35
Comunicazione autentica Principali strumenti di comunicazione per riscoprire il contatto autentico con sé e gli altri La presente dispensa, distribuita solo agli studenti dei nostri corsi, ha lo scopo di sintetizzare alcuni tra i più salienti elementi della comunicazione umana con particolare attenzione alle aree di disagio ed ai principali strumenti per superare tali disagi Immagine: Josef Wilkon, L’abbraccio. Formazione Intercultura Counselling Gestione dei conflitti

Formazione Intercultura Counselling Gestione dei conflitti … · Oggi, nella post modernità, l’individuo che sonda i propri limiti scopre l’importanza dell’autenticità che

Embed Size (px)

Citation preview

Comunicazione autentica

Principali strumenti di comunicazione per

riscoprire il contatto autentico con sé e gli altri

La presente dispensa, distribuita solo agli studenti dei nostri corsi, ha lo scopo di sintetizzare alcuni

tra i più salienti elementi della comunicazione umana con particolare attenzione alle aree di disagio

ed ai principali strumenti per superare tali disagi

Immagine: Josef Wilkon, L’abbraccio.

Formazione

Intercultura

Counselling

Gestione dei

conflitti

Indice: QUADRO SOCIALE Dalla tradizione alla post-modernità La rivoluzione interpersonale CENNI ALLE PRINCIPALI TEORIE SULLA COMUNICAZIONE I due livelli di comunicazione Gli assiomi fondamentali della comunicazione Tipologie di relazione Comunicazione globale IL DISAGIO NELLA COMUNICAZIONE E GLI STRUMENTI ADATTI A RISOLVERLO L’area di assenza di disagio L’ascolto attivo e la gestione del disagio dell’altro La capacità di farsi capire in modo proattivo e la gestione del disagio personale La gestione dei principali tipi di conflitti La gestione delle escalation

QUADRO SOCIALE

Dalla tradizione alla post-modernità Dal punto di vista sociologico, ai cambiamenti epocali delle società occidentali corrispondono differenti modelli di integrazione sociale. I modelli di integrazione sociale sono quelle istituzioni (es: religioni, tradizione, legge) capaci di tenere insieme gli uomini in una società regolandone i comportamenti. Tali modelli sono a loro volta direttamente connessi con le rappresentazioni sociali presenti in quelle società ovvero dal modo in cui vengono affrontati e dal valore che si attribuisce, in determinate epoche storiche, a temi quali la religione, l’idea di scienza, la legittimità dell’orientamento politico, la giustizia sociale, il significato delle esperienze personali nel mondo. I modelli di integrazione sociale si presentano in modo diverso (e danno vita a rappresentazioni sociali differenti) a seconda dell’epoca storica. Avranno così una diversa configurazione nella società tradizionale (dal medioevo alla rivoluzione francese), un’altra nella modernità (dalla rivoluzione francese fino al 1970 circa) ed un’altra ancore nella post-modernità (dall’ultimo trentennio del secolo scorso ad oggi)

Tradizione

Modernità

Post modernità

Stratificazione segmentaria (la società è divisa su basi tribali/parentali)

Lentezza nella diffusione delle notizie

“Magificazione” del mondo

Economia pre-capitalistica

Feudalesimo

Dipendenza dell’individuo rispetto alla comunità

Dimensione del sacro e pensiero quasi magico

Sviluppo della differenziazione funzionale

Maggiore velocità di diffusione delle notizie/minore interattività

Tecnicizzazione del mondo

Capitalismo industriale

Stato-nazione

Autonomia del soggetto

Disincanto/Demagificazione

Questione ecologica, scienze della complessità e senso del limite

Maggiore velocità di diffusione delle notizie/maggiore interattività

Fine delle grandi narrazioni e crisi dell’idea di progresso

Società postindustriale

Glocalismo

Autenticità del soggetto

Desecolarizzazione

La rivoluzione interpersonale

Nel corso del XX secolo e soprattutto a partire dagli anni ’60, l’assetto patriarcale e gerarchico della società è stato duramente contestato ed in brevissimo tempo si è passati da rapporti impostati su copioni socialmente prestabiliti e rigidi a relazioni autodeterminate e flessibili, dalla comunicazione formale alla spontaneità. Si sta riducendo sempre più quel timore e quella deferenza verso l’autorità che aveva caratterizzato i rapporti del passato e si afferma uno stile sempre più spontaneo e informale. Nel corso di pochi decenni si sta passando da una società patriarcale, rigida, maschilista e autoritaria ad una società aperta e democratica, in cui la comunicazione viene ad assumere un ruolo centrale in quanto facilita il contatto tra persone, culture e religioni. Questa rivoluzione nelle relazioni interpersonali rappresenta senz’altro un cambiamento evolutivo positivo, necessario presupposto per una società più libera e creativa, per rapporti umani più gratificanti, costruttivi e consapevoli, per una vita sociale che incarni nel quotidiano – e non solo nella sfera politica- i principi democratici della libertà, dell’autodeterminazione, della parità di diritti, della reciprocità. Tuttavia la medaglia ha anche il suo rovescio: col crescere della libertà è cresciuto anche il disagio esistenziale. Il senso di identità e i ruoli sociali e sessuali sono entrati in crisi; stanno aumentando i conflitti (a tutti i livelli interpersonali ma anche internazionali, interetnici ecc), le separazioni, le controversie e la famiglia é in disfacimento, come pure la solidarietà e la coesione sociale; crescono la solitudine e l’individualismo; il rapporto tra cittadini e istituzioni è sempre più improntato alla sfiducia e l’ordine ne risente sotto più aspetti. Difatti, così come la società patriarcale del passato (centrata sull’ordine, la repressione, il controllo) ostacolava la maturazione degli individui e produceva relazioni affettivamente aride e scarsamente creative, la grande libertà attuale, non supportata da un’adeguata consapevolezza e da appropriate abilità comunicative può portare all’estremo opposto, alla crisi e alla dissoluzione delle identità individuali e collettive, alla perdita dei valori e delle norme morali, insomma al caos sociale ed esistenziale. Nella società tradizionale i nostri antenati erano meno liberi (dovevano seguire binari prefissati, regole rigide, non potevano scegliere se sposarsi o convivere, spesso, chi sposare, ruoli formali, non erano liberi di esprimere le loro emozioni e sentimenti in pubblico ecc.) ma anche meno insicuri, meno ansiosi, il prezzo della sicurezza si pagava con l’accettazione incondizionata dei limiti sociali. Il malessere diffuso era più una rassegnazione dovuta alla lenta gonia dell’anima, l’individuo scambiava la sua identità collettiva, al sua socializzazione con la rinuncia di sé della propria individuazione. Nella modernità, era della tecnologia, dell’efficienza e della performance, c’è come si diceva molta più libertà, ma quello che non è ancora concesso è di mostrarsi vulnerabili, il rischio è di essere estromessi dal mercato e dunque viene richiesto all’individuo di apparire sempre al meglio. L’uomo dell’età moderna è più simile ad un clown che ride per non mostrarsi debole ed alla fine egli stesso finisce per credere di essere la maschera che indossa dimenticandosi chi è veramente, scordando, direbbe Jung, “il segno della sua provenienza”1. Oggi, nella post modernità, l’individuo che sonda i propri limiti scopre l’importanza dell’autenticità che si paga con il diffuso, soprattutto nelle generazioni più giovani, senso di precarietà. Precarietà incentivata dal processo di globalizzazione e della centralità assunta dall’inforazione. Tali dinamiche generano una più frequente esperienza della differenza e tendono ad indebolire lo stato nazione, tradizionale fonte di identificazione dell’epoca moderna. La capacità di dialogo con la differenza diviene in tale contesto un elemento centrale, di vitale importanza. L’uomo post moderno si trova nella paradossale situazione di dover fare i conti in primo luogo con un se stesso che conosce

1 In termini junghiani si intende la trascendenza originaria insita nell’essere umano e si collega al mito del segno di

Caino.

poco o per niente o che confonde ancora con l’apparenza, la famosa maschera, poi con una incapacità di relazionarsi in modo sano con gli altri ed infine con una ancor più tragicamente evidente incapacità di dialogo interculturale. Visto che, come si usa dire “la lingua batte dove il dente duole”, la post modernità risulta essere l’epoca sociale in cui più d’ogni altra si necessita di nuovi strumenti comunicativi sia in senso intrapersonale (comunicazione tra le nostre parti interne, sé primari in cui mi riconosco e sé rinnegati –Stone- o Io ed Ombra descritti da Jung) che in senso interpersonale ovvero nel contatto tra Sé e l’Altro, il diverso su cui proietto la mia Ombra ovvero ciò che di me stesso non voglio guardare. Questo significa riscoprire capacità umane da tempo atrofizzate dalla rigidità tradizionale prima e dal tecnicismo moderno poi, al fine di stabilire una nuova relazionalità sociale dove essere socializzati o integrati non significhi per forza vendere la propria anima, perdere il tutto che ci appartiene, al nostra essenza, in cambio di una piccola parte, un’immagine priva di senso, rinunciando così all’idividuazione di Sè.

RELAZIONI INTERPERSONALI TRA MODERNITÀ E POST-MODERNITÀ

Cultura patriarcale caratteristica della modernità

Cultura olistica (di equilibrio tra

l’elemento patriarcale e matristico) emergente nella post-modernità

1. Attenzione all’aspetto utilitaristico (alla

soddisfazione dei bisogni materiali, all’avere, all’apparire)

2. Ricerca della stabilità (possibilmente a vita-

sia nel lavoro che nella vita matrimoniale-)

3. Impostazione gerarchica a tutti i livelli (famiglia, mondo del lavoro, rapp.cittadino/Stato)

4. Formalità della comunicazione (in famiglia e nel lavoro)

5. gestione competitiva/aggressiva dei conflitti

(a livello economico, politico, ideologico, religioso, emotivo)

1. Maggiore attenzione all’essere,

all’autenticità, dando maggiore spazio all’affettività pena lo svuotamento di senso

2. La stabilità deve fare i conti con la

fluidità, suo aspetto complementare, per non trasformarsi in rigidità.

3. La gerarchia va manifestata come

organizzazione e complementarietà dei rapporti non come prevaricazione, pertanto deve aprirsi all’ascolto

4. La formalità deve aprirsi alla spontaneità

5. I conflitti vanno affrontati

costruttivamente attraverso la comunicazione e non più con la violenza

Le tre dimensioni dell’alterità nella prima e seconda fase della modernità

I° fase della modernità in cui il centro del

potere é lo Stato - Nazione

II° fase di perdita di potere dello Stato –

Naz. a favore del mercato globale

Altro interno: L’identificazione dell’Io nel noi nazionale impedisce il contatto con l’Altro interno e dunque l’individuazione di Sé Altro esterno: Il noi nazionale si delinea in antitesi agli altri, al nemico appartenente all’altra nazione. Altro trascendente: trascendenza pratica della fede nazionalista ed ideologica

Altro interno: L’efficentismo del mercato potenzia l’aspetto egoico in cui l’individuo si riconosce a scapito delle sue parti interne più emotive ed autentiche; Il Sé (il tutto) si proietta nella parte (l’Io). Altro esterno: é un competitore nell’arena del mercato mondiale; egli o é oggetto di consumo o viene emarginato Altro trascentente: Alla fede nelle ideologie nazionali subentra la fede nel Progresso “tutto ciò che é possibile fare é bene farlo”

I tre volti dell’Altro nella Postmodernità (dagli anni 60 circa)

• L’Altro interno: Vi é una nascente tendenza verso la ricerca dell’autenticità

nelle relazione con sé e gli altri. Attenzione maggiore agli aspetti emotivi, a ciò che attiene all’area simbolicamente femminile dell’essere umano.

