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nticheTecnicheFotografiche FASCINO E RIGORE DEL COLLODIO il collodio umido positivo e negativo GIORGIO BORDIN GuaraldiLAB Guaraldi

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nticheTecnicheFotografiche

Fascino e RigoRe del Collodioil collodio umido positivo e negativo

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le antiche tecniche fotografiche, o per altri le tecniche fotogra-fiche alternative, stanno vivendo un movimento di ripresa che le vede protagoniste di una nuova stagione di fotografia ana-logica; nel tentativo di riappropriarsi di un gusto artigianale nella produzione di immagini fotografiche o di espandere le potenzialità comunicative con una tavolozza di possibilità più estesa e differente dalla stampa in gelatina argentica. Alcune tecniche hanno lo scopo di realizzare negativi o positivi in camera, altri di stampare questi stessi negativi, ma anche negativi tradizionali e digitali. il percorso che consente di arri-vare alla produzione di una fotografia tecnicamente ineccepi-bile è lungo e laborioso, sfida contemporaneamente le cono-scenze, le abilità e le competenze, dando però risultati spesso entusiasmanti. i volumi della collana Antiche tecniche fotografiche offrono la pos-sibilità di raccogliere elementi conoscitivi avanzati per affron-tare i processi trattati, partendo da fondamenti documentati in una solida bibliografia, ma sempre verificati nella pratica concreta dell’autore; cercano di far ordine in un’informazione entropica quale quella di internet, in cui la quantità delle in-formazioni diventa inversamente proporzionale alla profondità delle conoscenze. destinata ad un pubblico italiano in un mon-do ormai anglofono, la scelta della lingua consente infine un approccio più rilassato ad una materia tanto complessa.

Giorgio Bordin, classe 1958, è medico a Parma, dove risiede. la contemporanea passione per l’arte e per la medicina ha se-gnato il fil rouge di tutta la sua esperienza, in cui l’arte medica coesiste con la pittura, il disegno, l’incisione e la fotografia. Negli ultimi anni si è avvicinato alle tecniche fotografiche “an-tiche”. in campo fotografico, oltre alla stampa argentica tradi-zionale, realizza positivi diretti o stampe da negativi analogici di grande formato nel campo della Calotipia, Collodio umido (positivo e negativo), Carta salata, Aristotipia, Stampa all’Al-bumina, Platinotipia, Cianotipia, Kallitipia, stampa vandyke, fotografia stenopeica.

GuaraldiLAB49,90 ¤

ISBN 978-88-6927-214-1in copertina Chiara. Ambrotipo su vetro chiaro, 20x25 cm. Petzval Hermagis Portrait lens (1855 circa). luci artificiali. f3.6, 7 secondi di esposizione. Collodio New Guy. Sviluppo standard in Solfato ferroso, fissaggio in KCN, verniciatura in Sandracca.

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Giorgio Bordin

Antiche Tecniche Fotografiche

Fascino e rigoredel Collodio

il collodio umido positivo e negativo

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Tre Premesse e una nota editoriale 9

Prefazione: Le istruzioni per l’uso 11

L’artigiano che è in noi 15Chi sono io 18Tecnica e tecnologia, Arte e artigianato 19

Arte e artigianato 20

Piccola storia della fotografia 27La natura della fotografia 29Una finestra sul mondo 32Dipingere con la luce. I pionieri 37Come salvare tempo e soldi 40Lastre asciutte e gelatina 41Alogeni e sviluppatori 43Opzioni di stampa: heavy metals... 45... e chi gioca duro 48Fotografia: arte o scienza? 51Il XX secolo e il modernismo 53Il vecchio che entra nel nuovo 58Il secolo immaginifico 62

Equipaggiamento 65Equipaggiamento strumentale 67

Il laboratorio 67Ventilazione e luci 67Dispositivi di protezione individuali (DPI) 67Vetreria 68Bottiglie 68Densimetro - Hydrometer 69Temporizzatore - Timer 69Pennelli antistatici o bombolette ad aria compressa 69

Bilancia - Scale 69Vasca verticale per immersione – Dip Tank 70Rastrelliera – Rack 70Vaschette – Trays 70Lampada a spirito (ad alcool) – Spirit lamp 71

Equipaggiamento fotografico 71Fotocamera 71Lenti (Obiettivi) - Lenses 73Cavalletto - Tripod 73Reggitesta – Head brace 73Chassis o Plate holder 73La camera oscura - Darkroom 74Luci artificiali 77

Lenti antiche per uso moderno 79Il mestiere delle lenti 81

Aberrazioni e definizione 84Somma di Petzval 85Astigmatismo e curvatura di campo 86Asfericità e multicoating 87

Attributi e criteri di valutazione delle lenti 87Lunghezza Focale 87Apertura 88Grandangolo o teleobiettivo 89Cono di copertura – Angolo di copertura 90

Lentamente verso l’obiettivo 91Rassegna storica 911840 – 1866 911866 – 1890 941890 – 1914 951914 –1940 96Dopo il 1945 97

Lenti rapide per grande formato 97Le lenti Petzval: apologia di una grande lente 97Kodak AeroEktar 106

Sommario

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Chimici, nozioni base e profili di sicurezza 111Informazioni sui prodotti chimici 113Come fare a… 120

Misurare 120Pesare i solidi 120Misurare i liquidi 121

Calcolare le concentrazioni 121Trasformare le concentrazioni 126Smacchiare l’argento nitrato. 126

Ammoniaca e Acqua ossigenata 126Permanganato, bisolfito, tiosolfato 127Iodio e Tiosolfato (Iposolfito) 128

Pulire le vaschette 128Smaltire il Dicromato di Potassio 129Smaltire il Cianuro di Potassio 130

Collodio positivo 133Quarant’anni insostituibili. 135Positivi e negativi: caratteristiche comuni e differenze principali 137

Il processo in breve 137Come funziona 137Terminologia 139Il lato positivo di un negativo 141Esposizione e sviluppo per ambrotipi e negativi 143

La lastra ‒ il substrato 144Mica 145Vetro 145Plexiglas 145Metallo 145Opalina 146Vetro nero 146

Sensibilità e misura esposimetrica del collodio 146Determinazione dell’esposizione corretta 151Emozione o introspezione: il ritratto profondo 152

Fattori chimico-fisici del processo 154Collodio 154Alcool ed etere 154Alogeni 155Acqua 156Nitrato d’Argento 156Umidità relativa e calore 157

Preparare la chimica: Criteri generali 157Cose da sapere, regole che valgono per tutte le ricette 158

Formule di collodio fotografico 159Formule testate e di comune impiego oggi 159

Old Workhorse (il vecchio cavallo da tiro) 159Scully & Osterman Basic Collodion Formula 160“Poe Boy” 160Quinn’s New Guy o quick collodion 161

Altre formule 162Carey Lea’s Landscape Collodion Formula #7 163

Maturazione 164Conservazione 164

Bagno al Nitrato d’argento 165Preparare il bagno d’argento 166Leggere la densità 166Testare l’acidità 166Iodizzare il bagno 167Manutenere il bagno 167

Manutenzione ordinaria 169Manutenzione programmata (Sunning) 169Manutenzione straordinaria 169

Lo Sviluppatore 169Formule tradizionali al solfato ferroso 170

Formule tradizionali per positivi 170Formule tradizionali per sviluppo di negativi 171

Formule al Pirogallolo 171Sviluppatore al pirogallolo per negativi 171Intensificatore al pirogallolo per risviluppo 171

Formule allo zucchero per climi caldi 171Sviluppatore allo zucchero per climi caldi 171

Additivi allo sviluppatore 172Fissaggio 172

Tiosolfato di Sodio 173Tiosolfato d’Ammonio 173KCN (Cianuro di Potassio) 173

Vernice di finitura 174Vernice Sandracca 174Vernici sintetiche acriliche 175

Wet plate collodion. Il processo passo a passo 1771 - Il vetro 179

Tagliare il vetro 179Sgrassare il vetro 179Albuminizzazione dei bordi 180

2-Stesa del collodio (Flowing the plate) 181Metodi per reggere la lastra (holding the plate) 181Stesa del collodio (Flowing the plate) 182

3 - Sensibilizzazione (Sensitizing) 1844 - Caricare lo chassis (Loading the film holder) 1845 - Esposizione (Exposure) 1856 - Sviluppo (Development) 185

Come versare lo sviluppatore (flowing the developer) 185Fasi dello sviluppo 187Alcune considerazioni e raccomandazioni. 187

7 - Fissaggio (Fixing the plate) 1888 - Lavaggio della lastra (Washing the plate) 1889- Asciugatura della lastra (Drying the plate) 18810 - Verniciatura (Varnishing) 18911 - Verniciatura nera del vetro trasparente 191Brindisi 192Risolvere i problemi (Troubleshooting) 193

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Problemi comuni legati al processo 193Lastre chiare con poco contrasto e toni deboli 193Lastre scure con molto contrasto e neri vuoti 194Velatura – Fogging e Silver staining 194

Difetti dell’immagine 196Comete 196Oyster stains (macchie a guscio d’ostrica) 197Striature (Streaks) e Lustrini (Spangles) 198Creste - Ondine (Ridges) 199Cristalli di tiosolfato 199Crepe, rotture 199Macchie blu di prussia o “Blu di Berlino” 200Il collodio si scioglie verniciandolo 200Il collodio si appanna verniciando 200Buchi 200Non è venuto nulla eppure era tutto a posto 200

P.S. Come recuperare vetri già usati 200

Negativi al collodio 203La questione della densità in fotografia 205Il collodio negativo: una marcia in più? 207La chimica specifica del processo 207

Collodio per negativi (New Guy) 208Sviluppatori per negativi 208

(tradizionale: ferro solfato) 208Sviluppatore in Pirogallolo 208

L’intensificazione del negativo 209intensificazione allo Iodio 209

Dinamica del processo 2091) lo stadio di deposito 2092) lo stadio di intensificazione 212

Fasi del processo 216Alla Luce 216In luce di sicurezza 216

Intensificazione al Rame 218Ritoccare i negativi? 219

Altre cose da fare con il collodio 221Riproduzione su collodio di immagini 223

Riproduzione di Immagini positive 223per proiezione... 223... o da negativi digitali, a contatto o per proiezione 224

Riproduzione a contatto, duplicazione 226Immagini stereoscopiche 226Trasporto di positivi al collodio su altri substrati 226

Metodo Eastman Kodak 227Metodo Towler 228

Colorare il collodio 229Alabastrine al collodio 231Ambrotipi blu 232

Il processo in breve 232

Come è accaduto: errori e sogni. 232Dall’errore al meccanismo 233Come funziona. Basi chimiche del processo 236Cosa serve 239Metodo 239

Collodio a secco (Dry collodion process) 240Considerazioni 240Metodo al tannino 241

Uno sguardo d’insieme 241Ricette 242

Gelatina 242Soluzione conservante al tannino 243Sviluppo acido 243Sviluppo alcalino 244Il processo passo a passo 246Variante al caffè 250

Appendici 253Appendice 1: Risorse 255

Materiali 255Carta e acetato 256Attrezzatura varia e fotocamere artigianali 256Materiali tradizionali e non per fotografia analogica 257Know how: Collodio 257

Appendice 2: Tabelle di Conversioni 259Unità di misura 259Sostituzioni di chimici 260

Alcali 260Altre sostituzioni 260Sodio Carbonato 260

Appendice 3 Parametri chimico fisici 261Concentrazione dell’Argento Nitrato. 261

Appendice 4: Formati di lastre 262

Postfazione 264

Indice 265Guarald

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Tre Premesse e una nota editorialePrima

Viviamo in un mondo globalizzato e anglofono. Chi si diletta in cose strane è ormai abituato a reperirle in Internet. Eppure mi accorgo che per molti c’è ancora il bisogno (o il piacere) di avere in mano la carta stampata e per molti Italiani c’è anche il piacere (o il bisogno) che sia scritto in Italiano. Per questo ho iniziato a scrivere questi libri pensandoli proprio in risposta a queste esigenze.

Data però la necessità per tutti di continuare a consultare informazioni che spesso sono in inglese, ho creduto utile indicare anche i termini tecnici anglosassoni a fianco a quelli italiani. Sono certo che per qualcuno vale anche il problema contrario: scoprire come si dice in italiano ciò che le risorse della rete hanno oramai reso familiare in inglese. Sizing, fog, restrainers, film holders o dark slides, view cameras, per non parlare dei nomi dei chimici, di cui spesso può essere difficile tradurre le desinenze e i prefissi dei composti più semplici, i nomi dei quali abbondano nei blog e nelle risorse più disparate sulla rete.

SecondaLa seconda preoccupazione è stata quella di cercare di mettere assieme le cose più utili che ho trovato e spe-

rimentato nella mia esperienza e lettura di testi e trattati, antichi o moderni, esperienza dunque fatta di pratica ma anche di molta teoria, senza la quale la pratica da sola non serve. I proverbi sono la saggezza dei popoli ma qualcuno non brilla per sagacia: “val più la pratica della grammatica” è uno di questi. Vero è che la grammatica senza la pratica vive dentro un vuoto pneumatico nel quale tutto sembra avere la stessa importanza, e cessa di essere al servizio dell’impatto con la realtà concreta, risultando alla fine inutile. Ma è altrettanto vero che la pratica senza la grammatica è destinata a rimanere quella dei “praticoni”, destinati ad arenarsi di fronte a un fallimento di cui non si capiscono le ragioni, per mancanza di conoscenza dei meccanismi intimi attraverso cui il processo si svolge. Quindi ho cercato di dar rilievo a tutti gli elementi utili per comprendere queste tecniche e governarne la maggior parte delle variabili fisico-chimiche in campo; mancando di una industrializzazione del processo lasciano infatti all’artigiano il compito gravoso ma affascinante di conoscere ed esperire (per poter controllare) tutte le dimensioni sottese da questi processi.

Terza premessa e nota editorialeLe tecniche cosiddette antiche sono davvero molte. Io mi limito a trattare quelle che conosco, e di queste

parlo solo di cose da me testate e divenute pratica consolidata. Ci sono sicuramente altre vie o altri metodi per fare le stesse cose o altre varianti, di cui talvolta si fa esplicitamente cenno per dovere di completezza. Quelle su cui ci soffermiamo stanno dando buoni risultati in mano mia. E siccome sono un pasticcione, se funzionano per me, vuol dire che andranno bene anche per voi.

Poiché però le tecniche di cui si tratterà in quest’opera sono parecchie e non è detto che ognuno desideri praticarle tutte, è stato scelto di raccoglierle in volumi separati per renderne più agevole la pubblicazione e l’u-tilizzo. Approfitto così per ringraziare Mario Guaraldi, per avermi incentivato su questa strada, editorialmente

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Fascino e rigore del collodio

rischiosa e di difficile popolarità, essendo dedicata ad un pubblico di alto profilo ma numericamente molto ristretto.

Un’opera suddivisa in più volumi vendibili separatamente crea alcuni problemi per la collocazione delle in-formazioni di interesse trasversale ai diversi argomenti. Alcune parti rivestono un significato generale e altre sono più specifiche. Parliamo principalmente di elementi di storia della fotografia, nozioni inerenti all’equi-paggiamento strumentale e fotografico (camera e lenti) o alle problematiche legate alla produzione di negativi analogici e digitali. Saranno inseriti là dove hanno maggior coerenza con il contenuto specifico del volume: i rimandi sono lasciati al testo.

