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RIVISTA DI DIRITTO E STORIA COSTITUZIONALE DEL RISORGIMENTO N. 3/2015 Pagina 1 EVOLUZIONE STORICA E PROFILI COSTITUZIONALI DELLA CAPACITA’ CONTRIBUTIVA di Tommaso Aucello Il tributo consiste in una somma di denaro che la persona, sia essa cittadino italiano che straniero, deve allo Stato in forza di un dato rapporto che viene a crearsi tra i due soggetti o perché lo Stato offre un servizio o perché lo prevede la legge al verificarsi di un presupposto di carattere economico. Nell’applicare il potere impositivo di carattere tributario, lo Stato italiano tiene in considerazione le condizioni economiche dei soggetti che entrano in rapporto con esso. Questo è indicato nell’art. 53 della nostra costituzione che al comma 1 sancisce: Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva”. La capacità contributiva è intesa come situazione economica del soggetto e che l’onere fiscale deve essere ripartito tra i soggetti in considerazione a questa. Tale concetto nasce in forza di un rapporto tra lo stato che offre servizi, il cittadino che usufruisce e l’interesse collettivo da soddisfare, detto anche interesse fiscale 1 . Le condizioni economiche da considerare vanno intese quelle derivanti da cessioni di beni, prestazioni di servizio e possesso di beni mobili o immobili. Possiamo dire che il principio di progressività, inteso dall’art. 53 della costituzione come capacità contributiva, trova tracce di applicazione nell’antica Roma, in cui il re o l’imperatore nell’applicare il tributo consideravano categorie deboli: le vedove, gli orfani e gli schiavi che, quindi, dovevano partecipare al pagamento del tributo in rapporto ai propri averi. Con l’avvento del cristianesimo l’impero romano ha dato maggiore riguardo alle vedove che non avevano beni, facendole partecipare al pagamento del tributo riconoscendo loro il pagamento di un obolo. L’obolo, nell'antica Grecia, era una moneta d'argento, poi anche d'oro e di rame, sesta parte della dramma, si intendeva dire “monetina”, moneta spicciola 1 Si ha una duplice conseguenza. Non tutti gli elementi espressivi di capacità economica possono essere ripresi come fatti al contempo espressivi di capacità contributiva: così, ad esempio, un reddito minimo, appena sufficiente a garantire una vita libera e dignitosa per il suo possessore e per i suoi familiari, manifesta bensì capacità economica, ma non quella contributiva. La seconda conseguenza è che nessun pregio può essere riconosciuto al c.d. interesse fiscale: tassare alcuno secondo parametri non idonei ad esprimere una capacità contributiva specifica ed effettiva per perseguire un interesse assertivamente predicato come superiore poiché appartenente allo Stato, è incompatibile sia col principio di capacità contributiva, sia col principio d’eguaglianza e con quello di solidarietà, se è vero, com’è da credere, che tutti questi principi non possono adattarsi a presupposti sostanziali “adulterati” da quell’interesse (sull’interesse fiscale, Boria, P., Capacità contributiva, in Comm. Cost., I, a cura di Bifulco, R.-Celotto, A.-Olivetti, M., sub art. 53, Torino, 2006, 1055 ss., e Id., L’interesse fiscale, Torino, 2002).

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RIVISTA DI DIRITTO E STORIA COSTITUZIONALE DEL RISORGIMENTO N.

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EVOLUZIONE STORICA E PROFILI COSTITUZIONALI

DELLA CAPACITA’ CONTRIBUTIVA

di Tommaso Aucello

Il tributo consiste in una somma di denaro che la persona, sia essa cittadino italiano che straniero, deve allo Stato in forza di un dato rapporto che viene a crearsi tra i due soggetti o perché lo Stato offre un servizio o perché lo prevede la legge al verificarsi di un presupposto di carattere economico. Nell’applicare il potere impositivo di carattere tributario, lo Stato italiano tiene in considerazione le condizioni economiche dei soggetti che entrano in rapporto con esso. Questo è indicato nell’art. 53 della nostra costituzione che al comma 1 sancisce: “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva”. La capacità contributiva è intesa come situazione economica del soggetto e che l’onere fiscale deve essere ripartito tra i soggetti in considerazione a questa. Tale concetto nasce in forza di un rapporto tra lo stato che offre servizi, il cittadino che usufruisce e l’interesse collettivo da soddisfare, detto anche interesse fiscale1. Le condizioni economiche da considerare vanno intese quelle derivanti da cessioni di beni, prestazioni di servizio e possesso di beni mobili o immobili. Possiamo dire che il principio di progressività, inteso dall’art. 53 della costituzione come capacità contributiva, trova tracce di applicazione nell’antica Roma, in cui il re o l’imperatore nell’applicare il tributo consideravano categorie deboli: le vedove, gli orfani e gli schiavi che, quindi, dovevano partecipare al pagamento del tributo in rapporto ai propri averi. Con l’avvento del cristianesimo l’impero romano ha dato maggiore riguardo alle vedove che non avevano beni, facendole partecipare al pagamento del tributo riconoscendo loro il pagamento di un obolo. L’obolo, nell'antica Grecia, era una moneta d'argento, poi anche d'oro e di rame, sesta parte della dramma, si intendeva dire “monetina”, moneta spicciola

1 Si ha una duplice conseguenza. Non tutti gli elementi espressivi di capacità economica possono

essere ripresi come fatti al contempo espressivi di capacità contributiva: così, ad esempio, un

reddito minimo, appena sufficiente a garantire una vita libera e dignitosa per il suo possessore e

per i suoi familiari, manifesta bensì capacità economica, ma non quella contributiva. La seconda

conseguenza è che nessun pregio può essere riconosciuto al c.d. interesse fiscale: tassare alcuno

secondo parametri non idonei ad esprimere una capacità contributiva specifica ed effettiva per

perseguire un interesse assertivamente predicato come superiore poiché appartenente allo Stato, è

incompatibile sia col principio di capacità contributiva, sia col principio d’eguaglianza e con

quello di solidarietà, se è vero, com’è da credere, che tutti questi principi non possono adattarsi a

presupposti sostanziali “adulterati” da quell’interesse (sull’interesse fiscale, Boria, P., Capacità

contributiva, in Comm. Cost., I, a cura di Bifulco, R.-Celotto, A.-Olivetti, M., sub art. 53, Torino,

2006, 1055 ss., e Id., L’interesse fiscale, Torino, 2002).

