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HOMO FABER FORTUNAE SUAE La bicicletta somiglia, più che ad ogni altra macchina, all’aeroplano: essa riduce al minimo il contatto con la terra, e soltanto la sua umiltà le impedisce di volare. Mauro Parrini, A mani alzate Anno I_numero 06 Maggio-Giugno 2011

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La bicicletta somiglia, più che ad ogni altra macchina, all’aeroplano: essa riduce al minimo il contatto con la terra, e soltanto la sua umiltà le impedisce di volare.

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HOMO FABER FORTUNAE SUAE

La bicicletta somiglia, più che ad ogni altra macchina, all’aeroplano: essa riduce al minimo il contatto con la

terra, e soltanto la sua umiltà le impedisce di volare.Mauro Parrini, A mani alzate

Anno I_numero 06Maggio-Giugno 2011

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Direttore responsabileAmelia Beltramini

EditoreAps FaberVia Cimarosa, 26 - 20144 Milano

RedazioneLorenzo Aprigliano,Silvia Aprigliano,Alessandro Baggia,Bertone Biscaretti,Nicolò Cambiaso,Maddalena Cirla,Chiara Francavilla,Cecilia Foschi,Andrea Gavazzi,Matteo Legnani,Valentina Marini,Taddeo Mecozzi,Matteo de Mojana, Filippo Montalbetti,Erica Petrillo,Giulio di Rosa,Alessandro Sarcinelli,Matilde Sponzilli,Marcella Vezzoli,Orlando Vuono

CollaboratoriAnna Crosta,

Progetto_graficoLorenzo Aprigliano[[email protected]]http://papalawrence.tumblr.com

FotografiAlvise Cambiaso

DisegniLaura Adorno

CopertinaGIULIA ZAFFARONI

Questo giornale, con la sua massa di parole, è stato prodotto in qual-che decina d’ore da un gruppo di persone non infallibili, che la-vorano con pochi mezzi in una minuscola redazione e cercano di scoprire cosa è successo nel mon-do da persone che a volte sono riluttanti a parlare, altre volte op-pongono un deciso ostruzionismo.Tuttavia sarete sorpresi di scoprire che gli articoli qui presenti non sono frutto di compromessi coi proprietari e gli inserzionisti, in quanto stranamente né gli uni né gli altri esistono.[di David Randall da “Il giornalista quasi perfetto”]

[email protected]@fabergiornale.it

www.fabergiornale.it

RegistrazioneRegistrazione presso il Tribunale di Milano n. 576 del 5/11/2010

Anno INumero 6

Centro StampaLoretoprint, la tipografia digitaleVia Andrea Costa, 7 - 20131 MilanoTel. 02 2870026 (r.a.)[[email protected]]

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PISTE PER TUTTI (E STAVOLTA L’HOLLYWOOD NON C’ENTRA)Negli ultimi mesi prima delle elezioni amministrative un centinaio di folletti as-soldati da Willie Wonka ha fatto magicamente comparire una serie di nuove piste ciclabili per le vie di Milano.In certi casi si tratta di piste vere e proprie, vale a dire con infrastrutture spartitraf-fico che separano lo spazio destinato alle bici da quello per le automobili, come in corso Venezia o in via Vittor Pisani. Altrove sono comparse solo delle corsie tracciate sulla normale carreggiata. In questi casi la progettazione lascia molto a desiderare.

Per esempio, nella cerchia dei Navigli, partendo da via Carducci, i tratti di corsia si interrompono regolarmente a ogni incrocio e a ogni fermata dell’autobus. Inutile dire che la presenza costante di auto in sosta sulla pista appare per il momento ampiamente tollerata.

Scontato che una strategia elettorale del genere non fa onore a una città che si av-vicina all’Expo e che si propone come metropoli europea e capitale dell’economia, constatiamo con amarezza che questo progetto, frettoloso e scriteriato, agevola ben poco la vita del ciclista milanese.Chi sceglie di muoversi con un velocipede andrebbe tutelato e protetto; viceversa la nostra politica cittadina sceglie di privilegiare l’automobilista, incoraggiandolo a spostarsi sempre più spesso sulle 4 ruote. Si tratta di una scelta culturale con la quale facciamo i conti tutti i giorni.

Il sito ufficiale di Letizia Moratti riporta che Milano dispone di 73 km di piste ci-clabili, contro i 320 di Copenaghen e i 1500 di Helsinki, e che si prevede di arrivare a 195 per l’Expo del 2015.Così si esprime l’assessore allo Sviluppo del territorio Carlo Masseroli. «Milano ha 600 auto ogni mille abitanti, più di Londra, Parigi, Copenaghen, e pensare di eliminare le macchine è una partita persa». Certo, l’eliminazione dell’automobile rimane un’utopia, ma queste parole sono il segno di una scelta politica ben precisa e poco lungimirante. La Germania, patria delle maggiori case automobilistiche, è il paese con più piste ciclabili al mondo. Boris Johnson, primo cittadino londinese, manifesta da sempre l’intenzione di portare Londra a misura di bicicletta.Allo stesso modo Milano può essere a misura di auto, di bicicletta o di pedone. La città è come la facciamo noi.

Matteo de Mojana

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faber_Milano /5MILANO POPOLAREa cura di Alessandro Sarcinelli

faber_Milano/16STORIE DI AMBULANTIdi Andrea Gavazzi e Orlando Vuono

faber_Milano/22UNA COINCIDENZA ORGANIZZATA ALL’OMBRA DEL DUOMOdi Valentina Marini

faber_Milano/24UNA SFIDA TRA I GRATTACIELIdi Silvia Aprigliano e Marcella Vezzoli

faber_Cinema/26RECENSIONE DI HABEMUS PAPAM DI NANNI MORETTIdi Matteo de Mojana e Anna Crosta

faber_Teatro/27RECENSIONE DI FINALE DI PARTITA DI BECKETTdi Matteo de Mojana e Anna Crosta

faber_Racconto/28NOTTURNO IN MI MINORE [1.0]di Giovanni Pirelli

faber_l’ultima parola/34CASAa cura di Chiara Francavilla

faber_Milano/18INTERVISTA A MAURIZIO AMBROSINIdi Erica Petrillo e Anna Crosta

faber_Milano /8STORIE AL CIOCCOLATOdi Cecilia Foschi

faber_Milano /20ILDA BOCCASSINI RACCONTA LA ‘NDRANGHETA A MILANOdi Taddeo Mecozzi

faber_Milano /11GHOST HOUSESServizio fotografico di Nicolò e Alvise Cambiaso

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MILANOPOPOLAREVIAGGIO NELLE PERIFERIE MILANESI: TRA APPARTAMENTI VUOTI, SPACCIO E AMIANTOIN FASE DI DISGREGAZIONEA cura di Alessandro Sarcinelli

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M.V. ha 56 anni, vive grazie a un respiratore per l’ossigeno e da un mese dorme in macchina. Secondo il comune di Milano il suo reddito non è sufficien-temente basso per dargli diritto

all’alloggio in un quartiere popolare. In città, gli appartamenti inutilizzati delle case popolari, in gestione Aler, sono circa 5000. Rico-noscerli non è difficile: una lastra di acciaio nero alta due metri fissata davanti alla porta rende l’en-trata impossibile.Da Quarto Oggiaro a Grattosoglio passando per Calvairate e Giambellino, gli appartamenti lastra-ti sono in continuo aumento.

LA CRIMINALITÀLa criminalità organizzata però non si fa intimo-rire da una lastra di acciaio e negli anni ha saputo creare un racket sugli appartamenti inutilizzati. I clan palermitani e napoletani hanno molti infor-matori all’interno dei condomini; quando sco-prono un alloggio vuoto, prima che l’Aler lastri l’appartamento, forzano la porta e cambiano la serratura. Ci sono persone che pagano ai clan cifre tra i 2000 e i 3000 euro solo per avere le chiavi e occupare quindi abusivamente gli appartamenti. In alternativa gli alloggi vengono direttamente utilizzati dalle famigile malavitose: tra queste

mura si spaccia, si obbligano giovane ragazze a prostituirsi e si smontano pezzi di motorini e macchine rubate per rivenderli.A Febbraio la polizia locale, nel quartiere Niguar-da-Cà Granda, ha sgomberato 8 appartamenti controllati dalla malavita. Ma il problema rima-ne, così come l’omertà: sono pochi gli abitanti che trovano il coraggio di denunciare. Tra questi c’è Franca Caffa, presidente del comitato inquili-ni Molise-Calvairate-Ponti: «È un mistero! Noi sappiamo indicare la scala precisa in cui si spaccia e sono più di 20 anni che segnaliamo e mandia-mo telegrammi ai questori. Ci sono addirittura agenti che abitano negli stabili, ma nulla cambia. Questà è la faccia della ’ndrangheta nelle case popolari».

IL DEGRADONella quotidianità delle periferie milanesi molti altri problemi si sovrappongono alla criminalità organizzata.Nelle cantine fino a 30 anni fa si faceva il vino e ci lavoravano piccoli artigiani; ora macerie, vecchie biciclette, sedie, tavoli e materassi rotti accumula-tisi nei decenni hanno ridotto a discariche questi spazi comuni. La situazione col tempo è peggio-rata, fino a quando, nell’ottobre del 2008, in via degli Etruschi (quartiere Molise) il comitato in-quilini ha cominciato a sospettare la presenza di

amianto in stato di disgregazione nelle tubazioni del riscaldamento, e lo ha segnalato alla dirigenza Aler. Sono trascorsi 102 giorni prima che l’Aler andasse a controllare l’effettivo stato delle tuba-ture e confermasse i sospetti degli abitanti: le tu-bazioni delle cantine di tutti i 23 civici del quar-tiere Molise-Calvairate sono isolate con amianto.La presenza di questo inquinante può provocare tumori alla pleura, la membrana che riveste i pol-moni, ai polmoni stessi e altre malattie croniche alle vie respiratorie.Data la pericolosa situazione l’Aler ha preso prov-vedimenti e fatto affiggere su tutte le tubature del quartiere un adesivo con la scritta “Attenzione contiene amianto”. Dopo due anni, anche se piut-tosto impolverati, gli adesivi sono ancora attacca-ti. I dirigenti Aler non si sono fatti più vedere.Nei solai, invece, la gente non entra più da anni perché macerie e rifiuti ostruiscono completa-mente il passaggio. Nel frattempo sono stati co-lonizzati da una sovrappopolazione di piccioni che nascono, crescono e muoiono in questi spazi, mettendo ulteriormente a rischio la salute degli abitanti: sono stati segnalati diversi casi di peri-colose punture di zecche di piccioni.Ma se gli spazi comuni sono in condizioni pe-ricolose, anche gli appartamenti non si posso-no definire confortevoli: le misure variano da 20 a 45 metri quadri, le cucine sono minuscole

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(80x160cm) e molti hanno i servizi nella came-ra da letto. Spesso il riscaldamento non funzio-na perché non ha lo sfiato per l’aria e così ¾ del calorifero rimane freddo. Per questo motivo, lo scorso inverno tutto il quartiere Salomone ha vis-suto a 9 gradi per più di due settimane. Chi può si arrangia con le stufette elettriche; gli altri accen-dono il forno e lasciano il portellone aperto.

