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Aesthetica Preprint Estetica e critica d’arte in Konrad Fiedler di Maria Rosaria De Rosa Centro Internazionale Studi di Estetica

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Estetica e critica d’artein Konrad Fiedlerdi Maria Rosaria De Rosa

Centro Internazionale Studi di Estetica

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Il Centro Internazionale Studi di Esteticaè un Istituto di Alta Cultura costituito nel 1980 da un gruppo di studiosi di Estetica. Con D.P.R. del 7-1-1990 è stato riconosciuto Ente Morale. Attivo nei campi della ricerca scien-tifica e della promozione culturale, organizza Convegni, Seminari, Giornate di Studio, Incontri, Tavole rotonde, Conferenze; cura la collana editoriale Aesthetica© e pubblica il periodico Aesthetica Preprint© con i suoi Supplementa. Ha sede presso l'Univer-sità degli Studi di Palermo ed è presieduto fin dalla sua fondazione da Luigi Russo.

Aesthetica Preprint©

è il periodico del Centro Internazionale Studi di Estetica. Affianca la collana Aesthetica© (edita da Aesthetica Edizioni, commercializzata in libreria) e presenta pre-pubblicazioni, inediti in lingua italiana, saggi, bibliografie e, più in generale, documenti di lavoro. Viene inviato agli studiosi impegnati nelle problematiche estetiche, ai repertori biblio-grafici, alle maggiori biblioteche e istituzioni di cultura umanistica italiane e straniere.

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77Agosto 2006

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Il presente volume viene pubblicato col contributo del MIUR (PRIN 2005, re-sponsabile scientifico prof. Luigi Russo) – Università degli Studi di Palermo, Dipartimento di Filosofia, Storia e Critica dei Saperi (FIERI), Sezione di Estetica.

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Maria Rosaria De Rosa

Estetica e critica d’artein Konrad Fiedler

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A mio padree a quelli che dopo di lui imparo ad amare

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Indice

Introduzione 9Estetica e critica d’arte 13Bellezza e arte fra Seicento e Settecento 41

Appendice

Sulla teoria artistica recente: Winckelmann, Lessing, Kantdi Konrad Fiedler 59

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Introduzione

Riproporre una lettura di Fiedler 1, a più di cento anni dalla sua morte, potrebbe sembrare un’idea dettata da un interesse in qualche modo antiquario. Tornare a riflettere sui suoi scritti potrebbe confi-gurarsi come anacronistico e fuori da quei circuiti di cui, da qualche parte, ancora si discute, dopo tutti i dopo possibili: la post-avanguar-dia, il post-moderno, il post-storia. Ma tornare nei luoghi e su quei punti che hanno caratterizzato i suoi percorsi è forse meno insolito di quanto solitamente si creda, se solo si riflette sul fatto che i suoi scritti possono impegnare competenze e interessi differenti, chiamati a dialogare su un nodo che è nodo di fondazione, appunto, di un sapere: quello che da almeno un secolo, e dunque dopo Fiedler, caratterizza l’attività artistica.

Il nome di Fiedler, si sa, è legato alla nascita della Kunstwissen-schaft 2, il movimento che in Germania, agli inizi del Novecento, co-minciava a porre la critica d’arte come disciplina scientifica, e dunque non più confusa con l’estetica e con il giudizio di gusto di kantiana memoria. Ma il ruolo da lui giocato non si esaurisce solo dentro e alle origini di quel movimento, che ha visto eminenti autori riflettere, dopo di lui, sui transiti, sugli scenari e sulle insidie dell’universo formale: Hildebrand, Riegl, Wölfflin, Focillon, e poi tanti altri ancora, come ha insegnato Salvini 3 in maniera esemplare. Anzi, sembra proprio che egli abbia inaugurato i transiti della critica d’arte del Novecento che, si sa, è legata alle grandi metodologie: Wölfflin, Riegl e Worringer da una parte, ma anche Cassirer, Panofsky e Gombrich dall’altra.

Infatti, ponendosi come erede dei grandi filosofi del Settecento, ma più lontano nel tempo, perfino della tradizione socratica, l’autore porta a compimento la rivoluzione che proprio Kant aveva avviato, inaugu-rando l’analisi dei processi e dei funzionamenti della conoscenza. Ma il punto più interessante è il fatto che Fiedler porta a compimento tale rivoluzione dalla parte dell’arte, o meglio della pittura. E, così, rende possibile non solo i percorsi dell’arte degli inizi del secolo ma anche i transiti di quella critica che di tale arte doveva proporsi come il suo commento.

È sicuramente la complessità di questi snodi ad aver spinto Luigi

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Russo ad aggiungere alla collana da lui diretta (da sempre impegnata a riflettere su classici del pensiero legato all’arte e alla sua teoria) una scelta dei lavori più importanti di Fiedler, nella recentissima edizione a cura di Pinotti e Scrivano. Si tratta della presentazione di tre saggi, due dei quali (Sulla valutazione delle opere d’arte e Sull’origine del-l’attività artistica) erano stati già presentati nel 1963 da Ragghianti, in un’edizione da tempo esaurita, e che oggi vengono rivisitati a partire da una più articolata strumentazione logica e linguistica. A questi si aggiunge un terzo scritto di Fiedler, presentato per la prima volta in Italia e poco frequentato perfino in Germania: uno scritto che rac-coglie tre lavori postumi, presenti nel lascito della Fiedleriana, per la prima volta combinati insieme nel 1914, e che, anche nel titolo Tre frammenti su realtà e arte, conservano il loro carattere incompiuto. Testo frammentato, però decisamente centrale, dove Fiedler, sottolinea-no i due curatori, sembra costruire in progressione il suo interrogarsi sulla portata epistemologica dell’attività artistica.

