di trasferimenti di capitali direttamente o indirettamente

provenienti dal Centro – persisterà fintantoché non verrà alleviato il divario di

efficienza con il Centro.

Anche portando in pareggio il bilancio pubblico in modo da comprimere i consumi:

(S > I) < (G = T) + (X < M)

l’eccesso di risparmio indotto dalle strategie di riduzione dei debiti di banche e

famiglie è insufficiente per eliminare il deficit commerciale, poiché lo squilibrio con

l’estero non è colmabile senza una forte ripresa di competitività rispetto al Centro

La contabilità macroeconomica suesposta, pur nella sua approssimazione, mostra

come l’unione monetaria non possa andare avanti senza tenere conto della divergenza

reale che mina la coesione economica e sociale al suo interno. A Maastricht si puntò

su una progressiva convergenza fra i sistemi economici, nell’aspettativa che le

condizioni di minore incertezza conseguenti al processo di unificazione monetaria

avrebbero favorito il catching-up. Si è probabilmente trattato di un eccesso di fiducia

nelle “magnifiche sorti e progressive” delle libere forze del mercato. Nel breve

periodo, occorre una ripresa della domanda tedesca, tale da favorire la riduzione dei

deficit di conto corrente della Periferia. Bisognerà poi, nel medio periodo, creare le

strutture istituzionali necessarie a sostenere un progetto per la crescita, dove l’idea di

integrazione della Periferia con il Centro abbia la stessa dignità dell’idea di

convergenza spontanea, guidata dalle sole forze di mercato, da parte delle economie

“meno avanzate”.

6. Crisi finanziaria e rilancio dell’integrazione europea

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Come si vede nel grafico qui sotto, l’inizio della crisi finanziaria, nel 2007-09, si è

riflesso in un incremento rapidissimo dei tassi di interesse sul debito pubblico dei

paesi periferici dell’Eurozona. Il tasso di interesse più basso è quello sui Bund

tedeschi, la cui elevata “solvibilità” giustifica la prassi di calcolare lo spread dei tassi

di interesse nazionali come differenza rispetto a quello della Germania

I tre grafici che seguono (Barrios, 2012) presentano la correlazione dello spread con

il Bund decennale con, rispettivamente, il saldo atteso del bilancio pubblico, il

rapporto debito pubblico / PIL, il rapporto conto corrente /PIL degli (n-1) paesi

dell’Eurozona.

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Il messaggio di queste correlazioni è che ciascun paese della Periferia dell’Eurozona

mostra di avere uno o più punti deboli (deficit pubblico, rapporto debito

pubblico/PIL, conto corrente /PIL) che compromettono la fiducia dei mercati

finanziari nella sostenibilità del debito pubblico. Un dato interessante è che Germania

e Portogallo hanno differenti tassi di interesse ma all’incirca eguali saldi di bilancio

pubblico ed eguali rapporti debito pubblico/PIL. E’ evidente che il premio di rischio

che il Portogallo è costretto a pagare si spiega soprattutto con il pessimo rapporto

conto corrente/PIL. Altra evidenza empirica significativa è quella che presentano

Italia e Portogallo, che hanno pressoché eguali tassi di interesse ma rapporti conto

corrente/PIL molto diversi. Questa volta si può osservare che l’Italia paga l’alto

rapporto debito pubblico/PIL. Un altro esempio riguarda Grecia e Irlanda, che hanno

all’incirca eguali i tassi di interesse: tuttavia, rispetto alla Grecia quest’ultimo paese

ha un rapporto bilancio pubblico/PIL molto più alto ma molto più bassi rapporti

debito pubblico/PIL e conto corrente/PIL. L’Irlanda paga il salvataggio delle banche

da parte del governo, che ha portato a livelli elevatissimi il rapporto deficit

pubblico/PIL. Un altro esempio riguarda la Spagna, che rispetto all’Austria, un paese

vicino alla Germania per “sostenibilità fiscale”, nel secondo trimestre 2009 presenta

molto peggiori valori per tutti e tre gli indicatori, ma all’incirca eguale tasso di

interesse. In effetti, successivamente alla perdita di credibilità di Irlanda e Grecia, nel

2011 la Spagna ha subito il contagio di tali paesi ed è stata penalizzata dai mercati

finanziari con un innalzamento del premio per il rischio tale da determinare un

elevato spread rispetto alla Germania.

Nel grafico qui sotto, che fotografa la situazione al 30 luglio 2009, la forte

correlazione fra spread e CDS (credit default swaps) di ciascun paese rispetto alla

Germania sta ad indicare come il prezzo dell’assicurazione del default di uno stato

segua l’andamento dello spread, espressione del grado di rischio del debito pubblico

di un paese. Successivamente, al di là delle forti oscillazioni dei mercati verso l’alto e

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verso il basso, la situazione strutturale è peggiorata. La lentezza con cui i paesi più

indebitati hanno attuato le restrizioni di bilancio pubblico, l’ulteriore peggioramento

dell’andamento del PIL che ne è conseguito, il sostanziale disaccordo della Germania

rispetto ad una decisa strategia di sostegno ai paesi sotto attacco speculativo sono le

principali cause dell’incremento del rischio sul debito sovrano dei paesi periferici

percepito dai mercati.

Al 10 agosto 2012, il tasso di interesse sui titoli pubblici decennali in Germania, pari

all’1,3% in termini nominali, risulta negativo in termini reali: a fronte di un tasso di

inflazione di poco inferiore al 2%. Per il Belgio (2,5%) e la Francia (2,1%) il tasso di

interesse reale è intorno allo zero. La spiegazione risiede nell’eccesso di domanda dei

titoli considerati “sicuri”, privi di un rischio di default dello stato emittente, che

provoca un aumento del prezzo di mercato al di sopra del valore di emissione, con

conseguente riduzione del tasso effettivo di rendimento. Al converso, la crisi di

fiducia nella “solvibilità” dei governi dei paesi periferici dell’Eurozona si riflette in

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valori molto alti dei tassi di interesse nominali: Grecia: 24,4%; Portogallo: 9,9%;

Irlanda: 6,0%; Spagna: 6,9%; Italia: 5.9%.

Questa “fuga verso la qualità” sui mercati finanziari internazionali si esprime nella

ristrutturazione dei portafoglio, con acquisti dei Bund e con vendite dei titoli pubblici

dei paesi periferici dell’Eurozona, che subiscono pesanti perdite nelle quotazioni e

conseguente incremento del tasso di interesse. impedendo ai governi di cercare

finanziamenti nei mercati attraverso nuove emissioni e rendendo quindi

indispensabile accettare le radicali restrizioni di bilancio pubblico alla cui attuazione

le autorità europee condizionano l’erogazione dei prestiti.

La perdita di credibilità della sostenibilità fiscale dei paesi periferici dell’Eurozona –

ovvero quanto possa essere realistico attendersi il rispetto del vincolo intertemporale

del bilancio – non è solo causata da alti deficit e debiti pubblici, alti spread e basse

prospettive di crescita del PIL, ma anche dall’effetto perverso dell’integrazione

finanziaria avvenuta nell’Eurozona: l’aumento del rischio sistemico, ovvero la perdita

di credibilità del sistema nel suo complesso, in questo caso dalla partecipazione ad

un’area valutaria in crisi, che si riverbera sulle prospettive di solvibilità dei singoli

paesi. Le interconnessioni che si sono venute a creare fra le banche e fra le imprese

private europee non consistono soltanto in forti divaricazioni fra surplus nei bilanci

del Centro e deficit nei bilanci della Periferia, ma anche in portafogli di banche del

Centro gravate dai debiti pubblici, e anche di imprese private, della Periferia. Il

“rischio sistemico" aggiunge perciò, alla specifica situazione di bassa solvibilità,

anche una richiesta di “premio per il rischio” aggiuntivo di “contagio”, ovvero che la

solvibilità di un paese venga a soffrire per il peggioramento delle condizioni degli

altri. Rischio sistemico ed effetto-domino generato dal “contagio” hanno fatto nascere

l’aspettativa che l’esistenza futura dell’Eurozona possa essere revocata in dubbio.

Pertanto, la “fuga verso la qualità” sui mercati finanziari internazionali si esprime

nella ristrutturazione dei portafoglio da parte di banche, fondi pensione, risparmiatori.

Nel grafico qui sotto, i tracciati dei tassi di interesse dei Bund decennali e

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dell’indicatore VIX dei rendimenti nel mercato di borsa USA vanno in direzione

opposta, appunto perché la crisi finanziaria mentre causava la caduta delle quotazioni

azionarie negli Stati Uniti generava un ritorno dei capitali nel mercato del debito

pubblico tedesco (l’eccesso di domanda di Bund ne provoca l’aumento del prezzo di

mercato) considerati più sicuro di quelli della Periferia.

In seguito agli acquisti dei Bund tedeschi e alle vendite dei titoli pubblici dei paesi

periferici dell’Eurozona, che subiscono pesanti perdite nelle quotazioni e conseguente

incremento del tasso di interesse a valori proibitivi. I governi, non potendo pagare

tassi elevatissimi a fronte di un tasso di crescita che continua a presentare valori

negativi, non sono più nella condizione di cercare finanziamenti nei mercati

attraverso nuove emissioni. Diviene quindi indispensabile accettare le radicali

restrizioni di bilancio pubblico alla cui attuazione le autorità europee condizionano

l’erogazione dei prestiti.

7. Una valutazione della crisi dell’Eurozona

Nello slancio ideale dei padri fondatori, l’Europa avrebbe dovuto lasciarsi alle spalle

secoli di guerre e proiettarsi in un futuro di pace e di prosperità. Quel progetto appare

ancora oggi attuale, perché felicemente ispirato dalle virtù del doux commerce lodato

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da Montesquieu: l’intuizione secondo la quale l’accumularsi di joint ventures in

ambito economico – come si ricorderà, si cominciò dal carbone e dall’acciaio -

avrebbe non solo cementato interessi fino a quel momento contrapposti, ma anche

favorito il nascere di passioni comuni, fino a realizzare quel demos europeo della cui

lunga latitanza la storia è stata triste testimone. A distanza di più di mezzo secolo dal

Trattato di Roma, però, la crisi dell’Eurozona – la punta avanzata del progetto

europeo - ci obbliga ad aggiungere un punto interrogativo al motto con cui il progetto

dell’Europa unita è stato denominato: Uniti nella diversità ? Nel sottolineare la

diversità fra i popoli d’Europa, il motto tradiva la consapevolezza di quanto arduo

sarebbe stato superare i particolarismi nazionali.

La rapida integrazione finanziaria seguita al varo della moneta unica, con l’agevole

collocazione dei titoli pubblici nazionali in tutti i mercati dell’area valutaria, a

cominciare da quelli delle economie più forti, aveva generato l’illusione che si stesse

ormai consolidando l’integrazione fra i mercati sia reali che del credito. Con l’arrivo

della crisi finanziaria dagli Stati Uniti, la maggior parte dei governi europei ha dovuto

fare fronte ai fallimenti, alle perdite ed ai salvataggi del settore bancario mediante

crescenti disavanzi pubblici e conseguente forte innalzamento del rapporto debito

pubblico / PIL. Parallelamente, negli operatori dei mercati finanziari (banche,

assicurazioni, fondi pensione, fondi sovrani, risparmiatori privati) è venuta meno la

fiducia nella garanzia della denominazione in euro, cosicché il premio per il rischio di

default, che nel primo decennio dell’euro si era quasi azzerato (anche sul debito dei

paesi con finanze pubbliche poco in ordine), è rapidamente schizzato verso l’alto. Un

sistema a rete con crescenti interconnessioni fra banche con forti posizioni nel debito

pubblico a rischio di insolvenza delle economie periferiche ha così innescato in

Europa il rischio sistemico e la paura del contagio. La crisi finanziaria e la

conseguente Grande Recessione stanno drammaticamente rivelando all’Europa

monetaria che uno spazio economico integrato non può fare a meno di un assetto

istituzionale sovra-nazionale di eguale dimensione e interconnessione.

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In Europa, tuttavia, la politica è estremamente debole e fa fatica a tenere testa

all’economia. Gli Stati-nazione europei annichiliscono di impotenza nei nuovi scenari

del mondo globalizzato. La politica resiste invece negli Stati Uniti. Eppure sono un

paese con un debito pubblico che ha raggiunto il 100% del PIL; senza contare il

disavanzo strutturale di molti stati, anche di primissimo piano come la California, che

se non venisse finanziato dalle agenzie federali ma coperto con emissione di titoli

renderebbe il debito statunitense secondo solo a quello del Giappone (al 225,8% del

PIL nel 2010).

Ma un default degli Stati Uniti è naturalmente un ossimoro. Il mondo ha sostituito il

tallone aureo con il dollar standard, ha cioè riposto la “fiducia di ultima istanza”

nella valuta depositaria dell’unico potere economico e militare “in carica” nel

governo del mondo. Ci vorrà il tempo di completare il suo catching-up perché la Cina

possa aspirare al ruolo di superpotenza. Nel frattempo, i paesi dell’Eurozona faticano

a rendersi conto che la diversità, piuttosto che una risorsa, si sta rivelando la causa del

declino. Il primato dell’economia dipende oggi dal fatto che la solvibilità dei governi

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delle economie periferiche (Grecia, Irlanda, Italia, Portogallo, Spagna) è messa in

dubbio da una crescita del PIL mediamente bassa negli ultimi due decenni e negativa

negli ultimi anni. E poiché non promette affatto di riprendersi, l’aspettativa è che non

ci sarà negli anni futuri quell’incremento del gettito fiscale necessario a finanziare un

esborso per interessi gonfiato dalla aumento dello spread rispetto al tasso-base sui

titoli tedeschi. A ciò va aggiunta la problematicità dell’abbattimento del debito

pubblico. Primo, quanto più ravvicinate sono le date di scadenza di un ingente debito,

tanto meno una crescita modesta consentirà di accumulare i surplus di bilancio

necessari ad estinguerne ampie quote. Secondo, in assenza di acquirenti delle

posizioni debitorie, il credito all’economia ed il sostegno pubblico alla domanda

aggregata languono, con conseguenze esiziali per la formazione di nuovo PIL, da cui

proviene anche il risparmio privato che alimenta la copertura dei bilanci in rosso.

Terzo, in un momento in cui la deflazione è in corso in tutt’Europa, l’onere di

sostenere la domanda aggregata ricade sulle componenti interne, prostrate

dall’incremento del prelievo fiscale imposto dai consolidamenti fiscali. Come da più

parti sottolineato, manovre di restrizione fiscale di ampia portata, come quella

realizzata a dicembre scorso in Italia, comportano un deleveraging eccessivamente

rapido dello stato, che va ad aggiungersi al deleveraging delle banche e delle imprese.

Il nuovo Patto di Stabilità e Crescita (il cosiddetto Fiscal Compact, approvato nel

Consiglio Europeo dell’8-9 dicembre 2011) imporrà ad ogni paese il cui rapporto

debito pubblico/PIL sia superiore al 60% una riduzione annua pari ad 1/20 della

distanza dal valore di riferimento Per dare qualche numero: se l’attuale accordo

europeo verrà ratificato senza i parametri aggiuntivi proposti da Monti, l’Italia,

dovrebbe abbattere il debito del 3% del PIL, cioè una volta e mezza la “manovra

Monti”, per 20 anni (se invece si computerà anche il debito del settore privato, molto

basso in Italia, la riduzione potrebbe scendere all’1,5% del PIL).

La BCE si dichiara impotente di fronte ad un problema di lungo periodo qual è la

crescita e si concentra sul ripristino di un ordinato funzionamento del settore bancario

e finanziario. Il finanziamento dell’economia reale è infatti messo a rischio dal

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mismatch fra un’offerta di attività finanziarie, pubbliche e private, ad alto rischio da

parte delle banche, ed una domanda dei mercati concentrata sui titoli a basso rischio.

Nel tentativo di aggirare il divieto statutario di acquistare all’emissione il debito

pubblico dei paesi dell’Unione Monetaria Europea (UME), e impossibilitata ad

assorbire i titoli pubblici smobilizzati dagli operatori finanziari, in quanto ciò

configurerebbe la resa all’”indisciplina fiscale” dei governi, il governatore Draghi ha

scelto la strada di rifinanziare all’1% le banche per allontanare il rischio di un credit

crunch ed al contempo favorire l’acquisto di titoli dei pesi periferici, che hanno oggi

rendimenti fino al 7% (in più, in Italia il governo Monti ha fornito la garanzia

pubblica su obbligazioni bancarie di dubbio valore, per facilitarne il trasferimento

alla BCE come collaterale dei prestiti ottenuti). Non potendo sostenere i governi, la

BCE ha inondato di liquidità le banche. Il prestito illimitato concesso a piene mani

(480 miliardi di euro a tre anni), una volta investito in titoli pubblici, è stato però in

gran parte ceduto dalle banche come collaterale o solo parcheggiato presso la BCE

allo 0,25%. Ma l’obiettivo di ripristinare la fiducia nel mercato dei finanziamenti

interbancari sembra raggiunto.

Il coordinamento fra le istituzioni europee è carente. Mentre l’operazione Draghi,

favorendo il deleveraging, mira a ridurre l’elevata leva finanziaria delle banche,

l'European Banking Agency (EBA) impone di fatto di aumentarla. A fronte della

perdita di valore dei titoli pubblici dei Paesi periferici detenuti in portafoglio,

interpretando l’innalzamento del capital ratio imposto da Basilea3 come l’obbligo ad

una valutazione dei titoli delle banche agli attuali prezzi di mercato, l’EBA ha

richiesto alle banche 114 miliardi di aumenti di capitale. Il risultato di questa miope

strategia è che le banche del Nord Europa si sono sentite incoraggiate ad orientare il

deleveraging allo smobilizzo dei titoli dei paesi periferici. Il debito pubblico

denominato in euro sta tornando ad essere collocato entro i confini di ciascuno stato

emittente in proporzioni che non si vedevano da prima dell’unione monetaria. La

tendenza alla ri-nazionalizzazione del debito pubblico avrebbe comunque dovuto

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avviare la diminuzione degli spread. Così non è stato. La spiegazione è che la ri-

nazionalizzazione non può sostituire la funzione di lender of last resort, e cioè la

prerogativa, di cui la BCE è priva, di fornire la garanzia collettiva sul debito pubblico

di ciascun paese. I mercati internazionali, consapevoli di questo handicap

dell’Eurozona, nel corso del 2011 hanno modificato in modo strutturale le aspettative

sulla solvibilità dei paesi periferici e proseguiranno la smobilizzazione dei titoli

pubblici denominati in euro fino al punto in cui il loro valore si sarà adeguato al

nuovo grado di rischiosità attribuito a ciascuno stato. Per tenere fede al moloch

dell’indipendenza della politica monetaria dalla politica fiscale (sconosciuta negli

Stati Uniti), stati-giganti nel contesto globale e dotati di una moneta sopravvalutata

rispetto al dollaro, si ritrovano ad essere stati-lillipuziani, costretti a impegnare i beni

reali nazionali per ritirare dai mercati debito pubblico (è allo studio in Italia un fondo

immobiliare cui conferire beni dello stato come garanzia sull’emissione di titoli da

cedere in cambio alle banche). E’ proprio ciò che hanno periodicamente fatto i paesi

dell’America Latina di fronte alla fuga degli investitori americani. Perché siamo

arrivati a tanto?

La crisi sistemica della finanza europea è venuta a innestatasi su una redistribuzione

di lungo periodo della produzione mondiale fra economie a diverso grado di sviluppo.

L’Eurozona risulta quindi doppiamente penalizzata dall’evoluzione dell’economia

globale. In primo luogo, perché si trova in condizione di svantaggio riguardo ai due

principali fattori della crescita del XXI secolo: il progresso tecnico ed il capitale

umano, da cui dipende l’incremento della produttività totale dei fattori, sono

distribuiti in maniera molto diseguale fra Nord e Sud d’Europa. In secondo luogo,

perché le basse prospettive di crescita generano una spirale deflazionistica, in quanto

l’incertezza delle imprese e delle famiglie sui redditi futuri aumenta e si eleva il

grado di rischio che i mercati applicano ai debiti che gli stati hanno contratto.

Dovrebbe essere evidente a tutti i governanti europei che le sfide cui la

globalizzazione ci sta ponendo di fronte sono troppo grandi per essere affrontate in

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ordine sparso. L’incendio che oggi minaccia la casa comune fa infatti emergere in

tutta la sua gravità una debolezza istituzionale che data da almeno due decenni prima

della nascita dell’euro. Essa risiede nell’avere risparmiato sui materiali da

costruzione. Le istituzioni esistenti sono infatti servite innanzitutto per sbandierare il

“vincolo dell’Europa”, per convincere l’elettorato nazionale ad accettare le politiche

macroeconomiche imposte dalla globalizzazione finanziaria, dimenticando che esse

sono in aperto conflitto con l’esigenza di creare il consenso delle opinioni pubbliche

attorno ad una strategia di crescita economica comune.

La gestione politica della crisi dell’Eurozona è stata finora deludente. Il ritardo

culturale dei governanti europei è notevole. Nell’autunno 2010, Merkel e Sarkozy

dichiararono improvvidamente che le eventuali insolvenze degli stati non sarebbero

ricadute solo sui governi dell’Eurozona, ovvero sulla tassazione dei contribuenti,

perché anche gli acquirenti privati del debito greco sarebbero stati chiamati a

partecipare all’haircut del 50% del valore nominale del debito greco. Come dire ai

mercati: state alla larga dai bond dell’Europa periferica. Poi venne creato il fondo

salva-stati (l’European Financial Stability Facility: EFSF), e si perseverò nell’errore

di stabilire la condanna dei piromani prima di avere provveduto a spegnere

l’incendio. Ad esempio, il finanziamento dell’EFSF pro-quota da parte dei paesi

dell’Eurozona viene contabilizzato come voce del debito pubblico nazionale. Non

deve perciò sorprendere la scarsa credibilità che è stata riconosciuta all’EFSF nel

momento in cui ha tentato di finanziarsi sul mercato. Nonostante che

Standard&Poor’s abbia decretato il downgrading delle emissioni dell’EFSF -

conseguenza diretta del downgrading di paesi contribuenti al fondo, come Francia ed

Austria, la cui garanzia ha perso il rating massimo AAA - l’ammontare del ri-

finanziamento al fondo salva-stati rimane avvolto nella nebbia. Per fornire la garanzia

della solvibilità ai debiti pubblici di Italia e Spagna occorrerebbero ben più del

doppio dei 700 miliardi che si potrebbero mettere insieme fra i probabili 500

dell’EFSF e i 200 del FMI. Il fondo salva-stati è la soluzione solo se fa le veci della

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BCE nel fungere da prestatore di ultima istanza. E’ auspicabile che la Merkel, una

volta incassata la ratifica dell’accordo sul Fiscal Compact il 30 gennaio, dia il via

libera a marzo al varo ad un European Stabilization Mechanism (ESM) - il nuovo

fondo che opererà dal prossimo luglio – che abbia accesso alla BCE al pari delle

banche e sia autorizzato ad operare sul mercato sia primario che secondario.

Le istituzioni comunitarie non hanno dato prova di maggiore lungimiranza

progettuale. Nella copiosa letteratura sull’integrazione europea, il ruolo del metodo

comunitario – riassumibile nel diritto di iniziativa sulle politiche comuni della

Commissione europea - è stato descritto come l’”oscillare di un pendolo”. Anni di

forte impulso all’integrazione sono stati seguiti da anni di sostanziale blocco se non

di arretramento. Il metodo comunitario è riuscito ad esercitare una spinta propulsiva

sull’integrazione europea unicamente nelle fasi favorevoli della congiuntura

economica, nelle quali il “mutuo vantaggio” degli stati aveva modo di prevalere sul

conflitto fra gli interessi nazionali. La stagflazione scoppiata negli anni ’70 segnò

però la fine del “mutuo vantaggio”, poiché le “svalutazioni competitive” dei

principali paesi europei avevano ormai trasformato i contrapposti tentativi di rilancio

delle esportazioni in un gioco a somma zero.

Gli Stati-nazione scelsero saggiamente di aggrapparsi al “vincolo esterno”

dell’Europa e combattere l’inflazione attraverso il passaggio nel 1979 ai tassi di

cambio fissi del Sistema Monetario Europeo (SME). Per i governi ciò significò

accettare politiche monetarie restrittive, tali da preservare i tassi di cambio fissi dello

SME e consentire quella convergenza nominale – un processo di disinflazione

mitigato da periodici e limitati aggiustamenti delle parità di cambio - necessaria a

contrastare la declinante competitività rispetto a concorrenti dotati di maggiore

efficienza produttiva, in primo luogo la Germania.

Il fatto è che le istituzioni europee hanno progressivamente smarrito la stella polare

del progetto unitario lasciando l’iniziativa ad una sempre più rapida globalizzazione.

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La miccia dell’incendio odierno fu innescata nel 1990, anno spartiacque fra due

epoche storiche. In quell’anno giunse a compimento in Europa il processo di

liberalizzazione dei movimenti di capitale. L’Europa comunitaria mancò della visione

prospettica necessaria a costruire un disegno unitario dei mercati finanziari e si limitò

all’adeguamento passivo al progetto egemonico dalla finanza globale, che aveva

preso avvio nei primi anni ’80 con la drastica deregolamentazione bancaria degli Stati

Uniti. Il 1990 fu perciò testimone della sostanziale cessione agli operatori finanziari

del potere di determinazione sulle politiche monetaria e valutaria nazionali.

Nell’abolire i controlli e lasciare agli operatori la piena libertà di “ottimizzare” il

proprio portafoglio di attività finanziarie, spostando capitali da una piazza all’altra in

tempo reale alla ricerca del migliore rapporto fra rendimento atteso e grado di rischio,

venne sancita la cancellazione del primato della politica degli Stati-nazione

sull’economia globale.

Nel 1991, il Trattato di Maastricht consegnò al metodo comunitario il compito di

mettere l’integrazione monetaria europea al passo con le sfide poste dalla

globalizzazione, subordinando l’ingresso nell’unione monetaria al rispetto dei noti

“criteri” per la convergenza nominale. L’impatto dirompente che la liberalizzazione

dei movimenti dei capitali avrebbe potuto avere su un complesso processo di

integrazione monetaria e reale non venne percepito in tutta la sua portata. In seguito

ai vincoli su deficit e debito pubblico, molti paesi dell’Eurozona, già indeboliti della

perdita di autonomia che la liberalizzazione finanziaria aveva causato alle politiche

monetarie e valutarie (come la crisi dello SME nel 1992-93 dimostrò al di là di ogni

ragionevole dubbio), dovettero acconciarsi a perdere anche lo strumento della politica

fiscale. Lo snodo cruciale, che ci conduce direttamente alla crisi attuale, fu il modo in

cui venne concepita l’unificazione monetaria entro il 1999. Le guidelines monetarie e

fiscali che nel corso degli anni ’90 furono imposte agli stati concentravano tutta

l’attenzione sulla convergenza nominale necessaria per l’ammissione all’euro. La

preoccupazione principale della Germania fu quella di legittimare la nuova valuta

come segno monetario non soggetto a svilimento e di mettere la Banca Centrale

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Europea (BCE) al riparo da ogni tentativo di abbattere i debiti pubblici attraverso la

“monetizzazione”. L’impianto istituzionale fu perciò circoscritto al disegno di una

BCE fedele erede della Bundesbank ed alle più stringenti regole sui bilanci pubblici

nazionali del Patto di stabilità e crescita (PSC). La persistente eterogeneità fra le

economie - in termini di livelli di produttività e di regolamentazione dei mercati -

avrebbe piuttosto richiesto un disegno istituzionale all’altezza dei conflitti distributivi

che sarebbero inevitabilmente sorti. Si sottovalutò che l’aggiustamento di mercato –

la discesa di salari e prezzi – sarebbe rimasto il solo strumento per contrastare ogni

divario di efficienza dei paesi periferici rispetto alle economie più avanzate.

Preoccupata solo della disciplina delle politiche macroeconomiche, l’Europa

monetaria demandò la riduzione dei forti divari fra Centro e Periferia alle sole forze

di mercato. Non prevedendo quell’ampliamento del bilancio europeo indispensabile

ad una crescita equilibrata, l’UME nacque del tutto impreparata rispetto alla

complessità del processo di catching-up cui erano obbligati i paesi meno avanzati. Le

economie periferiche a più basso reddito pro capite si sono così trovate ad affrontare

il passaggio da economie di produzioni agricole ed industriali tradizionali ad

economie di servizi prive degli strumenti di politica economica di cui le econome

avanzate avevano goduto nel loro “decollo economico”. Né l’impatto deflazionistico

della governance macroeconomica ha trovato compensazione nei programmi di

coesione sociale di Bruxelles. Non è un caso che, dopo avere constatato i numerosi

difetti dei fondi strutturali e di coesione ad inizio anni 2000 - si pensi al Rapporto

Sapir (2004) - non si sia mai realizzata una sostanziale revisione delle politiche di

sostegno alla convergenza reale. Paesi a lenta dinamica della produttività (in diversa

misura, Grecia, Italia, Portogallo e Spagna) hanno conosciuto una forte e continua

divaricazione del costo del lavoro per unità di prodotto dalla media dell’Eurozona,

che ha minato la competitività delle loro esportazioni, provocando la cessione alla

Germania di ulteriori quote del mercato europeo.

Le “bolle” speculative immobiliari e finanziarie create dalle banche irlandesi e

spagnole nel periodo 2004-2007 hanno dimostrato che con il varo dell’euro ci

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sarebbe stato un gran bisogno di attente politiche a livello comunitario. Nel servire

sistemi produttivi eterogenei, la politica monetaria comune avrebbe dovuto essere

accompagnata dalla centralizzazione della vigilanza monetaria e della

regolamentazione finanziaria. Un clima intellettuale poco propenso a regolare la

finanza fece invece sì che queste “bolle” non venissero governate né in patria né a

Francoforte. E al loro “scoppio”, le insolvenze degli operatori privati sono state

sopportate dal bilancio pubblico, con conseguenze a lungo termine sulla dinamica

dell’occupazione e della produzione. Una politica economica europea imperniata su

un mix deflazionistico di politica monetaria comune e politiche fiscali nazionali può

risolvere problemi di competitività di breve periodo, ma non accompagnare la

convergenza reale di lungo periodo. L’assenza nell’Eurozona di un bilancio europeo

degno di questo nome riflette la rinuncia ideologica ad affrontare in termini sistemici

la questione del cambiamento strutturale. Dopo avere realizzato la convergenza

nominale, sarebbe occorso monitorare la bilancia commerciale dei paesi

dell’Eurozona e sostenere con adeguate politiche comunitarie la “rincorsa” dei paesi

periferici al più elevato reddito pro capite dei paesi più avanzati. Nell’epoca degli

squilibri macroeconomici globali, dove nell’allargare surplus e deficit di conto

corrente all’interno dell’unione monetaria la Germania gioca lo stesso ruolo della

Cina nei confronti degli Stati Uniti, un bilancio da riequilibrare è anche quello

dell’interscambio intra-Eurozona. I forti nessi di causalità che legano politiche

macroeconomiche e fattori della crescita sono così rimasti per tutto il decennio scorso

al di fuori dell’orizzonte teorico delle autorità europee. Nell’aumentare il tasso di

interesse sull’euro dopo i primi, illusori, sintomi di ripresa nel 2010 (+0,25% ad

aprile 2011 e +0,25% a luglio 2011), l’ex governatore della BCE Trichet ha mostrato

di continuare a temere il drago ormai sconfitto dell’inflazione. Il problema era invece

la deflazione conseguente al deleveraging delle banche e delle imprese, che però non

compariva nell’agenda dei Consigli europei, essendo i ministri dell’economia

impegnati a rincorrere i mercati finanziari contraendo i bilanci pubblici. E oggi il

Fiscal Compact, nel prevedere la perdita di “sovranità” dei governi sui bilanci

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nazionali, non solo annulla le speranze di un rafforzamento delle tutele pubbliche in

Europa – dagli ammortizzatori sociali, alle misure per promuovere l’occupazione

femminile, all’estensione del diritto all’istruzione – ma prospetta la rinuncia alle

politiche “attive” del lavoro indispensabili per portare a più dignitosi livelli il tasso di

occupazione.

Il problema dell’euro è allora così riassumibile. Primo. Con un debito pubblico in

rapporto al PIL molto elevato ed una pressione fiscale spesso al massimo storico, i

paesi periferici dell’Eurozona non presentano le condizioni di solvibilità a lungo

termine per ottenere dai mercati i capitali necessari alla ripresa economica.

L’emissione di debito pubblico europeo – quindi, non più solo denominato in euro,

ma “sovrano”, i cosiddetti Eurobonds – è l’unico modo efficace per abbattere il

debito pubblico nazionale, in quanto permette di “ritirare” le quote di in eccesso

rispetto al limite del 60% del PIL (come proposto, con differenze marginali, nei vari

piani diretti ad eliminare il rischio di default). Secondo. Una governance

macroeconomica non più orientata alla deflazione ma all’espansione produttiva ed

occupazionale non è oggi realisticamente realizzabile singolarmente da paesi

impegnati a contenere drasticamente la spesa pubblica. Una ripresa credibile è

concepibile solo nella dimensione sovra-nazionale di un’Unione fiscale che sostenga

il livello della domanda a livello europeo. Gli Eurobonds dovrebbero quindi anche

essere utilizzati per raccogliere i capitali per progetti comuni di beni pubblici. Se

mercati affamati di attività finanziarie di buona qualità contenessero lo spread sul

Bund decennale (il cui tasso di interesse è inferiore al 2%) intorno ai 100 punti,

emissioni comuni potrebbero essere piazzate ad un tasso di interesse intorno al 3%.

A frenare questa soluzione c’è una questione più profonda: il ritardo nella formazione

di un demos europeo, che è particolarmente visibile nell’approccio all’Europa del

paese che ha assunto la guida de facto del processo di integrazione. La Germania fa

mostra di non volersi caricare il peso maggiore della ripresa europea. Rifiuta quel

riequilibrio della propria domanda interna rispetto a quella estera che permetterebbe

parallelamente ai paesi periferici di far risalire la loro quota di esportazioni sul totale

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del commercio intra-UME. E si oppone anche ad una impostazione meno restrittiva

della politica monetaria comune (se la BCE innalzasse il suo target di inflazione al di

sopra del 2%, un cambio stabilmente inferiore dell’euro rispetto al dollaro potrebbe

spingere le esportazioni dell’intera unione monetaria). La storia insegna che i più

importanti processi di unificazione politica si sono realizzati in Europa sotto la guida

di potenze regionali: Prussia e Regno di Sardegna hanno svolto la funzione storica di

creare due grandi Stati-Nazione. L’approccio intergovernativo va però adeguato al

complesso mondo dell’inizio del nuovo millennio. Avendo lanciato l’attacco all’euro,

la finanza globale tiene sotto scacco tutti i governi dei paesi dell’Eurozona, non solo i

“deboli” ma anche i “forti”. Ciò sottrae a Germania e Francia il coraggio politico per

portare avanti con convinzione il processo di unificazione europea, a cominciare

dall’Unione fiscale. La soggezione ai mercati finanziari aggrava il problema

dell’assenza di demos, perché finisce per accrescere il deficit democratico che mina il

progetto unitario. Con ogni probabilità, pochi paesi sottoporranno al voto popolare il

progettato Trattato europeo, destinato a recepire l’accordo sul Fiscal Compact.

Avendo l’obiettivo di rafforzare i vincoli di politica fiscale del PSC mettendo sotto il

controllo intergovernativo i bilanci pubblici nazionali, il Fiscal Compact di fatto

sottrae ai cittadini delle comunità nazionali il controllo democratico sulle proprie

scelte economiche. Il nuovo Trattato rischierebbe perciò di essere bocciato.

Se la reazione della diarchia franco-tedesca all’attacco dei mercati si esaurisse nel

semplice consolidamento fiscale verrebbe emessa la condanna definitiva del progetto

unitario. Di fronte all’impasse generato dall’odierno “gioco europeo” – la matrice dei

pay-off dove c’è “chi perde” e “chi guadagna” da un’Europa più solidale - l’obiettivo

della crescita rappresenta l’ultima chance per il rilancio dell’idea di Europa. La crisi

dell’euro affonda le sue radici nell’assenza di un fine realmente comune, che è cosa

diversa dal semplice sforzo congiunto per raggiungere un obiettivo che rimane

nell’interesse dei singoli stati, quale fu la disinflazione che aprì la strada alla moneta

unica. Il fine comune è oggi la ripresa della crescita del continente Europa, che è

realizzabile facendo rivivere lo spirito del doux commerce. La crescita consentirebbe

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di trasformare l’attuale gioco non-cooperativo, ripristinando quella struttura di gioco

di “mutuo vantaggio” fra i paesi dell’Eurozona, felicemente perseguita nella prima

fase del processo di integrazione. Al concetto di doux commerce è connaturato lo

stretto legame fra bene comune e democrazia. Una guida “intergovernativa”

all’altezza del compito di progettare una strategia di crescita “comunitaria”

impedirebbe ai partiti populisti nazionali di illudere gli elettorati con la menzogna che

la causa della crisi è l’euro e non invece le deboli istituzioni europee che essi stessi

hanno contribuito a mettere in piedi. Solo così – per usare una metafora - il

metalmeccanico di Wolfsburg non temerà più l’Europa dei trasferimenti al

dipendente pubblico di Atene. Come ha scritto di recente Jürgen Habermas, “(è)

necessario attuare un’integrazione politica basata sul benessere sociale, in modo che

la pluralità nazionale e la ricchezza culturale (…) della ”vecchia Europa” possano

essere protette dall’appiattimento di una globalizzazione sempre più veloce” (Zur

Verfassung Europas. Ein Essay, Suhrkamp, 2011).

Nel medio-lungo, la credibilità dell’Eurozona è affidata alla realizzazione di quelle

riforme istituzionali che dovrebbero portare l’integrazione europea alla meta

dell’Unione politica. 1) L’Unione bancaria, ovvero la creazione di un’autorità di

sorveglianza e monitoraggio delle attività del sistema bancario dei paesi membri, di

un fondo per la ricapitalizzazione delle banche in difficoltà, l’accordo per una

garanzia commune sui depositi bancari; 2) L’Unione fiscale, ovvero la creazione di

un bilancio pubblico europeo degno di questo nome (la contribuzione dei singoli

paesi all’attuale bilancio è pari appena all’1% del PIL complessivo dell’Unione

Europea) (finanziato da un saggio di tassazione comune), in modo da organizzare

politiche di stabilizzazione, di allocazione (la creazione di beni pubblici europei) e di

redistribuzione (un sistema europeo di protezione sociale ed il rafforzamento dei

fondi strutturali in modo da rilanciare la convergenza reale delle regioni arretrate.

La Germania, attraverso un gruppo consistente di economisti, lamenta l’”azzardo

morale” dei paesi periferici. Nella loro interpretazione, il sistema Target2 non

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rappresenterebbe lo strumento operativo dei rapporti istituzionali fra la BCE e le

BCN preposto alle poste attive e passive contabilizzate a Francoforte, ma lo

strumento di dilazionamento del necessario aggiustamento reale delle economie

periferiche. Per provare la loro tesi, gli economisti tedeschi mettono in luce come il

rifinanziamento delle banche greche oberate dai debiti a seguito di crediti inesigibili

si presenti perfettamente correlato con l’indebitamento della Banca di Grecia

nell’ambito del Target2. Gli economisti tedeschi fanno notare come, a fine 2011, il 93

% dello stock di moneta creato dall’Eurosistema (l’autorizzazione data dalla BCE alle

BCN a stampare moneta) prevenisse dai 5 paesi periferici (Grecia, Irlanda, Italia,

Portogallo and Spagna) che rappresentano solo il 34% del PIL dell’Eurozona. Come

ha ironicamente osservato Sinn, uno degli economisti tedeschi più rigoristi, “The

European system may prove more robust than the Bretton Woods system, given that

the national central banks of the Netherlands, Finland, Luxembourg and Germany,

which accumulated Target claims instead of dollar claims, will be unable to follow

General De Gaulles’s example and convert their claims into gold (…) The Target

imbalances show that a system with idiosyncratic country risks and international

interest spreads for public and private bonds is incompatible with a monetary system

that allows countries to finance their balance-of-payments deficits with the printing

press, without having to pay for the extra money-printing with marketable assets as is

the case in the USA. Such a system will always induce the less-solid countries to

draw Target credit to avoid the risk premium that the market demands, leading

eventually to a balance-of-payments crisis. To avoid this problem, Europe has only

two options. Either it socializes national debts in order to eliminate the international

differences in interest rates (by creating a uniform default risk for all countries),

limiting excessive borrowing through the imposition of politically mandated

constraints. Or it ensures that the Target balances are redeemed annually with

marketable assets, keeping the debt burdens within the national responsibility and

allowing for country defaults and interest differentials The US obviously chose the

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second route. States can go bankrupt, excessive capital flows are prevented by state-

specific interest spreads, and the Target balances are unattractive, since they have to

be settled with marketable assets. This system is stable, because it avoids excessive

capital flows between the states and thus excessive US-internal trade imbalances.”

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Questa posizione interpretativa rivela una incomprensione della differenza fra

integrazione e convergenza. Se il sistema USA prevede la responsabilizzazione dei

singoli Stati è proprio perché ha attraversato una lunga fase di integrazione

economica, coordinata dagli interventi di politica economica del governo federale,

che ha permesso a tutti gli Stati di raggiungere un certo livello di sviluppo. L’assenza

di tale coordinamento nell’Unione Europea ha lasciato che l’integrazione fosse

affidata alla sola convergenza di mercato.

Nel grafico centrale dei tre presentati qui sopra, si può osservare la lunga fase di

“quiete” (spread con il Bund vicino a zero) fra il 1998, anno in cui superarono

l’”esame di ammissione” tutti gli 11 paesi aspiranti all’unione monetaria, ed il 2007,

anno dello scoppio negli Stati Uniti della crisi finanziaria.

Il primo dei due grafici qui sotto ripercorre le varie fasi dal restringimento

progressivo dei differenziali dei titoli pubblici della maggior parte dei paesi rispetto

alla media dell’Eurozona: dal restringimento progressivo dei differenziali fra il 1985

ed il passaggio all’UME nel 1999 (con 1 anno di ritardo la Grecia); al pressoché

completo azzeramento con l’introduzione dell’Euro nel 2002; alla stabilità intorno

allo zero del premio per il rischio di default; all’innalzamento degli spread dal 2008

al 2011. Nel grafico qui sopra la corrispondente caduta delle quotazioni.

Si può dire che l’euro nacque sull’onda di una scommessa. Nella valutazione

prevalente fra gli economisti al momento della sua progettazione agli inizi degli anni

’90, l’unione monetaria europea (UME) non era giudicata un’”area valutaria ottima”.

La previsione prevalente fu che i costi (essenzialmente, la fine delle svalutazioni

competitive) si sarebbero rivelati in eccesso rispetto ai benefici (essenzialmente, la

drastica riduzione del costo del danaro e la minore aleatorietà dei progetti di

investimento).

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INTEREST RATES. 10-YEARS GOVERNMENT BONDS

PRICES OF 10-YEARS GOVERNMENT BONDS

Mundell (1961) giudicava improbabile che i vantaggi di efficienza legati

all’accelerazione dell’integrazione economica ed alla accresciuta competizione fra i

sistemi produttivi potessero compensare l’elevata esposizione al rischio di shock

asimmetrici di paesi eterogenei. Successivamente ad uno shock negativo,. la rigidità

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del mercato del lavoro avrebbe impedito di ridurre il salario reale l’aggiustamento di

mercato non si sarebbe realizzato e l’economia sarebbe entrata in recessione. In

Europa, i paesi a più alta dinamica dei salari e più bassa dinamica della produttività

del lavoro (relativamente ai paesi “forti” come la Germania) avrebbero

maggiormente sofferto dell’impossibilità di recuperare competitività attraverso il

meccanismo di inflazione-svalutazione del cambio.

L’aspettativa di non-ottimalità dell’Eurozona non influenzò i politici, in quanto

l’avvio nel 1991 del processo di unificazione monetaria culminato nella fissazione di

tassi di cambio irrevocabili nel 1999 fu una decisione eminentemente politica

promossa da Kohl e Mitterrand, che scaturì dallo “scambio” fra rinuncia al marco

tedesco ed avallo alla riunificazione delle due Germanie. Paradossalmente, anche gli

economisti ortodossi sostennero il progetto, attratti non tanto da un’Unione Europea

sempre più integrata quanto dai cambiamenti strutturali da loro da tempo auspicati.

Infatti, per varare la moneta unica si sarebbero finalmente realizzate in gran numero

privatizzazioni e liberalizzazioni dei mercati, la politica monetaria sarebbe stata

rigorosamente anti-inflazionstica e la politica fiscale rivolta al ridimensionamento dei

deficit e debiti pubblici, con la rinuncia alle manovre discrezionali di segno

espansivo.

Inoltre, Mundell, Premio Nobel per l’Economia nel 1999, aveva corretto l’iniziale

giudizio negativo sulla moneta unica in Europa, sottolineando come le probabili fasi

di congiuntura negativa delle economie più deboli sarebbero state sostenibili anche

dopo la perdita dello strumento di politica valutaria. Infatti, la liberalizzazione dei

movimenti dei capitali avrebbe permesso un costante flusso di capitali verso le

economie più arretrate e la fine del rischio di cambio avrebbe assicurato una più

facile gestione dei portafogli dei risparmiatori. I timori sull’investimento dei risparmi

nelle deboli economie dei paesi della Periferia venivano nell’analisi di Mundell fugati

dalla diversificazione del rischio: le perdite sui titoli delle imprese dei paesi deboli

sarebbero state compensate dai guadagni su quelli dei paesi forti; a garantire poi la

solvibilità fiscale dei governi avrebbe provveduto la BCE, attraverso la credibilità che

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la denominazione nella nuova valuta avrebbe conferito al debito. Le conseguenze

negative degli shock asimmetrici erano quindi affrontabili anche dalle economie

periferiche. Il sostegno all’avvenuta decisione di varare l’euro venne infine

razionalizzato con l’idea rassicurante che il computo costi-benefici andasse fatto

tenendo conto del mutamento strutturale, e calcolato in base a modelli

macroeconomici dove i coefficienti delle variabili considerate fossero quelli ex post

(per ipotesi, migliori) e non quelli ex ante (si veda Frankel e Rose, 1998).