L’unico capitolo ripetuto ogni volta riguarderà i chimici impiegati, le loro caratteristiche e soprattutto i profili di sicurezza: questa cosa ha le sue ragioni. Accostarsi alle tecniche antiche fotografiche mantenendo il gusto di quell’artigianato di cui parlavamo poc’anzi significa anche gestire prodotti chimici di diversa tossicità e perico-losità. Nessuno è obbligato a farlo, ma per chi lo vuol fare (e forse chi legge è tra questi) sappia che una prima preoccupazione è la sicurezza, che viene prima di quella del risultato. Sicurezza per sé, per gli altri (soprattutto se avete una famiglia…), per le cose e per l’ambiente. La responsabilità è di ciascuno, perché i danni possono essere di tutti. Si tratta di capitoli aridi che quasi nessuno legge, ma questo non mi esime dal metterli a dispo-sizione di chiunque.

A chi abbia deciso di usare risorse proprie per acquistare un libro scritto da me non posso che essere in debito di riconoscenza e vincolato da una specie di certificato di garanzia a tutela della solidità del patrimonio intel-lettuale acquistato in cambio di moneta contante. Non esitate a utilizzare la mia posta elettronica per qualsiasi chiarimento o richiesta (a parte quella di riavere indietro i soldi).

Giorgio [email protected]

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Le istruzioni per l’uso

Come può essere fatto un libro sulla fotografia al collodio? A cosa e a chi può servire un volume così circo-stanziato su tecniche abbandonate dai fotografi da quasi un secolo?

Sono sicuramente domande oziose: chi ora legge queste righe il libro se lo è già procurato e quindi sa benis-simo le risposte, molto più di chi le sta scrivendo.

Sicuramente la curiosità, probabilmente il fatto che non esiste in lingua italiana un trattato sistematico e ag-giornato che riunisca la quantità di informazioni disperse in ricettari, riviste d’epoca, volumi a carattere storico o monografico, una bibliografia insomma estremamente polverizzata.

Esiste ed è reperibile con qualche difficoltà il vecchio volume di William Crawford, L’età del collodio, la cui traduzione italiana del 1981 (presso Cesco Ciapanna) recava un sottotitolo, in apparenza un po’ gaglioffo: Come si falsificano le fotografie antiche. È un’indicazione interessante per molti versi. Quella più ovvia è nel fatto che, nel 1981 – incidentalmente è il periodo in cui Giorgio Bordin, studente di medicina, si avvicina alla fotografia – il tema del recupero di tecniche desuete era principalmente orientato alla ricostituzione di un’aura storica, ad una attribuzione di valore tutta rivolta al passato. Altri motivi di interesse sono poi nel tema della falsificazione: procedimento caro alle avanguardie post-dada, ma anche storicismo che vediamo in quegli anni dilagare nella frastagliata galassia del Postmodern e dei suoi epigoni. Infine, è da pochi anni pubblicato il Trattato di semiotica generale di Umberto Eco nelle cui pagine iniziali, dove viene delimitato il campo della semiotica, della lingui-stica e dei suoi segni, si afferma che caratteristica precipua del segno linguistico è, certo, quella di comunicare, ma, a questa inestricabilmente legata, soprattutto quella di poter mentire. Quindi la tecnica, il suo uso in fo-tografia – ritenuta semplice impronta della realtà – ha lo statuto di tratto linguistico, di elemento da articolare per produrre senso. Quel bricolage un po’ maniacale ed impreciso implicava la capacità di produrre senso in un determinato contesto.

Allora, il cosiddetto manuale, il trattato che deve essere oggettivo, chiaro, fuori da ogni ambiguità, asserti-vo, che mette il lettore in condizione di replicare una sapienza trasmessa senza interferenze di soggetti-

vità varie, si troverebbe al grado zero di questa articolazione linguistica delle analogie, una sorta di abbecedario delle immagini, anzi, di un ambito ben circoscritto di quella classe di immagini che chiamiamo fotografie.

E qui iniziano i possibili equivoci, fecondi e produttivi, ma pur sempre equivoci.La fotografia al collodio era praticata nel 1981, è praticata oggi, da una specie di setta; è un’applicazione

orgogliosamente minoritaria, ma quella fotografia è quella che nella seconda metà dell’Ottocento determina la possibilità da parte dei fotografi di essere editori, di riprodurre e replicare indefinitamente la figura di uno stato del mondo, fa entrare in modo originale quell’immagine – automatica – nel regno della grafica, delle arti grafiche, poi della tipografia. Ogni immagine fotografica presente, ogni istanza documentaria, segnaletica, di narrazione realistica e moltiplicata, il più banale dei selfie, recano in profondità tracce visibili della loro base storica in quel procedimento; saperne la distanza, il tempo differente di una fotografia che implica la prepara-zione passo passo di tutti i suoi materiali da quello di una prodotta apparentemente dalla pressione di un dito, conferisce profondità a entrambe le esperienze di realizzazione di una figura del mondo.

L’altro equivoco possibile è quello della oggettività, della neutralità del libro di argomento tecnico. Questo di Giorgio Bordin, è infatti un trattato nitidamente tendenzioso. Lo vediamo non solo nelle sue dissertazioni sul rapporto tra tecnica e tecnologia, tra arte e fotografia. Lo vediamo nella parte storica, che circoscrive le modalità di produzione delle fotografie – e delle immagini ottico/fisiche prima di chiamarsi fotografie – entro l’orizzonte dell’estetica. Bordin, correttamente, non si limita alla rendicontazione dei materiali dell’ottica, della chimica, delle attrezzature necessarie e del relativo buon uso: intende dare a tutto questo un contesto, fornire

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Fascino e rigore del collodio

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coordinate delle antecedenze e degli sviluppi oltre alla abbondante – e prima difficilmente individuabile – bi-bliografia. Racconta la storia, ma lo fa proprio come uno Storyteller, ed è bene rendersi conto delle preferenze, delle passioni, dell’attenzione accorata, per esempio, al dibattito sul pittorialismo, ai rivolgimenti traumatici di considerazione estetica tra Emerson e Robinson. Insomma, come in fondo accade sempre, la profondità della ricerca e l’arricchimento dell’informazione trasmessa non rende necessariamente trasparente l’argomentazione, anzi, in questo caso ne fa una narrazione decisamente autoriale, orientata. Compito di un manuale non è quello di chiudere un discorso tra teoria e prassi, anche se a questo scopo il lavoro di Bordin1 assolve più che esaurien-temente, ma riaprire potenzialità tra fare e pensare, aprire su nuove possibilità.

Paolo BarbaroAgosto 2015

1 Il cognome del nostro autore è curiosamente simile a quello del sociologo tradotto più di quarant’anni fa dallo stesso editore, su argomento parallelo, di intenzioni ed esiti quasi speculari, da rileggere: Pierre Bourdieu, La fotografia. Usi e funzioni sociali di un’arte media, Guaraldi, Rimini 1972-2004.

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2 - Piccola storia della fotografia

Tecnologia. Ferrotipo su alluminio anodizzato. Fatif view camera. 20X25. Rodenstock Sironar 1:6,8/360mm (6 836 747). Ott: Compur 3. EV100 14 f/11 4 sec, 21 giugno 10:30 a.m. Parma. New guy. Sviluppo in solfato ferroso standard. Fissato in KCN. La tecnica è degli anni ’60 di due secoli fa, la tenda alle nostre spalle è una tenda da pesca su ghiaccio in Mylar™ costruita da una ditta canadese e si apre con tecnologia pop-up. In mano ho un “remote controller” per scattare, che consiste in un filo di 15 metri con pompetta a bulbo costruito nella prima metà del XX secolo, ma acquistato su eBay con tecnologia e-commerce, disponibile da non più di dieci anni. Le due camere sono una SinarP degli anni ’80 e una whole plate Wageeswari dell’inizio del secolo. Mentre scattavamo, siamo stati però anche ripresi da una telecamera GoPro hero3 che elabora file digitali Full HD ed è più piccola di un pacchetto di sigarette, che nessun o di noi fuma, e riprende senza distorsioni apprezzabile in un angolo di 170° (ma è già uscita la 4). I ragazzi sono nati meno di trent’anni fa e non hanno mai visto un rullino. La scansione della lastra, di alluminio anodizzato prodotto industrialmente dal 1923, è stata realizzata con un Epson V750Pro, ma il suo software è alla versione di release 8.0 per renderlo compatibile con l’ultima versione del sistema operativo del mio MacBookPro, che comincia ad essere davvero vecchio, dato che ha ben 5 anni. Tecniche antiche?

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CAPITOLO 3

EquipaggiamentoIt is an old remark, that all arts and sciences have a mutual dependence upon each other (…)Thus men, very different in genius and pursuits, become mutually subservient to each other;

and a very useful kind of commerce is established by whichthe old arts are improved and new ones daily invented

William BrownriggGuarald

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Un discorso a parte merita un aggeggio che è chiamato “helper tray” (fig. 3.7). È un vassoio a bordi bassi, di larghezza su misura per accogliere la lastra (quindi uno per ogni dimensione) e un buco in centro. Ha lo scopo di contenere lo sviluppatore evitando che debordi dai lati. A me non è mai capitato di utilizzarlo. C’è chi l’ha visto comodo per i principianti, un po’ come le ruotine laterali delle biciclette dei bambini o per lastre grandi. Altri dicono che anche con l’esperienza maturata può tornare utile soprattutto in esterni, quando si lavora in tende o camere oscure portatili con poco spazio per non sbrodare dappertutto. Ne parla addirittura Frederich Scott Archer nella sua prima presentazione del metodo al collodio, pubblicato in “The Chemist”“I have found it convenient to have a trough made of gutta percha11, the two sides and bottom of which are about 1/8 inch high and just large enough to hold the glass plate. With this trough, the mixed solution can be poured rapidly over the plate, without fear of any being thrown over the edges”. Comunque, c’è chi le vende, come Niles Lund (vedi Risorse).

Lampada a spirito (ad alcool) – Spirit lampPer la verniciatura di rito (fig 3.10). È un’altra cosa difficilissima da trovare: trent’anni fa era nel negozietto

sotto casa che teneva casalinghi, ma oggi… Altrimenti su eBay. Comunque si possono usare anche fornelli da campeggio, becchi bunsen, riscaldatori catalitici… La lampada a spirito è semplice e ha il suo fascino. A parte un asciugacapelli, tutti questi prodotti sono pericolosi perché si usano con materiali infiammabili. Non sarebbe male tenersi a portata di mano un piccolo estintore. Non si sa mai.

Equipaggiamento fotografico

FotocameraQualsiasi macchina vi procuriate deve po-

ter alloggiare lastre. Non servono però neces-sariamente macchine di grande formato. La definizione del collodio è tale che si possono realizzare lastrine molto piccole e fare ritratti bellissimi. Una volta del resto si faceva così. Per cui potete procurarvi macchine di medio formato che abbiano dorsi porta lastra o stu-diare il sistema di ricavarli.

Per esempio si può adattare una scatola vuota di fuji instant e alloggiarla in dorsi polaroid con cui comporre l’immagine (ne vedete un risultato a pagina 72). La scatola si può ricomporre e diventa uno chassis ben fun-zionante, su cui occorre prenderci la mano. Qualcuno li adatta ma io mi trovo bene ad usarli così come sono. Conviene tenerne da parte un po’ man mano che si utilizzano perché non sono molto robusti. Non esiste un volais per cui occorre mettere la lastra nello chassis e caricarlo in macchina mentre si è in camera oscura. La-sciano una cornice nera ai bordi che può essere piacevole.

11 La Guttaperca è una materia plastica naturale (politerpene), simile al caucciù (gomma naturale, india rubber, gomma indiana) ma con alcune differenze, che fu in voga nell’800 per essere sostituita dalla plastica nel XX secolo.

3 - Equipaggiamento

Fig. 3.8

Fig. 3.9 Rollei Plate adaptor. Consente di sostituire il dorso delle Roleiflex o rolleicord biottiche ed è dotata di bellissimi chassis. Permette di focalizzare sul vetro smerigliato, ma anche di utilizzare il pozzetto per la messa a fuoco. La Rolleiflex 2.8 ha una luminosità notevole di cui il collodio può beneficiare.

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Anche la Rolleiflex biottica monta un accessorio bellis-simo che va sia sulla R. 2,8 che sulla Rolleicord, reperibile senza troppa difficoltà in eBay, che si sostituisce al dorso per pellicola e ha degli chassis deliziosi per lastre 6x9. Lo spessore di alloggiamento dello chassis non consente di utilizzare vetri di due millimetri o più ma va bene per la-strine di alluminio (3.9). Lo scatto è sempre limitato ad una finestra 6x6, incorniciata e decentrata come in una po-laroid, elegante e accattivante (3.10). Potrebbe essere utile procurarsi le lenti addizionali per macrofotografia (Rollei-nar ™) per ridurre la messa a fuoco minima. Ce ne sono

tre, che consentono un fuoco sempre più ravvicinato, ma anche un campo di messa a fuoco sempre più ristretto. Il numero 2 è quello adeguato per ritratti, il 3 è un obiettivo davvero macro. Si può continuare a traguardare attraverso il pozzetto mentre c’è lo chassis inserito. Bisogna bloccare la lente in apertura, coprirla con il tappo e rimuoverlo manualmente per il tempo di esposizione .

Di certo tutte le macchine a lastra sono adeguate, macchine a banco ottico supersized sono tornate in voga e ci sono costruttori che ve le possono costruire su misura.

I formati “standard” mo-derni sono il 4x5” (10x12cm), 5x7” (13x18cm) e 8x10” (20x25 cm). Si trovano mac-chine d’epoca anche in 10x12” (25x30, per la precisione: 25,4x30,48cm). Sempre tra le macchine antiche si ritro-vano misure ormai non più standard (vedi appendice 4), come le whole plate (6.5”x8.5” = 16,51x21,59) che sono un giusto compromesso tra por-tabilità e formato.

Fig. 3.10 Il pinocchio di Collodio. ferrotipo su alluminio scattato con Rolleiflex 2,8, adattatore per lastre, immagine 5,2 x 5,2 cm in lastra di 59 X 82 mm, (New Guy, sviluppo e fissaggio standard, verniciato) f/5,6 30 sec.

Fig. 3.11 PierAngela legge De Wohl. Ambrotipo su vetro nero 10x12 cm, scattato con Polaroid Pathfinder land camera 110A. Rodenstock-Xarex 1:4,7 f/127 mm. Il più bell’obiettivo di tutte le macchine Polaroid, purtroppo con un fuoco minimo molto lonta-no. Lo scatto è stato fatto in fine agosto, alle 16:00, con EV100 12 misurato nella regioni con luce e 11 nel fogliame. 4 secondi a f/4,7, sviluppo in solfato ferroso in 20 secondi con un po’ di fogging: sarebbe stato meglio dare 5-6 secondi di esposizione.

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Lenti (Obiettivi) - LensesSulla fotocamera naturalmente ci va una lente. La lente è la vera anima della fotografia. È la cosa più impor-

tante. Le camere a banco ottico hanno sulla standarta anteriore alloggiamenti per piastre porta lenti, su cui si può attaccare di tutto, purché compatibile con il formato e con gli scopi che ci prefiggiamo. Obiettivi moderni hanno sistemi di ancoraggio alla piastra con anelli che si avvitano: serve solo un buco della dimensione adatta per quella lente12. Lenti antiche, in ottone, hanno flange con dei fori per viti: basta adattare la piastra. Purché la flangia ci sia: molte lenti ne sono sprovviste. Ragionate bene se acquistare una lente senza flangia, a meno che sappiate con certezza chi ve la può tornire con il passo giusto. Altrimenti va a finire che la flangia vi costa più della lente.

Questo detto, scegliere una lente richiede delle competenze per potersi orientare. Il tema è talmente vasto e importante e al tempo stesso estraneo al background comune di fotografi orientati a camere moderne, che val la pena di dedicarvi un capitolo apposta, a cui rimandiamo (capitolo 4).