Quello proposto oggi è un progetto complesso che tenta di co-struire, attraverso le proprie scelte, i momenti significativi e le tappe determinanti del pensiero fiedleriano: la questione della genesi di cui l’atto di valutazione deve tener conto (il saggio del 1876), l’origine e l’articolazione di quell’attività che riguarda l’arte (lo scritto del 1887), e la discussione relativa alla valenza conoscitiva dell’arte nei suoi rap-porti con la realtà (i tre frammenti).

È a partire da questi discorsi che il presente lavoro prende le mos-se, presentando le condizioni storiche che hanno consentito a Fiedler di modulare la sua problematica: la fondazione di quella disciplina che si è soliti associare al suo nome e che ha visto alla fine dell’Ottocento la critica d’arte emanciparsi dall’estetica per intraprendere il proprio cammino all’incontro con la pratica artistica delle avanguardie.

Condizioni storiche, si è detto. Infatti, l’interrogarci intorno a quel nodo tra estetica e critica d’arte da cui parte Fiedler ha fatto emergere la questione dei suoi rapporti con quella tradizione da cui proveniva e con la quale intendeva rompere ogni dialogo: la teoria artistica del Settecento di cui contestava l’apparato concettuale. Una tradizione che sicuramente contava esponenti eccellenti: Kant, in primo luogo (nella versione della terza Critica), e poi, sul versante della teoria artistica, i nomi ben noti di Winckelmann e di Lessing.

Così, attraverso la rivisitazione di altri pezzi di frammenti postumi nell’opera di Fiedler, una serie di appunti e di note relativi alle sue letture di autori del Settecento, abbiamo provato a ripercorrere i mo-menti salienti del suo itinerario teorico organizzato, spesso, intorno alla esibizione di un vocabolario di termini proposti in maniera oppositiva: quelli buoni (origine, attività artistica, forma, visione) e quelli sospetti (imitazione, bellezza, classico, concetto e logos). E l’ipotesi che l’autore si sia mosso su questo doppio binario ci ha spinti a verificare se di

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questi testi classici Fiedler si ponga come interprete attento o piuttosto come lettore in cerca di conferme.

Di qui l’urgenza di mettere a confronto quanto Fiedler trova in que-sti autori e quanto omette o non riesce a leggere: l’emergenza di un pensiero estremamente complesso che proprio attraverso quei concetti sotto accusa spinge la discussione teorica sull’arte verso punte di forte complessità. Punte che qui abbiamo ritenuto necessario riattraversare.

Altrettanto suggestivo e determinante, inoltre, ci è sembrato l’invi-to di Carchia di tornare a ripensare Fiedler, perché alle origini di un pensiero che guarda all’origine, dell’attività artistica, della processualità che la distingue e del suo tempo specifico. E pure felice ci appare il tentativo messo in piedi dall’autore di coniugare le riflessioni fiedleria-ne di nuovo all’incontro con l’estetica e con quelle famose categorie bistrattate (la bellezza e l’idea di classico) verso la fondazione di una disciplina che non incontri soltanto sul suo cammino la pittura, ma che muova proprio da lei: da quelle questioni su cui si interrogava Fiedler alla fine dell’Ottocento 4.

Così presentiamo in appendice la sezione degli Scritti che, con il titolo Zur neueren Kunsttheorie, raccoglie l’insieme di appunti e recen-sioni mediante i quali Fiedler si propone come interprete delle teorie artistiche del Settecento.

1 L’edizione più recente degli Scritti, in lingua originale, è K. Fiedler, Schriften zur Kunst, a cura di G. Boehm, 2ª ed. ampliata, Fink, München 1991 (in due volumi).

2 In Italia il dibattito su Fiedler è stato avviato per tempo da Benedetto Croce. Cfr. Este-tica come scienza dell’espressione e linguistica generale, Laterza, Bari 1928, e Storia dell’estetica per saggi, Laterza, Bari 1942. Ma spetterà a Morpurgo Tagliabue chiarire gli elementi centrali di tale dibattito L’esthétique contemporaine: un enquéte, Marzorati, Milano 1960. Circa i ter-mini della questione ci permettiamo di rinviare al primo capitolo del nostro M. R. De Rosa, Theodor Lipps. Estetica e critica delle arti, Guida, Napoli 1990, pp. 9-43.

Per l’analisi, in Italia, delle opere di Fiedler vanno segnalati soprattutto i seguenti con-tributi: C. L. Ragghianti, Il significato dell’opera di Fiedler, in K. Fiedler, L’attività artistica: tre saggi d’estetica e teoria della pura visibilità, trad. it. Neri Pozza, Vicenza, 1963; A. Banfi, Introduzione a K. Fiedler, Aforismi, trad. it., Minuziano, Milano 1945, pp.10-11. Del testo esiste pure un’altra, e più recente, versione: K. Fiedler, Aforismi sull’arte, trad. it., intr. di V. Segre Rutz, Tea, Milano 1994.