GLI ABITANTILe condizioni materiali dei quartieri non aiutano gli abitanti a costruirsi una vita dignitosa. Le sta-stistiche descrivono una popolazione che ha pa-recchie difficoltà a inserirsi negli ingranaggi della capitale economica dell’Italia: il tasso di analfa-betismo è tre volte quello della media milanese, mentre quello di disoccupazione si attesta al 10% contro il 4,4% cittadino.Ma se vivere nelle periferie è complicato, cre-scervi è massacrante e la devianza giovanile è la norma.Al carcere giovanile Beccaria tutti i giorni arri-vano 8-9 adolescenti da Quarto Oggiaro. Sono i

ragazzi che, seduti sui booster, fanno da pali agli spacciatori. Sono i ragazzi che rubano per man-tenere le famiglie. Anche in questo contesto tutti sanno, compresa la polizia, ma nulla cambia.«A Quarto i giovani sono massacrati dal nulla. Milano sogna i miliardi dell’Expo e intanto lascia che i suoi ragazzi finiscano in galera per comprare la pasta e il pane alle loro famiglie», commenta Don Gino Rigoldi, cappellano di San Vittore; al momento ospita in casa sua 5 ragazzi di Quarto Oggiaro.Insieme alle famiglie in difficoltà e agli anziani, nelle periferie-ghetto milanesi sono confinati anche molti malati psichici; spesso sono perso-ne sole, disoccupate, con problemi di alcool e di droga. Lo stato di abbandono totale in cui versano de-termina comportamenti aggressivi nei confronti di se stessi e dei vicini di casa.Giuliano B. abitava nel quartiere Calvairate: in piena notte si metteva a urlare, i vicini lo temeva-no. Il pavimento della sua casa era interamente ricoperto da 25 cm di rifiuti, tanto che dalla sua

porta uscivano scarafaggi che scorazzavano an-che nelle case altrui. Nel settembre 2006 l’hanno trovato morto da una settimana, steso in mezzo ai rifiuti. Oggi molte persone continuano a vivere in condizioni simili.

ALERIl 28 aprile la procura di Milano ha accusato 6 persone di corruzione sulle gare di appalto per la gestione degli appartamenti; tra gli indagati figurano il direttore generale Aler e il direttore dell’area gestionale dell’azienda, Marco Osnato, consigliere comunale uscente del Pdl.Le indagini sono in corso. Laconico il commento di Franca Caffa: «Sono 30 anni che chiediamo traspararenza. Ma basta avvicinarsi a questi quar-tieri per rendersi conto che c’è tutto meno che trasparenza.Un fiume di denaro gira intorno ad Aler. Ma poi ci dicono che non ci sono fondi per ristruttare i condomini e gli alloggi. Chiediamo solo di fare chiarezza». Preferibilmente senza aspettare altri 30 anni.

FOTOa sinistra

Motorino bruciato a Quarto Oggiaro;in questa pagina

L’amianto sui tubi delle cantine;L’orgoglio di Quarto sui muri;

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R acconta una storia cinese che una grande montagna proiettava la propria ombra su un villaggio. Per mancanza di luce, i bambini crescevano rachiti-ci. Un bel giorno gli abitanti del paese videro il più anziano di loro uscire dal

villaggio con un cucchiaio di porcellana in mano. «Dove vai?» gli chiesero.E lui: «Vado dalla montagna per spostarla»«Con che cosa?»«Con questo cucchiaio»«Ma sei matto! Non ci riuscirai mai!»«Non sono matto, so che non riuscirò mai a spo-starla, però qualcuno deve pur cominciare».

«Ecco, io mi sento proprio così», dice Soledad al telefono.Se me l’avesse detto una settimana fa, avrei fatto fatica a crederci.La prima volta che l’ho vista stava appoggiata al cofano di una macchina, a braccia conserte, e fu-mava una sigaretta ormai finita. Aveva affrontato a muso duro una studentessa del Politecnico.«Senti bella, la macchina fotografica puoi anche spegnerla. Ma hai capito dove sei? Lo sai che la-voro stiamo facendo con il Comitato?». La stu-dentessa, rossa in faccia, aveva scosso la testa. Poi seppi perchè Soledad, detta Sole, era infastidita:

Una cioccolata calda in cambio di una storia. Il progetto nasce dall’idea di baratto, di economia del dono: otte-nere quello che si desidera dando in cambio qualcosa che ha un certo va-lore personale. La preparazione della cioccolata è un momento importante tanto quanto il racconto della storia, poiché è svol-ta con la massima cura. Lo scambio è dunque mutuale, basato sul valore d’uso, di utilità, in contrapposizione al valore commerciale, di mercato. Ma la questione va oltre le logiche econo-miche: il desiderio di vivere la strada, di scoprire come viene vissuta in una città come Milano che sembra vivere solo all’interno, è stato la molla che ha fatto scattare il tutto. Perchè la cioc-colata? Perché è buona, scalda anima e corpo, scioglie la lingua, aumenta le percezioni sensoriali e induce euforia. Così viene a crearsi un clima allegro, di complicità, che permette di condivi-dere, in poco tempo e in modo inten-so, una serata fatta di sguardi, risate, emozioni e, ovviamente, di tante, tan-te storie!

la ragazza era lì per fare un progetto di riqualifica-zione del territorio, e pretendeva la visita guidata in una casa occupata senza essersi informata sui problemi del quartiere.

Il Comitato Abitanti San Siro esiste dal 2009, anno di elezioni provinciali e di numerosi sgom-beri a campi nomadi e case occupate, anno in cui la gente del quartiere cominciò a unirsi e battersi per una riqualificazione dal basso.La voce roca e lo sguardo deciso di Sole, incor-niciato da occhiali a punta neri e dorati, si spo-savano bene con il suo modo di parlare alla gen-te: «Se vogliamo ottenere qualcosa dobbiamo batterci perseguendo i nostri obiettivi, solo così potremo attirare l’attenzione sulle nostre rivendi-cazioni».In generale, Sole era incisiva e rumorosa, soprat-tutto per la sua risata forte, da pirata. “Un pirata è tenerezza che esplode fiera” ,diceva il Subcoman-dante Marcos. È “soledad compartida”,ovvero so-litudine condivisa.Mi sono sempre piaciuti i pirati. Così sono tornata, con una cioccolata calda e un taccuino, con l’intento di raccontare la storia di chi, per necessità, è occupante di una casa.Ma come al solito, gli schemi sono fatti per essere infranti.

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UNA SERATA FUMANTE PER LE STRADE DI MILANO.

articolo di Cecilia Foschifoto del Comitato Abitanti S. Siro

illustrazioni di Laura Adorno

«La questione della casa (come del reddito, di-rei) mi colpisce in prima persona, ma mi piace-rebbe che l’accento venisse posto sul mio vivere nel quartiere. È in questo contesto che si è inseri-ta questa lotta, nata dalla necessità di attivarci su un bisogno reale» premette Sole, che mi accoglie allo Spazio Micene senza rimproverarmi del ri-tardo di oltre un’ora. Paolo, il compagno, smonta vecchi hard disk per farne gioielli. Il loro figlio, 9 anni, brucia un volantino; «è la Moratti!», dice, e la faccina da folletto si illumina in risposta al mio sorriso. La figlia di Sole, diciassettenne, è in giro con la sua Crew, canta hip-hop. Lo stereo sputacchia un groove reggae. Alle pa-reti i disegni dei bambini passati dal Centro in questi 18 anni di attività. L’atmosfera è casalinga, e mentre preparo la cioccolata in cucina, penso al percorso che ho fatto per arrivare: Amendola, Piazzale Brescia, San Siro. «Nella zona 7 una li-nea immaginaria, ma evidente, separa i quartieri residenziali da quelli popolari. Oltrepassando quella linea cambiano le case, i servizi, le perso-

ne», dice Sole. Ci troviamo nel quadrilatero at-torno alla centrale termica di Piazzale Selinunte. Gli architetti lo chiamano “impianto razionalista”. Negli anni ‘50 era un esempio di edilizia popola-re da imitare. Un pezzo di storia quindi. Oggi più che altro sembra un rudere: muri scrostati, fine-stre rotte, lamiere ai balconi. Ma alcune case sem-brano nuove. «Alcune lo sono, alcune lo sembra-no e basta: è stata ristrutturata solo la facciata. Il piano di ristrutturazione iniziato nel 2000 va a rilento. I lavori sono fatti alla buona, subappalta-ti. Quanto vuoi che siano qualificati degli operai che lavorano per 2 euro l’ora?».«Il problema della casa esiste da sempre», conti-nua Sole, «ma da quando sono arrivata, decenne, dall’Argentina, nel ‘77, non ho mai visto attuare una vera politica di abitabilità. Nei primi anni vivevo con gli zii, in uno stabile occupato in via Torino. Il movimento di occupazione ha una tra-dizione molto forte a Milano, perchè questa città ha sempre attirato la migrazione: prima quella interna poi quella del Sud del mondo. Il proble-