Cavalletto - TripodLa scelta del cavalletto non è indifferente. La robustezza del cavalletto segue il peso della camera, con tutte

le conseguenze che ne derivano. Le macchine grandi necessitano non solo di cavalletti che reggano il loro peso, ma anche sufficientemente rigidi da limitare le vibrazioni e le oscillazioni, rese possibili dal fatto che tutto il sistema è più elastico di quanto non sembri. Al tempo stesso occorre ridurre il peso dell’attrezzatura. Ci sono cavalletti in legno moderni o d’epoca leggeri e versatili o moderni in leghe leggere e robuste.

Reggitesta – Head braceUn ritratto in studio al collodio, anche con una buona luce, significa qualche secondo di

posa. La testa deve appoggiarsi a qualcosa. È difficile trovare pezzi d’epoca, che sono interessanti e belli. Potete costruirvelo o farvelo costruire.

Io ho trovato semplice e comodo questo schema (3.12) che un fabbro vi può fare con semplicità, montandolo su una asta da microfono. A sua volta da infilare in un piede che abbia un peso adeguato.

Chassis o Plate holderIl vantaggio di reperire macchine d’epoca è la disponibilità po-

tenziale di chassis specificatamente pensati per lastre, di cui una tipologia è mostrata in figura 3.13.

Altrimenti vanno adattati i comuni chassis “fidelity” con la modifica conosciuta come modifica di Scully e Osterman (fig. 3.14), le cui fasi si possono vedere su youtube in un tutorial di Alex Timmermans digitando: “How to modi-fy a normal 8x10” filmholder into a wet plate holder” o andando all’indirizzo qui riportato13. Non lo descrivo

12 Le dimensioni standard dei fori delle piastre portaobiettivi seguono nomenclature diverse le più frequenti sono Copal e Compur ma ve ne sono altre. Vedi: http://www.largeformatphotography.info/lensboard_hole_sizes.html

13 https://www.youtube.com/watch?v=Vlb7DRoSSVI

3 - Equipaggiamento

Fig. 3.12

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perché vederlo vale più di molte parole. La mo-

difica non è difficile, ma non tutti sono attrezzati

per farlo e occorre un mini-mo di abilità manuale. Il mio

amico Niles Lund, a cui ho or-dinato tempo fa una tank verti-

cale di sviluppo, mi ha modificato per pochi dollari tre chassis, uno per

formato, che gli ho spedito e ho ricevuto insieme al materiale ordinato. Ci sono due rac-

comandazioni, per chi volesse farlo da solo: la prima è di usare chassis fidelity, perché hanno un divisorio in ac-

ciaio che è inerte chimicamente. La seconda che è raccomanda-to l’uso di un filo di argento: già questo fa scappare la voglia di farselo.

La soluzione può essere quella di incollare quattro tirangolini di materiale ottenuto dallo scarto centrale, sotto il lato in cui si alloggia la lastra.

Stanno comunque crescendo produttori di equipaggiamento fotografico che producono non solo mac-chine, ma anche chassis per vetro adatti ai formati standard, quelli che per intenderci montano “fidelity”. Ce ne sono anche vicino a noi, in Italia, e li trovate nei suppliers, in appendice, come Samuele Piccoli o Alessandro Gibellini: produzioni artigianali, già abbastanza robuste e affidabili, ma soprattutto ragazzi giovani che si stanno infilando in un mon-do in crescita e costruiranno cose sempre più in-teressanti con il passare del tempo.

La camera oscura - DarkroomAlcune fasi di lavoro vanno effettuate in locali

protetti dalla luce attinica e dunque l’allestimento di una camera oscura.

Il locale ideale dovrebbe essere ben ventilato (even-tualmente con un ventilatore ad aspirazione), schermato dalla luce esterna e illuminato da luci a incandescenza e da luci di sicurezza.

Molti processi tra cui la carta salata e albuminata, o l’a-ristotipia di cui tratteremo nel secondo volume (ma vale anche per tutte le ferrotipie, per la gomma bicromatata, il carbone…) possono essere realizzati con luce a incande-scenza purché non eccessivamente intensa. Meglio evitare la luce al tungsteno perché è sempre presente una certa emissione nello spettro del blu, ma insomma, non è richie-sto vivere da vampiri: ci si può vedere decisamente bene e

Fig. 3.14 Modifica secondo Scully & Osterman dei co-muni chassis “fidelity”. SI osserva nel dettaglio il filo d’argento che regge la lastra nella finestra tagliata all’in-terno della lamina di separazione tra i due alloggiamen-ti per le pellicole.

Fig. 3.13 Chassis per lastre, di una folding camera in legno 10x12” dei primi decenni del ‘900. Consente di alloggiare due lastre, problema che non si pone per il collodio, ma poteva essere utile per le lastre in gelatina. Il volet è una specie di saracinesca a listelli, che si estrae ma non può essere sfilata.

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man’s faults may be another man’s virtues”: apparve subito che la curvatura di campo poteva essere sfruttata per dar enfasi al soggetto centrale, in particolare nei ritratti. Questo effetto è uno degli effetti ricercati e “trendy” nella nostra epoca postmoderna, che non solo usa vere lenti antiche di Petzval per ricrearne la magia, ma ha riproposto lenti “Petzval” di fabbricazione moderna, da applicare su Canon e Nikon digitali, che – mentre sto scrivendo questo capitolo – sono una delle novità che impazzano sulla rete. Per inciso, lo schema ottico di que-ste lenti non è propriamente il Petzval, anche se gli somiglia alquanto, di sicuro nell’effetto.

Asfericità e multicoatingLe caratteristiche innovative delle lenti moderne nel XX secolo, sono state soprattutto la generazione di

lenti asferiche, possibili solo con l’industrializzazione dei processi produttivi e l’avvento di nuovi materiali. A questo si aggiungono gli strati antiriflesso che minimizzano la perdita di luminosità alle interfacce lente-lente e lente-aria, rilevanti soprattutto all’aumento del numero di lenti (obiettivi a focale variabile o zoom!) e natu-ralmente la possibilità di progettazione assistita da calcolatori, che macinano variabili numeriche ingestibili nei calcoli fatti a mano, potendo così simulare e progettare lenti con esiti altrimenti inarrivabili.

Attributi e criteri di valutazione delle lenti

Lunghezza FocaleLa focale di un obiettivo è un attributo intrinseco dell’obiettivo, ed è pertanto un valore assoluto.

Coincide con la distanza tra il piano focale posteriore di quella lente e il punto di messa a fuoco posteriore di un oggetto posto all’infinito. Detto così sembra complicato, ma non è difficile.

Facendo riferimento alla figura 4.1, che spero chiarisca meglio delle parole, se tenete in mano un obiettivo puntandolo contro oggetti sufficientemente lonta-ni da potersi considerare all’infinito (palazzi, alberi distanti, le montagne come nell’esempio in figura…) e lo muovete contro un pia-no di proiezione (il muro o un cartoncino bianco), troverete un punto in cui la scena è a fuoco. Per po-terlo vedere dovete stare in un luogo più buio della luce proiettata, per esem-pio l’interno di una stanza puntando l’obiettivo verso una finestra aperta.

A questo punto misurate la distanza fra il punto di messa a fuoco e il piano focale posteriore, che in un

Fig. 4.1 Come determinare la lunghezza focale di un obiettivo e la sua apertura. Vedi testo per la descrizione.

4 - Lenti antiche per uso moderno

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parchi di obiettivi per tutte le necessità, ma che hanno deciso di sfruttare questo elemento come una parte del linguaggio comunicativo dell’immagine. Nelle immagini riportate in questo libro ci sono esempi di quanto si è detto.

Lentamente verso l’obiettivoLa prima lente utilizzabile a scopi fotografici data al 1812; dovevano passare almeno 25 anni prima di vederne

un impiego pratico. Abbiamo già commentato come la fotografia nacque indipendentemente dall’esistenza di una fotocamera, ma certo fu determinante per la sua progettazione. Il punto più critico era ovviamente quello delle lenti. Tornare a lenti antiche oggi significa da un lato accollarsi dei limiti tecnici, ma dall’altro espandere il proprio linguaggio visuale e comunicativo. La possibilità di ottenere effetti visuali distintivi è un motivo per procacciarsi una lente particolare. Certo deve fare i conti anche con la disponibilità e con il costo, elementi a volte facilitanti, a volte limitanti l’acquisto. Il costo in particolare di alcune lenti è cresciuto enormemente per l’aumento di richiesta.

Il problema generale maggiore delle lenti antiche è il rapporto fra l’apertura e il cono di copertura, che è sem-pre critico. Alcune lenti offrono angoli di copertura molto buoni, ma lavorano a diaframmi decisamente chiusi. Altre pagano la rapidità con un angolo stretto che obbliga a ricercare lunghezze focali decisamente difficili da reperire e dispendiose quando si voglia scattare in formati maggiori del 13x18.

Ci concentreremo sulle lenti Petzval, per i motivi che saranno ovvi a chi leggerà. Penso sia utile far precedere una breve rassegna storica con lo scopo di orientarsi per sommi capi in un mondo difficilissimo. Chi volesse addentrarsi può consultare due belle pubblicazioni, differenti e complementari fra di loro, una disponibile per lo più usata in cartaceo all’interno di circuiti come Amazon, dal titolo “A history of the Photographic Lens” di Rudolf Kingslake (1989, Academic Press, London), l’altro in pdf o eBook presso Lulu (www.lulu.com) di Paul Lipscombe e dal titolo “The use of historic lenses in contemporary photography”.

Rassegna storicaIn pochi anni furono progettate moltissime lenti, che miglioravano le precedenti e consentivano di rispondere

ad esigenze differenti, riconducibili fondamentalmente alle categorie del ritratto e del paesaggio. Fino a tutto l’800 il mercato offriva infatti lenti ad ampie aperture con accettabili distorsioni dentro un ridotto angolo di ripresa, o lenti capaci di coprire angoli elevati con distorsioni minime, ma con aperture ridotte. Sembrava che si dovesse sempre scegliere tra rapidità e grandangolarità; averle entrambe sulla stessa lente è conquista recente, e le lenti migliori in quegli anni potevano essere complicate e costose. Per questo sul mercato rimasero disponibili obiettivi di concezione superata di fianco ad altri più moderni, solo per questioni di praticità ed economicità. Dunque è facile dire quando una lente fu introdotta sul mercato ma non quando venne abbandonata nell’uso pratico dei fotografi. Questa rassegna divide le lenti in base al loro anno di introduzione citando pochi modelli e nomi: quelli che non solo hanno fatto la storia, ma che si potrebbero trovare nei mercatini di antiquariato e dei quali può servire saperne qualcosa per districarsi almeno inizialmente. Di alcune di esse si parlerà nel capitolo delle Petzval. Gli schemi a cui si fa riferimento sono tutti nella figura a pagina 92.

1840 – 1866Una lente biconvessa genera un piano di messa a fuoco curvo, cioè un segmento di sfera; se ne vede il perché

in figura a pag. 92, allo schema numero 1. Le fotografie invece stanno su un piano piatto. Da qui nasce uno dei maggiori problemi da risolvere.

4 - Lenti antiche per uso moderno

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A

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A’

B’

Coma

Stop

1: perché una lente mette a fuoco un piano piatto su un piano curvo 2: lente da paesaggio di Wollaston

3: percorso dei raggi attraverso una lente da telescopio,quando utilizzata regolarmente o quando invertita

4: La lente Anaplanat di Grubb

5: Rapid Landscape lens di Dallmeyer 6: Rapid Rectilinear (RR) lens di Dallmeyer

7: Lente concentrica di Ross 8: Anastigmatica di Zeiss con due o tre componenti posteriori

9: La lente Tessar, di Zeiss 10: La Dagor originale

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Le anastigmatiche classiche non si mostrarono così buone come sperato a causa di altre aberrazioni introdotte dalle molte interfacce cementate. La loro risoluzione con schemi ottici differenti, che utilizzavano spazi aerei fra gruppi di lenti come diffusori per ridurre l’aberrazione sferica, migliorarono la correzioni zonali dell’immagine. Dalle stigmatiche di Aldis, nacquero presto la Unar (1899) di Zeiss subito perfezionata nella gloriosa Zeiss Tessar (1902), con apertura f/6,3 alla sua uscita. Nel 1892, un ventisettenne matematico dal nome di Emil von Höegh disegnò una lente a due gruppi cementati tripli corretta per l’aberrazione sferica, cromatica e libera da astigmatismo e curvatura di campo. Era simmetrica per poter correggere il coma, che invece rimaneva problema-tico. Si dice20 che fu offerta a Zeiss che non era interessata per cui Höegh si rivolse alla neonata Goerz a Berlino (fondata quattro anni prima), dandole il nome di Double Anastigmatic Goerz, contratto in Dagor nel 1904. È ancora prodotta negli Stati Uniti e fu incorporata in fotocamere da quasi tutte le case produttrici. Copriva circa 30° e l’apertura era f/6,8, purtroppo però soffriva del fenomeno di focus shift. È un fenomeno che dipende dal fatto che le interfacce estremamente dispersive a correzione dell’aberrazione sferica, muovono le immagini più nitide lungo l’asse principale alla chiusura dei diaframmi, per cui il fuoco a tutta apertura non coincide con quel-lo a diaframmi chiusi. Abbia-mo parlato di Dagor e Tessar, per citare due nomi talmente famosi da essere prodotte an-cora per molti anni su fotoca-mere prestigiose, almeno fino al 1930. Molte modifiche e altre lenti vennero prodotte. Anastigmatiche simmetri-che, a quattro, cinque lenti, Ortostigmatiche di Steinhel o Collineari di Voigtländer, schemi asimmetrici a triplet-te di Cooke (Heliar, Dynar) moltiplicavano gli schemi e le conoscenze e aprivano al pe-riodo successivo, che avrebbe visto progettazioni sempre più avanzate di lenti fotografiche. Nel 1890 Dallmeyer introdu-ce anche i primi teleobiettivi. Però le Petzval tardavano a scomparire del tutto ancora all’inizio del XX secolo.

1914 –1940Nonostante la guerra, il pe-

riodo immediatamente post-bellico vide la produzione di

20 R. Schwllberg: “Dagor. The lens that’s 78 years young”. Pop phot. 70, 56 (jan 1972).

Fig. 4.2 Photographe à Verres Combinés a Foyer variabile. A sinistra, da una pubblicità d’epoca. A destra, sono schematizzate tre possibili disposizioni: in alto solo lente frontale, per paesaggio; in mezzo con una lente addizionale sempre per paesaggi; in basso nella posizione per ritratti.

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lenti eccezionalmente rapide: Il brevetto Tessar apparve nel febbraio 1903 e diede il monopolio a Zeiss fino al 1920, quando lenti a schema Tessar apparvero sul mer-cato prodotte da almeno 21 case costruttrici. Dall’f/6,3 della sua uscita in commercio divenne f/4,5 già nel 1917, fino a f/2,8 nel 1930: il primo Elmar f/3,5 che Max Berek disegnò per la Leitz Camera nel 1920 era di questo tipo. Nel 1920 fu progettata una f/2, e negli anni ’30 si svilupparono lenti per il neonato 35 mm e soprat-tutto lenti da proiezione e da ripresa cinematografica per telecamere amatoriali a 8 e 16 mm. Iniziarono anche le lenti per fotocamere montate su aerei, di cui la aeroe-ktar di cui parleremo è un modello che oggi ha una certa popolarità nel mondo fotografico.