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L’Obolo di Caronte s’intendeva la monetina che gli antichi mettevano in bocca ai morti perché pagassero a Caronte il passaggio del fiume infernale Acheronte. Poteva essere considerata una tassa a fronte di un servizio pubblico. E’ nel Medioevo che affondano le radici dell’odierna capacità contributiva quando alcuni filosofi e teologhi del tempo che hanno esaminato le cause della giusta imposta, come Alberto Magno e Tommaso d’Aquino, i quali distinsero rispettivamente: causa efficiens, causa finalis, causa formalis e causa materialis. Grazie a tale teoria, e più precisamente dal combinato principio della causa materialis e dalla causa formalis, acquistano per la prima volta importanza argomenti quali “su chi” e “in quale misura” debba essere prelevato il tributo dal Principe e quando sussistano fatti idonei a far nascere tale esigenza. Alberto Magno, concentrando il suo pensiero sulla legittimità del prelievo tributario, dà vita al concetto della c.d. proporzionalità del tributo. Secondo il filosofo e teologo tedesco, l’imposta deve consistere in beni materiali e deve, inoltre, essere disposta nei limiti del potere dell’autorità che la richiede e per soli fini costituenti il bene comune della società. La proporzionalità in questione, però, differisce dalla proporzionalità così come la consideriamo noi oggigiorno. Il filosofo ne parla esclusivamente con riferimento alla realizzazione di un bene comune, tralasciando completamente la situazione economica del contribuente cui viene -o verrà- applicato il tributo. Seguendo l’impostazione data da Alberto Magno, quindi, il prelievo sarà legittimo solo se proporzionato ad un obiettivo di interesse collettivo. A modificare un’impostazione così rigidamente garantista è stato il Doctor Angelicus, Tommaso d’Aquino. Il filosofo concentrò la sua riflessione in materia non tanto sulla finalità del prelievo tributario, ma più sulla forma dello stesso. Tommaso d’Aquino precisa, infatti, che qualunque mezzo ordinato ad un fine deve avere una forma proporzionata a quel fine. Con Tommaso s’inizia, quindi, a parlare della c.d. facultas. Il tributo, ora, deve essere proporzionato alla facoltà di ognuno; dove per facoltà deve essere considerata la possibilità/condizione economica di ogni consociato. L’uomo, posto al centro della riflessione del Doctor Angelicus, si spoglia, quindi, dei suoi beni (quali i frutti naturali dell’agricoltura e della pastorizia, ma anche i redditi delle attività lucrative) per la salvezza della società. Il tributo ha, quindi, come fine necessario il bene comune della salute pubblica, e tale obiettivo sarà raggiunto tramite la proporzionalità del prelievo tributario. Nel 1700, il concepito concetto di capacità contributiva evolve ulteriormente perché viene considerata la possibilità di pagare l’imposta in base alle proprie possibilità economiche e che l’imposta va pagata a titolo di contribuzione.

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A consentire tale evoluzione, è stata la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino del 1789 il cui art. 13 statuiva che “Per il mantenimento della forza pubblica e per le spese d’amministrazione una contribuzione comune è indispensabile. Essa deve essere egualitariamente ripartita tra tutti i cittadini in ragione delle loro facoltà”. In questo articolo viene codificato il principio della facultas di Tommaso d’Aquino che transita in gran parte delle costituzioni europee dell’epoca, tra cui anche quella italiana pre-unitaria. Nella seconda metà dell’Ottocento in Italia, l’economista Siciliano Giuseppe Ricca Salerno fu il primo che si dedicò allo studio di alcune norme di carattere finanziario esaminando delicati temi delle imposte e delle contribuzioni generali, facendo concepire che l’imposta è un dovere generale, finalizzata a potere soddisfare bisogni pubblici e deve essere applicata considerando la capacità economica intesa come reddito dei soggetti. Quindi, detta anche il limite della capacità economica-contributiva, che la individua nel reddito del soggetto perché, se una imposta incide in maniera onerosa sul reddito, questo può creare danni alle esigenze vitali della persona. Santi Romano, invece, identifica la capacità contributiva con la ricchezza, sostenendo che l’imposta è un atto obbligatorio per soddisfare esigenze pubbliche; fa una distinzione tra i tributi speciali e la tassa, tra imposta diretta, considerata come manifestazione immediata ed accertata della capacità contributiva, ed imposta indiretta, considerata, invece, come manifestazione mediata della stessa capacità che viene presunta indirettamente. Benvenuto Griziotti, fa una ripartizione del concetto di capacità contributiva: nella prima individua che l’imposta costituisce il godimento dei vantaggi dei pubblici servizi; nella seconda individua l’indice di forza economica che ogni tributo tende a colpire. Griziotti fonda la sua intera costruzione teorica sullo Statuto Albertino. Lo Statuto Albertino del 1848, che ha recepito il contenuto dello statuto del Regno del Piemonte, non parlava di capacità contributiva in senso stretto ma, per l’art. 25 dello statuto, tutti i regnicoli dovevano contribuire ai carichi dello Stato «nella proporzione dei loro averi». Quindi consideravano solo i sudditi (regnicoli) e propri averi, mentre l’art 53 della costituzione del 1948, intende tutti coloro che entrano in rapporto con il nostro ordinamento giuridico in ragione alla propria capacità contributiva, intesa come condizione economica. La carta costituzionale del 1848, agli artt. 24 e 25, definiva superiori i principi di universalità, eguaglianza e necessaria correlazione tra contribuzione e “capacità contributiva”. Tali principi, alla luce della flessibilità dello Statuto, però, non potevano essere elevati a superiori gerarchici rispetto ad altri diritti, e proprio per