L’ottimistica previsione di Mundell non ha finora trovato conferma. L’incentivo

all’attività di investimento rappresentato dalla forte riduzione del costo del danaro

(per la fine del rischio di cambio e la sostanziale riduzione del premio sul rischio di

default) non ha dato i frutti sperati, neppure negli anni iniziali dell’Eurozona (1999-

2006) che hanno preceduto la crisi finanziaria e la successiva Grande Recessione. E’

vero che l’integrazione finanziaria ha visto le banche del Nord Europa acquistare

attività emesse sia del settore pubblico che da quello privato dei paesi della Periferia,

che fino al 2005-06 hanno conosciuto i tassi di crescita più elevati. Ma ciò ha solo

creato l‘illusione delle virtù miracolose della ricetta supply-side: più liberalizzi i

mercati, riduci le tasse e ridimensioni il sistema di protezione sociale, più sprigioni le

forze progressive dei mercati. In realtà, la carenza di capacità imprenditoriali nei

settori tecnologicamente avanzati fece sì che nella Periferia dell’Eurozona

l’espansione degli investimenti favorita da bassissimi tassi di interessi reali si

concentrassero nei settori finanziari ed immobiliari. Il forte processo di integrazione

finanziaria avvenuto all’interno dell’Eurozona non ha prodotto lo sperato

rafforzamento dei fattori di crescita delle economie periferiche, rimanendo solo una

tessera del più generale fenomeno della globalizzazione. Inoltre, ci troviamo oggi di

fronte ad un’inversione di tendenza dell’integrazione finanziaria in Europa. Le

operazioni della BCE di rifinanziamento delle banche (le LTRO) hanno avuto

l’effetto di favorire una “rinazionalizzazione” del debito pubblico dei paesi

dell’Eurozona e dei capitali bancari.

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Vale allora la pena ricordare come, negli ultimi due decenni, soltanto due paesi – a

partire dai primi anni ’90 l’Irlanda, un po’ di anni più avanti la Spagna – sono stati

capaci di tradurre in realtà il catching-up previsto dalla modellistica della

convergenza economica. Sono però questi i paesi dove la “rincorsa” ai reddito pro

capite dell’ “Europa avanzata” ha fatto leva non tanto sull’efficienza dinamica quanto

su fattori trainanti particolarmente fragili quali le “bolle” immobiliari e bancarie (ed

in Irlanda anche la competizione fiscale). E sono di nuovo questi i paesi (la Grecia è

un discorso a parte) dove la crescita e la convergenza economica sono state colpite a

morte dallo shock macroeconomico originato dalla crisi finanziaria.

Le vicende europee dimostrano che in un’economia in cui l’adozione di una moneta

comune con i paesi concorrenti sottrae al tasso di cambio reale (l’indicatore della

competitività) la “valvola di sfogo” dell’accomodamento nominale non riesce a fare

fronte ad uno shock sistemico. La competitività delle economie “emergenti” sui

mercati internazionali gode dei benefici del regime dei cambi flessibili vigente fra le

principali aree valutarie. Del beneficio di opportune oscillazioni del cambio nominale

non godono invece i paesi periferici dell’area valutaria europea, sicché

l’aggiustamento di mercato (fuor di metafora, il drastico abbattimento dei costi di

produzione attraverso la riduzione dei salari ed il ridimensionamento della forza

lavoro stabilmente occupata) si rivela insufficiente a creare le condizioni per il ritorno

alla crescita. Gli incentivi messi in campo dal libero mercato non si rivelano

sufficienti, almeno in Europa, per realizzare il catching-up. I sistemi produttivi più

deboli hanno bisogno della progettazione pubblica di un ambiente favorevole

all’innalzamento della “produttività totale dei fattori”, ovvero ricerca tecnologica,

istruzione e infrastrutture. Nell’ Eurozona, il sostegno di appropriate istituzioni

comuni, avviando il passaggio dal coordinamento delle politiche fiscali

indispensabile a “rassicurare” i mercati all’unione fiscale, non sembra più a lungo

procrastinabile.

L’errore non è stato l’euro, ma la insufficiente struttura istituzionale che ha minato i

potenziali benefici della moneta comune sulla crescita delle economie europee. Si è

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troppo a lungo ignorato che le istituzioni rivestono un ruolo fondamentale ed

insostituibile nel contenere gli effetti degli shock ed accelerare il cambiamento

strutturale delle economie. Questa grave sottovalutazione ha molto pesato allorché la

crisi finanziaria ha messo a nudo tutte le pecche del disegno dell’Eurozona. Una volta

affidata la creazione di moneta alla francofortese BCE, ed assoggettate le politiche

fiscali al vincolo del PSC, dell’assenza di una sufficiente convergenza reale non ci si

preoccupò. A contrastare eventuali shock esogeni ci avrebbe pensato la capacità di

aggiustamento che i mercati liberalizzati avrebbero raggiunto grazie all’integrazione.

L’adozione poco meditata dell’ideologia liberista fece così dimenticare che la

convergenza nominale che ha portato all’euro in nessun modo rappresentava la

garanzia di una spontanea realizzazione della convergenza reale, ovvero di un

progressivo abbattimento del costo del lavoro per unità di prodotto

(salario/produttività del lavoro) verso i valori delle più efficienti economie del Nord.

Oggi, di fronte alla grave crisi dei paesi della Periferia, “le stesse cose ritornano”. I

valori della dinamica del PIL – positivi in Germania e gravemente negativi nella

Periferia – non sono soltanto la conseguenza del rientro dal debito pubblico generato

dai salvataggi delle banche, ma dimostrano che il problema della convergenza reale

fra le economie europee è ancora tutto da affrontare. Oggi, per uscire dalla crisi,

occorrerebbero esattamente le stesse scelte di policy che si invocavano allora: una

BCE che non fosse fotocopia della Bundesbank, politiche fiscali di stabilizzazione

coordinate a Bruxelles; adeguati finanziamenti comunitari di sostegno allo sviluppo.

Tredici anni fa, se fosse stato sorretto da un coordinamento istituzionale all’altezza

dei complessi aggiustamenti reali che avrebbero dovuto accompagnare l‘introduzione

dell’euro, i sistemi produttivi più deboli della Periferia sarebbero forse riusciti ad

utilizzare l’abbattimento dei tassi di interesse e dei costi di transazione per accrescere

l’efficienza produttiva; ed i governi (in primis, i paesi con un rapporto debito

pubblico/PIL superiore al 60%, all’epoca solo Italia, Belgio e Grecia) a destinare le

somme risparmiate grazie alla minore spesa per interessi prima alla decumulazione

del debito pubblico e poi al finanziamento di investimenti in infrastrutture ed al

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miglioramento del capitale umano. Oggi, con il sistema bancario imballato dal

deleveraging e la domanda interna depressa dal moltiplicatore negativo del bilancio

pubblico, imprese e governi nazionali non possono sperare nelle sole “magnifiche

sorti e progressive” dell’aggiustamento di mercato e del consolidamento fiscale. La

ripresa della crescita nella Periferia, se ci sarà, sarà trainata dall’Europa unita.

La moneta unica fu salutata dai mercati come una specie di bonanza. Le bolle

speculative alimentate da tassi reali di interesse vicini allo zero negli anni 2004-07 –

soprattutto in Irlanda e Spagna – e la competitività declinante in concomitanza con

politiche di consolidamento del bilancio pubblico monitorate dal PSC – soprattutto in

Grecia, Portogallo ed Italia - erano chiari segnali di una crescita poco solida, ben

prima dell’arrivo della crisi finanziaria nata oltre-oceano. Evidentemente, le

prospettive di facili guadagni indussero gli operatori finanziari – in primo luogo le

banche – a puntare sui profitti di breve periodo. In nome dello short-termism, in

alcuni paesi della Periferia si alimentò un ciclo espansivo imperniato sul settore

immobiliare e sulla continua salita dei listini della borsa. Attratti dai più elevati

rendimenti, i capitali si trasferivano dal Centro alla Periferia. Si preferì ignorare che a

risparmi in calo per la crescita dei consumi si sommavano decisioni di investimento

che erano lungi dal garantire un sano processo di catching-up basato sui settori

produttivi avanzati.

Il fatto è che nei mercati dei paesi periferici si determinarono erronei segnali di

prezzo: il tasso di interesse nominale sul credito rifletteva troppo da vicino il tassi di

interesse “comune” sull’euro, senza tenere quindi conto non solo delle condizioni di

capitalizzazione delle banche ma soprattutto del fatto che il tasso di interesse reale era

quasi zero (registrando i forti differenziali di tasso di inflazione rispetto ai paesi del

Nord dell’unione monetaria) ed il tasso di interesse sui titoli pubblici, che dovrebbe

essere sensibile all’andamento di deficit e debito pubblici, presentava spread quasi

nulli con i Bund tedeschi. In questa ”bolla” di “illusione finanziaria” i mercati si

comportarono come se si fosse in presenza di un’area valutaria che prevedesse la

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funzione di prestatore di ultima istanza per la banca centrale ed una garanzia

“comune” sullo stock di titoli sovrani dei paesi del Nord come del Sud Europa.

Perché i prezzi dei mercati non registravano aspettative molto incerte sulla crescita

futura dei paesi periferici dell’Eurozona, e quindi la scarsa solvibilità dei debiti

privati e sovrani? Primo, le banche centrali nazionali (BCN) dei paesi periferici

sottovalutavano il rischio preso da istituti bancari fortemente esposti a breve termine

nel finanziamento di investimenti di lungo termine, cui si aggiungeva l’azzardo di

portafogli squilibrati verso titoli ad alta volatilità. Secondo, la condizione di

“sostenibilità” del debito pubblico era clamorosamente assente. Qualche anno di

crescita accelerata non basta a generare aspettative di flussi di reddito futuri – e

perciò di entrate fiscali - adeguati al rimborso del debito pubblico. Su tale miopia

delle BCN si innestò la crisi economica. All’insolvenza delle banche, a fronte di

crediti inesigibili, si sommò - una volta che il loro debito privato veniva trasformato

in debito pubblico – il perverso “moltiplicatore” della crisi determinato dall’intreccio

debito bancario-debito sovrano. Seguirono la stasi del credito, il crollo della

domanda, la sfiducia dei consumatori a basso reddito e la forte restrizione fiscale

(l’”austerità”) imposta dall’esplosione del rapporto debito pubblico / PIL .

Detto tutto ciò, nel vertice di Bruxelles i leader europei sono riusciti a fare abbastanza

per evitare che nell’unione monetaria rimanesse alla mercé dei mercati.

Va sottolineata la grande portata di due principali decisioni: La prima: La fine del

nesso fra debito delle banche e debito pubblico. Con l’intervento finanziario a favore

delle banche da parte dell’Esm - invece che degli Stati - viene sanata l’assurdità

dell’incremento – del tutto gratuito – che ne conseguiva nel debito pubblico.

L’incremento del rapporto debito pubblico / PIL, a sua volta, si veniva a ripercuotere

sull’affidabilità e sulla capitalizzazione delle banche stesse. ed il valore dei titoli

pubblici dati in garanzia alla BCE diminuiva, con gravi effetti sulla strategia di

rafforzamento dei capitali voluta da Basilea3. C’erano poi altri due effetti perversi: (i)

l’incremento sulla spesa per interessi - e quindi aggiuntive emissioni di titoli -

conseguente all’aumento dello spread dopo un aumento del debito sovrano; (ii) il

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grave nocumento alla concorrenza, in quanto imprese simili – ma appartenenti a

sistemi-paese diversi – finivano con il finanziarsi a tassi di mercato molto divaricati

fra Centro e Periferia.

L’ostinazione tedesca nell’opporsi ad una garanzia collettiva sulle situazioni debitorie

nazionali era stata solo mitigata dalla scelta di Draghi di inondare le banche di

liquidità al tasso dell’1% per permettere loro di acquistare il debito sovrano di paesi a

rischio di chiusura del finanziamento dei mercati. Il nuovo fondo salva-stati Esm

potrà acquistare - direttamente e sul mercato primario - i bond pubblici una volta che

lo spread si avvicina ad una soglia (ancora da definire) e la BCE dovrebbe ricevere

l’autorizzazione ad agire in simbiosi con l’Esm e permettere al fondo di dotarsi di

munizioni ben superiori agli attuali 500 miliardi di euro (del tutto insufficienti, se

fosse ad esempio l’Italia a trovarsi nelle condizioni di richiedere un prestito). Siamo

molto vicini - in via indiretta – a quella funzione di “prestatore di ultima istanza”

della BCE il cui divieto la Germania volle inserire nello Statuto della banca centrale.

Ragionevolmente, la sola condizione per esaudire una richiesta di intervento è che il

sostegno finanziario non fronteggi una crisi di insolvenza, ma una crisi di liquidità

causata da un’impennata dello spread. Infine, la fiducia degli investitori privati

dovrebbe essere rafforzata dall’avere deciso che i prestatori istituzionali (come

l’Esm) non godranno più dello status di creditori privilegiati in caso di insolvenza.

La seconda: Un primo passo verso l’Unione bancaria. In attesa del passaggio a

Francoforte anche della regolamentazione e vigilanza sui sistemi creditizi e finanziari

è stato approvato l’intervento finanziario dell’Esm a favore delle banche in difficoltà

e delle loro esigenze di ricapitalizzazione, con la supervisione finanziaria dei bilanci

delle banche assegnata alla BCE. L’aspetto innovativo di tale decisione risiede

nell’avere di fatto superato l’altro veto tedesco: il pooling – la garanzia “comune” –

delle passività. Si tratta di una condivisione del rischio che per ora è limitata alle

passività delle banche private e domani – quando, e se, si darà avvio all’Unione

fiscale – dovrebbe estendersi alle passività degli Stati.

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Come anticipavo all’inizio, il problema vero continua ad essere quello della crescita.

I leader europei non riescono neanche ad impostare la sua soluzione e lo collocano

nel “lungo periodo”. I finanziamenti stanziati durante i vertice sono infatti

insufficienti e lo strumento dei project bonds tutto da definire.

Il problema è grave e di difficile soluzione perché è nato a Maastricht. Nella struttura

istituzionale disegnata a Maastricht alle politiche fiscali nazionali venne demandato il

compito di fronteggiare con interventi espansivi gli shock asimmetrici (mentre alla

politica monetaria della BCE fu assegnata la responsabilità di reagire agli shock che

colpiscono allo stesso modo tutti i paesi membri). Maastricht immaginava che

squilibri limitati ad un paese - causati da cadute della domanda o da incrementi nei

costi di produzione - avrebbero potuto essere agevolmente risolti utilizzando riserve

di entrate fiscali e - nei casi di grave recessione - sostegni pubblici finanziati con

emissione di titoli. L’unica condizione era un livello basso del rapporto debito

pubblico / PIL.

Non è andata così, come dimostrano le gravi crisi in cui si dibattono ancora oggi due

paesi inizialmente a basso debito pubblico come Irlanda e Spagna. Il perché è presto

detto. Maastricht ha avuto la colpa di sottostimare la forte eterogeneità dei paesi

periferici rispetto al Centro. In particolare, due “ritardi” strutturali: (i) la debolezza di

alcuni sistemi bancari, dovuta all’inefficienza della regolamentazione nazionale; (ii)

il divario di efficienza produttiva della Periferia nei confronti del Centro, che prima

del passaggio all’euro veniva mascherato dal progressivo riallineamento nominale del

tasso di cambio e che ha poi generato l’accumularsi di perdite nella bilancia

commerciale di paesi come Grecia, Portogallo, Spagna e (in misura molto minore)

Italia.

L’equazione : (S – I) = (G – T) + (X – M) – come più volte detto - rappresenta

l’equilibrio macroeconomico complessivo di un sistema economico. Ogni

diseguaglianza fra le variabili all’interno di ciascuno dei tre settori - Risparmi e

Investimenti nel settore privato, Spesa pubblica (G) e Tassazione nel settore pubblico,

ed Esportazioni (X) ed Importazioni (M) nel settore estero - viene a scomparire nella

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somma algebrica delle varie poste. Ciò vale sia riguardo ai singoli settori all’interno

di ciascun paese, sia nell’annullamento degli squilibri reciproci all’interno di un’area

valutaria.

L’equilibrio macroeconomico dell’Eurozona nel suo complesso è naturalmente

un’identità contabile. Al netto dell’interscambio dell’Eurozona con il resto del mondo

(il cui bilancio non si allontana mai troppo dal pareggio) una posizione di squilibrio

in surplus in un paese o gruppo di paesi (Centro o Periferia) corrisponde una

posizione di squilibrio in deficit in un altro paese o gruppo di paesi (Centro o

Periferia). L’Eurozona si presenta oggi fortemente divaricata fra un Centro in surplus

ed una Periferia in deficit.

A partire dall’avvio dell’unione monetaria – ed in misura crescente all’indomani della

crisi finanziaria - in alcuni paesi (in primis la Germania, seguita da Austria e

Finlandia) si registra un surplus dei risparmi sugli investimenti cui corrisponde un

surplus di bilancia commerciale, mentre i paesi della Periferia sono gravati da deficit

di conto corrente provocati da una forte dinamica del tasso di cambio reale effettivo,

la cui misura, il costo del lavoro per unità di prodotto (CLUP), indica la competitività

del sistema economico. Nella Periferia, in particolare in Irlanda e Spagna, l’origine

del problema risiede nella rapida espansione della domanda domestica, dove alla

discesa del risparmio hanno corrisposto le “bolle speculative” invece che gli

investimenti produttivi necessari alla crescita e alla “sostenibilità” dell’indebitamento

bancario e sovrano. In Grecia, Portogallo ed Italia, un ruolo importante nel favorire

l’accumularsi di deficit commerciali con l’estero (il cui corrispettivo è il surplus

commerciale del Centro) è stato svolto in anni passati anche dai deficit presenti nel

bilancio pubblico.

Il messaggio di questa contabilità macroeconomica è semplice. I paesi della Periferia

non hanno individualmente le risorse non solo per realizzare il catching-up di lungo

periodo, ma neppure per uscire dalla recessione e stimolare la ripresa economica per

bloccare i deficit con l’estero di breve periodo. L’attuale crisi dimostra come la

struttura istituzionale dell’unione monetaria fosse inadeguata a fronteggiare un grave

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shock esogeno, qual è stata la “crisi finanziaria americana”. Per riequilibrare

esportazioni ed importazioni, questi paesi non hanno altra strategia che di

deflazionare l’economia, provocando una discesa del CLUP, e quindi del reddito e dei

consumi. Gli elevati costi sociali di una tale strategia sono già sotto gli occhi di tutti.

La conseguente risalita del risparmio, da cui ci si aspetta un miglioramento della

bilancia commerciale, potrebbe però bastare. Essa, infatti, causa una variazione di

segno positivo sul lato sinistro dell’equazione, proprio mentre sul lato destro la forte

restrizione fiscale produce nel bilancio pubblico una variazione negativa. Il fatto è

che nel settore estero si registra un andamento diverso da paese e paese (in 3 delle 5

economie periferiche le esportazioni conoscono una riduzione superiore alla discesa

indotta dalla recessione nelle importazioni) ma complessivamente ben lontano dal

generare quel valore ampiamente positivo di ripresa delle esportazioni che sarebbe

necessario per ripristinare l’equilibrio macroeconomico complessivo e frenare così la

recessione evitando ulteriori cadute del reddito.

In sintesi, al prezzo di una drastica deflazione anche la Periferia ora presenta un

risparmio netto nel settore privato, ma lo squilibrio macroeconomico – e quindi la

necessità di trasferimenti di capitali direttamente o indirettamente provenienti dal

Centro – persisterà fintantoché non verrà alleviato il divario di efficienza con il

Centro.

Anche portando in pareggio il bilancio pubblico in modo da comprimere i consumi:

(S > I) < (G = T) + (X < M)

l’eccesso di risparmio è insufficiente per eliminare il deficit commerciale poiché lo

squilibrio non è colmabile senza una forte ripresa di competitività rispetto al Centro

La contabilità macroeconomica suesposta, pur nella sua approssimazione, mostra

come l’unione monetaria non possa andare avanti senza tenere conto della divergenza

reale che mina la coesione economica e sociale al suo interno. A Maastricht si puntò

su una progressiva convergenza fra i sistemi economici, nell’aspettativa che le

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condizioni di minore incertezza conseguenti al processo di unificazione monetaria

avrebbero favorito il catching-up. Si è probabilmente trattato di un eccesso di fiducia

nelle “magnifiche sorti e progressive” delle libere forze del mercato. Ora bisognerà

affrettarsi a creare le strutture istituzionali che mancano nella costruzione europea.

Occorre un progetto per la crescita, dove l’idea di integrazione della Periferia con il

Centro abbia la stessa dignità dell’idea di convergenza spontanea, guidata dalle sole

forze di mercato, da parte delle economie “meno avanzate”. E’ forse il caso di

rammentare ai capi di governo dell’Eurozona che uno dei principali strumenti di

politica economica per l’integrazione, come l’economia del benessere e la scienza

delle finanze insegnano, è l’unione fiscale.

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Parte Quarta. Governance macroeconomica e coesione sociale

nell’Unione Monetaria Europea

1. L’economia dell’UME e a Grande Recessione

Nel 2013 la Grande Recessione continua in Europa. Le economie avanzate registrano

il double-dip, la doppia caduta, nel tasso di crescita (vedi Tabella 1), in diminuzione

dal 2007 al 2009 e nuovamente nel 2012 dopo la parentesi del 2010. Parallelamente,

scende la quota dei salari nel reddito: il tasso di disoccupazione è salito dal 5,8%

(2007) all’8,5% (2011) della forza lavoro; e l’indice della crescita cumulata del

salario reale, riproducendo la doppia caduta del reddito, è di nuovo in decremento:

ponendo pari a 100 il valore del 2000, l’indice era salito a 103.3 nel 2006 ed a 104.5

nel 2007, si era ridotto a 104.1 nel 2008, è tornato a salire nel 2009 (104.9) e nel

2010 (105.5), per poi scendere nuovamente a partire dal 2011 (105.0) (ILO, 2013).

Anche nell’Eurozona, il double-dip, da tempo paventato soprattutto dai governi

della Periferia alle prese con la sostenibilità del bilancio pubblico, è divenuto realtà

negli indicatori macroeconomici per il 2012 (vedi Tabella 1). Il tasso di crescita del

PIL, negativo nel 2009 in tutti i paesi, è tornato nel 2012 nuovamente negativo in

Italia e Spagna, di poco superiore allo zero in Francia e di poco positivo in Germania.

La previsione sul PIL per il 2013 è di una rinnovata divergenza tra la crescita della

Germania, che è ripartita nel primo trimestre, e quella dei paesi periferici, più

Slovenia e Cipro, dove l’anno in corso si concluderà probabilmente di nuovo con un

abbassamento del PIL. Molto preoccupante il dato di crescita negativa dell’Italia,

dopo che quello finale del 2012 è stato corretto al rialzo (Vedi Tabella 1).

Confrontando le proiezioni su reddito e disoccupazione con i dati delle aree valutarie

del dollaro e dello Yen, la previsione sul benessere futuro nei paesi dell’Eurozona e

sulla sua distribuzione fra le persone appare poco lusinghiera (vedi Tabella 2).

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Tabella 1. Tassi di crescita del PIL reale

1994

-

2003

200

4

200

5

200

6

200

7

200

8

200

9

201

0

201

1

201

2

201

3

(*)

economie

avanzate

2,8 3,1 2,6 3,0 2,8 0,1 -3,5 3,0 1,6 1,2 1,2

USA 3,3 3,5 3,1 2,7 1,9 -0,3 -3,1 2,4 1,8 2,2 1,9

Eurozona 2,2 2,2 1,7 3,2 3,0 0,4 -4,4 2,0 1,4 -0,6 -0,3

Germania 1,5 0,7 0,8 3,9 3,4 0,8 -5,1 4,0 3,1 0,9 0,6

Francia 2,2 2,5 1,8 2,5 2,3 -0,1 -3,1 1,7 1,7 0,0 -0,1

Italia 1,7 1,7 0,9 2,2 1,7 -1,2 -5,5 1,8 0,4 -2,4 -1,5

Spagna 3,6 3,3 3,6 4,1 3,5 0,9 -3,7 -0,3 0,4 -1,4 -1,6

Olanda 2,9 2,2 2,0 3,4 3,9 1,8 -3,7 1,6 1,1 -0,9 0,5

Belgio 2,3 3,3 1,8 2,7 2,9 1,0 -2,8 2,4 1,8 -0,2 0,2

Austria 2,4 2,6 2,4 3,7 3,7 1,4 -3,8 2,1 2,7 0,8 0,8

Grecia 3,5 4,4 2,3 5,5 3,0 -0,2 -3,3 -3,5 -6,9 -6,4 -4,2

Portogallo 2,7 1,6 0,8 1,4 2,4 0,0 -2,9 1,4 -1,7 -3,2 -2,3

Finlandia 3,8 4,1 2,9 4,4 5,3 0,3 -8,5 3,3 2,7 -0,2 0,5

Irlanda 6,9 4,4 5,9 5,4 5,4 -2,1 -5,5 -0,8 1,4 0,9 1,1

Slovacchia 4,4 5,1 6,7 8,3 10,5 5,8 -4,9 4,2 3,3 2,0 1,4

Slovenia 4,1 4,4 4,0 5,8 7,0 3,4 -7,8 1,2 0,6 -2,3 -2,0

Lussemburgo 4,4 4,4 5,4 5,0 6,6 0,8 -5,3 2,7 1,6 0,1 0,1

Estonia 5,7 6,3 8,9 10,1 7,5 -3,7 -

14,3

2,3 7,6 3,2 3,0

Cipro 4,3 4,2 3,9 4,1 5,1 3,6 -1,9 1,1 0,5 -2,4 --

Malta - -0,5 3,7 3,1 4,4 4,1 -2,6 2,5 2,1 0,8 1,3

(*) Proiezioni

Fonte: IMF (2013)

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266

Tabella 2

PIL, prezzi al consumo, conto corrente, disoccupazione (tassi di variazione annua)

PIL reale prezzi al consumo saldo di conto corrente/PIL disoccupazione proiezioni proiezioni proiezioni proiezioni

2011 2012 2013 2011 2012 2013 2011 2012 2013 2011 2012 2013Economie avanzate 1,6 1,3 1,5 2,7 1,9 1,6 -0,2 -0,4 -0,3 7,9 8,0 8,1Stati Uniti 1,8 2,2 2,1 3,1 2,0 1,8 -3,1 -3,1 -3,1 9,0 8,2 8,1Euro area 1,4 -0,4 0,2 2,7 2,3 1,6 0,0 1,1 1,3 10,2 11,2 11,5Giappone -0,8 2,2 1,2 -0,3 0,0 -0,2 2,0 1,6 2,3 4,6 4,5 4,4Regno Unito 0,8 -0,4 1,1 4,5 2,7 1,9 -0,9 -3,3 -2,7 8,0 8,1 8,1Canada 2,4 1,9 2,0 2,9 1,8 2,0 -2,8 -3,4 -3,7 7,5 7,3 7,3Altre economie avanzate* 3,2 2,1 3,0 3,1 2,2 2,4 4,7 3,7 3,3 4,5 4,5 4,6Economie asiatiche di nuova industrializzazione 4,0 2,1 3,6 3,6 2,7 2,7 6,6 5,6 5,5 3,6 3,5 3,5* economie del G7 ed altri paesi dell'eurozona esclusi

Fonte: IMF (2012) Figura 1. Indice di Gini nell’Unione Europea (2012)

Fonte: Eurostat (2012)

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267

Le difficoltà che le economie avanzate stanno incontrando nel rilancio della

crescita, dell’occupazione e dei salari, lancia un messaggio preoccupante: l’aumento

della diseguaglianza di reddito nei paesi “ricchi” non accenna a fermarsi. Come viene

autorevolmente denunciato (Stiglitz, 2013), la diseguaglianza interpersonale fra i

redditi negli Stati Uniti è in forte accelerazione. All’interno nell’Unione Monetaria

Europea (UME), l’indice di Gini segnala una netta frattura: la diseguaglianza di

reddito si colloca al di sopra del valore 0,30 nella cosiddetta Periferia - Italia, Spagna,

Portogallo, Irlanda e Grecia - ed al di sotto del valore 0,30 nel cosiddetto Centro:

Germania, Austria, Francia, Finlandia, Olanda, Belgio, Lussemburgo (vedi Figura 1)

. La disparità fra i redditi delle persone nell’Eurozona si presenta inoltre fortemente

intrecciata con la disparità in aumento fra i redditi pro capite degli Stati membri

(European Commission, 2012), il che preoccupa anche per l’impatto negativo sul

giudizio degli elettorati sulla moneta unica.

Nel prosieguo, l’attenzione verrà concentrata soprattutto sulle cause della

Grande Recessione e sul suo impatto sulle diseguaglianze fra le persone ed i paesi

dell’Eurozona. Verrà approfondito il ruolo giocato dalle politiche macroeconomiche

che hanno regolato i processi di convergenza nominale (i cambi fissi a banda stretta

dello SME dal 1979 al 1992; i criteri di Maastricht dal 1993 al 1998) e dalle

istituzioni dell’unione monetaria - la BCE ed il Patto di Stabilità e Crescita (PSC) -

negli ultimi quindici anni (1999-2013). In particolare, si esaminerà perché le

istituzioni di governance dell’Eurozona non siano riuscite ad impedire la crescente

divergenza fra i paesi del Centro e quelli della Periferia.

2.Le crisi finanziaria e la Grande Recessione

L’economia mondiale continua a subire le conseguenze di un sistema

monetario internazionale ereditato dal “mondo di ieri” della guerra fredda e

dell’irragionevole ondata di deregolamentazione imposta agli Stati dai mercati

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268

globalizzati. E’ opinione largamente condivisa che la liberalizzazione finanziaria che

negli ultimi decenni si è accompagnata alla globalizzazione degli scambi commerciali

ha determinato un generale incremento del grado di rischio nelle transazioni

finanziarie dei paesi avanzati (OCSE). Una seria governance macroeconomica

internazionale dei mercati del credito e dei capitali (Claessens et al., 2011) è tanto

urgente quanto improbabile nel breve termine. Infatti, la finanziariazzazione delle

economie ha grandemente accresciuto il potere degli investitori istituzionali (fondi

pensione, compagnie assicurative, etc.) e degli hedge funds . Questa comunità

internazionale dei “creditori” tiene in ostaggio governi nazionali che proprio in

seguito alla crisi finanziaria hanno dovuto ricorrere a un crescente indebitamento sui

mercati. Né i governi né le grandi istituzioni internazionali (IMF, World Bank, WTO,

etc.) sembrano in grado di realizzare azioni di coordinamento fra i paesi avanzati al

fine di rendere possibile una regolamentazione più efficace dei mercati.

Vale la pena ricordare com’è nata la crisi, riprendendo l’analisi sopra svolta.

Nel corso del primo decennio del nuovo millennio le banche statunitensi hanno

eccessivamente espanso la propria attività verso una categoria di mutui per l’acquisto

di una casa (i sub-prime) gravati da un alto rischio di mancato pagamento delle quote

di restituzione del prestito e degli interessi. Nella gran parte dei casi, i mutui

venivano concessi a soggetti a basso reddito e con posto di lavoro precario e i titoli

cartolarizzati erano venduti ai risparmiatori a condizioni di trasparenza molto opache.

Queste emissioni di CDO (Collateralized debt obligation: obbligazioni di debito

collateralizzato) che aggregavano i mutui sub-prime (appunto, obbligazioni la cui

garanzia è un debito), venivano poi frazionate nuovamente in base al rating. La

collocazione avveniva prevalentemente nei portafogli di istituzioni non-levered

(ovvero, la cui attività non si basa su liquidità presa a prestito: ad esempio, banche

centrali, fondi sovrani, fondi pensione) oppure nelle SIV (Structured Investment

Vehicles), branche esterne al bilancio delle stesse banche, in cui vengono collocate le

attività finanziarie poco liquide. A loro volta le SIV erano finanziate con linee di

credito ottenute nel mercato dei prestiti a breve termine, in modo da acquisire

Page 269: Francesco Farina Politica Economica Internazionale Parte ... · Politica Economica Internazionale Parte Prima. Equilibrio macroeconomico . 1. Le funzioni di offerta aggregata e di

269

un’ampia liquidità allo scopo di ottenere una valutazione AAA delle agenzie di

rating. La solvibilità dei titoli ABS (Asset-Backed Securities, ovvero un'emissione

obbligazionaria consistente in una cartolarizzazione, in quanto garantita dai titoli

sottostanti) e MBS (Mortgage-Backed Securities, ovvero una cartolarizzazione

garantita da mutui) - creati dalle banche e venduti sul mercato finanziario interno ed

internazionale - dipendeva dai piani di rientro della liquidità prestata ai mutuatari.

Benché definiti sub-prime, i fondi prestati per l’acquisto di una casa non potevano

presentare per le banche un’aspettativa di restituzione sufficientemente elevata.

Perché allora si moltiplicarono?

La logica del modello “originate and redistribute” è semplice. La stipula di

prestiti dà di norma luogo ad una assunzione di rischio che la banca attraverso la

successiva emissione e vendita di titoli obbligazionari derivati “ridistribuisce” –

indebolendo così di molto l’impatto di un eventuale default - su una vasta platea di

soggetti (istituzionali e non). La creazione di attività finanziarie per ridistribuire il

rischio assunto con i sottostanti titoli sub-prime ha però comportato negli Stati Uniti

dei primi anni duemila un aumento inatteso del grado di rischio dell’attività bancaria.

Ogni volta che un nuovo derivato veniva emesso, la tripla AAA faceva riferimento ad

un titolo costruito con una quota decrescente di titoli di “alta qualità”. Le emissioni di

CDO – che “contenevano” emissioni di obbligazioni la cui liquidità a scadenza era

legata all’aspettativa di restituzione delle originarie tranche di sub-prime –

presentavano un grado di rischio ben superiore alla valutazione AAA attribuita dalle

agenzie di rating. Infatti, ad ogni successiva cartolarizzazione, la tranche “migliore” -

quella che “conteneva” i sub-prime relativamente meno rischiosi - era considerata

meritevole della AAA, ma di fatto presentava un grado di rischio più elevato,

diversamente da quanto implicato dal rating attribuitole. Poiché le banche prendevano

molta liquidità a prestito per comprare attività con un grado di liquidità difficilmente

determinabile, non solo il loro leverage si andava accrescendo, ma l’assenza di

informazione sul valore dei loro derivati rendeva molto vulnerabili le attività detenute

in portafoglio.

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270

Quando il prezzo delle case cominciò a calare e si diffuse la sfiducia nei MBS,

le banche incontrarono difficoltà nel rifinanziarli ed anche il mercato degli ABS

venne contagiato. Il collasso del mercato dei prestiti a breve termine nell’estate del

2007 obbligò le banche statunitensi a fare rientrare nei loro bilanci l’ammontare di

ABS presente nelle rispettive SIV. I derivati, nati per coprire il rischio sulle attività

finanziarie detenute, si sono di fatto trasformati in un contratto di assunzione del

rischio, poiché a causa della mancata regolamentazione nei mercati del credito e del

capitale il rischio assicurabile si è trasformato in incertezza. Come ha potuto

determinarsi un Ponzi game delle dimensioni della crisi dei sub-prime?

Negli Stati Uniti, si è ampliato dagli anni ’80 in poi – soprattutto per le

famiglie dei ceti medio-bassi - il divario fra il livello di reddito necessario a

mantenere lo standard di vita ed il reddito guadagnato. Questo impoverimento

relativo ha fortemente inciso sull’aspettativa di “mobilità sociale”, principale

fondamento del “sogno americano”. Economisti come Sen, Stiglitz, Krugman e

Fitoussi hanno collegato l’espansione dei mutui alla volontà dell’establishment

politico ed economico di rilanciare la visione degli Stati Uniti come la “terra delle

opportunità”, in un epoca in cui nei ceti esclusi dal benessere si andava di molto

appannando l’aspettativa di una rapida ascesa nella scala sociale (Sen et al., 2013).

Offrire l’opportunità di divenire proprietari di una casa – mediante un mutuo

concesso da una banca, indipendentemente dal livello di reddito e molto spesso in

assenza di un posto di lavoro fisso – è divenuto l’antidoto alla crescente

polarizzazione in atto nella distribuzione del reddito, con la caduta dei guadagni del

ceto medio verso il decile dei poveri e l’innalzamento della quota di reddito percepita

dai più ricchi in virtù di superstipendi e stock option.

Successivamente allo shock negativo dei sub-prime, negli Stati Uniti

l’aggiustamento di mercato (la discesa di salari e prezzi) ha avuto un peso

preponderante rispetto all’operare dello Stato sociale, la cui tutela del lavoro e la cui

capacità redistributiva sono notoriamente molto limitate. Pertanto, la recessione ha

finito per avere effetti molto marcati nella distribuzione del reddito, perché alla

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271

probabile perdita del posto di lavoro consegue una ripresa della produzione e di

nuova occupazione che sono subordinate all’accettazione, da parte delle fasce di

forza lavoro a basso skill, della discesa del salario ad un più basso livello. Nel corso

della recessione 1980-82, i redditi percepiti dall’ultimo decile si ridussero del 20%,

recuperando il terreno perduto solo a fine anni ’90. Anche la ripresa del 2009-2010 è

stata molto penalizzante per i lavoratori a basso reddito: l’1% della popolazione con i

redditi più alti ha catturato ben il 93% della crescita del PIL.

La crisi finanziaria ha una genesi affatto diversa in Europa. Le situazioni di

illiquidità o di insolvenza sono solo in parte la conseguenza della globalizzazione

finanziaria, e cioè degli ingenti quantitativi di ABS statunitensi accumulati nei propri

portafogli dagli istituti di credito Europei trasformatisi in banche di investimento

(Acharya e Schnabl, 2010). Il problema delle insolvenze bancarie è sorto in Europa

soprattutto a causa delle forti interconnessioni fra banche di paesi eterogenei per

performance macroeconomica e per condizioni di stabilità del sistema bancario. Il

contesto nazionale ha agito da moltiplicatore del grado di rischio delle banche in

difficoltà, favorendo la rapida trasmissione del “contagio” delle situazioni di

insolvenza. In seguito ai processi di integrazione finanziaria conseguiti al

cambiamento strutturale della moneta unica, le banche del Centro hanno assunto forti

posizioni nelle attività finanziarie emesse da imprese e governi della Periferia finendo

per legarsi strettamente con il sistema bancario della Periferia.

La strategia di spostare sugli acquirenti delle obbligazioni il rischio

inizialmente assunto rientrava di norma nel novero dei comportamenti virtuosi,

poiché riguardava prestiti a grado di rischio inferiore rispetto ai mutui statunitensi.

Se una strategia di diversificazione del rischio di portafoglio si sviluppa nell’ambito

di un network di banche fortemente interconnesse, è probabile che fra gli investitori

si diffonda il pessimismo. Una volta che uno shock esogeno colpisce un paese il cui

sistema bancario abbia sviluppato ampie esposizioni cross-border in derivati illiquidi

con le altre banche del network, e queste economie presentino un forte squilibrio

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macroeconomico, si creano le condizioni per il sorgere di un rischio sistemico (Croci

Angelini e Farina, 2012).

Quando in Europa il market sentiment sulla solvibilità dei governi mutò

repentinamente verso aspettative pessimistiche, alcune grandi banche si trovarono in

difficoltà nell’assorbire le perdite causate dalla crisi dei sub-prime per la loro scarsa

capitalizzazione rispetto al grado di leverage cui si erano esposte per operare nei

mercati finanziari. Il considerevole investimento di portafoglio delle grandi banche

del Centro nel debito sovrano della Periferia – a più alto rendimento, ma a più basso

rating, in quanto più rischioso perché emesso da governi alle prese con livelli alti o in

rapido peggioramento del debito pubblico rispetto al PIL - ha peggiorato la qualità

dell’attivo delle banche. Se il valore delle passività eccede il valore delle attività, il

capitale ha valore negativo. Il default di una categoria di titoli particolarmente

rischiosa – com’è accaduto con i titoli tossici statunitensi – genera immediatamente

l’aspettativa di perdite. Quanto più esiguo è l’ammontare del capitale a sostegno delle

passività, tanto maggiore è il rischio che la crisi di liquidità si trasformi in vera e

propria insolvenza.

Perché è accaduto? La ragione principale va individuata nell’estensione della

deregolamentazione dei mercati in un’Europa con sistemi produttivi eterogenei, una

regolamentazione del sistema bancario molto inefficiente, ed un coordinamento delle

politiche di bilancio pubblico tendenzialmente deflazionistico. In mercati dove si

andava creando un pericoloso legame reciproco fra banche e governi –con

l’esposizione delle prime nelle passività rischiose dei secondi e con i salvataggi

bancari da parte dei governi - la moltiplicazione di prodotti finanziari ha reso sempre

più opaca l’informazione, riducendo l’affidabilità dei prezzi quali segnali per le scelte

dei soggetti. Ne è un esempio illuminante l’innovazione finanziaria dei CDS (credit

default swaps). Un CDS garantisce, dietro pagamento di un premio, il valore di

emissione di un titolo. Il valore di mercato di un CDS oscilla in funzione delle

credenze sul valore dell’attività assicurata, che in mercati affetti da comportamenti

puramente imitativi sono molto mutevoli. Questa forma di assicurazione del valore

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di un’attività finanziaria, invece di stabilizzare le quotazioni offrendo agli operatori

un aggiuntivo segnale di prezzo, tende a far dipendere le quotazioni dei titoli derivati

più alle credenze legate al volume dell’attività speculativa che all’informazione

sull’economia reale, accentuando l’incertezza sui moderni mercati deregolamentati.

Pertanto, l’altezza raggiunta dallo spread sui titoli pubblici dei paesi periferici

dell’Eurozona è solo in parte imputabile all’altezza del rapporto debito pubblico / PIL

ed ai fondamentali delle economie, perché dipende anche dal sentiment che prevale

sui mercati, dall’ottimismo o dal pessimismo degli operatori (De Grauwe e Ji, 2012).

Lo dimostra il fatto che il premio per il rischio di default che determina lo spread sui

titoli pubblici dei paesi periferici - lungi dal rappresentare un corretto “segnale” sulla

effettiva sostenibilità del debito di un paese - risulta strettamente correlato ai premi

crescenti che vengono richiesti sui CDS. L’esplosione degli spread sui titoli sovrani

della Periferia è in definitiva derivata dal sommarsi di tre fattori: l’incremento del

grado di avversione al rischio a livello internazionale, il rischio di credito che si è

venuto formando nei singoli paesi in base ai rispettivi squilibri macroeconomici, e il

contagio trasmesso nella Periferia dalla Grecia ( che assieme all’Irlanda è il paese con

le finanze pubbliche maggiormente dissestate ) (De Santis, 2012).

La crisi dell’Eurozona affonda le sue radici nella debole cornice istituzionale

dell’integrazione monetaria Europea. L’abolizione del “rischio di cambio”, la drastica

riduzione sull’incertezza degli investimenti, e l’abbattimento dei costi di transazione

conseguite all’introduzione dell’Euro, generarono un market sentiment di forte

ottimismo negli anni di avvio della moneta unica. L’appartenenza ad un’unica area

valutaria ha avuto effetti distorsivi sulla performance macroeconomica di alcuni

paesi. E’ noto che il tasso di interesse nominale eguale per tutti - fissato dalla BCE in

base ai valori medi di inflazione ed output gap , a fronte di persistenti differenziali fra

i paesi – riduce la capacità della politica monetaria di stabilizzare il reddito nella

misura necessaria nelle diverse economie (Farina 1999; Farina e Tamborini, 2002). In

paesi come Irlanda e Spagna si è in effetti determinata – fra il 2004 e il 2007 - una

sovra-stabilizzazione del reddito: la forte crescita dell’output, favorita dalla discesa a

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valori negativi dei tassi di interesse reali (dato un tasso di inflazione in questi paesi

superiore alla media dell’Eurozona) e dall’ampia disponibilità di credito generata

dall’integrazione finanziaria, ha alimentato la speculazione finanziaria ed

immobiliare da cui sono scaturite le disastrose “bolle” dei due paesi.

Sia i sistemi bancari della Periferia maggiormente impegnati nell’espansione

del credito (Irlanda e Spagna), che quelli del Centro nei quali si è investito nel debito

sovrano più redditizio (Germania e Francia), presentano però una regolamentazione

carente a causa della collusione fra banche private ed agenzie di supervisione. La

debolezza strutturale di parte del settore bancario europeo è stata affrontata con la più

stringente regolamentazione dell’attività bancaria di Basilea2. Tuttavia, l’entrata in

vigore del più elevato livello di capital ratio ha coinciso con l’instabilità finanziaria e

macroeconomica seguita allo scoppio della crisi finanziaria. Molte situazioni di

illiquidità si sono evolute verso l’insolvenza e dal clima di sfiducia reciproca fra le

banche è sortito un inasprimento delle condizioni del credito. Dopo l’ingente

incremento del debito pubblico provocato dai salvataggi bancari, molti governi hanno

dovuto concordare con la “troika” programmi di consolidamento fiscale per ottenere

sostegno finanziario.