Dopo il 1945Iniziarono le lenti a focale variabile o zoom, lenti

speciali per risolvere la proiezione di pellicole ana-morfiche (problema già nato tra le due guerre, ma reso più impellente dal sistema CinemaScope del 1952), e l’avvento delle manifatture giapponese negli anni ’50. Nikon, un nome per tutte, iniziò a competere con il tradizionale monopolio del mondo tedesco. La possi-bilità tecnologica di produrre lenti a curvature sempre più complesse (lenti asferiche) favorì la correzione di aberrazioni riducendo il numero di lenti e facendo ciò che prima sarebbe stato impensabile. E in breve siamo a oggi.

Lenti rapide per grande formatoNel campo del mercato fotografico usato, ci sono due lenti che gli amatori ricercano, avendo una buona com-

merciabilità in Internet o in mercati dell’usato fotografico e non solo e unendo pertanto luminosità eccezionali a rapporto qualità-prezzo.

Il primo tipo di lenti, a cui si è già fatto cenno, sono le lenti a schema ottico Petzval. Il secondo è quello delle Aero-Ektar, fabbricate da Kodak ad uso militare.

Le lenti Petzval: apologia di una grande lente e consigli per gli acquistiNel 1839, quando apparve il Dagherrotipo, era disponibile solo la lente acromatica a menisco per “Le Da-

guerreotype”, la prima fotocamera di Louis Daguerre, progettata da Charles Chevalier (1804-1859). L’acro-matismo si otteneva con una coppia di lenti che riportavano correttamente sul piano le luci di colori differenti. Tuttavia a parte per la presenza di aberrazioni cromatiche residue che non offrivano una immagine incisa, l’a-pertura di f/15, ricavata da uno stop frontale, rendeva impossibile la ritrattistica, dato che i tempi di esposizione in sole pieno erano di circa 30 minuti.

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Fig. 4.3 Lente per ritratto Petzval. In alto lo schema delle lenti. In un disegno d’epoca, la collocazione delle lenti ri-spetto all’obiettivo.

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sene conto). Riprese più ravvicinate, allontanano l’obiettivo e intercettano il circolo di copertura in un punto dove è decisamente più ampio: si può vedere in altri esempi, come a pag. 88, realizzata su una lastra 13X18, e però totalmente priva di vignettatura visibile. Questi “difetti” dello schema della lente possono aggiungere interesse e personalità al ritratto conducendo maggiormente l’attenzione dell’osservatore sulla porzione centrale dell’immagine, dove risiede il volto e lo sguardo. La bassa profondità di campo è spesso utilizzata ad arte per evidenziare ulteriormente punti di interesse come gli occhi e solo parte del volto, sfruttando il bokeh marcato che si viene a produrre, per primi piani ravvicinati.

Non bisogna confondere il nome Petzval, che indica lo schema ottico, con la marca di fabbrica. Inizialmente non c’erano nomi sulle lenti fotografiche. Fu dalla metà dell’800 che iniziarono ad apparire. Indicavano sia la manifattura che il tipo, come Tessar o Heliar. Presto però sull’ottone delle lenti fu inciso il nome della casa ma-nifatturiera. Produttori storici e blasonati sono Voigtlander, Hermagis Paris, Baiser, Darlot (nel 1850s indicato come Jamin-Darlot in Paris.[1] Nel 1860 divenne Darlot, costruendo lenti per fotocamere, siglate: “Darlot, Opticien” o “Darlot Paris” e le iniziali “AD” di A. Darlot, con le lettere incrociate come logo.), Dallmeyer e altri meno conosciuti. Dopo pochi anni, a seguito di contraffazioni di bassa qualità, le case iniziarono a tutelarsi producendo lenti con impresso un numero di serie, che può essere oggi utilizzato per datarle con precisione; alcuni riportavano la data, ma per la maggior parte si tratta di un codice numerico progressivo di per sé senza significato; in Internet sono però reperibili tabelle almeno per le marche più importanti.

Negli anni precedenti, in assenza di numero, la datazione di queste lenti può essere difficile. Ci sono tuttavia alcuni elementi costruttivi che possono aiutare a stabilirne l’età approssimativa (fig 4.7). Inizialmente non erano previsti diaframmi per ridurre l’apertura: tutta la luce che poteva arrivare serviva. Ma con l’introduzione del processo al collodio (1851) il guadagno di sensibilità rispetto alla dagherrotipia consentì o addirittura obbligò a ridurre l’apertura della lente per l’impossibilità di controllare tempi particolarmente rapidi, unica operazione possibile fino all’avvento dell’otturatore. Nel 1855 James Waterhouse inventò così il sistema per ridurre l’apertura posizionando degli “stop” metallici con fori di dimensione diversa, posti sul piano focale, attraverso una fessura sul cilindro di ottone del-la lente (da essi nacque il termine tecnico di stop per indicare l’incremen-to unitario dell’apertu-ra). L’operazione non era onerosa e si diffuse rapidamente, anzi alcune lenti senza questa predi-sposizione vennero ma-nomesse artigianalmente spesso dai loro proprie-tari, creando un allog-giamento per gli stop. L’avvento di diaframmi mobili fu successivo. Al-cuni tipi di diaframmi come il Noton a “occhio di gatto” (Noton cat eye

4 - Lenti antiche per uso moderno

4.7 Elementi principali per datare una lente Petzval in assenza di numero di serie. Vedi testo.

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diaphragm) non ebbero sviluppo. Il diaframma ad iride (fig. 4.8) venne proget-tato nel 1857 da Harrison & Schnitzer e nel 1858 da Holmes, Boot e Hay-den. Ma il merito principale va a Harrison. I diaframmi di oggi si basano sul sistema di lamelle da lui inventato, così come certi otturatori centrali. Il costo del diaframma ad iride però ritardò la sua immissione in commercio e a parte eccezioni (che non possono essere comunque antecedenti al 1857) tali lenti si diffusero dal 1870 in avanti.

Anche il pignone e la cremagliera possono costituire elementi identificativi di un luogo e periodo di produzione: il tipo più comune è quello tangenziale, ma alcuni modelli erano dotati di un meccanismo radiale, dove il pignone si innestava perpendicolarmente al fusto. Questi tipi furono utilizzati in USA tra il 1850 e la fine degli anni ’70, per ritornare al pignone tangenziale in seguito.

Non è difficile reperire lenti Petzval girando un po’ per il web. È difficile reperire la lunghezza focale che vi serve, in buono stato, a prezzo conveniente. La lunghezza focale determina l’utilizzo che ne farete, come ab-biamo già avuto modo di dire. L’angolo di copertura non è brillantissimo essendo nato come lente per ritratto: utilizzato a focali ridotte rispetto alle dimensioni del vostro fotogramma vignetta fortemente e non diventerà mai un vero grandangolo, ma gli effetti che ne derivano potrebbero essere utilizzati ad arte.

Kodak AeroEktarSi tratta di obiettivi prodotti da Kodak per fotografia di ricognizione aerea, costruiti soprattutto durante la

seconda Guerra Mondiale. Lo schema ottico, i cementi ottici e gli strati di copertura delle lenti erano all’avan-guardia della tecnologia e consentivano una luminosità eccezionale, che ancora oggi è il suo elemento distintivo.

Sono stati fabbricati modelli da 7” (178 mm), f2,5, 12” (300 mm) f2.5 e 24” (610 mm) f6,0. Si tratta di lenti che al contrario delle Petzval hanno una caratteristiche qualitative molto elevate e poche aberrazioni. Il 178mm copre il 10X12 cm, il 610 copre più del 20X25 cm. Hanno però – oltre a una luminosità eccezionale – un bokeh superbo, per cui sono ricercati soprattutto per la fotografia analogica su pellicola, con la necessità di essere mon-tati su fotocamere dotate di focal plane shutter: tipicamente il 178 mm va sulle Speed Graphics (fig. 4.9), che erano dotate di otturatore sul piano focale e si reperiscono nel mercato a prezzi accettabili e ottime condizioni d’uso. Ottime lenti, costo accettabile, ma alla fine formati relativamente contenuti, per quello che molti collo-disti desiderano. Le immagini possono essere interessanti e ce ne sono alcune in queste pagine.

Il problema maggiore (o uno dei dibattiti più rilevanti) sul web a proposito di queste lenti riguarda la loro radioattività, legata non ad una contaminazione - come

spesso si trova scritto – ma ad un intenzionale inserimento di Torio nella doppietta centrale delle 4 lenti cementate posteriori, allo scopo di mi-

gliorare l’indice di rifrazione. Il Torio è tra gli elementi naturalmen-te radioattivi più antichi della terra; la sua antichità è proprio

il segno che la sua radioattività è durevole nel tempo.

Questo porta a due conseguenze. La prima di ordine protezionistico: l’emissione di raggi gamma da parte del Torio e dei suoi prodotti di decadimento è sicuramente in parte schermata sia dal cilindro metallico che dalle lenti

Fig. 4.8 Diaframma a Iride.

Fig. 4.9. Kodak Aero Ektar montata su Speed Graphic. Cortesia di Anna Rita Melegari

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OpalinaIl vetro opalino scuro, può essere utilizzato ma è duro oggi da reperire poiché, In Italia almeno, non è più

fabbricato, essendo il processo altamente inquinante. Si può trovare qualche pezzo vecchio, che era utilizzato come ripiano per mobili, di spessore a volte considerevole (6 mm) che potrebbe non entrare in certi chassis.

Vetro neroAnch’esso difficile da reperire, si trova come cristallo (costosissimo) o come vetro cattedrale a impasto nero.

Anche quest’ultimo non è economico, ma il suo costo è accettabile e dà risultati di grande impatto e soddisfa-centi per la praticità d’uso. Assolutamente consigliabile. Verificate nel capitolo risorse come procurarvelo.

Sensibilità e misura esposimetrica del collodioLa prima domanda che tutti fanno su questo argomento è: “a quanti ISO corrisponde il collodio?”. La do-

manda è posta male e la risposta giusta è che non c’è una risposta giusta. La stessa misura esposimetrica fatta con un esposimetro tradizionale può implicare esposizioni di meno di un secondo o qualche minuto con sor-genti di illuminazione differenti.

Il collodio, come altre metodiche analoghe (la dagherrotipia per esempio) è sensibile ad uno spettro ristretto di luce, cioè alla luce cosiddetta “attinica”: quella capace di indurre modificazioni chimico-fisiche su un sub-strato fotosensibile. Le conoscenze in merito alla natura della luce sono più recenti di queste tecniche. Towler nella seconda metà dell’800 scrive:“

(…) can not always be determined beforehand, because of the vari-ability of the light, and its actinic powers, of which we know as yet absolutely so little. We can not determine the reason of the widely diverse action of light at six in the morning, and six in the evening, or at the vernal equinox, and the autumnal. 36

(...) non può sempre essere determinato in anticipo, a causa della variabilità della luce, e del suo potere attinico, del quale noi non conosciamo assolutamente nulla. Non possiamo de-terminare la ragione di azioni così ampiamente differenti della luce alle sei del mattino, e alle sei della sera, o all’equinozio di primavera e d’autunno.

Hurter e Driffield, gli inventori della densitometria, si sono posti le stesse domande pochi anni dopo questa affermazio-ne e hanno iniziato in modo empirico ma efficiente a misu-rare sia la potenza della luce attiva con un “attinometro”, sia l’efficacia della luce nelle diverse ore del giorno e dell’anno,

36 J. Towler. The silver sunbeam. A practical and theoretical text-book on sun drawing and photographic printing: comprehending all the wet and dry processes at present known, with collodion, albumen, gelatin, wax, resin and silver; as [sic] also heliographic engraving, photolithography, photozincography, celestial photography, photography in natural colors, tinting and coloring of pho-tographs, printing in various colors, the carbon process, the card-picture, the vignette, and stereograph. NY JH Ladd publ. 1864. Pag 123. disponibile a: https://archive.org/

Fig. 6.3 Attinografo di Hurter & Driffield.

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Fascino e rigore del collodio

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ma che noi non sentiamo; nella similitudine, noi siamo il collodio e il cane fa la parte dei nostri occhi. Gli esposimetri comuni sono tarati sui valori dello spettro visibile di più comune rappresentazione in natura, cioè sulle frequenze giallo-verdi e misurano pertanto una luce inefficace nella fotografia al collodio, ma soprattutto non danno alcuna informazione sulla presenza di altre componenti dello spettro. Esistono misuratori di illu-minazione UV, che non sono costruiti a scopo fotografico e pertanto forniscono valori assoluti di illuminazio-ne ma non danno un risultato immediatamente utilizzabile per tarare tempi e diaframmi per una esposizione corretta.

Così può accadere che una luce fredda e bluastra del mattino invernale possa richiedere esposizioni inferiori di una luce ai nostri occhi più vivida, come quella di un tramonto estivo.

Mentre però la luce diurna contiene sempre tutto lo spettro luminoso (anche se in quantità diversa nelle diverse ore del giorno, temperature, stagioni, latitudini e longitudini, luce diretta o ombra), un’illuminazione artificiale emette uno spettro di frequenze elettromagnetiche ristretto, con una frequenza dominante (quella indicata in gradi kelvin dai costruttori della lampada) e un’estensione laterale nello spettro che rapidamente va verso lo zero. Luci a incandescenza portano poca luce utile; bisogna usare luce molto fredda (alti gradi Kelvin) e spesso molto intensa, per sfruttare non tanto il picco che è quello che ferisce i nostri occhi mentre continua a impressionare poco gli alogenuri, ma la sua emissione più blu e soprattutto UV, che è di intensità inferiore. Il rimedio che spesso viene alla mente come possibile soluzione, di filtrare con filtri blu una luce gialla, non ha alcun significato, perché non aggiunge luce utile, ma si limita a sottrarre quella inefficace.

Lampade ad emissione di luci UV intense sono dannosi per gli occhi e anche per la pelle, e non sono consi-gliabili per ritratti. Occorre dunque utilizzare luci ad alta temperatura cromatica.

Fig. 6.4 Grafico di H&D con la distribuzione nell’anno della luce atti-nica. I grafici illustrano le curve ottenibili con l’attinografo, che espri-mono l’intensità della luce attinica.

Si può notare che sono riprodotti solo 182 giorni dell’anno, poiché “owing to the fact that to each day between the 12st December and the 21st June there is a corresponding day between the 21st June and 21st December on which the intensities of the light is the same, it is not necessary to mark the curves for the whole year; it suffices to calculate and mark them for half of the year; and to place on the opposite side another scale of dates returning from 22nd June to the 21st December in contrary directions”.

In alto: grafico alla latitudine di 53°7’, alle 10:00 del mattino.

In basso grafico alla latitudine 0° (Equatore) in diverse ore del giorno. Da “Specification of Ferdinand Hurter and Vero Charles Driffield. AD 1888, 14th April. No 5545 Improvements in instruments for calcu-lating photographic Exposures” In: “The photographic researches of Ferdinand Hurter & Vero C. Driffield”. Pag 50. Ed. by W.B. Ferguson. Published by The Royal Photographic Society of Great Britain 35, Rus-sell Square, W.C. 1920

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6 - Collodio positivo

Oggi le lampade CFL (Compact Flash Light) o a LED, a basso consumo energetico e bassa emissione di calore, sono disponibili ad elevate frequenze e sono utilizzabili su bank con attacchi comuni, E27, reperibili a costo contenuto (vedi risor-se) o anche costruibili in autonomia, sempre per chi ha l’hob-by, il tempo e gli attrezzi per il bricolage (o un amico che abbia tutte queste cose e la disponibilità a mettervele a servizio). Amici e gratuità a parte, ritengo che il rapporto costo qualità e a volte anche i costi assoluti dei prodotti già finiti siano van-taggiosi rispetto a quelli di una commissione artigianale. Io mi trovo bene con un gruppo di Philips master PL-Electronic (PLE-R 33W/865) montate su bank della Fotodiox (Foto-diox C-12600 Cool Light – 16 Bulb Light Fixture for com-pact fluorescent Energy saving Bulbsé - w/Softbox mounting holes). Il bank è economico e ben fatto. Essendo americano è progettato per il loro voltaggio ma ho verificato che le luci non si bruciano, attaccandolo alla nostra tensione di 220V. Ho tro-vato altri bank con attacco E27 a costo contenuto presso CR Fotoingrosso che commercializza Benel in Italia. Ma certo ognuno può metterci del proprio, quel che conta è il risultato finale. È bene avere almeno due bank, uno principale e l’altro per schiarire-bilanciare. Può essere utile un faretto singolo per un’ulteriore illuminazione del fondo.