• L’Altro esterno: Da oggetto di consumo a soggetto di relazione che permette un

maggiore equilibrio tra processo di socializzazione e di individuazione (diffusione del dialogo interculturale).

• Altro trascendente: La questione ecologica fa sorgere il senso del limite: Non

tutto ciò che possiamo fare é bene farlo pena la sopravvivenza stessa del pianeta. Questa nuova concezione mette in discussione la fede nel Progresso. E’ l’epoca della “fine delle grandi narrazioni”. Il vuoto che ne deriva alimenta un rinnovato bisogno di senso e di sacro.

CENNI ALLE PRINCIPALI TEORIE SULLA COMUNICAZIONE

I due livelli di comunicazione: Freud sosteneva che un essere umano può considerarsi guarito dalla sua nevrosi nel momento in cui impara a fare due cose: a lavorare e ad amare. Dal dopoguerra ad oggi si è verificata una svolta molto importante per quello che riguarda lo studio e l’approfondimento degli aspetti comunicativi siano essi finalizzati agli aspetti funzionali/lavorativi ma anche relazionali/affettivi. In entrambi i casi risulta evidente che la comunicazione è comunque relazione con l’Altro. Tuttavia, nell’aspetto funzionale, la comunicazione assume il principale ruolo di scambio e interazione tra emittente e ricevente, divenendo, per l’individuo, principale strumento di interferenza e modificazione dell’ambiente sulla base dei propri bisogni ed esigenze. In questo caso la relazione con l’Altro è una relazione di utilità. L’altro è un mezzo per raggiungere il mio scopo. Saprò se ho comunicato bene o male a seconda che io abbia o meno ottenuto lo scopo. Il secondo aspetto, considera la comunicazione come strumento primo di connessione e di contatto con l’Altro; essa cioè è vista come l’unica modalità che un essere umano possiede per entrare in contatto con un altro essere umano oltre che con se stesso. Il contatto con se o gli altri può assumere diversi livelli di intensità e di soddisfazione. In tal caso la relazione con l’Altro è un fine che ha un valore in sé. Saprò se avrò comunicato bene o male a seconda di come ci sentiremo dopo l’incontro e del tipo di relazione che avremo creato. Nel primo punto di vista, quello funzionale, l’accento viene posto sul concetto di scambio e su ciò che viene scambiato, sull’oggetto in questione e diviene quindi importante cosa si scambia, mentre nel concetto del contatto diventa rilevante chi si contatta. Il contatto umano è quel fenomeno per cui tra due entità si annullano le distanze, ci si “tocca” reciprocamente. Tale livello, più o meno profondo, caratterizza quello che potremmo definire il nutrimento dell’anima e si verifica nello mostrarsi autenticamente per ciò che si è, giocando a carte scoperte e rischiando in vulnerabilità. Utilizzando una metafora si potrebbe paragonare il bisogno che abbiamo di contatto a ciò che rappresenta per un delfino l’aria. Un delfino può vivere bene sottacqua ma non potrebbe sopravvivere senza uscire ogni tanto a prendere un po’ d’aria. Allo stesso modo l’essere umano necessita di entrare in contatto, in intimità con se stesso (l’Altro interno) e con gli altri (Altro esterno). Tale bisogno primario segna il nostro sviluppo lungo tutta la nostra vita. Dal momento della nostra nascita (prima esperienza di separazione dal contatto con la madre) iniziamo a differenziarci dal mondo che ci circonda, a sentire che c’è differenza tra quello che noi siamo e ciò che non siamo; in questo frangente nascono due bisogni per certi versi contrastanti ovvero quello di essere indipendente (in grado di sopravvivere che riflette l’aspetto funzionale della comunicazione) ed il bisogno di entrare in contatto con qualcuno, di essere unito, collegato, nutrito (aspetto affettivo della comunicazione). Per mezzo del contatto posso entrare in una dimensione di relazione con il mondo che non intacca la mia individualità. In sostanza si può affermare che il versante funzionale, che risponde al bisogno di scambiare al fine di sopravvivere ed essere indipendenti, ed il versante affettivo, che soddisfa il bisogno di unione, di contatto e nutrimento dell’anima, rappresentano dunque due facce della stessa medaglia:

VERSANTE TECNICO – FUNZIONALE COMUNICAZIONE VERSANTE AFFETTIVO – RELAZIONALE Per riassumere schematicamente potremmo dire che la comunicazione funzionale mirante allo scambio si caratterizza per : Attenzione ad ottenere qualcosa E’ importante il risultato E’ importante essere efficienti Atteggiamento di contrattazione e negoziazione Si riferisce ad aspetti pratici dell’esistenza Informazioni discussioni, ragionamenti, soluzione di problemi ecc. Mentre per quanto concerne gli aspetti affettivi della comunicaz., si caratterizzano per: Attenzione all’incontro Sono importanti emozioni e sentimenti E’ importante il feeling Atteggiamento di avvicinamento o allontanamento Si riferisce all’aspetto relazionale dell’esistenza Conoscenza reciproca, corteggiamento, simpatia, divertimento, ecc L’importanza della comunicazione consiste proprio nella compresenza di tali aspetti entrambi difficili da realizzare e da gestire. Sulla base della qualità e del livello di contatto si possono inoltre identificare infinite possibilità che vanno da un estremo con bassa qualità di contatto, all’altro con alta qualità di contatto. Incrociando le variabili ‘bassa qualità di contatto’ e ‘alta qualità di contatto’ con ‘comunicaz. funzionale’ e ‘comunic. affettiva’, otteniamo quattro modalità comunicative. In particolare avremo:

1. una comunicazione funzionale con bassa qualità di contatto, tipica degli ambienti di lavoro in cui si lavora malvolentieri con una funzionalità priva di rispetto e riconoscimento per il valore delle persone, un clima cioè di efficienza fredda, (ammesso che un ambiente di lavoro del genere riesca ad essere realmente efficiente)

2. Comunicaz. funzionale con alta qualità di contatto tipica ad esempio del manager capace e professionale che rispetta i suoi dipendenti ed è ben voluto da loro perché essi si sentono trattati come persone umane; clima di efficienza calda con una funzionalità che rispetta l’altro.

3. Comunicaz. affettiva con bassa qualità di contatto, presente p.e. in quelle famiglie che viste dal di fuori sembrano perfette, nelle quali tutto funziona, i cui membri però sono distanti e freddi. In cui regna una pseudo-affettività, giochi di potere ecc.

4. Comunicaz. affettiva con alto livello di contatto, in cui vi è intimità, piacere nello stare insieme, nello scambiare con l’altro, in cui p.e. il marito discute con la moglie di questioni pratiche tipo educazione dei figli, problemi economici ecc. restando in un clima familiare ed empatico.

Riuscire a comunicare in ambito lavorativo ed affettivo, pur mantenendo un buon livello di contatto, appare più che altro una meta da raggiungere, è la vera sfida dell’essere umano perché è la comunicazione che porta alla intimità più profonda ed al vero nutrimento dell’animo umano.

Gli assiomi della comunicazione umana:

Lo studio della comunicazione considera tre settori principali:

1. Sintattico o di contenuto 2. Semantico o di significato 3. Pragmatico o di effetto sul comportamento

- Il primo, considera il contenuto dei messaggi che vengono inviati. Tuttavia, se non sempre ciò che si trasmette dall’emittente al ricevente corrisponde a quanto detto a parole, il più delle volte la comunicaz. include messaggi impliciti dei quali spesso non siamo consapevoli. - Il secondo riguarda l’aspetto semantico, di significato. Molto spesso noi adoperiamo dei termini quali “amore”, “successo”, “felicità”, “giustizia”, “libertà” ecc. che non hanno lo stesso significato per tutti gli interlocutori. Ognuno di noi vive e si rappresenta l’idea di amore, felicità, ma anche benessere o malessere in modi differenti. Anche se spesso, quando utilizziamo in una conversazione tali termini diamo per scontato che l’altra persona li interpreti e dia ad essi lo stesso significato che noi attribuiamo ad essi. - Infine c’è il terzo punto che riguarda l’effetto pratico o pragmatico, di cambiamento, che la comunicazione può produrre. Questo è forse l’aspetto più centrale perché pone in evidenza le conseguenze concrete e reali che la comunicazione può generare. La pragmatica della comunicazione, elemento di studio della famigerata scuola di Palo Alto in California e del suo massimo esponente Paul Watzlawick, studia per l’esattezza le modalità di influenza che la comunicazione ha sull’ambiente. In tal senso la comunicazione diviene principale stimolo del cambiamento ovvero, per operare mutamenti, è necessario comunicare, e questo è valido sia per il mondo esteriore che per quello interiore (far cioè comunicare parti interne). Nel famoso libro “Pragmatica della comunicazione umana” Paul Watzlawick sintetizza i cinque principali assiomi della comunicazione:

1. “E’impossibile non comunicare”: Questo significa che anche il fatto di non comunicare comunica qualcosa. Pensate p.e. ad una persona che vi sta tenendo il muso, o che non sta dicendo nulla, in ogni caso vi sta passando qualcosa ad esempio che non vuole comunicare con voi

2. “Ogni comunicazione ha un aspetto di contenuto ed un aspetto di relazione

in modo che il secondo giustifica il primo”:Ciò significa che oltre al contenuto dei concetti che ci vengono trasmessi vi sarà tutto un insieme di altri fattori spesso non verbali che stabiliranno la tipologia di rapporto tra gli interlocutori. P.e.: se chiedo ad una persona “Per favore mi potresti prestare quella penna?” (detto con tono aggraziato) io sto chiedendo una penna a quella persona (contenuto) e lo sto facendo relazionandomi in un certo modo (che potremmo definire cordiale). Potrei però Chiedere quella penna in altro modo p.e. dicendo:”Dammi quella penna!”

(detto con tono perentorio). La richiesta o meglio il contenuto è identico ma la relazione è diversa.