3 R. Salvini (a cura di), La critica d’arte della pura visibilità e del formalismo, Garzanti, Milano 1977.

4 G. Carchia, Arte e bellezza. Saggio sull’estetica della pittura, Il Mulino, Bologna 1995, p. 1. Un pensiero e uno snodo su cui peraltro pure Franzini ha richiamato per tempo l’at-tenzione quando, nel suo itinerario nell’estetica contemporanea, individuando gli apporti di Fiedler proprio nell’intreccio tra estetica e critica d’arte, aveva avvertito che: «In questo (di Fiedler) senso è l’arte (come nel nostro secolo si è più volte dimostrato) che agisce sull’este-tica e che determina il criterio stesso della “bellezza”, mentre l’estetica si limita a riconoscere il proprio oggetto privilegiato nella kantiana sfera sentimentale del piacere e dell’avversione», E. Franzini Estetica, teoria dell’arte e scienze dell’uomo, Signorelli Milano 1985, p. 28.

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Estetica e critica d’arte

La critica all’estetica costituisce un tema quasi ossessivo negli iti-nerari di Fiedler che torna sempre e daccapo a sottolineare le sue distanze. Per esempio in quei fogli di appunti dove è solito registrare le sue riflessioni, quasi a compimento di tanti pensieri formulati in maniera frammentata. Dunque negli Aforismi, pubblicati postumi, dove le sue idee, nella forma del frammento, a volte risultano incisive in maniera perentoria. Come in questo caso: «Il problema fondamentale dell’estetica è affatto differente da quello della filosofia dell’arte» 1. Un’affermazione che subito dopo l’autore si preoccupa di giustifica-re con motivazioni che conducono direttamente al cuore della teoria: «Se l’estetica vede nel giudizio d’arte un giudizio estetico, nell’attività artistica un produrre estetico, lo fa a tutto suo rischio e pericolo; ma l’indagine propriamente filosofica dell’arte deve procedere in piena indipendenza, e avrà da dimostrare come, mentre l’estetica pretende che l’arte le renda giustizia, non rende essa stessa giustizia all’arte; e giungerà alla conclusione che la struttura interiore dell’arte è tale da non potersi riconoscere nell’estetica, e che ci si serve di un metodo del tutto errato quando si pensa di attingere alle radici dell’arte attraverso la considerazione estetica» 2.

Dunque la critica di Fiedler all’estetica si configura subito come un’operazione di smontaggio della filosofia kantiana e come volontà di optare per la prima Critica 3 contro la terza 4, così da privilegiare, an-che dalla parte dell’arte, gli approdi di Kant relativi all’analisi dei pro-cessi di funzionamento della conoscenza. Perché Fiedler sottolinea con insistenza che l’arte è appunto conoscenza e non sentimento, e dunque teoria e non giudizio. Sicché «Estetica non significa teoria dell’arte» 5, si legge ancora una volta nella forma incisiva del frammento.

A ben guardare, la critica di Fiedler, più che nei confronti della teoria kantiana, si dirige verso quanti, lettori di Kant, abbiano confu-so ciò che alle origini era ancora separato, e cioè l’assimilazione tra la sfera estetica e il campo dell’arte: «In Kant non si trova ancora la connessione, avvenuta più tardi, della teoria del bello con la teoria del l’arte. Egli distingue la facoltà conoscitiva e quella pratica, l’attività scientifica e quella artistica, ragione teoretica e facoltà di giudizio, in-

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fine giudizio teoretico e giudizio di gusto; dalla natura di quest’ultimo cerca di sviluppare l’essenza del bello; e non si preoccupa ancora di stabilire una relazione più profonda fra bellezza e attività artistica. Si considera questo fatto come una mancanza alla quale avrebbero rime-diato pensatori più recenti: ma c’è da chiedersi se non sia piuttosto un merito di Kant che in lui non si sia ancora prodotta quella confusione fra i problemi fondamentali dell’arte e quelli dell’estetica» 6.

Così, isolando il campo dell’arte, Fiedler riguadagna a essa dignità tra le grandi attività dello spirito, e soprattutto rilegge quest’ultima come iscritta tra i processi mediante i quali l’uomo si appropria della realtà che, in termini kantiani, non esiste prima e al di fuori dell’atto, e della processualità, della sua produzione di senso. Di qui le critiche a un concetto di giudizio legato al sentimento per puntare su una sua differente configurazione che guardi questa volta dalla parte dell’arte e che si qualifichi come giudizio sull’origine dell’attività artistica e su quanto caratterizza lo statuto della sua fondazione. In questa stessa di-rezione anche il concetto di gusto, che di tale giudizio diventa l’attore dalla parte degli effetti, viene posto sotto processo per fare spazio a un intelletto di tipo sensitivo, come garante di quella processualità che l’arte mette in piedi: «L’estetica è volta all’indagine di un determinato tipo di sentimenti, mentre l’arte si rivolge innanzitutto all’intelletto, e ha a che fare col sentimento solo in secondo luogo. È pertanto un errore affermare che l’arte si limiti alla sfera sentimentale del piacere e dell’avversione, e rientri perciò nel campo dell’estetica» 7.