Naturalmente lo scopo di tanta luce è essenzialmente quello del ritratto, dove occorre minimizzare i tempi di posa, mentre

Luce di una candela: circa 1 000 K

Lampada a incandescenza da 40 W: 2 650 K

Lampada fluorescente extracalda: 2 700 K

Lampada a incandescenza da 60 W: 2 760 K

Lampada a incandescenza da 75 W: 2 820 K

Lampada a incandescenza da 100 W: 2 900 K

Lampada a incandescenza da 200 W: 2 980 K

Lampada fluorescente cosiddetta “bianco caldo”: 3 000 K

Lampada per uso fotografico da 500 W: 3 400 K

Lampada fluorescente cosiddetta “bianco neutro”: 3 500 K

Lampada fluorescente cosiddetta “bianco freddo: 4 000 K

Luce solare diretta al mezzogiorno locale : ~4 900 K (parame-tro influenzato da stagione e latitudine , limpidezza e umidità atmosferica)

Lampada fluorescente cosiddetta “luce normalizzata” (D50) per processi di stampa e pre-stampa: 5 000 K

Bianco puro, o “punto acromatico di riferimento”, corri-spondente al punto di eguale energia nel diagramma CIE: tra 5 455 e 5 500 K

Luce solare al di fuori dell’atmosfera terrestre: 5 777 K (non equiva-lente all’analoga temperatura di un ipotetico corpo nero)

Luce d’ambiente in pieno giorno: ~6 500 K

Lampada fluorescente diurna: 6 500 K

Luce del cielo totalmente nuvoloso: ~7 000 K

Lampada fluorescente superdiurna: 8 000 K

Luce del cielo parzialmente nuvoloso: tra 8 000 e 10 000 K

Luce del cielo sereno: normalmente tra 10 000 e 20 000 K

Per quanto riguarda le lampade fluorescenti, la normativa UNI

12464 parla di:

“bianco caldo” per temperatura di colore inferiore a 3 300 K

“bianco neutro” per temperatura di colore compresa tra 3 300

e 5 300 K

“bianco freddo” per temperatura di colore superiore a 5 300 K

Sopra: Fig. 6.5 A destra spettro del collodio (per gentile concessione di © Niles Lund) e a sinistra spettro della luce visibile, all’interno dello spettro delle onde elettromagnetiche.

A lato: Tab 6.2 Corrispondenza tra le temperature cromatiche espresse in gradi Kelvin e alcune sorgenti luminose comuni

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Soluzione alcoolica Bromo-iodizzante 100 ml

Alcool Etilico 200 ml

Collodio in grado puro (~6%) 300 ml

La soluzione di lavoro deve maturare completamente ed è pronta per l’uso in 2-3 giorni

MaturazioneAlcune formule danno origine ad una soluzio-

ne fresca, lattiginosa (fig 6.9), che non deve essere utilizzata poiché il precipitato può creare macchie nell’immagine finale, visibili specialmente nei negativi. Lasciando il collodio in pace per alcuni giorni, il precipitato si scioglie e in parte sedimen-ta in uno strato sottile e bianco sul fondo del con-tenitore (fig. 6.10). Contemporaneamente al pro-cesso di schiarimento, avviene anche un processo di maturazione, che consiste in una modifica dei costituenti chimici, con liberazione di Iodio libe-ro, responsabile del colore rosso che inizialmente carica il giallo verso toni aranciati giungendo pro-gressivamente a rossi intensi, vinosi. Per questo il colore del collodio è un indicatore della sua età, anche se il comportamento cambia da formula a formula, e da persona a persona. Il collodio fresco è più sensibile ma tende maggiormente alla vela-tura, per cui è raccomandabile un po’ di invecchia-mento. L’assenza di fogging è importante soprat-tutto negli ambrotipi, dove le ombre devono essere trasparenti; il collodio invecchiato dà maggiori densità e maggior contrasto, che è benefico anche per i negativi. Invecchiando troppo perde sensibilità, che non va bene a nessuno. Per velocizzare il processo di maturazione, sostituire con Ioduro d’Ammonio lo Ioduro di Potassio, come già detto, o aggiungere 2-3 gocce di tintura di Iodio o di collodio vecchio. Forzare la maturazione del processo accorcia però anche la vita del collodio.

L’aggiunta di acetone (0,5 ml per 75 ml di collodio) può “ringiovanire” le soluzioni di collodio. Anche l’uti-lizzo di alcool denaturato (bianco, vedi pag 154) che contiene un chetone (MEK), ottiene un risultato analogo. Il colore si schiarisce per adsorbimento dello Iodio libero.

Conservazione Il collodio fotografico va conservato in una bot-

tiglia di vetro a bocca larga con un tappo a buo-na tenuta. Mai conservarlo in un contenitore di plastica, perché la corrode, a meno che si tratti di contenitori destinati alla conservazione di prodot-ti chimici. L’ideale sarebbe di mantenere la botti-

Fig. 6.9 Aspetto lattiginoso del collodio appena preparato in tre formule differenti: due varianti della Workhorse formula e una Poe boy.

Fig. 6.10 Anello di precipitato biancastro al termine della chia-rificazione.

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glia piena, altrimenti l’evaporazione dei solventi ne altera le proprietà. Conservare il collodio in un ambiente freddo e buio ne aumenta la durata. Il collodio non va agitato: nel tempo, sedimentano molte particelle solide sul fondo della bottiglia. Scuotendolo, tornano in sospensione e creano artefatti noti come “comete”.

Bagno al Nitrato d’argento

Il collodio diviene fotosensibile solo dopo aver reagito con il Nitrato d’Argento. Come un gioiello, un bagno d’argento è per sempre. Se se ne ha cura, dura indefinitamente, richiedendo di essere ricostituito con soluzione fresca, a patto che se ne faccia una manutenzione ordinata e periodica.

Le caratteristiche fisico-chimiche della soluzione di nitrato d’argento sono tra i determinanti principali dell’esito di questa metodica. La mancanza di metodo nella manutenzione periodica, ordinaria e straordinaria del bagno d’argento si paga con grossolani artefatti e fallimenti. Anzi, quando va male qualcosa e ripercorrete

Broken. Clear Glass ambrotype, verniciato sul retro. Fatif view camera. 20X25. Rodenstock Sironar 1:6,8/360mm (6 836 747). Ott: Compur 3. New Guy. Luci artificiali. Sviluppo standard con Solfato ferroso e aggiunta di acido nitrico. Fissaggio in Tiosolfato 15% freddo.

6 - Collodio positivo

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Fascino e rigore del collodio

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i passi nel tentativo di individuare l’errore, ricordatevi sempre di considerare il bagno d’argento. Non sarebbe male avere due bagni d’argento, uno di backup, da utilizzare in caso di danneggiamento imprevisto.

Il nitrato d’argento è utilizzato in molte tecniche fotografiche, disciolto in acqua distillata, ma a differenti concentrazioni. Per il collodio si usa una soluzione al 10%. 10% è però una indicazione di massima. Scully e Osterman suggeriscono di dissolvere 28 g di nitrato d’argento in 350 ml di acqua (8%), mentre Indra Moreen e Quinn Jacobson parlano di 90 g in un litro (9%, come suggerito anche da John Smiegel nel suo blog “unblin-king eye” rintracciabile in Internet). Christopher James dice di mettere 28 g in 400 ml (7%).

Direi che tra l’8 e il 10 sta la media. Concentrazioni più alte sono solo più costose, ma non dannose. Più ni-trato, più densità. Più che non decidere la concentrazione giusta è importante standardizzare il vostro personale flusso di lavoro, mantenendo una concentrazione stabile e tararvi su quella.

Preparare il bagno d’argentoIl nitrato d’argento si scioglie in acqua rapidamente e con facilità. Nessun problema a lavorare in piena luce

per tutte le operazioni di gestione del bagno di nitrato. Quando la lastra è sensibilizzata bisogna invece prose-guire con una luce rossa di sicurezza.

Leggere la densitàUna volta sciolti i cristalli, prendete un cilindro di vetro e

metteteci dentro un densimetro (v. pag. 69). Riempite il cilin-dro con la soluzione fino a che il densimetro inizia a galleggiare. Leggete il numero sulla scala graduata, al livello della soluzione (vedi figura 6.11) e registratelo (o segnatelo sul densimetro) per i successivi controlli. La densità dell’acqua è 1 (o 1,000) g/cm3. I valori di densità sono espressi talvolta in mg/cm3 (1070 invece di 1,070). Il densimetro ha una scala che per favorire la leggibilità riporta solitamente i tre decimali a destra della vir-gola, quindi una densità di 1070 o di 1,070 si legge 070. Questo è il valore che esprime la forza del vostro bagno d’argento. Un bagno fresco al 10% ha valori alti, di 1085, mentre all’8% mi-sura 1070 (vedi tabella pag 250); lavora ancora decentemente fino a 1040. Utilizzando il bagno possono succedere due cose: l’argento si consuma più rapidamente dell’acqua (la soluzione si diluisce e la densità scende) oppure l’acqua evapora (la soluzione si concentra e la densità sale) Valori più alti devono essere diluiti. Valori più bassi richiedono un’aggiunta di nitrato d’argento: aggiungete qualche grammo, sciogliete e leggete di nuovo. Fermatevi al valore desiderato.

Testare l’aciditàMisurate il pH della soluzione con una striscia o un pHmetro (Piaccametro). Dal punto di vista teorico il

bagno di nitrato d’argento fresco dovrebbe essere debolmente acido (pH vicino a 5) quando sciolto in acqua distillata. Tuttavia anche il pH dell’acqua varia. Un bagno di nitrato che è stato utilizzato, cambia il proprio pH per effetto delle sostanze che vi si aggiungono e dei prodotti di reazione che si formano come conseguenza diventando di norma più acido con l’uso.

Un pH alto (bassa acidità) tende a dare fogging e ridurre la sensibilità: un bagno vicino alla neutralità (neu-tralità = pH 7) non deve essere utilizzato. Acidità eccessive invece significano meno sensibilità e meno densità

Fig. 6.11 Lettura della densità: a sinistra, tratto dal manuale della Kodak edito nel 1935: modalità cor-retta e scorretta di fare la lettura.Guarald

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7 - Wet plate: il processo passo a passo

2-Stesa del collodioMetodi per reggere la lastra (holding the plate)

È un momento delicato, che richiede una certa pratica per es-sere effettuato accuratamente e con uniformità. È la sorgente dei difetti e delle imperfezioni tipiche del collodio e rilevabili ai bordi della lastra. C’è chi dice che l’imperfezione è la firma dell’arti-gianato, ma io sono di parere contrario. I violini di Stradivari e Guarneri erano diversi l’uno dall’altro, ma ognuno pressoché per-fetto, e di una perfezione ineguagliabile con la serialità industria-le, perché segnata dall’individualità che rende l’opera artigianale sempre unica. Quando guardiamo le lastre dei collodisti più bravi, ci accorgiamo che i bordi sono spesso impeccabili. Se poi andia-mo a ripescare le lastre dei loro primi anni di attività, possiamo vederne le differenze: come quelle di ognuno di noi sono destinate a migliorare nel tempo. Questo miglioramento richiede però che la qualità sia un obiettivo da perseguire e soprattutto che l’im-perfezione non diventi l’alibi per mascherare l’incapacità. Sally Mann è un’artista particolare che ha giocato la propria espressività soprattutto negli autoritratti mettendo assieme puzzles di lastre caratterizzate da grandi imperfezioni ma vibranti di una capacità comunicativa unica. Assoggettate ad uno scopo, le imperfezioni possono diventare mezzo espressivo, ma solo nella misura in cui la libertà individuale sia in grado di utilizzare coscientemente le pro-prie abilità. Come ogni gesto che richiede esperienza, nelle mani degli esperti sembra facilissimo, ma occorre un periodo di appren-distato. Quindi mettete in conto un po’ di disappunto iniziale. La-stre grandi sono di difficile gestione. Le lastre piccole sembrano più facili ma io ritengo che si rischi di invaderle di collodio senza il tempo per riflettere sui gesti. Penso che la misura migliore per iniziare sia il 13x18cm. Ognuno trovi la sua strada.

Il motivo per cui la gestualità è importante è che non si può esitare e soprattutto non si può tornare indietro per ricoprire aree scoperte o sanare errori di qualsiasi tipo. Quel che è fatto è fatto. Prima della spiegazione, se non l’avete ancora fatto, guardate i molti (ormai innumerevoli) video su Youtube e su Vimeo, che valgono più di molte parole. Le figure spero aiutino un poco. Il processo può avvenire in piena luce, e quanto più è garantita la ventilazione, meglio è. Per cominciare, ci sono tre modi di reggere la lastra (fig. 7.2).

• Il primo è di reggerla dal di sotto, come fanno i camerieri con i vassoi (Waiter-tray method), utilizzando il pollice e le tre dita centrali della mano garantendo una sospensione stabile.

• Il secondo è il metodo della mensola (Cantilever method) che prevede di usare il pollice per tenere l’angolo mentre il medio (e l’indice per chi si trova comodo) la reggono, bilanciando il peso ma senza stringerla. Può anche essere decisamente afferrata (crabber pinch claw method: come con la chela di un granchio).

Fig. 7.2 Come reggere la lastra. Dall’alto: canti-lever method, server tray method, suction cup method (vedi testo).Guarald

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Fascino e rigore del collodio

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• Il terzo metodo è l’utilizzo di una ventosa (suction-cup method) che si applica al centro del vetro e si impugna dopo essersi assicurati della sua stabilità.

Tutti e tre i metodi erano utilizzati nell’800, lo dico per i puristi, che possono essere tranquilli di non venir meno nell’onore (fig. 7.3). I primi due metodi sono i più utilizzati. In parte dipendono dalla comodità personale. Di certo lastre molto grandi non possono essere rette dall’angolo, anche per il rischio di tagliarsi (attenzione se si utilizza il KCN!!!). L’al-luminio è molto leggero. Il vetro pesa di più: fino al 20X25 anche 3 mm di spessore si reggono molto bene. La ventosa NON VA usata per la verniciatura, poiché potrebbe generare degli aloni visibili a causa della differenza di temperatura. A tal proposito mi occorre di dire che si leggono commenti preoccupati che il calore delle dita che reggono la lastra nel waiter-tray method possa dare qualche guaio analogo, ma non è così se non quando è molto freddo e lo scarto di tem-peratura è maggiore. John Coffer comunque lo liquida come bufala nei suoi “Mith buster” e di fatto molti professionisti usano questo metodo senza alcuna preoccupazio-ne in range di temperatura accettabili.

Ci sono altri pro e contro. Il cantilever method lascia un angolo scoperto. Il waiter tray method potrebbe lasciar scivolare la lastra in alcune situazioni (umidità, sudore o sporcizia delle dita, freddo eccessivo …).