3. La natura della relazione dipende dalla punteggiatura delle sequenze di

comunicazione tra i comunicanti”: La punteggiatura indica il tipo di rapporto che instauro, la natura della relazione dipende dal punto di vista da cui osservo. La punteggiatura ha quindi molto a che vedere con l’aspetto pragmatico poiché a seconda del punto di vista dal quale guardo la relazione posso intendere una cosa piuttosto che un’altra. Un esempio divertente riguarda i topini da laboratorio. Vi sono certi esperimenti in cui si cerca di condizionare l’animale in un qualche modo ad esempio a premere una leva gratificandolo con del cibo. A questo punto, il ricercatore, quando l’esperimento è riuscito, potrebbe dire: “Guarda che bravo che sono stato, sono riuscito a condizionare il topolino e riesco a fargli schiacciare la leva quando voglio io “ Però, se ci mettiamo ad osservare dal punto di vista del topo, questo potrebbe dire: “Però, guarda che bravo che sono, sono riuscito a manipolare il ricercatore perché basta che io schiacci una leva perché lui mi dia la ricompensa”. Tutti e due questi punti di vista sono reali e veri. Entrambi hanno ragione. In ambito familiare un’altrettanto noto esempio è quello del marito che legge il giornale e della moglie che lo critica. Il marito dice: “Per forza che leggo il giornale, tu mi critichi sempre!” e la moglie:”E’ chiaro che ti critico! Tu stai sempre lì zitto a leggere il giornale!”. Quello che entrambi non vedono è cosa il loro chiudersi ed il loro criticare crea all’altro. La tendenza è di pensare il proprio modo di comunicare come un effetto dell’ambiente, di quello che fanno glia altri senza renderci conto dell’effetto della nostra comunicazione sugli altri.

4. Gli esseri umani comunicano sia con il modulo numerico che con quello

analogico”:Questo significa che la comunicazione umana non è fatta solo di parole ovvero di aspetti verbali, ma anche di aspetti non verbali ovvero di gesti, tono della voce, mimica facciale, il gesticolare, la postura ecc. In ogni nostra comunicazione attraverso il verbale ed il non verbale trasmettiamo tutto noi stessi.

5. “Tutti gli scambi di comunicazione sono simmetrici o complementari a

seconda che siano basati sull’uguaglianza o sulla differenza”: Ciò significa che perché vi sia una buona comunicazione ci deve essere scambio reale e cioè che se uno trasmette qualcosa l’altro sappia ascoltarla. Questa è detta situazione di complementarietà in cui, spesso a turno, uno trasmette e l’altro riceve. Vi sono altre situazioni,cosiddette simmetriche in cui entrambi gli interlocutori assumono una posizione “down” di ascolto o “up” di trasmissione. Nel primo si creeranno lunghi silenzi spesso imbarazzanti in cui entrambi aspettano che l’altro parli, e nel secondo si verificherà la tipica situazione di ‘dialogo tra sordi’ in cui entrambi vogliono dire senza ascoltare.

Tipologie di relazioni

In sostanza esistono quattro tipi di relazioni, che riflettono le diverse posizioni che possono essere prese da un individuo nei confronti di un altro: Superiorità, inferiorità, parità e complementarietà. Queste quattro modalità, determinano due tipi di relazioni verticali (superiorità – inferiorità) e due tipi di relazioni orizzontali (parità e complementarietà). Nella realtà tali tipologie possono verificarsi sia in ambito funzionale/lavorativo che in ambito affettivo/relazionale. I rapporti verticali saranno quelli in cui appare presente una gerarchia

funzionale o affettiva; quelli orizzontali sono quelli in cui gli interlocutori si trovano allo stesso livello funzionale o affettivo.

SUPERIORITA’

Funzionale:datore di lavoro, persone di competenza superiore o gerarchicam. Sup. Affettivo: Persone a cui si fa riferimento tipo genitori, insegnanti, terapeuti ecc.

PARITA’ COMPLEMENTARIETA’

Funz.: colleghi IO Funz.: persone con le quali è

Aff.: Amici e fratelli possibile creare . qualcosa di nuovo Aff.: coppia, partner

INFERIORITA’ Funz.: persone gerarchicam. Inferiori o di competenza inferiore, subalterni

Aff.: Persone che vengono prese incarico, figli, allievi, pazienti ecc.

Non è questo il contesto per approfondire ulteriormente le specifiche caratteristiche dei singoli tipi di relazioni umane, ma è necessario operare questa distinzione perché superiorità, inferiorità, parità e complementarietà, a seconda dell’ambito funzionale o affettivo daranno origine a relazioni di fatto completamente diverse, anche con la stessa persona. Riuscire ad interagire bene richiederà la conoscenza di alcune regole comunicazionali specifiche di quello ‘sfondo relazionale’. Confondere tali situazioni determina in genere un gran numero di difficoltà nei rapporti umani. Tale confusione si può p.e. rappresentare nel caso del manager, giusto ed efficiente, che, quando torna a casa con l’intento di “fare il bravo papà” continua a fare il manager con i figli, senza rendersi conto che lo sfondo è cambiato; oppure il caso della persona romantica che nel contesto lavorativo crede di poter risolvere tutto con l’amore…E’ il caso del dipendente scontento del capo non tanto perché non è giusto, ma quanto perché non è buono, oppure quando nel lavoro sentiamo che la stima non è sufficiente e vorremmo in sostanza essere amati! Oppure ancora è il caso del genitore che pretende il rispetto dai figli per principio o vuole da essi riconoscenza…oppure, ancor più tragico è quando si intende ottenere uno scopo funzionale attraverso la sfera affettiva o viceversa entrando così nell’ambito dello sfruttamento.

Comunicazione globale

Quello che tu sei grida talmente forte

da impedirmi di sentire

quello che dici (Emerson)

Nell’atto di comunicare tutto ciò che un individuo è, viene trasmesso. Questo significa che al di là di quanto esprimiamo a parole mandiamo molti altri messaggi che rappresentano ciò che siamo. Tali messaggi spesso sfuggono al nostro controllo; in effetti l’Io riesce a controllare solo una parte della comunicazione che spesso si identifica nella parte verbale. Vi è tuttavia tutta un’altra area sicuramente più vasta che l’io non controlla e che potremmo chiamare inconscia. Per riassumere schematicamente la comunicazione in senso globale potremmo utilizzare lo schema sottostante:

Comunicazione globale:

Comunicazione verbale

Comunicazione non – verbale a. STATICA (scultura corporea) b. DINAMICA

Prossemica Cinesica Paralinguistica Digitale Olfattiva

Comunicazione oggettuale Non mi soffermerò molto sulla comunicazione verbale che sarà oggetto di analisi successiva quando si tratterà dell’ascolto attivo e delle capacità proattive; dico soltanto che ogni parola che noi utilizziamo ha anch’essa un duplice aspetto: uno logico, di significato di cui abbiamo coscienza, ma anche uno meno logico, di senso, di cui spesso non abbiamo coscienza. Mi spiego meglio, per esprimere un qualsiasi concetto, noi utilizziamo delle parole, potremmo esprimere lo stesso concetto in duemila modi diversi ma noi utilizziamo proprio quelle parole, per cui facciamo una scelta che avviene a livello spesso inconscio. Questo significa che, come afferma in modo approfondito la PNL (programmazione neuro –linguistica), il linguaggio che utilizziamo altro non è che una rappresentazione del nostro modello di riferimento, della struttura profonda, inconscia, da cui origina. In tal senso, più saremo in grado di prestare attenzione a quanto diciamo maggiore sarà la possibilità di entrare in contatto con tale struttura profonda e maggiori saranno le possibilità di superare l’involucro caratteriale ed entrare in contatto con il proprio Sé.

La comunicazione non verbale consiste soprattutto in messaggi che noi inviamo attraverso il nostro corpo. Tale tipo di comunic. può essere:

a. Statica ovvero riguardare le fattezze fisiche della persona. Il nostro passato è scritto sul nostro corpo come se fosse da questo scolpito in quanto gli eventi che ci hanno toccato emozionalmente hanno generato delle contrazioni, sia emotive che fisiche.

b. Dinamica ovvero che riguarda il presente, il qui ed ora e può essere a sua volta suddivisa in: Prossemica: riguarda la gestione degli spazi che teniamo tra noi e

l’altra persona a seconda vi sia più omeno intimità o più o meno piacere nella conversazione Cinesica: riguarda i gesti che compiamo e la mimica facciale Paralinguistica: sono tratti non verbali riguardanti p.e. il tono di voce,

rumori che provengono dai visceri, tamburellare con le dita ecc. Digitale: tratta il contatto fisico che possiamo instaurare con gli altri Olfattiva: fa riferimento agli odori che il nostro corpo emana (sudore,

ferormoni ecc.) Infine la comunicazione oggettuale che riguarda gli oggetti che noi utilizziamo, i vestiti, gli occhiali i monili il modo di pettinarsi ecc. Ogni cosa di noi rappresenta simbolicamente noi stessi.

IL DISAGIO NELLA COMUNICAZIONE E GLI STRUMENTI ADATTI A RISOLVERLO

Nel relazionarci con gli altri possiamo in linea di massima trovarci in due situazioni:

a. di nessun disagio o di agio (più o meno intenso) in cui cioè non ci sono problemi né conflitti in atto;

b. di disagio (anch’esso più o meno intenso) che può essere dell’altro, mio, o di entrambi.

L’area di assenza di disagio La prima situazione, caratterizzata da assenza di disagio, è uno spazio relazionale in cui regna un clima di reciproca stima, accettazione, condivisione dei punti di vista e dei modelli. Tale situazione di reciprocità e di valore dell’alterità, andrebbe sfruttata al massimo al fine di consolidare il rapporto e di renderlo maggiormente proficuo, forte nel reggere i momenti di difficoltà che inevitabilmente si presenteranno. In effetti è nel clima di assenza di disagio che meglio si realizza la collaborazione tra le persone; ed è tramite la collaborazione che si riesce maggiormente a scambiare con gli altri e ad edificare qualcosa di soddisfacente per entrambi. Spesso, quando si tratta della comunicazione vengono posti in evidenza i disagi e le difficoltà, i conflitti, i rischi di escalation, ma lo scopo centrale della comunicazione è quello di facilitare il benessere e l’evoluzione delle persone. Come si accennava in precedenza, mediante essa noi realizziamo infiniti scambi che ci aiutano a sopravvivere e

a sentirci amati. Attraverso una buona interazione con noi stessi (comunicazione intrapersonale) e gli altri (comunicazione interpersonale), possiamo intraprendere un percorso che promuove il contatto con i nostri bisogni. Sentire il nostro corpo, le nostre emozioni, contattare ciò che vogliamo nel profondo di noi stessi, non è che il primo passo verso il soddisfacimento dei bisogni, delle nostre aspirazioni, e dunque verso l’autorealizzazione. Questo significa, in altri termini che più saremo capaci di entrare in relazione con l’Altro (interno a noi ed esterno a noi) più riusciremo a percorrere fino in fondo tale cammino di realizzazione di sé. Una buona comunicazione nasce dunque da un buon livello di consapevolezza, non si può in questo ambito slegare il sapere, saper fare dal saper essere. Per questo pare fondamentale in primo luogo acquisire coscienza dei nostri modelli di riferimento, pregiudizi, filtri, barriere ecc. e divenire sempre più capaci di superarli e di ampliarli, di andare oltre il nostro giudizio, le nostre catalogazioni, attraverso l’incontro e l’accettazione di Sé al fine di limitare il più possibile quel sistema di proiezioni su cui spesso si fonda la relazione con l’Altro2. Mantenere un clima collaborativo di scambio con l’Altro richiede un ulteriore ampliamento della coscienza e del nostro senso di responsabilità nella direzione del nostro modo di stare nella relazione e divenire sempre più capaci di gestire le immancabili situazioni di disagio che possono verificarsi.