Ad erodere la affidabilità finanziaria è stato non solo lo squilibrio del bilancio

pubblico ma anche quello della bilancia commerciale. In alcuni paesi periferici come

Portogallo, Grecia, e in misura minore in Italia, il conto corrente in crescente deficit -

per la divaricazione del costo del lavoro per unità di prodotto (CLUP), in continua

salita rispetto alla Germania dopo la fine degli aggiustamenti di cambio nominale - ha

generato ingenti surplus delle banche tedesche, contabilizzate nel sistema Target2

della BCE. Finché circolavano le valute nazionali, i deficit di conto corrente

trovavano copertura negli afflussi di capitale, che consentivano alla banca centrale di

aumentare la concessione di base monetaria alle banche commerciali.

L’accumulazione di posizione debitoria portava infine alla cessione di riserve

internazionali da parte della banca centrale.

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275

Con l’avvento dell’Euro, il sistema Target2 prevede che le banche centrali dei

paesi in surplus accumulino attivi contabili - e quelle dei paesi in deficit, passivi

contabili - presso la BCE. I flussi commerciali in surplus della Germania, ed in deficit

dei paesi con eccesso di importazioni con la Germania, della contabilità Target2,

risultano come attivi delle banche tedesche nei confronti di soggetti prenditori di

prestito residenti nei paesi periferici i quali con questa liquidità pagano come

aggregato l’eccesso di importazioni.

La gravità del quadro macroeconomico prodotto da crisi finanziaria e

recessione è ben noto. Dal 2008 ad oggi, nell’Irlanda dei mercati deregolamentati, in

virtù della riduzione della risalita della produttività che si è accompagnata alla

riduzione del salario la discesa del CLUP ha raggiunto il 12,5%. L’aggiustamento

reale è stata minore in Grecia (-5%) ed in Portogallo (-6%), paesi che con la Spagna

hanno registrato una notevole perdita di posti di lavoro. La disoccupazione,

all’11,5% nell’Eurozona, ha infatti toccato picchi del 25,5% in Spagna, del 24% in

Grecia, e del 15,7% in Portogallo. Prima della crisi le banche centrali nazionali

presentavano squilibri nel bilancio complessivo dell’Eurozona di importo

relativamente esiguo, in quanto il pagamento delle importazioni nette dei paesi

periferici trovavano contropartita negli afflussi di capitale di investitori privati

stranieri - prevalentemente capitali investiti in FDI (investimenti diretti esteri), nelle

azioni, e nel più redditizio debito pubblico della Periferia - provenienti dalla

Germania, ma anche dall’Olanda e dalla Finlandia. Dopo che la bancarotta Lehmann

Brothers del settembre 2008 ebbe provocato un notevole incremento nel grado di

incertezza dei mercati finanziari, una gran parte dei capitali precedentemente investiti

si sono progressivamente ritirati, cosicché a fronte delle posizioni passive della

Periferia questi paesi vantano corrispondenti crediti contabilizzati nel sistema

Target2.

Il nuovo assetto delle transazioni monetarie fra i paesi dell’unione monetaria

creato dal sistema Target2 ha senza dubbio impedito che le conseguenze della crisi

finanziaria fossero più gravi. Nel sostituirsi ad esborsi valutari a favore del paese in

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276

surplus, esso ha preservato la Periferia da una deflazione reale ancora più profonda di

quella che si è determinata. Senza Target2, le economie periferiche più indebitate

avrebbero dovuto abbattere il costo di produzione per unità di prodotto in misura ben

superiore, al prezzo di un maggiore aumento della disoccupazione e tagli ai salari ed

alla spesa sociale ancora più drastici. Gli effetti in termini di disgregazione sociale

sarebbero stati ancora più drammatici di quelli cui abbiamo assistito (EEAG, 2012).

Riassumendo. Negli Stati Uniti, la deregolamentazione bancaria degli anni ’80

è stata all’origine della commistione fra banche di investimento e banche

commerciali che prima sostenne il castello di titoli cartellizzati edificato con la

politica dei “mutui-casa per tutti” e poi ne determinò il crollo. Nell’UME, la crisi dei

sub-prime ha colpito un tessuto di banche con alto grado rischio, perché fortemente

interconnesse e appartenenti a paesi membri molto eterogenei fra loro, innescando

una situazione di rischio sistemico che si è trasmessa al debito pubblico. Ciò che deve

sorprendere non è lo scoppio della crisi, ma perché i mercati siano stati negli anni

precedenti tanto “miopi” da non “dare un prezzo” al grado di rischio del debito

sovrano. La cornice istituzionale dell’unione monetaria è stata infatti costruita sulla

base dell’idea un po’ semplicistica che denominazione in Euro del debito sovrano ed

area valutaria dell’Euro fossero concetti intercambiabili. Se ciò fosse stato vero, o

quanto meno se i mercati avessero continuato ad assumere che la denominazione in

Euro rappresentasse una sorta di garanzia comune sui debiti sovrani, i flussi di

capitali cross-border sarebbero stati considerati – definitivamente e a tutti gli effetti -

flussi interni all’Eurozona, e non avremmo assistito dopo lo scoppio della crisi allo

smobilizzo del debito sovrano della Periferia da parte delle banche del Centro.

Per comprendere le ragioni dell’impatto molto pesante che la Grande

Recessione ha avuto sull’equilibrio macroeconomico dell’Eurozona e sulle

diseguaglianze fra e all’interno dei paesi, occorrerà ora analizzare le diverse regole

cui risponde la governance di politica monetaria e fiscale sulle due sponde

dell’Atlantico.

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277

3. Le politiche macroeconomiche di stabilizzazione: un confronto con gli Stati

Uniti

Nell’analizzare il nesso fra crescita economica e Stato sociale si tende spesso a

sottovalutare un aspetto importante. Le politiche macroeconomiche esercitano

un’influenza sempre più rilevante sui fattori da cui dipende l’incremento del reddito

pro capite nelle economie avanzate. Le manovre di stabilizzazione anticiclica, che nel

sistema di Bretton Woods ed in un’epoca di bassa volatilità incidevano soltanto

sull’equilibrio macroeconomico di breve periodo, finiscono oggi per incidere sul

reddito potenziale, assumendo così una funzione di cerniera fra il breve periodo e il

lungo periodo. Più in generale, la separazione fra la regolazione del ciclo economico

e le determinanti della crescita economica si è andata progressivamente affievolendo

(Delli Gatti, 2012).

L’importanza dell’“attivismo” di politica monetaria e fiscale ai fini della

ripresa economica all’indomani di un shock è particolarmente evidente. La risalita del

PIL è stata più rapida negli Stati Uniti, mentre nell’Eurozona proseguiva la

stagnazione della domanda. Come risulta dalla Figura 2, nel 2003 e 2004 il tasso di

interesse nominale viene spinto dalla Fed a valori molto più bassi che nell’UME.

Nella sequenza in Tabella 3, si osserva poi come negli Stati Uniti, solo tre trimestri

dopo l’ultimo del 2001 l’output gap negativo comincia a contrarsi; nell’UME, al

contrario, la caduta del reddito ha inizio nell’ultimo trimestre del 2001 e l’output gap

negativo continua ad ampliarsi per tutto il 2003. E’ evidente che l’informazione

sull’output gap è particolarmente preziosa nell’area valutaria Europea: il processo di

convergenza ad un ciclo economico “comune” non si è ancora compiuto e la politica

monetaria non sempre si presenta ottimale per ciascun singolo paese, data la diversa

ampiezza delle fluttuazioni cicliche. L’azione della BCE diede invece priorità

assoluta alla stabilità monetaria, benché il tasso di inflazione medio UME si

collocasse attorno al valore-obiettivo del 2% e l’output gap tardasse a restringersi.

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278

Fra il 2002 e il 2005, nonostante la presenza di output gap negativi, il tasso di

interesse è stato modificato verso l’alto. Ci sono dunque elementi per sostenere che la

BCE abbia di fatto adottato la strategia inflation targeting di immediata reazione

all’inflazione attesa, anche al prezzo di effetti deflazionistici.

In sintesi, durante gli anni di avvicinamento alla moneta unica attraverso il

soddisfacimento dei criteri di Maastricht, e poi negli anni dell’unione monetaria che

hanno preceduto la crisi finanziaria a causa dei vincoli del PSC, i governi nazionali

hanno incontrato crescenti ostacoli nello svolgere la funzione di stabilizzazione del

reddito dopo uno shock negativo. Alla politica fiscale sono state di fatto proibite non

solo le manovre discrezionali di attuazione di impegni programmatici assunti dai

governi, ma anche il normale operare degli stabilizzatori automatici (Farina e

Ricciuti, 2006). Quando un abbassamento del livello del PIL rispetto al reddito

potenziale ha messo in moto un incremento della spesa pubblica (in presenza di

declinanti entrate fiscali) è stato spesso necessario sterilizzare l’impulso degli

stabilizzatori automatici per evitare l’impatto di incremento eccessivo del deficit

pubblico.

Tabella 4: Composizione dell’ European Economic Recovery Plan (EERP)

Destinazione Impulso Fiscale (% PIL) 2009 2010 Strumenti

Famiglie 0.4 0.3 τC, τN, τWh, TR

Imprese 0.2 0.2 τWf

Investimenti pubblici 0.3 0.2 IG

Mercato del lavoro 0.1 0.1 G

Totale 1.1 0.8

Legenda: τC =tassazione consumo, τN=tassazione redditi da lavoro, τWh= contributi sociali lavoratori, τWf =contributi sociali imprese, TR=trasferimenti; G= consumi pubblici, IG=investimenti pubblici.

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279

Fonte: Coenen G. et al. (2012b)

Una forte divaricazione nella governance macroeconomica sulle due sponde

dell’Atlantico è andata in scena anche dopo la bancarotta di Lehman Brothers nel

settembre 2008. Per quanto riguarda la politica fiscale, il Tesoro americano –

mediante diversi piani di intervento, dalla Tarp all’ARRA - ha realizzato nel 2009-10

una forte espansione della spesa pubblica, che ha portato il rapporto deficit pubblico

/ PIL all’8% ed il rapporto debito pubblico / PIL ad avvicinarsi al 100%. In Europa, lo

stimolo fiscale è stato molto più debole. La Tabella 4 mostra come le politiche

discrezionali, che in via eccezionale i paesi dell’Unione Europea hanno potuto

affiancare all’operare degli stabilizzatori automatici, sono state dirette al sostegno dei

bilanci famigliari nella misura del 40% (soprattutto mediante la riduzione di tasse e

contributi sociali), generando un incremento del PIL pari all’1.1% nel 2009 e dello

0,8% nel 2010.

Per quanto riguarda la politica monetaria, la Fed si è data come priorità la

ripresa della produzione e del reddito, conformemente all’obiettivo del proprio statuto

di difendere il livello di occupazione assieme alla stabilità monetaria. Nella prima

fase della crisi (2007-09) vennero ridotti i tassi di interesse a lungo termine attraverso

operazioni di mercato aperto di acquisto di titoli al fine di stimolare gli investimenti.

Nella seconda fase della crisi (2010-12), a partire dal 2010, venne riattivato il canale

del credito interbancario . La Fed ha infatti messo in atto tre programmi di

quantitative easing (QE), concedendo alle banche enormi quantitativi di liquidità e

accettando in cambio come collaterale ogni categoria di titoli, anche quelli che sono

espressione di crediti inesigibili (i cosiddetti junk bonds).

Molto diversa, ancora una volta, la governance macroeconomica nell’UME. In

modo simile a quanto era accaduto nel 2001-03, la BCE ha infatti dimostrato scarsa

flessibilità nella manovra monetaria post-crisi. Trichet ha dato avvio al quantitative

easing con ritardo, e per importi molto più contenuti, e nel 2009 ha sopravvalutato le

tensioni inflazionistiche (non distinguendo la core inflation dall’andamento volatile

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dei prezzi dell’energia e dei beni alimentari), aumentando improvvidamente il tasso

di interesse. In presenza di output gap positivi durante la timida ripresa del 2010,

l’espansione della liquidità venne così bloccata troppo precocemente.

La BCE ha dunque inizialmente reagito in modo improvvido alla crisi

finanziaria, proprio nel momento in cui in alcuni dei paesi della Periferia si

emettevano ingenti quantitativi di titoli pubblici, poiché i governi dovevano accollarsi

le perdite bancarie (ricorrendo in alcuni casi a ricapitalizzazione, in altri direttamente

alla nazionalizzazione). Gli spread, i differenziali di tasso di interesse con la

Germania dei paesi periferici, che si erano ridotti a livelli molto bassi subito dopo

l’avvio dell’unione monetaria, ed erano calati ulteriormente nel clima di euforia dei

mercati degli anni 2004-07, hanno conosciuto una crescita esponenziale. I motivi

sono oggetto di approfondita verifica econometrica in letteratura. Le principali cause

su cui si indaga sono le seguenti.

Figura 3.

020406080

100120140160180

debito pubblico/PIL

2007

2011

Fonte: AMECO

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281

Primo, il problema della sostenibilità finanziaria del debito pubblico (vedi

Figura 3). In Irlanda e Spagna, i rapporti debito pubblico / PIL sono balzati

rispettivamente al 110% ed al 90%. In altri paesi, la crisi economica è conseguita

all’eccesso di spesa pubblica rispetto alla tassazione (in primo luogo, in Grecia), ed

alla diminuzione delle esportazioni a causa della progressiva perdita di competitività

del sistema produttivo (di nuovo la Grecia, ma anche il Portogallo e fino al 2010

l’Italia). L’aumento del debito al numeratore si è andato così ad aggiungere al crollo

del PIL al denominatore, aggravando le aspettative pessimistiche degli investitori,

anche a causa del persistente intreccio fra banche e governi.

Secondo, la mancata ripresa della crescita, causata dalla caduta della domanda

privata e pubblica e dalla declinante competitività che deprime le esportazioni, ha

accresciuto i timori dei mercati sulla capacità dei governi di disporre delle entrate

fiscali necessarie a ridurre il debito pubblico. Inoltre, nella Periferia le condizioni di

finanziamento sono fortemente peggiorate. I tassi di interesse praticati alle imprese

hanno teso a divergere da paese a paese per la trasmissione dello spread sui titoli

pubblici al costo del danaro, in misura proporzionale ai livelli cui in ciascun paese

aumentava il premio sul rischio di default; la crisi di fiducia fra le banche ha poi

causato il credit crunch - il prosciugarsi della liquidità concessa alle imprese per il

blocco del credito interbancario.

La crisi dell’Eurozona è stata fronteggiata dalla BCE con una strategia poco

aggressiva. Dall’agosto 2008 all’agosto 2011 l’aumento dell’erogazione di liquidità è

stato incrementato solo del 39%, a fronte del 201% della Fed. Dopo l’acquisto di

titoli greci, a partire dal maggio 2010, diretto a contenere la salita dello spread, la

BCE ha lanciato un programma di acquisto di debito sovrano sul mercato secondario,

ma per importi molto più limitati di quelli di Fed e BoE (vedi Figura 4).

Figura 4. Acquisti di attività finanziarie come percentuale del PIL

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(Federal Reserve, Bank of England, Banca Centrale Europea)

1.1 5.3 7.5 9.7 10.9 12.11 14.1 18.3 20.5 22.7 23.9 25.11 27.1 31.3 2.6 4.8 6.8 8.12 9.2 12.4 2009 2010 2011 2012

Fonte: Gros, Alcidi e Giovanni (2012)

L’orientamento di politica monetaria è cambiato con l’arrivo del nuovo

governatore. A partire dal dicembre 2011 - un mese dopo il suo insediamento –

Draghi ha dato avvio al Long Term Refinancing Operations (LTRO) allo scopo di

superare il credit crunch con operazioni di ampliamento della concessione di credito

alle banche ed ha cercato di porre rimedio all’asimmetria creatasi nella trasmissione

monetaria (il costo del credito molto maggiore nella Periferia che nel Centro)

riducendo il tasso di rifinanziamento per le banche da 1,50% a 1,25% nel novembre

2011, all’1% nel dicembre 2011 e allo 0,75% nel luglio 2012.

Il limite della politica monetaria della BCE è quella di fornire un sostegno solo

indiretto ai governi il cui debito pubblico è sotto l’attacco dei mercati. Sono state

infatti le banche a rivolgere le linee di finanziamento non tanto al credito alle imprese

quanto ad acquisti di titoli sovrani per sostenerne le quotazioni e raffreddare lo

spread. Tale strategia ha però perpetuato il pericoloso intreccio fra banche e Stati, che

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in alcuni paesi periferici ha frenato la discesa dello spread. Nel ricorrere al mercato

per il finanziamento dei deficit, i governi dei paesi periferici hanno sopportato due

conseguenze negative: l’aumento del debito sovrano e l’innalzamento dei profili

futuri di spesa per interessi. L’altezza degli spread, che si riverberava in emissioni a

rendimenti molto più onerosi, ha inoltre fatto sì che i governi - per conservare la

fiducia dei mercati nella sostenibilità fiscale - abbiano dovuto programmare surplus

di bilancio di volta in volta più ampi.

La strategia di alleggerimento delle posizioni debitorie delle banche non ha

potuto essere estesa ai governi. Com’è noto, lo statuto della BCE impedisce

l’impegno diretto nel sostegno ai titoli pubblici dei paesi membri, onde scoraggiare

l’azzardo morale di espansioni fiscali condotte nell’aspettativa di un eventuale bail-

out. Inoltre, per la debolezza istituzionale che le deriva dal non avere alle spalle un

potere politico, la BCE non può assumersi il rischio di credito ed ha quindi mantenuto

la seniority rispetto alle istituzioni private riguardo al rimborso del debito sovrano

che le è stato ceduto come collaterale dalle banche.

Quanto penalizzante sia, per la credibilità dell’Euro, questo paradossale status

della BCE è emerso con chiarezza durante la recente crisi di Cipro, per il cui

superamento è stato necessario ricorrere al prelievo forzoso sui depositi bancari

eccedenti i 100.000 Euro. Questa decisione contraddice l’impegno alla esenzione dei

depositi - prevista dal progetto di Unione bancaria - da qualsiasi bail-out. L’aspetto

più inquietante è però che la seniority della BCE dovrà valere anche sui prestiti

concessi a Cipro, il che implica che neppure i depositi inferiori a 100.000 Euro

possono essere considerati al riparo dal prelievo forzoso. La vicenda cipriota ha

dimostrato dunque che il varo dell’Unione bancaria è urgente anche sotto il profilo

dell’impossibilità di un intervento risoluto della BCE per affrontare le situazioni di

pericolo per la stabilità finanziaria dell’Eurozona.

Il rinnovarsi di aspettative pessimistiche sul futuro dell’Eurozona, dopo

l’inversione del breve ciclo di ripresa ed il maturare dello scenario del double-dip, ha

indotto la BCE al varo nel settembre 2012 dell’Outright Monetary Transactions

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Program (OMT), la nuova operazione di rifinanziamento delle banche con la quale la

BCE ha inteso segnalare di essere pronta a sostenere la concessione di credito ed

intervenire in ogni momento nel mercato secondario per calmierare gli spread.

Ancora una volta, perdurando l’impossibilità per la BCE di acquistare all’emissione i

titoli di debito pubblico, il sostegno ai governi è stato solo indiretto, e cioè realizzato

attraverso la concessione di credito da parte del fondo salva-stati EFSF.

La credibilità di fronte ai mercati di tale strategia di sostegno dipende dalla

garanzia che il capitale a disposizione dell’EFSF è in grado di fornire ai governi.

Sommando ai 700 miliardi trasferiti dal vecchio fondo salva-stati European Financial

Stability Facility (EFSF) al nuovo fondo, l’European Stablity Mechanism (ESM), i

due prestiti triennali alle banche tramite LTRO da 1000 miliardi, il vecchio Securities

markets programme (SMP) da 200 miliardi, e le nuove linee di finanziamento

potenzialmente illimitato dell’OMT, la disponibilità di fondi raggiunge i 2.000

miliardi. Inoltre, nell’ottobre 2012 i paesi dell’Eurozona si sono impegnati ad

trasmettere al nuovo fondo salva-stati ESM una maggiore dotazione di capitale.

Tuttavia, è mancata la decisione che avrebbe avuto l’effetto di tranquillizzare

definitivamente i mercati: il varo del meccanismo sostitutivo della fondamentale

funzione di prestatore di ultima istanza - Lender of Last Resort (LoLR) - di cui è

priva la BCE, ovvero il finanziamento immediato ai governi in difficoltà attraverso

l’acquisto del debito pubblico da parte dell’ESM. La concessione all’ESM della

prerogativa di godere dell’accesso diretto al finanziamento della BCE, fornendo come

collaterale il debito pubblico acquistato con il proprio fondo di dotazione, è stata

infatti rinviata al momento in cui vedrà la luce l’Unione bancaria. Se l’ESM potesse

emettere obbligazioni offrendo i 700 miliardi come garanzia si raggiungerebbe

l’obiettivo di una capacità di aiuto finanziario per la sostenibilità del debito pubblico

di tutti i paesi periferici.

Negli anni di aspettative ottimistiche sul futuro dell’Eurozona, l’integrazione

finanziaria aveva notevolmente accresciuto la diversificazione sull’estero dei

portafogli finanziari. La quota del debito pubblico nazionale detenuto dalle banche –

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la cosiddetta home bias dei portafogli - era scesa nel 2007 al 25% circa del totale in

Germania, Italia, Spagna e Portogallo in seguito all’integrazione finanziaria ed alle

aspettative ottimistiche che prevalsero nella prima fase dell’Euro - (BIS, 2012).

L’incertezza sulle sorti dell’Eurozona ha provocato la ri-nazionalizzazione del debito

pubblico Gli elevati livelli raggiunti dagli spread nella Periferia hanno indotto le

banche del Centro alla flight to quality, la fuga verso i titoli di qualità. Tenendo

presente la fragilità istituzionale di un’unione monetaria priva di un potere statuale

sovrano e di una banca centrale che possa svolgere la funzione di LoLR, è

comprensibile come - anche in presenza di significativi tagli ai deficit di bilancio -

dal 2010 in poi i mercati abbiano tenuto sotto pressione i paesi periferici. Soprattutto

dopo che la drammatica crisi della Grecia ha innescato il contagio verso il debito

pubblico degli altri paesi periferici, ingenti flussi di capitale, in rientro dalla Periferia

verso il Centro, hanno provocato la riduzione del tasso di interesse sul Bund tedesco e

l’aumento di quelli della Periferia. Soprattutto le banche tedesche e francesi hanno

ristrutturato i portafogli riducendo l’investimento nei redditizi titoli greci e

sostituendolo prevalentemente con debito sovrano nazionale.

Ci si deve chiedere quanto appropriata sia stata la strategia di recupero della

fiducia dei mercati. Il limite principale della attuale governance macroeconomica è

rappresentato dall’approccio della “condizionalità”, gli impegni cui è soggetto il

finanziamento del fondo salva-stati ai governi in difficoltà della Periferia. La

cosiddetta politica fiscale dell’”austerità” - richiesta dalla cosiddetta troika (BCE,

Commissione Europea, IMF) per accelerare il rientro da elevati deficit e debiti

pubblici - è finalizzata a rassicurare i mercati, impedendo l’opportunismo ex post dei

governi periferici, ovvero la mancata attuazione - una volta ottenuti i fondi - delle

misure fiscali restrittive secondo le regole ed i tempi concordati. Il fatto è che la

troika ha sistematicamente sottostimato gli effetti deflazionistici che gli impulsi

fiscali restrittivi generano nel corso di una grave crisi. Una BCE dotata di poteri

illimitati di intervento sui mercati - al pari della Fed, della BoE e della BoJ - avrebbe

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evitato sia lo spreco di risorse regalate, con gli eccezionali livelli raggiunti dallo

spread, alla rendita finanziaria, sia i sacrifici, enormi quanto evitabili, inflitti

successivamente alle popolazioni dalle gravose misure di restrizione fiscale.

La “condizionalità” dell’accesso dei governi al prestito dell’ESM alle misure

fiscali di austerità prolunga quindi l’incertezza sui destini dei paesi dell’Eurozona.

Come si è già messo in luce, il problema di fondo è l’impianto istituzionale

dell’Eurozona. Poiché il nuovo fondo salva-stati (European Stability Mechanism:

ESM) potrà finanziarsi presso la BCE solo dopo che sarà giunta a compimento

l’Unione bancaria, permane il meccanismo perverso secondo cui il debito privato

conseguente ai fallimenti bancari si traduce – via salvataggio e/o ricapitalizzazioni –

in aggiuntivo debito pubblico che le banche acquistano con i fondi prelevati dalla

BCE. Per autorizzare la ricapitalizzazione diretta delle banche in difficoltà da parte

dell’ESM è infatti indispensabile il varo della gestione centralizzata della vigilanza,

che dovrebbe annullare la porzione del premio richiesto dai mercati sul rischio di

default dovuta ad una possibile collusione fra banche ed autorità di vigilanza

nazionali.

Il varo dell’Unione bancaria, consentendo all’ESM di finanziarsi in misura

illimitata presso la BCE e sollevando gli Stati dalla necessità di emettere titoli sovrani

per coprire perdite di banche private, offrirà garanzie sufficienti ai mercati a fronte di

nuove insolvenze di banche europee. Quanto meno, nella valutazione dei mercati il

rischio-paese non sarà più gravato dalla reciproca esposizione delle banche e dei

governi all’altrui rischio di insolvenza. Finché l’Unione bancaria non diventerà

operativa, per rafforzare la credibilità della proclamata garanzia sulla solvibilità dei

debiti sovrani la BCE ha come sola opzione il ricorso agli annunci. Si ricorderà

l’annuncio di Draghi sulla difesa ad oltranza dell’Eurozona dagli attacchi della

speculazione: “Believe me, the ECB will do whatever it takes…”. Nel frattempo, di

fronte agli attacchi speculativi ai paesi periferici che hanno fatto sorgere dubbi sulla

stessa sopravvivenza dell’Euro, la stabilità macroeconomica è divenuta prerogativa

esclusiva dell’Ecofin. Nel prossimo paragrafo, si valuterà la strategia scelta dal

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consesso dei ministri dell’economia dei governi nell’UME, sotto la guida della

Germania, per combattere la crisi di credibilità dell’Eurozona.

4. La politica dell’”austerità” ed il debito pubblico sul PIL

L’accumulazione di un elevato rapporto fra lo stock di debito pubblico ed il

PIL, una volta escluso che si faccia ricorso al finanziamento monetario del Tesoro, è

derivato dall’esigenza di coprire i deficit primari annuali ed una crescente spesa per

interessi. In questo quadro, più alto è il tasso di interesse nominale e più basso il

tasso di crescita del reddito nominale, più alto dovrà essere il surplus primario che

stabilizza il rapporto debito pubblico/PIL (vedi BOX 1). L’aumento del premio di

rischio sul debito pubblico dei paesi periferici riflette appunto la valutazione dei

mercati di un peggioramento della sostenibilità fiscale, dopo che il tasso di crescita è

calato molto al di sotto del tasso di interesse, con la conseguenza che per stabilizzare

il debito pubblico i governi debbono programmare un più ampio surplus primario per

gli anni futuri.

Il nuovo strumento di controllo sulle finanze pubbliche nazionali, il Fiscal

Compact varato nel 2012, oltre a imporre un deficit strutturale non eccedente lo

0,5% (1% per i paesi con rapporto debito/PIL inferiore al 60%), stabilisce che in 20

anni i paesi dell’Eurozona debbano completare il rimborso di tutto il debito pubblico

in rapporto al PIL in eccesso rispetto al 60% . Ciò comporta una programmazione di

surplus di bilancio - per venti periodi futuri - di ampiezza direttamente proporzionale

al livello del rapporto debito/PIL rispetto del vincolo del 60%. L’ampiezza dei surplus

annui da realizzare è particolarmente gravosa per i paesi della Periferia: i rapporti

debito/PIL, notevolmente aumentati fra il 2007 ed il 2011 a causa della crisi (vedi

Figura 4) vedono a fine 2012 quattro paesi al di sopra del 100% del PIL: Grecia

(152,6%), Italia (127,3%), Portogallo (120,3%), Irlanda (117%) (dati Eurostat).

L’aspetto paradossale del Fiscal Compact è di essere una istituzione di governance

macroeconomica finalizzata a vigilare sui governi di un’area valutaria che presenta -

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rispetto alle altre - il più basso rapporto di debito pubblico sul PIL. Secondo il

computo dell’OECD, l’Eurozona, prima della crisi finanziaria (2007), si collocava al

77% e a fine 2012 al 79%; mentre gli Stati Uniti sono passati nello stesso periodo dal

67% all’86% (senza contabilizzare il debito delle agenzie governative), il Regno

Unito dal 58% al 107%, ed il Giappone dal 166% al 169%.

Consideriamo le due visioni dell’impatto atteso dall’”austerità” sull’andamento

del PIL. La prima, assimilabile alla prospettiva keynesiana, ritiene inevitabile che la

ricerca del pareggio di bilancio attraverso impulsi di restrizione fiscale comporti un

calo del reddito.

La seconda, la tesi degli “effetti non-keynesiani”, riflette l’analisi

macroeconomica della Nuova Economia Classica (NCE), ma anche quella dei

modelli neo-keynesiani DSGE che condividono molte ipotesi con i modelli della

NCE. Questa modellistica sostiene che il consolidamento fiscale induce un effetto

espansivo sull’output: il ridimensionamento dell’intervento pubblico indurrebbe

infatti soggetti razionali ad accrescere la domanda di consumo intertemporale, dando

quindi impulso alla crescita. Infatti, di fronte ad un abbassamento permanente della

spesa pubblica che i soggetti giudichino credibile, l’aspettativa di riduzione delle

tasse fa sì che essi si attendano un incremento del proprio reddito disponibile, il che li

indurrebbe ad aumentare il consumo (Giavazzi e Pagano, 1990). Pertanto, una

restrizione fiscale di tipo strutturale che portasse ad un ridimensionamento della spesa

sociale (ad esempio, una riforma pensionistica che fa scendere stabilmente questa

voce della spesa pubblica) sortirebbe l’effetto di cambiare il segno del moltiplicatore

del reddito – da negativo, come accade nel modello keynesiano – a positivo.

Va ricordato che l’ipotesi degli “effetti non-keynesiani” della politica fiscale

(Giavazzi e Pagano, 1990; Alesina et al., 2012; Alesina e Ardagna, 2013), è stata più

enunciata che verificata. Recenti stime econometriche (Guajardo, 2011; Perotti, 2011)

hanno confermato le conclusioni da tempo note riguardo ai limiti teorici e

metodologici di tale ipotesi (Farina e Tamborini, 2002). Deboli effetti espansivi sono

stati rilevati in piccole economie aperte (Danimarca, Irlanda, Svezia e Finlandia), ma

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solo in concomitanza con episodi di deprezzamento del cambio (Barrios et al, 2011).

A generare gli effetti espansivi sull’output è stata quindi la domanda estera, non i

tagli di bilancio pubblico. Ciononostante, l’influenza intellettuale di questo

approccio teorico sulla Commissione Europea è stata costante. Di fatto, il Patto di

Stabilità e Crescita (PSC) - che è stato in vigore dal 1997, poi rivisto nel 2005, fino

alla sua sostituzione con i vincoli ancora più stringenti del Fiscal Compact - si è

configurato come l’applicazione dell’ipotesi degli “effetti non-keynesiani” alla

politica fiscale nell’unione monetaria, in quanto prometteva che il ridimensionamento

del bilancio pubblico avrebbe dato impulso alla ripresa del PIL

.

____________________________________________________________________

BOX 1. Politica di bilancio e sostenibilità fiscale

Esprimiamo il vincolo del bilancio pubblico nel periodo t con l’equazione: (1) ( ) ( )11 )(1 −− −−−−+= ttttttt MMGTBiB Essa indica che la variazione del debito pubblico (nel periodo t rispetto al

periodo t-1) sarà positiva se lo stock di debito ereditato dal periodo precedente - comprensivo della spesa per gli interessi su tale ammontare di debito - non sarà eguagliato dalla somma algebrica fra la differenza fra spesa pubblica ed entrate fiscali e la variazione della quantità di moneta. Eliminando la notazione di tempo ed annullando il finanziamento in moneta (abolito nel corso degli ultimi decenni nelle economie avanzate), risulta che la variazione del debito sarà positiva o negativa a seconda che la somma algebrica fra saldo primario (G – T) e spesa per interessi (iB) sia positiva o negativa:

(2) iBTGB +−=∆ Per normalizzare le poste della finanza pubblica fra paesi di dimensioni

diverse, e quindi di diversa ampiezza assoluta del PIL, si suole considerare deficit e debito pubblico come percentuali del PIL. Deriviamo totalmente B/Y, ottenendo:

(3) dYYBdB

YYBd

−+=

2

1

il che equivale ad esprimere il lato destro della (4.7), una volta annullato il finanziamento in moneta, in termini di differenze:

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(4) YY

YB

YB

YB ∆

−∆

=

Ponendo b=B/Y e g=DY/Y, si ottiene:

(5) bgYBb −

∆=∆

Sostituendo la (2) nella (5) si ottiene:

(6) G T iBb bg

Y− +

∆ = −

Ponendo g=G/Y e t=T/Y, si ricava:

(7) bgib )( −+−=∆ τγ Ponendo g - t = v (surplus/PIL), l’azzeramento della crescita del rapporto

debito pubblico/PIL (∆b = 0) si realizza allorché nel saldo di bilancio si registra un surplus - indichiamo questa grandezza con v’ - il cui valore eguaglia il prodotto fra la somma algebrica di tasso di interesse nominale (i) e tasso di crescita del PIL nominale (g), e lo stock di debito pubblico in rapporto al PIL (b):

(8) v ‘ = (i – g) b La condizione affinché sia fermata l’ulteriore accumulazione di debito in

rapporto al PIL è dunque che la formazione di surplus di bilancio sia tale da eguagliare la differenza fra il tasso di interesse e il tasso di crescita del reddito moltiplicata per il rapporto debito pubblico/PIL.

Una politica di restrizione fiscale – la cosiddetta “austerità” - influenza il surplus di bilancio pubblico che stabilizza il rapporto debito/PIL per due vie: 1) attraverso la derivata δ g / δ d (la variazione indotta nel tasso di crescita g) ; 2) attraverso la derivata δ b / δ d (la variazione indotta nel rapporto debito/PIL) .

Si analizzeranno ora gli effetti di una politica di “austerità” studiando la derivata del surplus/PIL che stabilizza il debito/PIL rispetto al deficit/PIL ( δ v’ / δ d ).

(9)

( )'t t tt t t

t t t

g bb i gd d dν∂ ∂ ∂

= − + −∂ ∂ ∂

Quale che sia la prospettiva interpretativa - keynesiana o neo-classica - si può ritenere che inizialmente il reddito non potrà non risentire di un impulso fiscale restrittivo, cosicché ad una discesa del deficit al denominatore conseguirà una discesa del PIL al numeratore. Si deve perciò presumere che il primo termine di questa derivata – dato il segno meno davanti al valore positivo del moltiplicatore – sia inizialmente negativo.

Per quanto riguarda il secondo termine della derivata, è opportuna una valutazione empirica relativa ai paesi periferici, in quanto è ad essi che è in primo luogo richiesta la manovra di restrizione fiscale. Consideriamo a tale scopo l’identità

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291

che lega fra loro i valori del rapporto debito pubblico/PIL (b) in due periodi diversi attraverso il deficit pubblico sul PIL ( d):

(10) b = d + bt-1 (Yt-1 / Y t ) Si è visto che il tasso di crescita g , che può essere scritto come: [ ( Yt-1 / Y t) –

1 ] , è legato positivamente al rapporto deficit pubblico /PIL. Si dimostra (Maurer, 2012) che la derivata del surplus che stabilizza il debito pubblico sul PIL (v’) rispetto al rapporto deficit pubblico/PIL (dt) presenta questa relazione con il tasso di crescita g e con il rapporto debito / PIL della (10):

(11)

( )1 2

' 111

t tt

t t t

gbd d gν

∂ ∂= −

∂ ∂ +

Anche approssimando ad 1 il valore di (1+gt)2 , un’ipotesi che favorisce un segno positivo nella derivata δ b / δ d), è probabile che una politica di austerità - di riduzione del deficit/PIL con l’obiettivo di ridurre il debito e porre un calmiere sullo spread - sia destinata all’insuccesso. Infatti, la derivata del debito rispetto al deficit è negativa se si determinano due condizioni: 1) il debito/PIL ereditato dall’anno precedente è al di sopra del 100% 2) il moltiplicatore fiscale δ g / δ d è non inferiore ad 1. La prima condizione riflette la situazione di tutti i paesi periferici dell’Eurozona, nei quali il debito pubblico supera il 100% del PIL. La seconda condizione è di difficile valutazione, dal momento che le stime econometriche condotte in base al modello keynesiano tendono ad indicare un valore del moltiplicatore fiscale certamente superiore ad 1 (fino a poco superiore a 2 in presenza di politica monetaria espansiva) mentre quelle condotte in base al modello neo-classico rilevano di norma valori fra 0 ed 1.

Si approfondirà la questione con un’analisi del lungo periodo, considerando per semplicità, ma senza perdita di generalità, due soli periodi:

(12) bt+1 = d t+1 + d t (Yt / Y t+1 ) + b t-1 (Yt-1 / Y t) (Yt / Y t+1 ) Nell’ipotesi che il governo annunci una riduzione del deficit che sia

permanente nel tempo (d t+1 = d t ) - e che tale annuncio sia credibile – si perviene alla seguente equazione della derivata del rapporto debito / PIL nel periodo t+1 in relazione al rapporto deficit / PIL del periodo t:

(13) δ bt+1 / δ dt = 2 – (dt + 2 bt-1 ) (δ gt / δ dt ) Affinché la derivata δ bt+1 / δ dt sia positiva, e quindi l’impulso fiscale

restrittivo abbia successo nell’abbassare il debito pubblico sul PIL, nella (13) il termine (dt + 2 bt-1 ) (δ gt / δ dt ) dovrebbe essere inferiore a 2. Nell’ipotesi che il moltiplicatore fiscale non sia inferiore ad 1 (l’ipotesi keynesiana), il valore 2 per il quale è moltiplicato il debito pubblico sul PIL rende cruciale il verificarsi della condizione di b >100%. Dato che questa condizione è ampiamente soddisfatta dai paesi periferici, è probabile che il termine (dt + 2 bt-1 ) (δ gt / δ dt ) sia maggiore di 2. Pertanto, l’impulso fiscale restrittivo, provocando una discesa pronunciata dell’output, nel lungo periodo finisce per aumentare – invece che diminuire - il debito pubblico in rapporto al PIL.

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Tornando all’equazione (9), si perviene alla seguente conclusione: se il differenziale fra tasso di interesse e tasso di crescita è positivo (condizione ampiamente soddisfatta nei paesi periferici), dato che entrambi i due termini sul lato sinistro sono negativi, la derivata del surplus/PIL che stabilizza il debito/PIL (v’) rispetto al deficit/PIL : ( δ v’ / δ d ) assume valore negativo. Se dunque in un paese periferico l’”austerità” è destinata a causare un incremento del surplus necessario ad impedire un’ulteriore accumulazione del debito pubblico in rapporto al PIL, i mercati si chiedono dove il governo troverà le aggiuntive entrate fiscali o dove riuscirà a tagliare la spesa pubblica. ____________________________________________________________________

In letteratura, la maggior parte delle verifiche econometriche sono condotte

mediante modelli neo-keynesiani DSGE, che alle rigidità nominali dei modelli neo-

keynesiani affiancano molte ipotesi neo-classiche favorevoli al verificarsi degli

“effetti non-keynesiani”. Nelle simulazioni su questi modelli, tale risultato non trova

però conferma.

Dall’analisi economica sviluppata nel BOX 1 risulta piuttosto che per la

Periferia dell’Eurozona vale l’esito affermato dalla prospettiva keynesiana. In altre

parole, una restrizione fiscale aumenta il surplus di bilancio necessario a stabilizzare

il rapporto debito pubblico / PIL. In un paese periferico l’”austerità” è destinata a

causare un incremento del surplus necessario ad impedire un’ulteriore accumulazione

del debito pubblico in rapporto al PIL. I mercati si chiedono: riuscirà il governo a

tagliare la spesa pubblica? Se non ci riesce, dove troverà le aggiuntive entrate fiscali?

Il vero discrimine fra la prospettiva teorica ortodossa e quella keynesiana si

coglie nei modelli con eterogeneità fra i soggetti, dove la principale fonte di

eterogeneità è rappresentata dalla disparità di reddito. Affinché si realizzi il risultato

keynesiano – il segno positivo del moltiplicatore fiscale - è sufficiente abbandonare

l’ipotesi di mercati finanziari perfetti - che livellano redditi e piani di consumo

intertemporale di tutti i soggetti in virtù dell’apertura di linee di credito illimitate da

parte delle banche – e tenere conto del fatto che una quota di popolazione è soggetta a

“vincolo di liquidità”.

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Il ruolo cruciale che il “vincolo di liquidità” riveste per il determinarsi del

risultato keynesiano rappresenta la cartina di tornasole dell’importanza della

diseguaglianza di reddito nella determinazione dell’equilibrio macroeconomico. Un

impulso fiscale espansivo agisce sia sul livello che nell’alleviare le conseguenze di

una distribuzione del reddito sperequata sul livello di benessere dei soggetti a basso

reddito. Una volta che, per effetto dell’espansione fiscale, un incremento del reddito

corrente (la variabile indipendente della funzione del consumo, secondo l’originaria

formulazione di Keynes) abbia liberato i soggetti dal “vincolo di liquidità”, ai tagli ai

piani di consumo cui tali soggetti erano stati costretti subentra l’incremento delle

decisioni di spesa.

Come si è accennato nel punto 3, in Europa gli stimoli fiscali si sono troppo

precocemente esauriti. Dopo le timide manovre fiscali di sostegno all’economia

seguite allo scoppio della crisi finanziaria, i governi hanno dovuto sottostare

all’obbligo di continue manovre restrittive per ridurre il deficit complessivo (primario

e secondario) fino al pareggio di bilancio, nonostante i loro paesi non fossero affatto

usciti dalla fase recessiva. L’”austerità” però non riduce ma aumenta il rapporto

debito pubblico/PIL, in quanto la restrizioni fiscali hanno l’effetto di deprimere il

reddito (vedi il BOX 1). E’ allora probabile che il principale fattore che fa temere agli

investitori il default degli Stati non sia tanto rappresentato da un alto debito pubblico

quanto dall’impulso negativo che l’austerità determina sulla crescita. La restrizione

fiscale imposta ai paesi periferici, riducendo il livello del reddito, fa lievitare il tasso

di interesse (per la richiesta di un più alto premio per il rischio sul debito pubblico

rispetto a quello, pari a zero, sul Bund tedesco), che a sua volta fa aumentare il

surplus necessario a stabilizzare il debito pubblico. L’obiettivo perseguito

dall’austerità, ovvero mettere un freno all’accumulazione di debito e recuperare la

sostenibilità fiscale, è destinato ad auto-distruggersi. Come si vedrà nel prossimo

paragrafo, l’“austerità” si rivelata essere self-defeating, perché le manovre di

restrizione fiscale hanno determinato una perdita di output tale da fare aumentare –

invece che diminuire - il rapporto debito pubblico / PIL.

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5. Gli effetti deflazionistici della politica dell’“austerità”

Si è provato a misurare l’impatto sulla crescita della politica di austerità

imposta ai paesi dell’Eurozona. . Nella Figura 5, per ciascun paese dell’Eurozona, il

tasso di crescita del PIL (asse verticale) è messo in relazione con l’“austerità” rispetto

al PIL (asse orizzontale). La variabile indipendente consiste nell’indicatore

dell’”austerità”, misurata come differenza fra l’effettiva variazione del saldo di

bilancio pubblico e il valore che tale saldo “avrebbe dovuto assumere” in base ai

valori della quota della tassazione sul PIL e del tasso di crescita “normali”

dell’Eurozona, L’ipotesi è che l’impulso fiscale restrittivo induce una caduta del PIL,

con la conseguente diminuzione delle entrate fiscali.

Per calcolare il valore simulato si è moltiplicata la variazione della crescita del

PIL, in quattro bienni fra il 2007 e il 2012, al netto del valore medio di lungo periodo

del tasso di crescita (2% annuo, quindi 4% su due anni) per il valore medio della

tassazione Europea (0.45%). La variabile dipendente adottata è il tasso di crescita di

lungo periodo riferito all’aggregato dell’Eurozona. Come si vede dalle regressioni, in

tutto il periodo successivo alla crisi finanziaria, l’impatto dell’austerità sulla crescita

è negativo. In particolare, il moltiplicatore è quasi pari ad 1 nel 2007-09 e raggiunge

il valore più alto (1,43) nel biennio 2009-11, allorché le misure di restrizione fiscale

imposte ai paesi periferici hanno finito per bloccare la ripresa della crescita dopo il

primo crollo del PIL nel 2009.

Figura 5. Tasso di crescita del PIL (asse verticale) e “austerità” / PIL (asse

orizzontale) nell’Eurozona (2007-2012)

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-20

-15

-10

-5

0

5

10

15

20

-15 -10 -5 0 5

2007-9

-15

-10

-5

0

5

10

-20 -15 -10 -5 0 5 10 15

2008-10

-15

-10

-5

0

5

10

15

20

-10 -5 0 5 10 15

2009-11

-15

-10

-5

0

5

10

15

20

-15 -10 -5 0 5 10 15 20 25

2010-12

Il risultato di austerità self-defeating illustrato dalla Figura 5 è compatibile con

vari “paradossi” descritti in letteratura, ciascuno riconducibile a diverse ipotesi

sull’inclinazione delle rette di offerta e domanda aggregata (il modello AS-AD).

Keynes introdusse il “paradosso della parsimonia”: quanto più si risparmia, tanto più

il risparmio declina a causa della discesa del reddito da cui viene a formarsi. La

necessità di accrescere il risparmio per fare fronte ad un abbassamento atteso dei

redditi futuri (o al ripianamento di debiti accumulati) ha l’effetto di ridurre il reddito

se le imprese prevedono una domanda aggregata in calo.