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ovviare a questa impasse, il Griziotti configura tali principi come generali del diritto tributario. Il Griziotti dal 1937 al 1949 tenta, inoltre, di superare il principio della “capacità contributiva” per sostituirlo con un nuovo “interesse individuale”, posto in capo ai titolari delle diverse forme di ricchezza che concorrono al finanziamento della spesa pubblica. Il giurista nobilita l’imposta, elevandola a quota individuale da calcolare con criteri di giustizia c.d. distributiva, basati sulla parità di trattamento tra i contribuenti che versano in pari situazioni. All’alba della costituente il pensiero griziottiano è stato attenuato con l’inserimento del nuovo concetto, secondo cui l’imposta è, ora, la prestazione pecuniaria che uno Stato, o un altro ente pubblico, ha il diritto di esigere in virtù della sua potestà di imperio. Viene meno sia la funzione di riparto sia la presenza di indici di forza economica. Secondo tale impostazione, però, potrebbe considerarsi imposta (giusta e legittima) anche l’eventuale prelievo discriminante la razza o la religione. In quest’epoca il problema non rileva tanto sul concetto teorico del principio della capacità contributiva, ma di sperequazione sulla sua applicazione pratica: infatti, succede che ad un’elevatissima tassazione vi sono servizi pubblici inidonei o assenti. L’art 25 dello statuto Albertino costituisce l’antecedente storico dell’art.53 Costituzione. Infatti, in tale disposizione sono indicati sia l’esistenza di un obbligo di contribuire alle spese pubbliche a carico dei consociati sia la fissazione di un limite al potere impositivo consistente nella proporzionalità con gli averi. L’interpretazione della dottrina costituzionalistica si allineava al modello illuministico: la norma dell’art.25, nello stabilire quale criterio di ripartizione dei tributi quello di proporzionalità, venne intesa come regola diretta a introdurre nell’ordinamento statale il principio di uguaglianza tra individui nella partecipazione alle spese dello Stato. La capacità contributiva è nozione anzitutto economica e, come formula normativa, comparve per la prima volta nei lavori preparatori della Costituzione, in una proposta di articolato formulata da Lelio Basso, nel corso della seduta del 16 novembre 1946 della prima sottocommissione della Commissione per la Costituzione. La proposta non venne approvata. Aldo Moro e Giuseppe Dossetti, nelle dichiarazioni di voto, tuttavia, riconobbero la necessità di prevedere in Costituzione una specifica disposizione riguardante le prestazioni patrimoniali imposte. L’Assemblea costituente si occupò dell’argomento nella seduta del 23 maggio 1947. In quella sede, a firma, tra gli altri, di Edgardo Castelli ed Ezio Vanoni, venne riproposto il principio di capacità contributiva come criterio fondante la contribuzione obbligatoria per «tutti quanti partecipano alla vita economica, sociale o politica dello stato».

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Nello svolgimento della discussione, fu proprio Castelli a riassumere le proposte emerse nel corso dei lavori ed a formulare, d’intesa con Luigi Meda e Salvatore Scoca, una proposta conclusiva, in termini esattamente corrispondenti a quelli poi trasfusi nell’art. 53, co. 1. Durante il dibattito, tuttavia, l’Assemblea non si soffermò tanto sulla nozione in sé di capacità contributiva: di essa, infatti, si parlò velocemente nell’intervento di Meuccio Ruini, presidente della “commissione dei 75”, che la definì “formula tecnicamente preferibile” rispetto alla nozione di “averi”, adottata nello Statuto albertino, e a quella di “mezzi”, contemplata nella Costituzione della Repubblica di Weimar. Piuttosto, l’Assemblea si preoccupò di un profilo, per così dire, contenutistico di detta capacità. Dalla lettura dei resoconti si desume con chiarezza come il timore dei costituenti, messo particolarmente in luce da Scoca e ripreso da Ruini, fosse quello di evitare che l’imposizione colpisse chi possedeva soltanto «un minimo necessario al soddisfacimento delle esigenze inderogabili della vita». Il tema delle esenzioni fu a lungo dibattuto. Poi prevalse la proposta, formulata dallo stesso Ruini, di evitare l’inserimento in Costituzione di un’autonoma previsione su questo tema, e non perché non fosse condivisa l’esigenza di preservare da imposizione quelle minime ricchezze, ma perché si ritenne che, a questo fine, fosse già sufficiente il principio di capacità contributiva. Principio che, come diffusamente esposto da Ruini nella seduta del 23 maggio 1947, contiene «in germe già l’idea delle limitazioni e delle esenzioni per il fatto che colui il quale dovrebbe contribuire non ha capacità contributiva ed in tali condizioni senza dubbio si trova chi non ha il minimo indispensabile per vivere». La discussione, sempre in assemblea, si appuntò, poi, sul criterio della progressività. Particolarmente significativi furono gli interventi di Scoca, Meda e Corbino, tutti tesi a garantire una sua puntuale formalizzazione in seno alla nuova Carta, come significativo fu l’intervento di Moro che, nella seduta del 19 novembre 1946 della prima sottocommissione della Commissione per la Costituzione, non esitò a schierarsi a favore della proporzionalità quale criterio di ripartizione “degli oneri che ricadono sui singoli cittadini”, come già previsto nello Statuto Albertino. Ruini, nell’intervento conclusivo del 23 maggio 1947, si espresse, invece, favorevolmente alla progressività e aderì alla proposta di inserirla in Costituzione, ma non come criterio valevole per tutte le imposte dirette o per l’imposta c.d. unica - sulla quale pure si discusse per farne un tributo sostitutivo delle vecchie e frammentate imposte reali e personali - ma come criterio riferibile “all’insieme del sistema tributario”, assunto, per l’appunto, “nel suo complesso”. Proprio quello che sarebbe stato scritto, alla fine, nel comma 2 dell’art. 53. Un cenno, infine, al profilo soggettivo. Anche di questo aspetto si occupò l’assemblea e due furono gli interventi più rilevanti: il primo di Castelli, che, “pur non nominandoli”, intendeva usare una locuzione in grado di