2 La parola ‘Altro’ è scritta in maiuscolo perché si riferisce al significato simbolico della parola. Tale concetto deriva

dal pensiero junghiano. In questa visione, l’‘Altro’ rimanda all’archetipo dell’Ombra, l’altra parte di noi stessi che non

conosciamo e di cui spesso abbiamo timore. L’Ombra rappresenta quindi ciò che di noi non vogliamo vedere e che

proiettiamo sugli altri o meglio sull’Altro, il nostro nemico. In tal senso, poiché solo nell’incontro, ovvero nel portare a

coscienza la nostra Ombra vi può essere una piena realizzazione di Sé (dato appunto dall’incontro Io – Altro o Ombra),

solo attraverso l’incontro con il nemico, su cui ho proiettato la parte nascosta di me, posso ritrovare me stesso.

Rappresentazione generale dei possibili disagi comunicazionali e

degli strumenti adatti a risolverli

DEGENERAZIONE DEL

DISAGIO:

E S C A L A T I O N

TIPOLOGIE DI DISAGIO:

NESSUN DISAGIO Area del consolidamento

L’ALTRO Area del disagio altrui

IO Area del proprio disagio

ENTRAMBI Entrambi sono nel disagio Conflitto di esigenze o

interessi Conflitto di gusti

Conflitto di valori

Conflitto d’opinione Conflitto di cambiamento

STRUMENTI ADATTI:

SCAMBIARE COSTRUIRE

CAPIRE L’ALTRO

FARSI CAPIRE

NEGOZIARE

TOLLERARE

SCOPRIRE IL SIGNIFICATO

ARGOMENTARE

GESTIRE IL

CAMBIAMNETO

CAPIRE L’ALTRO

Capire l’Altro, è lo strumento più efficace per affrontare le situazioni in cui l’Altro sta vivendo un disagio3. Tale comprensione passa attraverso la capacità d’ascolto. Ascoltare l’Altro con l’intento di comprenderlo equivale ad affinare la personale capacità di vestire i suoi panni e di ascoltarlo sia a livello di contenuto che di vissuto (stato emozionale). La comprensione dell’essere umano si differenzia da qualsiasi tipo di oggettivazione e di spiegazione. Jaspers afferma in tal senso: “Se oggetto della psichiatria è l’uomo, e non solo il suo corpo, ma lui stesso nella totalità della sua persona, sta oltre ogni possibile e afferrabile oggettivazione.”4 In tal senso, ogni qual volta che tendiamo a spiegare il comportamento o la persona che abbiamo di fronte, perdiamo di vista la totalità dell’essere umano. Se stiamo attenti solo alla comunicazione verbale, a quanto ci sta dicendo in termini di contenuto logico, senza porci nella condizione di sentire cosa sta provando, usciamo dalla comprensione dell’insieme delle parti e ne cogliamo solo alcuni aspetti, rischiando, confondendo la parte con il tutto, di stravolgere il senso di quanto ci sta comunicando. L’ascolto che guarda alla comprensione è il cosiddetto ascolto empatico. Questo si rivela nel suo duplice volto formato da aspetti verbali e non verbali, logici e simbolici. Gli elementi non verbali (simbolici) rappresentano l’aspetto determinante al fine di intraprendere quel salto di qualità che dalla semplice spiegazione logica (in termini lineari di causa/effetto) di quanto l’Altro sta dicendo, ci conduce verso la circolarità e la ‘drammaticità’ della comprensione che rappresenta il vero contatto con l’Altro. Nell’entrare in contatto con il disagio altrui si possono verificare situazioni di identificazione o empatia immatura (il suo disagio diviene il mio disagio e confondo la mia identità con quella dell’altro), di distacco, evitamento e fuga (prendo le distanze ed evito il contatto con l’altro , tale evitamento può essere fisico o anche solo emotivo), oppure di empatia5 matura dove è possibile sentire l’Altro senza confonderlo con Sé. L’empatia permette una giusto livello di vicinanza e lontananza dall’Altro: sono abbastanza vicino da poterti toccare ed abbastanza lontano da poterti vedere (Rovatti). La comunicazione empatica, rappresenta un processo volontario consapevole in cui dopo aver sospeso ogni giudizio morale, ci si immedesima nell’Altro, ci si mette nei suoi panni, si avvertono eventuali risonanze con le proprie emozioni e situazioni, mantenendo la necessaria lucidità e consapevolezza dei confini tra la propria identità personale e quella dell’altro. L’empatia richiede una grande apertura nel sentire ed una elevata capacità di decentramento, di andare cioè oltre l’egocentrismo. Si parla in tal caso di sacrificio narcisistico: chi ascolta diviene sfondo mentre l’Altro diviene centro, oggetto di tutta la nostra attenzione. Ciò difficilmente può verificarsi senza una profonda consapevolezza di sé. Spesso l’andare verso l’Altro fa paura, temiamo di perderci nell’Altro. Questo non è possibile proprio per il fatto che solo da questo movimento che va verso l’Altro possiamo conoscere qualcosa di noi. L’incontro è quindi un movimento in cui si va verso, si esce da sé, si incontra l’Altro e si ritorna a sé con maggiore consapevolezza. Più andiamo verso con l’atteggiamento empatico ovvero ,

3 Il disagio può essere personale (non provocato da qualche mio comportamento es: incontro un amico che è triste in

quanto è stato appena lasciato dalla fidanzata) oppure situazionale ovvero che io stesso, consapevolmente o meno, ho

provocato con un comportamento per lui disturbante. 4 Jaspers K.,La natura e il valore della scienza, in La mia filosofia,Einaudi Torino 1946, p.109.

5 Il termine empatia deriva dal greco empatheia e significa sentire dentro. Fu inizialmente utilizzato dai teorici

dell’estetica per indicare la capacità di percepire l’esperienza soggettiva altrui. E.B.Titchener negli anni ’20 fu il primo

psicologo ad utilizzarlo: egli cercava un termine distinto da simpateticità o simpatia in senso comune e compassione (in

senso religioso) ed optò per empatia.

direbbe Gurdijeff, con l’atteggiamento di chi osserva senza identificarsi né distaccarsi con o da l’Altro più riusciremo a non perderci nei mondi dell’Altro e ritornare a noi facendo tesoro di quanto appreso. In tal senso, come dice (P. Quattrini) si tratta di iniziare a piacersi in movimento anziché fermi, identificati nella propria falsa e narcisistica immagine di sé.

Empatia

Capacità di vedere e sentire il mondo con gli occhi dell’altro mantenendo la consapevolezza della propria identità.

Essere empatici nella definizione del filosofo Rovatti significa

ABITARE LA DISTANZA ovvero Essere abbastanza vicino da poterti toccare e

abbastanza lontano da poterti vedere

L’ascolto empatico Ascoltare empaticamente l’Altro al fine di comprenderlo è il primo passo che conduce ad una buona relazione con l’Altro e ad una gestione del suo disagio. Non vi può essere un buon livello di ascolto esterno senza essere preceduto da un buon ascolto interno di noi stessi. Per questo potremmo iniziare questa parte chiudendo gli occhi ed ascoltando empaticamente noi stessi. “Chiudi gli occhi e porta l’attenzione al respiro. Accogli senza giudizio tutto ciò che arriva: sensazioni del corpo, emozioni, pensieri, immagini mentali. Osserva, senti ascolta e lascia andare senza giudizio. Noi non siamo le nostre sensazioni, le nostre e mozioni o i nostri pensieri. Non identificarti con una parte ma prendi contatto con il tutto. I pensieri sono come nuvole: una nuvola arriva, si sviluppa, finisce poi ne inizia un’altra ma tra una nuvola e l’altra puoi cogliere ciò che sei, il tutto, lo spazio di cielo, di silenzio, puoi ampliare tale spazio ed ascoltare ad un altro livello”. Tornando all’ascolto esterno di chi ha un disagio… Per comprendere l’Altro è necessario: Una buona recezione di ciò che l’Altro sta dicendo. Questo significa direzionare tutta la nostra attenzione (logica ed emotiva) sull’Altro mantenendosi in una dimensione neutrale, di assenza di giudizio e direttività. Diventiamo sfondo mentre l’Altro è il centro Capire cosa l’Altro vuole veramente dire ovvero non dare per scontato che i nostri interlocutori usino i nostri stessi codici (stesso valore alle parole, provino le nostre stesse emozioni, abbiano i nostri stessi obiettivi, speranze, paure ovvero condividano la nostra stessa visione del mondo) Bisogna tenere sempre presente che, come afferma A. Melucci (1994): “Il riconoscimento della differenza è la ragione e il fondamento della comunicazione. Se non ci si riconosce come diversi non c’è bisogno di comunicare e non si comincia neppure a farlo. Si comunica, invece quando si cerca di mettere insieme e di

rendere trasparenti le proprie differenze”. Appare dunque importante porci delle domande tipo: “Questo cosa significa per lui?” “Cosa vuole veramente?” “Ho davvero capito ciò che lui voleva dirmi?” “Quanto e cosa ha capito di quello che io volevo dirgli?” “Come posso rendere più chiara ed efficace la comunicazione?” Dare delle risposte verbali e non verbali che agevolino la conversazione, che abbiano la funzione di raccolta e verifica del feedbak in modo da aumentare la certezza di essere stati compresi e di aver a nostra volta compreso correttamente quanto comunicato dall’altro (es: chiedere all’altro cosa ha capito o riassumere -riformulare- con parole nostre quanto comunicato dall’altro e riproporglielo per avere conferma se abbiamo capito bene) Essere consapevole dell’effetto che ciò che l’Altro dice ha su di me: tornare ogni tanto a me per comprendere se mi sto identificando o se mi distaccando dall’Altro Essere consapevole della relazione. Cosa sta succedendo tra di noi? Ci sono attriti? Incomprensioni? Com’è il nostro modo di stare assieme?

Le barriere all’ascolto

Da recenti studi, sono state individuate 5 tipologie di risposte che noi tutti comunemente utilizziamo e che risultano essere delle barriere all’ascolto e dunque alla comunicazione. Si tratta di modalità di risposta che hanno in comune il fatto di contenere un giudiizo implicito che influenza il significato intenzionato dell’interlocutore e limita (alcune immediatamente, altre solo nel lungo periodo) la sua autostima.