QUARTIERE SAN SIROSABATO 14 MAGGIO 2011, 19.30

SOLEDAD COMPARTIDA: SULLE CASE OCCUPATE E ALTRO ANCORA

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FOTOpiazzale Selinunte

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ma è sempre lo stesso: niente lavoro, niente casa. Fino agli anni ‘80 venivano assegnati interi stabili a famiglie bisognose, e le manovre erano gestite sia dai compagni sia dai rappresentanti garantisti di molte liste politiche. Poi, il “reflusso”: le stra-gi, le repressioni nelle fabbriche, l’eroina, il mito dell’imprenditoria... Ora l’occupazione è un pro-cesso diverso per ognuno: chi si trova un referen-te, chi si rivolge ai sindacati, chi ai comitati, chi alla lotta autorganizzata... siamo più di 500 fami-glie occupanti, ma nessuno ha pagato un mafioso per aprirgli casa, mentre a Quarto Oggiaro il ra-cket è chiamato “Gabetti” tanto è florido». Mentre Sole parla entra Mariela, una bella signo-ra domenicana. Le due donne discutono di figli e mamme: sono le fondatrici del progetto Dopo-scuola TuttiMondi, servizio gratuito e aperto al quartiere. Nato nell’ottobre 2008, è autorganiz-zato e autogestito, e, oltre al sostegno ai compiti, promuove la partecipazione attiva dei bambini a diversi progetti mirati. Perchè la cultura, dicono le due donne, non è accumulo passivo di nozioni, ma una risorsa e uno strumento per stimolare ca-pacità di pensiero e senso critico, unici mezzi per difendersi da violenza ed esclusione. In un quartiere come questo, le famiglie non pos-sono permettersi di iscrivere i figli ai corsi a paga-mento e gli abitanti “più imborghesiti” non per-mettono ai bambini di giocare nei cortili: ecco perchè TuttiMondi sta diventando un punto di riferimento fondamentale.Si è fatto tardi, e Sole mi invita a casa sua: una casa occupata, in cui vive dal 2000.«Tra i lavo-ri a scuola di educatrice, i laboratori musicali, le pulizie, e la mensa guadagno 800 € al mese. Dal

‘94 al 2000 ho vissuto a Baggio con mia figlia in un monolocale di 23mq, era diventato ingestibi-le; ho fatto concorso per due bandi, ma sono ri-masta fuori dalla graduatoria. Quando un’amica mi ha proposto di venire qua, mi sono trasferita subito». La casa è di 43 mq, e per non dormire sempre sul divano Paolo ha costruito un soppalco. Così il salotto è confortevole, pieno di libri, cassette, piccole opere d’arte. «È una casa atipica: si fanno discorsi intelligenti, si ascolta musica d’autore, ci si confronta su temi di attualità...(ride). I ben-pensanti hanno un’idea strana su chi occupa le case: ladri, drogati, clandestini...noi, come tutti gli altri qui, lavoriamo e abbiamo una famiglia. Siamo tutti precari, per cui non abbiamo un red-dito garantito, ma le bollette, la mensa ai figli, l’autobus li paghiamo. Fate un elenco delle cose necessarie alla sopravvivenza di quattro persone in un mese, e stateci con poco più di mille euro, tra me e Paolo». Nel tempo in cui finisce la siga-retta in silenzio, io ho già sforato coi conti. «Inol-tre Aler manda a tutti gli occupanti un bollettino da pagare; lo chiama “indennità di occupazione”, 741,21 euro a bimestre, ma questo non dà dirit-to a nessun contratto (il contratto Aler prevede un’ assegnazione con punteggio, e non riconosce il subentro, né in caso di cessione né in caso di morte del proprietario, a meno che non si fosse già co-intestatari. Mentre i contratti per luce e gas vengono stipulati per chiunque sia residente, ndr). Chiediamo solo il riconoscimento dell’oc-cupazione per necessità. A chi dice che non ne abbiamo il diritto perchè scavalchiamo i bandi, rispondo che solo a S. Siro per 500 case occupate

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ce ne sono altrettante vuote, le abbiamo contate. Aler potrebbe benissimo assegnare le case a tutti quelli che ha in graduatoria e dare a noi un con-tratto basato sul reddito, ma evidentemente non vuole».Dal terrazzino di casa, entrano le urla dei tifosi dello stadio («ma anche qualche bel concerto!», dice Paolo). Sole, avvolta in una coperta, riflette su quanto sia significativo che la maggioranza delle persone attive nel quartiere siano donne; di tutte le età e di tutti i continenti, ma unite per concretizzare un vissuto comunitario diverso. Parla lentamente, con la voce resa ancora più roca dalla stanchezza e dal fumo. «Quello che mi sta a cuore è determinare un modo diverso di vivere fin da subito, nel presente. La gente deve trova-re una risposta non tanto “alternativa”, quanto piuttosto attiva e autorganizzata ai suoi bisogni: il potere non è altro da sé, ma in noi. Siamo noi che determiniamo potenzialità, cammini possi-bili, governo diretto delle nostre vite, e non mera riproduzione di logiche che ci rendono schiavi e fomentano il massacro dell’individuo, del sociale e del meglio che potrebbe esserci a livello umano e fra le persone tutte». La storia dell’uomo cinese che vuole spostare la montagna si trova sulla Home del sito di Tutti-Mondi. Ora capisco perchè, al telefono, Sole mi ha detto di sentirsi come quell’uomo; se una sola frase potesse raccontare questa donna, scriverei, dopo questo breve incontro:

Con il pugno alzato, stretto intorno a un cucchia-io di porcellana.

FOTOLo spazio Micene di sera

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GHOST HOUSESViaggio tra i luoghi abbandonati della città. Edifici del centro storico pericolanti e ville rinascimentali in rovina chiamano vendetta; abbiamo cominciato a censirli in attesa che qualcuno, magari in vista di EXPO, si occupi di loro.

Servizio di Alvise e Nicolò Cambiaso

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L’edificio visto dal cortile interno I balconi sono in pessime condizioni, ma non c’è alcun cartello di pericolo

Nel quartiere dietro piazza Piemonte una vecchia fabbrica abbandonata occupa quasi un intero isolato. Perchè cementificare nuove aree, quando ci sono migliaia di metri cubi che si potrebbero recuperare?

Una rete di filo spinato protegge lo stabile deserto dalle intrusioni

Siamo a 500 metri esatti dalla porta del Duomo, in via della Palla 1. Un edificio in completo stato di abbandono da decenni si è trasformato negli anni in discarica a cielo aperto. Finalmente un mese fa, date le condi-zioni rovinose, è stato recintato e contornato da cartelli di pericolo. Non si vede tuttavia alcun cartello che indichi lavori di restauro, in corso o futuri.

Sul lato di via Torino il Comune ha costruito un parcheggio per auto e motorini. Tuttavia adesso è chiuso, perchè l’edificio non è in condizioni di sicurezza

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Lungo il Naviglio Grande, all’altezza del civi-co 66, si cela dietro un portoncino di legno un ampio cortile di ciottoli. Le piante crescono rigogliose e trasformano questo luogo in uno scorcio di città davvero suggestivo. «L’edifi-cio, di proprietà del demanio, è del ‘600», ci racconta un artigiano del posto. «Gli abitanti sono tutti stati spostati, e hanno murato le scale. È rimasto solo il nostro laboratorio, al piano terra. È un vero peccato che sia da così tanti anni in attesa di restauro, perché è un palazzo molto bello». Come dargli torto?

Nel dettaglio - le finestre dei piani alti sono state murate

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Dal punto di vista legislativo, non vi sono norme che obblighino i proprietari degli edi-fici abbandonati (siano essi privati cittadini o amministrazioni locali) a ristrutturarli e mantenerli in condizioni di decoro, nonché renderli utilizzabili. L'unico obbligo è inter-venire in caso di reale pericolo.Chi non rispetta questa norma è punito con una sanzione fino a 930 €; se l'edificio in ro-vina causa pericolo per le persone la pena può arrivare fino a 6 mesi di arresto.

[per riferimenti vd. art. 677 Cod. Penale]

I rampicanti coprono le mura di cinta e la torretta, alle cui finestre ormai mancano i vetri

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La foto è stata scattata da dentro il portone. Dove una volta c’era il soffitto ri-mane solo qualche trave; alcune piante separano le nostre teste dal cielo aperto

La luce che filtra dall’alto ci mostra l’interno della casa, completamente ingom-bro di piante e macerie. Probabilmente fu una bomba, durante la seconda guerra mondiale, a danneggiare così lo stabile

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1. Il lato ovest dell’edificio è completamente scrostato La torretta dell’edificio

Un tempo aveva sede qui anche la rinomata pasticceria Mellina, fondata nel 1930

Teatro Lirico “Giorgio Gaber”.

Situato a pochi passi dal Duomo, questo sto-rico teatro venne progettato da Piermarini assieme alla Scala, e costruito per essere il suo contraltare.Tuttavia, dopo secoli di gloria, versa in con-dizioni di totale abbandono. L’ultimo spet-tacolo risale agli anni novanta; da allora, è stato completamente spogliato di ogni arre-do ed è rimasto nascosto sotto impalcature per lungo tempo. Oggi le impalcature sono state tolte, ma come si può vedere dalle foto il lavoro è tutt’altro che concluso.Vedrà mai di nuovo il Lirico il suo originale splendore?

La facciata del Teatro Lirico che dà su via Larga

La facciata dell’edificio

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Nei vicoli tra via Torino e Corso Magenta, in pieno centro storico, c’è un affascinante quanto diroccata abitazione. L’edificio, si-tuato proprio accanto alla Taverna Morigi, è coronato da una torretta con tanto di bifore. L’ormai cronico stato di abbandono e l’as-senza di alcun cantiere lasciano intuire che rimarrà inabitato ancora a lungo.vi

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Poco lontano dalle discoteche chic di corso Como, circondata dai cantieri dei nuovi grat-tacieli di Garibaldi, questa casa giace in com-pleto abbandono. Si dice che a causa della sua pericolosità il comune avesse fatto spo-stare tutti gli abitanti e i negozi sottostanti, ma le impalcature che un tempo la copri-vano oggi sono assenti, così come qualsiasi traccia di restauro.

Dettagli dell’edificio

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Alcuni dettagli dell’edificio. Dell’originale smalto è rimasto ben poco Il vicolo accanto al teatro è transennato. Dalla facciatacadono infatti calcinacci e pezzi di intonaco

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VU CUMPRÀ DAVANTI ALLA STATALELaurearsi in meccanica automobilistica, per ritro-varsi a vendere accendini: il destino non è stato benevolo con Matar Gaye, senegalese di Dakar, sin da piccolo innamorato di motori. Con la sua laurea dovrebbe progettarli o elaborare strategie di sviluppo aerodinamico. E invece vende fazzo-letti, accendini, braccialetti, penne e incenso agli studenti della Statale di Milano. Chi non conosce i “vu cumprà” senegalesi dell’Università che fer-mano i passanti per convincerli a comprare qual-cosa. Ma chi sono? Da dove vengono? Quanto guadagnano? Dove vivono? Che cosa sognano?