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ricomprendere tra i soggetti passivi dei tributi anche gli stranieri; il secondo di Ruini, il quale, pur raccogliendo questa indicazione, propose di adottare una formulazione sintetica, più adatta ai testi costituzionali: «non è necessario entrare in locuzioni vaghe: basta dire che “tutti devono concorrere”. Quel “tutti” riguarda anche gli stranieri». Anche in questo caso, la proposta di Ruini, formulata nella seduta dell’Assemblea del 23 maggio 1947, divenne articolato costituzionale.2 La capacita contributiva, secondo l’articolo 53 indica degli indici diretti di tale produttività che sono il reddito, il patrimonio, e indici indiretti che: sono il consumo e i trasferimenti. L'applicazione del principio della capacità contributiva deve rispettare: l'equità orizzontale, garantendo un trattamento uguale per coloro che si trovano nelle stesse condizioni; l'equità verticale, tassando in modo diverso i contribuenti con capacità contributiva diversa. Una possibilità di individuare un significato più preciso del termine capacità contributiva viene offerta dal principio del sacrificio. La capacità contributiva può avere due significati: 1) dal punto di vista dello Stato, significa che le leggi tributarie non devono colpire fatti che non siano espressivi di capacità contributiva; 2) dal punto di vista del contribuente, è una garanzia, in quanto il contribuente non può essere sottoposto alla tassazione, se non in presenza di fatti che esprimono capacità contributiva. Nella sentenza n. 21 del 2005, la Corte costituzionale ha affermato «l’incertezza che attualmente contrassegna la nozione di capacità contributiva», a proposito della possibilità di annoverare fra gli indici di capacità contributiva anche parametri connessi con il diverso status sociale dei vari contribuenti. Il principio di capacità contributiva è espressione di eguaglianza tributaria inteso non già nel senso che tutti devono contribuire in ugual misura, ma che deve venire assicurata dall’ordinamento uniformità di trattamento a parità di condizioni di capacità contributiva e diversità di trattamento in condizioni di diversità. Ciò si traduce in prelievo maggiore a fronte di capacità contributiva maggiore e corrispondentemente prelievo minore a fronte di capacità contributiva minore. Presupposto essenziale del prelievo tributario non può essere che la sussistenza di una fonte economica, non potendosi realizzare un prelievo laddove ricchezza non esiste. La Corte Cost. ha precisato che “il principio di capacità contributiva …. Risponde all’esigenza di garantire che ogni prelievo tributario abbia causa giustificatrice in indici concretamente rivelatori di

2Capacità contributiva, in Enciclopedia giuridica Treccani, Roma, 1988, 2;

Falsitta, G., Storia veridica, in base ai “lavori preparatori”, della inclusione del

principio di capacità contributiva nella Costituzione, in Rivista di diritto

tributario,2009, I, 97 ss.

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ricchezza, dai quali sia razionalmente deducibile l’idoneità soggettiva all’obbligazione d’imposta” (Corte Cost. N. 200/1976. Nello stesso senso Corte Cost. 62/1977; 159/1985; 143/1995; 21/1996; 111/1997). Tale ricchezza (capacità contributiva) deve essere effettiva ed attuale. Effettiva: la ricchezza non può essere meramente potenziale (divieto di presunzioni legali di tipo assoluto: certezza della capacità contributiva). Attuale: sia in relazione a ricchezza del passato (irretroattività) che per il futuro (anticipazione del prelievo su fatti non ancora verificati). Negli anni '60 fu studiato il concetto di capacità contributiva come forza economica, cioè come possesso di ricchezza idoneo a giustificare il prelievo fiscale nell'interesse collettivo. Questa interpretazione è in parte basata sulla tradizione storico-costituzionale in materia di limiti al potere tributario: la Costituzione di Weimar faceva riferimento agli averi dei soggetti, lo Statuto Albertino menzionava le cosiddette facoltà economiche. In entrambi i casi, si sanciva che nessuno poteva intaccare oltre certi limiti la disponibilità economica complessiva dei sudditi. Nel vigente ordinamento giuridico italiano, il principio di capacità contributiva assicura che ogni prelievo sia giustificato da indici rivelatori di ricchezza, per una giusta ripartizione del carico fiscale. La Corte costituzionale già dalla fine degli anni '60 è andata via specificando il concetto di capacità contributiva come forza economica sul piano garantistico: per il giudice delle leggi, la capacità contributiva assicura che ogni prelievo sia giustificato da «indici concretamente rivelatori di ricchezza», e cioè assicura che sia colpita l'effettiva idoneità del soggetto al prelievo fiscale. Non basta dunque il verificarsi del presupposto d'imposta, ma occorre che tale presupposto (ovvero il possesso di reddito) manifesti la situazione economica complessiva del contribuente, ai fini di una giusta ripartizione del carico fiscale. Non tutta la capacità economica è però capacità contributiva come è facile desumere dal principio dell'esclusione del minimo vitale. Sul piano sistematico, gli indici di capacità contributiva sono il reddito, il patrimonio, il consumo; a questi, si aggiungono la spesa complessiva, gli incrementi patrimoniali e gli incrementi di valore del patrimonio non legati ad un'attività del soggetto passivo. In presenza di questi indici, la prestazione tributaria trova la sua giustificazione nella mera possibilità economica (effettiva e reale, non presunta o fittizia) di concorrere all'interesse collettivo, in ragione dell'esistenza di una ricchezza superiore alle esigenze dell'economia individuale. Il patrimonio è uno stock di ricchezza a cui di solito corrisponde un flusso di reddito. Il reddito è un flusso destinabile al consumo e al risparmio, sia pure in proporzioni variabili da soggetto a soggetto. Il consumo è la quota del reddito non risparmiata. Sono tre indici non alternativi: i moderni sistemi