Valutazione: Fare la predica, giudicare, criticare, valutare positivamente, ridicolizzare. Il messaggio implicito è: “Tu non vai bene”.Gli effetti che provoca sono: senso di colpa, rifiuto, paura di essere sotto giudizio.

Spiegazione: Analizzare, interpretare, argomentare. Il messaggio che viene comunicato è “Questo è quello che succede a te”. “Tu non sai, io so”. Rende la relazione immediatamente verticale (di supriorità/inferiorità). Gli effetti che provoca sono: irritazione, blocco difensivo, senso di inferiorità.

Sostegno: Rassicurare, confortare, consolare. Il messaggio che viene comunicato è “Poverino, se non ci fossi qua io...” O “Il mondo è troppo cattivo per te, ma ci sono qua io a proteggerti”. Rende la relazione simile a quella intercorrente tra genitori e figlio. Nel lungo periodo tende a creare dipendenza affettiva. Gli effetti che provoca sono: atteggiamento di dipendenza con aspettative di essere guidato da che ascolta, possibile reazione di controdipendenza che provoca rifiuto di essere trattato con commiserazione, atteggiamento passivo nei confronti dei propri problemi.

Investigazione: Mettere in dubbio, indagare. Il messaggio che viene inviato è “Tu non dici le cose come stanno, non me la racconti giusta”. Si tratta di domande chiuse che influenzano la relazione direzionando la risposta obbligando l’interlocutore ad una scelta senza sfumature. Es: “Non ti eri accorto del divieto di sosta?” –detta a chi aveva appena preso una multa- Gli effeti che provoca sono: sviare il soggetto dai usoi veri problemi, ostilità verso ciò che viene percepito come curiosità investigatrice e giudizio implicito, difese sociali che tendono ad are la migliore immagine di sé.

Soluzione: Offrire soluzioni, ordinare, comandare, minacciare, avvisare, sdrammatizzare, cambiare argomento. Il messaggio comunicato è “Tu da solo non cela fai, ha i bisogno di me”. “Sarà questo un problema! Con tutti i guai che ci sono al mondo.” Tende a non responsabilizzare l’altro svalutandolo. Gli effetti che provoca sono: sensazione da parte di chi comunica il proprio disagio di “essere

messo alla porta”, impressione di dover accettare la soluzione adottata anche se non ritenuta appropriata, passività.

Attitudini fondamentali di chi ascolta

1. Accoglienza “Saper ospitare l’Altro” 2. Guardare al vissuto “Cosa sta vivendo?...” “Cosa sente?” 3. Guardare alla persona “L’Altro è importante in quanto essere umano!” 4. Rispetto per la persona “Saper considerare ed accettare” 5. Favorire la comunicazione “Saper stare in relazione” 6. Consapevolezza “La capacità di ascolto è proporzionale

alla consapevolezza dell’ascoltatore”

Come si ascolta?

1. Manifestazioni di interesse 2. Richiesta di informazioni 3. Espressione di intesa

1. Manifestazioni di interesse

Contatto visivo Linguaggio del corpo Non interrompere Non distrarsi

2. Richiesta di informazioni

Invito ad iniziare (Dimmi...

Raccontami...)

Incoraggiamenti a continuare (Capisco...

Davvero?...)

Domande aperte e non difficili (Cosa vuoi dire?; Mi puoi

spiegare meglio?; Ti va di parlarne?;)

Invito ad approfondire (Dimmi... Raccontami...)

3. Espressione di intesa

Parafrasare il contenuto (Se

ho capito, mi stai dicendo...; Vuoi dire che...; Dal tuo punto di vista...;)

Riflettere le emozioni (Ho

l’impressione che...; Mi sembra che lei provi...; Ti senti...;)

Riassumere o riformulare (Se ho ben capito, quando... tu ti senti...; Mi sembra che tu ti senta... perché...)

La circolarità del processo comunicativo Come già accennato nelle regole di Palo Alto, ogni relazione si realizza all’interno di uno spazio circolare in cui la reazione di ciascun soggetto ai messaggi provenienti dall’altro, diventa il nuvo messagio (feedback) che stimolerà una nuova reazione. In sostanza, ogni messaggio può essere visto come tale o come feedback rispetto ad un messaggio precedente. In un normale scambio comunicativo, che non si limiti ad una sola coppia di messaggi, ogni messaggio (salvo il primo) è considerabile feedback rispetto il secondo.

Messaggio

Codifica Decodifica Interpretazione Interpretazione Decodifica Codifica

Messaggio

La riformulazione:

La riformulazione è un tipo di risposta il cui messaggio implicito è “ti ho capito, sono disposto ad ascoltarti prosegui...”. Essa rimanda all’altro un feedback che gli fa capire che lo abbiamo compreso e lo invita a continuare a parlare. Questo tipo di risposta è dunque indispensabile allo scopo di affinare l’arte dell’ascolto sia nel caso in cui il disagio dell’altro sia di tipo personale, non causato da qualche nostro comportamento (es: incontro un amico che mi racconta di essere stato lasciato dalla fidanzata) sia nel caso in cui il suo malessere sia dovuto ad un nostro compostamento (es: avevamo un appuntamento ed io sono arrivato tardi). In particolare, tale risposta, permettendo all’altro di approfondire i motivi del disagio, risulta efficace anche al fine di gestire una reazione di rabbia nei nostri confronti. La riformulazione è anzitutto una risposta empatica. Senza un livello di empatia e di sintonia con sé e l’altro ogni tecnica perde la propria efficacia e forse anche la sua ragion d’essere. L’aspetto principale della riformulazione rimane dunque il messaggio non verbale che invio all’altro. In genere nell’atteggiamento corporeo di ascolto il mio corpo è rivolto verso l’altro, la mia postura ed il tono di voce e la velocità del mio parlare tendono a ricalcare (riflettere, rispecchiare) quelle dell’altro. Assumere il più possibile il suo modo di essere permette di ascoltare chi ho di fronte con tutto me stesso (corpo e mente), di mettermi nei suoi panni, sentire cosa sente pur mantenendo la consapevolezza della mia e della sua identità. Quanto sta provando è suo e non mio. Lo spazio verbale della riformulazione si centra sul riassumere con il minor numero di parole possibile il contenuto ed il vissuto dell’altro. Solitamente una buona riformulaizone inizia con una frase che lascia aperta la via a qualsiasi risposta da parte dell’interlocutore tipo: “Se ho ben capito...”, “Mi pare di capire...” “Ho l’impressione che...” “Ho la fantasia che...” oppure a fine frase: “...mi sbaglio?” “...ho compreso bene?” “...è così?” ecc.

Esempio di riformulazione o ascolto partecipativo: Donna di 38 anni abbandonata dal fidanzato “Ho l’impressione che la mia vita non abbia più alcun senso. Piangerei sempre: tutto mi innervisisce. Sto forse diventando pazza?” COSA DICE .......le sembra che la sua vita non abbia senso e le sembra di impazzire...... EMOZIONE .......tristezza, depressione, nervosismo..... RISPOSTA ....Se ho capito, ti senti triste e depressa in quanto ti sembra di aver perso il senso della tua vita..... Ragazzo di 11 anni (rumeno) che vuole partecipare alla gita scolastica. “Nessuno dei mei compagni mi vuole in stanza perché mi insultano, dicono che rubo e che do’ fastidio, che li picchio...Sono loro a darmi fastidio, a prendermi in giro... Voglio andare anch’io in gita...non so’ perché pensano così...non mi vogliono avere tra i piedi...Cosa, gli faccio schifo?...Non è giusto!” COSA DICE .....Che nessuno dei compagni vuole condividere la stanza con lui e che lo prendono in giro... EMOZIONE ....rabbia, sentirsi escluso, incompreso e trattato ingiustamente RISPOSTA .... Ti senti escluso e trattato ingiustamente dai tuoi compagni, vorresti andare in gita con loro ed il fatto che loro non vogliano ti fa sentire anche molto arrabbiato. E’ così?....

FARSI CAPIRE

“Prima di farti capire cerca di capire”

Come la capacità d’ascolto, anche il saper comunicare un proprio disagio, saper farsi capire e confrontare l’altro in modo efficace e chiaro è un’arte. Per seguire il sentiero che porta a sviluppare questa importante capacità si può iniziare con il primo passo: conoscere le proprie reazioni ovvero quei “modi di fare” che usiamo quasi in automatico quando ci troviamo in un disagio personale (centrato su una situazione che stiamo vivendo) o in uno situazionale (legato al comportamento dell’altro).

Riconoscere le proprie reazioni

Ricorda degli episodi in cui hai provato disagio con qualcuno. Scrivi cosa l’altro ha

detto o ha fatto per metterti a disagio; scrivi poi cosa tu hai detto o fatto. Quando l’altro ha detto o fatto: ………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………….......................................................................................... Quello che gli ho detto e che ho fatto poi è stato: …………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………..........................................................................................

Le reazioni emotive: In questo ambito di studi, molti studiosi (Skinner, Pavlov ecc.) hanno provato l’importanza

che ha il condizionamento sulle nostre reazioni. Questo significa che il modo con cui ognuno di noi reagisce a ciò che gli succede (agli stimoli), dipende da tre fondamentali categorie di condizionamenti:

Genetico: legato ai geni ereditati

Psicologico: legato alle esperienze del passato, sia quelle che ricordiamo che quelle più o meno rimosse.

Ambientale: legato al tipo di ambiente in cui abbiamo vissuto, alla famiglia, al contesto sociale ecc.

Tenendo conto dell’esistenza di questi condizionamenti (ovvero elementi che influenzano il nostro modo di agire), sembrerebbe logico pensare ad un essere umano privo di reale libertà di scelta, un essere umano totalmente condizionato che reagisce in maniera quasi automatica agli eventi, simile più ad un computer che ad una persona. In sostanza, secondo tali teorie, non vi sarebbero alternative al modello reattivo stimolo-reazione.