Un secondo paradosso discende dall’”effetto Fisher”: il deleveraging attuato

per fare fronte alla crisi sortisce effetti negativi sulla domanda. Il deleveraging,

invece di migliorare le condizioni di liquidità dei soggetti, provoca una deflazione

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che ha l’effetto di aumentare il valore del debito, che a sua volta costringe famiglie e

imprese ad una spirale di continui tagli di spesa.

Il terzo paradosso prende il nome di “paradosso della fatica” (Eggertsson,

2010a e 2010b). La contrazione della componente pubblica dei redditi delle famiglie -

determinata dal ridimensionamento dei trasferimenti monetari e/o dei servizi pubblici

gratuiti goduti – induce la forza lavoro ad aumentare le ore di lavoro offerte. Per

quanto l’aggregato dei lavoratori si sforzi di ridurre il livello di disoccupazione con

un aumento dell’offerta di lavoro a salario invariato, la flessibilità verso il basso di

salari e prezzi innesca un processo deflattivo. L’aumento dell’offerta di lavoro resta

puramente nozionale, poiché la domanda aggregata e quindi il livello di attività

economica si riducono, vanificando il miglioramento delle condizioni di costo del

lavoro ottenuto dalle imprese (Eggertsson e Krugman, 2010).

Questi luoghi teorici sono poco praticati dal cosiddetto “Brussels – Frankfurt

consensus”, le tesi di molti economisti delle due principali istituzioni Europee

(Commissione Europea e BCE) ispirate alla teoria economica ortodossa. Un

influente approccio alla crisi dell’Eurozona elaborato dalla Commissione Europea

vuole che tanto più è alta la credibilità del programma di consolidamento fiscale e

l’impegno del governo nell’attuarlo, tanto più i paesi in difficoltà per l’innalzamento

dello spread potranno limitare le riforme strutturali di aggiustamento reale

dell’economia (Buti, Roeger e Turrini, 2009). Di fatto, si propone ai governi un trade-

off, un più rapido consolidamento fiscale in cambio di un’ampiezza più contenuta

della deflazione di salari e prezzi. Se i governi fanno mostra di non accettare tale

scambio, resistendo ad un rapido consolidamento fiscale, Bruxelles potrebbe fare

ricorso ad una strategia di “complementarietà”: il consolidamento verrebbe

comunque imposto, sotto il ricatto della sospensione degli aiuti finanziari. In

aggiunta, allo scopo di accelerare la deflazione, andrebbero anche imposti interventi

di flessibilizzazione del mercato del lavoro.

Ex post, possiamo dire che questo scenario teorico ha rappresentato il copione

per il dramma che è andato in scena nel 2011-12 e che i greci hanno sperimentato

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sulla propria pelle dopo l’aspro contenzioso che ha visto la Grecia sottomettersi a

poco a poco ai diktat emessi dalla signora Merkel, con la Commissione Europea e

l’EFSF nel ruolo di esecutori. Suona in effetti come una beffa la “svolta” della

Commissione Europea, che di fronte all’evidente impatto recessivo dell’austerità ed

alle pressioni di Hollande ha autorizzato una proroga per Francia e Spagna – ma non

per l’Italia, che pure era stata la prima della classe nel portare al di sotto del 3% il

rapporto deficit pubblico /PIL – nel raggiungimento del pareggio di bilancio.

L’impostazione che il “Brussels – Frankfurt consensus” dà al problema del

riequilibrio dei conti pubblici non tiene conto di un problema di breve periodo e di

uno di lungo periodo. Il problema di lungo periodo è che la riduzione della spesa

pubblica consiste sostanzialmente nel ridimensionamento dei trasferimenti e delle

tutele del Welfare, dimenticando che il ritorno dei paesi della Periferia su un sentiero

di crescita e di convergenza economica di lungo periodo è incompatibile con

l’ingente costo sociale di riforme strutturali che si sostanziano in tagli alla sanità e

all’istruzione. Nel lungo periodo, la diseguaglianza inter-regionale di reddito è infatti

fortemente correlata con la diseguaglianza di opportunità di popolazioni residenti in

aree con diverso grado di sviluppo, il che a sua volta presenta una serie di

interrelazioni con la diseguaglianza interpersonale di reddito (Wilkinson e Pickett,

2009; Aghion e Cage, 2011). Il problema di breve periodo è che sia il taglio del

deficit pubblico realizzato con la riduzione della spesa pubblica e l’aumento delle

tasse, sia il taglio dei costi di produzione realizzato con l’abbassamento del salario ed

i licenziamenti, esercitano un effetto depressivo sulla domanda. Una strategia di

rientro da un alto debito pubblico deve tenere conto del fatto che quando il tasso di

crescita si trova al di sotto del tasso di interesse – come accade ormai da anni

nell’Eurozona - il surplus generato dai governi (attraverso consolidamenti fiscali che

richiedono grandi sacrifici per i cittadini) si rivela fatalmente insufficiente a causa

della concomitante caduta dell’output e quindi delle entrate fiscali.

La questione del moltiplicatore fiscale non si esaurisce tuttavia nel dibattito

teorico sulle relazioni analitiche che presiedono alla variazione dell’output dopo un

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298

impulso espansivo o restrittivo di politica fiscale. C’è anche la questione delle ipotesi

che presiedono ai modelli economici utilizzati nell’analisi previsionale delle

principali istituzioni internazionali di analisi macroeconomica, che risentono

del’influenza intellettuale del pensiero economico dominante. Non è stato ad esempio

adeguatamente sottolineato che il Fondo Monetario Internazionale (FMI) –

nell’ambito della troika formata con la Commissione Europea e la BCE – ha potuto

obbligare i governi dei paesi periferici a misure fiscali fortemente restrittive proprio

sulla base di una valutazione dei loro effetti in termini di produzione ed occupazione

perdute che è risultata ex post largamente sottostimata.

In un recente lavoro (Blanchard e Leigh, 2013), Olivier Blanchard,

l’economista capo del FMI, ha riconosciuto che l’effetto negativo che il

moltiplicatore fiscale ha esercitato sul reddito si è rivelato durante la crisi molto

superiore a quanto la teoria economica e le analisi econometriche avevano indotto a

credere. L’utilizzo di parametri sottostimati nella previsione dell’impatto sul reddito

dell’”austerità” ha determinato un significativo errore di misurazione rispetto

all’effettiva caduta del PIL (l’errore per difetto è stato di - 1,2 nel caso del FMI e di -

0,4 nel caso dell’OECD) (IMF, 2012). Che la distorsione verso il basso delle

previsioni sull’impatto dell’”austerità” sia la conseguenza dei modelli teorici

utilizzati è dunque un dato oggettivo: lo testimonia l’erroneità dei valori dei parametri

inseriti nei modelli econometrici. Il vasto consenso sviluppatosi nella teoria

macroeconomica attorno alla più recente versione della “sintesi neo-classica” ha

orientato i policy-makers ad attribuire autorevolezza assoluta a verifiche empiriche

condotte in base a modelli rigorosamente basati sulle ipotesi di aspettative razionali e

mercati perfetti. Hanno così acquisito indiscussa reputazione scientifica le tesi

secondo le quali l’espansione della spesa pubblica ha un impatto poco rilevante

sull’attività economica (Ramey, 2012) e che il valore del moltiplicatore fiscale più

elevato sia quello relativo alla tassazione (Alesina et al., 2012).

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Ben diversi sono i risultati cui pervengono gli studi il cui schema teorico non è

ancorato alla “sintesi neo-classica” dominante e le cui stime econometriche tengono

conto:

1) della quota di popolazione con “vincolo di liquidità”. Un indizio

dell’importanza del “vincolo di liquidità” cui sono soggette le famiglie a basso

reddito è l’elevato valore del moltiplicatore negativo - la forte perdita di output ed

occupazione - prodotto dalle misure di austerità (Auerbach e Gorodnichenko, 2012).

In presenza di tali condizioni, una espansioni quantitativa della liquidità può generare

un moltiplicatore del reddito non inferiore ad 1,5 (in alcuni casi superiore a 2) e di

valore di norma più alto in relazione alla spesa pubblica che non alle tasse (Coenen et

al., 2012a e 2012b). Questa evidenza empirica suggerisce che nella formulazione di

piani di consolidamento fiscale si sarebbe dovuto tenere in maggior conto la

distribuzione del reddito e che per accrescere l’effetto moltiplicativo degli auspicabili

impulsi fiscali espansivi sarebbe opportuno attivare trasferimenti monetari mirati ai

soggetti in condizioni di “vincolo di liquidità”. Se si vuole, una minore quota della

restrizione del bilancio pubblico a carico della spesa sociale si impone per ragioni di

teoria macroeconomica, prima ancora che di equità;

2) delle condizioni del ciclo economico. Il risultato keynesiano di valore

positivo ed elevato del moltiplicatore sconfessa le politiche di “condizionalità”

imposte dalla troika per invertire il trend di aumento del rapporto debito pubblico /

PIL causato dai salvataggi e dalla caduta dell’output. Quando, a partire dal 2009-10,

molti governi dell’Eurozona hanno dovuto attuare gli interventi fiscali restrittivi, si

sono generati aspettative pessimistiche ed effetti pro-ciclici sul reddito (Creel e

Saraceno, 2010). Allo stesso modo, il risultato keynesiano accresce l’importanza di

attivare la spesa pubblica. Nelle condizioni macroeconomiche di domanda di

consumo particolarmente depressa che oggi caratterizzano le economie avanzate, è

molto probabile che ad un impulso fiscale espansivo si associ un moltiplicatore

positivo ed elevato (Baum, 2012).

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3) del grado di “accomodamento” della politica monetaria. Una forte

espansione monetaria ad un tasso di interesse nominale vicino allo zero, in assenza di

tensioni al rialzo dell’inflazione, genera un moltiplicatore positivo, tanto più elevato

quanto più la manovra “accomodante” si prolunga fino a due anni (Christiano et al.,

2011). In presenza di una recessione molto grave come quella in corso, probabilmente

caratterizzata anche dalla “trappola della liquidità” , la strategia di politica monetaria

più appropriata consiste in una decisa azione espansiva diretta a ribaltare le

aspettative degli agenti economici. La BCE potrebbe condurre una politica monetaria

più aggressiva, mediante un tasso di interesse che non si mantenga di fatto a ¾ di

punto al di sopra del livello fissato dalla Fed. Il cambiamenti strutturale risolutivo per

generare l’aspettativa di maggiori guadagni e dare un forte stimolo all’attività di

investimento, ma precluso ad una banca centrale non sostenuta da un potere sovrano,

consisterebbe nell’inserimento di un più alto valore-obiettivo di tasso di inflazione

nella “regola di Taylor”, in modo da determinare un eccesso di inflazione attesa

rispetto al tasso di inflazione corrente (Eggertsson e Krugman, 2012).

4) dell’impatto espansivo sul PIL esercitato dalla spesa pubblica per

investimento. In generale, l’impatto della variazione della spesa pubblica risulta

essere superiore a quello della tassazione, il che smentisce la tesi sopra menzionata -

molto propagandata ma poco verificata - secondo la quale la ripresa della crescita è

subordinata alla riduzione dell’intervento pubblico nell’economia, per l’impatto

espansivo che una minore tassazione determinerebbe sull’economia reale. In

particolare, all’interno della spesa pubblica, la preminenza degli investimenti pubblici

nel sostegno dell’attività economica trova conferma in uno studio della Commissione

Europea (vedi Tabella 5), che presenta i valori dell’impatto sul PIL dell’Eurozona di

un impulso limitato all’area valutaria europea (a sinistra), oppure di un impulso a

livello globale (a destra), in presenza di vincoli di liquidità (si considerano le famiglie

che non sono soggette a vincolo di collaterale da fornire a garanzia perché l’accesso

al credito bancario è loro precluso a priori, a causa di un reddito molto basso) e con

vincolo di collaterale (si considerano le famiglie che sono soggette a vincolo di

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collaterale e quindi non riescono ad accedere al credito bancario) e in presenza di

accomodamento monetario da parte della banca centrale. Per i sussidi

all’investimento si riscontrano valori del moltiplicatore superiori a 2 (se l’impulso è

globale e se sia la politica monetaria che la politica fiscale sono espansive). Gli

investimenti pubblici, gli acquisti pubblici e gli stipendi pubblici presentano valori

del moltiplicatore molto elevati in relazione ad un impulso globale.

Questa rapida ricognizione della vasta letteratura empirica sulla crisi induce a

ritenere che, in presenza dei due dati oggettivi del “vincolo di liquidità” e della grave

recessione, l’”austerità” dovrebbe lasciare il posto ad un’intonazione ancora più

espansiva della politica monetaria e ad una maggiore spesa in investimenti pubblici.

L’elevata spinta sul reddito esercitata dalla spesa pubblica in investimenti

dimostra quanto miope sia rigorismo di Bruxelles e di Berlino, che hanno respinto la

richiesta di mitigare l’impatto sulla crescita delle misure di rientro dagli alti deficit

pubblici attraverso l’esclusione delle spese per investimenti dal calcolo del bilancio

pubblico (la cosiddetta “regola aurea”).

Se poi la politica monetaria della BCE avesse seguito quella della Fed, che

all’indomani della crisi finanziaria ha portato fino a zero il tasso di interesse – a

fronte dell’0,75 cui ancora permane in Europa - e realizzato programmi di QE ben

molto più ampi, la successiva recessione sarebbe probabilmente stata meno

pronunciata.

I valori del moltiplicatore corrispondenti al più forte impulso alla risalita del

PIL sono infatti quelli attivati dagli investimenti pubblici sotto le due condizioni già

citate ( cioè realizzati durante una fase di grave recessione e da consumi famigliari

“liberati” dal vincolo di liquidità) ma anche in presenza di un tasso di interesse

nominale vicino allo zero (Auerbach e Gorodnichenko, 2013).

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Tabella 5. Moltiplicatori fiscali di un impulso temporaneo (*)

Impulso UE Impulso globale

senza vincolo con vincolo con esp. senza vincolo con vincolo con esp.

di coll. di coll. mon. di coll. di coll. mon.

Sussidi all’invest.. 1,52 1,59 2,04 2,00 2,11

2,63

Invest. pubblici 0,89 0,91 1,08 1,04 1,08

1,24

Acq.pubblici 0,78 0,81 1,03 0,94 1,00

1,21

Stipendi pubblici 1,11 1,26 1,39 1,15 1,34 1,46

Totale trasferimenti 0,20 0,41 0,53 0,24 0,51

0,62

Trasferimenti a fam. - 0,67 0,86 - 0,82

1,01

con vincolo. coll.

Trasferimenti a fam. 0,66 0,69 0,89 0,81 0,86

1,05

con vincolo. liq.

Tass.lavoro 0,22 0,44 0,55 0,26 0,53 0,64

Tass.cons. 0,40 0,48 0,65 0,49 0,59 0,76

Tass.propr. 0,01 0,12 0,18 0,01 0,16 0,21

Tass.redditi impresa 0,02 0,03 0,04 0,03 0,04

0,05

(*) Impatto di un impulso fiscale temporaneo di un anno sul PIL dell’Eurozona.

Fonte: European Commission ( 2010).

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L’idea che una più aggressiva azione di politica monetaria permetterebbe

all’Eurozona di raggiungere e mantenere un più elevato livello di attività economica

converge con la tesi spesso sostenuta da Olivier Blanchard.: Per evitare il rischio che

la politica monetaria finisca per essere sub-ottimale, e cioè per peggiorare il livello

del benessere della popolazione, la monetary stance determinata dai modelli

macroeconomici dovrebbe riflettere la resilienza delle istituzioni del mercato del

lavoro in Europa (Blanchard e Galì, 2009). In breve, in regime di rigidità nominali, la

politica monetaria ottimale deve abbandonare l’inflation targeting e assumere

l’obiettivo di un tasso di inflazione non troppo vicino allo zero.

In coerenza con tale prospettiva teorica, in lavori precedenti la crisi finanziaria

Blanchard suggerì implicitamente che il presupposto per risollevare la domanda

aggregata nell’Eurozona con una politica monetaria espansiva di stabilizzazione

consiste in un valore-obiettivo del tasso di inflazione più vicino al 4% della Fed che

non al 2% della BCE. La tendenza espansiva impressa alla politica monetaria da Fed

e BoJ – che da molti mesi accettano l’innalzamento dell’inflazione e manifestano un

benign neglect nei confronti della debolezza del tasso di cambio di USD e Yen –

risponde all’esigenza di rilanciare la crescita guadagnando quote di mercato estero

attraverso un cambio più competitivo. La BCE non pare però orientata ad impedire

che il rafforzamento dell’Euro deprima ulteriormente il livello della domanda

aggregata nell’Eurozona. Eppure, come si vedrà nel paragrafo successivo, la

soluzione del problema della domanda nell’UME è urgente, in quanto si connette

strettamente con la questione dello squilibrio macroeconomico esistente all’interno

dell’Eurozona, che vede una forte divaricazione fra un eccesso di risparmio nel

Centro (essenzialmente in Germania, date le dimensioni della sua economia) ed un

deficit di risparmio nella Periferia. Di fronte al rifiuto della Germania ad indirizzare

la propria economia verso un aumento della domanda interna - invece di puntare tutto

sul traino delle esportazioni - il rilancio della domanda nell’Eurozona sembra essere

affidato soprattutto alle politiche monetarie e fiscali comuni.

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304

6. Lo squilibrio macroeconomico all’interno dell’Eurozona

L’equilibrio macroeconomico complessivo di un sistema economico è

sintetizzabile mediante la seguente equazione a tre settori:

(S – I) = (G – T) + (X – M)

Ogni diseguaglianza fra le variabili all’interno di ciascuno dei tre settori –

Risparmi (S) e Investimenti (I) nel settore privato, Spesa pubblica (G) e Tassazione

(T) nel settore pubblico, ed Esportazioni (X) ed Importazioni (M) nel settore estero -

viene a scomparire nella somma algebrica delle varie poste. Ciò vale sia riguardo ai

singoli settori all’interno di ciascuna economia, sia nell’annullamento degli squilibri

reciproci all’interno di un’area valutaria come l’UME. Se l’equazione fa riferimento

all’Eurozona nel suo complesso l’equilibrio macroeconomico che essa individua è

un’identità contabile.

Figura 6.

80

90

100

110

120

130

140

2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010

REER basata sul CLUP relativo

Belgio Germania Irlanda GreciaSpagna Francia Italia Paesi BassiAustria Portogallo Finlandia

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305

Al netto dell’interscambio dell’Eurozona con il resto del mondo (il cui bilancio

non si peraltro mai allontanato troppo dal pareggio), una posizione di squilibrio in

surplus in un paese o gruppo di paesi (Centro o Periferia) corrisponde una posizione

di squilibrio in deficit in un altro paese o gruppo di paesi (Centro o Periferia).

L’Eurozona si presenta oggi fortemente divaricata fra un Centro in surplus ed una

Periferia in deficit. Per compensare l’eccesso delle importazioni rispetto alle

esportazioni, nella Periferia si renderebbe necessario un deficit di bilancio pubblico

(ma i vincoli imposti dal PSC inducono ad escludere tale possibile compensazione)

oppure la discesa del risparmio relativamente all’investimento (S < I).

Supponendo per semplicità che sia stato già conseguito il pareggio del bilancio

pubblico richiesto dal Fiscal Compact: (G = T), l’equilibrio macroeconomico del

Centro si può schematicamente rappresentare così:

Centro: (S >I) = (X > M)

A partire dall’avvio dell’unione monetaria – ed in misura crescente

all’indomani della crisi finanziaria - in alcuni paesi del Centro (in primis la

Germania, seguita da Austria e Finlandia) si registra un surplus dei risparmi sugli

investimenti, cui corrisponde un surplus di bilancia commerciale. Le condizioni

finanziarie delle banche dei paesi del Centro-Nord dell’Eurozona (pure essendo

banche internazionali, il loro capitale è in maggioranza ancora in mani nazionali)

hanno potuto naturalmente giovarsi delle buone performance economiche delle

economie “forti” in cui svolgono la maggior parte della propria attività, contribuendo

a favorire la formazione dei flussi di capitale che operatori esteri hanno destinato

all’acquisto delle esportazioni nette del Centro.

L’equilibrio macroeconomico della Periferia si può schematicamente

rappresentare così:

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306

Periferia: (S < I) = (G > T) + (X < M)

I flussi di liquidità provenienti in primo luogo dalle banche del Centro hanno

finanziato le passività emesse a copertura dei deficit pubblici (G > T) e di conto

corrente (X < M). Il deficit pubblico si è accresciuto in questi anni di crisi, portando

tutti i paesi al di sopra del limite del 3% del PIL.

La grande Recessione ha invece ridimensionato il disavanzo di conto corrente,

accumulatosi in seguito alla rapida espansione delle importazioni (in particolare, in

Irlanda, Grecia e Spagna), ed a causa della continua crescita, dal 1999 in poi, del

costo del lavoro per unità di prodotto , che misura il tasso di cambio reale effettivo

(Real Effective Exchange Rate: REER; vedi Figura 6) rispetto alla media

dell’Eurozona. In Grecia e Portogallo (ed in minore misura in Italia), paesi

accomunati da una sostanziale stasi della produttività, la dinamica salariale ha finito

per causare una progressiva perdita di competitività. Il costo del lavoro per unità di

prodotto (relativamente al valore medio dell’Eurozona) si è andato notevolmente

accrescendo, seguendo un andamento speculare rispetto alla Germania (ed in minore

misura ad Austria e Finlandia) che ha notevolmente penalizzato le esportazioni.

L’eccezione è rappresentata dall’Irlanda, che nonostante abbia conosciuto l’aumento

della REER più poderoso fra i paesi periferici fino alla disastrosa crisi bancaria, ha

conosciuto esportazioni nette positive, anche grazie al vantaggio competitivo

garantito dal ricorso alla concorrenza fiscale.

La notevole espansione delle esportazioni tedesche è il frutto - oltre che della

competitività sul piano della qualità - della moderazione salariale e della buona

dinamica della produttività, che hanno permesso un forte recupero della competitività

di prezzo rispetto ai primi anni del nuovo millennio. Il conto corrente in rapporto al

PIL del Centro, nel quale è naturalmente molto rilevante l’interscambio della

Germania, è così stato strutturalmente in surplus, a fronte del deficit della Periferia, in

diminuzione in seguito al crollo delle importazioni degli anni più recenti (vedi Figura

7).

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307

La semplice contabilità macroeconomica suesposta illustra come la

divaricazione che si è aperta all’interno dell’unione monetaria Europea dipenda dalla

debole domanda e dalla divergenza reale che si registrano nella Periferia. A minare la

coesione economica e sociale all’interno dell’Eurozona, è la crisi della crescita in

questi paesi più che dai livelli raggiunti dal debito pubblico. Come è facile desumere

dall’equazione dell’equilibrio macroeconomico, affinché un eccesso delle

importazioni sulle esportazioni venga annullato è necessario un saldo negativo del

bilancio pubblico (G > T) - che i vincoli imposti dal PSC inducono però ad escludere

a priori - oppure la discesa del risparmio relativamente all’investimento (S < I).

Questa seconda soluzione, che avvierebbe il ripristino dell’equilibrio

macroeconomico complessivo all’interno dei paesi della Periferia, è però anch’essa di

difficile realizzazione: dovrebbero infatti crescere i consumi, il che è molto

improbabile al culmine di una fase recessiva. Banche gravate dalle perdite di valore

delle attività finanziarie private e pubbliche detenute in portafoglio, famiglie con

redditi calanti, e imprese con fatturato che va a picco, sono infatti state costrette a

ricorrere ad un forzato deleveraging.

Figura 7.

Fonte: AMECO

-12

-10

-8

-6

-4

-2

0

2

4

6

2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011

conto corrente/PIL

centro

periferia

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308

L’obiettivo di evitare che condizioni di illiquidità degenerino in insolvenze ha

dunque fatto sì che il risparmio - invece di calare - si accrescesse, provocando un

eccesso del risparmio sull’investimento (S > I) da cui è conseguito una discesa

dell’output. Poiché il nuovo equilibrio di sottoccupazione non è stabile, essendo stato

ottenuto con la riduzione delle importazioni prodotta dalla discesa del PIL, permane

inoltre il rischio di ulteriore caduta del reddito causata dalla perdurante crisi di

competitività della Periferia. Quest’analisi implica che non possiamo attenderci che

nei paesi della Periferia si determini un’autonoma ripresa della domanda interna: il

Fiscal Compact blocca la capacità di spesa in deficit dei governi ed il deleveraging

continua a comprimere la domanda privata.

Pertanto, una riduzione durevole dello squilibrio macroeconomico fra Centro e

Periferia potrà realizzarsi in seguito ad uno dei due seguenti cambiamenti strutturali:

1) un trasferimento di domanda dal Centro alla Periferia, attraverso un decremento e

un incremento del risparmio in ciascuna area, rispettivamente; 2) una ancora più

drastica deflazione reale nella Periferia, tale da ridurre il divario di competitività con

il Centro e riportare a valori positivi il tasso di crescita attraverso l’aumento delle

esportazioni. Le due soluzioni non sono equivalenti. Dall’analisi fin qui svolta risulta

evidente che i problemi in cui oggi si dibatte l’Eurozona sono stati innescati

dall’intreccio fra banche e governi scaturiti dalla crisi finanziaria, ma affondano le

loro radici nella mancata convergenza fra Centro e Periferia acuita dalla debole

crescita economica. E’ a questo problema che è dedicata l’analisi del paragrafo che

segue.

7. Le determinanti della crescita di lungo periodo

E’ allarmante il confronto fra le determinanti della crescita economica

nell’Unione Europea e negli Stati Uniti (vedi Figura 8).

L’avvicinamento del reddito pro capite del gruppo di 15 paesi dell’Unione

Europea (e cioè prima degli ultimi allargamenti) a quello degli Stati Uniti, che ebbe

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309

luogo dal dopoguerra al 1995, fu l’esito della sostituzione di capitale a lavoro, più che

di investimenti innovativi e dell’innalzamento del capitale umano fra gli occupati. Fra

1995 ed il 2005, la netta ripresa della crescita della TFP negli Stati Uniti scaturì dalla

combinazione fra gli alti volume di investimento in Information communication

technology (ICT), la concentrazione nei settori avanzati di un management ad alto

capitale umano che ha promosso investimenti ad alto grado di rischio, e forti

guadagni di efficienza nel settore dei servizi (Acemoglu et al., 2006). La crescita

della TFP nei paesi dell’UME è stata invece molto più lenta, con valori inferiori di

tassi di occupazione (soprattutto della forza lavoro femminile) e numero di ore

lavorate (ancora oggi intorno a 1600 ore annue nell’EU-15 contro 1900 negli Stati

Uniti). Nel decennio 1995-2005, il distacco fra la crescita dell’UE-15 e quella degli

Stati Uniti si è perciò notevolmente ampliato, soprattutto a causa dell’insufficiente

dinamica della TFP, in parte causata dalla modesta introduzione di progresso tecnico

nei settori utilizzatori delle innovazioni della ICT (van Ark, 2008)

Il modello di crescita neo-classico prevede la tendenza delle economie arretrate

(a livello iniziale del PIL pro capite relativamente più basso) a conoscere tassi di

crescita relativamente più elevati, fino a realizzare il catching-up – il processo di

progressivo avvicinamento alle economie più avanzate che all’inizio del periodo

presentano un PIL pro capite relativamente più alto. Tale tendenza si esprime nella

cosiddetta convergenza beta, il valore negativo del coefficiente che lega il reddito pro

capite iniziale dei paesi al tasso di crescita medio del periodo successivo.

Nella Figura 9.1, compaiono sull’asse verticale il tasso di crescita medio del

periodo 1993-2009 e sull’asse orizzontale il PIL pro capite del 1993 per i paesi che

decisero di entrare fin dalla sua costituzione nell’unione monetaria, più i tre paesi

dell’Unione Europea che scelsero di rimanerne fuori (Regno Unito, Svezia e

Danimarca). Il 1993 è l’anno in cui prende le mosse il processo di unificazione

monetaria, sancito dal Trattato di Maastricht, che coincide anche con il

completamento del mercato unico; il 2009 è il primo anno della Grande Recessione.

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Figura 8. Contributo percentuale alla crescita del PIL: Unione Europea (EU-

15) e Stati Uniti (*)

(*)EU15ex = ; USA-SIC (Standard Industrial Classification System, USA) Legenda (dal basso verso l’alto): ore lavorate; composizione del lavoro; capitale dei

settori ICT; capitale dei settori non-ICT; PTF.

Fonte: Timmer, O’Mahony e van Ark (2007)

Affinché l’interpolante tracciata nel grafico potesse riflettere l’avvenuto

catching-up dei paesi della Periferia rispetto al Centro - il risultato previsto dal

modello di crescita neo-classico – la sua pendenza avrebbe dovuto essere negativa (e

quanto più inclinata fosse stata la retta, tanto più avrebbe segnalato un rapido

catching-up). La retta di interpolazione si presenta invece pressoché piatta, ad

indicare l’assenza di convergenza reale per i paesi che hanno partecipato

all’attuazione dei criteri di convergenza nominale concordati a Maastricht. Gli

incentivi che mercato unico e moneta unica hanno creato per l’espansione delle forze

di mercato non si sono perciò rivelati adeguati a promuovere il catching-up della

Periferia. Trova così conferma il giudizio precedentemente espresso: le politiche

macroeconomiche realizzate dai paesi dell’Eurozona in base al PSC, e le riforme

microeconomiche suggerite dalle guidelines della Commissione Europea, hanno

avuto successo nel conseguire la convergenza verso una bassa inflazione, ma la loro

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intonazione restrittiva ha penalizzato la crescita dell’occupazione e del reddito, in

particolare nei paesi periferici meno avanzati.

Figura 9.1.

0

0,2

0,4

0,6

0,8

1

1,2

1,4

0 5 10 15 20 25 30 35

grow

th r

ates

199

3 -20

09

per capita GDP 1993

Figure 3. Per capita GDP beta convergence in EU 15 (PPP)

Ireland

Luxembourg

Portugal

Spain NetherlandsFinland UK

Greece

AustriaBelgiumSweden

France

Spain

GermanyItaly

Denmark

Fonte: Farina (2012)

Figura 9.2

0

0,2

0,4

0,6

0,8

1

1,2

1,4

1,6

1,8

2

0 5 10 15 20 25 30 35

Figure 2. Per capita GDP beta convergence in EU 27 (PPP)

EE

LUIE

PLRO

BG

SKLV

LTHU

CY

ATDE

BEDKIT

FRSE

NLFIUKMT

PTESELCZ

SI

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312

Nella Figura 9.2, il quadro cambia radicalmente: l’aggiunta degli altri paesi

dell’Unione Europea fa sì che si realizzi il risultato atteso di convergenza economica

dalla teoria della crescita di Solow. I paesi dell’”allargamento”, avendo inizialmente

valori di reddito pro capite molto inferiori, realizzano il catching-up rispetto alle

economie più avanzate.

Mentre sui mercati internazionali la competitività delle economie “emergenti”

(i BRIC) gode dei benefici del regime dei cambi flessibili vigente fra le principali

aree valutarie, i paesi periferici dell’area valutaria Europea dispongono solo

dell’”aggiustamento” di mercato, l’abbattimento dei costi di produzione attraverso la

riduzione dei salari ed il ridimensionamento della forza lavoro stabilmente occupata.

Questo strumento non può essere sufficiente, considerando anche lo scarso impatto

dei fondi strutturali e di coesione, a creare le condizioni per la convergenza. Il

processo del catching-up intra-UME non ha in effetti beneficiato dell’integrazione

finanziaria seguita all’unione monetaria. Il credito a tasso di interesse reale molto

basso (o negativo) garantito dalla partecipazione all’Eurozona alle imprese della

Periferia non si è tradotto in quella spinta agli investimenti in settori innovativi che

avrebbero favorito il restringimento del divario di TFP fra le due aree. L’espansione

del credito indotta dall’integrazione finanziaria si è infatti concentrata negli

investimenti in settori produttivi arretrati o nella speculazione culminata nello

scoppio delle “bolle” immobiliare e finanziaria (Giavazzi e Spaventa, 2011).

Una interpretazione completamente opposta della mancata convergenza fra i

PIL pro capite dei paesi dell’Eurozona viene proposta dell’ European Economic

Advisory Group (EEAG), che fa capo all’istituto di ricerca tedesco di indirizzo

“ortodosso” CESifo. L’idea è che all’interno di un’area valutaria europea gli squilibri

macroeconomici siano fisiologici: i paesi impegnati nel catching-up - conoscendo

tassi di crescita maggiori di quelli dei paesi più avanzati - finiscono necessariamente

per trovarsi in deficit commerciale. La più rapida integrazione finanziaria

determinatasi dopo il passaggio alla moneta unica avrebbe quindi opportunamente

favorito il trasferimento di capitali dal Centro alla Periferia, la cui dotazione di

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capitale relativamente inferiore garantisce il conseguimento di tassi di rendimento

dell’investimento più elevati (Blanchard e Giavazzi, 2002). Il fatto è che tale

processo virtuoso, che avrebbe dovuto culminare nel catching-up della Periferia, non

si è realizzato, perché i mercati sono perfetti soltanto nei manuali di economia. Come

uno dei due suddetti autori ha recentemente riconosciuto nel lavoro appena citato

(Giavazzi e Spaventa, 2011), il trasferimento di capitali non ha imboccato la strada

degli investimenti in settori innovativi, ma la più facile via della speculazione.

Secondo la ricerca dell’EEAG guidata da Sinn, l’economista tedesco che guida

la “guerra santa” contro i governi dei paesi periferici (Sinn e Wollmershäuser, 2012),

il sistema Target2 è una sorta di finanziamento che la BCE fornisce per il catching-up

della Periferia. Nel momento in cui la BCE fa fronte agli squilibri macroeconomici

dell’Eurozona fornendo liquidità ad libitum alle banche dei paesi in deficit

commerciale, si determina una sorta di crowding-out (un “taglio” dei fondi

disponibili) ai danni della Germania. A causa del dirottamento del risparmio verso i

paesi periferici, l’economia tedesca avrebbe subito una caduta dell’attività di

investimento (EEAG, 2013). Non sussisterebbe poi alcun motivo di invocare un ri-

proporzionamento della domanda fra Centro e Periferia, incentivando una espansione

della domanda interna soprattutto in Germania, in quanto con la discesa delle

importazioni provocata dalla Grande Recessione gli squilibri macroeconomici si

sarebbero di molto ridimensionati.

Questa interpretazione non corrisponde ai dati della realtà. In primo luogo,

l’analisi dell’EEAG è inficiata dal fatto che i flussi di liquidità di gran lunga più

consistenti non sono le partite correnti ma i movimenti di capitali, che sono in gran

parte ritornati al Centro dopo il raid speculativo in Sud Europa. In secondo luogo, la

prova addotta dall’istituto di ricerca per dimostrare l’esistenza di convergenza reale è

inconsistente. Il catching-up che viene misurato nel Rapporto dell’EEAG – mediante

l’evidenza empirica di una forte correlazione fra tasso di crescita del PIL pro capite e

deficit commerciali - è quello dei paesi dell’Europa Centro-Est nei confronti dei 12

paesi che hanno dato avvio all’UME, non quella dei paesi della Periferia nella loro

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“rincorsa” dei paesi del Centro. Il buon andamento del catching-up dei paesi CEEC è

una di pochi aspetti positivi nell’evoluzione dei redditi pro capite all’interno

dell’Unione Europea (Farina, 2012). Esso si pone in netta controtendenza rispetto al

fallimento del catching-up della Periferia nei confronti del Centro, illustrato in Figura

9.1.

I paesi dell’Eurozona si trovano oggi di fronte ad una impasse nella loro capacità di

procedere sulla strada dell’integrazione economica. Al di là della più dura

competizione provocata dalla globalizzazione dei mercati e della grave recessione in

corso, i principali ostacoli sono rappresentati dall’eterogeneità dei sistemi produttivi

eterogenei fra loro, dalla diversità dei problemi di cui soffrono i sistemi bancari (la

collusione con le autorità di regolamentazione nel Centro, l’insufficiente

capitalizzazione degli istituti bancari in molti paesi della Periferia), dall’assenza delle

condizioni per la sostenibilità finanziaria dei debiti sovrani della Periferia. Per fare

fronte alla sfida dell’integrazione economica, l’Europa ha scelto l’opzione

dell’“integrazione negativa”, con l’abbattimento delle barriere doganali e tariffarie

prima e il coordinamento decentrato di mercato poi. I processi di liberalizzazione e

deregolamentazione che hanno accompagnato il completamento del mercato unico e

la realizzazione della moneta unica, assieme ai crescenti vincoli cui è stato

sottoposto l’intervento pubblico, hanno fortemente inciso sulla capacità dei governi di

promuovere la convergenza delle economie periferiche meno avanzate.

Questi cambiamenti strutturali hanno avuto l’effetto di porre le eterogenee

economie dell’Eurozona - che hanno perso gli strumenti della politica monetaria,

della manovra del cambio e delle politiche fiscali discrezionali - in una posizione di

eguaglianza di fronte alla competizione sui mercati globali. Inoltre, fin dall’avvio

dell’unione monetaria, per evitare la “procedura di infrazione” prevista dal PSC -

allorché il rapporto deficit pubblico/PIL eccede il limite previsto, ad esempio per

effetto sia di minori tasse e maggiore spesa sociale al numeratore che di una

prolungata dinamica negativa del PIL al denominatore - molti governi hanno dovuto

restringere l’operare degli stabilizzatori automatici, con effetti pro-ciclici che hanno

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inciso sulla crescita.

L’Europa degli anni futuri sembra destinata a dover affrontare un drammatico

trade-off: l’alternativa fra l’ulteriore restringimento dell’autonomia di politica fiscale

previsto dal Fiscal Compact e la difesa dei diritti sociali. Fino al default di Lehmann

Brothers nel 2008, sulle due sponde dell’Atlantico esisteva una sorta di

specializzazione riguardo allo strumento utilizzato nel perseguire la coesione sociale.

Negli Stati Uniti, la coesione sociale è prevalentemente affidata alle politiche

macroeconomiche di stabilizzazione, che hanno tenuto alto il tasso di occupazione

mentre si andava allargando la diseguaglianza di reddito. Nell’Unione Monetaria

Europea, la coesione sociale è prevalentemente affidata allo Stato sociale: le

istituzioni del mercato del lavoro (EPL, salario minimo, sussidi di disoccupazione)

contengono la sperequazione fra i redditi di mercato, ed il sistema della tassazione e

degli altri trasferimenti monetari riducono ulteriormente la diseguaglianza di reddito

disponibile rispetto a quella che è stata determinata dal mercato.

La capacità di reazione delle economie dell’Eurozona, di fronte ad uno shock

esogeno particolarmente grave come la crisi finanziaria del 2007-08, è stata molto

limitata Se ne sono analizzati i motivi: la politica poco aggressiva della BCE; i

vincoli del PSC che hanno depresso la componente pubblica della domanda

aggregata; le drastiche misure di restrizione fiscale imposte dalla troika ad una

Periferia in piena recessione. L’”aggiustamento” di mercato attraverso la deflazione

di salari e prezzi, avviato in alcuni paesi per fare fronte alla scarsa competitività con

l’estero del sistema produttivo, sta aggravando la diseguaglianza fra i redditi di

mercato. L’impatto dell’”austerità” sulla capacità di stabilizzazione del reddito delle

politiche di bilancio, ha poi anche affievolito la capacità redistributiva dell’intervento

pubblico. Il meccanismo di tassazione e trasferimenti monetari oggi recupera in una

percentuale inferiore a un decennio fa l’ampliamento che l’aggiustamento di mercato

successivo ad uno shock negativo produce nella dispersione fra i redditi guadagnati

nel mercato. Dopo che la politica fiscale è stata privata delle manovre discrezionali,

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316

che negli Stati Uniti costituiscono invece il fulcro dell’intervento pubblico,

l’Eurozona non solo dispone oggi di una capacità di stabilizzazione macroeconomica

inferiore degli Stati Uniti ma ha anche perso molto del suo vantaggio sul piano della

redistribuzione del reddito. Il progressivo ridimensionamento della spesa sociale ha

contribuito alla discesa anche del reddito disponibile famigliare, spingendo una

quota non piccola di popolazione a basso reddito al di sotto della soglia di povertà

relativa. Le istituzioni della protezione sociale e della redistribuzione tendono così ad

avvicinarsi all’approccio anglo-sassone, ovvero al contrasto alle diseguaglianze

realizzato attraverso una safety net per l’estrema indigenza. Guardando alla Grecia,

forse neppure questo è garantito.

Il progetto europeo potrà davvero ripartire quando una struttura istituzionale

più solida ed articolata permetterà che all’idea di convergenza spontanea, guidata

dalle sole forze di mercato, subentri una strategia di integrazione della Periferia con il

Centro. Non ci si può nascondere che la costruzione di nuove politiche pubbliche

comuni - per contrastare la recessione economica e l’aumento delle diseguaglianze - è

oggi bloccata dalle prossime elezioni politiche nello Stato-nazione leader

dell’Eurozona. Una volta superato questo ostacolo, è auspicabile che si creino le

condizioni per una maggiore cooperazione fra Centro e Periferia.

In questa prospettiva, non sembra più a lungo procrastinabile l’esigenza di

affiancare al Fiscal Compact – il cui primo obiettivo è il coordinamento delle

politiche fiscali diretto a “rassicurare” i mercati – l’avvio dell’Unione Fiscale. Le

politiche pubbliche comuni potranno così essere finanziate attraverso l’emissione di

debito pubblico con la mutua garanzia di tutti i paesi; e dovrà anche essere rivista,

dopo la bocciatura del Parlamento Europeo, la recente miope scelta di restringere un

bilancio centrale di dimensioni già troppo esigue. Sarebbe ingenuo aspettarsi in tempi

brevi un unanime accordo per un’Unione Fiscale dove le principali voci di entrata e

di spesa vengano trasferite a livello centrale. Il principale ostacolo è costituito dal

timore della Germania (ma anche dei paesi nordici e del Regno Unito) che un tale

rafforzamento delle politiche pubbliche europee finisca per affidare il superamento

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317

degli shock permanenti - il catching-up da parte dei paesi meno avanzati – ad una

strategia di “aiuti di Stato” organizzata a Bruxelles, che verrebbe a sostituirsi

all’autonome forze di mercato.

Quale che sia il giudizio sulla necessità di politiche di sviluppo delle aree

arretrate più incisive di quelle attuate con i Fondi Strutturali e di Coesione, è evidente

che i divari di efficienza economica all’interno dell’Eurozona sono un impedimento -

di ordine politico, prima ancora che economico -difficilmente superabile. Dalla piena

centralizzazione delle tre funzioni dell’intervento pubblico (di stabilizzazione del

reddito, redistributiva e allocativa) scaturirebbe infatti un flusso continuo di

ridistribuzione dei redditi dal Centro alla Periferia, la cosiddetta “Transfer Union”

paventata dalla Germania. Una nuova stagione dell’integrazione europea può più

realisticamente prendere le mosse da un inizio di Unione Fiscale che varasse un

meccanismo di mutual risk-sharing - una mutua assicurazione contro i rischi

macroeconomici finanziata con una tassa comune.

L’obiettivo di politica economica dovrebbe essere duplice: 1) generare

trasferimenti diretti al livellamento del PIL nei paesi il cui tasso di crescita annuale si

sia collocato al di sotto della media dell’Eurozona. In tal modo, si contrasterebbe il

pericolo che una grave caduta del reddito al di sotto del livello potenziale, come

quella sperimentata dopo la crisi finanziaria, possa allargare il distacco della

Periferia rispetto al Centro, con il concreto rischio di provocare la fine dell’area

valutaria comune; 2) creare uno schema europeo di salario minimo garantito, per

impedire che una fase di alta disoccupazione, soprattutto giovanile, allarghi

ulteriormente le diseguaglianze e provochi la caduta di molti redditi al di sotto della

soglia di povertà relativa (misurata, in ciascun paese, con il reddito famigliare al di

sotto del 50% del reddito mediano).

Il passo successivo sulla strada dell’Unione Fiscale dovrebbe puntare ad una

politica di bilancio europea finanziata con una percentuale di tassazione sul PIL ben

superiore all’attuale 1% circa del PIL dell’Unione Europea. Le politiche di

allocazione delle risorse andrebbero ripristinate al livello sovra-nazionale. I governi

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318

nazionali hanno infatti dovuto progressivamente rinunciare alle politiche di

investimento, una volta che il coordinamento delle politiche di bilancio regolato dal

PSC li ha costretti all’abbandono delle manovre discrezionali. Una governance

macroeconomica sovra-nazionale rivolta alla produzione di infrastrutture comuni

potrebbe promuovere, mediante le economie di scala, l’indispensabile incremento

della produttività totale dei fattori. La caratteristica dei beni pubblici di generare una

diffusione dei benefici non influenzata dalle disparità di reddito garantirebbe poi che

alla ripresa della crescita del PIL non si accompagni un peggioramento della

divergenza reale della Periferia, ma uno sviluppo più equilibrato del benessere fra le

diverse aree.

Nel dibattito economico di questi anni figura il tema dei beni comuni. Questa

tipologia di beni si differenzia da quella dei beni pubblici in quanto ne condivide la

caratteristica di non-escludibilità dal consumo ma è altresì soggetta al problema della

rivalità nel consumo (a differenza dei beni pubblici, il consumo del bene comune da

parte di un soggetto ne riduce la quantità disponibile per tutti gli altri). La “tragedia

dei commons” consiste nell’eccessivo consumo che finisce per far deperire il bene

comune - un pascolo su cui non cresce più l’erba o un mare la cui fauna si è estinta -

una volta che non si provveda alla regolamentazione del suo utilizzo. Volendo

declinare il concetto di bene comune in termini macroeconomici, si potrebbe dire che

gli Stati dell’Eurozona rischiano di distruggere il “bene comune” Euro.