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tributari, tra cui quello italiano, li assumono contemporaneamente, anche se con diverso rilievo, in quanto ciascun indice ha caratteristiche proprie. Con la sentenza n. 155 del 2001, la Corte costituzionale ha chiarito che «la capacità contributiva non presuppone l’esistenza necessariamente di un reddito o di un reddito nuovo, ma è sufficiente che vi sia un collegamento tra prestazione imposta e presupposti economici presi in considerazione, in termini di forza e consistenza economica dei contribuenti o di loro disponibilità monetarie attuali, quali indici concreti di situazione economica degli stessi contribuenti». Il concetto di capacità contributiva come limite alla discrezionalità del legislatore tributario è stato introdotto dalla Cassazione nel 1946. Con la sentenza n. 156 del 2001, la Corte Costituzionale ha affermato che: - «rientra nella discrezionalità del legislatore, con il solo limite della arbitrarietà, la determinazione dei singoli fatti espressivi della capacità contributiva che, quale idoneità del soggetto all’obbligazione di imposta, può essere desunta da qualsiasi indice che sia rivelatore di ricchezza e non solamente dal reddito individuale»; - «nel caso dell’IRAP il legislatore, nell’esercizio di tale discrezionalità, ha individuato quale nuovo indice di capacità contributiva, diverso da quelli utilizzati ai fini di ogni altra imposta, il valore aggiunto, prodotto dalle attività autonomamente organizzate». La giurisprudenza costituzionale ha da sempre ribadito i requisiti di effettività ed attualità (cfr. sentenza n. 44/1966) della capacità contributiva, censurando le presunzioni assolute in materia tributaria ed escludendo l'imponibilità del cosiddetto minimo vitale, che contraddicono a questi requisiti. Si pongono in questo ambito il problema del c.d. redditometro e quello più recente degli studi di settore, che sono giustificati dalla normativa antielusiva. Per effettività s’intende il legame tra fatto rivelatore di capacità contributiva e tributo, effettivo e non apparente o fittizio. Storicamente vi sono state imposte non collegate alla capacità contributiva (ad es. imposta sul celibato, introdotta dal diritto romano e ripresa nell'epoca del Fascismo) ed attualmente sembra che l'imposta di bollo sia congegnata in modo da prescindere dalla rilevanza economica dell'atto. Analogo discorso si fa in materia d’imposta di registro, che colpisce anche atti nulli o privi di capacità contributiva come i decreti ingiuntivi, le sentenze di fallimento, le locazioni di beni immobili e i tributi ipotecari. In particolare, i tributi ipotecari colpiscono l'iscrizione di ipoteca, atto dal contenuto patrimoniale, ma privo di manifestazioni di forza economica, soprattutto se lo si guarda dal punto di vista del debitore insolvente. Tutte le forme di riduzione del prelievo fiscale, rappresentate da una delimitazione del presupposto o della base imponibile, non si pongono come deroga al principio di capacità contributiva, ma anzi ne sono attuazione. Le agevolazioni e le esenzioni fiscali rappresentano, invece, delle vere e proprie deroghe all'operatività del principio di capacità contributiva.

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La legge delega per la riforma tributaria 9 ottobre 1971, n. 825, raccomandava all'art. 9 che la materia delle esenzioni, delle agevolazioni e dei regimi fiscali sostitutivi rispondesse al criterio di «limitare nella maggior misura possibile le deroghe ai principi di generalità e di progressività dell’imposizione». L’art. 9 della legge delega è stato attuato dal d.p.r. 29 settembre 1973, n. 601, contenente appunto la disciplina delle agevolazioni tributarie. Tale decreto ripartì sistematicamente le agevolazioni tributarie in: agevolazioni di carattere soggettivo; agevolazioni di carattere territoriale; agevolazioni per determinati atti, operazioni o beni tassativamente

indicati. La medesima nozione di agevolazione fiscale, come deroga ai principi di generalità e progressività dell’imposizione, è stata ripresa dalla legge delega n. 80 del 7 aprile 2003, per la riforma del sistema fiscale statale. Poiché la capacità contributiva deve misurarsi con altri interessi diversi da quello di assicurare il gettito fiscale, l’agevolazione fiscale si giustifica solo laddove persegua una funzione extrafiscale riconosciuta dall’ordinamento. Solo in presenza di tale condizione può ammettersi una deroga al principio di capacità contributiva, che altrimenti risulterebbe violato, ponendosi l’agevolazione come un trattamento di favore concesso per situazioni soggettivamente od oggettivamente particolari e, quindi, in violazione del principio di uguaglianza economica di cui agli articoli 3 e 53 della Costituzione. Le prime analisi giurisprudenziali svolte sull’articolo 53 della Costituzione proposero un’interpretazione riduttiva del concetto di capacità contributiva, attraverso l’attribuzione di un senso vago ed indeterminato3. Alcuni economisti4 che per primi hanno analizzato questo concetto, lo considerarono come una "scatola vuota" a cui il legislatore poteva attribuire la portata più varia a seconda delle scelte di politica fiscale contingenti. Prevalse però presto l’idea che l’articolo 53 fosse una norma programmatica, quindi non di immediata applicazione: il legislatore aveva la possibilità di procedere in seguito a una più completa determinazione e specificazione di tale concetto. Purtroppo la conseguenza di tale interpretazione fu la seguente: una norma che avesse potenzialmente violato tale principio non poteva essere sottoposta al vaglio di legittimità da parte della Corte costituzionale. Tuttavia, dopo qualche anno dalla nascita della Costituzione Repubblicana, la Consulta con la storica sentenza n. 1 del 5 giugno 1956,