Da sotto un cappellino bianco a visiera, Ismael, per gli amici “Is”, si racconta. A 20 anni, nel no-vembre 2006, è partito da solo con un volo Ke-bemer-Milano in cerca di lavoro, come tantissimi altri ragazzi africani. «Oggi le partenze stanno diminuendo» dice, «perché il racconto di chi

torna a casa è poco incoraggiante».

Sapeva a chi rivolgersi: aveva amici da tempo a Milano. È così ha iniziato a fare il “vu cumprà”. Oggi Ismael ha 25 anni e da ben quattro non vede Amina. la sua ragazza, rimasta in Senegal. Ma tut-ti i sabati e le domeniche riesce a chiamare lei e la sua famiglia con Skype. Vive con altri 5 ragazzi se-negalesi a Baranzate: dormono in tre per stanza, e pagano ognuno 100 euro mensili di affitto. Tolte le spese, alla fine guadagna molto poco: 10, 15 euro al giorno. e inoltre il lavoro non gli consente di ottenere un permesso di soggiorno: «Ho rifat-to la domanda l’anno scorso, ma niente».

I “vu cumprà” senegalesi, spiega, sono divisi in piccole squadre, capeggiate da un “boss”, che ha il compito di distribuire a tutti la merce da ven-dere. Merce che non arriva dall’Africa, ma viene acquistata all’ingrosso dai cinesi. Ogni squadra

I “VU CUMPRÀ” A MILANO

articolo di Andrea Gavazzi e Orlando Vuonofoto di Anna Crosta

STORIE DI AMBULANTI

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presidia sempre la stessa area e ai venditori vie-ne affidata una zona. Is fa parte del gruppo che presidia la Statale, resta sempre tra largo Richini e via Chiaravalle. Pranza come gli altri alla mensa, insieme agli studenti, ma mai tutti insieme: per non perdere clienti fanno i turni.Il “boss” della squadra di Is, si chiama Usman. Acconsente a rispondere alle domande, ma continua a osservare perplesso il taccuino su cui scriviamo. Ci dice soltanto che ha 44 anni e che è arrivato in Italia 11 anni fa. Poi ci abbandona.Insuccesso anche con Fall, che rimanda l’intervi-sta alla pausa pranzo, poi parla con Usman indi-candoci, e a pranzo ha cambiato idea. Parlare con la stampa (seppur dilettantistica) evidentemente li intimorisce.

A pochi metri dall’entrata alla Statale, in piazza Santo Stefano, c’è Matar Gaye che chiacchiera a ruota libera perché non sa dell’articolo. Matar,

dopo la laurea in meccanica automobilistica, è volato a Parigi dove ha fatto il parcheggiatore per una cooperativa di senegalesi. Poi, però, il comu-ne ha preso alcune misure amministrative, la coo-perativa ha chiuso e Matar, trovatosi disoccupato, ha raggiunto a Milano un amico operaio che gli aveva promesso un lavoro che non si è mai con-cretizzato. Vive nella zona Maciachini, con altri senegalesi e paga 200 euro al mese di affitto.Dopo aver inutilmente cercato lavoro all’Amsa, quattro mesi fa ha cominciato a fare il “vu cum-prà”.I primi giorni guadagnava poco, non più di 2-3 euro. Poi si è fatto spiegare dagli altri come fare e così ha imparato a fermare le persone dicen-do “Ciao bello”, “Ehi, capo”, “Boss!”, “Vieni qui Senegal boy” eccetera. Ora guadagna 10 euro al giorno. «A volte mi chiedo che senso ha avuto studiare» dice allontanandosi.

VU CUMPRÀ IN COLONNEBelle le serate in colonne: si ride, si beve, si scher-za. «Peccato per quei “rompi palle” dei venditori di rose, che continuano a infastidire e non ti mol-lano più». Marco non usa mezzi termini. I vendi-tori di rose proprio non gli piacciono. E puoi an-che provare a spiegargli che comunque offrono rose, non olio di ricino. Per lui sono «Rose finte senza profumo: bell’affare!». Troppo poco romantico per comprare rose, o troppo romantico per comprare rose finte? Non tutti però sono come Marco, e “in colonne” le rose si vendono, eccome.

Samoodi è uno dei tanti “rompi palle”, come li chiama Marco, che la sera circolano nelle zone più frequentate di Milano alla ricerca di coppiette o altri potenziali clienti.Ha 28 anni e viene da Dacca, capitale del Bangla-desh. Quattro anni fa aveva preso l’aereo diretto

FOTOA destra, un ragazzo senegalese;In basso, alcuni oggetti venduti dagli ambulanti.

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in Italia, per trovare lavoro: «Nel mio Paese i pro-blemi più grossi sono la povertà e i cicloni, che sono devastanti». Per questo tantissimi i giovani partono per l’Europa. Arrivato in Italia, Samoodi ha fatto i lavori più di-sparati nella provincia di Milano: lavori precari, che gli hanno però consentito di ottenere il per-messo di soggiorno. «Vivo con 7 amici vicino alla stazione Centrale e paghiamo ognuno 150 euro al mese di affitto». Gli amici fanno il suo mestiere, e guadagniamo mediamente tra i 10 e i 20 euro al giorno.A Milano è difficilissimo trovare un venditore di rose al mattino, mentre è quasi impossibile non trovarlo la sera. «Con i miei amici esco il primo pomeriggio – continua Samoodi –e torniamo verso Centrale con l’ultimo tram». Nel week-end la fascia oraria si allunga e sostano fuori dai locali e dalle discoteche, dove si guadagna di più.Come si procurano le rose?«Tre volte la settimana andiamo all’ortomercato, dove costano 70 centesimi l’una. Vanno tenute bene, sennò si rovinano». Poi provano a ven-derle per 3 o 4 euro per rosa, ma l’immancabile contrattazione successiva riduce drasticamente il prezzo che però non può scendere sotto l’euro. E in futuro? Samoodi non ha esitazioni: «Quan-do avrò abbastanza soldi, tornerò di sicuro dal-la mia famiglia». E nel frattempo continuerà a “rompere le palle” in giro per Milano.

Nell’arco della giornata tutti incappiamo in ven-ditori di libri, riviste, rose, accessori, che liqui-diamo con una stretta di mano, un no secco, un far finta di nulla e accelerare. Comunque ce la si cavi, il commercio ambulante degli immigrati è un tema di grande attualità, esposto a banalizza-zioni da superare, luoghi comuni da correggere, pregiudizi da decostruire. Maurizio Ambrosini, docente di Sociologia delle migrazioni e Sociologia urbana presso l’Universi-tà Statale di Milano, e collaboratore del sito www.lavoce.info è l’esperto che può aiutarci.

Cos’è il commercio ambulante?Ci sono diversi tipi di commercio ambulante, i cosiddetti “vu cumprà” che incontriamo nel cen-tro città rappresentano in realtà una minoranza.La forma più diffusa di commercio ambulante è quella del mercato rionale, dove gli immigrati stendono la propria merce accanto ai venditori con banchi fissi; ma anche fra questi cresce il nu-mero di immigrati.

Da dove viene la merce?Il principale mercato d’approvvigionamento è

Napoli, dove le merci vengono smistate e inviate in tutta Italia.Per quanto riguarda gli accessori (accendini, bracciali, statuine ecc) sono in gran parte pro-dotti in Oriente, specialmente in Cina, e talvolta localmente nei vicoli di Napoli, raramente ven-gono importati dai paesi d’origine dei venditori.Le rose vengono quasi sempre dall’estero, esiste una vera e propria geografia globale del mercato dei fiori: il traffico mondiale di fiori ha un am-montare superiore a quello della frutta.Poi ci sono prodotti di seconda scelta di produ-zioni italiane, tra questi calze e biancheria.

Il commercio è legale, i venditori regolari?La maggior parte dei venditori è dotata di per-messo di soggiorno: è uno dei mestieri più espo-sti a controlli quindi molto rischioso per chi non risiede regolarmente in Italia.Per quanto riguarda la legalità o meno del com-mercio ci sono diversi casi: vi è il caso di chi vende con licenza merce legale, e ci sono vari tipi di licenza: quella che assegna un posto fisso nel mercato, quella che assegna un posto residuale o di sostituzione a quello di altri o licenze che per-mettono di vendere in spazi pubblici (è il caso dei

INTERVISTA A MAURIZIO AMBROSINIa cura di Erica Petrillo e Anna Crosta

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cosiddetti vu cumprà).Vi è poi chi ha la licenza ma vende merce con marchio contraffatto.Ma in tutti i casi, il lato più problematico della questione è che non vi è regolarità fiscale.

C’è un legame tra merce venduta e paese di provenienza?La maggior parte delle occupazioni, non solo quelle che riguardano il commercio ambulante, sono legate a circuiti di relazioni fra persone di medesima nazionalità.Si parla in proposito di specializzazioni etniche, ciò vale sia per il lavoro autonomo, sia per il la-voro dipendente. Molte donne filippine sono assistenti domestiche, molti marocchini sono muratori, molti egiziani lavorano nella ristora-zione: non si tratta di attitudini innate derivate dell’identità etnica, ma di legami di parentela o amicizia con connazionali che occupano quei posti di lavoro.Così anche per il commercio ambulante: chi vende rose può facilmente attrarre amici, parenti o semplicemente connazionali nella propria nic-chia occupazionale.

Quali sono le componenti etniche maggiormente presenti in Italia?Nel panorama del commercio ambulante sono sicuramente quella senegalese, quella maroc-china, quella cinese: quest’ultima, comparsa di recente, è l’effetto dell’arrivo di componenti mi-gratorie più povere e meno protette.La componente più compatta, ma anche la più vistosa (per la peculiarità delle “tecniche com-merciali” e delle “strategie sul consumatore”) è quella dei senegalesi. Tra loro si può notare una convergenza tra appartenenza etnica e religiosa: la gran parte di loro è di etnia wolof ed è mem-bro della congregazione di matrice islamica dei muridi.Sono legati da spiccati vincoli di solidarietà e forme di mutuo aiuto, ad esempio ricomprano la merce a un connazionale quando gli viene se-questrata dalle forze dell’ordine. Tra i senegalesi è diffusa la coabitazione, spesso nei magazzini stessi dove si riforniscono.