Occorrono due bottiglie: una con il collodio da versare, l’altra per raccogliere l’eccesso. Questo eccesso non va buttato (più grandi sono le lastre più collodio si raccoglie) ma riutilizzato dopo averlo lasciato decantare dalle impurità che inevitabilmente si raccolgono al suo interno, previa filtratura (con palline di cotone o dischi come quelli che si usano per la pulizia del viso: andrebbero imbevuti di alcool prima del filtraggio, per non impoverirne ulteriormente la concentrazione) o sifonatura (vedi pag. 68). Inoltre il collodio versato sulla lastra lascia evaporare alcool ed etere con rapidità, perché è esposto all’aria con una superficie ampia e uno spessore trascurabile. Dunque il collodio recuperato andrebbe anche ricostituito di alcool ed etere. Quinn Jacobson sug-gerisce 10% della quantità totale di collodio, per entrambi. Questo a meno che ricostituiate piccole quantità di collodio fotografico che pensate di utilizzare in sessioni molto brevi. In tal caso raccogliete pure il collodio nella bottiglia stessa da cui lo versate. Controllate il bordo della bottiglia e rimuovete eventuali tracce di collodio seccato a seguito di stese precedenti, sia per evitare che qualche pezzetto cada sulla lastra, sia per non ostacolare la regolarità del flusso mentre versate.

Stesa del collodio (Flowing the plate)Le fasi sono schematizzate in figura 7.4. Tenendo la lastra in bolla, versate il collodio al centro della

lastra, lentamente e con fermezza. Ricopritene un’area ampia: per rendere l’idea, fate in modo che l’area di collodio giunga vicino ai bordi del vetro lungo il lato più stretto; bisogna ottenere un lago circolare: l’orizzontalità della lastra è determinante, altrimenti il collodio fluisce per gravità verso il lato declive. Se siete in dubbio, meglio di più che di meno. È il momento migliore per appoggiare la bottiglia da cui avete steso il collodio e prendere l’altra: da adesso sarete impegnati a controllare lo scorrimento del fluido e non è il caso di distrarsi.

Fig. 7.3 Pneumatic plate holder. Da: van Monckho-ven, Désiré van. A Popular Treatise on Photography. Translated By W.H. Thornthwaite. London, 1863

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7 - Wet plate: il processo passo a passo

Sapendo da quale angolo raccoglierete il collodio in eccesso, consi-derate che quell’angolo è il punto dove deve terminare il processo di stesa. Se utilizzate il cantilever method come in figura, questo è l’angolo libero vicino a voi. A questo punto inclinate un poco la lastra dirigendo il flusso verso l’angolo opposto alle vostre dita. Vedrete che il collodio corre lungo i bordi da cui (se l’inclinazione non è troppo accentuata) viene trattenuto per motivi di tensione superficiale: i bordi diventano gli argini del flusso. Giunti all’angolo cambiate direzione e fate percorrere i tre angoli in ordine terminando con quello dove afferrate la lastra.

A questo punto inclinate per l’ultima fase la lastra giungendo verso l’ultimo angolo: in questo momento riportate la lastra quasi orizzon-tale, senza fretta, perché è il momento in cui si rischia maggiormente di sbrodolare collodio fuori dalla lastra. Una volta che l’angolo finale è raggiunto o quasi, aumentate la pendenza in modo deciso avendo predisposto al di sotto la bottiglia di raccolta. Nulla vieta di utilizzare il verso opposto orario o antiorario che sia a seconda che teniate la lastra con la destra o la sinistra: basta che gli angoli siano in ordine terminan-do con quello giusto.

Fate colare l’eccesso e iniziate a far ondeggiare la lastra (rocking the plate) nelle direzioni indicate in figura dalle frecce, verso i lati; mol-ti usano l’angolo nel collo di bottiglia come un perno di rotazione. Il collodio inizia a solidificare subito, a contatto con l’aria, essendo distri-buito in un film ampio e sottile; si formerebbero quindi increspature diagonali nel verso del deflusso: i movimenti servono ad evitare questo problema. Se si formano bordi molto spessi lungo un lato, si può appog-giare la lastra su un panno o un foglio di carta tipo Scottex e lasciare che per capillarità assorba questo eccesso.

Alla fine riportate la lastra in posizione orizzontale (osservatene la superficie che deve essere regolare e liscia) e tenetela fino a che il col-lodio inizia a indurirsi: la pressione del dito sull’angolo deve generare un’impronta ma lasciare intatto il film. Se il collodio non è sufficiente-mente asciutto, durante l’immersione si formano delle striature nel ver-so del flusso (v. troubleshooting pag. 198 e fig. 7.15), e maggiori all’im-patto con il liquido; probabilmente questo avviene perché il nitrato non “aggrappa” come dovrebbe o comunque non lo fa uniformemente; quando invece il collodio inizia ad asciugare, diventa più spugnoso e le forze di adsorbimento sono maggiori. È un problema che capita più facilmente alle basse temperature, dove i tempi di ogni processo chimico fisico si allungano e ancora di più in caso di contaminazione o esaurimento del bagno.

“Il collodista esperto non fa mai colare una goccia dal bordo”: balle. State su una bacinella tanto prima o poi qualcosa va giù. Il collodio non fa danni, si toglie dopo che si è asciugato, ma lo Iodio alcoolico può macchiare. Fig. 7.4 Flowing the plate. Vedi testo.

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Lastre scure con molto contrasto e neri vuotiÈ il problema inverso. La sottoesposizione è il meccanismo che le rende così. Difficilmente si sottosviluppa

una lastra, dato che la si controlla a vista. In queste situazioni le luci compaiono tardi e anche allungando i tempi di sviluppo la densità non cresce come dovrebbe; prolungare un poco lo sviluppo può aver qualche significato, ma entro certi limiti, altrimenti compare inevitabilmente un fogging chimico (vedi figura 6.2).

Velatura – Fogging e Silver stainingÈ definito come la precipitazione non voluta (non desiderata) di molecole d’argento. Il fogging può essere di

due tipi principali: quello dovuto a contaminazioni di luce (light fogging) e quello chimico (chemical fogging). In entrambi i casi occorre un nucleo di innesco che poi procede spontaneamente o per effetto dello sviluppatore.

Il light fogging dipende da infiltrazioni di luce causate da cattiva tenuta del soffietto, dello chassis, o della camera oscura (in tale sede potrebbe dipendere anche da lampade di sicurezza non adeguate). Il nucleo è a tutti gli effetti una immagine latente, formata da alogenuri inavvertitamente esposti alla luce, che compaiono in fase di sviluppo come per le altre componenti dell’immagine e ne condividono la sede: sono cioè all’interno dello strato di piroxilina. Questo pericolo è modesto per il collodio, grazie alla sua bassa sensibilità, richiede un po’ di attenzione ma non ossessiva. Per chi è alle prime esperienze con un banco ottico, va ricordato che la luce fronta-le può infiltrarsi e rimbalzare dentro il soffietto causando fantasmi di luce che non si sarebbero mai formati con una reflex: utilizzare un paraluce può essere determinante; un sistema semplice è quello di adoperare a questo scopo lo stesso volet (dark slide) dello chassis per ridurre le infiltrazioni di luce durante lo scatto.

Tutt’altro discorso per il chemical fogging (f. chimico). Qui si tratta di argento non esposto, che precipita ad opera dell’effetto chimico dello sviluppatore. Questo è molto frequente in metodiche come queste proprio per l’eccesso di nitrato d’argento richiesto per il corretto funzionamento del meccanismo di amplificazione a casca-ta, di cui abbiamo già parlato. Il collodio fresco dà più facilmente fogging, poiché reagisce con maggior vigore (ed è infatti più sensibile). Così accade nei climi più caldi e umidi (il caldo rende più rapidi i processi chimici). L’acido acetico agisce come restrainer e un modo per ridurre il fogging può essere quello di aumentarne un poco la quantità nello sviluppatore o di sostituirlo – in alcune formule – o addizionarlo – in altre – con zucchero da cucina. Naturalmente il fogging può dipendere da un pushing eccessivo dello sviluppo per tentare di recuperare lastre sottoesposte; non fatelo mai: ciò che è perso nelle ombre non lo guadagnate e in cambio ricoprite la lastra di velo. Questo fogging, comunque, si forma preferenzialmente sulla superficie dello strato di piroxilina e non in profondità. Si riconosce infatti perché passando un dito o del cotone bagnato (dopo il fissaggio!) si pulisce, mentre non è così semplice levare l’immagine (occhio, che è semplice comunque danneggiare l’effetto finale, per cui fatelo solo se sapete quello che state facendo). Se il fogging è lieve, può essere rimosso anche con un fissatore come il KCN che se lo mangia via.

C’è poi un terzo tipo di fogging che è frequente nella stampa argentica moderna, soprattutto utilizzando chimici scaduti. Si forma in questi casi per effetto di contaminanti come solfuri d’argento che alcune emulsio-ni contengono. Si tratta di particelle piccole che possono crescere prevalentemente per effetto di sviluppatori “fisici”, che apportano cioè argento dall’esterno che va a complessarsi con i composti che devono essere resi visibili. I rivelatori di impronte digitali utilizzati dagli investigatori di CSI per esempio funzionano così. Gli sviluppatori moderni sono tutti sviluppatori non fisici, e possono produrre questo tipo di fog quando il residuo di sviluppatore interagisce con un fissatore soprattutto se esausto e ricco di argento. In tal caso si formano macchie argentiche (silver stains) che possono prendere l’aspetto di un fogging dicroico. Il fogging dicroico è quello che si presenta iridescente, verdastro in luce riflessa e rossastro in luce trasmessa; questo effetto dipende dalla deposizione di argento finemente disperso. Tende a comparire attorno alle zone di maggior densità, per poi estendersi per effetto del trascinamento di bromuri che amplificano il processo.

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7 - Wet plate: il processo passo a passo

Fig. 7.10 Fogging chimico da Silver staining. Vedi anche testo.

Sono mostrate alcune lastre realizzate con tre differenti lotti di alluminio nero anodizzato. Sono stati tutti esposti alla stessa sorgente luminosa, per lo stesso tempo e sviluppati con chimici freschi ottenendo un medesimo grado di sviluppo. Il fogging è comparso durante il fissaggio, partendo dai contorni dell’immagine e progredendo a tutta la lastra. Da sin a dx e dall’alto in basso: le lastre 1, 2 e 3 sono state realizzate con i tre diversi lotti, sono state fissate in tiosolfato 30% e si vede che l’effetto è simile qualitativamente ma non in intensità; un’altra serie di scatti è stata fatta con le lastre 1 e 3, utilizzando KCN: i risultati sono migliori ma ancora inaccettabili (lastre 4 e 5). La figura 6 è la stessa scena su un vetro nero, per paragone.

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Il negativo al collodio, oltre al fascino che la metodica può offrire a chi la pratica, ha caratteristiche proprie che lo rendono interessante e unico. Si presta inoltre a coprire formati non standardizzati, per i quali

il reperimento di pellicole potrebbe essere decisamente più complesso e costoso, e soprattutto consente un controllo della densità efficace e ineguagliato. Al problema della densità è bene dedicare qualche riga, con l’o-biettivo di accennare ai termini principali della questione; i concetti di densitometria, DR, Indice di contrasto, Gamma, Sviluppo selettivo, Latitudine di posa, ecc…, necessari per una comprensione di queste dinamiche, saranno invece trattati approfonditamente al capitolo 8 del volume secondo, dedicato alle stampe in carte salate. Si tratta però di concetti comuni a qualsiasi tecnica fotografica. Chi non li conoscesse penso farebbe bene a dedicarci un po’ di tempo e fatica, che sarà ben ripagata al momento di applicarli praticamente.

La questione della densità in fotografiaQuando guardiamo una scena per fotografarla, dovremmo già aver previsto il suo risultato finale, che per ogni

negativo è la sua corrispondente stampa positiva. Il negativo è incapace di rendere la gamma tonale percepibile dall’occhio umano, ma riesce comunque a riprodurre una scala tonale distribuendola in un intervallo di una ampiezza soddisfacente all’occhio in termini di ricchezza dinamica. La stampa – qualunque sia la tecnica utiliz-zata – consente di riprodurre i toni registrati dal negativo (dalle alte luci alle ombre profonde) in un intervallo sempre inferiore alle sue possibilità, perché la luce è riflessa e non trasmessa; per questo la stampa è il collo di bottiglia della fotografia, poiché le potenzialità del negativo verranno inevitabilmente compresse al momento della produzione del positivo. È necessario pertanto produrre un negativo il cui intervallo tonale corrisponda il più possibile a quella determinata tecnica di stampa, così da ottimizzare la resa in termini di intervallo di contrasto, posizionando le luci e le ombre ai due estremi della gamma tonale ottenibile sul foglio. Tecniche di stampa differenti riescono a risolvere intervalli di contrasto di diversa ampiezza e dunque la scelta della stampa non è indifferente al tipo di negativo e vice versa.

Conoscere il mezzo consente di utilizzarlo al meglio per garantire la massima efficienza comunicativa: lo scatto, lo sviluppo e la stampa dovrebbero essere concepiti come un unico flusso di lavoro, prefigurando le possibilità del negativo e della stampa con cui sarà realizzata l’immagine finale, in modo che l’ampiezza tonale della scena che l’occhio vede nella realtà possa essere adeguatamente condensata, sintetizzata, in una modalità espressiva a gamma tonale più stretta, ma sufficientemente efficace a comunicare ciò che il fotografo ha visto e ha deciso di far vedere. L’intervallo di toni ottenibile con una stampa si definisce textural range (mal traducibile in range texturale) e comprende l’estensione di densità del deposito di pigmento (in questo caso argento) che va da una densità massima ma in qualche modo strutturata (dove cioè l’immagine mantiene un minimo det-taglio), alla densità minima che abbia anch’essa una struttura e che non sia cioè la carta pura, priva di qualsiasi modificazione. L’intervallo utile in fotografia è un po’ più ristretto del range texturale, che rimane di applica-zione solo teorica, poiché l’occhio non percepirebbe tutti i dettagli nelle ombre più profonde né distinguerebbe

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i primi accenni di deposito di pigmento, analizzabili solo con strumenti ottici; questo intervallo che l’occhio può percepire è definito range pittorico ed è contenuto in quello texturale. Non è espandibile oltre certi limiti ed è strettamente dipendente dalla tecnica stessa. Da questo intervallo di densità previsto per la fase di stampa, dipenderanno la decisioni di come esporre e poi sviluppare il negativo, che deve garantire non solo la corretta separazione tonale dei grigi intermedi, ma soprattutto la corrispondenza della differenza tra la sua densità mas-sima (alte luci) e minima (ombre profonde) con quella che passa tra la densità del bianco e del nero della stampa finale. L’intervallo di densità (density range: DR) del negativo (o il suo indice di contrasto che identifica un concetto simile ma non identico) non può essere maggiore di quello della stampa, altrimenti verranno “tagliati”, persi i toni estremi, bruciando le ombre o le luci, ma non deve essere neppure inferiore, perché si otterrebbero ombre senza saturazione o luci scure. Non esiste dunque un intervallo di densità “giusto” in assoluto, ma sempre in relazione alla metodica con cui il negativo dev’essere stampato.

Si può dire allora che lo scopo dello sviluppo è quello di ottenere il range di densità adeguato per quel dato metodo di stampa. Visto al contrario, dato un certo negativo, con una certa estensione tonale, la scelta della tecnica più adeguata renderà la stampa più efficace nel rappresentare la scena per come l’abbiamo desiderata.