3 La capacità contributiva nell’ordinamento tributario italiano alla luce della recente

giurisprudenza della Corte Costituzionale: principio solidaristico o teoria del “beneficio”?, Franco

Castellucci, www.diritto.it, 16 dicembre 2010; 4 Annamaria Morlacchi, Manuale di Scienza delle Finanze, Napoli, Edizioni Giuridiche Simone,

2014;

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modificò tale impostazione, stabilendo che la verifica della legittimità costituzionale di una norma potesse anche derivare dal contrasto con una norma programmatica. Ma il passo più grande, nonostante vi fossero numerose pressioni in tal senso, quello che interpretasse la norma come immediatamente precettiva, ossia con efficacia vincolante per il legislatore ordinario, fu compiuto solo con la sentenza n. 45 del 4 giugno 1964 con la quale la Corte stabilì che: “per capacità contributiva si deve intendere l’idoneità economica del contribuente a corrispondere la prestazione coattiva imposta”. La dottrina dominante all’epoca, sostanzialmente rimasta tale anche oggi, è concorde nel ritenere la capacità contributiva come l’idoneità economica dell’individuo a concorrere alle spese pubbliche, la quale si esprime attraverso indici economicamente valutabili quali: il patrimonio, il reddito, il risparmio, la spesa effettuata per consumi e/o investimenti, i trasferimenti di ricchezza e/o beni, le rendite finanziarie; fenomeni, cioè, sempre suscettibili di una valutazione economica oggettiva. Imposte che colpissero fatti differenti sarebbero incostituzionali, come lo stato civile di una persona o la sua appartenenza religiosa o politica e simili. In questa lenta evoluzione, l’art. 53, 1° comma, esprime ora, non solo un criterio di misurazione del prelievo fiscale di ricchezza, ma anche il presupposto di legittimità giuridica dell’imposizione tributaria e si allaccia strettamente al principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 della Costituzione. Dall’art. 3 si desume che le prestazioni tributarie devono gravare in modo uniforme su tutti i soggetti che manifestano la stessa capacità contributiva ed in modo diverso, secondo il criterio della progressività, su soggetti che hanno manifestazioni di ricchezza differenti. Tuttavia, il principio di uguaglianza non impedisce che vi possano essere trattamenti in apparenza differenti rispetto ad alcune fattispecie. L’ordinamento giuridico, infatti, legittima trattamenti di favore, quali agevolazioni, se ciò risponde a scopi costituzionalmente riconosciuti: ne sono esempio le norme che agevolano il lavoro (art. 35), la salute (art. 32), la famiglia (art. 31), il risparmio (art. 47). Corollario del principio di uguaglianza, che impone al legislatore di trattare in modo uguale le situazioni che esso stesso mostra di considerare tali, è che la legge non deve contenere disposizioni intrinsecamente contraddittorie, esigendo coerenza interna. Di fronte a situazioni che il legislatore considera uguali, non sono ammissibili contraddizioni: il canone di coerenza riferito alla disciplina di un tributo comporta che, assunto un presupposto quale indice di capacità contributiva, ogni fattispecie imponibile deve essere espressione di quella particolare ipotesi di capacità contributiva. In tal senso la Corte Costituzionale con la sentenza n. 13 del 1986, in tema d’imposta di successioni, dichiarò incostituzionali le norme dell’imposta che trattavano i discendenti dei figli adottivi del de cuius in modo più sfavorevole rispetto ai discendenti dei figli legittimi. Altro aspetto esaminato dalla Corte è stato quello riguardante il sacrificio patrimoniale che viene imposto ai consociati e che deve essere proporzionale