Per Fiedler il compito della teoria dell’arte, una volta che essa ab-bia messo da parte termini come gusto, sentimento, giudizio e bellezza, perché non pertinenti alla propria sfera di interessi, deve concentrarsi su una nuova classe di concetti che riguardino, invece, l’attività artisti-ca e la sua origine, le modalità con cui essa si svolge e i procedimenti che la caratterizzano: dunque deve andare alle fonti e confrontarsi con questioni di tipo concettuale, una in particolare, il giudizio, che pro-babilmente le sintetizza e da cui tutte discendono: «Generalmente il criterio di giudizio di un’opera d’arte si basa su due punti di vista che conducono ambedue a risultati ugualmente erronei. Per gli uni, infatti, l’unità di misura del valore è data dal godimento che ne traggono; gli altri invece si chiedono se l’opera d’arte esaurisca tutte le pretese dell’estetica. Così la critica d’arte da una parte è abbandonata alle oscillazioni del gusto, dall’altra al problema delle concezioni estetiche, mentre è soltanto dal concetto dell’arte stessa, che nulla ha a che fare col gusto, né con l’estetica, che deve venir dedotta una esatta e stabile unità di misura per la valutazione delle opere d’arte» 8.

Ma, in questa direzione, quanto il giudizio è chiamato ad accertare, cioè il valore dell’opera, si configura come completamente differente da tutte quelle qualità che la riflessione sull’arte aveva fin qui sancito: «Il valore artistico di un’opera d’arte non ha a che fare col suo grado

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di bellezza né col suo contenuto di pensiero [...] Quanto è universal-mente valevole, per tutti gli uomini e per tutti i tempi, in un’opera d’arte, è il suo contributo alla conoscenza» 9.

Se la scommessa di Fiedler insieme al debito nei confronti di Kant si giocano sulla rilettura della terza Critica, e dunque intorno alle trac-ce di confine entro cui porre e proporre la riflessione sull’arte, non è un caso che egli abbia mosso i suoi primi passi proprio dal concetto di giudizio con un saggio del 1867 che precede di quasi dieci anni l’altro scritto decisivo in cui si discute, invece, dell’Origine dell’attività artistica. In quel primo testo l’autore delinea l’ambito di quei concetti con i quali la sua teoria sta per confrontarsi, fino ad approntare un vo-cabolario di base per la futura critica da lui ribattezzata come scienza dell’arte. In questo vocabolario vengono pertanto esclusi, dopo adegua-ta dimostrazione, concetti come effetto e dunque interesse extrartistico dell’opera, contenuto come separato da forma, storia 10, qualora sia intesa come storia di effetti e relazioni (anche di tipo sociale e cultura-le), natura come oggetto esistente-in-sé e finalmente imitazione, che di quasi tutti questi concetti si pone come corollario. Infatti: «Si suol dire che l’attività dell’artista sia un’attività imitatrice. Al fondo di questa concezione vi sono errori che ne generano altri. Innanzitutto, si può imitare un oggetto fabbricandone un altro identico. E cosa determina la concordanza tra copia e oggetto copiato? L’artista può ricavare dal modello naturale ben poco di ciò che lo rende un oggetto di natura. Se si sforza di imitare la natura, egli si vedrà ben presto condotto alla necessità di riunire nella sua imitazione aspetti assai eterogenei del modello naturale. Si troverà sulla via che conduce necessariamente a replicare maldestramente il mestiere creativo della natura: un’impresa puerile e insensata, che a causa di un’apparente geniale arditezza di cui si arroga, troppo spesso s’è dimenticato che si fonda sulla mancanza di riflessione. Di fronte a tale premura trova conferma l’obiezione triviale secondo cui l’arte, in quanto imitatrice, rimarrebbe inferiore alla natu-ra e che l’imitazione imperfetta, anche quando non fosse considerata del tutto scarsa rispetto all’originale, apparirebbe inutile e priva di valore. Quando si pensa che l’imitazione si riferisca soltanto all’aspet-to esteriore delle cose, si parte dal presupposto che a disposizione dell’artista ci sia nella natura una riserva immobile di forme coniate e impresse, la cui illustrazione non sarebbe altro, in fondo, che un’at-tività meccanica. Da una parte all’imitazione artistica si richiede che serva a scopi superiori, che sia un mezzo di espressione per qualcosa che esiste, indipendentemente dall’apparenza, nel regno dell’invisibile piuttosto che in quello del visibile, che sia una scrittura nella quale venga comunicato in una maniera speciale ciò che sarebbe suscettibile di espressione anche tramite un diverso mezzo; dall’altra si esige che l’artista restituisca nella sua imitazione una natura purificata, nobilita-ta, perfezionata: di proprio arbitrio egli deve porre all’immagine della

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natura delle richieste e ciò che la natura gli offre deve servirgli soltanto come base per poter raffigurare ciò che la natura sarebbe se si fosse scelta lui per creatore. La tracotanza e l’arbitrio vengono legittimati come forze spirituali; si prende l’immaginazione scatenata, degenerata a fantasticheria, per una forza artistica produttiva e si crede che l’artista sia votato e dotato a figurare, accanto e sopra al mondo reale, un altro mondo slegato a sua discrezione da condizionamenti terrestri» 11.