STIMOLO REAZIONE

Modello reattivo

Tipi di reazioni più diffuse:

AGGRESSIVA: Ho una reazione aggressiva quando mi lascio trascinare dalla rabbia. E’ una reazione molto evidente ed esplosiva. Spesso genera conseguenze che non sono in linea con quanto avrei voluto veramente. La rabbia è un’emozione secondaria, ovvero che non arriva mai da sola, ma come reazione ad un’altra emozione che la precede. Quando esprimiamo la rabbia facciamo conoscere poco all’altro di come ci siamo realmente sentiti ovvero della nostra emozione primaria (vedi più avanti “uscire dallo stato di accusa”). Nella reazione aggressiva, l’altro è messo sotto accusa e identificato come nemico e colpevole. E’ molto difficile che nella reazione aggressiva vi sia un qualche spazio per la comprensione o per la soluzione a qualche problema o disagio. Tra i comportamenti aggressivi troviamo il comandare, l’imporre la leadership in un gruppo, scaricare le responsabilità ovvero accusare, colpevolizzare, non mettere in discusisone il proprio modo di vedere, sminuire i meriti altrui, criticare ed emettere sentenze screditando la persona, interrompere, non lasciar esprimere l’altro, tendere a generalizzare non preoccupandosi di dare spiegazioni razionali ecc. PASSIVA: E’ caratterizzata dal tipico atteggiamento del “tenere il muso” e dall’intenzione di far sentire in colpa l’altro. Quando “tengo il muso” voglio che l’altro mi chieda cos’ho in modo da poterlo far star male. Tale reazione non dice molto all’altro del motivo per cui io p.e. con lui non parli o non lo saluti (o altro) e in genere crea grossi malintesi tra le persone. Altri comportamenti passivi sono il defilarsi, evitare il conflitto, non affrontare i problemi, non assumersi dei rischi, lasciare che altri decidano, stare in disparte, dare ragione al più forte, cercare l’approvazione altrui, non reagire alle critiche, subire, rinunciare, esitare e rimandare le soluzioni ecc. MANIPOLATIVA: Visto che l’altro mi ha, secondo il mio punto di vista, fatto star male, cerco di creare delle situazioni che possano rendere pan per focaccia, ma senza un contatto con lui, senza affrontarlo direttamente e spiegare il motivo del disagio. In questa maniera posso p.e. sorridergli quando lo incontro, ma parlar male di lui con tutti i nostri amici o colleghi. E’ una reazione di doppiezza che genera sfiducia nelle relazioni, come indossare una maschera per non mostrare il vero volto. Anche in questa maniera sarà difficile trovare una soluzione al disagio originario. Manipolare, raggirare, sfruttare le

relazioni e gli affetti per scopi utilitaristici, o utilizzare la propria posizione di potere a scopi relazionali, cercare di “fregare il prossimo” confondendo l’aspetto di scambio comunicazionale con il contatto o viceversa utilizzando il contatto affettivo al fine di ottenere qualcosa, fingere con sé e soprattutto con gli altri. Per esempio: il mio collega (Alberto) mette continuamente in disordine la mia scrivania; seguendo le tipologie di reazione suddette io potrei:

A- reagire aggressivamente prendendolo a parole. Conseguenze possibili: il collega reagisce a sua volta e finiamo a litigare, il collega si risente e lo riferisce al superiore, la relazione con il collega viene compromessa e forse anche la mia immagine sul lavoro.

B- Reagire passivamente: non dico nulla però in fondo voglio che si accorga del mio fastidio e si senta in colpa così quando mi chiede qualcosa non lo guardo e gli rispondo a monosillabi. Conseguenze: l’altro non capisce cos’ho esattamente, per cui continua a mettere le cose in disordine, inoltre pensa che io sia un antipatico con cui non gli va di collaborare; potrebbe anche riferirlo ad altri colleghi o ai responsabili....

C- Non dico nulla a lui direttamente, fingo di comportarmi come nulla fosse, ma appena posso ne parlo con altri colleghi o lo riferisco al capo; in entrambi i casi le conseguenze per me non sarebbero delle migliori e lui continuerebbe a fare come sta facendo, solo che avvertirà un clima di falsità che andrà a rovinare ancora una volta la nostra relazione e dunque il lavoro che stiamo svolgendo con disappunto dei dirigenti.

Questi tre modi di reagire hanno in comune il fatto di non ricercare serenamente ed assertivamente delle soluzioni di dialogo chiaro e dunque nessuna di queste reazioni risulta in tal senso efficace.

Le reazioni emotive e l’evoluzione del contesto sociale

Ogni individuo porta con sé la società dice Durkheim e, da questo punto di osservazione, si può affermare che sussista una diretta connessione tra comportamento individuale e contesto sociale. Il contesto può premiare o condannare determinati modi di fare delle persone e dunque selezionarne e indirizzarne i comportamenti. In tal senso, le reazioni possono esser considerate nella loro relazione con la cultura dominante. In particolare quella patriarcale e autoritaria che ha predominato fino non molti anni fa. In essa i rapporti sociali non venivano liberamente costituiti dalle parti, ma erano predefiniti da norme e gerarchie rigide imposte dall’alto. Questo sia nei rapporti tra governanti e cittadini/sudditi sia in quelli tra membri di una stessa famiglia dove i ruoli erano tutt’altro che paritari: c’era chi comandava e chi obbediva, chi indottrinava e chi subiva. Un tale contesto ha favorito per lungo tempo un tipo di comunicazione centrata sul binomio aggressività/passività. In seguito a partire dagli anni ’60 (in Occidente in modo particolare) la società democratica fondata su rapporti liberamente costituiti, su regole condivise, ruoli e poteri negoziabili ha modificato il binomio; in un primo momento la produttività sfrenata del mercato ha incentivato gli aspetti efficentisti e la performance individuale. Questo ha promosso comportamenti spesso fondati sullo sfruttamento dell’Altro considerato solo in quanto oggetto di scambio. Sfruttare è il sinonimo di manipolare e il manipolatore, dato che non gli è concesso di mostrare il vero volto, può solo palesare la maschera o una maschera diversa, a seconda del ruolo interpretato. Così, usando la maschera, giorno dopo giorno si dimentica di indossarla e finisce col pensare di essere quel falso volto. Nella cultura

olistica della post modernità emerge con forza l’esigenza di riscoprire l’autenticità dell’individuo, anche attraverso modalità comunicative che trascendano i condizionamenti imposti a livello sociale o dai falsi Sé. Ciò permette di raggiungere l’autentica bidirezionalità della comunicazione, fatta di parole e di ascolto. Questa ritrovata libertà ha permesso alla persona di riappropriarsi di quel piccolo ma prezioso spazio di libertà, creatività e responsabilità esistente tra stimolo e risposta, che le permette di superare i condizionamenti, di scegliere il proprio percorso, e che la distingue in quanto essere umano.

Il modello proattivo

“loro non possono privarci del rispetto di noi stessi

se noi non vi rinunciamo per compiacerli” Gandhi

“Essere consapevoli per lasciar andare” Thich Nhat Hanh

Scrive Covey: “nel leggere quanto segue cercate di staccarvi da voi stessi. Cercate di proiettare la coscienza verso l’alto, in un angolo della stanza e di vedervi, con l’occhio della mente, intenti a leggere. Riuscite a vedervi come se foste un’altra persona? Adesso concentriamoci sullo stato d’animo. Riuscite a capirlo? Cosa state provando? Come descrivereste il vostro attuale stato mentale? Ora pensate per un minuto a cosa sta facendo al vostra mente. E’ svelta e attenta? Avete la sensazione di trovarvi divisi compiendo questo esercizio e valutandone contemporaneamente l’utilità?” La capacità di fare quanto abbiamo appena fatto è una prerogativa umana non presente nel mondo animale. Si chiama autoconsapevolezza o capacità di riflettere sul proprio processo di pensiero. Di entrare in contatto profondo con noi stessi di sentire le emozioni e di non identificarci totalmente con esse, di saper anche prendere le distanze e osservarci da fuori. Noi non siamo le nostre sensazioni, o umori e neppure i nostri pensieri. Il solo fatto di poter pensare a queste cose ci separa da esse. Siamo di più delle singole parti. Nell’acquisire consapevolezza di questo ‘di più’ aumenta anche il livello di responsabilità rispetto all’effetto della nostra comunicazione, del nostro agire ovvero della risposta allo stimolo. In proporzione si amplia anche la gamma di possibili risposte. Queste non saranno più legate direttamente allo stimolo come fa una macchina, un computer: se p.e. il signor A mi aggredisce io devo per forza aggredirlo in modo uguale o più forte. Se così facessi permetterei ad A di condizionare la mia risposta (il mio umore, il mio modo di essere ecc) con le conseguenze che ne derivano, dunque, nel lungo periodo, permetterei ad un altro di determinare o, usando il gergo dei computer, di programmare, la mia esistenza. In tal caso non potrei considerami una persona realmente libera. Questo non significa etichettare l’aggressività come un male, vi sono dei contesti in cui anch’essa può risultare un’ottima risposta che a volte permette la sopravvivenza stessa. Posso dunque anche decidere di rispondere aggressivamente, ma pare fondamentale assumersi la responsabilità e dunque la consapevolezza di tale azione e delle conseguenze. Scegliere una risposta aggressiva è diverso dall’essere dominato dell’aggressività perchè per scegliere si necessita di prendere le distanze; questo significa conoscere la rabbia, ascoltarla capire l’emozione primaria da cui ha avuto origine e separarmi da essa e poi decidere se esprimerla o meno. Gli studi sullo stimolo-reazione spesso sono stati effettuati su animali (i cani di Pavlov per esempio) o su personalità particolarmente disturbate e questo ha contribuito a creare un paradigma parziale. In realtà, pur non negando l’importanza dei condizionamenti, più l’essere umano percorre il cammino faticoso della

consapevolezza e del superamento delle proprie nevrosi maggiore diviene la

coscienza della gamma di risposte, di soluzioni ai problemi, che ognuno può

scegliere. Tra stimolo e risposta l’essere umano ha la capacità di trovare

alternative. Lo spazio tra stimolo e risposta è dunque come si diceva, il luogo dalla consapevolezza, ma anche dell’immaginazione, della creatività, della

coscienza, della volontà indipendente e della responsabilità. Cristo diceva

“Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno” come dire che non sono consapevoli delle loro azioni. Quando scegliamo l’azione, lo facciamo in

piena consapevolezza e dunque piena responsabilità. Un’azione scelta ha una direzione ed un senso a differenza di molte attività che colmano il tempo della

nostra giornata. L’azione consapevole o azione di senso assume dunque un’efficacia diversa rispetto il semplice agire quotidiano.Conoscere meglio questo piccolo spazio che si inserisce tra stimolo e risposta, conduce ad un modo di agire che si chiama PROATTIVO e che nella comunicazione in particolare si incarna nello stile ASSERTIVO.