Ciò che i fotografi fino al 1890 facevano contando solo sul loro intuito ed esperienza, ha iniziato a diventare oggetto di esplorazione scientifica con i lavori di Hurter e Driffield, attraverso lo studio della curva dose-rispo-sta dei materiali fotosensibili. Ne parleremo per esteso al capitolo 8 del volume 2, qui ne riassumiamo i tratti fondamentali in figura 8.0. La curva è costruita in un grafico che esprime la densità che si ottiene per intensità crescenti di esposizione; questa curva è chiamata “curva caratteristica”: carat-teristica appunto di ogni emulsione fo-tografica per quel dato metodo di svi-luppo. Questa scoperta, oltre a segnare un punto di non ritorno nella fotogra-fia (in grado di mandare in crisi pro-fonda certi fotografi naturalisti come Emerson - vedi pag. 56), ha posto le basi della moderna densitometria, cioè della misurazione del range di densità di un negativo o di una stampa espres-sa in termini di scarto logaritmico tra la maggiore e minore densità in quel particolare negativo. Nel linguaggio tecnico usuale ci si riferisce al range di densità definendolo semplicemente “densità”, ma quando esprimiamo questa densità con numero, non indichiamo la densità assoluta, ma l’esten-sione dell’intervallo tra la parte più trasparente e quella più opaca nel caso di un negativo e tra quella più chiara e più scura nel caso di una stampa.

L’avvento delle stampe a gelatina d’argento ci ha abituati a contrasti superiori a quelli delle stampe antiche in carta salata, o all’albumina. Questi dipendono dall’intensità assoluta del nero ottenibile nelle ombre, rispetto alla lucentezza della carta bianchissima che l’industria ha saputo proporre. In realtà la stampa argentica del XX secolo comprime l’indice di contrasto ed esibisce estensioni tonali più limitati di altre tecniche, quali le ferroti-pie (platino, palladio, Kallitipia, vanDyke) a loro volta inferiori alle stampe in carta salata (carta salata propria-mente detta e carta all’albumina) e all’Aristotipia (o Collodio-Chloride paper), che hanno pertanto da un lato

2.4

2.2

2.0

1.8

1.6

1.4

1.2

1.0

0.8

0.6

0.4

0.2

0.0

Logaritmo Esposizione (Millilux / secondi)

Den

sità

321

DMIN

DMAX

Base + fog

(+0,04 dalla Base + fog)

(90% massima densità)

Exposure Scale

Den

sity

Ran

ge

Fig. 8.0 Curva caratteristica, Density Range ed Exposure scale

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opacità dell’immagine, e non un film uniforme di deposito. La soluzione di Iodio sul collodio perde nel frat-tempo tutto il suo colore ma il film di collodio assume una tonalità inizialmente grigiastra e in seguito grigio giallastra. Anche a questo stadio c’è più opacità nelle ombre della immagine di prima, e il negativo potrebbe essere, grazie a questo procedimento, denso a sufficienza; se no, si procede al secondo stadio. Il primo stadio è lo stadio di deposito; il secondo, lo stadio di riduzione o di sviluppo propriamente detto; e però questo deposito del primo stadio è una combinazione chimica di Ioduro e Argento che ora è solubile nelle soluzioni di fissaggio, e prima non lo era. Attraverso questo processo di deposito e di fissaggio, e regolando la quantità di soluzione iodata, un negativo che è troppo opaco può essere reso più trasparente e meno denso ad libitum. Osborne si è avvalso di questa proprietà per chiarificare i suoi negativi per i processi fotolitografici. Io lo raccomando anche nella preparazione di negativi limpidi e chiari per ottenere positivi ingranditi nella camera solare. Non appena lo stadio di deposito è completato, e il film è stato lavato, il film di collodio è pronto per la ricezione della operazione successiva.

Gli amanti della precisione potranno preparare la soluzione di Ioduro di Potassio secondo queste proporzioni:

Iodio 538mg

Potassio Ioduro 538mg

Acqua distillata 250 ml

Lo Iodio cristallino va frammentato e agitato a lungo, con acqua tiepida almeno. È suggeribile un agitatore magnetico o in sua assenza, molta pazienza. Si può anche scioglierne la maggior parte e poi scaldare e lasciar riposare per un po’.

In alternativa – che è molto più semplice – comperate della tintura di Iodio46 in farmacia e aggiungetela ad acqua distillata fino ad ottenere un bel colorito intenso, quasi vinoso.

2) lo stadio di intensificazioneUsando sempre le parole di Towler:

“Il secondo stadio consiste nel mettere in contatto con l’immagine ionizzata una piccola quantità di argento nitrato, puro o diluito, o assieme allo sviluppatore; in fatti non è altro se non una mera ripetizione del proces-so originale di sviluppo. La superficie del collodio è nella stessa condizione dell’inizio quando era stato tolto dalla camera: ci sono Ioduro d’Argento, Nitrato d’Argento, Ioduro di Potassio, le peculiari e sconosciute forze attrattive esistenti nell’immagine formata, dove prima l’immagine era ancora non formata, e la soluzione di sviluppo sia come Solfato ferroso che come Acido pirogallico. Il secondo stadio è dunque un sistema o processo di risviluppo. Con questa operazione l’intensità può essere incrementata a piacere. Le ombre possono essere rese completamente opache, fino ad essere impermeabili all’influenza attinica.La parte di intensificazione del collodio sta nelle mani dell’artista; il successo, pertanto, dipende principalmente alla condizione artistica che ho denominato “Foundation negative” (negativo di partenza, di base - ndT). Se il negativo di base, per quanto le ombre possano essere flebili, contiene luci, ombre e toni medi in perfetto detta-glio, l’artista ha il potere di aumentare queste tre condizioni gradualmente e uniformemente, fino a portare le ombre all’opacità adeguata.

46 La “tintura di Iodio” è usualmente costituita da Iodio elementare al 7% con Ioduro di Potassio (o di Sodio) disciolto in acqua ed etanolo. Il ruolo dello ioduro e dell’acqua nella soluzione è di aumentare la solubilità dello Iodio elementare, portandolo alla sua forma solubile I3

−. Tuttavia, poiché lo Iodio ha una moderata solubilità in etanolo, è assistito dalla presenza di questo solvente. Lo Ioduro di Potassio è aggiunto perché fa sciogliere una maggior quantità di Iodio.

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Alla fine di questo stadio, le soluzioni di fissaggio hanno un effetto minimo se non nullo, il che sembra di-mostrare che lo Iodio giallo-grigiastro è stato tutto convertito in un film di metallo insolubile o di qualche sale insolubile d’argento. Non è necessario fissare. Basta sciacquare bene l’immagine e poi farla asciugare e verniciarla.” 47

Ingredienti

Iodio (parte A)

tintura di Iodio in acqua (quando è rossa come un vino)

Risviluppo (parte B)

H2O 500 ml

Acido Citrico 6g

Acido Pirogallico 1 g (o ferro solfato 1 g)

Alcool etilico 10 ml

Parte C

Nitrato d’argento 2-5 ml(al momento dello sviluppo)

47 Towler, The silver sunbeam. ibid.

Stampa in ziatipia del negativo riprodotto a pagine 184-185. Si tratta di un negativo non intensificato, mantenuto tale per poter essere stampato con tecniche adeguate a negativi poco contrastati, come la stampa argentica o in questo caso la Ziatipia.

8 - Negativi al Collodio

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Non è strano che durante la seconda metà dell’800, la tecnica fotografica più utilizzata nel mondo occidentale sia stata oggetto di manipolazioni creative di ogni genere. Queste, che presentiamo, sono

quelle più interessanti non solo come dato storico, ma anche per le ricadute pratiche che possono essere di nostro interesse.

Riproduzione su collodio di immaginiRiproduzione di Immagini positive

per proiezione...Proiettando un’immagine su

una lastra sensibilizzata se ne può ottenere una riproduzio-ne ingrandita. Naturalmente dobbiamo partire da immagini positive. Otterremo un positivo se le tratteremo come ambroti-pi o un negativo, a sua volta da stampare con una tecnica qual-siasi, se le tratteremo come ne-gativi.

Le immagini di partenza pos-sono essere in bianco e nero o a colori. Se si parte da pellicole da proiettare con ingranditori fo-tografici, il sistema più semplice è utilizzare diapositive. Qualcu-no potrebbe avere qualche trasparenza positiva in bianco e nero, che anni fa erano prodotte, ma oggi non si trovano più. L’alternativa è un internegativo (che è positivo) o un file digitale.

Si mette la lastra di vetro con il collodio sensibilizzato, l’emulsione in alto, sul piano di proiezione dell’ingran-ditore, e si proietta l’immagine per un tempo che verrà predeterminato con esposizioni progressive come per un abituale provino di stampa. Ognuno troverà i suoi tempi, ma per avere un’idea grossolana, con un Durst M600 ho ottenuto questa riproduzione di un 6X6 su lastra 20X25 (lato maggiore a pieno fotogramma) a f/8 per 40 secondi (fig. 9.1). Si possono proiettare immagini digitali da videoproiettori, con lo stesso concetto.

Fig. 9.1 Ambrotipo su vetro trasparente 20x25 cm, ottenuto per proiezione della dia-positiva a fianco, formato 6x6 attraverso ingranditore Durst. Sviluppo in tradizionale solfato ferrosi, fissaggio in KCN.

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Il Rosso d’India per l’incarnato e la Vernice dorata per la gioielleria furono i colori più in voga. Oggi si possono

utilizzare sia pigmenti disciolti in soluzioni alcooli-che, sia acquerelli o colori all’anilina, che possono

essere solubili in acqua o in alcool.

Un problema risiede nella scarsa adesione soprattutto di materiali acquosi come acque-relli o aniline all’acqua; se invece si passa a materiali alcoolici insorge un secondo proble-

ma, che è l’effetto di “spandimento”, oltre i confini delle pennellate. Il materiale al-coolico può anche essere ulteriormente diluito e trasportato per la lastra al mo-mento della verniciatura con sandracca.

Per tutti questi motivi venivano utilizza-ti leganti come la gomma arabica (arabic gum) per

pigmenti idrosolubili o la gomma lacca (shellac) per quelli solubili in alcool, che oggi possono essere reperiti in negozi che

abbiano materiale da restauro o di belle arti, e anche dai rivenditori di materiale chimico.

Nel caso si utilizzino acquerelli (che però sono un po’ opachi rispetto ad altri pigmenti) è preferibile in-corporare della gomma arabica in soluzione acquosa. La gomma arabica è una gomma naturale. Si estrae da specie di acacia subsahariana e pertanto è chiamata an-che gomma d’acacia. Chimicamente è una miscela di polisaccaridi e glicoproteine, per cui non solo non è tossica ma anche commestibile (entra per esempio nel-le caramelle gommose e nei soft drink). I pittori l’han-no utilizzata frequentemente. Si presenta tipicamente in boccole, tonde, di un bel colore ambrato ma un poco spento a meno di vederle controluce (fig. 9.5). Si scio-glie facilmente in acqua, anche se la sua dissoluzione richiede qualche giorno. Se è di buona qualità ha anche dei residui che richiedono – dopo averla sciolta – una filtrazione. È la stessa che si utilizza in fotografia per esempio per la gomma bicromatata.

Se si usano pigmenti o aniline55 si può adoperare gomma lacca, dando la preferenza a quella “decerata”, cioè sbiancata, che è più trasparente. La gomma lacca è una sostanza naturale, prodotta come secrezione da alcuni insetti dell’ordine degli emitteri Kerria lacca. La

55 Reperibili in colorifici: le aniline, utilizzate prevalentemente per il legno dei mobili, possono essere solubili in acqua o alcool.

Fig. 9.6 Gommalacca decerata in scaglie, immediatamente dopo l’aggiunta di alcool, un paio d’ore dopo e a dissoluzio-ne pressoché completa.

Fig. 9.5 Gomma arabica in boccole.

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Non ci sono rischi di ipertrattamen-to, ed è invece importante che la lastra rimanga nel liquido fino alla fine del processo, altrimenti i bianchi rischia-no di ritornare grigi mentre asciugano e diventare blu freddi per effetto del sublimato.

Al termine del processo si lava più volte e si fa asciugare su una lampada a spirito. A questo punto si passa alla prima stesura di vernice che dà traspa-renza alle ombre senza danneggiare i bianchi. L’operazione successiva è la coloratura a mano sulle luci.

Di norma l’alabastrina non viene laccata ma montata su velluto nero, per non danneggiare il film.

Ambrotipi bluLa tecnica di cui stiamo per parlare non è una tecnica tradizionale. Emerge da un errore e dall’averlo messo a

frutto. Come tale è originale e non ha traccia nella documentazione che ho avuto modo di leggere o di trovare in Internet. C’è una sola segnalazione di qualcosa di simile56, che ho rinvenuto cercando in rete dopo aver pun-tualizzato il metodo; la segnalazione in oggetto segnala questa possibilità come piacevole curiosità senza però precisarne i meccanismi e senza riportare un passaggio che a mio parere va effettuato per ottenere chiarezza e trasparenza, come si comprenderà leggendo.

Il processo in breveSi tratta essenzialmente di un positivo denso, in cui il Nitrato d’Argento è convertito a Ioduro d’Argento. La

colorazione gialla intensa del deposito responsabile della formazione dell’immagine appare blu (colore comple-mentare) per effetto della rifrazione, se osservato in luce riflessa contro fondo nero.

Come è accaduto: errori e sogniOgni scoperta in ambito conoscitivo e in particolare in campo scientifico deriva da un’intuizione che neces-

sita di un momento non logicamente deducibile dai suoi antecedenti; in caso contrario non si tratterebbe della scoperta di una novità, ma dello sviluppo del già conosciuto. Questo momento che l’epistemologia chiama euristico, può essere innescato da diversi fattori.

Uno di essi, forse il più frequente nelle scienze biologiche, è quello che gli inglesi chiamano “serendipity”. Termine non traducibile in italiano se non formulando neologismi, indica un insieme di fatti casuali che con-corrono a provocare un avvenimento positivo, una “felice coincidenza”. Il termine indica dunque sia l’imbattersi in qualcosa per caso, sia la capacità di collegare fra loro fatti apparentemente insignificanti arrivando a una conclusione preziosa, il più delle volte un’ipotesi che attende di essere sottoposta a verifica per dimostrare la sua

56 http://www.jurokovacik.com/blog/2015/1/Redevelopment-and-overdose-with-tincture-of-iodine

Alabastrina al collodio. Vedi testo per la descrizione. A sinistra dopo il tratta-mento con il sublimato corrosivo, a destra dopo verniciatura e coloratura ad acquerello sul verso della vernice. Pertanto la lastra viene guardata dalla parte del vetro e l’immagine non è più speculare, ma diritta.

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l’uniformità del risultato. Il processo richiede qualche minuto. Il colore grigio diventa bianco-giallo, e poi decisamente giallo, mantenendo i dettagli dell’immagine. La soluzione perde di densità e si schiarisce, ma a differenza del processo usuale per negativi non diviene incolore. La lastra invece diventa uniforme-mente gialla, iniziando del centro e dalle zone più sottili. Non si corre rischio di sovratrattamento, per cui se avete dubbi, proseguite. Guardate bene eventuali aree grigie in cui il trattamento è incompleto: queste sono destinate a diventare grigio scure con riflessi argentei, che nell’immagine finita ricordano quasi un effetto Sabattier.

4. lavare con cura la lastra fino a che l’acqua fluisce regolarmente e non più come su una superficie grassa5. Opzionale: esporre la piastra a luce UV (lampade UV, sole) per almeno un minuto. Aumenta un poco la

densità e il contrasto. Adesso avete una immagine gialla, ma ancora un poco opaca e a tonalità verdastra se vista contro un fondo nero.