D’altra parte, la messa al bando del concetto di imitazione insieme all’ipotesi che esista una realtà che preesista all’opera porta Fiedler a concentrarsi sullo spessore formale, e dunque di linguaggio, in cui deve invece consistere l’attività che l’artista mette in movimento: «L’arte non ha nulla a che fare con figure che troverebbe prima e indipendente-mente dalla propria attività; inizio e fine della sua attività, piuttosto, consistono nella creazione di figure che acquistano esistenza solo grazie a essa. Ciò che l’arte crea non è un secondo mondo a fianco di un al-tro che esisterebbe comunque senza di essa, ma con e per la coscienza artistica essa produce il mondo per la prima volta» 12.

L’attenzione allo spessore formale mette necessariamente in campo la questione del contenuto e dei suoi rapporti con quel livello formale su cui adesso deve puntare l’attenzione: «L’opera è l’espressione della coscienza artistica innalzatasi ad un certo grado. La forma artistica è l’espressione unica e immediata di questa coscienza. L’artista non può arrivare a utilizzare tale forma per vie indirette; non ha bisogno di cercarla, per raffigurare in essa un contenuto che, nato privo di forma, cerchi un corpo nel quale calarsi; piuttosto, l’espressione arti-stica è immediata, necessaria e in pari tempo esclusiva; il contenuto dell’opera d’arte non viene prodotto privo di figura dallo spirito arti-stico, ma semplicemente in una figura non sviluppata. L’opera d’arte non è espressione di qualcosa che esisterebbe anche senza di essa, un’illustrazione della figura viva nella coscienza artistica […] ma è la coscienza artistica stessa che in alcuni casi giunge al più alto sviluppo concesso all’individuo» 13.

Come è ovvio, il rifiuto del concetto di imitazione, come ciò che da sempre caratterizza il lavoro dell’artista, richiede subito la ridefinizio-ne di quell’attività e di quel fare che approda all’oggetto-opera: «Ma l’attività artistica non è servile imitazione, né invenzione arbitraria: è piuttosto libera creazione [...] Il più limitato di noi deve comunque prodursi il suo mondo secondo una figura visibile; perché di nulla si può dire che sia, se prima non è riconosciuto dalla nostra coscienza. Chi oserebbe definire la scienza un’imitazione della natura? E tutta-via si potrebbe farlo, in nome dello stesso diritto per cui si definisce imitatrice l’arte […] L’arte nasce in modo non meno necessario della scienza nel momento stesso in cui l’uomo è costretto a creare il mon-do affinché la sua coscienza possa riconoscerlo […] Quando l’uomo si trova di fronte all’apparenza visibile del mondo come di fronte a

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qualcosa di infinitamente enigmatico; quand’è spinto da un’interiore necessità ad afferrare con la potenza del suo spirito la massa confusa del visibile che lo assale e a svilupparla fino a darle un’esistenza figu-rativa, lì comincia l’attività artistica» 14.

Ma occorre precisare che la creazione di cui l’attività dell’artista si fa carico non ha nulla a che fare né con il divino né con il superamen-to della natura in qualcosa che la trascenda, e riguarda, secondo una sana lezione kantiana, la realtà e la costruzione della sua conoscenza, nell’aspetto di visibilità: «L’uomo non passa quindi da una situazione inferiore e inconscia a una superiore e cosciente: piuttosto egli sacrifica una forma di coscienza per svilupparne un’altra. Cosi l’uomo perde il mondo, acquisendolo. Se la natura umana non fosse stata dotata del talento artistico, una parte infinita del mondo andrebbe persa e tale rimarrebbe per l’uomo. Nell’artista si desta un impulso potente a intensificare, ad ampliare, a dispiegare e a condurre a uno stato di chiarezza sempre più alta quella forma angusta e oscura di coscienza con cui egli si era impadronito del mondo al primo risveglio delle sue facoltà spirituali» 15.

Dentro l’ambito di tale complessa formulazione teorica Fiedler può finalmente ridefinire il concetto di giudizio e specificare che cosa inten-de per giudizio sulle opere d’arte: «Se chi giudica deve fin dall’inizio allontanare tutti i giudizi basati su una confusione del significato artisti-co dell’opera con altri caratteri suoi che con quel significato non hanno nulla a che fare, gli sarà facile vedere come sia impossibile applicare a essa le formule comuni con le quali la valutazione è solita concludere la propria attività […] Egli potrà conseguentemente trovare l’ultimo risultato della propria attività solamente valutando la misura di quella forza artistica che si manifesta nelle singole opere d’arte» 16. In tal modo il circolo sembra trovare il proprio compimento, perché l’attività del giudicare si configura come completamento a valle, e dunque dalla parte del fruitore, di ciò che a monte è l’attività artistica, e si propo-ne come verifica dell’essere presente di quella facoltà spirituale che è capace di passare dall’ambito della sensazione a quello della visione, indicata come comprensione del reale nel suo aspetto visibile.

In questa direzione la critica all’estetica diventa per Fiedler una stazione obbligatoria del processo intentato per guadagnare dignità e autonomia all’arte, finalmente sottratta ad ogni tipo di dipendenza sia nei confronti della scienza che della filosofia, tanto da diventare essa stessa scienza, filosofia e conoscenza, naturalmente alla propria ma-niera. Significa, ancora, puntare non sull’opera come oggetto concluso ma sui procedimenti della sua generazione e messa-in-forma. Significa, infine, riguadagnare dignità anche a quell’aspetto di tecnica che salva il rapporto con i sensi contro il logos e dunque puntare sull’attività della mano contro l’astrazione dei concetti.