Come si è argomentato, nella fase iniziale tutti i paesi hanno goduto dei

benefici dell’unione monetaria, in primo luogo la fine del rischio di cambio per le

imprese e la drastica riduzione dei tassi di interesse. Con il successivo ampliarsi dello

squilibrio macroeconomico - con il Centro in surplus commerciale e la Periferia in

deficit commerciale - le cose sono cambiate. L’aggiustamento reale che ha permesso

il salvataggio dell’Euro da una possibile scomparsa dopo la crisi finanziaria è finora

ricaduto totalmente sulla Periferia. La Germania, il paese che con la fine degli

aggiustamenti del cambio nominale ha tratto grande spinta alle proprie esportazioni

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attraverso il deprezzamento reale, si fatta paladina della politica dell’austerità. Tutti i

paesi periferici, seppure in diversa misura, si trovano oggi in piena deflazione reale

per gli effetti perversi di tale politica: il ripetersi di valori negativi del tasso di crescita

del PIL e la riduzione di salario e occupazione.

Nel punto 7, si è osservato come una strategia cooperativa per il superamento

dello squilibrio macroeconomico intra-UME consisterebbe in un incremento di

domanda nel Centro, in particolare modo nel paese di maggiori dimensioni e con il

più alto rapporto surplus commerciale/PIL. Se infatti la BCE continua a mantenere

l’obiettivo di inflazione intorno al 2%, ad una Periferia con un’inflazione che

l’austerità ha fatto scendere al di sotto del 2% dovrebbe corrispondere un Centro con

un’inflazione superiore al 2%.

Un aggiustamento simmetrico all’interno dell’Eurozona richiederebbe quindi

che la Germania facesse la sua parte, con una crescita della domanda interna cui

conseguirebbe un tasso di inflazione superiore al 2%. Nel frattempo, però, la

recessione sta producendo il riassorbimento dello squilibrio macroeconomico fra

Periferia e Centro, in quanto la diminuzione delle importazioni della Periferia ne

riduce il deficit commerciale con il Centro. Ciò dà motivo alla Germania di evitare di

accollarsi la sua parte dell’aggiustamento, attraverso quell’espansione della domanda

interna che consentirebbe alla Periferia una ripresa trainata dalle esportazioni. Tale

strategia di “aggiustamento simmetrico”compenserebbe i paesi periferici, il cui

livello di attività economica è stato gravemente penalizzato dalla politica

dell’austerità.

Occorre oggi impedire che la massimizzazione dell’utilità della moneta unica

da parte di ciascun paese condanni l’area valutaria europea alla definitiva “non-

ottimalità”, fino alla “tragedia” della fine del “bene comune” ed al ritorno alle valute

nazionali. A tale scopo, i governi dovrebbero essere solidali nella scelta di politiche

comuni che permettano di dividersi benefici e costi in modo simmetrico. E’ noto che

negli Stati Uniti, alcuni decenni dopo l’indipendenza, molti Stati crearono forti deficit

nei propri bilanci pubblici. La soluzione allo “sfruttamento competitivo” del bene

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comune “dollaro” venne trovata nell’Unione fiscale. Sembra però che nell’Unione

Monetaria Europea l’unica lezione che si sappia apprendere da oltre Atlantico sia

quella della deregolamentazione.

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Parte Quinta: Unione Europea

1. L’ Unione Europea in una prospettiva storica

L’unione fra i paesi europei nacque come progetto politico. L’obiettivo di assicurare

un futuro di pace ai popoli europei portò i padri fondatori a concepire un processo di

unificazione sia economica che politica. Fra loro ricordiamo Altiero Spinelli, uno

degli estensori del Manifesto di Ventotene del 1941; Robert Schuman, l’autore della

dichiarazione del 9 maggio, giorno in cui oggi celebriamo l’Europa unita; Jean

Monnet, l’ispiratore del primo concreto passo verso l’integrazione europea: la

Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA), creata nel 1951 da Belgio,

Francia e Germania Italia, Lussemburgo e Olanda allo scopo di favorire l’impiego

comune di queste materie prime per la ripresa industriale post-bellica ed accelerare al

contempo la ripresa delle relazioni politiche.

Come si è già detto, nel marzo 1957 a Roma vennero firmati i Trattati con i

quali quegli stessi sei paesi istituivano la Comunità Economica Europea (CEE) e la

Comunità Europea dell’Energia Atomica (Euratom). Nel 1968 fu completata

l’eliminazione delle tariffe e delle quote sul commercio interno e si proclamò la libera

circolazione di merci, servizi, capitali e lavoro. Successivamente, aderirono alle

Comunità Europee (CE) altri nove paesi (Regno Unito, Danimarca e Irlanda nel

1972, Grecia nel 1981, Spagna, e Portogallo nel 1986, Austria, Finlandia e Svezia nel

1995), sei dei quali avevano inizialmente fatto parte di un progetto alternativo:

l’Accordo Europeo di Libero Scambio (EFTA) siglato nel 1960. L’abolizione delle

barriere non tariffarie ed il graduale passaggio a votazioni a maggioranza furono le

principali decisioni contenute nell’Atto Unico Europeo (AUE) del 1986. La cornice

istituzionale dei tre pilastri - Comunità Europea, Politica estera e di sicurezza comune

(PESC) e Giustizia e affari interni (GAI) - in cui si articola l’Unione Europea (UE)

venne istituita nel 1991 con il Trattato di Maastricht (TUE) che diede anche avvio

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all’Unione Monetaria Europea (UME). Nel 2004 l’adesione di dieci nuovi paesi

(Cipro, Estonia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia,

Slovenia, Ungheria) ha segnato il passaggio dell’Unione Europea da 15 paesi (UE-

15) a 25 paesi (UE-25). Il 1 gennaio 2007, l’allargamento a Bulgaria e Romania ha

portato l’Unione Europea a ventisette paesi (UE-27).

Il lungimirante obiettivo dell’unificazione politica si è finora rivelato troppo

ambizioso. L’eterogeneità dei valori e degli interessi ha impedito l’affermarsi di un

modello condiviso di organizzazione dell’economia e della società. L’orizzonte del

progetto originario è stato così delimitato all’elaborazione di accordi di “mutuo

vantaggio”, consistenti in politiche pubbliche comuni in campo economico e più

recentemente anche nella cooperazione nel campo della politica estera, della difesa e

della sicurezza.

La formazione del mercato unico ha visto il progressivo abbattimento delle

diverse forme di barriere al libero scambio (dalle tariffe, alle barriere tecniche

connesse alla regolamentazione ambientale, sanitaria, etc.). Le imprese hanno

beneficiato del libero accesso su tutti i mercati, nei quali si sono al contempo

confrontate con la concorrenza delle imprese degli altri paesi dell’UE. La pressione al

ribasso esercitata sui prezzi ha accentuato la competizione nel mercato dei prodotti,

stimolando le imprese alla riduzione dei costi ed all’introduzione di innovazioni di

processo e di prodotto. L’attuale fase di integrazione si contraddistingue per il

complesso intreccio fra diverse finalità. L’obiettivo di aumentare il grado di

concorrenza dei mercati mediante i processi di liberalizzazione e di privatizzazione

nel campo dei servizi e dell’energia entra spesso in conflitto con la ricerca di

economie di scala attraverso fusioni ed acquisizioni che stanno dando origine a

grandi compagnie multinazionali. L’obiettivo di rafforzare la protezione sociale di

fronte all’aumento dell’incertezza economica e delle diseguaglianze determinati dalla

globalizzazione si scontra con l’eterogeneità delle comunità e delle economie

europee, che rendono difficile l’armonizzazione dei sistemi di Welfare. La

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legislazione presente nei singoli paesi frappone ostacoli alla regolazione a livello

europeo dei mercati dei beni, del lavoro e dei servizi finanziari. L

Come vedremo nel prosieguo, la conseguenza più grave di tale “integrazione

incompiuta” è l’assenza nella costruzione europea di alcune “istituzioni” – l’unione

bancaria, l’unione fiscale, l’inserimento nello Statuto della BCE della funzione di

prestatore di ultima istanza - indispensabili a garantire la credibilità dell’unione

monetaria e quindi la sopravvivenza dell’Euro.

Negli ultimi decenni le economie europee si sono sviluppate all’interno di un quadro

di regole affatto nuovo. Alle istituzioni nazionali si è affiancato un livello

istituzionale sovranazionale con lo scopo di dare attuazione alle politiche di

integrazione. Il mercato unico ha sancito la libera circolazione di beni, servizi,

capitali e persone. L’Unione Monetaria Europea (UME) ha dato vita ad un’unica

moneta e ad un’unica autorità monetaria. La Commissione Europea ha esteso gli

interventi di regolazione diretti a rafforzare la concorrenza nei mercati. Il Patto di

Stabilità e Crescita (PSC) ha vincolato i bilanci pubblici delle dodici autorità fiscali

nazionali. Le politiche di coesione hanno finanziato lo sviluppo delle aree arretrate.

Prima di affrontare le modificazioni che ne sono seguite nelle relazioni fra le

grandezze macroeconomiche, in questo capitolo ci soffermeremo sulla valutazione

dell’eurozona come area valutaria ottimale, sulle diverse forme di coordinamento fra

i sistemi fiscali, e sul rapporto fra il principio di sussidiarietà adottato dall’UE e la

teoria del federalismo fiscale.

Dopo questa rapida sintesi, esaminiamo l’UE nei suoi diversi aspetti.

Per sapere che cosa è l’Unione Europea (UE) sarebbe necessaria una definizione, ma

ciò pone la prima questione: è evidente che non coincide con un tradizionale stato a

struttura federale, o confederale, ma è riduttivo limitarne la valutazione ad un mero

susseguirsi di accordi internazionali: si tratta infatti di un’entità che si colloca tra

questi due estremi, oscillando tra l’uno e l’altro in ragione della mutevolezza

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dell’esprit du temps, lo “spirito dei tempi”. La seconda questione, che riguarda gli

aspetti dinamici, viene posta dalla domanda: “è quello che era e quello che sarà?” e

poiché la risposta, almeno per il passato, è certamente “no”, non si può evitare di

investigare la natura dell’istituzione UE, tenendo conto di questi due aspetti: da un

lato esaminandone la struttura costituzionale, e dall’altro riflettendo sulla sua

evoluzione nel corso degli anni. L’UE oggi è l’insieme di ventisette paesi uniti

dall’impegno al rispetto dei Trattati. I Trattati sottoscritti dai ventisette paesi, così

come l’acquis communautaire accumulato nel corso dei decenni, sono molto

richiedenti e spesso sottintendono un intento non esplicitamente scritto.

La struttura costituzionale dell’UE è a fondamento delle istituzioni e delle procedure

che presiedono alla formulazione e all’attuazione delle politiche comuni. Occorre

dunque esaminare quali organismi sono stati istituiti, per quale ragione e con quali

caratteristiche.

L’impronta evolutiva, che in maniera più o meno intenzionale ha permeato l’impianto

istituzionale dell’UE, è ascrivibile principalmente allo iato, presente sin dalle sue

origini che datano dalla metà del secolo scorso, tra l’ambizione di dar vita ad

un’iniziativa politica di grande portata storica e la realtà di un esperimento di

integrazione economica in principio piuttosto limitato.

Il progetto, prefigurato in Italia fin dal Manifesto di Ventotene e sostenuto da coloro

che vengono collettivamente indicati come i “padri fondatori” aveva lo scopo di

impedire il ripetersi di conflitti in Europa. Questo intendimento si tradusse nella

formulazione di un disegno istituzionale diretto a garantire alle istituzioni

comunitarie una potenziale indipendenza dai governi nazionali, un’indipendenza che

queste avrebbero comunque dovuto dimostrare di meritare alla prova dei fatti.

Ne risultò un’istituzione nella quale gli elementi a carattere intergovernativo – cioè

quelli nei quali i paesi, attraverso i propri governi, agiscono in prima persona come

accade negli accordi internazionali – erano strettamente intrecciati con gli elementi a

carattere sovranazionale – cioè quelli nei quali i paesi rinunciano alla propria

sovranità nazionale a favore di un’entità diversa costituita da una costruzione comune

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– e tale intreccio si è articolato in maniera variabile nel tempo seguendo una dialettica

in continua evoluzione.

L’Unione Europea è un’istituzione sui generis, con un assetto istituzionale dotato di

caratteri potenzialmente federali e strutturato su un’impostazione di governo

multilivello che ripartisce la responsabilità decisionale tra gli stati nazionali e le

istituzioni sovranazionali, e comprende al contempo aspetti caratteristici di uno stato

nazionale accanto ad aspetti propri di un’organizzazione internazionale.

2. Le istituzioni dell’U.E. nel progetto originario

Nell’immediato dopoguerra sono stati numerosi i tentativi di aggregazione degli stati

europei in un progetto comune che di volta in volta ha assunto connotazioni e

formule diverse a seconda delle diverse istanze cui intendeva rispondere:

l’Organizzazione Europea per la Cooperazione Economica (OECE) per la gestione

della ricostruzione post-bellica, l’Unione dell’Europa Occidentale (UEO) per la

difesa, il Consiglio d’Europa per il riconoscimento di quei diritti fondamentali che

fanno riferimento ad una cifra culturale condivisa. Il tratto comune a tutte le

organizzazioni europee fondate nel dopoguerra mette in luce l’esigenza innegabile,

seppure forse non avvertita con la stessa urgenza da parte di tutti i paesi europei, di

dar vita ad una costruzione comune che includesse un certo grado di cooperazione

anche nell’ambito della politica e che potesse essere in grado di garantire la pace.

La strategia di cooperazione fu avviata inizialmente tra sei paesi - Belgio, Francia,

Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi e Repubblica Federale Tedesca - con l’istituzione

della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA) nel settore carbo-

siderurgico. Questo accordo, firmato a Parigi nel 1951, costituiva il tentativo, o la

speranza, di coinvolgere in futuro anche la sfera politica attraverso l’instaurarsi della

consuetudine di una collaborazione, che avesse inizio ed occasione da un settore

economico decisivo per l’industria pesante, per quel tempo di fondamentale

importanza ed insieme simbolico, poiché la sua produzione forniva la materia prima

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per l’industria bellica. Tale metodo di cooperazione venne definito “funzionalista” o

“gradualista” per indicare il fatto che agli strumenti viene attribuita la funzione di

creare le condizioni per un successivo estendersi dell’accordo di singoli obiettivi ad

una molteplicità di politiche comuni, fino ad imporre, nelle intenzioni di alcuni, la

necessità dell’obiettivo massimo: l’unione politica.

La strategia funzionalista venne applicata, con meno fortuna, anche ai settori della

difesa, con la Comunità Europea di Difesa (CED), e della politica, con la Comunità

Politica Europea (CPE), due iniziative che col senno di poi oggi riteniamo troppo

ambiziose per quel tempo, e che non riuscirono ad essere portate a compimento. La

stessa strategia ebbe successo invece in due diverse sfere di applicazione con la

firma, da parte degli stessi sei paesi, dei due Trattati di Roma che nel 1957 diedero

vita alla CEE e all’Euratom concepite con un impianto istituzionale organizzato sulla

falsariga di quello sperimentato nella CECA. La cooperazione, che inizialmente

coinvolgeva solo il settore carbo-siderurgico, fu quindi estesa alle aree dei rapporti

commerciali e delle fonti di energia.

Questo modo di procedere rappresentava la conferma della caratteristica evolutiva

degli accordi tra i sei paesi e della praticabilità dell’approccio funzionalista

all’integrazione, con il quale si considera l’integrazione politica un’inevitabile

conseguenza, implicita nell’instabilità intrinseca al processo di integrazione

economica ed ascrivibile agli effetti di ricaduta (spill-over) tra le politiche. Secondo

questa concezione, per avere successo l’integrazione europea avrebbe dovuto

rispondere alle domande che sarebbero poste dalla sfera economica ed estendersi

successivamente dall’ambito del commercio, della finanza e dell’economia a quello

delle relazioni internazionali, della difesa e della politica estera, cioè, secondo una

nota classificazione di Raymond Aron, dalla bassa all’alta politica.

A. Una forma istituzionale in evoluzione: integrazione come processo, non come

stato

La volontà di gettare le basi per un’organizzazione ampia che andasse oltre

l’istituzione di un accordo commerciale tra sei paesi era evidente già nel Preambolo

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del Trattato di Roma che istituiva la Comunità Economica Europea, dove è esplicito

il riferimento alle superiori ambizioni del progetto di integrazione che riconoscono la

necessità di “… porre le fondamenta di un’unione sempre più stretta fra i popoli

europei … facendo appello agli altri popoli d’Europa, animati dallo stesso ideale,

perché si associno al loro sforzo”. D’altro canto, gli obiettivi della Comunità, definiti

dall’articolo 2, non avevano carattere soltanto economico ma investivano anche la

sfera politica, coinvolgendo un ampio spettro di questioni di portata generale:

vengono citati infatti oltre ad uno sviluppo armonioso dell’attività economica,

un’espansione continua ed equilibrata, un’accresciuta stabilità, un miglioramento del

tenore di vita e più strette relazioni tra gli stati partecipanti.

Il carattere evolutivo dell’integrazione europea veniva ribadito, dopo oltre trent’anni,

a Maastricht nel Preambolo del Trattato sull’Unione Europea (TUE) che,

riconoscendo l’attualità degli stessi obiettivi già espressi nel 1957, ne ampliava la

portata con l’impegno a: “… portare avanti il processo di creazione di un’unione

sempre più stretta fra i popoli dell’Europa … in previsione degli ulteriori passi da

compiere ai fini dello sviluppo dell’integrazione europea”.

Il carattere di processo conferito all’integrazione viene affermato nei Trattati dal

riferimento all’impegno comune in un procedimento dinamico, aperto a sviluppi

futuri di cui ancora si ignorava il contenuto, ed è in contrasto con la concezione

statica dell’integrazione che invece ritiene che il patto tra i paesi debba ratificare il

raggiungimento di uno stato di cose esattamente stabilito negli accordi, e che

dovrebbe essere inteso come definitivo.

Pur non potendosi sostenere una stretta coincidenza tra carattere evolutivo e

sovranazionale da un lato, e statico e intergovernativo dall’altro, l’antitesi tra

processo e stato – che in quegli anni veniva riflessa rispettivamente dall’impostazione

anglosassone e da quella continentale – fu chiarita dai Trattati che privilegiavano la

concezione dell’integrazione come processo. L’istituzione era considerata in continua

transizione verso una costruzione futura, che avrebbe forse finito con l’affrancarsi dal

carattere intergovernativo tipico dell’accordo tra stati nazionali che restano

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pienamente sovrani e si impegnano limitatamente a quanto definito nel testo

concordato e sottoscritto. Traspare spesso dal testo invece un’implicita presa di

posizione a favore dell’impronta sovranazionale.

A causa dell’evidente contrasto tra le elevate ambizioni, che avrebbero voluto una

ideale costruzione federale, ed i vincoli dettati dal realismo, che si prefiggeva di

ottenere un accordo su “un punto limitato e decisivo”, pur nell’impostazione ispirata

all’approccio funzionalista, che sta all’origine della natura evolutiva dell’impianto

istituzionale dell’Unione Europea, questa ha potuto acquisire caratteristiche federali e

sovranazionali. Le funzioni esecutive, legislative e giudiziarie indipendenti dai

singoli stati membri furono attribuite al Parlamento, alla Commissione, al Consiglio

dei Ministri e alla Corte di Giustizia, gli organi istituzionali previsti nel 1957 ai quali

più tardi si sono aggiunti la Corte dei Conti, il Comitato delle Regioni, la Banca

Centrale Europea e gli altri organismi che attualmente compongono l’architettura

europea.

B. L’intreccio intergovernativo/sovranazionale e l’indipendenza delle istituzioni

comuni

Le istituzioni dell’UE, nel loro continuo mutare, hanno pur tuttavia mantenuto una

caratteristica costante che si ravvisa nell’equilibrio mutevole che ha caratterizzato la

condivisione dei poteri tra i due diversi livelli di governo: quello comune europeo e

quello individuale nazionale. Ciò deriva dall’aver immaginato che, per raggiungere

scopi che vanno al di là di quelli delle consuete organizzazioni internazionali, le

istituzioni europee dovessero essere almeno in parte indipendenti dai governi

nazionali. Nei piani di Jean Monnet, al tempo commissario alla pianificazione

francese, un esecutivo indipendente doveva costituire il punto qualificante della

Comunità che si sarebbe dovuta costruire. Fin dalla dichiarazione del ministro degli

esteri francese Schuman, il 9 maggio 1950, con la quale si gettano le basi per “…

mettere la produzione francese e tedesca di carbone e di acciaio sotto una comune

Alta Autorità, nel quadro di un’organizzazione aperta alla partecipazione di altri paesi

europei … [per] … rendere la guerra fra Francia e Germania non solo impensabile,

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ma materialmente impossibile”, l’Alta Autorità – che sarebbe poi divenuta la futura

Commissione – veniva concepita come l’istituzione cui si delegava la responsabilità

per il settore carbo-siderurgico accordandole la più ampia autonomia. L’Alta Autorità,

varata sotto la guida di Jean Monnet, più che un mandato, aveva una missione: per

competenza le veniva conferito il primato sui governi nazionali.

La struttura istituzionale comunitaria rifletteva la preoccupazione di evitare

un’eccessiva ingerenza delle capitali nazionali nel processo decisionale comune e di

promuovere un metodo in grado di giungere a decisioni frutto della volontà collettiva.

Nell’impossibilità di dar vita ad un’entità politica comune, nella quale sarebbe stato

naturale riprodurre la tradizionale separazione tra i poteri – legislativo, esecutivo e

giudiziario – che è propria degli stati nazionali democratici, il progetto comunitario

ha privilegiato l’intreccio tra i poteri delle diverse istituzioni, secondo uno schema

inedito che già dall’inizio mirava a porre le condizioni per una progressiva erosione

dei poteri nazionali. Il concetto stesso di integrazione dunque si considerava in

evoluzione: il disegno istituzionale si caratterizzava per la tensione tra l’intero,

riconosciuto e legittimato dalle sue parti, e le sue stesse parti: ciò implicava che

l’equilibrio tra i diversi poteri sarebbe stato continuamente ridefinito.

I governi nazionali mantengono la capacità di alterare i poteri delle istituzioni

comuni. Essendo i depositari della legittimazione popolare, essi possono intervenire

sia direttamente in prima persona, che indirettamente attraverso le istituzioni comuni.

I poteri decisionali sono condivisi dalle diverse istituzioni ed ognuna deve tenere

conto delle prerogative delle altre. Il processo decisionale collettivo comporta dunque

una perdita significativa di sovranità nazionale. Tuttavia, l’affievolimento del potere

da parte dei governi non va sopravvalutato. Le istituzioni comunitarie sono sì

indipendenti, ma allo stesso tempo sono anche soggette al controllo dei governi

nazionali dai quali comunque proviene la legittimazione degli organismi comuni. Si

tratta quindi ogni volta di trovare un punto di equilibrio tra quali e quanti poteri

affidare all’istituzione comune, in quale forma e secondo quale procedura.

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I poteri dell’UE, così come le sue aree di competenza, col passare degli anni si sono

accresciuti notevolmente, ma ciò non è consistito tanto nella transizione verso un

governo europeo, ad esempio attraverso un rafforzamento del potere e dei compiti

della Commissione, quanto nel mutevole equilibrio che si è determinato nella

condivisione del potere tra Parlamento e Consiglio, per cui una buona parte

dell’attività decisionale, pur trasferita nell’ambito di responsabilità comune,

nonostante le maggiori responsabilità attribuite al Parlamento, è rimasta comunque

nella disponibilità ultima dei governi nazionali.

Tuttavia, va anche riconosciuto che nessun governo nazionale, singolarmente preso, è

in condizioni di controllare in solitudine, né tantomeno di determinare, le decisioni

comuni. Il potere dei governi deve essere inteso prima di tutto in senso collettivo e si

concretizza sia nei compromessi periodicamente raggiunti nelle Conferenze Inter-

Governative (CIG), nelle quali si decidono le innovazioni di tipo costituzionale, sia,

più spesso, per le decisioni ordinarie durante le sedute del Consiglio. Il Consiglio

stesso poi interagisce con le altre istituzioni che in base alle procedure prestabilite

sono in grado di esercitare - e a volte anche di estendere - la propria influenza.

C. La forma istituzionale pre-federale con un governo multilivello

Il trasferimento di competenze ha assunto gradi diversi in relazione ai diversi ambiti

interessati dal processo di integrazione. La parzialità delle competenze e dei poteri

che i governi nazionali sono stati disposti a trasferire al livello sovranazionale ha fatto

sì che l’impianto istituzionale dell’UE si configurasse come uno schema di governo

multilivello del quale sono parte sia gli stati membri che le istituzioni comuni.

In alcuni casi il trasferimento delle competenze nazionali alle istituzioni comunitarie

è stato completo. L’UE, ad esempio, ha assunto le competenze degli stati membri

nella gestione del commercio estero con la determinazione delle tariffe doganali e la

stipula degli accordi commerciali nell’ambito un tempo del GATT ed ora del WTO

dove l’UE “parla con una sola voce”. Anche la politica monetaria più recentemente è

diventata di competenza comunitaria per i paesi che hanno adottato l’euro. La delega

totale delle competenze è un aspetto dell’integrazione al quale ciascuno stato membro

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è particolarmente attento, volendo evitare di cedere elementi importanti di sovranità

nazionale senza adeguate garanzie.

In altri casi la competenza nazionale è stata limitata. La limitazione delle prerogative

nazionali è più cogente quando è prescritto l’obbligo di coordinamento o di

armonizzazione, come accade, ad esempio, nel caso delle sovvenzioni alle imprese,

per concedere le quali è necessario richiedere l'autorizzazione comunitaria, dato che

la loro erogazione potrebbe falsare la concorrenza tra gli stati membri; è invece meno

vincolante quando è previsto soltanto lo scambio di informazioni o opinioni

attraverso l’informazione reciproca o le consultazioni ufficiali.

In altre aree, infine, le istituzioni comunitarie non intervengono nelle decisioni degli

stati membri. Ciò avviene, ad esempio, per le imposte dirette sui redditi dei privati, le

imposte di proprietà e le tasse di successione tuttora di esclusiva competenza

nazionale. Può inoltre accadere che le iniziative nazionali e comunitarie si affianchino

o anche si sovrappongano, ad esempio, nel co-finanziamento delle iniziative che

fanno capo ai fondi strutturali o nell’attuazione di programmi comuni nel campo della

ricerca e sviluppo tecnologico.

La ripartizione verticale dei poteri e delle competenze tra UE e stati membri pone

alcune questioni che riguardano la compresenza nell’impianto istituzionale dell’UE di

aspetti distintivi di un’entità statuale con altri tipici di un’organizzazione

internazionale. Osservando la volontarietà dell’associazione tra gli stati e la

problematica praticabilità di eventuali azioni coercitive, le istituzioni sovranazionali

possono essere considerate semplici intermediari per i quali legittimità e sovranità

esistono nella misura in cui la prima venga esplicitamente concessa dai governi e la

seconda venga esercitata su loro delega. Tuttavia la presenza del Parlamento europeo

e della Corte di giustizia, ed il rilevante ruolo che è stato loro affidato, certamente

impediscono di assimilare l’UE alle più consuete organizzazioni internazionali. La

responsabilità politica che l’UE si può assumere sulla base dell’attuale struttura

istituzionale, pur insufficiente, è più ampia e profonda di quella di una usuale

organizzazione internazionale. La varietà degli ambiti decisionali soggetti alla

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votazione a maggioranza, e quindi aperti alla possibilità che un paese membro si

possa trovare in minoranza e debba perciò subire decisioni di cui non condivide i

contenuti – un tratto distintivo di un’istituzione sovranazionale – non solo è sempre

stata maggiore che per qualsiasi altro organismo internazionale, ma con i trattati di

revisione del Trattato di Roma i paesi membri hanno volontariamente accresciuto sia

l’adesione a questa regola di voto che l’importanza delle aree di intervento.

L’interpretazione della natura dell’impianto istituzionale dell’UE coinvolge anche il

giudizio sugli aspetti federali della condivisione e della ripartizione dei poteri, e delle

competenze cui una struttura di governo multilivello viene naturalmente associata. La

divisione delle competenze tra istituzioni centrali e locali costituisce una caratteristica

fondamentale dei sistemi federali che si fondano sulla comune partecipazione al

potere secondo un patto (foedus) il cui contenuto definisce le modalità della

condivisione dei poteri (power sharing).

Il federalismo aspira a coniugare unità e diversità in una combinazione ottima.

Tuttavia, a questa definizione non corrisponde una precisa formula utilizzabile per

ripartire in modo univoco le competenze tra i livelli di governo, dato che questa

valutazione è soggettiva. Poiché con il termine “federalista” si potrebbe anche

intendere “finalizzato ad una futura federazione”, il Regno Unito si è più volte

opposto al riferimento al federalismo nei principi del Trattato sull’Unione Europea e

anche in seguito temendo che questo termine potesse evocare una progressiva e

rapida perdita di sovranità nazionale piuttosto che un’ottima ripartizione dei poteri

politici e delle funzioni amministrative.

L’approfondimento dell’integrazione nell’UE, che si traduce nel moltiplicarsi delle

sfere di competenza ben al di là delle sole politiche commerciali, tuttavia ha

comportato di fatto una crescente somiglianza con il federalismo seppure limitato alla

sfera economica. Parallelamente, il principio di sussidiarietà è stato introdotto dal

TUE e si è affermato nell’acquis communautaire. Tale principio stabilisce che

l’intervento dell’UE deve essere limitato ai settori nei quali è in grado di agire più

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efficacemente dei singoli stati membri, e rappresenta il tentativo di conseguire

un’allocazione dei poteri efficiente.

Negli stati federali, tuttavia, al livello centrale vengono attribuite le funzioni di

politica monetaria e del tasso di cambio, ed alcune funzioni di politica fiscale, che

vengono gestite da un bilancio federale basato su un autonomo sistema di prelievo

fiscale federale e su una spesa pubblica che rappresenta una quota considerevole

dell’insieme della spesa pubblica e assolve a tutte e tre le funzioni che

tradizionalmente le vengono attribuite: allocativa, stabilizzatrice e redistributiva. È

inoltre prevista l’elezione diretta del governo federale ed una corte suprema

garantisce il rispetto delle regole federali.

Nell’UE invece, si fa implicito riferimento ad un’entità statuale pre-federale perché,

in assenza di un governo eletto, il potere può essere esercitato dall’autorità centrale

solo con l’autorizzazione delle autorità nazionali sotto la cui responsabilità restano in

massima parte le politiche legate alla spesa pubblica. I principi comuni, in primo

luogo il principio di non discriminazione tra soggetti appartenenti ai paesi membri, il

monitoraggio del rispetto della normativa comunitaria da parte della Commissione, il

controllo dell’osservanza dei Trattati da parte della Corte di Giustizia, riguardano

principalmente l’integrazione di mercato. Fra le condizioni da soddisfare per

procedere all’adesione all’UE, inoltre, non è incluso l’obbligo alla partecipazione

all’Unione Economica e Monetaria (UEM), mentre manca quasi completamente il

potere dell’UE in materia fiscale e di bilancio: questi elementi invece rappresentano

di norma componenti qualificanti di uno stato federale.

La vicenda che avrebbe dovuto portare all’adozione della Costituzione europea, è

illuminante. Nonostante venne approvata nel 2007 dopo un lungo e tormentato iter –

e firmata da tutti gli Stati in occasione del Consiglio europeo a Roma nell’ottobre del

2004 - pochi mesi più tardi l’adozione della Costituzione fu bloccata dall’esito

negativo di un referendum sia nei Paesi Bassi che in Francia. Una sua versione

ridotta, rivista e corretta, il Trattato di Lisbona, è entrata in vigore nel 2009 ed è stata

letta da più parti come l’immissione di un apparato frenante teso a circoscrivere

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quell’evoluzione che, tra alti e bassi, negli anni aveva caratterizzato l’integrazione

europea.

Le modifiche sono state apportate fin dal Preambolo e già dal primo articolo si

aggiunge che spetta agli Stati membri l’attribuzione delle competenze per il

conseguimento degli obiettivi dell’Unione, mentre l’articolo 2 viene sostituito e, nel

ridefinire gli obiettivi dell’Unione, si sottolinea che essa li persegue in base alle

competenze che le vengono attribuite dai trattati. All’articolo 3bis si legge che

“qualsiasi competenza non attribuita all'Unione nei trattati appartiene agli Stati

membri”, mentre all’articolo 3ter si insiste sulla “delimitazione delle competenze

dell’Unione”. A tale scopo si precisa che le competenze dell’UE vengono determinate

in base ai principi di:

a) attribuzione, che ne circoscrive la portata,

b) sussidiarietà, che si applica nei settori nei quali la competenza non è esclusiva,

per limitare l’intervento dell’UE ai soli casi in cui non sia conveniente raggiungere

gli obiettivi comuni con altri mezzi, cioè a livello inferiore

c) proporzionalità, cui si fa ricorso per limitare l’azione dell’UE allo stretto

necessario per il conseguimento degli obiettivi stabiliti dai Trattati.

La puntuale definizione delle competenze – esclusive, concorrenti o di sostegno e

coordinamento – viene precisata nel titolo I “Categorie e settori di competenza

dell’Unione” di nuova introduzione, tra i primi punti che concernono le modifiche al

Trattato che istituisce la Comunità europea (TCE), ora rinominato Trattato sul

funzionamento dell’Unione europea. Precedentemente, invece, vigeva l’Articolo 235

del Trattato di Roma che, al contrario, tendeva ad ampliare l’azione comune

stabilendo che “quando un’azione della Comunità risulti necessaria per raggiungere,

nel funzionamento del mercato comune, uno degli scopi della Comunità, senza che il

presente Trattato abbia previsto i poteri d’azione a tal uopo richiesti, il Consiglio,

deliberando all’unanimità su proposta della Commissione e dopo aver consultato

l’Assemblea, prende le disposizioni del caso.”

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335

Sono stati altresì eliminati - anche se sedici paesi, allegando una dichiarazione

separata, hanno voluto riaffermarne la validità - gli aspetti simbolici che negli anni

avevano almeno in parte contribuito, se non alla costruzione di un’identità europea,

almeno ad alimentare il senso di appartenenza: la bandiera e l’inno, in primo luogo, il

motto e la festa in misura certamente minore. Il messaggio, nel complesso, pare

indicare che l’integrazione – al di fuori della liberalizzazione degli scambi e di quanto

possa servire a questo scopo – forse è andata troppo oltre e comunque è cambiato lo

“spirito del tempo”.

D’altro canto però, alcune disposizioni sembrano indicare che un qualche progresso

verso una maggiore integrazione non è mancato: la Carta dei diritti fondamentali

dell’U.E. è stata recepita, sono state aggiunte disposizioni relative ai principi

democratici, la Banca centrale europea e la Corte dei conti figurano a pieno titolo tra

le istituzioni il cui numero quindi viene elevato a sette, mentre i rapporti

interistituzionali, i compiti e le relative procedure sono stati riformulati.

L’introduzione dell’alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune,

così come quella del presidente del Consiglio europeo, è stata salutata come

un’importante novità capace di far compiere passi avanti all’UE, ma questa materia è

stata sottratta alla competenza della Corte di giustizia, una delle istituzioni che più

hanno contribuito all’integrazione nel passato.

3. Interpretazioni ex post: finalità, necessità e modalità dell’integrazione

Con il procedere dell’integrazione l’architettura istituzionale dell’UE è stata più volte

emendata e, in seguito ai trattati di revisione, sono stati varati nuovi organismi e si

sono aggiunte nuove regole e nuove procedure secondo un processo tutt’altro che

lineare.

Il delicato equilibrio tra gli elementi intergovernativi e quelli sovranazionali è sempre

stato al centro del dibattito sulla natura del disegno istituzionale comunitario.

Tuttavia, il giudizio su quale elemento abbia di volta in volta prevalso è controverso.

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Nella CECA, il cui disegno istituzionale introduceva caratteristiche prevalentemente

sovranazionali, non era stata contemplata l’istituzione del Consiglio dei ministri.

Nell’architettura istituzionale della CEE, dove per la prima volta furono attribuiti

poteri a questo organismo, il ruolo dei ministri dei paesi membri era fondamentale,

ma si riteneva che fosse destinato a declinare in un futuro prossimo. Il deperimento

delle funzioni del Consiglio invece non si è verificato, e nemmeno specularmente

l’accrescimento del ruolo della Commissione. Piuttosto, con gli incontri prima

informali tra capi di stato e di governo, e poi, parallelamente alla sua crescente

importanza, l’istituzione del Consiglio europeo, si è aggiunto un nuovo organismo a

carattere decisamente intergovernativo.

Non si può però nemmeno sostenere che il TUE abbia accentuato il tratto

intergovernativo complessivo dell’assetto istituzionale dell’UE: il ruolo del

Parlamento è stato potenziato con la procedura di co-decisione che ne aumenta i

poteri, ma nel contempo è stato anche disposto che i due pilastri che si aggiungono al

primo, la Comunità Europea – la Politica Estera e di Sicurezza Comune (PESC) e la

Giustizia e Affari Interni (GAI) – siano interamente gestiti per via intergovernativa

sottraendoli dall’influenza del Parlamento e dalla giurisdizione della Corte di

Giustizia. Vero è anche che il Trattato di Amsterdam ha poi trasferito una parte delle

materie comprese nel capitolo GAI - quali visti, asilo politico e immigrazione - dal

terzo al primo pilastro dell’UE, per cui la valutazione sull’eventuale indebolimento

della cifra sovranazionale è tutt’altro che concorde.

Il Trattato di Lisbona, non sfugge a questo giudizio ambivalente, anzi, al contrario, lo

rafforza. Si può osservare, ad esempio, che i tre pilastri, con la difformità di

procedure che li caratterizzava, sono stati aboliti insieme ai riferimenti alla CE, a

vantaggio di un’Unione più coesa e compiuta; tuttavia il sistema decisionale relativo

alla politica estera e di sicurezza comune è ancora soggetto a norme e procedure

specifiche ed il ruolo del Parlamento e della Commissione differiscono da quanto

previsto per le questioni ordinarie, che seguono la prassi tradizionalmente indicata

come metodo comunitario . Oppure si può notare che, se da un lato il ruolo del

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Parlamento europeo si rafforza – ad esempio con il ricorso alla procedura legislativa

ordinaria gode di maggiore potere decisionale – per la prima volta viene inserito un

ruolo anche per i Parlamenti nazionali, ampiamente descritto dal nuovo articolo 8c, e

ripreso anche successivamente. Altri esempi contrastanti possono essere proposti con

riferimento da un lato all’inclusione della Carta dei diritti fondamentali dell’UE ed

alla possibilità da parte dei cittadini di “… prendere l’iniziativa d’invitare la

Commissione europea, nell’ambito delle sue attribuzioni, a presentare una proposta

…” due elementi entrambi volti alla costruzione di un demos europeo, mentre

dall’altro le competenze esclusive e quelle comuni degli Stati e dell’UE vengono

elencate puntigliosamente. Infine, è stata introdotta la possibilità per gli Stati di

recedere dall’Unione e con questa vengono specificate tutte le procedure che in tal

caso dovrebbero essere seguite.

A ciò si aggiunga il controverso giudizio sull’intenzionalità dei provvedimenti.

L’Unione Europea è stata in grado di conciliare considerevoli divergenze di vedute in

modo da conseguire progressi notevoli nel campo dell’integrazione economica, e a

volte è anche sembrato che accordi faticosamente raggiunti abbiano dato risultati in

larga parte imprevisti. Va anche tenuto presente che, in una struttura in continua

mutazione, l’interpretazione degli sviluppi occorsi alla luce sia delle finalità

dichiarate nel corso degli anni, che della necessità del percorso comune ed anche

delle modalità che l’integrazione europea ha conosciuto è spesso tutt’altro che

univoca sia per i singoli paesi membri ognuno dotato di identità più spesso propria,

che comune, che per le maggioranze di governo che al loro interno si sono via via

succedute.

A. Il processo di integrazione

Riconoscendo che il processo di integrazione economica veniva ritenuto da molti uno

strumento per raggiungere il fine dell’integrazione politica, si chiarisce la ragione per

cui molti degli obiettivi che il Trattato di Roma assegnava alla Comunità Economica

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Europea – che l’articolo 9 (oggi soppresso) si dichiarava “fondata sopra un’unione

doganale” – potessero invece essere pienamente raggiunti solo attraverso un’unione

economica, cioè con un livello di integrazione ben più profondo di un accordo

commerciale, sia pur impegnativo. Ma se le ragioni della politica possono spiegare il

disegno del quadro istituzionale delineato negli anni Cinquanta, gli sviluppi

successivi fino alla realizzazione dell’unione economica e monetaria sono stati quasi

interamente una conseguenza dell’integrazione di mercato. Oggi si potrebbe forse

addirittura rovesciare il rapporto tra economia e politica - e tra mezzi e fini -

all’origine del processo di integrazione. Sempre più spesso viene infatti richiamata

l’esigenza di colmare il deficit di integrazione sul piano politico proprio allo scopo di

permettere un migliore funzionamento dell’integrazione sul piano economico.

A questo argomento è strettamente connesso il giudizio sulla effettiva necessità

dell’integrazione. I governi nazionali potrebbero infatti chiedersi, di fronte alle sfide

di un’economia globale, se l’integrazione rappresenti un rimedio all’inadeguatezza

degli strumenti a disposizione dei governi stessi, oppure un pesante vincolo alla loro

sovranità, cioè alla capacità di decidere autonomamente, senza dover sottostare a

restrizioni imposte dall’esterno, in che modo ritengono di interagire con i problemi

posti dalla globalizzazione. La risposta non è semplice ed implica uno spostamento

d’accenti dalla preoccupazione su quanta perdita di sovranità sia inevitabile, o

desiderabile, per un paese, anzi per quel paese, a quello sulla effettiva cifra della

sovranità nazionale. In un contesto nel quale la crescente interdipendenza

internazionale ha di fatto comportato una considerevole perdita della capacità di

autodeterminarsi, e cioè di sovranità nazionale, la partecipazione all’UE può essere

letta come una scelta obbligata. La stessa domanda può anche essere formulata da un

punto di vista comunitario, ovvero sovranazionale, e cioè se l’UE debba essere

concepita come un mero sottoinsieme del mercato mondiale unificato, oppure debba

proseguire il cammino del progetto ideale dei padri fondatori, e cioè aspirare ad

essere una comunità di popoli che condivide le alte finalità sancite dai Trattati.

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L’adozione di una struttura organizzativa federale, anziché all’opposto di una stato-

centrica, cioè strettamente intergovernativa, rende problematico discernere una chiara

linea evolutiva. Si è perciò indotti ad una ricostruzione del delicato equilibrio tra

caratteristiche sovranazionali ed intergovernative e tra soluzioni nazionali o europee

in termini di puro cambiamento. Le “oscillazioni del pendolo” è la metafora coniata

da Helen Wallace (1996) per descrivere l’alternarsi di fasi in cui si attuano politiche

nazionali divergenti ed altre che vedono il prevalere di obiettivi condivisi, come

frutto dell’instabile interrelazione tra idee ed interessi diversi di diversi attori

istituzionali e tra i diversi livelli ai quali si svolge il gioco. Senza una tendenza

discernibile dunque non si tratterebbe di evoluzione, ma solo di continuo

cambiamento.

L’interpretazione di Robert Putnam (1988) descrive un gioco condotto a due livelli.

Le posizioni dei governi vengono infatti elaborate in un primo tempo a livello

nazionale e poi definite nelle istituzioni comuni. Gli attori sono sempre i governi

nazionali, che partecipano ai negoziati comunitari a livello intergovernativo. Il

sistema decisionale dell’U.E. è dunque basato su stati nazionali che controllano la

direzione e la velocità del processo di integrazione ed hanno ben chiaro che si sono

associati per cooperare nel perseguimento di alcuni scopi specifici. La supremazia

degli stati nazionali sarebbe dimostrata anche dal fatto che le politiche dell’UE

vengono perseguite da organismi nazionali, mentre le istituzioni europee sono

competenti solo riguardo al processo decisionale ed alla supervisione

dell’implementazione. L’evoluzione allora consiste in una continua riorganizzazione

che permetta agli stati di conservare una fetta sostanziale del potere.

In mancanza di un modello teorico in grado di cogliere l’essenza di quello che è

accaduto e di spiegarlo compiutamente attraverso qualche indicatore che chiarisca se

esiste una direzione intenzionale degli sviluppi del processo di integrazione, anche il

concetto di evoluzione è dunque aperto a diverse interpretazioni.

B. Il processo di integrazione: tra intenzioni ed interpretazioni

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Un'altra interprezione si fonda sul confronto con la diversa architettura istituzionale

dell’EFTA, l’associazione europea di libero scambio fondata nel 1960 da Regno

Unito, Danimarca, Norvegia, Svezia, Austria, Svizzera e Portogallo. Questi paesi,

contrari all’impianto sovranazionale che avrebbe costituito una importante

caratteristica della CEE, ne avevano ritenuto l’adesione troppo impegnativa,

preferendo invece un accordo che si limitasse alla sfera commerciale.

In deroga al multilateralismo - principio cardine degli accordi GATT, che promana

dall’osservanza della clausola sulla nazione più favorita (MFN) - l’istituzione di aree

di libero scambio e unioni doganali fu ammessa dall’accordo, probabilmente

considerando che tali forme di integrazione economica avrebbero applicato il

principio del multilateralismo, se non erga omnes, almeno tra loro.

L’istituzione di un’area di libero scambio comporta l’eliminazione degli ostacoli al

commercio tra i paesi membri, ma permette loro di perseguire indipendentemente le

proprie politiche commerciali, stabilendo in modo autonomo il livello delle proprie

tariffe sulle importazioni dal resto del mondo.

Un’unione doganale invece richiede che i paesi si accordino su una tariffa doganale

comune che grava sugli scambi con i paesi terzi, mentre, come per l’area di libero

scambio, vengono eliminate le restrizioni sugli scambi reciproci.