La componente marocchina è più presente nei mercati rionali, sono pertanto meno visibili e ra-dicati a Milano.I cinesi sono meno attivi, a causa soprattutto del-la barriera linguistica.C’è da dire anche che la concorrenza tra gruppi etnici è durissima, fenomeno riassunto con un detto: “I maggiori nemici degli ultimi sono i pe-nultimi”.

Come si riforniscono?L’idea di una mafia tentacolare non corrisponde al vero. La percezione di un circuito mafioso di sfruttamento, anche internazionale, è nostra. Le vere protagoniste sono piccole organizzazioni decentrate. Spesso i grossisti sono della stessa nazionalità dei venditori. Gran parte dei venditori, specie quelli appena arrivati, vende a credito, deve cioè resti-tuire tutto sotto forma di merce. Questo suggeri-rebbe l’idea di una forma di sfruttamento: in real-tà il venditore il più delle volte contrae un debito con il grossista. E spesso sono gli stessi grossisti a gestire lo spostamento dei migranti dal Paese d’origine al Paese ricevente. Ci sono gradi di intenzionalità diversa, di solito prevale una certa volontarietà del mestiere, ma-gari non completamente premeditata, dal luogo d’origine, e il reclutamento da parte di connazio-nali (molto diffuso tra senegalesi) può rendere accettabile una posizione da venditore ambulan-te, spesso pensata come provvisoria.

Quali sono i possibili sbocchi professionali per i venditori ambulanti?Non si può parlare di carriere regolari. Anche qui, c’è caso e caso. Si assiste in generale ad un amen-to di autonomia degli immigrati nella catena pro-duttiva: alcuni progrediscono, salgono di rango e diventano grossisti. Altri giudicano provvisorio il periodo di lavoro per la strada in vista di un inse-rimento occupazionale più stabile in fabbrica. È il primo lavoro che trovano, e sono assistiti, guidati o sfruttati da reti di connazionali.Ma vi sono casi di venditori ambulanti stagionati, di età avanzata, che lo fanno da tutta la vita.

Molti alternano lavori diversi, quella di venditori ambulanti in città diventa quindi un’occupazione di carattere stagionale, in estate si trasferiscono sulle spiagge o sono impiegati nella raccolta di frutta e verdura. Nel caso dei senegalesi prevale il pendolarismo col paese d’origine, in cui rimangono le famiglie che ricevono periodicamente le rimesse econo-miche.Il migrante che in Europa è venditore ambulante in patria dice di fare il commerciante, acquisisce uno status ben superiore, se non opposto, a quel-lo che gli si attribuisce nel paese ricevente.

Come mai sono così rare le donne immigrate nel commercio am-bulante?Per le donne vi sono possibilità lavorative diver-se, ad esempio è altissima la domanda nel merca-to dell’ assistenza domestica e dell’accudimento, anche per neoarrivate è dunque più facile, non-ché più gratificante, occupare queste posizioni.Inoltre per le componenti femminili purtroppo è molto diffuso e redditizio l’inserimento nel mer-cato della prostituzione.Fanno eccezione le donne rom, che vengono mandate a mendicare assieme ai figli, in questo caso il confine tra scambio commerciale e richie-sta d’aiuto è molto labile.

Cosa si può dire confrontando il fenomeno negli altri paesi europei?

Non si sono fatte molte ricerche a riguardo. Il fe-nomeno è molto diffuso in Italia sia per via della lunga tradizione, tutt’ora viva, dei mercati rionali, sia per la mancanza di politiche di assistenza so-ciale ed economica alle fasce più deboli.Ci sono poi specificità locali: a Genova negli anni ‘90 è stato rilevante il fenomeno dei padri maroc-chini con figli maschi molto piccoli che li aiutava-no nel commercio ambulante.Adesso i marocchini sono inseriti nei mercati ri-onali.Nella riviera romagnola invece il fenomeno ha carattere stagionale, gli arrivi si concentrano nelle stagioni turistiche.

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ILDA BOCCASSINI RACCONTA

LA ‘NDRANGHETA A MILANO

Articolo di Taddeo MecozziFoto di Chiara Francavilla

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L’aula 208 della Statale di Milano è gremita. Alle 16.30 del 4 maggio non c’è spazio per sedersi, neppure sui gradini tra una fila di banchi e l’altra. L’Università e l’associazione Libera hanno orga-nizzato un incontro sulla mafia in Lombardia, re-latore Ilda Boccassini, procuratore aggiunto della Repubblica di Milano. Il magistrato tocca moltis-simi temi e poi risponde alle domande.Per prima cosa chiede alla stampa di spegnere le telecamere: vuole che questo resti un confronto tra lei e gli studenti. Poi inizia a parlare, e parte da lontano. Sostiene che la legislazione antima-fia italiana sia la migliore del mondo, invidiata e copiata soprattutto negli Stati Uniti; ha un solo difetto: nasce dal sangue di Falcone e Borsellino, trucidati nel 1992, altrimenti non sarebbe mai stata approvata. Di seguito passa al fenomeno milanese, del quale si occupa come magistrato applicato alla Dire-zione distrettuale antimafia. Spiega la struttura della ‘Ndrangheta, che ha preso piede a Milano e dintorni: come, suddivisa in famiglie, resti una organizzazione unitaria, con riti di iniziazione, nomine di vertici e di capi. L’organizzazione è illustrata nei dettagli nella gigantesca ordinan-za di custodia cautelare per 35 soggetti, seguita all’indagine denominata “Caposaldo”; ordinanza depositata il 3 marzo di quest’anno dal gip Giu-seppe Gennari. L’organizzazione criminale sem-bra essere una vera e propria azienda organizzata per la commissione di delitti: vi sono principal-mente tre strutture centrali chiamate “provincia” o “crimine” (Ionica, Tirrenica e Reggio Calabria) e varie “camere di controllo”, come le chiamano gli stessi affiliati, per le regioni in cui si fanno più affari e tra queste, ovviamente, la Lombardia. Nello stesso provvedimento è indicata anche l’occasione in cui vengono ratificate le nomine: il 18 settembre del 2009, in occasione del matri-monio di Elisa Pelle e Giuseppe Barbaro, sono

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stati decisi e assegnati i ruoli di Capocrimine per la zona Tirrenica (Domenico Oppedisano), Ma-stro Generale per la zona Ionica (Bruno Gioffrè) e via elencando il caposocietà, il contabile etc.. “Un sistema dichiaratamente alternativo alle isti-tuzioni statuali” scrive il Gip.Il problema, dice Boccassini, è l’omertà. Gli im-prenditori, nonostante siano vittime di incendi dolosi, minacce e usura, spesso si rifiutano di col-laborare: a volte per timore di subire ritorsioni. Ma anche perchè tacendo pensano di guadagnar-ci, tanto che alcuni, in recenti indagini, sono stati incriminati per favoreggiamento dell’associazio-ne mafiosa. Ma per sua stessa natura, l’operato della magi-stratura è tardivo: è repressivo, e quindi giunge a danno già fatto. «Quando diciamo “c’è infiltra-zione” probabilmente c’è da molto tempo e ce ne stiamo accorgendo solo ora!» dice Boccassini. Ma la magistratura ha le sue funzioni specifiche e non può sopperire alle assenze della politica e della società civile, che dovrebbero invece essere il primo campanello d’allarme, il primo baluardo contro le infiltrazioni e la distorsione del libero mercato e della competizione elettorale. Sì, acca-de anche questo a Milano. Nell’ordinanza infatti Giuseppe Gennari scrive: “Dalle conversazioni e dalle indagini si compren-de chiaramente come il gruppo Flachi eserciti il suo pieno controllo del territorio anche at-traverso la canalizzazione (“nella nostra zona è facile che prendiamo tanti voti”) di preferenze elettorali – in occasione di consultazioni ammi-nistrative (o politiche, perché il meccanismo è lo stesso) – sulla persona di candidati che si decide di sostenere. Nel giro delle regionali, i Flachi de-cidono di sostenere la candidata Antonella Maio-lo (“portiamo Antonella MAIOLO...”). A questa decisione non si arriva per caso, ma attraverso una serie di incontri attentamente pianificati da

Massimo Buonocore, figlio d’arte per quanto riguarda la politica e consapevole trait d’union tra l’associazione mafiosa e il mondo economi-co/politico lombardo. Con la candidata Maiolo Davide Flachi in persona si incontra almeno due volte. Il contesto degli incontri, sempre mediati da Buonocore (e Piccolo) ed i dialoghi svolti pri-ma e dopo gli incontri, permettono di affermare con assoluta certezza che il tema in discussione è proprio l’appoggio da dare alla Maiolo. In buona sostanza, la Maiolo ricorre ai voti dei calabresi.” (ex consigliere regionale tra le fila del Pdl nonchè sorella di Tiziana Maiolo, ex assessore della giun-ta Moratti)Tutto questo accade qui: a Milano, Paderno Du-gnano, Bresso, Corsico, Cisliano etc.. grazie alla collusione e partecipazione di quello che il gip definisce il “capitale sociale” di cui si avvale l’or-ganizzazione criminale. Questi soggetti parteci-pano all’attività mediante “vincoli di “occasione” che non permettono l’attribuzione al soggetto “esterno” della qualifica di associato. Al contem-po, il soggetto esterno svolge, per lo più, attività di per loro intrinsecamente lecite e quindi non autonomamente punibili”.Questa zona grigia in cui si muovono impren-ditori privati, dirigenti pubblici, politici, talvolta agenti corrotti, è la più pericolosa perchè è la for-ma più subdola di collaborazione con la quale si corrode dall’interno quello che Boccassini ha de-finito “il senso stesso del nostro vivere comune”-. Perchè questa non è la lotta del bene contro il male. In questo caso si tratta di impedire l’affer-marsi di un sistema di potere alternativo a quello statuale; sistema che si avvale dell’esercizio arbi-trario della forza per promuovere i propri interes-si a discapito della collettività e dei più deboli. Si tratta di ristabilire la legalità democratica per im-porre una diversa visione della società in cui non vince il più forte, ma il più meritevole.