Infatti, nel saggio del 1887 in cui la discussione riguarda finalmente

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l’origine dell’attività artistica 17, Fiedler sostiene, in maniera esemplare, che il lavoro dell’arte inizia lì dove cessa la visione e dove il flusso ininterrotto del visibile fa posto all’attività della mano che consolida in forme il fluire ininterrotto di immagini. Flusso che peraltro, superando l’attimo di pausa, riprende rapidamente il suo destino di divenire. E, in maniera quasi paradossale, lascia intendere che l’opera, in quanto oggetto consegnato al tempo e alla storia, distrugge il movimento della visibilità. Infatti: «L’artista avrà esatta coscienza che il più alto grado di sviluppo della sua vita artistica e spirituale comincia nel preciso istante in cui la spinta all’attività rappresentazionale mette in movimento gli organi esterni del suo corpo, nel momento in cui l’attività della mano subentra a quella dell’occhio e del cervello. Solamente allora egli si col-loca sulla via che lo condurrà da una condizione di oscurità e limita-tezza a una sempre maggiore libertà e chiarezza. Tutto il suo talento e la sua genialità si sviluppano soltanto con questa attività esternamente percepibile in cui si compie non la raffigurazione, bensì la genesi del mondo delle rappresentazioni artistiche» 18.

Diventa qui evidente che il momento dell’espressione, perdendo le sue connotazioni liriche e riappropriandosi di quegli elementi di manualità e di tecnica che una lunga tradizione aveva intenzionalmente considerato come subalterni rispetto a qualità più mentali e capaci di garantire una adeguata elevazione all’opera, sembra acquisire una carta di credito che la pratica artistica del Novecento sarà ben felice di spen-dere. Malgrado e oltre lo stesso Fiedler, poco propenso a sospettare che l’attenzione alla materia 19, per la via dei sensi (che la sua teoria configurava in lontananza), avrebbe potuto scardinare antiche certezze così da farla uscire dall’ombra per diventare addirittura protagonista della scena pittorica. Perché per Fiedler la produzione artistica non è né simile né tantomeno vicina alla scienza, ma divide con essa pari dignità. Una dignità che proprio l’aspetto intuitivo e non logico assi-curato dal legame con la sensibilità per la via della materia garantisce inequivocabilmente a quella conoscenza che l’arte produce: «Quando agli altri uomini sembra che l’artista svolga la sua attività in una specie di esistenza onirica, in realtà la sua attività costituisce per lui il suo autentico risveglio. Quella chiarezza della coscienza alla quale perver-rebbe percorrendo le vie battute dagli altri uomini non gli può bastare, perché, trovandosi in questa situazione, egli scorge intorno a sé tene-bre la cui esistenza sfugge agli altri […] Egli si troverà sempre in uno stato d’animo di involontaria ribellione contro le pretese avanzate dalla scienza, e si dirà tacitamente che la scienza in fondo deve essere ben poca cosa se presume di sviluppare una coscienza del mondo chiara e completa, mentre per lui ciò che vive in essa sono soltanto parole e pensieri, e non cose reali. Questo tipo di coscienza dovrà sembrargli qualcosa di onirico e di incompiuto, nonostante pretenda di essere il solo veramente illuminato; egli dovrà dire che, pur nel chiarore che la

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conoscenza diffonde, le cose, finché si offrono a noi come rappresen-tazioni, conducono un’esistenza vaga e indeterminata, e che l’esistenza del mondo che cade sotto i sensi viene progressivamente rimossa dalla coscienza, quanto più in essa aumentano i prodotti dell’attività del pensiero e della conoscenza» 20.

Così, l’espressione mediante gli organi di vista e tatto, proponendo-si come momento centrale dell’attività artistica, qualifica quest’ultima come un tipo di conoscenza non razionale e porta sugli scenari della teoria il concetto di corpo come capace di agire un sapere di cui solo l’arte detiene le chiavi d’accesso: «Proprio quando l’artista si abnega completamente in ciò che fa, dimenticando se stesso, ossia tutto ciò di cui si può occupare la sua coscienza […] quando il processo che ha inizio con le percezioni visive finisce con l’impadronirsi a poco a poco di tutto l’essere umano mettendolo in moto, proprio allora l’artista esperisce nella sua attività quei momenti di massima intensificazione della coscienza, nei quali gli sembra di destarsi per la prima volta alla vera comprensione dei fenomeni visivi» 21.

Dunque il corpo come sapere e l’emergenza di un sapere di tipo corporeo: è forse questo uno dei punti più interessanti della proposta di Fiedler e soprattutto quel nucleo che è stato capace di azionare tanti percorsi dell’arte degli inizi del secolo e, in primo luogo, delle avanguardie artistiche. Un sapere che, come abbiamo già letto, viene posto di fronte e non accanto a quello della scienza: «Non occorre cer-care un compito particolare da assegnare all’arte in contrapposizione a quel serio compito assegnato al conoscere; piuttosto, abbiamo solo bisogno di occhi imparziali per vedere ciò che l’artista effettivamente fa, per comprendere come egli colga un aspetto del mondo che non può essere compreso se non con i suoi mezzi, e come pervenga a una coscienza del reale che il pensiero non potrebbe mai raggiungere» 22. L’idea di corpo e del suo sapere, emergendo con prepotenza nelle proposte di Fiedler, conduce la teoria a smontare tanti percorsi noti e accreditati nella tradizione artistica: la nozione di mimesis, in primo luogo, come responsabile di ridurre l’arte a ra-presentazione, cioè pre-sentazione qui 23, sul palcoscenico finto della pittura, di quanto è la vita altrove. E poi il concetto di norma come legge e limite che finisce, inevitabilmente, per confinare la conoscenza dentro una legislazione estranea. Ma la messa al bando dell’idea di norma conduce la teoria a disarticolare quella che è la sua versione nobile, l’dea di bellezza che, tra alterne vicende, ha da sempre qualificato il lavoro della pittura come autorizzato a stare accanto alla natura, perché investito di un compito che la riguarda: il suo miglioramento.