La CEE dunque scelse il secondo tipo di accordo regionale, l’EFTA il primo.

I paesi promotori dell’EFTA ritenevano che un accordo di portata più limitata rispetto

al Trattato CE avrebbe avuto più successo proprio a causa delle minori occasioni di

contrasto che avrebbe offerto per gli interessi nazionali. Non dovendo concordare

un’unica politica commerciale, ad esempio, si sarebbe potuto evitare il sorgere di

prevedibili conflitti tra i paesi membri nell’ambito dei negoziati sull’entità della

tariffa doganale comune. Ad essa dall’accordo veniva richiesto di non dar luogo ad

un’espansione del protezionismo, ma la sua esatta determinazione veniva lasciata

aperta all’esito del negoziato. I fatti hanno poi smentito questa previsione: i minori

conflitti non hanno affatto contribuito ad aumentare la coesione dei paesi membri di

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questa istituzione che invece ha conosciuto un considerevole numero di defezioni di

stati che successivamente hanno fatto il proprio ingresso nella CEE prima e poi

nell’UE. Altri paesi, nel frattempo, hanno aderito all’EFTA.

Nel 1973 il primo ampliamento, che ha visto il passaggio del Regno Unito e della

Danimarca dall’EFTA alla CEE, ha coinciso con l’istituzione di un’unica area di

libero scambio tra quest’ultima ed i residui paesi aderenti all’EFTA. Nel 1992, l’area

di libero scambio, che dunque comprendeva diciotto paesi, di cui dodici della CE e

sei dell’EFTA, fu trasformata nello Spazio Economico Europeo (SEE). In tal modo

l’accordo di integrazione economica fu esteso al mercato unico, comprendendo così

non solo la libera circolazione dei beni, ma anche quella dei servizi, dei capitali e del

lavoro. Tuttavia, l’aver esteso questi accordi a tutta l’area non è stato sufficiente ad

impedire che fossero ugualmente avanzate alcune candidature, da parte di paesi

dell’EFTA, per l’adesione all’UE. Questi paesi hanno quindi dato prova non solo di

preferire l’unione doganale all’area di libero scambio, ma di voler anche condividere

tutto l’acquis communautaire, pur non avendo fino a quel momento contribuito alla

sua costruzione.

Il confronto tra il “modello CEE” ed il “modello EFTA” pare accreditare l’ipotesi

secondo la quale le cause della maggiore instabilità del secondo risiedono proprio

nella minore profondità di tale accordo, mentre il lentissimo e faticoso, quanto

continuo, processo di integrazione conosciuto dal primo modello andrebbe ricondotto

proprio al maggiore coinvolgimento che ha sempre richiesto ai suoi membri.

Il progressivo svuotamento dell’EFTA potrebbe indicare non solo la superiorità del

metodo comunitario e della via seguita per raggiungere l’integrazione economica, ma

anche del fine – un fine politico piuttosto che commerciale – che questa si era posta

come obiettivo. Il riconoscimento dei fini politici, anche se non condiviso da tutti i

paesi - membri e potenziali - può essere comunque importante. Il gruppo di paesi

determinato a raggiungerli assicurerà una coesione sufficiente a non far mancare la

massa critica che farà ritenere agli altri che sia meglio partecipare all’integrazione,

anche senza condividerne il fine ultimo, piuttosto che rimanere isolati.

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C. Il processo di integrazione: diversi modelli e alcune definizioni

Il susseguirsi degli ampliamenti dell’UE a nuovi paesi, se da un lato ne testimonia la

vitalità e il successo, dall’altro ha posto il problema dell’accrescersi dell’eterogeneità

dei paesi che ne fanno parte. Le nuove adesioni, portando con sé nuove istanze,

hanno contribuito al cambiamento istituzionale, così come all’estendersi delle

competenze comunitarie a nuove aree e al determinarsi del mutevole equilibrio tra i

poteri dei diversi organismi.

Tradizionalmente, il processo di integrazione economica è stato oggetto di studio

soprattutto per quanto attiene all’integrazione dei mercati e agli effetti che ne possono

discendere in termini sia di liberalizzazione degli scambi che delle conseguenti nuove

opportunità che si vengono ad individuare. Il coinvolgimento completo

dell’economia di un paese tuttavia era implicito nel concetto di “processo”, ed era

parimenti implicito che tale coinvolgimento dovesse interessare sempre tutti i paesi

che avessero aderito all’accordo. Si ricordi che un criterio vincolante per

l’approvazione da parte del GATT degli accordi di commercio preferenziale – quali

sono le prime forme di integrazione: le unioni doganali e le aree di libero scambio –

richiedeva la sostanziale assenza di esenzioni da tali accordi sia di settori produttivi

che di prodotti. Pertanto, sembrava ovvio che il processo di integrazione dovesse

venire concepito nel divenire e senza riserve.

Nel tentativo di definire precisamente le forme dell’integrazione economica, una

prima distinzione è stata avanzata per differenziare l’integrazione commerciale

dall’integrazione delle politiche. La prima si riferisce al fatto che le condizioni di

domanda e di offerta nei diversi mercati sono determinanti per valutare il livello di

integrazione tra i paesi, e si ritiene che questo sia tanto maggiore quanto maggiore è

la convergenza che si osserva nel livello dei prezzi. L’osservazione della “legge del

prezzo unico” darebbe una misura del livello di integrazione commerciale. La

seconda non dispone di indicatori precisi e può arrivare a comprendere accordi di

grado diverso che vanno dalla consultazione, alla cooperazione, al coordinamento,

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alle politiche comuni applicate con regole nazionali, fino alla loro completa

centralizzazione.

Un’altra distinzione ricorrente, dovuta al premio Nobel Jan Tinbergen (1954), è

quella tra integrazione negativa, che indica la rimozione di ostacoli e discriminazioni

su base nazionale nei confronti delle regole e delle politiche che ricadono sotto la

comune sorveglianza, ed integrazione positiva, che si riferisce al trasferimento di

competenze ad istituzioni comuni deputate a gestirle in prima persona. Nella

interpretazione corrente, una liberalizzazione commerciale tra paesi membri, che

coinvolga i servizi ferroviari costituisce un esempio di integrazione negativa, mentre

la definizione di una politica comune del trasporto ferroviario che ne stabilisca le

regole generali e valga allo stesso modo per tutti i paesi è un esempio di integrazione

positiva.

Successivamente, e in misura maggiore in relazione alla maggiore eterogeneità dei

paesi che hanno aderito all’UE - un esperimento di integrazione economica che si è

rivelato ben più impegnativo di quanto mai avessero previsto le deroghe autorizzate

dal GATT - si è posto il problema del se e del come si potesse “dosare” l’integrazione

secondo i desideri diversi dei diversi paesi.

La strategia incrementale delineata da Jean Monnet puntava a far emergere un

interesse europeo superiore agli interessi nazionali e consisteva nel perseguire

politiche comuni nelle aree nelle quali si poteva trovare una via alla cooperazione che

sfruttando i vantaggi reciproci potesse realizzare il bene comune. L’integrazione

veniva concepita come una successione di accordi ciascuno dei quali comportava

ricadute su ambiti diversi - e spesso anche un interesse diverso per i diversi paesi - da

cui scaturivano accordi cooperativi fondati su due impegni: 1) l’espansione verso

un’integrazione sempre più stretta dichiarato nel preambolo sia del Trattato di Roma

che del Trattato di Maastricht e 2) il recepimento dell’acquis communautaire entro il

termine del periodo transitorio che viene negoziato per i paesi di nuova adesione.

L’architettura istituzionale dell’UE non prevede una completa separazione dei poteri

in capo alle sue istituzioni, ma si fonda su un complesso sistema di pesi e contrappesi

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teso all’ottenimento di una decisione consensuale. Tuttavia, non sempre tutti i paesi

sono stati pronti ad impegnarsi ed a partecipare pienamente a quanto consegue da

ognuna delle decisioni comuni. Si è posto pertanto il problema di come rispondere ad

esigenze sentite in modo anche molto diverso dai diversi paesi.

Quando, nel 1975, fu presentato il rapporto Tindemans, che prospettava un’Europa a

due velocità, si aprì un dibattito sull’opportunità politica di questa proposta, che

aveva origine dal tentativo di aggirare le difficoltà incontrate dal processo di

integrazione dopo il primo ampliamento. In quell’occasione il numero dei paesi della

CE era aumentato di un terzo (da sei a nove) e la popolazione di un quarto e ciò

avveniva nel clima di instabilità economica dei primi anni Settanta. Oggi, dopo che in

molti ed importanti casi - gli accordi di Schengen , la Carta Sociale , l’Unione

economica e monetaria - è accaduto che sia stato possibile evitare che l’adozione

dovesse essere effettuata da tutti i paesi alla stessa data, è invalso l’uso di presentare,

accanto alla trattazione dell’integrazione “tradizionale” anche le ragioni e i

presupposti che stanno alla base dell’integrazione “flessibile”.

Nell’ambito di questa nuova concezione dell’integrazione, sono state coniate varie

locuzioni intese a suggerire la possibilità di percorsi immaginati per consentire ai

paesi di impegnarsi gradualmente nei diversi livelli di integrazione: Europa a più

velocità, a cerchi concentrici, alla carta, a geometria variabile.

Al concetto di integrazione flessibile fanno capo nuovi strumenti: il coordinamento

aperto e la cooperazione rafforzata.

Il coordinamento aperto

Il metodo di coordinamento aperto si applica a questioni di competenza nazionale e

consiste nel delineare obiettivi e procedure volte a promuovere la convergenza ad uno

standard comune in determinate aree di applicazione. Questa nuova formula, che

indica un percorso molto diverso dal metodo comunitario, prevede che tutti i paesi si

impegnino insieme, ma ciascuno con strumenti propri autonomamente determinati,

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allo scopo di raggiungere gli obiettivi stabiliti congiuntamente. Il campo di

applicazione riguarda un ampio numero di settori tra i quali sono comprese sia

l’istruzione che la lotta all’esclusione sociale. In genere investe questioni per le quali

i paesi non hanno trovato accordo sul percorso da seguire, pur condividendo

l’obiettivo. Per “modernizzare il modello sociale Europeo” e conseguire obiettivi

quali le pari opportunità nel mercato del lavoro, il miglior manto delle qualifiche e gli

incentivi all’occupabilità, il sostegno allo spirito imprenditoriale, si è preferito

affidarsi alla cooperazione tra i paesi su base volontaria, anziché ricorrere a regole in

grado di fissare un percorso uguale per tutti.

Benché facciano riferimento ad obiettivi identificati ed approvati dal Consiglio, gli

interventi necessari non vengono tradotti in regolamenti, direttive e decisioni ma

inducono i paesi membri a formulare piani comuni e trasmetterli alla Commissione

che si limita alla sorveglianza, mentre Parlamento e Corte di giustizia svolgono un

ruolo molto minore.

Si tratta dunque di un metodo a carattere intergovernativo nel quale il controllo e la

valutazione avviene tra pari: gli stati partecipanti utilizzano principalmente il

confronto (benchmarking) e la diffusione delle buone pratiche (best practice).

Un esempio di coordinamento aperto è costituito dalla Strategia di Lisbona con la

quale l’Unione europea si riprometteva di “… diventare l’economia basata sulla

conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita

economica sostenibile, con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione

sociale”. A tale scopo fu deciso tra l’altro di elevare il tasso di occupazione dal

62,5% osservato nel 1999 per i quindici paesi al 70% , quello relativo alla

popolazione femminile dal 53% al 60% e quello relativo alla popolazione anziana

(lavoratori di età compresa tra i 55 ed i 64 anni) dal 37,1% al 50% entro il 2010. Per

raggiungere tali obiettivi, ciascun paese poteva intraprendere le azioni che giudicava

più adatte per il proprio mercato del lavoro, ma si riteneva che il controllo fra pari

(peer pressure) avrebbe contribuito a consolidare la determinazione di quei paesi che

si erano mostrati meno entusiasti ed avrebbero osteggiato il varo di una politica

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comune, mentre invece con questo metodo probabilmente si sarebbero preoccupati di

evitare una caduta della propria reputazione.

La cooperazione rafforzata

Il metodo della cooperazione rafforzata istituzionalizza la facoltà di non procedere

insieme nel disegno e nella pratica delle politiche comuni. Introdotta dal Trattato di

Amsterdam, semplificata dal Trattato di Nizza e consolidata dal Trattato di Lisbona,

la cooperazione rafforzata dà la possibilità ad un sottoinsieme di paesi di procedere

nell’integrazione in ambiti nei quali non tutti sono preparati ad impegnarsi subito,

anche se ci si aspetta che lo faranno in seguito. I paesi che lo desiderano possono

essere autorizzati dall’insieme dei paesi membri a stabilire accordi separati, secondo

procedure definite collettivamente, nel caso in cui sia accertata l’indisponibilità di

alcuni a prendere parte all’iniziativa fin dal suo avvio. La facoltà di esenzione (opting

out) viene concessa, ai paesi che lo desiderano, per evitare che una paralisi

decisionale impedisca a tutti gli altri di dotarsi di strumenti ritenuti utili al processo di

integrazione. Gli accordi che derivano da una cooperazione rafforzata non rientrano

nell’ambito dell’acquis communautaire e non sono vincolanti per i paesi che non

partecipano, i quali perdono la possibilità di influenzarne il corso.

Le cooperazioni rafforzate sono intese a promuovere la realizzazione degli obiettivi

dell'Unione, a proteggere i suoi interessi e a rafforzare il suo processo di integrazione.

Gli Stati membri che intendono instaurare tra loro una cooperazione rafforzata nel

quadro delle competenze non esclusive dell'Unione possono far ricorso alle sue

istituzioni ed esercitare tali competenze. Il Trattato di Lisbona stabilisce che tutti i

membri del Consiglio possono partecipare alle sue deliberazioni, ma solo i

rappresentanti degli Stati membri che partecipano possono prendere parte al voto. Gli

atti adottati nel quadro di una cooperazione rafforzata vincolano solo gli Stati membri

partecipanti e, non essendo considerati un acquis non devono essere sottoscritti dagli

Stati candidati all'adesione all'Unione. Il Consiglio può autorizzare una cooperazione

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rafforzata se ritiene che gli obiettivi che si pone non possano essere conseguiti entro

un termine ragionevole dall'Unione nel suo insieme e vi partecipano almeno nove

Stati membri.

Possono essere oggetto di cooperazione rafforzata ad eccezione di quelle nelle quali è

stata riconosciuta la competenza esclusiva dell’UE. Poiché è necessario assicurare

che tale strumento agisca in coerenza con tutte le politiche comuni, la procedura

istitutiva prevede che i paesi che desiderano varare una cooperazione rafforzata ne

facciano domanda alla Commissione che, se la ritiene ammissibile, provvederà ad

inoltrare la proposta al Consiglio, il quale, ottenuta l’approvazione del Parlamento,

può approvarla. Per partecipare ad una cooperazione rafforzata già esistente un paese

deve inoltrare la propria domanda alla Commissione ed al Consiglio. Se la

Commissione non l’autorizza, il paese può rivolgersi direttamente al Consiglio.

Nonostante lo snellimento e le facilitazioni che sono successivamente state introdotte

per la formazione di cooperazioni rafforzate, questo strumento non ha trovato

l’applicazione che ci si aspettava come riflesso del dibattito suscitato. Come esempi

si portano a volte gli accordi di Schengen, o l’integrazione monetaria dallo SME in

poi, poiché in entrambi i casi non tutti i paesi hanno partecipato fin dall’inizio a

queste iniziative varate al di fuori del quadro comunitario. Si tratta tuttavia di esempi

ante litteram dato che la loro costituzione è stata antecedente all’istituzione delle

cooperazioni rafforzate. Inoltre, pur non partecipando all’UE, fanno parte della zona

Schengen anche l’Islanda e la Norvegia.

Uno dei problemi da superare, ed una delle ragioni che potrebbe spiegare tanta

prudenza, consiste nella valutazione dell’eventuale danno, conseguente alla

formazione di una cooperazione rafforzata, per chi decidesse di non partecipare. Il

danno arrecato dovrebbe essere compensato? Un altro problema, ad esso collegato,

deriva dall’eventuale comportamento strategico che ogni paese potrebbe adottare

riservandosi di partecipare solo a fronte dell’evidenza di benefici netti da essa

derivanti, mentre di solito le politiche comuni vengono disegnate “sotto un velo di

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ignoranza” circa gli eventuali beneficiari, anzi avendo in mente che ogni paese può

trovarsi di volta in volta nella posizione di beneficiario o meno.

4. Le istituzioni dell’Unione Europea

Alle quattro istituzioni previste all’articolo 4 del Trattato di Roma – Assemblea,

Consiglio, Commissione, e Corte di Giustizia – si sono aggiunte successivamente il

Consiglio europeo, la Corte dei Conti e la Banca Centrale europea.

Il Parlamento Europeo

L’Assemblea, poi ridenominata Parlamento Europeo (PE), è stata concepita con

funzioni prevalentemente consultive, diverse quindi da quelle dei parlamenti

nazionali degli stati membri e con poteri molto più circoscritti. Già prevista nel

quadro istituzionale che faceva capo alla CECA, allo scopo di evitare che l’operato di

questa istituzione dipendesse dall’approvazione da parte dei governi nazionali, i suoi

membri in un primo tempo venivano scelti tra gli eletti nei parlamenti nazionali ed

erano tenuti a riunirsi una volta all’anno (il secondo martedì di marzo).

L’istituzione del PE, luogo di rappresentanza democratica dei “popoli degli Stati

riuniti nella Comunità”, incarna simbolicamente il superamento delle nazionalità

separate ed ha rappresentato l’immagine più significativa della riconciliazione franco-

tedesca che sta alla base del progetto di integrazione in Europa. Esprime il tentativo

di dar vita - da principio solo simbolicamente, poi attraverso la legittimazione

conseguita con le elezioni a suffragio universale diretto - all’Europa dei popoli che,

secondo la concezione ideale di Jean Monnet, avrebbe dovuto prevalere sull’Europa

delle patrie, che corrisponde invece ad un disegno istituzionale intrinsecamente

intergovernativo al tempo propugnato, fra gli altri, da Charles de Gaulle.

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Il ruolo del PE, definito da Ralf Dahrendorf “la foglia di fico” democratica su un

corpo le cui caratteristiche rimanevano essenzialmente quelle di un organismo

burocratico, col procedere dell’integrazione si è notevolmente ampliato. Dal 1979,

quando per la prima volta si sono tenute elezioni a suffragio universale, i parlamentari

europei, legittimati dal voto diretto e solo eccezionalmente forniti di doppio mandato

– ai Parlamenti nazionale ed europeo – hanno cercato costantemente di contribuire a

colmare il deficit democratico lamentato per le istituzioni europee, facendosi

attribuire nuovi compiti, a volte anche solo simbolici, e moltiplicando le iniziative

tese ad accrescere la propria influenza. Nel febbraio del 1984, approvando a

larghissima maggioranza, con deputati di ogni gruppo politico e di ogni paese, il

Progetto di Trattato sull’Unione Europea presentato su iniziativa di Altiero Spinelli,

il Parlamento europeo aveva svolto un ruolo di primaria importanza nel rimettere in

moto il processo di integrazione che incontrava un periodo di stasi (l’eurosclerosi).

Tale ruolo venne premiato con un’estensione dei suoi poteri.

Il Parlamento Europeo ha anche cercato di riformare i rapporti che lo legano alle altre

istituzioni comunitarie, in particolare nell’equilibrio tra i propri poteri e quelli del

Consiglio. Il potenziamento delle sue prerogative costituisce, infatti, la via maestra

per il progressivo superamento del gap democratico. Nel contesto di tale dibattito, il

PE ha chiesto ed ottenuto dalle Conferenze Intergovernative indette per le modifiche

ai Trattati un accresciuto ruolo nelle procedure decisionali e l’elezione del presidente

della Commissione su parere del Consiglio europeo.

I poteri che oggi esercita - legislativo, di bilancio e di controllo - hanno potuto

rafforzarsi e consolidarsi, attraverso i successivi trattati, investendo nuove aree di

competenza ed irrobustendo la cifra sovranazionale della costruzione istituzionale

comunitaria.

Il potere legislativo, limitato alla procedura di consultazione secondo il Trattato di

Roma del 1957, in seguito al TUE viene condiviso con il Consiglio dell’Unione su

una base ormai paritaria, secondo la procedura di co-decisione che si applicava alla

maggior parte delle decisioni assunte nell’ambito del primo pilastro dell’Unione

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Europea. I poteri del PE, in seguito all’adozione del Trattato di Lisbona, sono stati

rafforzati principalmente riguardo all’approvazione del bilancio comune e

nell’estendere le aree nelle quali può intervenire: la sicurezza e la giustizia saranno

soggette alla procedura di co-decisione divenuta procedura legislativa ordinaria.

Il potere di iniziativa politica spetta alla Commissione, ma il Parlamento può chiedere

l’inizio della procedura ed esercitare comunque pressioni. Si ritiene che in alcune

occasioni, nelle quali la capacità decisionale del Consiglio appariva piuttosto debole,

un esempio tra tutti il ruolo giocato nell’iter che ha condotto all’approvazione

dell’Atto Unico Europeo, il Parlamento Europeo abbia svolto efficacemente un’opera

di indirizzo e di sostegno alla Commissione.

Il potere in materia di bilancio prevede che, solo dopo l’approvazione definitiva del

Parlamento, il bilancio preventivo possa entrare in vigore e, in questo modo, possa

conferire alla Commissione piena capacità di spesa. In caso contrario, il Parlamento,

qualora ritenga che le modifiche suggerite non siano state accolte, può respingere il

bilancio in seconda lettura e pretenderne una completa riformulazione, mentre la

mancata approvazione entro i termini fa scattare il passaggio all’esercizio provvisorio

di bilancio. Anche il bilancio consuntivo deve essere passato al vaglio del Parlamento

Europeo che può rifiutarne l’approvazione.

Il Parlamento vota la fiducia all’insediamento della Commissione, dopo aver

sottoposto i singoli commissari a un’audizione e, con i 2/3 dei voti espressi e la

maggioranza dei parlamentari, può votare la sfiducia alla Commissione nel suo

complesso, ma non può influenzarne la successiva composizione. Le mozioni di

sfiducia, che finora sono state presentate non hanno mai raggiunto il necessario

numero di voti, tuttavia nel marzo del 1999 la commissione Santer si dimise proprio

per evitare la mozione di censura. Il potere di controllo del PE si è esteso dall’esame

dell’attività della sola Commissione - nei confronti della quale può esercitare il diritto

di censura - al diritto ad esprimersi sull’operato di tutte le istituzioni, incluso il

Consiglio europeo, e a partecipare senza limiti alla discussione su ogni attività che

riguardi aspetti dell’attività comunitaria attraverso interrogazioni, commissioni

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d’inchiesta e anche ricorsi. Anche la nomina del presidente e di tutto il consiglio

direttivo della BCE deve essere approvata dal PE che annualmente, in seduta

plenaria, riceve il rendiconto dell’attività da parte del presidente della BCE.

Le elezioni dei parlamentari europei si svolgono ogni cinque anni, con un sistema

elettorale comune per quanto riguarda la definizione dell’elettorato e le regola

proporzionale, ma che mantiene procedure elettorali diverse nei paesi membri, ad

esempio per la definizione delle circoscrizioni e i giorni di apertura dei seggi.

Il numero di parlamentari europei eletti in ciascun paese membro è fissato dai trattati.

Questo numero si è accresciuto in seguito sia alla prima elezione diretta che alle

nuove adesioni, inclusa quella dei 5 Laender conseguita all’unificazione tedesca.

Attualmente, nella Settima legislatura (2009-2014) il PE è composto da deputati che

si riconoscono in oltre 100 partiti nazionali, riuniti in gruppi parlamentari

transnazionali cui partecipano i parlamentare europei di orientamento affine,

indipendentemente dalla loro nazionalità. Tuttavia, generalmente solo nei due gruppi

parlamentari più numerosi sono rappresentate tutte le nazionalità.

Il Trattato di Lisbona ha fissato in 750 più il Presidente il numero massimo dei

parlamentari europei che sarà possibile eleggere dalla prossima legislatura in poi, a

meno di ripensamenti, indipendentemente dal numero delle adesioni di nuovi paesi

che in futuro potranno interessare l’UE. Il numero minimo di deputati eletti in un

paese è fissato in sei, mentre il massimo è pari a novantasei. Nell’attuale settima

legislatura che si concluderà nel 2014, il numero di eletti è pari a 753. Così come in

Francia e nel Regno Unito, paesi di pari consistenza demografica anche in Italia il

numero di deputati è stato ridotto da 78 a 72; all’Italia è stato inoltre attribuito un

deputato osservatore che si è aggiunto nel 2011, mentre la Francia oggi conta 74

parlamentari.

Il numero di parlamentari si è accresciuto in seguito ai successivi ampliamenti, ma

non solo. Mentre il numero di deputati per il Lussemburgo è rimasto immutato nel

corso degli anni, il numero dei parlamentari eletti negli altri paesi ha avuto

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l’incremento maggiore – da 36 ad 81 deputati per i paesi più grandi – nella prima

legislatura nella quale il PE è stato eletto, invece che nominato.

Il Parlamento Europeo ha sede ufficiale a Strasburgo, che fin dal 1952 è stata sede

dell’Assemblea, ma gran parte dei lavori parlamentari, ad esempio quelli delle

commissioni, si svolgono a Bruxelles.

I poteri costituzionali del Parlamento Europeo sono ancora molto inferiori a quelli dei

parlamenti nazionali specialmente in riferimento ai rapporti che esistono tra questi e i

governi, che sono espressione della maggioranza parlamentare. Tuttavia, il PE ha

utilizzato ogni occasione per spingersi ai confini delle sue possibilità di intervento, ad

esempio sottoponendo i commissari all’audizione che prelude il loro insediamento,

oppure impegnandosi in un accordo interistituzionale con il Consiglio e la

Commissione per la stesura del bilancio, o per la procedura dei comitati di

conciliazione, La procedura di parere conforme, che viene usata per accordi

internazionali, fondi strutturali, sanzioni verso uno stato membro, rappresenta tuttavia

un ampliamento di potere più simbolica che reale.

Il Consiglio dell’UE

In passato denominato Consiglio dei Ministri o Consiglio dell’Unione Europea, è

composto dai ministri dei paesi membri, che rispondono al proprio parlamento

nazionale delle decisioni assunte collettivamente. Si tratta dunque di un’istituzione a

carattere inter-governativo nella quale, per ciascun paese, siede un solo

rappresentante del governo, di volta in volta competente per la materia del suo

dicastero. Il suo compito è, principalmente, quello di tutelare gli interessi nazionali

nel corso delle discussioni che precedono ogni decisione comune ed in sede

deliberante.

Il Consiglio presiede all’attività legislativa dell’Unione Europea ed ha il potere di

controllo finale sulla normativa comunitaria. Dall’entrata in vigore del TUE, per

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quanto riguarda le decisioni relative alla Comunità Europea, che costituiva il primo

pilastro nell’architettura dell’Unione, questa funzione veniva esercitata insieme al

Parlamento Europeo, deliberando sulle proposte avanzate dalla Commissione.

L’adozione di decisioni comuni poteva essere effettuata secondo le procedure di

consultazione , di cooperazione , co-decisione e parere conforme, che si applicano

coerentemente a quanto indicato nei trattati, e si differenziano tra loro per il diverso

grado di coinvolgimento richiesto da parte del PE. Tradizionalmente, la materia

agricola era soggetta alla procedura di consultazione, per le spese non obbligatorie

del bilancio comune si applicava la procedura di cooperazione, mentre per le

decisioni nell’ambito del mercato interno vigeva la procedura di co-decisione. Il

Trattato di Lisbona ha esteso il ricorso a tale procedura che diviene così la procedura

ordinaria per l’adozione delle decisioni abituali. Ne restano escluse alcuni importanti

ambiti decisionali tra cui la materia fiscale.

L’attività decisionale esercitata nell’ambito degli altri due pilastri previsti dal Trattato

di Maastricht (Trattato dell’Unione Europea) era soggetta a procedure diverse.

Nell’area della politica estera e sicurezza comune (PESC), che costituiva il secondo

pilastro, il Consiglio doveva seguire gli orientamenti dettati dal Consiglio europeo

giungendo alla formulazione di azioni o posizioni comuni, mentre nell’area degli

affari interni e giustizia (GAI), che costituiva il terzo pilastro, il Consiglio agiva su

iniziativa della Commissione ovvero di uno stato membro e, oltre ad adottare

posizioni comuni, poteva anche emanare decisioni e stabilire convenzioni.

Oltre all’attività legislativa, il Consiglio condivide con il Parlamento Europeo la

responsabilità di approvare il bilancio generale dell’UE, ed ha il compito di

coordinamento delle politiche economiche degli stati membri e di ratifica degli

accordi internazionali stipulati a nome della Comunità, in primis gli accordi

commerciali che impegnano i paesi dell’Unione Europea nell’ambito del

GATT/WTO.

Il semestre di presidenza del Consiglio viene assunto a turno dai paesi membri

secondo un ordine che tradizionalmente rispettava l’ordine alfabetico dei nomi dei

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paesi membri in lingua originale. Dal 1993 tuttavia l’ordine è stato modificato ed i

turni di presidenza vengono stabiliti periodicamente di comune accordo per diversi

anni a venire. Per garantire continuità nella gestione dell’agenda, la presidenza di

turno lavora in stretto contatto con quella che l’ha preceduta e quella che seguirà

nell’ambito della cosiddetta “troika”; quindi la responsabilità effettiva del semestre di

presidenza copre, di fatto, diciotto mesi.

Il Consiglio si riunisce in formazione diversa a seconda del tema da trattare: ne fanno

parte, in base alla specifica area di competenza, di volta in volta i ministri

responsabili in sede nazionale dell’argomento posto all’ordine del giorno. Le

formazioni di più antica data - quali il Consiglio “Affari generali” composto dai

ministri degli esteri ed il Consiglio “Agricoltura” composto dai ministri

dell’agricoltura - sono state affiancate dal Consiglio “Ecofin” composto dai ministri

dell’economia e delle finanze, e successivamente anche dai Consigli Lavoro,

Trasporti, Energia, Ambiente e successivamente Sanità, Turismo ed altri. Per questa

sua peculiarità, che coniuga unità e variabilità di composizione, il Consiglio è stato

paragonato all’Idra di Lerna, il mostro con tante teste su un corpo solo, descritto dalla

mitologia classica. Il paragone intendeva sottolineare l’inconsueto aspetto multi-

forme che contraddistingue questa istituzione, le cui caratteristiche fanno sì che essa

si differenzi totalmente da un Consiglio dei ministri tradizionale, riferito ad un

governo nazionale, nel quale siedono tutti i ministri del governo in carica.

Il Trattato di Lisbona, forse anche per questo, ha cambiato la denominazione da

Consiglio dei ministri a Consiglio dell’Unione Europea e, fissando in dieci il numero

delle sue formazioni, ha proseguito nella tendenza a ridurre il numero delle teste

dell’Idra, una caratteristica che spesso - ostacolando l’unitarietà di comportamenti a

causa, ad esempio, di vedute ed opinioni opposte tra i ministri economici ed i ministri

dell’agricoltura - è stata ritenuta un limite all’efficacia dell’operato del Consiglio.

Infatti, benché la variabilità della sua composizione non ne pregiudichi l’unità

istituzionale, sono stati a volte sollevati dubbi sull’efficacia di un processo

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decisionale che si affida ad una formazione variabile a seconda della materia trattata.

Da questo connotato istituzionale conseguirebbe inevitabilmente una certa

frammentarietà delle decisioni, quando non addirittura una vera e propria

deresponsabilizzazione, lamentata in primo luogo riguardo alle decisioni di spesa a

carico del bilancio comune. Alle molte teste del Consiglio è stata attribuita in passato

una delle principali cause del progressivo lievitare delle spese di bilancio, una

circostanza che ha portato a diverse crisi finanziarie ed istituzionali nel corso degli

anni Ottanta.

Dalle ventidue formazioni esistenti negli anni Novanta, oggi sono presenti: 1. Affari

generali, costituito dai ministri degli esteri lavora a stretto contatto con il Consiglio

europeo; 2. Affari esteri, presieduto dall’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari

esteri e la politica di sicurezza (posizione ricoperta oggi dalla signora Catherine

Ashton); 3. Economia e finanza (Ecofin), si riunisce una volta al mese ed è

competente anche per le questioni relative all’unione monetaria; in tal caso sono

abilitati alla votazione solo i ministri dei paesi che hanno adottato la valuta comune e

che costituiscono l’Eurogruppo; 4. Giustizia e affari interni (GAI), composto dai

ministri degli interni; 5. Occupazione, politica sociale, salute e consumatori, 6.

Competitività (mercato interno, industria, ricerca e spazio), 7. Trasporti,

telecomunicazioni ed energia, 8. Agricoltura e pesca, 9. Ambiente, 10. Istruzione,

gioventù, cultura e sport.

Le proposte avanzate dalla Commissione possono talvolta essere votate a

maggioranza semplice o più spesso a maggioranza qualificata, ma il ricorso esplicito

alle votazioni è meno frequente della ricerca del consenso unanime di tutto il

Consiglio.

Il Trattato di Roma stabiliva che l’unanimità dovesse essere raggiunta de jure

obbligatoriamente soltanto durante gli anni del periodo transitorio (1957-1969) e, al

termine di questo periodo, solo per le nuove adesioni e per l’adozione di proposte che

non fossero state presentate dalla Commissione. In effetti invece, la prassi ha voluto

che l’unanimità sia stata ricercata de facto in ogni occasione anche molto dopo il

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1969. Questa consuetudine si è radicata in conseguenza all’accaduto durante il

“periodo della poltrona vuota”, conclusosi con il “Compromesso del Lussemburgo”.

La Francia, contraria all’approvazione del pacchetto presentato dalla Commissione

che si articolava in tre punti - regolamentazione del settore agricolo, istituzione di

risorse di bilancio autonome e accresciuti poteri per il Parlamento Europeo – ritirò la

propria delegazione e si astenne dal partecipare alle riunioni per protesta finché il 28

gennaio 1966 fu raggiunto un accordo secondo il quale, se un paese avesse dichiarato

che una decisione comune avrebbe potuto mettere a rischio importanti interessi

nazionali, il Consiglio si sarebbe impegnato a ricercare una soluzione accettabile da

tutti i suoi membri.

Il Compromesso del Lussemburgo, dovuto all’insistenza francese per la ricerca del

consenso unanime, ha avuto effetti di lungo termine sulla prassi delle votazioni. La

strategia dell’astensione dalle attività collegiali ha avuto un effetto durevole sulle

procedure di votazione. Anche se in seguito non sono mancati i tentativi, anche

autorevoli, di far applicare il dettato costituzionale, si è osservata una notevole

riluttanza a sostituire la prassi delle votazioni all'unanimità con votazioni a

maggioranza in tutti quei casi in cui questa procedura sarebbe stata consentita. A ciò

ha contribuito il fatto che “gli interessi vitali della nazione” sono stati spesso invocati

con disinvoltura anche se non sempre con lo stesso esito. Ad esempio nel 1982

quando il Regno Unito oppose un veto, senza successo, alla annuale decisione

sull’aumento dei prezzi agricoli perché voleva collegarla ad una riduzione del suo

contributo al bilancio, o nel 1983 quando, nella stessa occasione, la Germania giudicò

insufficiente l’aumento dei prezzi agricoli proposto dalla Commissione e riuscì ad

impedire che si arrivasse alla decisione che osteggiava. Si ritiene che la ricerca

dell’unanimità sia stata un motivo non secondario di difficoltà ai fini del

contenimento della spesa agricola, per lunghi anni uno dei problemi più spinosi nei

rapporti tra i paesi e le istituzioni comunitarie. La soluzione di compromesso, infatti,

spesso è stata trovata nella pratica del log-rolling, cioè dell’approvazione incrociata

delle istanze di tutti i paesi, collegate tra loro in “pacchetti” da votarsi in toto. In

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molti casi, nessuna di queste proposte, singolarmente presa, avrebbe potuto

raccogliere i voti necessari per essere approvata, ma in presenza di un vincolo di

bilancio accomodante (soft budget constraint) è la composizione stessa del

“pacchetto” che ne rende possibile l’approvazione.

Benché già nelle conclusioni del Consiglio europeo di Parigi del 1974 venisse

incoraggiato esplicitamente un maggiore ricorso alle votazioni a maggioranza, come

era previsto dal Trattato di Roma, queste sono entrate nella prassi solo in seguito

all’entrata in vigore dell’Atto Unico Europeo, che le richiede espressamente per le

decisioni relative al “completamento del mercato interno”, cioè quelle che riguardano

la rimozione degli ostacoli che limitano la libera circolazione dei beni, dei servizi,

delle persone e dei capitali.

Tabella 1 – Evoluzione della ponderazione dei voti nel Consiglio per le votazioni a

maggioranza qualificata in seguito agli ampliamenti

CE-6 CE-9 CE-10 CE-12 UE-15 UE-25 CEEA

Francia 4 10 10 10 10 29 10

Germania 4 10 10 10 10 29 10

Italia 4 10 10 10 10 29 10

Belgio 2 5 5 5 5 12 5

Paesi Bassi 2 5 5 5 5 13 5

Lussemburgo 1 2 2 2 2 4 2

Danimarca 3 3 3 3 7 3

Irlanda 3 3 3 3 7 3

Regno Unito 10 10 10 10 29 10

Grecia 5 5 5 12 5

Spagna 8 8 27 8

Portogallo 5 5 12 5

Austria 4 10 4

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Finlandia 3 7 3

Svezia 4 10 4

Repubblica Ceca 12 5

Estonia 4 3

Cipro 4 2

Lettonia 4 3

Lituania 7 3

Ungheria 12 5

Malta 3 2

Polonia 27 8

Slovenia 4 3

Slovacchia 7 3

totale 17 58 63 76 87 321 124

maggioranza 12 41 45 54 62 232 88

Quota % 0.706 0.707 0.714 0.711 0.713 0.723 0.71

La procedura di voto in base alla maggioranza qualificata prevede che ai paesi

vengano attribuiti voti in proporzione alla popolazione che rappresentano e che per

essere approvata una proposta debba raccogliere un numero di voti favorevoli non

inferiore ad una soglia prefissata.

La ponderazione dei voti per i sei paesi fondatori erano stata stabilita secondo il

seguente criterio: 4 per i tre più grandi (Francia, Germania e Italia), 2 per Belgio e

Paesi Bassi ed 1 per il Lussemburgo e con la soglia di 12 voti favorevoli necessari

perché una mozione potesse passare. Dopo il primo ampliamento la ponderazione è

stata rivista per consentire a Danimarca e Irlanda un peso che riflettesse la loro

dimensione intermedia nell’ambito dei tre paesi più piccoli.

Le Tabelle 1 e 2 mostrano rispettivamente come è cambiata la ponderazione dei voti e

la soglia per la maggioranza qualificata. Inizialmente definita dal rapporto 12/17, pari

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cioè al 70,6%, di conseguenza è stata posta pari a 41 voti favorevoli sul totale di 58,

in modo da mantenere la stessa quota del 71% di voti favorevoli. In seguito ai

successivi ampliamenti queste cifre sono state modificate ed attualmente per ottenere

la maggioranza qualificata in seno al Consiglio dell’Unione occorrono 255 voti su un

totale di 345, che corrisponde ad aver elevato la soglia al 74% dei voti favorevoli per

adottare una delibera. Pertanto, una delibera può essere bloccata da una minoranza in

grado di raccogliere 91voti contrari.

Il Consiglio è assistito nella sue funzioni dal Comitato dei Rappresentanti Permanenti

(COREPER) un organo composto di ambasciatori che rappresentano gli stati membri

presso l’UE e che ha il compito di preparare le riunioni dei ministri coordinando

l’attività di numerose commissioni tecniche, comitati e gruppi di lavoro e di risolvere

preliminarmente le questioni che, per loro natura, non richiedono l’intervento diretto

del Consiglio.

Tabella 2 - Ponderazione nel Consiglio per votazioni a maggioranza qualificata

Paesi Numero di voti

Germania, Francia, Italia, Regno Unito 29

Spagna, Polonia 27

Romania 14

Paesi Bassi 13

Belgio, Repubblica ceca, Grecia, Ungheria, Portogallo 12

Austria, Bulgaria, Svezia 10

Danimarca, Irlanda, Lituania, Repubblica slovacca, Finlandia 7

Cipro, Estonia, Lettonia, Lussemburgo, Slovenia 4

Malta 3

Totale 345

Da più parti sono state avanzate in diverse occasioni opinioni critiche in merito alla

struttura ed al funzionamento del Consiglio relativamente all’insufficiente coesione

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tra i consigli settoriali, alla lentezza delle procedure, ed alla eccessiva dispersione del

potere, che rende difficile prendere decisioni rapide ed incisive.

Alcuni dei cambiamenti introdotti ne hanno migliorato la capacità decisionale: il

maggiore ricorso alle votazioni a maggioranza, la maggiore continuità assicurata

dalla troika, lo sviluppo di programmi di ampio respiro graduali e di lungo periodo, il

maggior potere e responsabilità alla presidenza.

La Commissione Europea

Nell’ambito delle istituzioni dell’Unione Europea, la Commissione, che ha sede a

Bruxelles, è l’apparato burocratico con funzioni propositive ed esecutive cui è stato

affidato il compito di assicurare il funzionamento e lo sviluppo del mercato comune.

In base al Trattato di Lisbona la Commissione europea promuove l’interesse generale

dell’UE e a tal fine adotta iniziative. Vigila sull’applicazione dei Trattati e del diritto

dell’UE sotto il controllo della Corte di Giustizia. Dà esecuzione al bilancio e

gestisce i programmi. Esercita funzioni di coordinamento, di esecuzione e di

gestione, alle condizioni stabilite dai trattati. Assicura la rappresentanza esterna

dell'Unione, fatta eccezione per la politica estera e di sicurezza comune e per gli altri

casi previsti dai trattati. Avvia il processo di programmazione annuale e pluriennale

dell'Unione per giungere ad accordi interistituzionali. La Commissione è un organo

tecnico, non politico, anche se a volte si è resa promotrice di iniziative di ampio

respiro, che comportavano inevitabilmente implicazioni politiche.

Questa caratteristica di organo tecnico con finalità politiche era già ben presente

nell’Alta Autorità, l’organismo che ha preceduto la Commissione nell’impianto

istituzionale della CECA. All’Alta Autorità erano state attribuite competenze tecniche

necessarie per l’organizzazione del settore carbo-siderurgico, ma, oltre al suo operare,

il fatto stesso che fosse stata istituita, rivestiva un innegabile significato politico,

coerentemente con l’approccio funzionalista all’integrazione. Per questa ragione, il

confronto tra i poteri esecutivi della Commissione e quelli dei singoli governi

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361

nazionali è piuttosto improprio, dato che la Commissione non è un governo; ma

anche il confronto con altri organismi tecnici, quali le segreterie delle diverse

organizzazioni internazionali, appare mal posto e decisamente riduttivo.

I componenti della Commissione devono essere cittadini di uno stato membro e

vengono scelti tra personalità che offrono massima garanzia di indipendenza,

competenza ed impegno europeo. I commissari vengono nominati di comune accordo

dagli stati membri dal presidente della Commissione, dopo che questo è stato eletto

dal Parlamento europeo su proposta da parte del Consiglio europeo. Il presidente

della Commissione partecipa alla selezione dei commissari dato che la Commissione

deve seguirne gli orientamenti politici. Una volta nominati, i commissari “non

sollecitano né accettano istruzioni da alcun governo, istituzione,organo o organismo”

rimangono in carica per cinque anni con mandato rinnovabile e devono rassegnare le

dimissioni se il presidente lo chiede.

La durata dell’incarico, inizialmente stabilita in quattro anni, è stata elevata a cinque

in modo che il rinnovo della Commissione avvenga in coincidenza con l’inizio di

ogni nuova legislatura. Il Parlamento, eletto sei mesi prima, sottopone tutti i

commissari a un’audizione e al voto e in qualsiasi momento può esprimere la sfiducia

alla Commissione intera costringendola a dimettersi in blocco.

Il Trattato di Roma richiedeva la nomina di almeno un commissario per ogni paese

membro, ed inizialmente si era stabilito che dai paesi “grandi” avessero diritto ad

inviare due commissari. Oggi nella Commissione europea siede un rappresentante per

ogni paese. Tuttavia, in seguito alle adesioni del nuovo millennio, che hanno quasi

raddoppiato il numero dei paesi membri ed in previsione di ulteriori ampliamenti, è

stato convenuto di limitarne il numero ai due terzi del numero dei paesi membri, a

partire dalla nomina della prossima Commissione che avverrà il 1° novembre 2014 e

di instaurare una rotazione paritaria che tenga conto delle caratteristiche

demografiche e geografiche dei paesi e ne rifletta la varietà.

L’indipendenza dai governi nazionali ed il compito di salvaguardare gli interessi

collettivi della Comunità hanno indotto a ritenere che questa istituzione intenda

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prefigurare un modello federale di governo. Di conseguenza, il suo operato andrebbe

valutato in termini sia della tendenza ad una dilatazione dei suoi poteri, che di un più

o meno rapido approssimarsi alla struttura di un’eventuale federazione. La

controversia sull’opportunità di un’evoluzione dell’UE verso una federazione

europea ha fatto sì che la Commissione sia stata oggetto di valutazioni contrastanti: è

stata definita da un lato “il cuore e il motore della Comunità” e allo stesso tempo,

nelle parole di de Gaulle, “questo embrione di tecnocrazia in gran parte straniera”.