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alla concreta possibilità del singolo di potersi privare di una parte dei propri averi per metterla a disposizione della comunità, dopo aver soddisfatto i suoi bisogni fondamentali. Un reddito minimo (tale concetto non appaia indeterminato in quanto spesso in giurisprudenza si fa riferimento al paramento della pensione minima) non può in alcun modo essere considerato un indice di capacità contributiva, per cui lede l’art. 53 Cost. ogni tributo che possa incidere su tale minimo. La conseguenza di tale ragionamento giuridico è che vi è un limite massimo alla misura del tributo e spetta al legislatore, nella sua discrezionalità, fissarlo, nel rispetto del principio di ragionevolezza e tenendo conto di tutti i tributi che gravano su di una medesima manifestazione di ricchezza. Allora un tributo deve rispettare quanto previsto dall’art. 53, collegandolo con un’azione combinata con gli altri principi garantiti dalla Costituzione, fra i quali, in particolare, il diritto alla salute ex art. 32 Cost. Con la sentenza n. 134 del 7 luglio 1982 la Corte Costituzionale stabilì, sulla detraibilità delle spese mediche dalle imposte sul reddito, che tale detrazione non può essere generale ed illimitata, ma va concretata e commisurata dal legislatore ordinario secondo un criterio che concili le esigenze finanziarie dello Stato con quelle del cittadino chiamato a contribuire ai bisogni della vita collettiva e di quelli della vita individuale. L'ordinanza n. 36 del 26 gennaio 2009, in tema di aiuti comunitari e capacità contributiva, ha dichiarato manifestamente privi di fondamento i dubbi di costituzionalità degli artt. 27 della legge 18 aprile 2005, n. 62 e 1 del decreto-legge 15 febbraio 2007, n. 10, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 aprile 2007, n. 46, norme che assoggettano retroattivamente all'imposta sui redditi alcuni contribuenti beneficiari di esenzioni fiscali costituenti aiuti di Stato incompatibili con l'ordinamento comunitario e consentono all'amministrazione finanziaria di emettere atti impositivi relativi all'IRPEG degli anni dal 1995 al 1998, dopo oltre 10 anni dalla formazione del reddito imponibile. In effetti, osserva la pronuncia, il rimettente «oscura di considerare che dette norme perseguono l'obiettivo di porre rimedio all'illecito comunitario commesso dal legislatore italiano mediante l'illegittima attribuzione ad alcuni contribuenti [...] di esenzioni fiscali integranti aiuti di Stato incompatibili con il mercato comune», esenzioni fiscali che, secondo la decisione n. 2003/193/CE della Commissione CE e la sentenza 1 giugno 2006 in causa C-207/05 della Corte di Giustizia, sono incompatibili con l'ordinamento comunitario, con conseguente obbligo dello Stato italiano di procedere al recupero delle somme corrispondenti. L'inapplicabilità delle esenzioni fiscali avrebbe dovuto essere rilevata dagli stessi beneficiari delle agevolazioni, che «hanno l'onere di diligenza di accertare il rispetto della procedura comunitaria prevista per la concessione degli aiuti di Stato» e, in caso di inottemperanza all'onere, non vantano alcun legittimo affidamento sugli aiuti percepiti. Pertanto, non c'è violazione né dell'art. 53 Cost., perché il prelievo fiscale rappresenta il recupero dell'ammontare dell'esenzione fiscale indebitamente

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concessa e «non è effetto di un'ulteriore imposta ad efficacia retroattiva», né dell'art. 97 Cost., posto che il recupero delle suddette somme comporta la sottoposizione ad imposta di redditi che all'epoca della loro formazione erano già imponibili e non lede, ma attua i principi di imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione. Interessante è l’orientamento espresso della Corte di Cassazione in materia tributaria (confermato, da ultimo, con l’ordinanza n. 394 del 19 novembre 2008): secondo la quale “un indice di capacità contributiva può essere considerato adeguato, ai sensi dell’art. 53 della Costituzione, nella misura in cui sia «espressivo di una specifica posizione di vantaggio economicamente rilevante»; e ciò indipendentemente dal fatto che il bene assoggettato a tassazione risulti idoneo a produrre reddito. La capacità contributiva come misura del vincolo solidaristico si richiama la delicata questione del cosiddetto federalismo fiscale: problematica su cui si misurano varie “filosofie” attuative. La realizzazione di un sistema tributario che attribuisca anche alle Regioni a statuto ordinario ed agli enti locali un autonomo potere impositivo è certamente complessa, ma è un intervento che si colloca nella scia della riforma del Titolo V della Carta. In particolare, risulta indilazionabile la emanazione di norme di attuazione dell’art. 119, per dare assetto definitivo al rapporto fra i sistemi tributari, statale e regionali5. Sul punto, merita di essere segnalata la sentenza n. 102 del 13 febbraio 2008, secondo la quale lo statuto speciale della Regione Sardegna - analogamente a quelli delle altre Regioni a statuto speciale - riconosce un’autonomia maggiore di quella prevista dal riformato Titolo V, Parte II della Costituzione per le Regioni a statuto ordinario. Queste ultime sono assoggettate infatti a un doppio limite: l’obbligo di esercitare il proprio potere di imposizione in coerenza con i principi fondamentali di coordinamento; il divieto di istituire o disciplinare tributi già istituiti da legge statale o di stabilirne altri, aventi lo stesso presupposto (almeno fino alla legge statale di coordinamento). Invece l’unica, ma significativa condizione posta dallo statuto sardo è «l’armonia con i principi del sistema tributario statale»: armonia che la Corte ha ritenuto non esservi in alcune fra le cosiddette tasse regionali sul lusso, dichiarate incostituzionali. La Corte con l’ordinanza n. 258 del 23 luglio 2009 ha dichiarato la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 2, del Decreto Legislativo 15 dicembre 1997, n. 446 (Istituzione dell’imposta regionale sulle attività produttive). Giova, tuttavia, ripercorrere in dettaglio il ragionamento compiuto dalla Corte nel risolvere il caso, che sembra orientata nel dichiarare l’illegittimità costituzionale della norma modificando il suo precedente orientamento giurisprudenziale, rileva che poiché l'art. 6 del decreto-legge n. 185 del 2008 prevede che, a partire dal periodo d'imposta in

5 In tal senso Giovanni Maria Flick, “Le considerazioni finali del Presidente della Corte di

Cassazione” (in occasione dell’Udienza straordinaria del 28 gennaio 2009);