D’altra parte il rifiuto di tale apparato concettuale che Fiedler ere-dita dalle sue conoscenze di tipo teorico, ma anche dalle sue frequen-tazioni della pratica artistica, come uno sguardo veloce al lascito della Fiedleriana lascia intendere, spinge l’autore a individuare un imputato

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eccellente da mettere sotto processo: l’estetica nel suo complesso, ac-cusata di relegare e ridurre l’arte all’ambito psicologico del sentimento e del piacere, e dunque troppo compromessa con il momento sogget-tivo del giudizio e del gusto. Ma c’è il sospetto che la lettura operata da Fiedler nei confronti dell’estetica kantiana possa in qualche modo risultare difettosa, e addirittura riduttiva su punti strategici. Una limi-tazione che inevitabilmente raddoppierà l’altra lettura, quella praticata nei confronti della tradizione di teoria dell’arte sviluppatasi nel Sette-cento, anch’essa rifiutata nella sua totalità.

Certo a Fiedler preme sopperire alle manchevolezze, a suo avviso, del pensiero kantiano, che giustificano la scarsa attenzione dedicata all’arte dentro una filosofia che analizza su nuove basi il rapporto tra la ragione e gli oggetti che essa conosce. Ed è soprattutto una la que-stione che gli sta maggiormente a cuore: il rapporto tra i concetti e le visioni che Kant pensa collegati in una relazione necessaria, se è vero che la ragione conosce attraverso le forme di visione di spazio e di tempo. Se la ragione è intesa in relazione con il regno dell’esperienza tramite le apparizioni, ciò che disturba Fiedler in sommo grado è il pensare necessaria l’esistenza della cosa in sé che sia garante di un contenuto di verità esterno, oltre l’ambito delle apparizioni. In questa direzione l’autore rivaluta l’esperienza e la percezione sensibile, rico-nosce la spontaneità come un’attività spirituale e consegna l’arte alle grandi attività mediante le quali l’uomo si impossessa del mondo.

Ma la messa in crisi dell’oggetto dietro la produzione dell’arte, non avendo più bisogno di azionare la conoscenza concettuale per appro-priarsi di quanto l’esperienza non può garantire, finisce per spostare la conoscenza stessa dalla parte dei suoi processi e all’incontro con l’infinita produzione di conformazioni formali, non più pensate come contrapposte alla materia. E se da una parte Kant riconosce che le condizioni di possibilità dell’esperienza concordano con le condizio-ni di possibilità degli oggetti di conoscenza, e contemporaneamente pensa che gli oggetti dell’esperienza siano apparizioni e non cose in sé, Fiedler, come sottolinea Boehm 24, rende totale tale identità, tanto da ritenere che l’oggetto sia funzione di una produzione sensibile infinita e perciò perda la sua sostanzialità.

Non c’è dubbio che l’eliminazione della cosa in sé, portando a ri-tenere che lo spirito costruisca nello stesso atto la conoscenza e il materiale che la riguarda, rende finalmente possibile la soppressione di quei dualismi che hanno da sempre accompagnato il fare dell’arte: contenuto e forma, senso e significato, arte e mondo esterno. Così, sottolinea ancora Boehm, tutta l’investigazione di Fiedler finisce per approdare ad una filosofia della completa immanenza che certo eli-mina la differenza tra soggetto e oggetto, ma che, nei confronti del-l’esperienza, non può esserne intesa come la filosofia, ma solo come la nobilitazione.

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A partire da tali rilievi, le critiche di Boehm si pongono come estre-mamente pungenti: Fiedler sarebbe responsabile di aver fondato una nuova trascendenza, il divenire al posto dell’essere, con il rischio di intaccare, in favore di una difficile unità di corpo-spirito, le acquisi-zioni kantiane relative alle modalità di conoscenza degli oggetti. Nel divenire fiedleriano la conoscenza senza oggetti rischia di pensare solo se stessa, in un processo senza fine nel quale un essere sensibile si pro-pone come percezione e rappresentazione di fronte alla realtà e poi di nuovo come percezione e rappresentazione. Questa filosofia dell’eterno divenire consente a Fiedler di pensare l’attività artistica come capace di fornire una conoscenza senza oggetto e senza il suo concetto, e nella quale l’infinità interna delle percezioni arrivi senza abbreviazioni alla coscienza. In questa direzione, e attraverso lo sviluppo di quadri visivi, essa è in grado di garantire all’essere uno stadio più alto e più sviluppato della sua esistenza.