La Commissione è organizzata in Direzioni Generali, in genere poste sotto la guida

speciale di un commissario e Servizi generali che fanno capo al presidente, sul quale

grava anche la responsabilità sull’operato dell’istituzione. La struttura organizzativa

viene ridefinita al momento dell’insediamento di ogni nuova Commissione, anche

allo scopo di includere le aree di competenza comunitaria che possono essersi

aggiunte col procedere dell’integrazione. Non esiste tuttavia una precisa

corrispondenza tra il numero dei commissari e quello delle direzioni generali. I

commissari nominano il proprio gabinetto e sono responsabili di un portafoglio, che

può corrispondere ad una o più direzioni generali (o anche ad una parte di queste) o a

una serie di problematiche. Anche se l’iniziativa dei singoli commissari viene in

genere favorita dalla coincidenza tra l’area della propria direzione generale e del

portafoglio, questa corrispondenza flessibile sottolinea il carattere collegiale cui si è

sempre ispirato il metodo di lavoro della Commissione.

Nell’ambito del sistema decisionale comunitario, la Commissione europea ha il

diritto di iniziativa politica, che consiste nel formulare proposte nell’interesse

generale della Comunità da sottoporre al Parlamento e al Consiglio. Il campo di

azione può comprendere obiettivi strategici e di grande portata come sono stati i

provvedimenti in campo monetario per l’avvio del Sistema Monetario Europeo per la

Commissione Jenkins (1977-81) o il completamento del mercato interno per la

Commissione Delors (1985-95), o l’ampliamento, difficile per il necessario

adeguamento istituzionale, a dieci nuovi paesi per la Commissione Prodi (2000-

2004), oppure anche soltanto proporre la legislazione per gestire una politica esistente

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o che si rende necessaria in seguito all’inclusione di una nuova area di interesse

comune.

Le proposte devono riguardare aree comprese nella giurisdizione comunitaria o ad

essa riconducibili e vengono discusse preliminarmente, attraverso scambi di opinioni

e pareri tecnici, con i rappresentanti di tutti i settori della società, in modo di cercare

di conciliare i diversi interessi. La Commissione svolge così anche un ruolo di

mediazione tra gli stati membri con l’obiettivo di vigilare sul prevalere degli interessi

dell’Unione su quelli nazionali.

Il ruolo di “guardiano dei Trattati” comporta il potere di controllo sull’effettivo

rispetto dei principi dei Trattati e della normativa europea da parte di individui,

imprese, stati membri. La Commissione può indagare e verificare il rispetto delle

norme. Se rileva un’applicazione scorretta della legislazione europea, può avviare

procedure di infrazione e comminare ammende. In caso di perdurante inadempienza a

conformarsi alla normativa comune la Commissione si appella alla Corte di giustizia.

Tuttavia, l’area di interesse comunitario col tempo si è molto ampliata, la

Commissione, che dispone di un organico di circa 23000 unità, non ha personale

sufficiente per svolgere autonomamente questa funzione in modo adeguato. È stato

perciò introdotto l’obbligo di notifica: ad esempio, devono essere notificati alla

Commissione tutti gli atti legislativi da parte dei paesi che intendano erogare sussidi

statali potenzialmente in contrasto con la politica di concorrenza, oppure le decisioni

delle imprese che progettano standard nazionali che potrebbero costituire un ostacolo

agli scambi anche indirettamente.

La Commissione ha il potere esecutivo sia nella gestione del bilancio generale per il

finanziamento delle politiche comuni, che per alcune politiche – tra cui la politica di

concorrenza - per le quali la normativa prevede una maggiore autonomia decisionale;

la Commissione rappresenta gli stati membri nei negoziati sul commercio

internazionale ed in genere nelle relazioni commerciali esterne. In questa veste, ha

rappresentato l'interlocutore privilegiato dell’amministrazione americana riguardo

alla definizione degli accordi WTO. Inoltre, ha assunto il coordinamento degli aiuti

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364

occidentali alle economie dell’Europa centro-orientale e cura la raccolta di

informazioni e pareri tecnici su cui si costruiscono i negoziati per le nuove adesioni.

Nell’operato della Commissione ampia delega di responsabilità viene assegnata alle

strutture amministrative degli stati membri. Nell’avallare questa scelta si è

privilegiato il modello tedesco nel quale la legge federale viene applicata dalle

autorità locali, a differenza di quanto avviene negli Stati Uniti dove questo compito è

assegnato alle autorità federali. Ciò consente di mantenere un organico più snello, ma

nello stesso tempo comporta una minore efficacia dell’azione sia nel caso di

incapacità che nel caso di mancanza di volontà locale ad applicare la normativa.

La Commissione è stata al centro di tutti i principali cambiamenti intervenuti

nell’Unione Europea: il programma per il completamento del mercato interno; lo

sviluppo dei piani per l'unione economica e monetaria; la formulazione di una nuova

generazione di politiche ambientali; il disegno di una strategia di sviluppo per le

regioni arretrate della CE, la costruzione di programmi di ricerca in collaborazione

con il settore privato.

Un ruolo di questa importanza è stato giocato senza che sia stata sostanzialmente

modificata né la struttura, né l’organizzazione della Commissione, che in massima

parte rispecchia quanto deciso nel 1957. Questo risultato è attribuibile ad elementi sia

esterni, quali i cambiamenti nelle priorità degli stati membri, nell’agenda comunitaria

e nei rapporti con le altre istituzioni, che interni: in primo luogo il personale politico

del collegio dei commissari - che generalmente hanno ricoperto ruoli politici di

spicco nei loro paesi più spesso come ministri o leader politici, ma anche come

accademici ed altre personalità che a vario titolo hanno svolto un importante ruolo

nella vita pubblica.

Il giudizio sull’attuale status della Commissione all’interno della complessa strategia

istituzionale della UE è controverso. È stata avanzata l’ipotesi un indebolimento dei

poteri della Commissione. Il declino sarebbe osservabile fin dalla conclusione del

periodo transitorio e riconducibile ad un insieme di fattori, anche contraddittori, che

fanno riferimento da un lato alla partecipazione tiepida di una parte dei paesi nuovi

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aderenti e alla difficoltà di gestione degli impegni assunti e dall’altra al pressoché

continuo emergere di questioni delicate che mettono in evidenza il problema del

cosiddetto “gap democratico” delle istituzioni comunitarie.

Una prova del suo ruolo meno propositivo ed anche della minore capacità di fare

osservare le politiche decise, sarebbe il mancato aumento dei suoi poteri nei due

nuovi pilastri che hanno affiancato la Comunità Europea nelle disposizioni del

Trattato di Maastricht. Questa interpretazione non sembra convincente. La sua

influenza, e indirettamente i suoi poteri, sono aumentati con l’ampliarsi delle

politiche e l’aggiungersi delle nuove aree di competenza. Pur non rappresentando

l’unica forza motrice, è indubbio che svolga un ruolo centrale nel processo di

integrazione.

La Corte di Giustizia dell’Unione Europea

La Corte di Giustizia dell’Unione Europea comprende la Corte di Giustizia, il

Tribunale e i tribunali specializzati ed è assistita dagli avvocati generali. E’ necessario

evitare di confondere la Corte di Giustizia, che ha sede in Lussemburgo, sia con la

Corte Europea dei Diritti Umani di Strasburgo, organismo del Consiglio d’Europa,

che con la Corte Internazionale di Giustizia dell'Aia, organismo delle Nazioni Unite.

Solo la prima fa parte dell’impianto istituzionale dell’UE. La sua attività ha avuto

inizio con il Trattato di Parigi che nel 1951 ha istituito la CECA. La sua giurisdizione

è stata poi estesa alle altre due Comunità Europee (CEE e Euratom) istituite dai

Trattati di Roma nel 1957. La Corte di giustizia ha il compito di far osservare i

Trattati e la normativa adottata dalle istituzioni comuni sia attraverso l’interpretazione

che l’applicazione della legislazione comune. Occorre infatti assicurarsi che in

ciascun paese il diritto venga applicato allo stesso modo.

I giudici rimangono in carica per sei anni rinnovabili. Al fine di assicurare continuità

all’istituzione, i mandati non scadono mai contemporaneamente, ma ogni tre anni si

procede alla nomina di una parte dei suoi componenti e all’elezione del presidente

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della Corte. Nonostante che per consuetudine l’incarico venga attribuito tenendo

conto, oltre che della comprovata indipendenza e competenza giuridica, anche della

nazionalità dei giudici – uno per stato membro, così come per il Tribunale - questi

non rappresentano il proprio paese in seno alla Corte.

L’indipendenza del loro ruolo è protetta sia dalla segretezza delle votazioni che si

tengono a maggioranza che dall’inamovibilità. Quest’ultima sussiste a meno che, con

votazione unanime da parte dei membri della Corte stessa, venga riconosciuta

un’evidente impossibilità a continuare a svolgere l’attività giudicante. Le procedure

di voto a maggioranza e l’indipendenza dalla nazionalità, insieme al ruolo che le è

stato assegnato, concorrono a definire il carattere sovranazionale di questa istituzione.

La Corte si riunisce in seduta plenaria solo su richiesta di uno stato o di una

istituzione parte in causa, mentre di solito i lavori si svolgono in una delle otto

sezioni composte di tre giudici o di cinque per le questioni più complesse. Nella sua

attività è assistita dagli avvocati generali cui è demandato il compito di esaminare il

caso e presentarlo alla Corte in udienza pubblica.

La Corte dirime controversie sorte tra gli stati membri, fra le istituzioni e gli stati

membri ed anche fra le istituzioni stesse: ad esempio, nel 1983 Parlamento Europeo

ricorse alla Corte di Giustizia contro il Consiglio dei Ministri imputato di non aver

realizzato la politica comune dei trasporti come prescritto dal Trattato di Roma,

mentre nel 1986 fu il Consiglio dei Ministri a ricorrere contro il Parlamento Europeo

per la mancata approvazione del bilancio. I ricorsi possono essere per inadempimento

al fine di obbligare gli stati membri ad osservare la normativa comunitaria; di

annullamento, in caso di illegittimità di atti vincolanti emessi nell’ambito della

normativa comunitaria; per carenza, contro l’inattività delle istituzioni comunitarie; o

anche per risarcimento di danni derivanti dall’esercizio delle funzioni di istituzioni

comunitarie.

La Corte di giustizia ha il potere di condannare ad ammende la parte inadempiente se

accerta il mancato rispetto delle sue sentenze che sono inappellabili.

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Secondo le disposizioni dell'AUE, dal 1989 la Corte di giustizia è stata affiancata dal

Tribunale di primo grado, una corte con struttura analoga alla Corte di Giustizia, che

insieme ad essa fa parte della Corte di Giustizia dell’UE. Si tratta di un Tribunale di

grado inferiore, che si occupa dei ricorsi per annullamento, carenza o risarcimento da

parte di persone fisiche o giuridiche contro le istituzioni comunitarie, incluse le

controversie con i dipendenti della Comunità. Le sentenze del Tribunale di primo

grado sono appellabili presso la Corte di Giustizia. Il Tribunale è competente per i

ricorsi degli stati membri contro la Commissione, per gli aiuti di stati e le pratiche

commerciali, per la proprietà intellettuale, la concorrenza, i marchi.

Giudicando sui rapporti tra le istituzioni, la Corte di giustizia assume un ruolo

costituzionale, mentre ai fini dell’interpretazione e applicazione uniforme del diritto

ha l’autorità di corte suprema. Il Trattato di Amsterdam ha esteso la giurisdizione

della Corte di Giustizia alle materie incluse nel terzo pilastro dell’UE e ne ha stabilito

la competenza a “pronunciarsi in via pregiudiziale sulla validità o l’interpretazione

delle decisioni-quadro e delle decisioni, sull’interpretazione di convenzioni (…) e

sulla validità e interpretazione delle misure di applicazione delle stesse.”

Il ruolo che ha svolto la Corte di Giustizia nella storia dell’UE è forse meno noto, ma

è stato di grande importanza ai fini della definizione delle caratteristiche

dell’istituzione europea che oggi conosciamo. A ciò hanno contribuito diversi

elementi, tra i quali occorre ricordare l’interpretazione in senso evolutivo che ha dato

dell’equilibrio tra le competenze degli Stati membri e quelle trasferite alle istituzioni

comuni, ma, ancor prima, l’aver sancito i due principi fondamentali dell’efficacia

diretta del diritto comunitario negli stati membri e del primato della norma

comunitaria sulla norma nazionale. Quest’ultimo, necessario per evitare applicazioni

discordanti della normativa negli stati membri, ha avuto un ruolo determinante nel

rafforzare le caratteristiche sovranazionali, e dunque la cifra federalista, della

costruzione istituzionale europea. In seguito ai pronunciamenti della Corte di

Giustizia i cittadini europei possono appellarsi alla normativa comunitaria davanti ai

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propri giudici ed far invalidare la normativa nazionale qualora se ne riconosca

l’incongruenza.

La Corte di Giustizia ha svolto un ruolo decisivo nel processo di integrazione, sia

riguardo alla struttura costituzionale dell’UE, dove passi importanti sono stati

compiuti grazie a sentenze della Corte che hanno esteso le competenze dell’UE nel

campo delle politiche sociali e ancora di più nell’ambito del mercato comune dove la

Corte è intervenuta a garanzia delle quattro libertà. Non si deve ritenere però che la

Corte di Giustizia abbia deliberato sempre a favore di un’estensione delle prerogative

comunitarie: ad esempio in una causa iniziata dal Regno Unito contro la

Commissione diede ragione al Regno Unito e sentenziò che la Commissione non

disponeva della base legale per finanziare progetti pilota il cui scopo era quello di

combattere la povertà e l’esclusione sociale.

L’interpretazione ampia della libera circolazione dei beni ha consentito, prima con la

sentenza Dassonville del 1974, e successivamente con la sentenza Cassis de Dijon

del 1979, l’affermazione del principio generale di riconoscimento reciproco, mentre

l’interpretazione della libera circolazione delle persone ha contribuito ad eliminare

varie discriminazioni, in genere basate sulla diversa nazionalità, a carico degli

immigrati. Nell’interpretazione della libera circolazione dei capitali sono state

dichiarate illegittime le autorizzazioni nazionali all’esportazione di monete,

banconote e assegni.

Tuttavia il potere della Corte di Giustizia come propulsore dell’integrazione europea

è limitato essendo più facile che dia luogo a provvedimenti inquadrabili come

integrazione negativa piuttosto che positiva. Infatti, i suoi pronunciamenti sono in

grado di interpretare o emendare una politica esistente, ma più difficilmente riescono

a dar vita ad una nuova politica. Viene spesso riconosciuto il ruolo di grande

importanza che la Corte di Giustizia ha svolto nell’indirizzo della normativa

comunitaria in senso sovranazionale e per il rafforzamento del mercato comune, ma il

programma di completamento del mercato interno ha dovuto essere adottato

attraverso atti legislativi ad hoc.

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Il Consiglio europeo

Il Consiglio europeo, da non confondere con il Consiglio d’Europa, non faceva parte

dell’impianto istituzionale originario della Comunità Europea, ma è stato aggiunto

trenta anni più tardi dall’Atto Unico Europeo, che nel 1987 ha apportato la prima

revisione al Trattato di Roma. Nei primi anni della Comunità, le massime autorità

politiche dei paesi membri occasionalmente si riunivano, anche in assenza di una

specifica disposizione nei Trattati, per discutere ai più alti livelli questioni la cui

soluzione incontrava difficoltà nell’ambito del sistema decisionale comunitario.

L’insoddisfazione per il lento procedere dell’integrazione, una volta terminata la fase

di avvio, spinse il presidente francese Giscard d’Estaing ed il cancelliere tedesco

Schmidt a proporre di dar vita ad incontri periodici informali in modo da

istituzionalizzare le riunioni dei capi di stato e di governo dei paesi membri.

Al vertice di Parigi del 1974 i capi di governo rilasciarono un comunicato congiunto

che annunciava che per “… assicurare una generale continuità e coerenza nelle

attività della Comunità e nel lavoro sulla cooperazione politica” si sarebbero riuniti

tre volte l’anno, assistiti dai loro ministri degli esteri in quello che sarebbe poi

divenuto il Consiglio europeo e del quale fu chiamato a far parte anche il presidente

della Commissione, assistito da un altro membro della Commissione stessa. Per

buona parte degli anni ’80, gli incontri furono dominati dai problemi del

finanziamento della Comunità - relativi alla ripartizione tra gli stati membri dei

contributi e delle spese del bilancio comune - che avevano condotto ad una situazione

di paralisi decisionale dalla quale il Consiglio dei Ministri sembrava incapace di

uscire. Il carattere informale dei vertici, che si tenevano al di fuori dal dettato

costituzionale, e al tempo stesso l’autorevolezza dei suoi esponenti, hanno fatto sì che

il Consiglio europeo abbia potuto conseguire risultati di rilievo nel dare appoggio alle

nuove adesioni, al varo delle Conferenze Inter-Governative (CIG) che precedono le

riforme istituzionali, al progetto di un’Unione Economica e Monetaria.

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Il Consiglio europeo è nato come accordo politico ai massimi vertici, ma al di fuori

del Trattati ed ha mantenuto un carattere extra-costituzionale riconducibile

all’assenza di una base giuridica per le sue riunioni, fino all’adozione dell’Atto Unico

Europeo. Questo, ne ha riconosciuto l’esistenza e precisato la composizione; la

necessità è stata implicitamente dichiarata stabilendo che si debba riunire almeno due

volte l’anno. Tuttavia, i compiti, le competenze ed i rapporti con le altre istituzioni

non furono definiti.

Il Trattato sull’Unione Europea e, successivamente il Trattato di Amsterdam, hanno

provveduto a rendere meno vago il ruolo del Consiglio europeo riconoscendone e

confermandone la responsabilità di definire gli orientamenti politici dell’Unione, con

speciale riferimento al secondo pilastro, cioè alla Politica Estera e Sicurezza Comune

(PESC). È, tuttavia, solo con il Trattato di Lisbona che il Consiglio europeo

acquisisce lo status di istituzione dell’UE: mentre si nega che abbia capacità

legislativa si afferma che da esso deve provenire l’impulso all’azione, l’orientamento

politico, e la definizione delle priorità pronunciandosi per consenso. Viene istituita la

figura del Presidente “permanente”, cioè non più un capo di stato o di governo

determinato in base alla rotazione di presidenza che si applica al Consiglio dell’UE,

ma, una volta eletto per due anni e mezzo rinnovabili una volta, il suo ruolo diviene

incompatibile con un mandato nazionale. Due nuove figure si aggiungono alla sua

composizione tradizionale : il presidente del Consiglio europeo e l’alto

rappresentante dell’UE per gli affari esteri e la sicurezza comune. Vengono

programmate due riunioni per ciascun semestre.

Il Consiglio europeo, privo di potere legislativo e quindi non deferibile alla Corte di

Giustizia, si riuniva abitualmente in giugno e in dicembre al termine di ogni turno di

presidenza per discutere della situazione economica generale dell’UE, dello stato di

avanzamento delle iniziative proposte in sessioni precedenti e spesso anche di

qualche argomento di particolare importanza e attualità o che ha rappresentato

l’impegno speciale del turno di presidenza, mentre per la discussione su punti più

circoscritti e urgenti era stata mantenuta la possibilità di convocare vertici

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“straordinari”. Successivamente, il numero di riunioni programmate è raddoppiato,

l’agenda si è molto accresciuta ed ha acquisito procedure di routine, perdendo così

quell’immagine di riunioni di emergenza nelle quali ci si appella ai decisori di ultima

istanza, una caratteristica dei primi vertici.

È cura della presidenza di turno riferire successivamente i contenuti delle discussioni

alla prima seduta del Parlamento. Date le sue caratteristiche del tutto particolari, è

raro che in seno al Consiglio europeo si voti, mentre è divenuta consuetudine la

stesura di un documento finale, “le conclusioni della presidenza”, che sintetizzi il

consenso generale sui punti trattati. Il fatto che si colga l’occasione del Consiglio

europeo per l’annuncio dei progressi nella soluzione o nell’impostazione di qualche

aspetto politicamente di rilievo ha contribuito a far ritenere che in passato le sue

riunioni siano state determinanti ai fini di sbloccare le questioni più intricate e di

indirizzare gli orientamenti generali dell’apparato istituzionale.

Il Consiglio europeo aggiunge un altro elemento intergovernativo all’impianto

istituzionale dell’UE sia per la struttura, la composizione ed il modus operandi, che

per la tendenza a fissare la direzione strategica globale. Il Consiglio dell’UE, che

resta l’istituzione responsabile dell’attività legislativa, ha ceduto potere per

l’abitudine che ha assunto di deferire al Consiglio europeo le questioni che non riesce

a risolvere. Si tratta quindi di una perdita di potere volontaria: dato che non sono

definiti né il ruolo né le competenze del Consiglio europeo la sottrazione di potere,

non si inquadra in un rapporto strettamente gerarchico, ma corrisponde a quanto il

Consiglio è disposto a farsi sottrarre. Entrambe le istituzioni sono infatti fortemente

impegnate nella strategia intergovernativa del processo di integrazione.

La Corte dei conti

Istituita nel 1975, con sede in Lussemburgo, è entrata in vigore nel 1977 in

sostituzione degli organi di revisione esistenti per le tre Comunità Europee: la

Commissione di controllo di CEE e Euratom e il revisore dei conti della CECA. Il

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TUE la colloca tra gli organi istituzionali comunitari (costituzionali) principali.

Analogamente alla composizione della Corte di Giustizia dell’UE, suoi componenti

sono tanti quanti i paesi membri e sono nominati dal Consiglio su designazione

nazionale. Come per la Corte di giustizia, la nomina deve tener conto della

competenza, certificata dalla precedente attività di revisione svolta dai candidati, e

della loro indipendenza. La Corte dei conti deve esaminare le entrate e uscite del

bilancio della Comunità, accertarne la correttezza e legittimità e una volta l’anno

presentarne il rendiconto. La corte può anche svolgere indagini negli stati membri per

le operazioni che questi effettuano per conto dell’UE (spese dei fondi comuni,

riscossione dei dazi) e negli stati terzi che beneficiano di aiuti finanziari. Il problema

delle frodi è ben presente alla Corte dei conti che ha più volte sollecitato il

miglioramento dei controlli. A richiesta di un’istituzione della CE – un’opportunità

che più spesso è stata sfruttata dal PE – può preparare relazioni su argomenti specifici

a e redigere pareri preventivi quando viene emesso un regolamento finanziario.

La Banca Centrale Europea

Istituita nel 1998, erede dell’Istituto Monetario Europeo (IME) preposto a gestire la

fase di transizione dalle valute nazionali all’euro, la Banca Centrale Europea (BCE)

con sede a Francoforte sul Meno è l’organismo al quale il Trattato di Maastricht

conferisce il diritto di emissione di banconote con corso legale nella Comunità. La

sua struttura si articola in un Consiglio direttivo ed un Comitato esecutivo, e insieme

alle banche centrali nazionali dei paesi che hanno adottato l’euro forma

l’Eurosistema, mentre insieme alle banche centrali nazionali di tutti i paesi membri

dell’UE, dà luogo al Sistema Europeo delle Banche Centrali (SEBC).

Il Comitato esecutivo è composto da presidente, vicepresidente e quattro membri,

tutti di nomina governativa, approvata dalle istituzioni comunitarie, con un mandato

della durata di otto anni.

Nel Consiglio direttivo, che ha la responsabilità della politica monetaria ed è a sua

volta composto dal comitato esecutivo e dai governatori delle banche centrali

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nazionali dei paesi che partecipano all’unione monetaria, ogni membro dispone di un

voto e si delibera votando a maggioranza semplice; in caso di parità il voto del

presidente è decisivo.

L’indipendenza della BCE nel perseguire la politica monetaria - una caratteristica che

negli anni recenti è stata giudicata molto favorevolmente dall’analisi economica - è

sancita dal Trattato, così come viene statuito che l’obiettivo, al quale debbono essere

orientate le decisioni dell’Eurosistema, consiste nel mantenere la stabilità dei prezzi.

Così come accade per la Commissione, anche i componenti di questa istituzione non

devono accettare né tantomeno sollecitare istruzioni provenienti dall’esterno. La BCE

è dotata delle competenze e degli strumenti che le consentono di perseguire una

politica monetaria autonoma.

L’indipendenza politica della BCE è stata fortemente voluta dai paesi le cui banche

centrali nazionali già godevano di questa caratteristica, in primo luogo dalla

Germania. È sembrato impensabile, all’atto della sua costituzione, che tali paesi

potessero acconsentire a partecipare ad un’unione monetaria gestita da una banca

centrale la cui indipendenza fosse ritenuta di un livello inferiore a quanto veniva

garantito alla propria banca centrale. Non si deve dimenticare, tuttavia, che in un

paese democratico l’indipendenza dalla politica pone problemi sul piano della

legittimazione non solo degli obiettivi, ma soprattutto dell’indirizzo da imprimere al

corso delle azioni, degli strumenti da utilizzare quando la scelta è possibile, della

valutazione della scala di priorità e dell’intensità delle stesse. È stato evocato a tale

proposito il dittatore benevolo (Fitoussi, 2003).

Non tutti i paesi membri dell’UE hanno adottato l’euro e quindi non tutti sono

rappresentati negli organi deliberanti della BCE. Tuttavia, le decisioni assunte dalla

BCE, dato l’alto livello di integrazione economica esistente tra i paesi dell’UE, sono

destinate ad incidere anche sulle economie dei paesi che (ancora) mantengono in

circolazione la propria valuta. Questa è una delle ragioni che hanno spinto molti paesi

ad entrare nell’unione monetaria appena le condizioni lo hanno consentito.

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374

La trasparenza, in base alla quale vengono resi noti gli obiettivi e le azioni dirette al

loro conseguimento, rendendo intellegibili le decisioni in merito alla politica

monetaria contribuisce alla credibilità e di conseguenza all’efficacia della politica

stessa.

Una dote altrettanto importante, che non si ottiene per statuto, ma deve essere

conquistata sul campo con la coerenza dell’operato è la credibilità. Questo elemento

viene valutato alla luce della performance della BCE nel perseguire i propri obiettivi

che vengono resi pubblici anche allo scopo di misurare l’efficacia delle misure

intraprese. La trasparenza delle azioni e la credibilità della gestione conferiscono alla

politica monetaria una certa prevedibilità che dovrebbe contribuire alla formazione di

aspettative più precise. Tuttavia, non sempre l’anticipazione delle azioni della BCE

da parte dei mercati è completamente virtuosa. Se da un lato ciò permette una

migliore trasmissione della politica monetaria agli investimenti ed ai consumi,

dall’altro può svuotare l’efficacia della politica stessa rendendo possibile soltanto

interventi “a sorpresa”.

L’ammissione all’unione monetaria è possibile se si dimostra di aver rispettato i

criteri di convergenza che riguardano l’andamento:

a) dei prezzi: il tasso di inflazione non deve superare di oltre 1,5 punti percentuali

quello dei tre stati che hanno conseguito la maggiore stabilità dei prezzi nell’anno

precedente;

b) della finanza pubblica: il disavanzo del bilancio pubblico non deve essere

eccessivo, cioè non deve superare il 3% in rapporto al PIL, ed il debito pubblico non

deve essere superiore al 60% del PIL; tali valori possono essere maggiori se solo se

ne dimostra una continua e rapida discesa, o, per il deficit, se si tratta di un episodio

eccezionale e temporaneo;

c) del tasso di cambio: per almeno due anni il paese deve aver rispettato i margini

di fluttuazione previsti dal Sistema Monetario Europeo e non essere stato costretto a

svalutare nei confronti dell’euro;

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d) del tasso di interesse di lungo termine: nell’anno precedente non deve essere

stato maggiore di oltre 2 punti percentuali di quello osservato nei tre stati membri che

hanno avuto i risultati migliori in termini di stabilità dei prezzi.

Tali criteri sono stati introdotti dal Trattato di Maastricht per determinare

l’ammissione all’unione monetaria prima che questa fosse effettivamente varata e

sono ancora validi per le nuove ammissioni. Anche i paesi che ne fanno parte,

tuttavia, mantengono l’obbligo di osservare i criteri relativi alla finanza pubblica,

mentre per questi paesi è ovviamente decaduto il criterio relativo al tasso di cambio.

Il rispetto dei criteri per l’ammissione riflette la preoccupazione che i paesi che

entrano a far parte dell’unione monetaria non abbiano (ancora) conseguito le

caratteristiche desiderabili per la partecipazione ad un’area valutaria ottimale e si

possano verificare nel tempo tensioni che mettano in pericolo la gestione della valuta

comune.

Sono stati proposti vari criteri per stabilire se un gruppo di paesi costituisce un’area

valutaria ottimale. Tra questi ricordiamo come fattori favorevoli: il grado di apertura

dell’economia verso l’estero (McKinnon, 1963), la mobilità internazionale del lavoro

(Mundell, 1961), la diversificazione della struttura produttiva (Kenen, 1969),

l’esistenza di meccanismi che, attivando trasferimenti internazionali, possano

contenere l’impatto di shock asimmetrici, ma anche la ferma volontà di partecipare e

di essere disposti a sacrificare autonomia. È stato anche osservato (DeGrauwe, 2006)

che la capacità di soddisfare tali criteri potrebbe essere endogena, in altre parole

potrebbe essere resa più facile dalla partecipazione all’area valutaria anche in assenza

di un completo adeguamento ai suoi criteri.

Altre istituzioni ed organi consultivi

La Banca Europea degli Investimenti (BEI) istituita dal Trattato di Roma del 1957, ha

sede in Lussemburgo e “… ha il compito di contribuire, facendo appello al mercato

dei capitali ed alle proprie risorse, allo sviluppo equilibrato e senza scosse del

mercato comune nell’interesse della Comunità.” Questa finalità è stata interpretata

come finanziamento agevolato di progetti che rivestano una certa importanza per la

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376

realizzazione di obiettivi comunitari. La maggior parte dei fondi della banca, che non

ha fini di lucro, viene impiegata nei paesi membri, ma può essere destinata al

rafforzamento di politiche di sviluppo anche di altri paesi, in particolare di quelli che

rivestono una particolare importanza per i paesi dell’UE, quali i paesi dell’Africa,

Caraibi e Pacifico (ACP), i paesi mediterranei o quelli dell’Europa centro-orientale.

La caratteristica principale degli interventi è che devono essere destinati alle aree

meno sviluppate, e in queste devono promuovere la modernizzazione. I finanziamenti

non devono essere diretti ad un solo paese membro, ma a più d’uno o all’UE nel

complesso. I fondi della BEI non provengono dal bilancio comune, ma sono in parte

versati dai paesi membri e in parte reperiti sul mercato dei capitali.

Da qualche tempo è operativo anche il fondo europeo di investimento (FEI) in parte

finanziato dalla BEI, che ha lo scopo di gestire fonti di finanziamento per progetti

destinati alle piccole e medie imprese e progetti di interesse comune. Entrambe le

istituzioni hanno la regola del co-finanziamento, cioè non intervengono mai per

intero nel finanziamento di un progetto, ma secondo quote in genere non superiori

alla metà dell’importo totale.

Il Consiglio dei governatori della BEI, che coincide con l’Ecofin, si riunisce una volta

l’anno, ha la responsabilità di indirizzo e delibera all’unanimità oppure a

maggioranza dei membri; tale maggioranza deve essere pari almeno al 45% del

capitale versato. Il Consiglio di amministrazione, composto di 22 consiglieri nominati

dai governi ed uno dalla Commissione, ha la responsabilità di assegnare i prestiti,

fissare i tassi e trovare i fondi. Il Comitato di gestione è l’organo esecutivo

responsabile dell’operato particolare della BEI.

Il Mediatore europeo, una figura istituzionale che si è aggiunta nel 1994, viene

nominato dal Parlamento europeo all'inizio di ciascuna legislatura e per tutta la sua

durata, scegliendolo tra i cittadini dell'Unione che offrono garanzie di competenza e

di indipendenza. Sin dal momento in cui assume l'incarico il Mediatore si impegna

solennemente all’indipendenza dinanzi alla Corte di giustizia delle Comunità europee

ed ogni anno presenta una relazione complessiva al Parlamento europeo. Gli Stati

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377

membri, le istituzioni e gli organi comunitari hanno l'obbligo di fornire al mediatore

le informazioni richieste. Il mediatore, che può anche agire di propria iniziativa, se

non riceve l'assistenza necessaria ne informa il Parlamento europeo. Qualsiasi

cittadino (o qualsiasi persona giuridica) dell'Unione può presentare - direttamente o

tramite un parlamentare europeo - al mediatore, una denuncia di cattiva

amministrazione in relazione all'azione delle istituzioni e degli organi comunitari. La

denuncia deve essere presentata entro due anni a decorrere dalla data in cui i fatti che

la giustificano sono portati a conoscenza del ricorrente.

Il Comitato economico e sociale (CES) è un organo consultivo istituito da Trattato di

Roma ritenuto necessario per rappresentare gli interessi settoriali. Oggi conta 344

membri proposti dai governi nazionali in numero proporzionale al proprio peso

demografico, e nominati dal Consiglio, ma che partecipano a titolo personale, anche

se in genere sono rappresentanti di organizzazione industriali, sindacali, consumatori,

ambientaliste. Per alcune questioni il parere del CES è obbligatorio, per altre la

consultazione è facoltativa e può agire anche di propria iniziativa. Gli interessi

rappresentati dal CES - dal Gruppo dei datori di lavoro, Gruppo dei lavoratori

dipendenti, Interessi vari (nel quale si trovano rappresentati sia i consumatori che,

stranamente, gli agricoltori) - hanno anche altre vie di influenza, attraverso i segretari

dei ministri o i gabinetti dei commissari o nei vari comitati di cui queste istituzioni si

avvalgono. L’efficacia della sua azione, tuttavia, risiede più nella sua capacità di

influenza che nell’espressione formale del parere anche perché questo spesso è

richiesto ad accordo raggiunto.

Il Comitato delle Regioni (CDR) istituito dal TUE per rappresentare le comunità

locali, ha iniziato ad operare nel marzo 1994 con funzioni analoghe a quelle del CES,

di cui mantiene lo stesso numero di componenti. A questo organo il TUE ha

assegnato funzioni consultive obbligatorie per tutte le questioni che si ripercuotono in

ambito locale. A quelle indicate inizialmente: istruzione, cultura, sanità, coesione e

reti trans-europee, il Trattato di Amsterdam ha aggiunto: politica dell’occupazione,

politica sociale, ambiente, formazione professionale e trasporti. Come il CES, anche

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378

il CDR può agire di propria iniziativa. Sente il compito di difendere il principio di

sussidiarietà e patrocina quattro livelli di governo: europeo, nazionale, regionale e

municipale in partenariato verticale. I suoi membri sono rappresentanti eletti di

organismi amministrativi sub-nazionali. È organizzato in sei commissioni che si

incaricano di elaborare i pareri da esporre nelle sessioni plenarie. Il ruolo del CDR è

uscito rafforzato dalle disposizioni del Trattato di Lisbona.

Agenzie, centri, fondazioni, osservatori

Esiste inoltre una serie di organismi “indipendenti” che operano con vari ruoli e a

diversi livelli e dei quali qui, in un elenco incompleto, si ricorda il solo nome: l’

Accademia europea di polizia, l’Agenzia dell’Unione europea per i diritti

fondamentali, l’Agenzia europea dell’ambiente (AEA), l’Agenzia europea per la

sicurezza e la salute sul lavoro (EU-OSHA), l’Agenzia europea per i medicinali,

l’Agenzia europea per la sicurezza aerea (AESA), l’Agenzia europea per la sicurezza

marittima (AESM), l’Agenzia europea per la difesa, l’Agenzia europea di controllo

della pesca, l’Agenzia esecutiva per l’istruzione, gli audiovisivi e la cultura,

l’Agenzia esecutiva per la ricerca, l’Agenzia esecutiva per la salute e i consumatori,

Agenzia esecutiva per la competitività e l'innovazione, Agenzia europea per la

sicurezza delle reti e dell’informazione, l’Autorità europea per la sicurezza alimentare

(EFSA); il Centro europeo per lo sviluppo della formazione professionale

(CEDEFOP), il Centro di traduzione degli organismi dell’UE (CdT), il Centro

satellitare dell’UE (CSUE), il Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle

malattie, la Fondazione europea per la formazione professionale (ETF), la

Fondazione europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro

(EUROFOUND); l’Osservatorio europeo delle droghe e delle dipendenze (OEDT),

l’Osservatorio europeo dei fenomeni di razzismo e xenofobia (EUMC); l’Istituto

europeo per gli studi sulla sicurezza (ISS), l’Istituto europeo per l'uguaglianza di

genere, l’Istituto europeo di innovazione e tecnologia, l’Ufficio comunitario delle

varietà vegetali (UCVV), l’Ufficio per l’armonizzazione del mercato interno,

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l’Europol, l’ufficio della polizia europea e l’Eurojust, l’organismo per il

consolidamento della cooperazione giudiziaria.

3. Il “deficit democratico”

Il Trattato di Lisbona è stato firmato al termine di un lungo iter che – con

l’approvazione del Progetto di Trattato proposto dalla Convenzione sul Futuro

dell’Europa alla Conferenza Intergovernativa – avrebbe dovuto portare all’adozione

della Costituzione dell’UE. Questo nuovo disegno costituzionale dell’UE; noto come

il “Trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa”, fu abbandonato perché,

quando fu sottoposto a ratifica presso i paesi membri, fu respinto dal referendum sia

in Francia che nei Paesi Bassi. Ciò è bastato perché i sette paesi che ancora non si

erano espressi evitassero di farlo.

Probabilmente la particolare miscela di caratteri sovranazionali ed intergovernativi di

questa iniziativa ha incontrato l’opposizione, per opposti motivi, sia di chi desiderava

che di chi temeva “più Europa”. Da un lato, infatti, la Costituzione era frutto di un

metodo prettamente intergovernativo che non aveva potuto tener conto delle

aspirazioni di coloro che avrebbero voluto che scaturisse da una procedura simile a

quella che si sarebbe seguita se il progetto costituzionale fosse stato nazionale. In tal

caso, sarebbero state indette le elezioni per una Costituente al termine di un

approfondito dibattito sui temi da affrontare. La procedura seguita, che si ispirava più

alla stesura di un Trattato internazionale che all’espressione di una volontà popolare

maturata dalla discussione nel paese e convogliata dall’elezione dei rappresentanti,

aveva mancato di coinvolgere i cittadini. Per chi avrebbe voluto “più Europa” si

trattava di un’imperdonabile mancanza di democrazia nel metodo prima ancora che

nei contenuti.

Ma anche su questi le critiche abbondavano. Forse per poter trovare un compromesso

con chi temeva “più Europa” ed osteggiava l’idea stessa che potesse essere

promulgata una Costituzione europea, nel definire l’identità dell’UE era stata

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abbandonata l’espressione che all’articolo 1 del TUE citava il “… processo di

creazione di un’unione sempre più stretta tra i popoli dell’Europa …” e sostituita con

una che all’articolo 1 si riferiva alle competenze che gli stati avrebbero conferito

all’UE.

Inoltre, l’impossibilità raggiungere un accordo sul passaggio delle votazioni in

materia fiscale dalla regola dell’unanimità a quella della maggioranza aveva fatto

squillare forte il campanello d’allarme sulla effettiva possibilità di dar vita ad

un’entità politica nella quale, come nel contratto sociale nazionale, la tassazione e la

rappresentazione si riflettono l’una nell’altra: il principio “no taxation without

representation” è ancora ben presente nel pensiero dei leader europei.

Il Trattato di Lisbona, che ha raccolto l’eredità della mancata Costituzione, ma è stato

portato a compimento con la firma nel dicembre del 2007 e l’entrata in vigore il 1°

dicembre 2009, ha comunque potuto incorporare elementi qualificanti sotto il profilo

costituzionale quali la Carta dei diritti fondamentali, la dichiarazione di personalità

giuridica dell’UE, e l’impegno a promuovere metodi diversi di integrazione, quali la

cooperazione rafforzata ed il coordinamento aperto, che consentano di proseguire il

cammino comune a chi non intende abbandonare i tradizionali intenti del processo di

integrazione.

Questi ultimi sviluppi, che da un lato ampliano la portata dell’impegno comune, ma

allo stesso tempo impongono limiti, pur permettendo a chi lo desidera di oltrepassarli

con il varo di iniziative che non coinvolgono tutti i paesi membri, ma possono

comportare varie conseguenze su di loro, pongono il problema del contenuto di

democrazia che caratterizza l’UE. La definizione di democrazia è chiara in termini

generali, ma controversa nella sua applicazione fattuale. Perché si parla di deficit

democratico a proposito dell’UE?

La prima obiezione deriva dall’osservazione che, tra tutte le istituzioni comuni, solo

il Parlamento ha un diretto contatto con gli elettori verso i quali è responsabile. Ma,

anche se il suo ruolo ha acquistato rilievo nel corso degli anni, l’iter legislativo

prevede che la Commissione ed il Consiglio intervengano con un peso tutt’altro che

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secondario. Inoltre, quanto maggiore è l’indipendenza assicurata alla BCE tanto

minore è il controllo che può essere esercitato sul piano democratico. Se la BCE deve

perseguire soltanto la stabilità monetaria e la Commissione deve adoperarsi

soprattutto nella gestione del mercato interno e del commercio internazionale,

importanti ambiti decisionali, con ampie ripercussioni sulla vita di tutti i cittadini,

sono sottratti al loro controllo. Va osservato, tuttavia, che in molti paesi possono

essere chiamati ad importanti ruoli di governo, dal partito o dalla coalizione che ha

vinto le elezioni, cittadini che non sono stati eletti, ma la cui legittimità democratica

promana dall’elezione democratica cui sono stati soggetti coloro che li hanno

nominati. Allo stesso modo va giudicato il proliferare di Agenzie ed altri organismi

indipendenti.

Un’altra obiezione sorge dall’incoraggiare il ricorso alle votazioni a maggioranza nel

Consiglio, che ha portato al diffondersi di questa regola di voto fino a considerare la

regola dell’unanimità quasi desueta. Poiché nel Consiglio i ministri rappresentano il

proprio paese, se si trovano in minoranza si determina una situazione per cui il paese

da loro rappresentato sarà obbligato ad osservare i provvedimenti votati dalla

maggioranza, ma per i quali esso ha espresso un voto contrario. Nelle votazioni del

Consiglio, ciò rende impossibile ai ministri la responsabilità verso i propri elettori

nazionali.

Un altro punto critico, che tuttavia non riguarda solo l’UE, consiste nel modo in cui si

assicurano le pari opportunità a tutti i cittadini in modo che la democrazia economica

non abbia a soffrire del mancato, o distorto, parere espresso dagli individui che

appartengono a gruppi svantaggiati.

L’integrazione negativa attraverso la quale è stato costruito il mercato interno spesso

non è stata accompagnata dalla necessaria integrazione positiva volta a correggere gli

attesi fallimenti del mercato (Scharpf, 1999). La lotta all’inflazione perseguita dalla

BCE, la perdita dello strumento del tasso di cambio e la proibizione per gli aiuti

statali alle imprese hanno ridotto la capacità di intervento dei singoli paesi nella

gestione della propria politica economica non solo per quanto riguarda la politica

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monetaria e le altre politiche comuni, ma anche – per la competizione fiscale tra i

paesi in conseguenza all’unione monetaria – nella destinazione della spesa pubblica

ai programmi di istruzione e di potenziamento del capitale umano, alla sicurezza

sociale, alla sanità, al welfare state.

La concorrenza fiscale, necessaria ad evitare la fuga dei capitali - diversamente dalla

concorrenza di mercato che tende ad escludere le imprese non competitive e a

rafforzare in tal modo il funzionamento del mercato – può portare all’erosione della

coesione sociale poiché i paesi sono costretti a ridurre tasse e trasferimenti per attirare

i contribuenti ricchi ed i capitali ed allontanare chi necessita di sostegno.

L’obiezione alla coesione sociale, specie quando viene sollecitata tra i paesi dell’UE,

cioè a livello internazionale, si fonda sull’osservazione che un demos europeo non

esiste, mentre esistono i popoli europei. Un’obiezione analoga era stata rivolta alla

Costituzione europea. Che riconoscimento si deve attribuire alla scelta di condividere

norme e valori (Habermas, 2001) e in base a quale indicatore si può affermare che

questa condivisione esiste o va ricercata?

4. La “sostenibilità” della globalizzazione: tendenze al decentramento ed

all’integrazione istituzionale

I processi di globalizzazione degli ultimi decenni, accrescendo il potere degli

operatori di mercato, hanno indotto gli Stati a varie strategie di difesa degli spazi

decisionali pubblici. Si può sostenere che l’obiettivo è stato quello di rendere la

globalizzazione “sostenibile”, cercando di preservare le strutture democratiche del

potere politico dai crescenti vincoli alla governance nazionale posti dalla

liberalizzazione dei mercati dei prodotti e finanziari.

La necessità di fare fronte ad un ruolo più ampio conquistato dai mercati nelle società

avanzate ha da un lato stimolato l’evoluzione dei sistemi politici verso un maggiore

decentramento, e dall’altro generato una più forte volontà di rafforzare il potere

politico mediante forme di integrazione sovra-nazionale. Ad esempio, in Europa, non

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solo venne accelerato negli anni ’80 il processo di costruzione del mercato unico, ma

si cominciarono a programmare le diverse fasi di integrazione monetaria che hanno

poi portato alla moneta unica. Nel prosieguo, verranno le ragioni economiche che

sono alla base di tali processi.

5. Obiettivi e vincoli del decentramento fiscale

Il decentramento fiscale si fonda su un duplice assunto riguardo alla produzione di

beni pubblici e meritori: i) i governi di livello inferiore appartenenti ad uno Stato

unitario o ad una Federazione, in virtù della loro vicinanza alle comunità locali,

garantiscono un migliore soddisfacimento delle preferenze dei residenti nella

giurisdizione; ii) gli elettori delle giurisdizioni di livello inferiore esercitano un

controllo sui governi locali (imponendo l’assunzione di responsabilità sulle funzioni

loro assegnate, la cosiddetta accountability) più efficace di quello che può essere

esercitato sulla classe politica del governo centrale. Più in generale il federalismo

fiscale promuoverebbe una più diretta partecipazione dei cittadini al processo

politico. Per i motivi appena detti, il principio di sussidiarietà richiede che i poteri di

prelievo e di spesa vengano attribuiti al livello di governo più basso possibile.