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CRONACA DI UNA SERATA IN MASSA CRITICAarticolo di Valentina Marini

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Ormai la conoscono tutti. Molti vi hanno parte-cipato almeno una volta. Ma pochi sanno vera-mente cosa ci sia dietro “critical mass”. Un ritrovo per ciclisti talebani? Un gruppo di ambientalisti radicali? Oppure un’allegra brigata di cittadini mossi dal desiderio di ritrovarsi per pedalare in compagnia? Chi sono i ciclisti che ogni giovedì sera, da dieci anni a questa parte, fanno impazzire gli automobilisti milanesi con blocchi improvvisi del traffico?Per scoprirlo c’è un solo modo: munirsi di bici-cletta e unirsi a loro.Giovedì 21 aprile: l’appuntamento è, come ogni settimana, in piazza Mercanti, alle 22.30. Mentre aspetto che si parta chiacchiero un po’ con Gior-gio, un formidabile settantenne che sostiene di non essersi perso nemmeno una “critical” dall’i-nizio dell’anno. «Le rivendicazioni politiche non mi interessano più di tanto» dice. «Partecipo soprattutto per la compagnia. Adoro andare in bici e mi piace ancora di più se posso farlo con persone in gamba al mio fianco». Per molti infat-ti critical mass è semplicemente un momento di socialità, un’occasione per rivedere un amico fa-cendo qualcosa di diverso dalla solita birra al pub.

Finalmente, in un crescendo di impazienti scam-panellate, fischi e musica, la “massa”, di sua spon-tanea volontà, si mette in moto. Inizio a pedalare

anch’io e istintivamente comincio a ridere. Non sono l’unica: attorno a me vedo solo facce felici e sorridenti. È quasi impossibile partecipare con animo triste a una simile esplosione di entusia-smo e determinazione: siamo quasi tutti giovani e in gran forma e stiamo per riappropriarci dei nostri spazi: stasera Milano sarà di nuovo nostra.Ci infiliamo in una serie di vicoletti e ne appro-fitto per chiacchierare con Luca, un altro assiduo frequentatore della massa. Quando gli chiedo se fa parte dell’organizzazione, scoppia a ridere: «Ma quale organizzazione? Nessun gruppo di persone decide quando, come e dove fare una critical. Chiamiamo i nostri appuntamenti, soli-tamente settimanali, “coincidenze organizzate”, proprio per il loro carattere spontaneo. Anni fa, nel 2002, quando a Milano ci furono le prime cri-tical, si decise che sarebbero partite alle 22,.30 da piazza Mercanti. Ecco tutto».

Intanto, fra una pedalata e l’altra, siamo finiti su una grossa arteria piena di incroci. Luca ferma la sua bici davanti a un paio di auto che attendono lo scattare del verde. «Questa manovra - mi dice - Si chiama corking. Permette di bloccare tem-poraneamente la circolazione del traffico non ciclabile, in modo di dare alla massa il tempo di passare senza frammentarsi”.Mentre stiamo chiacchierando, l’automobilista

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di un suv, bloccato dalle nostre umili due ruote, passa da un iniziale stato di stupore, ad uno che rasenta l’odio più viscerale. Cominciano a piove-re insulti e maledizioni verso noi ed ogni compo-nente delle nostre famiglie. Tempo 5 secondi e tutti i clacson delle macchine immobilizzate co-minciano a romperci i timpani. Noi rispondiamo con sorrisoni ed appelli alla pazienza. La contrap-posizione fra questi due mondi, noi e loro, non potrebbe essere più netta. Ed è incredibile pen-sare che questi automobilisti, ora sull’orlo di una crisi isterica per una sosta imprevista di 5 minuti, probabilmente sono gli stessi che ogni giorno, restano intrappolati per ore nel traffico milanese senza lamentarsi.

Per capire a fondo il movimento, non basta fare domande ai partecipanti storici, bisogna risalire alle origini.La prima critical mass della storia fu organizzata a San Francisco, in California. nel 1992, su idea di Chris Carlsson, attivista politico. Carlsson, stufo di doversi muovere con la sua bicicletta in una città progettata solamente a misura di auto-mobile, consapevole che il numero spesso fa la differenza, convinse una quarantina di conoscen-ti, ciclisti come lui, ad organizzarsi per tornare insieme in bici dal lavoro. Il nome di massa critica arrivò solo in un secondo momento, quando George Bliss, noto designer delle due ruote, durante un viaggio in Cina, os-servò che in quel Paese i ciclisti attraversavano gli incroci, tutti insieme, quando il loro numero raggiungeva una quantità “critica”.

All’accusa di creare ingorghi che arrecano disagio anche a chi non può fare a meno della macchina. risponde lo slogan.“Noi non blocchiamo il traffi-co, noi siamo il traffico”. che parafrasato, diventa l’espressione di un’utopia concreta: se la città si blocca per qualche decina di biciclette, non è col-pa di queste ultime, ma di chi ha progettato la via-bilità solo a misura di automobile. E se qualcuno obietta che è sempre stato così e di conseguenza è impossibile cambiare, gli si dimostra nei fatti che non è vero perché, la realtà in cui viviamo, è solo una delle infinite possibili realtà. Un cambia-mento, lento ma radicale, può avvenire.

In una recente intervista, Carlsson ha spiegato con una metafora che i cambiamenti globali sono promossi da due gruppi molto diversi: i gangster e le tartarughe. I capitalisti, i governi, le multi-nazionali, la stessa nostra società, sono ganster: pensano solo ad arraffare il più velocemente pos-sibile senza curarsi dei danni e delle vittime. Le tartarughe sono invece rappresentate da movi-

menti come critical mass, da chi crea programmi informatici opensource, dai contadini biologici, da chiunque abbia capito che l’unico modo per uscire dall’attuale crisi ambientale è reinventarsi il nostro modo di vivere. Questo cambiamento, per essere definitivo e radicale, non può che pro-cedere lentamente e con pazienza, proprio come i movimenti di una tartaruga.

E pedalata dopo pedalata, la mia serata critica finisce. Siamo di nuovo in piazza Mercanti. Com-pare una chitarra, gira qualche bottiglia di vino. Rievochiamo, come fossimo veterani di una guerra, i momenti salienti delle ultime due ore.

Ridiamo ripensando alle reazioni e alle facce stra-biliate degli automobilisti che abbiamo bloccato. C’è tanta voglia di stare insieme e di condividere. Momenti come questi sono un toccasana contro lo sconforto che a volte assale chi vive in questa metropoli: la Milano grigia che fa da sottofondo a tutte le nostre giornate sembra lontana anni luce. Torno a casa felice e rincuorata: finchè questa cit-tà riuscirà a esprimere movimenti come questo, non riuscirò mai a disprezzare il luogo in cui sono nata e vivo.

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COSA SIGNIFICA DAVVERO PARKOUR?

di Silvia Aprigliano e Marcella Vezzolifoto di Formainarte

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Il rumore di scarpe sul parquet, le voci dei ragazzi che si allenano: i suoni rimbalzano da una parete all’altra nella palestra di via Eugenio Villoresi 26, a Milano. Forma in arte (così si chiama il luogo) non è un semplice fitness center: è il primo spazio in Italia attrezzato per la disciplina del parkour. Laurent Piemontesi, che insegna il parkour ai ra-gazzi della palestra, è stato tra i primi a importare questo sport nel nostro Paese. Parigino di nasci-ta, pratica il parkour dagli anni Ottanta assieme al gruppo fondatore della disciplina, gli Yamakasi, che lo crearono circa 25 anni fa in Francia.Il parkour consiste nel superare in linea retta gli ostacoli che il paesaggio urbano di volta in volta ci mette davanti: mura, reti, cancelli, addirittura edifici, senza utilizzare alcun attrezzo. Gli stru-menti per riuscire sono la corsa, l’arrampicata e il salto, da sfruttare al meglio tramite l’equilibrio del proprio corpo.All’origine di questa particolare disciplina metro-

politana non c’è, come molti pensano, il deside-rio di ribellione; nasce come semplice gioco da una storia di amicizia tra ragazzi. I suoi membri erano all’inizio solo una decina, ma il successo è stato tanto che recentemente hanno deciso di dif-fondere questa pratica in giro per il mondo, a par-tire da Cina, Gran Bretagna e ora anche in Italia.Laurent è un bel ragazzo, muscoloso, ma non ec-cessivamente, dalla pelle abbronzata e gli occhi luminosi. Aiuta i ragazzi con gesti sicuri e spiega loro come superare gli ostacoli: nella stanza infat-ti sono stati posizionati dei blocchi di varie gran-dezze e alcune strutture per arrampicarsi. Alla prima pausa, gli chiediamo di raccontarci meglio.Precisa che, sebbene il parkour sembri un gioco, le sue motivazioni vanno oltre il divertimento. La disciplina è nata infatti con il nome di art du deplacement (arte dello spostamento): per lui è una metafora della vita. È caratterizzata dalla di-sciplina, dalla volontà di superare un ostacolo, di

UNA SFIDA TRA I GRATTACIELI

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resistere a un salto; inoltre comporta una ricerca estetica sul movimento - anche se questa è nata solo dopo l’incontro con la tv, il teatro e il cine-ma.Tutti abbiamo qualche dolore nascosto, spiega Laurent, e il parkour è è un modo per affrontarlo e superarlo; rappresenta una sfida che decidiamo di accettare. Da una parte quindi il gioco, dall’al-tra la volontà di porsi delle sfide e la soddisfazio-ne di superarle, esprimendosi liberamente con il corpo. L’unica regola è mantenere l’integrità fisica di chi lo pratica (definito traceur = traccia-tore). Ciò richiede allenamento e conoscenza dei movimenti; da qui l’esigenza di uno spazio per esercitarsi.Ma uno sport nato per essere vissuto nelle strade delle città non si trasforma radicalmente se prati-cato in palestra? Secondo il nostro interlocutore al di là della forma, la sostanza non cambia: lo spirito della disciplina e i suoi valori sono conser-

vati: rispetto di se stessi, degli altri e dell’ambien-te, forza e fiducia nelle proprie capacità, coraggio nell’imparare a superare ostacoli fisici e morali, infine condivisione e perseveranza.Rimane per il momento assente l’agonistica, la competizione e la rivalità, in quanto quest’arte rappresenta una sfida con se stessi e non una gara con gli altri. L’art du deplacement: una gara con noi stessi per arrivare dove ci siamo prefissati, non importa cosa ci distanzi dall’obiettivo.