STIMOLO Libertà di scelta RISPOSTA

CONSAPEVOLEZZA IMMAGINAZIONE CREATIVA

COSCIENZA VOLONTA’

RESPONSABILITA’

L’assunzione di responsabilità:

Diventare una persona matura va di pari passo con il sapersi assumere la responsabilità di quanto ci succede anziché reagire meccanicamente. La mancata assunzione di responsabilità (il disagio è mio, è un mio problema) porta ad accusare l’altro, se stesso, o categorie quali p.e. i medici, gli insegnanti, Dio, la sfortuna ecc generando uno stato di rabbia. Lo stato di rabbia si lega all’accusa o colpa, che in quanto tale si colloca su un piano opposto rispetto la responsabilità. La colpa è legata al modello reattivo mentre la responsabilità è proporzionale alla consapevolezza(6) . Nel linguaggio comune spesso i 6- P. Baiocchi art. pubblicato nel sito dell’ Istituto Gestalt Trieste

due termini si usano come sinonimi ma in realtà non lo sono. La loro natura è talmente diversa che una persona tanto è più in grado di assumersi la responsabilità tanto meno

penserà e si esprimerà in termini di colpa. Una persona in preda ai sensi di colpa si paralizza e si vergogna per cui spesso nega l’accaduto, scappa, si nasconde oppure accusa qualcuno, mentre chi si assume la responsabilità agisce in prima persona, non accusa gli altri e può provare un profondo senso di pentimento che lo muove verso azioni riparatorie. Chi si sente in colpa spesso non accetta consigli o suggerimenti e si impegna a negare o giustificare i propri comportamenti per provare a se stesso di essere innocente e trovare negli altri l’errore. Non riesce ad imparare dall’errore perché qualsiasi errore li si faccia notare, lo interpreta come prova della sua colpevolezza per cui si difende e lo nega perché per lui errore=colpa. Spesso, tali reazioni conducono a conseguenze che non vorremmo, come per esempio la rottura di una lunga amicizia, dissapori con colleghi e dirigenti, fino nel lungo periodo, alla impossibilità di raggiungere i propri obiettivi, di autorealizzarsi. Il modello proattivo diventa quindi fondamentale per farsi capire e significa, in termini semplici, diventare più forti, essere meno in balia degli eventi, non lasciarci influenzare troppo dal comportamento altrui diventare cioè più consapevoli e responsabili. In tal senso, se nell’esempio precedente, ho lasciato che il mio comportamento e le conseguenze che ne sono derivate, siano determinate dal collega Alberto, con questo modello posso decidere che non mi va di rovinare una relazione di lavoro che andrebbe anche a deteriorare la mia immagine. Posso quindi, avendo superato il mio stato di rabbia, far capire ad Alberto, in modo molto più efficace, che per esempio : “Quando metti in disordine la mia scrivania, finisce che io non trovo più le cose e perdo un sacco di tempo per cercarle, e questo mi manda in confusione e temo di non riuscire a finire in tempo il mio lavoro. Per cui vorrei che quando prendi qualcosa la rimettessi dov’era” Potrei anche dare altre infinite risposte ma queste non saranno più frutto di un automatismo stile computer, ma di una scelta consapevole. Nel caso io mi senta responsabile di qualche comportamento che ha leso un’altra persona è altrettanto proattivo ammettere il proprio errore (l’errore maggiore sarebbe negare l’errore stesso) e semplicemente avere il coraggio di chiedere scusa e riconoscere il danno o la sofferenza che l’altro ha subito o patito. In entrambi i casi avrò trasformato una reazione in una risposta.

Gli spazi dell’assertività

Lo stile assertivo è semplicemente una modalità chiara di comunicazione e al contempo rispettosa dell’altro. Questa può risultare importante al fine di esprimere: opinioni o idee personali (“Mi piace quel tipo di musica” “Non sono d’accordo con questa affermazione” “Non mi sento bene”); bisogni e aspettative (“Stasera finirò prima il lavoro”; “Domani avrei bisogno della macchina”); apprezzamenti (“Mi piace molto il tuo tono di voce” “Sono soddisfatto del lavoro che hai fatto”) esprimere critiche o messaggi di confronto (“Quando ti chiedo qualcosa e tu non mi dai una risposta non sò se mi hai ascoltato o no e mi sento confuso” “Quando ti aspetto e tu arrivi tardi senza avvisare non sò cosa pensare e vado in ansia”) Tutti questi messaggi hanno la caratteristica di essere espressi in prima persona (come vedremo più avanti quando mi faccio capire parlo di me all’altro), di evitare definizioni di identità del tipo “sei bellissima” “sei scemo” “sei un ritardatario” ma di centrarsi sul fatto (privo di interpretazioni) e sul comportamento e di essere al di fuori dello stato di rabbia e di accusa verso l’altro (vedi pagine successive). Tra questi ambiti di messaggi assertivi, quello più complesso appare la critica o messaggio di confronto per questo ci soffermiamo a capire soprattutto come si forma tale messaggio.

CINQUE PASSI PER IMPARARE L’ARTE DI FARSI CAPIRE:

Il messaggio di confronto o critica Se qualcosa non va nella relazione (se l’altro ha fatto qualcosa che a nostro avviso non doveva fare o non ha fatto qualcosa che invece avrebbe dovuto) è necessario e utile per entrambi comunicarglielo, evitando di rinviare o di tenerselo per sé o di sperare che l’altro capisca e cambi da solo. Spesso infatti il rinviare o lo sperare che l’altro capisca da solo nasconde la paura delle sue reazioni (“Mi lascerà”; “Mi licenzierà”; “se la prenderà a male” ecc.). In realtà non succederà niente del genere se il messaggio di confronto, o detto in termini più comuni, la critica, verrà fatta nel modo giusto senza ferirlo o colpevolizzarlo, ma anzi ponendosi in un atteggiamento costruttivo e collaborativo. La critica può assolvere una duplice funzione: a) Espressiva (serve cioé a chi la fa per esprimere i propri sentimenti, sfogare il malcontento) b) Pedagogica (far sì che quel comportamento non si ripeta e ottenere al suo posto i comportamenti auspicati). La prima funzione viene soddisfatta subito, quanto più siamo riusciti ad esprimere il nostro stato d’animo e quanto più ci siamo sentiti ascoltati. La seconda funzione viene soddisfatta nel tempo, nella misura in cui l’altro ha capito il nostro rilievo e accetta di mettere in pratica le implicazioni. Per far questo occorre:

1. Parlare di sé

Spesse volte quando vogliamo farci capire cioè quando vogliamo esprimere un nostro disagio ad un altro, facciamo una cosa che a pensarci è proprio strana. Invece di parlare di noi, del nostro disagio, parliamo dell’altro invadendo i suoi confini e mettendo in moto le sue difese all’attacco. Per esempio usiamo termini tipo “Tu sei così… (ritardatario, imbroglione, furbo, stupido, ecc.)” “E tu hai fatto ….” “ Ma hai cominciato tu…” In questa maniera l’altro si sente sotto accusa e dunque avremo come risultato una risposta di difesa, spesso su questa strada finiremo per litigare senza, nella maggior parte delle volte, risolvere nulla. C’è una sottile ma fondamentale differenza tra parlare all’altro o parlare dell’altro. Per farmi capire in modo chiaro dovrò parlare all’altro e non dell’altro. Quando parlo all’altro significa che parlo di me all’altro e dunque per farsi capire bisogna anzitutto parlare di sé esprimendosi in prima persona. Esempio: “Io penso…” “Io credo…” “Io sento….” “Io scelgo…” “Io faccio…” CAPIRE L’ALTRO PARLARE DELL’ALTRO

FARSI CAPIRE PARLARE DI SE’ ALL’ALTRO Nello schema si vede come per “Capire l’altro”, quando è lui ad essere in un disagio, bisogna riformulare e dunque ascoltare e parlare dell’altro nel modo più neutrale e rispettoso di quanto l’altro ci dice, mentre per “farsi capire” la regola è esattamente inversa dovrò parlare di me all’altro.

2. Uscire dallo stato di accusa

Al fine di farsi capire in modo chiaro, è fondamentale saper uscire dallo stato di accusa, prendere le distanze dalla rabbia (come si diceva). Questo in termini pratici significa saper riconoscere l’emozione primaria, quella da cui è poi sorta la rabbia. La rabbia come si è gia accennato, non nasce da sola ma è una reazione ad un’altra emozione che la precede. Succede infatti che per esempio: una persona mi fa uno scherzo all’improvviso, mi sento disorientato e spaventato (emozione primaria) e questo mi fa arrabbiare (emozione secondaria); facendo un lavoro in casa mi faccio male con un martello, provo dolore (emozione primaria) e questo mi fa arrabbiare; un mio amico ritarda ad un appuntamento, sono preoccupato (emozione primaria) e mi arrabbio (emozione secondaria) ecc. si potrebbero fare infiniti esempi. In sostanza quando dò la colpa a qualcosa o a qualcuno di un mio disagio significa che sono entrato nello stato d’accusa e provo rabbia. Posso dare la colpa a qualche persona, oppure a me stesso, ad oggetti, al destino, a Dio ecc…ce n’è per tutti i gusti. Oltre all’incolpare vi sono altre tipologie di pensieri riguardo a ciò che ci succede che, come afferma A. Ellis -RET therapy-, contribuiscono ad aumentare inutilmente il livello di disagio o più specificatamente di rabbia. Sono delle frasi che in modo spesso inconsapevole diciamo a noi stessi. Tra queste si trovano per esempio i pensieri assolutistici e/o doverizzazione “devo assolutamente seguire la dieta” o catastrofici “è orribile…” di insopportabilità “è insopportabile…” ; di svalutazione di se e degli altri “sono un incapace…non riesco mai…” “è un cretino!” di generalizzazioni (tutti, nessuno , mai, sempre) “Mi va sempre tutto storto! Non riesco mai…; nessuno mi capisce; quelli come lui sono tutti…” “gli albanesi sono... i colombiani sono....” e, come si diceva, dare la colpa, accusare. Scoprire questi “virus mentali” ascoltarli e metterli in discussione ci aiuta a guardare al di là della nostra rabbia e a comprendere meglio le nostre emozioni ed in molti casi contenere il disagio oltre che superare i pregiudizi. Questa maggiore consapevolezza sia cognitiva che emozionale consente di diminuire il bisogno di sfogo emotivo e migliora la possibilità di espressione, nel senso di portare fuori con maggiore facilità, ma soprattutto consapevolezza.

Esercizio: “RICONOSCERE LE EMOZIONI PRIMARIE”

Ricordati di alcune situazioni in cui eri molto arrabbiato o infastidito.

Chi stavi accusando e di cosa lo accusavi?

Qual era l’emozione sottostante?

Esempio: L’altro giorno mi sono arrabbiato con un mio amico che, attraversando la strada di corsa, ha rischiato di essere investito da un’automobile.

Ho accusato lui di essere spericolato ed incosciente. L’emozione sottostante la rabbia era lo spavento che mi sono preso. Mi sono arrabbiato quando: …………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………… Ho accusato: ……………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………….. Profondamente l’emozione che provavo (e che mi ha fatto arrabbiare) era: ……………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………… 3. Descrizione del fatto o del comportamento

Per farsi capire e parlare di sé all’altro in modo efficace e chiaro, è fondamentale descrivere il fatto o il comportamento dell’altro che a noi ha in qualche modo creato disagio. Per far questo è importante saper distinguere i fatti reali dalle nostre interpretazioni Es: “Ti muovi nervosamente” è un’interpretazione “Muovi le mani, batti i piedi ed aggrotti la fronte” è un fatto “Mi manchi di rispetto” è un’interpretazione “Ti ho chiesto una cosa ed hai iniziato a parlare di un’altra” è un fatto ecc Esercizio: riconoscere una corretta descrizione del comportamento Segna con una crocetta l’affermazione che secondo te, descrive un comportamento dell’altro in maniera precisa ed inequivocabile.