Come è testimoniato dalla grande varietà degli assetti statuali multi-livello

presenti a livello mondiale, il quadro concettuale su cui si fonda la teoria del

federalismo fiscale, benché semplice, è di difficile attuazione. Basti osservare che i

valori degli indicatori generalmente impiegati per misurare il grado di decentramento

(la quota di entrate fiscali o di spesa pubblica dei livelli di governo inferiori sui

rispettivi totali nazionali o in rapporto al Pil) risultano a volte più elevati negli Stati

unitari (ad esempio i Paesi scandinavi) che non negli Stati federali (ad esempio Stati

Uniti e Germania).

Inoltre, all’incremento delle responsabilità di spesa dei governi sub-nazionali

che si è registrato negli ultimi decenni non si è accompagnato un parallelo

ampliamento delle basi della tassazione locale. La quota sul totale della spesa che fa

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capo ai governi locali è cresciuta ad un tasso di gran lunga superiore a quella della

tassazione locale sul totale del prelievo. Di qui, la compresenza per i governi di

livello inferiore di una più estesa autonomia sul lato della spesa e di una crescente

dipendenza dai trasferimenti dal centro. Una delle principali ragioni è che, di norma,

le basi imponibili appropriate per la tassazione locale sono relativamente ristrette. E’

infatti difficile individuare cespiti per i quale si realizzino contemporaneamente tutti i

requisiti che sono generalmente richiesti per costituire il fondamento di una buona

imposta locale: immobilità della base imponibile, distribuzione geografica omogenea,

non-esportabilità dell’imposta, limitata variabilità del gettito nell’alternarsi dei cicli

economici. Ne consegue che i governi sub-nazionali devono necessariamente

soddisfare le proprie crescenti esigenze di finanziamento non con tributi propri ma

con compartecipazioni sui tributi statali e con trasferimenti erogati dal governo

centrale.

Inoltre, gli indicatori usualmente impiegati tendono a sopravvalutare l'effettivo

grado di decentramento. L'incidenza totale dei trasferimenti (espliciti ed impliciti) è

probabilmente maggiore di quella che è rappresentata nelle statistiche, mentre non è

generalmente possibile enucleare dal totale delle entrate tributarie dei governi sub-

nazionali la percentuale di gettito proveniente dalle compartecipazioni che sono

caratterizzate da un grado di autonomia certamente molto limitato.

La complessità dei problemi implicati dall’organizzazione statuale multi-livello

fa sì che la struttura federale o unitaria assunta da uno Stato vada ricondotta più alle

dinamiche socio-economiche sviluppatesi nella particolare evoluzione storica di

ciascun Paese, che non ad una scelta deliberata, fondata su un confronto fra costi e

benefici dei processi di devoluzione delle competenze di spesa e delle responsabilità

di tassazione. Infatti, a causa del complesso interrelarsi dei guadagni e delle perdite

fra le giurisdizioni, una valutazione dei processi di decentramento fiscale sotto il

profilo dell’efficienza e dell’equità è compito estremamente arduo. La principale

questione relativa all’efficienza riguarda gli ostacoli che la devoluzione

inevitabilmente frappone allo sfruttamento delle economie di scala nella fornitura di

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importanti beni pubblici, come ad esempio le infrastrutture nell’ambito delle

comunicazioni viarie e delle telecomunicazioni, oggi considerati investimenti di alto

valore strategico per lo sviluppo di un Paese.

Emerge poi spesso un problema di non-equivalenza fiscale, ovvero cioè il fatto

che la dimensione dell’area nella quale ricadono i benefici della fornitura del bene

pubblico è più ampia di quella della giurisdizione che decide e finanzia l’offerta

pubblica. La conseguente creazione di spillover fra giurisdizioni locali (ad esempio,

l’aggravio di spesa che le Regioni con migliori prestazioni sanitarie subiscono a

causa della mobilità dei pazienti da altre Regioni) genera problemi del tipo

principale-agente. L’equilibrio fra costi sopportati dai residenti nella giurisdizione e

benefici del servizio fruiti anche da residenti in altre giurisdizioni viene distorto, e ciò

indebolisce gli incentivi delle giurisdizioni di livello inferiore nel perseguire

l’efficienza nella quantità e qualità di servizi forniti ad un «principale» che è

costituito dai cittadini-elettori.

Più in generale, l’eterogeneità nella dotazione di risorse fiscali delle

giurisdizioni locali si riflette sulle differenti quantità e qualità dei servizi pubblici

fruibili in ciascuna di esse, ponendo un chiaro problema di equità nelle modalità

dell’intervento pubblico. Si determina infatti un trade-off fra decentramento delle

funzioni di prelievo e di spesa da un lato, e capacità di tutti i governi locali,

diversamente dotati in termini di risorse finanziarie, di soddisfare le preferenze delle

rispettive comunità, dall’altro. Tanto più il governo centrale attua la devoluzione delle

competenze, tanto più pressante diviene il problema di colmare l’ineguale capacità

fiscale fra le giurisdizioni territoriali. La perequazione fiscale è affidata ai

trasferimenti, attraverso i quali le giurisdizioni in avanzo fiscale finanziano quelle in

disavanzo, direttamente mediante trasferimenti orizzontali, oppure indirettamente, per

il tramite dei trasferimenti verticali attivati dal bilancio del governo centrale.

Quanto detto consente allora di comprendere perché il principio di

sussidiarietà, che è alla base del federalismo fiscale, sia spesso attuato in maniera

soltanto parziale, lasciando in realtà alla responsabilità congiunta di governo centrale

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e governi locali in insieme ampio di competenze rilevanti, tanto nell’ambito della

tassazione quanto in quello della spesa. D’altro canto, la determinazione del ruolo dei

diversi livelli di governo nell’ambito di queste materie condivise costituisce una

decisione in condizioni di incertezza, che configura un’interazione strategica fra i

soggetti istituzionali coinvolti ed è quindi oggetto di contrattazione. Infatti, quanto

più ampia è l’area delle competenze condivise, tanto maggiore è il rischio di «azzardo

morale» da parte del governo locale la cui disciplina fiscale potrebbe essere

compromessa dall’aspettativa di un ripiano delle spese in eccesso da parte del

governo centrale. E, di converso, è anche possibile che il governo centrale imponga

standard sui programmi di spesa gestiti localmente senza garantire ai governi locali le

risorse finanziarie corrispondenti (unfunded mandates).

6. La tendenza al federalismo fiscale

Negli ultimi decenni, sia negli stati federali che in quelli caratterizzati da una struttura

di governo centralizzata, la tendenza al decentramento fiscale ha prevalso su quella

alla centralizzazione delle competenze di prelievo e di spesa pubblica. Le riforme

dell’organizzazione statuale nella direzione del federalismo fiscale attuate da molti

paesi nel secondo dopoguerra hanno seguito linee evolutive alquanto differenti fra

loro. Si può dire che in nessun caso è stato replicato l’equilibrato modello degli Stati

Uniti, dove il complesso intreccio fra bilancio federale e matching grants di tipo

verticale ed orizzontale fa sì che la funzione di redistribuzione fra gli stati della

federazione svolga un ruolo complementare rispetto alla funzione di stabilizzazione

macroeconomica.

In alcuni paesi è aumentata l’autonomia regionale (Spagna, Belgio, Danimarca,

Italia e Messico) ed è anche aumentata la quota di prelievo fiscale assegnata ai

governi di livello inferiore. In altri paesi il decentramento ha invece segnato il passo o

è addirittura regredito (Francia, Germania), ed il potere impositivo si è

conseguentemente ridotto. In altri paesi ancora (Svezia, Norvegia ed Austria), l’alta

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mobilità della base impositiva (il reddito personale) su cui si fonda il prelievo fiscale

dei governi locali ha provocato una tendenziale riduzione della tassazione sub-

nazionale (OECD, 2003). Non sembra quindi individuabile una precisa

corrispondenza fra devoluzione dei poteri e devoluzione dell’imposizione fiscale.

I sistemi di federalismo fiscale che osserviamo nella realtà mostrano comunque

una tendenza a seguire due diversi modelli riguardo alla realizzazione

dell’equalizzazione fiscale: il federalismo competitivo ed il federalismo cooperativo.

Nei paesi la cui struttura statuale è fin dall’inizio di tipo federale, il decentramento ha

assunto i caratteri del primo modello. Nei paesi che nascono con un forte potere

centrale, realizzando il decentramento fiscale soltanto in una fase successiva alla loro

costituzione come entità politica unitaria, ha prevalso il secondo modello.

Federazioni di tradizione anglo-sassone, quali sono l’Australia ed il Canada, si

avvicinano al modello del “federalismo competitivo”. Nel sistema perequativo della

federazione australiana, l’elevato onere di partecipazione al fondo cui gli stati più

ricchi erano sottoposti per soddisfare all’equità inter-giurisidizionale ha avuto

l’effetto di disincentivare la ricerca di diversità, generando così l’omogeneizzazione

verso il basso della tassazione regionale. Il sistema confederale canadese sembra più

orientato a contemperare l’obiettivo di perequazione inter-giurisdizionale con gli

incentivi. Il livello di tassazione è infatti vincolato dalla concorrenza fiscale cui le

province fanno ricorso a causa dell’assenza di una compartecipazione delle province

nei tributi prelevati dal governo centrale. Tuttavia, i bilanci delle province sono

finanziati sia dalle entrate derivanti dalle imposte locali sia da una forte

redistribuzione verticale. L’entità dei trasferimenti realizzati dal meccanismo di

equalizzazione canadese è commisurata alla capacità fiscale media delle province di

maggiori dimensioni ed il fondo è legato alla crescita del PIL federale (Smart, 2005).

Un secondo gruppo di paesi, cui appartengono molti stati europei, adotta il

modello del “federalismo cooperativo”. Nel sistema federale della Germania,

considerato l’archetipo del federalismo cooperativo, l’obiettivo della perequazione

inter-giurisdizionale fa premio sull’esigenza di preservare le preferenze

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idiosincratiche ed il principio del beneficio, cosicché la base impositiva è poco

decentrata. In un sistema di prelievo fiscale in cui la maggior parte dei tributi è di

competenza del governo centrale, la struttura del bilancio federale è fortemente

condizionata dai bisogni dei Lander, soprattutto per quanto riguarda il finanziamento

dei programmi di spesa per i Lander dell’Est. La politiche pubbliche che i governi

regionali destinano al miglioramento del benessere sociale delle comunità locali

vengono finanziate sia con una generosa perequazione inter-giurisdizionale, sia

attraverso la ripartizione dell’IVA secondo un criterio redistributivo che avvantaggia i

Lander più poveri. Il tentativo di riformare il sistema di equalizzazione e restringere

la capacità di spesa dei livelli inferiori di governo (Fenge e von Weizsacker, 2001),

ponendo un limite al potere di veto della Bundesrat sulla legislazione del governo

federale, è recentemente fallito.

Un obiettivo perseguito dal decentramento fiscale attuato in alcuni paesi

europei è stato quello di trovare una soluzione ai molteplici problemi distributivi

legati alla frammentazione sociale creata dalle diversità culturale (ulteriormente

accentuate dall’immigrazione extra-comunitaria). Due paesi europei accomunati dalla

sovrapposizione fra diversità etniche e linguistiche, che hanno finito per sommare la

disuguaglianza inter-giurisdizionale alla disuguaglianza di reddito pro capite, sono

Spagna e Belgio.

In Spagna, il finanziamento dei bilanci dei livelli di governo inferiori (le

Comunidades) ha luogo mediante la compartecipazione alle entrate del governo

centrale e le imposte proprie.

La debolezza del meccanismo di perequazione fiscale ha portato ad un

notevole indebitamento delle regioni con minore capacità fiscale. Il decentramento,

inoltre, contrariamente all’obiettivo di accrescere l’efficienza nella fornitura dei beni

pubblici sfruttando la maggiore vicinanza alle preferenze locali, causa una tendenza

dei governi regionali ad aumentare la spesa pubblica. Il grado di autonomia regionale,

notevolmente accresciutosi in seguito ai processi di devoluzione, ha dovuto essere

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389

mitigato da un più stringente controllo del governo centrale sulla spesa delle

giurisdizioni locali.

Il sistema federale del Belgio presenta un grado di complessità tale da

avvicinare la questione della perequazione fiscale in questo paese al caso del

decentramento italiano. Uno dei problemi principali è rappresentato dall’alta

concentrazione in Vallonia della popolazione anziana, a bassa istruzione e a minore

tasso di partecipazione al mercato del lavoro. I valloni, avendo un livello di reddito

pro capite e di capacità contributiva inferiore a quello della comunità fiamminga,

hanno goduto di crescenti flussi redistributivi (van Parijs, 1999).

La creazione della regione di Bruxelles, che aveva fra l’altro l’obiettivo di

facilitare la composizione delle questioni distributive che tradizionalmente

oppongono le regioni della Vallonia e delle Fiandre, non ha mitigato gli squilibri fra i

flussi di tassazione e di trasferimenti. Il meccanismo dell’equalizzazione fiscale è

infatti reso particolarmente difficile dell’intrecciarsi e dal sovrapporsi di più

dimensioni di giustizia distributiva: l’equità interpersonale, intergiurisdizionale ed

inter-generazionale.

7. Decentramento fiscale ed equità orizzontale

Una delle ragioni che inducono uno Stato ad intraprendere un processo di

decentramento fiscale consiste nell’aspettativa che i governi di livello inferiore

appartenenti ad una nazione o ad una federazione, in virtù della loro “vicinanza” alle

comunità locali, siano in grado di promuovere un migliore soddisfacimento delle

preferenze degli individui riguardo alla produzione di beni pubblici e meritori.

Tuttavia, è possibile che si determini un trade-off fra decentramento delle funzioni di

prelievo e di spesa da un lato, e eguaglianza fra i governi locali riguardo alla

possibilità di soddisfare le preferenze delle rispettive comunità, dall’altro.

L’eterogeneità nella dotazione di risorse di ciascuna giurisdizione si riflette in una

diversa quantità e qualità dei servizi pubblici realizzabili nelle varie giurisdizioni. Il

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divario di capacità fiscale fra le giurisdizioni può impedire il conseguimento

dell’equità orizzontale, e cioè del diritto all’eguale trattamento che viene riconosciuto

ad individui con eguale reddito, anche qualora siano residenti in giurisdizioni diverse

e quindi a diverso livello di reddito prodotto e di reddito pro capite.

Nelle nazioni o negli stati federali in cui il governo centrale decide che tale

principio di equalizzazione fiscale debba dominare il principio della “libertà di

scelta”, e cioè la varietà e qualità dei servizi pubblici, è probabile che sorgano

conflitti fra le comunità locali. Le giurisdizioni “ricche” potrebbero ritenere che il

meccanismo della perequazione inter-giurisdizionale, data la maggiore contribuzione

al bilancio del governo centrale, compromette la loro capacità di spesa per la

realizzazione dei beni pubblici e meritori nella varietà e qualità richiesta dalle

preferenze delle proprie comunità locali.

D’altro canto, prendendo il caso italiano, se proseguisse il cammino verso la

devoluzione, e non si predisponesse un adeguato sistema perequativo, molte regioni

dotate di una scarsa capacità fiscale dovrebbero fare affidamento sui trasferimenti dal

governo centrale anche per i servizi pubblici essenziali.

Si noti che il problema dell’equità fiscale fra regioni ricche e regioni povere è

distinto da quello della disuguaglianza interpersonale di reddito e della sua

sostenibilità sociale. E’ vero che in alcuni paesi, anche appartenenti all’Unione

Europea, la disuguaglianza inter-giurisdizionale (il divario fra i redditi pro-capite fra

le regioni) tenda a sovrapporsi alla disuguaglianza interpersonale di reddito. Tuttavia,

il decentramento fiscale, riducendo la redistribuzione operata dal governo centrale,

separa la questione dell’equità “orizzontale” (la disparità di trattamento fra comunità

locali) da quella relativa all’ equità “verticale” (la disuguaglianza fra le persone). Il

problema di disuguaglianza che viene affrontato dai meccanismi di perequazione

fiscale è quello di tipo orizzontale: la violazione del diritto della persona – sia alto o

basso il decile di reddito cui appartiene - a non subire discriminazioni in base alla

giurisdizione di appartenenza.

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391

Quanto più ampia è la differenza fra l’ammontare e la qualità delle risorse e le

responsabilità pubbliche delle giurisdizioni di livello inferiore a causa dei particolari

bisogni della popolazione (ad esempio, carenza di infrastrutture, strutture educative e

sanitarie insufficienti, etc.), tanto più è probabile che individui con eguale reddito, a

causa della residenza in giurisdizioni diverse, ricevano un trattamento diseguale. Gli

individui residenti nelle regioni povere, benché non siano responsabili di divergenze

della performance di reddito della propria giurisdizione, risulteranno discriminati

rispetto agli individui con reddito eguale ma residenti nelle regioni più ricche, in

quanto riceveranno un residuo fiscale netto tanto più basso quanto più il reddito

medio della propria giurisdizione risulti inferiore alla media nazionale (o federale).

Come conciliare il decentramento fiscale con l’equità orizzontale? La

salvaguardia dell’equità orizzontale impone che ad un livello di tassazione

tendenzialmente eguale fra giurisdizioni locali a diverso reddito pro-capite si

affianchi uno schema di equalizzazione fiscale che consenta di annullare un difetto

dei benefici di spesa rispetto alle tasse pagate di individui con lo stesso reddito

residenti in giurisdizioni diverse.

Il principio di eguale residuo fiscale netto per le persone ad eguale reddito è

realizzato mediante i matching grants, attraverso i quali le giurisdizioni in avanzo

fiscale finanziano quelle in disavanzo (direttamente mediante grants orizzontali,

oppure indirettamente, attraverso i trasferimenti verticali del bilancio del governo

centrale). Le giurisdizioni che devono cedere risorse vengono differenziate da quelle

che devono ricevere risorse in base al rapporto fra l’indice di capacità fiscale di

ciascuna giurisdizione e l’indice di perequazione (tale da annullare anche eventuali

distorsioni dovute al caso di tassi di imposizione che risultino differenti fra le

giurisdizioni).

I meccanismi di perequazione inter-giurisdizionale hanno il compito di favorire

il conseguimento dell’”eguaglianza nei punti di partenza” fra giurisdizioni a diverso

grado di sviluppo, evitando al contempo che il trasferimento di risorse fra le

giurisdizioni comprometta gli incentivi di mercato degli individui e delle imprese e la

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“libertà di scelta” dei servizi pubblici da parte delle comunità locali. Riguardo alla

questione degli incentivi, essendo rivolti all’equalizzazione fra le risorse delle

giurisdizioni, i matching grants hanno un ovvio contenuto di redistribuzione inter-

giurisdizionale, che si va ad aggiungere all’eventuale impatto redistributivo delle

politiche pubbliche realizzate dal governo centrale.

L’obiettivo di equalizzare i residui fiscali netti di individui con eguale reddito

può avere effetti distorsivi. Le analisi sui fallimenti del governo affermano che una

più elevata pressione fiscale nelle regioni a reddito pro capite più alto della media

nazionale (o federale) indebolisce gli incentivi al lavoro degli individui e gli incentivi

ad investire delle imprese; mentre il flusso di risorse destinate alle giurisdizioni a

minore grado di sviluppo (o maggiormente esposte a shock macroeconomici a causa

della più debole struttura produttiva) ridurrebbe l’impegno ad indirizzare le risorse

locali verso un processo di crescita guidato dalle forze di mercato.

Un'altra questione riguarda essenzialmente la “libertà di scelta” dei residenti

delle giurisdizioni “ricche”. Allorché una nazione (o una federazione) sia

caratterizzata da notevoli disparità di reddito pro capite fra le giurisdizioni di cui si

compone, la posizione di contribuenti nette ai matching grants potrebbe impedire alle

giurisdizioni “ricche” di soddisfare le preferenze locali, sia in termini di quantità di

beni pubblici e meritori, sia sotto il profilo della varietà delle opzioni (il pluralismo

culturale negli indirizzi formativi del sistema di istruzione, una vasta gamma di

servizi a pagamento nella sanità, etc.) che i residenti si attendono dal decentramento

fiscale.

La possibile interferenza dei matching grants con gli incentivi di mercato e con

la “libertà di scelta”, benché non sia del tutto eliminabile, viene solitamente mitigata

orientando il disegno delle politiche pubbliche al soddisfacimento dell’equità

attuariale. La letteratura abbonda di lavori che presentano schemi di trasferimenti

perequativi disegnati con l’obiettivo di incorporare nella legislazione fiscale un grado

di earmarking sufficientemente elevato da garantire a gruppi sociali ed individui la

possibilità di verificare la coerenza del livello di imposizione sopportato con gli

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393

standard attesi nell’erogazione del servizio pubblico. E’ ad esempio possibile

imporre, al livello di governo che riceve i matching grants, il rispetto del principio del

beneficio. Tale obiettivo viene perseguito attraverso l’attribuzione dei fondi per la

coesione sociale a specifici programmi di spesa (earmarking).

Questi aspetti distributivi del decentramento istituzionale sono stati

ulteriormente complicati dalla crisi finanziaria del 2007-08 e dalla successiva

recessione. In Italia, ad esempio il lungo e contrastato passaggio al federalismo

fiscale sta subendo le conseguenze dell’esigenza di procedere ad una forte restrizione

della politica fiscale. Ad essere immediatamente colpito è il meccanismo di

perequazione inter-regionale, che per essere seriamente realizzato necessita di ingenti

risorse.

8. Spillovers fra livelli di governo e competizione fiscale

In Europa, il contemporaneo sviluppo del federalismo verso l’alto - l’integrazione fra

gli Stati, che genera istituzioni sovra-nazionali e politiche pubbliche comuni - e del

federalismo verso il basso – l’attribuzione di potestà fiscale ai livelli sub-nazionali di

governo – sta producendo un sistema multi-livello i cui tratti costitutivi sono ancora

tutti da definire.

Un primo aspetto è comunque già evidente. L’evoluzione di molti paesi verso

tre livelli di governo (locale, nazionale ed europeo) implica una riduzione del grado

di corrispondenza fra il territorio di riferimento della giurisdizione politica e l’area

sulla quale le politiche pubbliche della giurisdizione esercitano i loro effetti

economici. L’integrazione dei mercati e l’unione monetaria, hanno moltiplicato le

interdipendenze economiche fra le nazioni dell’Unione Europea, con potenziali effetti

riduttivi sulle entrate fiscali dei governi centrali. Il numero degli spillovers fra le

giurisdizioni, che è destinato ad accrescersi sia per la mobilità dei capitali e del lavoro

(in primo luogo, i flussi di lavoratori in uscita dai paesi dell’Est) sia per l’incremento

dei livelli di governo, rappresenta la condizione permessiva per l’innescarsi della

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competizione fiscale. E’ infatti evidente che - all’azzerarsi dei controlli sui movimenti

di capitale e al ridursi i costi del trasferimento di lavoratore di residenza da un paese

ad un altro - ha fatto seguito un aumento delle pressioni concorrenziali. Per trattenere

i capitali finanziari e le imprese produttive gli Stati abbassano la tassazione sui

rendimenti finanziari e sui profitti; per evitare la perdita di posti di lavoro i lavoratori

autoctoni devono accettare salari (e contributi sociali) più bassi.

L’analisi economica ha elaborato numerosi modelli che mettono in luce come

anche il federalismo possa innescare una competizione fiscale tale da produrre, al

livello di coordinamento fra sistemi economici in competizione fra loro, le medesime

condizioni di fallimento che si manifestano nel coordinamento di mercato (Sinn,

2003). Da un lato, l’ampliarsi dell’impatto delle politiche al di fuori dei confini

nazionali tende ad accrescere l’eterogeneità fra le giurisdizioni riguardo alle diverse

dimensioni economico-sociali da cui scaturisce il benessere sociale degli individui

(reddito pro capite, caratteri del sistema fiscale e della protezione sociale, etc.).

Dall’altro, le imperfezioni di mercato, in particolare i fattori agglomerativi che

agiscono a livello settoriale e territoriale (ad esempio, l’attrazione esercitata dalle

aree dotate di buone università e di forti strutture di ricerca sulle localizzazioni delle

imprese dei settori avanzati), ostacolano la convergenza reale fra giurisdizioni a

diverso livello di reddito pro capite e spesso accentuano la marginalizzazione delle

aree arretrate.

A minori entrate fiscali consegue minore spesa pubblica. Riguardo alle

prospettive di “corsa al ribasso” in Europa nella realizzazione delle politiche

pubbliche, è stato osservato come “le riforme degli ammortizzatori sociali e delle

pensioni, dirette a ridurre la “generosità del sistema” di protezione sociale degli Stati

membri, subiscono una accelerazione a partire dal 1991, data nella quale il processo

di integrazione europeo ha ricevuto un significativo impulso. Sull’insieme delle 15

riforme strutturali avviate fra il 1991 ed il 2003 (8 relative al sistema pensionistico e

7 riguardanti l’assicurazione contro la disoccupazione) 14 (rispettivamente, 8 e 6)

avevano visto diminuire la “generosità del sistema” (Fitoussi e LeCacheux, 2002,

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pp.108-9). Questa tendenza al ridimensionamento della spesa sociale ha recentemente

subito un’accelerazione con le misure di austerità varate dai governi dell’Eurozona in

seguito al riflettersi della crisi finanziaria sulla sostenibilità del debito pubblico dei

paesi “periferici”.

Pertanto, sul futuro delle assicurazioni sociali, già minacciate sul piano del

finanziamento dalla tendenza internazionale alla riduzione della tassazione sul

capitale (il che impedisce di tassare adeguatamente le multinazionali) indotta dalla

globalizzazione e dall’evoluzione demografica, incombe ora anche la

centralizzazione nelle mani di un’autorità di controllo dell’Unione Europea del

controllo dei bilanci pubblici nazionali.

Se i bassi tassi di crescita delle economie europee dovessero perdurare,

soprattutto nelle nazioni in cui il livello di tassazione è maggiore della media europea

in quanto il settore pubblico intermedia una quota ingente di risorse, potremmo

assistere ad una tendenza verso la restrizione fiscale tale da provocare una

significativa perdita di capacità fiscale dei governi centrali. Le conseguenti riduzioni

nei programmi della spesa sociale a favore dei soggetti “svantaggiati” e delle

giurisdizioni locali a più basso reddito pro-capite si riverbereranno negativamente

sulla funzione di equalizzazione. La perequazione fiscale svolta dai matching grants

che i governi centrali destinano alle giurisdizioni locali dei paesi dell’Unione Europea

ne risulterà gravemente indebolita.

Un ulteriore aspetto riguarda l’impatto del decentramento sulla pressione

fiscale nei livelli inferiori di governo. La funzione di redistribuzione inter-

giurisdizionale dei matching grants genera infatti anche spillovers sul sistema dei

tributi e della spesa di ciascuna giurisdizione sub-nazionale. L’investitura di

responsabilità nei confronti delle comunità locali che grava sui rappresentanti da esse

eletti fa sì che il controllo democratico sulla tassazione e sulla spesa pubblica

realizzati dai governi locali sia maggiore quanto più esteso è il decentramento

politico. Tuttavia, alla più elevata autonomia regionale realizzata con il trasferimento

di competenze alle giurisdizioni di livello inferiore non sempre corrisponde un

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proporzionale incremento dell’autonomia di bilancio. La letteratura esprime a questo

proposito due giudizi contrapposti.

Nell’indirizzo di Public Choice, si osserva come decentramento istituzionale e

decentramento delle funzioni di imposizione fiscale e di spesa pubblica possano

entrare in conflitto. La funzione di comportamento “auto-interessato” indurrebbe i

rappresentanti dei governi locali a perseguire una strategia opportunistica, consistente

in una sorta di asimmetria fiscale: la loro azione sarebbe infatti diretta ad acquisire la

funzione di spesa lasciando invece la funzione impositiva presso il governo centrale

(Stegarescu, 2005). In effetti, è quanto è avvenuto negli ultimi venti anni in Italia. Il

cosiddetto ”Patto di Stabilità interno” intende porre rimedio proprio a questo

problema. Allo scopo di una evitare tale distorsione degli incentivi, andrebbe

preservata la gerarchia fra i livelli di governo. In particolare, andrebbe evitata la

negoziazione fra i rappresentanti delle istituzioni locali ed il governo centrale

riguardo alla suddivisione di funzioni e di capacità di tassazione e di spesa.

Un altro indirizzo della letteratura, invece, associa alla equalizzazione fiscale

fra i livelli inferiori di governo un incentivo per le giurisidizioni locali ad aumentare

il livello di tassazione. Questo filone di ricerca attribuisce ai matching grants un

effetto di riduzione del costo marginale della raccolta di tributi (Buettner, 2005 e

Dahlby, 2002). I trasferimenti verticali del governo centrale verso i livelli inferiori di

governo, nel liberare dall’imposizione alcune risorse locali, consentirebbero alle

giurisdizioni l’incremento della pressione fiscale complessiva. Si genererebbe così un

effetto di bilanciamento rispetto alla tendenza, attribuita alla competizione fiscale fra

le giurisdizioni, a provocare il ridimensionamento della pressione fiscale e quindi

della spesa sociale (Bucovetsky e Smart, 2002; Koethenbuerger, 2002).

L’evidenza empirica indica comunque che il decentramento fiscale non ha

condotto ad una maggiore disponibilità di risorse a disposizione dei governi sub-

nazionali. Come si è accennato, il vincolo sovra-nazionale di politica fiscale ha

indotto alcuni governi centrali ad estendere il Patto di stabilità fino al livello delle

entità amministrative di più piccole dimensioni.

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Il finanziamento delle politiche pubbliche delle giurisdizioni sub-nazionali

dovrà inoltre fare sempre meno affidamento sul governo nazionale. Tanto più

rapidamente globalizzazione e competizione fiscale accelereranno la riduzione delle

spese per la coesione sociale a livello nazionale, tanto più indispensabile diverrà la

disponibilità di finanziamenti europei per le politiche pubbliche perequative dei paesi

dell’UE a reddito pro capite inferiore alla media. D’altro canto, gli strumenti di

federalismo cooperativo che attualmente operano al livello di Unione Europea – in

primo luogo, i Fondi strutturali diretti a riequilibrare il divario di capacità fiscale

determinato dal basso reddito pro capite – non hanno la dimensione necessaria ad

influire sulla tendenza alla concentrazione settoriale e produttiva in atto nel

continente.

9. La suddivisione delle competenze di prelievo e di spesa

Negli ultimi decenni, sia negli Stati federali che in quelli caratterizzati da una

struttura di governo centralizzata, la tendenza al decentramento ha prevalso sulla

centralizzazione delle responsabilità di prelievo e di spesa pubblica. Tuttavia, come

sopra richiamato, le riforme degli assetti istituzionali nella direzione del federalismo

fiscale attuate da molti Paesi hanno seguito linee evolutive fra loro alquanto

differenti. Si può affermare che in nessun caso è stato replicato l’equilibrato modello

degli Stati Uniti, dove il complesso intreccio fra bilancio federale e trasferimenti di

tipo verticale ed orizzontale fa sì che la funzione di redistribuzione delle risorse

finanziarie fra gli Stati della Federazione svolga un ruolo complementare rispetto alla

funzione di stabilizzazione macroeconomica, cioè agli interventi finalizzati a

mantenere elevata occupazione, a controllare l’inflazione, a sostenere la crescita

economica.

Come sopra discusso, il potere impositivo dovrebbe seguire il potere di spesa.

Questo va bene in linea di principio ma molto meno in pratica per diversi motivi, non

ultimo per la ristrettezza delle basi imponibili appropriate per essere affidate alla

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tassazione locale. Dai confronti internazionali non sembra emergere una precisa

corrispondenza fra devoluzione delle competenze di spesa e devoluzione

dell’imposizione fiscale. Anche se negli ultimi 15 anni la quota delle entrate locali (al

netto dei trasferimenti intergovernativi) su quelle totali della pubblica

amministrazione è aumentata soltanto marginalmente nella media dei paesi Ocse, in

alcuni Paesi il peso relativo delle entrate locali si è accresciuto parallelamente ai

processi di devoluzione (Spagna, Danimarca, Italia), mentre in altri (Svezia, Norvegia

ed Austria) l’alta mobilità della base impositiva (i redditi personali) su cui si fonda il

prelievo fiscale locale ha determinato una graduale riduzione della quota delle entrate

sub-nazionali. In altri Paesi (Germania e Francia), al di là dell’aumento della

percentuale delle entrate locali, si è assistito ad una riduzione dell’autonomia

impositiva riconosciuta alle giurisdizioni locali. Anche in termini di composizione

delle entrate locali tra tributi, trasferimenti ed entrate non fiscali non è facile

riconoscere elementi comuni (vedi Figura 1a: Composizione delle entrate dei governi

sub-nazionali).

Anche se molto differenziati tra singole nazioni, i trasferimenti a favore dei

livelli di governo locale presentano nei Paesi unitari valori mediamente superiori a

quella registrata nei Paesi federali come quota delle entrate locali complessive.

Altrettanti diversificato tra Paesi è poi il ricorso a tariffe e canoni per l'utilizzo di

servizi pubblici locali.

Se poi analizziamo in maggior dettaglio, sulla base delle statistiche fiscali pubblicate

dal Fmi e dall’Ocse, le diverse tipologie di imposte che sono concretamente attribuite

ai livelli sub-nazionali, di nuovo si rileva nel confronto tra Paesi una forte

differenziazione (si veda la Figura 1b: Composizione delle entrate tributarie dei

governi sub-nazionali).

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Figure 1a e 1b

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400

Nella quasi totalità dei Paesi federali ed unitari le imposte sulla proprietà e sul

reddito (personale e societario) assicurano la quota di gran lunga più significativa dei

gettiti fiscali a livello locale. In particolare, le imposte sui redditi sono una fonte

rilevante di gettito locale nei Paesi del Nord Europa e dell’Europa centrale, in

Canada, in Giappone, negli Stati Uniti. Le imposte locali sui redditi assumono in

generale la forma di addizionali o sovrimposte su tributi gravati dal governo centrale.

Gettiti relativamente importanti sono poi offerti della tassazione locale sui consumi

che assume generalmente la forma di un’imposta monofase al dettaglio.

Tab.1 Evoluzione delle spese dei governi sub-nazionali a partire dal 1970 (% del totale dell’Amministrazion pubblica)

1970 1975 1980 1985 1990 1995 dato più recente

Stati federali Germania 45 44 44 41 41 41 38 (1998) Svizzera 56 55 53 52 50 48 47 (1999) Austria 30 32 31 30 30 31 31 (1998) Spagna - - 11 21 30 30 32 (1997)

Stati unitari Danimarca 44 47 48 43 44 44 46 (2000) Svezia 45 44 40 37 37 31 34 (1998) Norvegia 38 40 33 33 32 32 33 (1997) Finlandia 38 38 39 40 41 34 36 (1998) Francia 17 17 16 16 18 18 17 (1997) Italia - - 27 27 27 24 28 (1999) Belgio (1) - - 14 12 11 11 11 (1997) Olanda - 27 25 26 23 24 22 (1997) Regno Unito 30 30 26 24 25 22 22 (1998) Irlanda 27 28 27 25 23 24 25 (1997) Portogallo - 7 - - 8 8 10 (1998) (1) Nel periodo considerato il Belgio si è trasformato da Stato unitario in Stato federale. Le statistiche continuano a riportare i livelli di governo diversi da quello locale nell’aggregato del governo centrale. Fonte: Imf Government Financial Statistics, 2001.

Passando ad analizzare l’attribuzione delle competenze di spesa tra i vari livelli di

governo, l’evidenza empirica suggerisce che la suddivisione delle materie di

intervento pubblico fra governo centrale e giurisdizioni locali configura un equilibrio

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fortemente instabile, con l’alternarsi fra tendenze a riformare la forma-Stato in senso

federale e successive riforme dirette a modificare l’organizzazione delle competenze

nel senso dell’accentramento.

La Tabella 1 rivela infatti come in molti Paesi, sia federali che unitari, si sia assistito

ad una sorta di «pendolo» fra fasi di accrescimento e fasi di contrazione della quota di

spesa pubblica attivata dai livelli di governo inferiori. E’ tuttavia degno di nota il fatto

che la quota di spesa dei governi sub-nazionali si sia ridotta in alcuni Paesi a struttura

federale (Germania e Svizzera), mentre fra i Paesi a struttura unitaria lo stesso

indicatore di decentramento permanga ben al di sopra del 30% nei Paesi scandinavi,

raggiungendo il 46% in Danimarca.

Anche la scomposizione per funzioni delle spese dei governi sub-nazionali

(Tab. 2) riserva in termini comparativi un quadro assai variegato, confermando come

l’attribuzione delle varie funzioni tra governi centrale e sub-nazionali sembra

dipendere, più che da considerazioni di efficienza economica, dalle vicende storiche e

dalla struttura socio-economica dei vari Paesi. Uno dei pochi tratti riconoscibili

sembra riguardare l’istruzione, dove la quota di spesa attivata dalle giurisdizioni

locali risulta sistematicamente maggiore nei Paesi federali (spicca il caso della

Germania) rispetto ai Paesi unitari.

Significativo è poi il caso della Danimarca, dove i livelli locali di governo

controllano in misura pressoché esclusiva la spesa sanitaria. Infine, si può notare

come Francia, Norvegia ed Olanda condividano con due Paesi federali, come

Germania e Svizzera, l’attribuzione alle giurisdizioni locali di un ruolo prevalente

nell’ambito degli interventi pubblici in campo residenziale.

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Tab. 2 Composizione delle spese dei governi sub-nazionali per funzione (% del totale dell’Amministrazione pubblica per ciascuna funzione)

Istruzione Sanità Sicurezza sociale e welfare

Abitazioni e assetto

territoriale

Ordine pubblico e sicurezza

Affari economici

Totale

Stati federali Germania (1996) 96 28 79 93 92 64 38 Svizzera (1999) 90 31 23 85 93 37 47 Austria (1998) 72 48 9 25 3 n.d. 31 Spagna (1997) 71 31 6 93 41 60 32

Stati unitari Danimarca (2000) 46 95 55 33 13 35 46 Norvegia (1998) 63 77 19 87 17 17 34 Francia (1993) 37 2 9 82 28 18 17 Olanda (1997) 33 5 14 79 25 26 22 Regno Unito (1998) 67 0 20 41 52 29 22 Irlanda (1997) 22 48 6 70 100 70 25 Fonte: Imf Government Financial Statistics, 2001.

9. La devoluzione dei poteri dei governi nazionali verso l’Unione Europea

I processi di unificazione dei mercati dei prodotti e dei mercati finanziari, assieme

all’unione monetaria, hanno inteso dare attuazione innanzitutto all’obiettivo di

accrescere il benessere delle popolazioni europee attraverso i guadagni di efficienza

conseguenti all’integrazione e all’armonizzazione. A tale obiettivo si è

progressivamente aggiunta la volontà degli Stati europei di fare fronte comune contro

la perdita di efficacia degli strumenti di intervento dei governi nell’economia

nazionale una volta che i mercati sono unificati.

La domanda che ci si può porre è se la “sostenibilità” della sfida che la

globalizzazione porta alla costruzione europea sia davvero assicurata dall’attuale

configurazione delle strutture di governance di Bruxelles e Francoforte.

L’assetto istituzionale dell’Unione Europea prevede la centralizzazione della politica

monetaria e il mantenimento della politica fiscale alla dimensione nazionale. Tale

asimmetria viene solitamente giustificata ricordando come l’obiettivo primario del

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processo di integrazione monetaria europea sia quello di garantire in Europa la

stabilità monetaria, mentre le politiche pubbliche dovrebbero tendere al

soddisfacimento delle eterogenee preferenze dei cittadini delle diverse comunità

nazionali.

Poiché questa costruzione istituzionale è esposta all’impatto negativo che eccessivi

livelli dei deficit e dei debiti pubblici nazionali potrebbero trasmettere sul tasso di

interesse comune, il Patto di stabilità e crescita rappresenta il meccanismo di

enforcement deputato al coordinamento delle politiche fiscali nazionali verso una

condotta compatibile con l’indirizzo anti-inflazionistico della Banca centrale europea.

E’ certamente vero che il coordinamento delle politiche fiscali a fini di stabilizzazione

macroeconomica richiederebbe iniziative a livello sovra-nazionale che vanno ben

oltre l’adesione dei singoli Stati membri al Patto di stabilità e crescita, ma il

raggiungimento di questo obiettivo (per esempio, attraverso l’ampliamento del

bilancio comunitari) sembra ancora assai lontano.

L’introduzione del Patto di stabilità e crescita ha certamente portato a risultati

desiderabili, soprattutto per un Paese ad alto debito pubblico come l’Italia. A livello

europeo, il Patto di stabilità ha dimostrato di essere sufficientemente efficace e

credibile nell’evitare che singoli Paesi si comportino da free rider, evitando i

necessari aggiustamenti dei propri conti pubblici e beneficiando, al contempo, dei

vantaggi derivanti dal condividere un’area di stabilità monetaria. Per l’Italia poi il

vincolo esterno del Patto di stabilità ha rappresentato l’elemento chiave per spingere

il nostro Paese verso un processo di risanamento dei conti pubblici richiesto dal peso

preponderante del debito.

E’ vero del resto che, come è noto, l’attuale assetto dell’assegnazione delle

politiche monetaria e fiscale tra il livello comunitario e quello nazionale e la

conseguente collocazione del Patto di stabilità e crescita come snodo di questo

rapporto non è esente da critiche. L’imposizione di vincoli quantitativi ai governi

nazionali viene, ad esempio, giudicata una strategia poco attenta all’inefficienza che

spesso accompagna l’adozione di regole fisse uniformi per tutti i Paesi, quale che sia

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la fase del ciclo attraversata da ciascuno di essi e la solvibilità fiscale di un Paese alla

luce del rapporto fra stock di debito pubblico e PIL. In particolare, il perseguimento

della riduzione del debito pubblico al 60% del PIL in 20 anni (recentemente imposta

dal Fiscal Compact che ha sostituito il PSC), generando un comune orientamento

restrittivo delle politiche fiscali nazionali, finirà per deprimere ulteriormente il livello

di domanda nell’area economica europea già fortemente ridottosi a causa della

recessione.

Tale esternalità negativa che ciascun processo di consolidamento produce a

danno di tutti gli altri Paesi dell’Unione monetaria richiederebbe un intervento

compensativo a sostegno della domanda aggregata. In altri termini, come sopra

richiamato, sarebbe auspicabile che la banca centrale europea promuovesse un

coordinamento con le politiche fiscali nazionali ed orientasse in senso espansivo la

politica monetaria sotto la condizione di una maggiore credibilità delle stance fiscali

nazionali.

L’assegnazione delle politiche fra il livello comunitario ed il livello nazionale

appare poi ancora meno convincente quando la si esamini nella prospettiva

complessiva delle politiche macroeconomiche e delle riforme microeconomiche

invocate dalla Commissione europea. In misura ancora maggiore dopo la crisi

dell’Eurozona, Bruxelles chiede ai governi nazionali più incisivi interventi diretti ad

accrescere la flessibilità del mercato del lavoro, una maggiore concorrenza nei

mercati dei beni e dei servizi di pubblica utilità ed il completamento della

liberalizzazione dei mercati dei capitali e del credito. L’obiettivo è quello di rendere

più efficiente e più rapido l’aggiustamento di mercato attraverso la variazione dei

salari e dei prezzi successivamente ad uno shock di domanda o di offerta, riducendo

così l’intervento fiscale di stabilizzazione macroeconomica al solo operare degli

stabilizzatori automatici.

Tale strategia sembra dimenticare che le riforme microeconomiche, sebbene

senza dubbio accrescano l’efficienza nel medio-lungo periodo, hanno un costo di

breve periodo. In base alla schematizzazione di politiche microeconomiche e

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macroeconomiche per livello di governo responsabile della conduzione di tali

politiche riportata nella tabella a p.201, si osserva come le riforme invocate dalla

Commissione, anche a causa della riduzione delle rendite presenti nei mercati del

lavoro, dei beni e dei servizi, comporterebbe una minore redditività delle imprese ed

una maggiore incertezza del posto di lavoro. Tali effetti che andrebbero

controbilanciati da una politica fiscale nazionale meno vincolata dalle stringenti

regole del Fiscal Compact, e quindi maggiormente in grado di compensare i gruppi

sociali che subiscono una perdita.

Sia la questione del corretto mix fra la politica monetaria della BCE e le politiche

fiscali nazionali, sia il problema della compatibilità fra queste politiche

macroeconomiche e le riforme microeconomiche inevitabilmente si intrecciano con la

progressiva attuazione in Europa dell’organizzazione multi-livello delle politiche

pubbliche. Appare evidente che i processi di riorganizzazione in senso federale in

corso nell’Unione europea richiedono un attento bilanciamento tra devoluzione verso

l’alto e verso il basso, affinché la ripartizione dei poteri possa evolvere verso

l'efficiente svolgimento delle tre funzioni – allocativa, stabilizzatrice e redistributiva

– dell'intervento pubblico.

In definitiva, sembra che la recessione scatenata dalla crisi finanziaria stia avendo

l’effetto di destabilizzare il parallelo evolversi dei processi di decentramento

giurisdizionale - il federalismo fiscale – e dei processi di integrazione sovra-nazionale

– l’Unione Europea e l’Unione Monetaria Europea. La “sostenibilità” della

globalizzazione si è allontanata con la crescente instabilità macroeconomica innescata

dalla crisi. Il più stretto controllo che inevitabilmente la Commissione Europea e le

altre agenzie di monitoraggio dovranno esercitare sui bilanci pubblici degli Stati

nazionali sta orientando la strategia dei governi sempre più verso un accelerazione

dell’integrazione ed un freno al decentramento giurisdizionale.

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