I primi termini usati per descrivere questo allenamento furono parcours (percorso) e art du deplacement (arte dello spostamento), in seguito David Belle (co-fondatore del movimento) sostituì la “c” con la “k” per dare alla parola maggiore aggressività, ed eliminò la “s” che contrastava con l’idea di efficienza del parkour. Il termine deriva dal parcours du combattant cioè il percorso militare di addestramento di George Herbert (un ufficiale francese).

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FOTOAlcune evoluzioni di questa disciplina

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HABEMUS PAPAM DI NANNI MORETTI,

PRODUZIONE ITALIA-FRANCIA,

2011di Matteo de Mojana e Anna Crosta

Una babele di pensieri concitati riempie la cap-pella Sistina a pochi istanti dal verdetto; tutti re-citano all’unisono “Non io, non io!”.Comincia così l’ultimo racconto di Nanni Mo-retti, cronaca ironica del senso umano di inade-guatezza di fronte a una grande responsabilità.Lui, cardinale Melville, che voleva fare l’attore, è chiamato dai colleghi al soglio di san Pietro e a interpretare un ruolo immenso, vestendo i panni di un personaggio al di sopra delle parti. «Nuntio vobis gaudium magnum: habemus pa-pam». Silenzio. Un grido disperato si leva dalle quinte del balcone vaticano, il neo-eletto non se la sente e la festa di massa si interrompe. «Non ce la faccio!» dice papa Melville. Piazza san Pietro diventa un mostro invalicabile. Il se-gretario di Stato decide di convocare un analista per risolvere il problema. Ma prima che questi ottenga un risultato Sua Santità sorprende tutti e scappa. Il film viaggia su due piani paralleli, alternando gli spazi angusti delle mura vaticane alle strade della capitale. La fuga del pontefice, a tratti onirica, lo porta verso una maturazione interiore. Una corsa in autobus, un bar affollato, la musica di un’artista di strada, segnano questo viaggio miracoloso.Nel frattempo il conclave è sospeso in un limbo d’imprevedibile attesa, in cui la routine eccle-siastica si fa gradualmente passatempo e gioco. L’analista, interpretato da Moretti, è ostaggio dei cardinali fino alla guarigione del papa. Su sua ini-ziativa si organizza un torneo di pallavolo. I ruoli si mescolano: i membri del conclave diventano giocatori, lo psicologo allenatore, la guardia sviz-zera nuovo papa. Chi direbbe mai che il papa vero sia invece quel signore ben mimetizzato tra la folla?La paura per il nuovo ruolo si fonde col piacere dell’anonimato; ne è esempio la sequenza del papa a teatro, protagonista e spettatore insieme. La recita del Gabbiano di Anton Cechov è un chiaro richiamo al senso di inettitudine, che in questo caso accomuna i personaggi del dramma, Nina e Kostantin, al nostro eroe.Le scene si rincorrono fino alla sintesi finale, col ritorno “a casa” di Melville.Ci sono diverse “quinte” nel film di Nanni Moret-ti, e ognuna ne rivela altre.Gli appartamenti papali dietro il balcone e le

stanze del conclave; il papa e il suo peregrinare in città, nascosto da una vita ingombrante, e la sua ombra dalla finestra, gettata dalla guardia svizze-ra che ne interpreta la sagoma. Tutto appare, ma dietro le quinte c’è sempre altro. Il regista punta fisicamente i riflettori all’interno della santa Sede, sulla messinscena di un mondo meccanico, fatto di riti e formalità. Qui non c’è spazio per fragilità e debolezze umane, e il papa non fa eccezione: i no secchi di un cardinale di fronte alle richieste dello psicanalista ne sono un esempio. Di notte si vede il backstage, sbirciando i cardi-nali in pigiama nelle loro stanze, momento di massima sacralità. Spogliati del costume e delle liturgie di scena, si profilano personalità distinte: chi fuma la pipa, chi fa cyclette, chi ha gli incubi, chi gioca a carte con se stesso. Psicologi, giornalisti, uomini di chiesa: uomini mediocri, nessuno escluso, che recitano ma non sono. Si salva solo Melville, che compie un viag-gio alla riscoperta della propria persona, violata e sopraffatta da un futuro di dichiarazioni pubbli-che. Michel Piccoli ne offre un’ottima interpretazio-ne; peccato che a Cannes non se ne siano curati più di tanto. Nei panni di qualche cardinale fa piacere rivedere attori come Franco Graziosi e Camillo Milli.Si ride in maniera intelligente, sebbene il perso-naggio interpretato dal regista risulti molto sto-nato rispetto al fulcro del film.Il finale è una elegante sorpresa, in cui l’entusia-smo lascia il posto a una imprevista amarezza. Il racconto si conclude con un gesto d’estrema umanità. L’uomo vince sull’attore, l’autentico sulla farsa, l’onestà sull’ipocrisia. Ma la rinun-cia di fronte alla folla di fedeli trepidanti è tanto trionfale quanto avvilente, delude molti spettato-ri, che escono disorientati, ammutoliti, e piazza san Pietro diventiamo noi, in attesa di un finale folgorante dal balcone. E invece no, si torna a casa smarriti, come un gregge di fedeli senza pastore.san Pietro diven-tiamo noi, in attesa di un finale folgorante dal balcone. E invece no, si torna a casa smarriti, come un gregge di fedeli senza pastore.

HABEMUS PAPAM

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Finale di partita di Samuel Beckett è un capolavo-ro assoluto del teatro e della linguistica. E il regista Massimo Castri, alla sua prima prova con questo autore, lo dimostra trattandolo con molto rispetto e mettendolo in scena con sobrie-tà, l’unico modo per affrontarne la complessità. Testo e didascalie sono seguiti con precisione certosina.

Una stanza fuori dal tempo e dallo spazio sembra l’unico posto scampato alla distruzione del mon-do. È disegnata con maestria da Maurizio Balò, che prosegue il sodalizio con il regista di Cor-tona. In essa due uomini si prendono cura l’u-no dell’altro: Hamm (Vittorio Franceschi) è un vecchio immobilizzato su una carrozzina e privo della vista; Clov (Milutin Dapcevic) al contrario , più giovane, non può sedersi e vede benissimo. «Tutta la vita le stesse domande e le stesse rispo-ste» dice quest’ultimo. Hamm vuole essere nel centro esatto della propria esistenza, oggettivata nel pavimento a scacchiera. La sua è sempre stata una «vita futura» ancora da venire.I genitori, Nagg (Antonio Giuseppe Peligra) e Nell (Diana Hobel) sono relegati in bidoni dell’immondizia. Per Hamm nessun contatto con l’esterno; solo i racconti di Clov che guarda

dalla finestra. Il rapporto tra i due è di reciproca necessità, eppure è destinato a terminare. «A che servo io?» domanda Clov. «A darmi le battute» risponde Hamm. Anche dei lampi di lucidità non resta traccia. «Certe volte mi domando se il mio cervello funziona bene. Poi mi passa. Ridivento intelligente», osserva Clov.

L’attesa è il leit motiv dello spettacolo, ma rispet-to a “En attendant Godot” l’uomo non è solo di fronte al nulla, bensì a confronto con la partita persa della sua vita. La metafora è tratta dagli scacchi: all’ultima mossa si cessa finalmente di perdere.L’ironia di Beckett è sostenuta dall’eccellente prova di quattro attori in sintonia tra loro e ca-paci di rendere in modo sottile i difficili perso-naggi. Un regista deve innanzitutto concertare, cioè mettere d’accordo le varie voci, anche senza trovate particolari; e in questo tipo di scrittura la regia migliore è spesso quella “nascosta”.

E così emerge chiaramente il senso ultimo del-lo spettacolo: la desolazione umana, allo stesso tempo agghiacciante e divertente. Come dice Nell «Non c’è niente di più comico dell’infeli-cità»

IL PRIMO BECKETT DI CASTRI, SEMPLICE

E DEFINITIVOdi Matteo de Mojana e Anna Crosta

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C airoli non va tanto per il sottile. Se gli dicono di fare una cosa, la fa. Non ci sono cazzi. Puoi implorarlo, cadere in ginocchio, le lacrime ti scorrono a fiumi giù per le guance e la bava t’impregna la bocca, ma già lo sai. Cairoli: se gli dicono di fare una cosa lui la fa. Con gusto, con un ghigno inguardabile a storpiargli la faccia. Lavorare con lui è un piacere. Gli dici chi dove e come: stai sicuro che il problema è risolto. E non ti viene a chiedere perché o percome. Gli dai metà quando lo ingaggi e l’altra

metà a giochi finiti. Ha lavorato per i pezzi grossi di tutta Milano e non ha mai deluso nessuno. Quindi-ci anni di onorata carriera, ventiquattro vittime, ventitré vedove e trentasei orfani. Meglio di lui pochi.Francesco Trattori, quarantadue anni, un metro e ottantasei per ottantuno chili, sicario. Da anni ormai ci si era dimenticati del suo vero nome. Da quella volta che aveva tenuto la polizia in scacco per tre ore con una scacciacani in piazza Cairoli. Uno spettacolo. Un fottio di sbirri, sirene, pantere e giornalisti. Freddo e impassibile, dietro una macchina, passamontagna in testa e un ostaggio, con la pistola finta li ha tenuti lì tre ore, aspettando che lo venissero a aiutare i suoi. Da allora tutti lo chiamano Cairoli e così passerà alla storia.Cammina veloce, Cairoli. La strada è muta, si sente solo il ritmico cadere degli anfibi sul selciato. Fa freddo a Milano le notti di novembre. Un freddo cane, che ti penetra fin dentro le ossa e non ti molla. Lo aspettano alla palazzina per le due e gli gira il cazzo. “Chissà che minchia di problema hanno i criminali a fare le cose di giorno. È un lavoro il mio e tutti i cristiani lavorano di giorno, se possono. Io la notte voglio trombare o dormire.” Pensa veloce quanto cammina, ma questi pensieri se li terrà per sé. Questa volta il cliente è grosso davvero, il più grosso, e con lui niente lagne. Paga doppia, turno di notte. Camminare di notte lo mette a disagio, lo fa sentire un criminale. Invece Cairoli è un professio-nista. Non uccide mai nessuno oltre a chi gli viene chiesto e mai sbirri. “Quelli si sbattono un casino, tengono pulite queste strade del cazzo da negri comunisti ladruncoli, sono eroi cazzo”. E non ne ha mai ucciso uno. Banchieri-commessi-puttane-avvocati-dottori-politici-genitori, sbirri mai.I muri delle case raccolgono tutti un pezzo di storia della città. Scritte da mani imprecise, le parole sui muri sono lì a testimonianza delle voci dei milanesi.. Meglio dei giornali. DAX VIVE E LOTTA INSIEME A NOI; MILANO É ANTIFASCISTA;NINA TI AMO; VOTA LEGA; FUORI I NE-GRI DALLE NOSTRE CITTÁ. Cairoli ci passa davanti indifferente. Appartengono a vite che non lo riguardano, storie cui lui non partecipa. DECORATO CHI LEGGE; COME TE NESSUNO MAI; MARONI IDIOTA. Cammina veloce, a disagio, coi sensi all’erta. Sono gli odori della notte milanese a metterlo in ansia. Sono puliti, definiti, Milano ti parla di notte con le sue scritte e con i suoi odori: pare