1.

Quando dimentichi di mettere a posto le mie cose….

Quando prendi i documenti dalla mia scrivania e non le rimetti a posto…

Quando sei così sbadato da prendere le cose senza rimetterle al suo posto

2.

Quando arrivi in ritardo agli appuntamenti…

Quando fai i tuoi comodi e non ti interessa se arrivi in ritardo…

Quando fai tardi come sempre…

3.

Quando non ti interessa niente di quello che dico…

Quando fai finta di non capire….

Quando ti faccio una domanda e tu non mi dai una risposta…

4. Descrizione dell’effetto

Descrivere l’effetto che un comportamento dell’altro ha su di noi è fondamentale per farsi capire in quanto spiega il perché, di fatto, quel suo comportamento è inaccettabile per noi. In questo ambito non ci si riferisce all’effetto emotivo ma alle conseguenze concrete, ai danni ricevuti e tangibili. Esercizio: Descrivere l’effetto del comportamento: Segna con una crocetta l’espressione che descrive in maniera chiara e pulita l’effetto che il comportamento dell’altro ha su di te.

1. Quando prendi i documenti dalla mia scrivania e non le rimetti a posto

Lo sai che mi arrabbio…

Poi li perdi e vieni a dirmi che non sai come sia successo…

Io non so più dove andarle a cercare

2. Quando arrivi in ritardo agli appuntamenti

Mi stanco fisicamente ad aspettarti inoltre perdo un sacco di tempo….

Non mi porti rispetto…

Una volta o l’altra troverai qualcuno che farà così anche con te…

3. Quando ti faccio una domanda e tu non mi dai una risposta

non credere di farla franca…

dovresti vergognarti…

Vado in confusione perché non so cosa pensare…

5. Descrivere l’emozione o vissuto

L’emozione (o vissuto) provata è messa in moto dall’effetto del comportamento (fatto o stimolo) Comunicare il vissuto significa informare l’altro del tipo di disagio che proviamo sulla base di un suo comportamento. Comunica in che termini quel suo comportamento è per noi inaccettabile ed è per noi un problema. Comunicare l’emozione primaria anziché la rabbia permette di dare maggiori informazioni riguardo il nostro stato d’animo e permette una maggiore comprensione ed empatia. Esercizio: Descrizione del vissuto Scrivi quale potrebbe essere lo stato d’animo, cioè il vissuto, provato nelle situazioni presentate dagli esempi.

Comportamento e

conseguenze

1. Quando prendi i documenti dalla mia scrivania e non le rimetti a posto io non so più dove andarle a cercare…

2. Quando arrivi in

ritardo agli appuntamenti, mi stanco fisicamente ad aspettarti, sono costretto a perdere tempo…

3. Quando ti faccio una

domanda e tu non mi dai una risposta vado in confusione perché non so cosa pensare…

Vissuto

e mi sento……………………………………................. ………………………………………………………………………. ……………………………………………………………………….. e mi sento……………………………………………………. ………………………………………………………………………. ………………………………………………………………………. e mi sento……………………………………………………. ……………………………………………………………………….. …………………………………………………………………………

Critica distruttiva Critica costruttiva

Parla dell’altro; il soggetto è tu; “Smettila!”

Può esprimere rabbia (emozione secondaria)

Si focalizza sulla persona e tende ad etichettare “tu sei...”

Generalizza (“sempre”, “mai”)

Parla del passato senza fornire spunti per il futuro

Ha intenti di sfogo e punizione

Parla di sé all’altro; il soggetto sono io; “Non mi piace quello che fai”

Esprime eventualmente l’emozione primaria

Si focalizza sul comportamento o sul problema

E’ specifica “Quando...”

Propone vie d’uscita per il futuro

Ha intenti formativi, offre sostegno e possibilità

Affrontare le critiche:

Oltre a saper esprimere costruttivamente le critiche rivolte agli altri è necessario anche saper affrontare altrettanto costruttivamente quelle che gli altri possono rivolgerci, senza sentirsi offesi o feriti nell’orgoglio, ma valutando con altrettanta consapevolezza. Per prima cosa fare chiarezza o meglio chiedere a chi ci critica di essere più preciso “In cosa

esattamente ho sbagliato” “In che modo questo mio comportamento ti ha ferito” ecc. Se si ritiene ingiusta la critica è necessario spiegare e difendere le proprie ragioni in modo altrettanto assertivo: “Penso che tu abbia diritto di vedere le cose a modo tuo. Io comunque, non condividuo il tuo punto di vista”; Se la critica ci appare fondata è opportuno ammetere il proprio errore: “evidentemente non ho valutato bene la situazione” ed eventualmente chiedere scusa. Si può anche chiedere all’altro come affronterebbe la questione “tu cosa faresti al mio posto?”. Infine può essere utile superare il proprio orgoglio ferito e chiedere aiuto all’altro “Desidero risolvere questa situazione con il tuo aiuto” oppure “Capisco la tua insoddisfazione, che è anche la mia, e desidero discutere con te il modo di arrivare a migliori risultati”.

Affrontare la reazione dell’altro:

Pur utilizzando l’assertività è possibile che, nonostante i nostri sforzi, l’altro reagisca alla critica. In tal caso, sarà opportuno utilizzare l’ascolto attivo e la riformulazione per non entrare in una dinamica di escalation. E’ opportuno sempre ricordare che la regola base della comunicazione è prima di farti capire cerca di capire per cui per essere ascoltati è opportuno mettere l’altro nella condizione di poterlo fare. Se l’altro è nello stato di rabbia non ho possibilità di farmi capire con lui finchè, attraverso l’ascolto, la rabbia non sarà diminuita. Solo chi ascolta potrà essere ascoltato e capito. Trasforamando in diagramma quanto affermato: Disagio dell’altro Capire l’altro

Capire l’altro Capire l’altro

Farsi capire Farsi capire catarsi

Farsi capire

Esempio:

Mi faccio capire Reazione dell’altro

“Quando ti parlo e tu non mi guardi, ti alzi e fai le tue cose, mi viene da pensare che non ti interessa quello che dico e mi sento non considerato” (Io) “Ma no dai, non farla lunga, ti sto ascoltando...” (L’altro)

Capisco l’altro ...Che si sente capito Capisco l’altro ...Che si sente capito Mi faccio capire Ho il consenso Riprendo

“quindi anche se fai altro non ti distrai, giusto?” (io) “Si, ti ascolto e intanto riesco anche a fare qualche piccolo lavoro” (altro) “Non vuoi perdere tempo?” (io) “Appunto” (altro) “Quando fai così io poi osservo te e perdo il filo del discorso” (io) “va bene, va bene” (altro) “Ok, stavamo dicendo...” (Io)

Apprezzare gli altri ed accettare i loro apprezzamenti:

La nostra cultura è molto più attenta a ciò che va male piuttosto che a ciò che procede correttamente, pronta a sottolineare ogni errore, ma non altrettanto a riconoscere i meriti. Fin da piccoli la società ci abitua a dare e ricevere più critiche che apprezzamenti: ciò che è bello e lodevole spesso si dà per scontato. Non è un caso che la stessa parola critica sia diventata un sinonimo di “visione negativa”, mentre dovrebbe semplicemente signifcare “commentare”. E’ molto facile sembrare intelligenti semplicemente attaccando, polemizzando, evidenziando i difetti. Chiunque è bravo a trovare il pelo nell’uovo, perché nessuno è perfetto: anche il più bel quadro di Raffaello, nel più bel concerto di Mozart, nel più bel romanzo di Flaubert, si possono trovare uno o più imperfezioni. Anzi spesso l’opera d’arte è grande per le sue imperfezioni. Criticare è considerato qualcosa di molto importante nella nostra società, imperniata sulla stigmatizzazione dell’errore e del peccato; eppure la moderna psicologia ha dimostrato che le persone imparano meglio se vengono riforzati e premiati i loro comportamenti positivi, piuttosto che rimarcati quelli negativi. Su questa strada spesso la diversità si trasforma in un problema piuttosto che in una risorsa. Non siamo più abituati a scoprire il bello che c’é negli altri ed in ciò che ci circonda, abbiamo perso la curiosità nei confronti di quanto non conosciamo ed il senso di mistero della vita. E’ necessario procedere ad una inversione di tendenza, si può iniziare con il scorgere le meraviglie che ci circondano e spesso vengono date per scontate: il cielo, il sole, lo sguardo di un bimbo e restare in contatto con queste cose della vita, dentro di noi ed attorno a noi. Si può procedere poi guardando le persone che incontriamo durante la giornata con l’intento di scoprirne le qualità. Possiamo imparare ad esprimere i nostri apprezzamenti verso gli altri ed imparare ad accogliere i loro nei nostri confronti senza vergogna o eccessiva modestia. Il cammino dell’accoglienza di sé e degli altri è lungo, ma forse vale la pena di impegnarsi ed iniziare con il primo passo.

BIBLIOGRAFIA

Baiocchi P.e Toneguzzi D., “La comunicazione affettiva e il contatto umano, Istituti Gestalt Trieste e Gestalt Pordenone, tipografia Adriatica, Trieste, 1999

Bandler R., Grinder J., “La struttura della magia”, Roma, Astrolabio, 1981

Bandler R., Grinder J., “La ristrutturazione”, Roma, Astrolabio, 1983

Bateson G., Mente e natura, Milano, Adelphi, 1984

Cheli E., “Relazioni in armonia”, ed. Franco Angeli, Milano 2005

Cheli E., La comunicazione come antidoto ai conflitti,Cagliari, Punto di fuga ed., 2003

Colombo E. “Socità multiculturali”,ed, Carocci, Roma, 2002.

Covey S.R. “Le sette regole per avere successo”, Franco Angeli, Roma, 2003

Galimberti U., Psiche e teche, l’uomo nell’età della tecnica, Milano, Feltrinelli, 2005

Galtung J., La trasformazione non violenta dei conflitti. Il metodo transcend: andare oltre il conflitto, Torino, Ega, 2000.

Jaspers K., La natura e il valore della scienza, in La mia filosofia, Einaudi, Torino, 1946.

Jung C.G., Gli archetipi e l’inconsico collettivo, Torino, Boringhieri, 1977

Jung C.G., L’uomo e i suoi simboli, Milano, Longanesi, 1980

Melucci A., Il gioco dell’Io, Milano, Feltrinelli, 1991

Naranjo C., Per una Gestalt viva, Roma, Astrolabo, 2007

Quattrini P., Fenomenologia dell’esperienza, Zephyro Edizioni, 2007

Rogers C., La terapia centrata sul cliente, Firenze, Martinelli,1970

Pearls F., Hefferline R.F., Goodman P., Teoria e pratica della terapia della Gestalt., Astrolabio, Roma,1971

Ungaro D., “Capire la società contemporanea”, Carocci, Roma, 2001

Watzlawick P., Pragmatica della comunicazione umana, Roma, Astrolabio, 1976

.