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corso al 31 dicembre 2008, è ammesso in deduzione un importo pari al 10 per cento dell'Irap, «forfetariamente riferita all'imposta dovuta sulla quota imponibile degli interessi passivi e oneri assimilati al netto degli interessi attivi e proventi assimilati ovvero delle spese per il personale dipendente e assimilato al netto delle deduzioni spettanti», e che, per i periodi di imposta anteriori, per i quali era stata presentata istanza di rimborso, è ammesso il rimborso per una somma fino al 10 per cento dell'Irap dell'anno di competenza, da eseguirsi secondo l'ordine cronologico di presentazione delle istanze, nel rispetto dei limiti di spesa indicati, e che, ai fini dell'eventuale completamento dei rimborsi, si provvederà all'integrazione delle risorse con successivi provvedimenti legislativi. La Corte conclude che occorre restituire gli atti alle Commissioni tributarie rimettenti, perché operino una nuova valutazione della rilevanza e della non manifesta infondatezza della questione. Interessanti, in questo quadro di riferimento, risultano poi alcune argomentazioni a difesa della costituzionalità della norma; in particolare, l'Avvocatura dello Stato sostiene che rientra nella discrezionalità del legislatore: - non solo individuare i singoli fatti indice di ricchezza ed espressivi della capacità contributiva, ma anche definire il regime giuridico tributario del fatto assunto come presupposto della imposizione, con particolare riferimento al reddito imponibile ai fini delle imposte dirette, e che l'indeducibilità dell'Irap costituisce il frutto di una consapevole scelta operata dal legislatore, in coerenza con il sistema tributario e con la prevista destinazione del gettito dell'Irap alle Regioni; - ma anche dell'entità e della proporzionalità dell'onere tributario, anche con riferimento agli oneri deducibili, e che la scelta della non deducibilità non è irragionevole ed arbitraria, in considerazione della fisiologica traslazione dell'onere fiscale e delle ragioni di semplificazione, sotto il profilo della gestione amministrativa dell'imposta e della regolazione dei flussi finanziari tra Stato e Regioni. Parimenti interessante è l’ordinanza n. 22 del 25 gennaio 2010 con la quale la Corte dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale degli artt. 17 e 25 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241 (Norme di semplificazione degli adempimenti dei contribuenti in sede di dichiarazione dei redditi e dell’imposta sul valore aggiunto, nonché di modernizzazione del sistema di gestione delle dichiarazioni) e 34 della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge finanziaria 2001), sollevata con riferimento all’art. 53, anche se per motivi di carattere procedurale, nel merito, infatti, la questione presenta sicuramente aspetti di incostituzionalità nella parte in cui, pur riconoscendo l'istituto della compensazione, si stabilisce una soglia massima di compensabilità uguale per tutti senza tenere conto della grandezza dell'impresa, della sua qualificazione, del volume di affari, dei rapporti economici intra e infra nazionali, dello stato finanziario in

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cui momentaneamente versa, causato da fatti non imputabili ad essa, determinando irragionevolmente una disciplina uniforme in relazione a situazioni soggettive ed oggettive che possono presentare rilevanti differenze. Anche se la Corte sostiene che “Peraltro, per ricondurre a ragionevolezza la normativa censurata, sarebbe necessaria una disciplina modulata con riferimento alle varie situazioni di fatto ipotizzate, la cui previsione competerebbe alla discrezionalità del legislatore ordinario, e non rientrerebbe nei poteri di questa Corte. Ancora, la Corte ha rigettato una questione di legittimità costituzionale con la sentenza n. 302 del 18 ottobre 2010, ma come nella precedente ordinanza quello che conta non è solo la decisione, ma il ragionamento giuridico che ha condotto alla sentenza e le interessanti teorie che si sono prospettate all’interno del processo. Con ordinanza del 5 gennaio 2009, il Tribunale di Sanremo ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 251, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2007) per violazione degli artt. 3, 53 e 97 della Costituzione, tale ha previsto tra l’altro le nuove modalità per il computo del canone demaniale marittimo. Ebbene il giudice costituzionale anche se si è in parte richiamato ad altre precedenti sentenze riguardanti il medesimo argomento (n. 174 del 1998 e n. 311 del 1995), ha precisato, chiarendo indirettamente ancora il concetto di capacità giuridica, che: “la censura riferita all’art. 53 Cost. è del tutto infondata, giacché i canoni demaniali marittimi non hanno natura tributaria, ma sono corrispettivi dell’uso di un bene di proprietà dello Stato e costituiscono quindi un prezzo pubblico calcolato in base a criteri stabiliti dalla legge.” A conclusione di questo breve excursus giurisprudenziale è possibile trarre alcune conclusioni: a) il concetto di capacità contributiva espresso nel primo comma dell’art. 53 sembra ormai dal punto di vista concettuale notevolmente “scandagliato” ed assimilato dalla giurisprudenza della Corte che ormai lo interpreta in maniera costante; b) diversamente, la sua effettività nella legislazione ordinaria, sembra ancora lontana, ma questo fa parte della politica degli esecutivi che si sono succeduti nel corso di questi anni; La legge sul federalismo fiscale6, del 5 maggio 2009, n. 42 ove, tra i principi della delega, sono stati contemporaneamente richiamati sia il rispetto dei canoni costituzionali, la capacità contributiva e la progressività del sistema tributario, nonché la finalità di assicurare concreta e “piena attuazione” a tutti i precetti costituzionali che impegnano la Repubblica ad operare nel senso del favor familiae. 6 M. Mazziotti Di Celso, G.M. Salerno, Manuale di diritto costituzionale, Padova, Wolters Kluwer

Italia, 2014;

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La disposizione della legge delega sul federalismo fiscale che ha previsto, quale principio e criterio direttivo dell’intera disciplina del nuovo sistema tributario, l’effettiva attuazione del favor familiare presente nella Costituzione, deve essere considerata non soltanto conforme al dettato costituzionale complessivamente inteso, ma anche necessaria e doverosa attuazione di quest’ultimo. Concludendo, con l’avvento del federalismo fiscale, il principio di cui all’art. 53 della costituzione è rimasto tale nella sua concretezza e va esaminato in un contesto territoriale (Regione). Enti titolati di potere impositivo che se aumentano le imposte ne risentono le condizioni economiche delle famiglie e, di conseguenza, va ad incidere sulla reale capacita contributiva. In questo modo si attenua la capacità contributiva delle famiglie che vedono aumentato il loro carico fiscale.