UN RACONTO A CURA DI GIOVANNI PIRELLIIllustrazioni di Erica Petrillo

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ti guardi. Di giorno è un’altra storia, tutto si mischia, gas di scarico-profumi di donne-cibo-sigarette, tutto insieme a creare un unico odore eterogeneo. Ti ci na-scondi in quegli odori. Di notte sei lì: nudo in mezzo alla strada. Passi di fianco a qualcuno e stai sicuro: quello lo sente che odore sei. Di notte, a Milano, sei un individuo. E per il mestiere che fa, Cairoli non deve essere un individuo. “Io sono un nome, sono un nome che fa paura. Se senti parlare di Cairoli ti si rizzano i peli sulla nuca, bastardo, non perché mi hai visto, no, è perché il mio nome ha ucciso. E voglio che tutti si facciano un bello schizzo immaginario di come sono, Cairoli, il mio nome è grande come una piazza”. _<Chi è?> <Sono Cairoli, fammi entrare che fa freddo.> <Terzo piano a sinistra, ti sta-vamo aspettando.>La serratura scatta per li-berare la porta. Dentro c’è un bel cortile, di quelli tipici delle case del centro. Scale umide, stret-te, con l’ascensore a vista. Da qualche parte un’infiltrazione sgocciola dal soffitto. PLIC PLIC PLIC. Regolare come le lan-cette dell’orologio che Cairoli porta sempre con sé, re-galo di suo padre per la prima, e ultima, busta paga in fabbrica. Lo tiene per quando lavora. Se gli hanno detto di finire alle dodici e trenta, lui aspetta. L’agnellino sacrificale lì davanti ai suoi occhi, già legato, imbavagliato e sve-glissimo. Mai drogarlo o stordirlo, deve

continua nel prossimo numero

vedere, soprattutto sentire, che arriva la sua ora. Si mette acco-vacciato davanti a lui, l’orologio tra di loro, TIC TAC TIC...

“Guarda, mi spiace farti aspettare ma mi hanno detto alle quattro e sono le

quattro meno cinque, cosa vuoi sono uno preciso”. TIC TAC TIC. Il momento più bello è

quello del minuto prima. L’agnello si dibatte, cerca di urlare ed è allora che sul viso di Cairoli si stam-

pa l’orribile ghigno. PLIC, PLIC, PLIC. Sorride Cairoli a quella coincidenza, c’è una specie di

armonia nelle cose umane e lui la sente, la percepisce.

Sono tutti seduti. Un tavolo lungo, pieno di gente seduta. Quattro da una parte,

quattro dall’altra, uno a capotavola e una sedia vuota all’altro capo. Fuma-

no tutti, tranne l’uomo a capotavola. È anche l’unico a non parlare. Guar-

da fisso davanti a sé e sorride. Gli altri ridono, bevono, fumano a strafottere.

Cairoli entra e l’equilibrio si rompe. Tutti tacciono, qualcuno si tocca. I loro sguardi sono pieni di vergognoso

rispetto. Tutti gli occhi tranne quelli dell’uomo a capotavola lo temono,

temono il suo nome e la sua mano. <Signor Trattori, benvenuto!>

<Il mio nome è Cairoli.> <Come vuole lei, come vuole

lei. Si sieda e prenda qualcosa da bere, ci aspetta una bella

chiacchierata.> sorride esa-geratamente mentre parla,

quasi ride. “che cazzo c’avrà da ridere questo”.

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CASAa cura di Chiara Francavilla

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da “Home sweet home”canzone del 1822 di John Howard

Payne. Da qui deriva il celebre detto “Home sweet home”

da “Papà va in tv”L’ultima lacrima

Stefano Benni, 1994

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‘Mid pleasures and palaces though we may roam,Be it ever so humble, there’s no place like home;A charm from the sky seems to hallow us there,Which, seek through the world, is never met with elsewhere.Home, home, sweet, sweet home!There’s no place like home, oh, there’s no place like home!

(trad. Tra i piaceri ed i palazzi in cui potremmo vagabondare/ Sia pure sempre così umile, non c’è un altro posto come la propria casa/Un incantesimo dall’alto sembra consacrarci là/ Cercando nel mon-do non l’abbiamo mai incontrata in nessun altro posto/ Casa, casa dolce, dolce casa!/ Non c’è nessun posto come la propria casa, oh, non c’è nessun posto come la propria casa!)

È tutto pronto in casa Minardi. La signora Lea ha pulito lo schermo del televisore con l’alcol, c’ha mes-so sopra la foto del matrimonio, ha tolto la fodera al divano che ora splende in un vortice di girasoli. Ha preparato un vassoio di salatini, un panettone fuori stagione, il whisky albionico e l’aranciata per i bambini. Ha lustrato le foglie del ficus, ha messo sul tavolino di vetro la pansé più bella. I tre figli la guardano mentre controlla se tutto è in ordine, si tormenta i riccioli della permanente e becchetta coi tacchi sul pavimento tirato a cera. Non l’avevano mai vista in casa senza pantofole.

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FOTOUna veduta dei tetti di Parigi

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da “Eccessi di Città”Fabrizio Floris, 2007

da “Fahrenheit 451”Ray Bradbury, 1953

Chi passa a Korogocho vede le case di fango, i canaletti fognari, lo sporco e pensa che siano questi i problemi, è normale, ma più ci si vive e più si capisce che il problema non sono le case, ma ciò che avviene dentro, il clima sociale che si vive: l’assenza dei diritti che genera individualismo e produce violenza.

“Mildred, tu cosa ne diresti se...insomma se diciamo io abbandonassi il mio lavoro per qualche tem-po?”“Vuoi rinunciare ad ogni cosa? Dopo tutti questi anni di lavoro, saresti disposto a rinunciare ad ogni cosa, solo perché una notte, una donna e i suoi libri...”“Avresti dovuto vederla Millie!”“Che vuoi che me ne importi? Non la conosco nemmeno! E ha fatto male a tenere i libri in casa. La colpa è stata tutta sua. Doveva pensarci prima. Per me, io la odio. Sarà stata lei a farti abbandonare il lavoro, dopo di che ci ritroveremo, lo sai benissimo, in mezzo a una strada, senza casa, senza posto, più niente!”“Tu non c’eri, stanotte, non l’hai veduta” riprese lui. “Ci deve essere qualcosa di speciale nei libri, delle cose che non possiamo immaginare, per convincere una donna a restare in una casa che brucia. È evidente!”

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Il termine deriva dal fiorentino ballotta, sinonimo di castagna. Nella Firenze rinascimentale, infatti, esisteva la Torre della Casta-gna, nella quale si riunivano i Priori delle Arti per decidere e votare riguardo alle tematiche più importanti. Queste votazioni si svol-gevano in conclavi lunghi anche intere giornate senza influenze dall’esterno e nei quali il voto consisteva nel porre delle castagne in uno dei sacchetti che simboleggiavano le varie possibilità. Poi, in rapporto al numero dei votanti si stabiliva il sacchetto con più castagne e, di conseguenza, la decisione scelta per maggioranza. Da qui l’uso ancora attuale nelle elezioni di definire ballottaggio la scelta tra due o più candidati.

Da: www.wikipedia.org

Ballottaggio

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la politica non duolefinché Mendieta segna e ballare si vuole.immersione in sciroppo. fritto unto.corpo nudo abbraccia il rotolo kebab. attratto respinto.impossibile stringere il futuro,scoprendo che il passato è opinione pubblica.l’arco traffito. la lama tagliente. il filetto. inaugurazione.tre quattro zero - insieme a te starò bene.ma la finzione invecchierà e i costruttivisti saranno richiamati a tavola e solo la realtà riuscirà ancora a stupirmi.e oltre lo stupore?cazzo ti aspettavi?ciò che ti segni t’è tolto?ciò che ti segni rimarrà?passerà.e ballando si sà che finzione sarà. e qualcuno spolvererà. ed è realtà.

La politica non duole di Jan Z.

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Lo sapevate che dopo lo sgom-bero del campo rom di via

triboniano, avvenuto il primo di maggio, 25 nuclei familiari

sono ora ospitati nella sede della protezione civile del

comune di Milano, situata a 400 metri dall’ex campo.

Queste 25 famiglie sono in attesa che che gli venga as-segnata una casa, di quelle

promesse dal nostro sindaco.

A.B.

FESTA FABERIl 18 GiugnoPresso il Gheroartè, via Gramsci 4, Corsico•Ingresso sostenitori 7 € con consumazione, •non sostenitori 10€. •Chi si abbona all’in-gresso entra gratis!

10 GiugnoPresso il Gheroartè,via Gramsci 4, Corsico.

EVENTI

Gioventù ribelle del ’48 Fino al 5 giugno, Palazzo Reale

“Nabucco. C’era una volta la figlia di un re” di Giuseppe VerdiDal 25 maggio Teatro degli Arcimboldi

Espressioni di Gio Pontifino al 24 luglio Triennale di MIlano

Fuori! Fino a settembre Museo del Novecento

WOMAN CHANGING INDIA dal 26 maggio al 19 giugnoSpazio Forma

MOSTRE TEATRO

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FUORI DI FESTA

NOTTE MAGICA

Il costo medio che ha sostenuto questa amministrazione per lo sgombero di un campo rom. Moltiplicato per i 500 sgomberi che si sono susseguiti in que-sti 5 anni da 10 875 000 euro spesi.

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