6. immergere la lastra in una vaschetta nera riempita con il secondo bagno di tiosolfato al 5%. osservarla con cura mentre si mantiene l’agitazione. L’immagine schiarisce e guadagna in saturazione e contrasto, si pulisce dal fogging e diventa cyan pallido. Ci vogliono di norma 20-30 secondi. Dopo questo tempo il fissativo inizia a ridurre l’immagine con rapidità ed è bene lavorare vicino ad una vasca piena d’acqua per arrestare il fenomeno appena siete soddisfatti

7. lavare in acqua corrente o cambiare frequentemente il bagno, per 30-40 minuti. Asciugare e verniciare come di solito. Rendere nero il retro del vetro come per un ambrotipo.

Collodio a secco (Dry collodion process)58

ConsiderazioniL’esposizione di una lastra di collodio sensibilizzata e lasciata asciugare non produce immagini latenti svilup-

pabili. Il trattamento della lastra che viene operato in questo processo ha lo scopo di preservarne la sensibilità a distanza di tempo. Abitualmente la sensibilità che si ottiene è bassa, ma in cambio uniforme e stabile nel tempo, consentendo di avere un processo affidabile e ripetibile.

Se una lastra sensibilizzata viene lavata dall’argento in eccesso e poi trattata con conservanti adeguati (al-bume, acido tannico, gelatina, miele, malto, glucosio…) detiene una fotosensibilità sufficiente per consentire la produzione di negativi, purché sviluppata con sviluppatori sufficientemente energici. L’ipotesi è che questi trattamenti mantengano la permeabilità del collodio agli agenti sviluppatori, mentre l’essiccazione spontanea chiuderebbe tutti i pori della matrice di piroxilina, ma tale ipotesi è tutta da provare.

I processi più in voga nell’800 erano il processo all’Albume, il processo al Collodio-Albume di Taupenot, il processo alla gelatina del Dr. Hill Norris, il processo alla Resina di M. Desprats, con le varianti della vernice all’ambra (M. Dubosq), e del trattamento con soluzioni di destrina (M. Dupuis). Per la sua semplicità e per l’efficacia, l’ultimo di questi processi, quello all’acido Tannico (o al Tannino) di Major Russell è stato maggior-mente utilizzato e ancor oggi rimane – per chi ci si vuol cimentare – quello più consigliabile. Uno dei vantaggi

58 Come ho detto nell’introduzione, questo libro parla solo di tecniche sperimentate verificate da me, ma con l’eccezione del processo a secco. Per scriverlo e redigerlo ho verificato le informazioni dei trattati antichi e le ho incrociate con le risorse presenti in Internet cercando di farlo con la maggior cura possibile, ma soprattutto ho sottoposto il testo a Charles Guerin, che pratica questa tecnica con il metodo al tannino, con risultati che in parte vedete qui e in parte potete esplorare su flickr, e al quale sono riconoscente e in debito. Merci Charles.

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9 - Altre cose da fare con il collodio

di questo metodo sembra essere quello di favorire una miglior uniformità nella sensibilità lungo tutta la super-ficie della piastra e di rendere il processo stabile in presenza di soluzioni di collodio di diverso tipo e diversa età. Vedremo però che lo stesso Russell introduceva come elementi aggiuntivi non solo la gelatina, ma anche l’ambra o il caucciù (gomma d’India), proposti in teoria solo a scopo meccanico, per migliorare l’adesività dello strato di collodio al vetro, ma forse non senza qualche favorevole interazione con la struttura finale del collo-dio stesso. Per chi fosse interessato a manuali antichi, sono reperibili il libro di Major Russell e quello di John Towler, che oltre al già pluricitato “The Silver Sunbeam”, ha pubblicato anche “Dry Plate Photograhy or The Tannin process. Made simple and practical for professionists and amateurs”59

Può essere di stimolo ai più reticenti, dall’introduzione del Towler, questa esortazione che suona così:

The peculiar advantages of Dry Plate Photography are but little understood by the ordinary photographic operator; and, when these advantages are understood and recognized, there is a difficulty in withdrawing the artist from the general routine of the wet process, whose results are so easily and quickly obtained, to bestow his attention on a process whose results are invisible, and depend entirely upon the educated experience of the workman and the accuracy of his workmanship, a structure, in fine, built upon faith.

I vantaggi peculiari della Fotografia a Lastra Secca sono poco compresi dal comune fotografo; e quando sono capiti e riconosciuti, si fa fatica a sottrarre l’artista dalla routine generale del processo umido, i cui risultati sono così facilmente e rapidamente ottenuti, per prestare la sua attenzione ad un processo i cui risultati sono invisibili, e dipendono interamente dell’esperienza educata dell’operatore e dall’accuratezza della sua abilità, una struttura, in fondo, costruita sulla fede.

Il collodio secco è stato impiegato per produrre negativi, cioè immagini da utilizzare in trasparenza, che possono anche essere immagini positive per proiezioni di lanterne magiche, stereoscopia, vetra-te, quando si ottengano per duplicazione di negativi generati con metodica tradizionale o a secco (v. pag.223-224). Lo sviluppo in acido pirogallico contribuisce al deposito di un argento che non è adatto a fare degli ambrotipi, benché qualcuno li produca, come Charles Guérin, di cui sono ripro-dotti due ambrotipi a secco.

Metodo al tanninoI tannini sono composti polifenolici di origine vegetale che vengono commercializzati – purificati – sotto

forma di acido tannico. Sono contenuti nei vini rossi, e poiché precipitano le proteine della saliva, hanno l’effetto astringente tipico dei vini che ne sono ricchi. Le proprietà di combinarsi con proteine animali formando com-plessi insolubili sono alla base del loro impiego come conservanti, essendo in grado di impedire la putrefazione. Sono sfruttati per esempio nella concia delle pelli per la manifattura del cuoio. Sicuramente a partire da questi presupposti, forse sfruttando queste stesse proprietà, sono stati impiegati come “preservatives” (conservanti) per ottenere il Dry collodion.

Uno sguardo d’insiemeLa lastra è trattata con collodio e poi sensibilizzata come per un usuale collodio umido. Viene lavata per

eliminare il nitrato d’Argento in eccesso e posta in un bagno di Acido Tannico al 3% per qualche minuto, che

59 Disponibili entrambi agevolmente digitando autore e titolo a: https://archives.org

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Fascino e rigore del collodio

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Charles Guerin © 2014. Lastra a collodio secco. Processo di Russell o al tannino. Obiettivo Boyer néryl, fotocamera M.P.P. Esposizione 50 sec, f/11

Comunque è preferibile preservare il contrasto piuttosto che ridurre i tempi di esposizione a sue spese. Quin-di dosaggi ridotti di tannino sono consigliabili specie per esterni assolati dove il fogliame, i riflessi e le ombre sono spesso componenti essenziali dell’immagine che si desidera riprodurre.

Togliendo le lastre dall’acqua, si lavano con poca acqua distillata per rimuovere i sali presenti, quindi si pre-parano due bechers (o due bicchierini) ognuno con 30-40 ml di soluzione diluita di tannino per ciascuno, se si parte dalla soluzione stock aggiungendo anche nella prima 0,5 ml di etanolo e 1 nella ultima: il ruolo dell’alcool è quello di far penetrare più efficacemente e quindi più uniformemente il tannino nel collodio. Si pone la lastra su un supporto in bolla e si versa il primo becher, cercando di farlo fluire su tutta la lastra: lo scopo è di rimuo-vere l’acqua superflua e preparare la lastra per una applicazione più uniforme: il liquido si versa, si raccoglie, lo si versa ancora qualche volta. Poi si pone la lastra in verticale, si fa drenare il liquido e si tratta con la seconda quantità di soluzione. Preparando più lastre e lavorando in serie si garantisce un procedimento snello e al tempo stesso un contatto prolungato che fa sì che il tannino, veicolato dall’alcool, impregni profondamente il collodio.

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Sostituzioni di chimici

AlcaliMolti alcali possono essere sostituiti con altri, se all’interno di una particolare famiglia. Si sostituiscono alcali

deboli con deboli, caustici con caustici, intermedi con intermedi. Anche modificare radicalmente una molecola potrebbe avere effetti indesiderati. In caso di dubbi occorre fare dei test.

Se la formula dice e invece hai in casa moltiplica per

Borace deca Borace, penta 0,76

Borace penta Borace, deca 1,32

Potassio carbonato anidro Sodio carbonato mono 0,90

Sodio carbonato mono Potassio carbonato anidro 1,12

Potassio idrossido Sodio idrossido 1,40

Sodio idrossido Potassio idrossido 0,72

Altre sostituzioni

Se la formula dice e invece hai in casa moltiplica per

Acido acetico glaciale Acido acetico 28% 3,54

Acido acetico 28% Acido acetico glaciale 0,28

Potassio metabisolfito Sodio metabisolfito 1,17

Sodio metabisolfito Potassio metabisolfito 0,855

Sodio tiosolfato anidro Sodio tiosolfato cristallino 1,57

Sodio tiosolfato cristallino Sodio tiosolfato anidro 0,64

Bromuro di Sodio Bromuro di Potassio 1,16

Bromuro di Potassio Bromuro di Sodio 0,86

Sodio solfito cristallino Sodio solfito anidro 0,5

Sodio solfito anidro Sodio solfito cristallino 2,0

Sodio CarbonatoEsiste in tre forme. Abitualmente si fa riferimento alla forma monoidrata, più stabile. Potrebbe essere che ci

si imbatta in formule che specificano la forma anidra o quella cristallina, o che in condizioni di emergenza si trovi solo una delle forme. Usate queste conversioni:

Se la formula dice e invece hai in casa moltiplica per

Sodio carbonato, mono Sodio carbonato anidro 0,855

Sodio carbonato, mono Sodio carbonato cristallino 2,31

Sodio carbonato anidro Sodio carbonato, mono 1,17

Sodio carbonato anidro Sodio carbonato cristallino 2,7

Sodio carbonato cristallino Sodio carbonato, mono 0,433

Sodio carbonato cristallino Sodio carbonato anidro 0,37

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Postfazione

Sono convinto che nulla succeda per caso, e credo di averne conferma anche questa volta.

Giorgio Bordin avrebbe potuto scrivere questo libro anche senza essere socio del Gruppo Rodolfo Namias, ma le sue fatiche sono giunte a maturazione, e a prendere finalmente forma concreta, a circa due anni dal suo ingresso nel GRN. Questa e la prossima opera di Giorgio “Il sapore del sale - Carta salata, albumina e aristotipia” si collocano perfettamente nell’ambito degli scopi istituzionali del GRN i quali, citando e riassu-mendo, sono: la riscoperta, lo sviluppo in tutte le sue forme e l’elaborazione dei processi fotografici sia storici che alternativi a quelli industriali di massa, dai quali si distinguono per la prevalente componente manuale che li caratterizza, e la promozione, lo sviluppo e l’incremento della conoscenza e della diffusione delle Tecniche stesse. Scopi che sono del Gruppo ma che sono coniugati al singolare dai soci come fossero i tanti tasselli di un unico grande puzzle.

Assistiamo spesso, e Internet ne è la cassa di risonanza, alla perpetuazione di numerosi copia-incolla che tol-gono la speranza di leggere qualcosa di originale, contribuiscono a instillare dubbi sulla credibilità di un autore, e di avere la “prova provata” che quanto scritto funzioni davvero. Come il lettore avrà visto, ciò non succede con Giorgio Bordin, che ha davvero messo le mani nella materia, affrontando le difficoltà e risolvendo i problemi che inevitabilmente si presentano nel cammino verso l’immagine perfetta. Malgrado nella sua terza premessa egli si definisca un pasticcione, un libro come questo si può scrivere solo avendo passato molte ore a stendere il collodio e preso molti appunti, sia dei successi sia dei fallimenti. A dire il vero, credo che anche Giorgio, all’odore del collodio, preferisca il profumo dell’olio di lavanda: non solo per ragioni olfattive, ma anche perché è il segnale che la propria opera è arrivata a compimento ed è giunto il momento di contemplarla prima di ricominciare un’altra avventura.

Certo, non di sola tecnica vive il fotografo, ma anche di ispirazione e di contenuti che devono però incon-trarsi e trovare la giusta armonia per poter dare vita a una vera opera d’arte. Di sicuro, soprattutto leggendo i primi due capitoli, ognuno avrà avuto modo di riflettere anche sul proprio modo di intendere e fare fotografia, intravedendo nuove prospettive.

Il mio augurio a Giorgio è di continuare sulla strada intrapresa, trovandone le giuste soddisfazioni, e ai lettori di mettere in pratica quanto hanno appreso, con un occhio al passato per quanto riguarda la tecnica e uno al futuro per quanto riguarda le immagini: Di sicuro, ci sarà sempre chi guarderà solo la tecnica e si chiederà “come”, mentre altri di natura più curiosa si chiederanno “perché” (Man Ray).

Alberto Novo

Presidente Gruppo Rodolfo NamiasAntiche Tecniche Fotografiche

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nticheTecnicheFotografiche

Fascino e RigoRe del Collodioil collodio umido positivo e negativo

GiorGio Bordin

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Gu

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AB

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le antiche tecniche fotografiche, o per altri le tecniche fotogra-fiche alternative, stanno vivendo un movimento di ripresa che le vede protagoniste di una nuova stagione di fotografia ana-logica; nel tentativo di riappropriarsi di un gusto artigianale nella produzione di immagini fotografiche o di espandere le potenzialità comunicative con una tavolozza di possibilità più estesa e differente dalla stampa in gelatina argentica. Alcune tecniche hanno lo scopo di realizzare negativi o positivi in camera, altri di stampare questi stessi negativi, ma anche negativi tradizionali e digitali. il percorso che consente di arri-vare alla produzione di una fotografia tecnicamente ineccepi-bile è lungo e laborioso, sfida contemporaneamente le cono-scenze, le abilità e le competenze, dando però risultati spesso entusiasmanti. i volumi della collana Antiche tecniche fotografiche offrono la pos-sibilità di raccogliere elementi conoscitivi avanzati per affron-tare i processi trattati, partendo da fondamenti documentati in una solida bibliografia, ma sempre verificati nella pratica concreta dell’autore; cercano di far ordine in un’informazione entropica quale quella di internet, in cui la quantità delle in-formazioni diventa inversamente proporzionale alla profondità delle conoscenze. destinata ad un pubblico italiano in un mon-do ormai anglofono, la scelta della lingua consente infine un approccio più rilassato ad una materia tanto complessa.

Giorgio Bordin, classe 1958, è medico a Parma, dove risiede. la contemporanea passione per l’arte e per la medicina ha se-gnato il fil rouge di tutta la sua esperienza, in cui l’arte medica coesiste con la pittura, il disegno, l’incisione e la fotografia. Negli ultimi anni si è avvicinato alle tecniche fotografiche “an-tiche”. in campo fotografico, oltre alla stampa argentica tradi-zionale, realizza positivi diretti o stampe da negativi analogici di grande formato nel campo della Calotipia, Collodio umido (positivo e negativo), Carta salata, Aristotipia, Stampa all’Al-bumina, Platinotipia, Cianotipia, Kallitipia, stampa vandyke, fotografia stenopeica.

GuaraldiLAB49,90 ¤

ISBN 978-88-6927-214-1in copertina Chiara. Ambrotipo su vetro chiaro, 20x25 cm. Petzval Hermagis Portrait lens (1855 circa). luci artificiali. f3.6, 7 secondi di esposizione. Collodio New Guy. Sviluppo standard in Solfato ferroso, fissaggio in KCN, verniciatura in Sandracca.

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