Dentro la complessità di tali formulazioni occorre senz’altro rilevare che qui, dalla parte della riflessione sull’arte e sulla pittura, Fiedler rag-giunge punte di forte modernità e soprattutto anticipa altrettanti incroci decisivi: con le scienze del linguaggio 25, in particolare, per superare le difficoltà di rapporto tra senso e significato, tra contenuti e oggetti del mondo esterno. Ed è sicuramente accertata una comunanza di interessi e di tematiche tra Fiedler e le ricerche di Von Humboldt 26, le cui ipotesi avrebbero insegnato a considerare la lingua come energia formante e dunque in grado di inglobare il proprio potenziale di significato nel processo stesso del suo generarsi.

Tuttavia, queste spinte profonde impresse alla riflessione sull’arte non corrispondono, dalla parte dell’indagine estetica, a un movimento di pari rinnovamento né tantomeno approdano a una corretta inter-pretazione dei testi. Perché Fiedler sarebbe responsabile di una lettura riduttiva soprattutto nei confronti di Kant e di quella famosa terza Cri-tica, così contestata, sentenziano con certezza voci autorevoli. Boehm, per esempio, che sottolinea come in Kant la fondazione dell’estetica sul giudizio di gusto non riguardi solo l’arte, intesa come suo unico oggetto di competenza, ma anche il bello di natura e il decorativo, indicati come modello dei fenomeni estetici. Questo sembrerebbe indicare che per Kant il giudizio di gusto non si riferisca in maniera contenutistica alla percezione di oggetti, ma caratterizzi una certa modalità di per-cezione degli oggetti stessi, fino ad approdare a un ambito che non è più in relazione con oggetti empirici e con la loro definizione concet-tuale, ma con il gioco della capacità di conoscenza. Un gioco libero da relazioni concettuali, e dunque dagli schematismi della ragione, che si propone come gioco della forza d’animo, percepita nell’elevazione del sentimento vitale. In questa direzione, per Boehm: «[…] la Critica kantiana del giudizio riflette sulla critica estetica a cose e opere e si propone come una critica della critica, tanto da poter soddisfare pretese

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trascendentali» 27. Allora, la Critica kantiana del giudizio non intende affatto configurarsi come confinata al campo dell’arte con cui l’este-tica finirebbe per identificarsi, ma si propone come una metacritica, cioè come una riflessione sulle condizioni della possibilità di senso, ha chiarito in maniera acuta Garroni: «L’intero progetto critico ha così il suo compimento, che è anche una trasformazione in una riflessione estetica quale delineazione della condizione del senso del conoscere, del pensare, del comprendere, in ogni caso mediante il linguaggio» 28.

Il linguaggio come oggetto d’analisi, dunque: sembra giocarsi qui la scommessa della terza Critica che, prendendo distanza dai concetti, si caratterizza come una riflessione sul problema del senso e sulle condi-zioni di esistenza dei significati possibili: «Era il superamento decisivo di ogni referenzialismo ingenuo e la fondazione di una teoria più adeguata del significato (è lo stesso Kant a dire che gli schemi forniscono “Bedeu-tung”, significato o riferimento, ai concetti), che la successiva filosofia della scienza e del linguaggio avrebbe fatto bene a tenere in conto più precocemente e più attentamente» 29. La centratura passa dai concetti alle immagini, mentre diventa dominante il ruolo dell’immaginazione e soprattutto il libero gioco di immaginazione e intelletto cui si chiede di delineare il senso. Esemplare, in questa direzione, la formulazione di quella famosa idea estetica in grado di sostenere un surplus di signifi-cato eccedente il concetto stesso e capace di rendere conto, così, della polisemanticità del simbolo: «[…] per idea estetica s’intende “quella rappresentazione dell’immaginazione che dà occasione di pensare mol-to, senza che però un qualche pensiero determinato, cioè un concetto, possa esserle adeguato, e che di conseguenza nessun linguaggio possa completamente raggiungere e rendere intellegibile”» 30.

Non c’è dubbio che sul terreno del linguaggio l’arte trovi la sua collocazione più adeguata, cosi come estremamente utile si mostra una riflessione che aiuti in qualche modo a chiarire i problemi del senso, del significato, del simbolo. E aiuti, ancora, a sistemare una questione così controversa come quella che riguarda il genio. Quest’ultimo, per Boehm lettore di Kant, potrebbe essere indicato come colui che è in grado di inventare idee estetiche che si spiegano da sole: «Il fatto che “l’arte sia arte del genio” significa solo che anche per il bello artistico non ci sia alcun altro principio di giudizio, alcuna misura di concetto e di conoscenza che l’adeguatezza per il sentimento della libertà nel gioco della nostra capacità di conoscenza. Il bello in natura o nell’arte ha sempre lo stesso principio aprioristico, che risiede completamente nella soggettività. L’autonomia del giudizio estetico non fonda alcun ambito di valore autonomo per l’oggetto bello» 31.

In questa direzione, sottolinea ancora Boehm, la riflessione trascen-dentale a un apriori del giudizio autorizza la richiesta di un giudizio estetico, ma non autorizza un’estetica filosofica nel senso di una filosofia dell’arte. La critica del giudizio si caratterizza come la pietra conclusiva

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del sistema kantiano, nella misura in cui dimostra che accanto all’inte-resse teoretico e alla capacità di desiderio della ragione pratica, esiste una terza capacità di purezza trascendentale, quella del gusto. Ed è proprio questo, per Boehm, il punto su cui va a intervenire Fiedler che, separando l’estetica dalla teoria dell’arte, intende fondare quest’ultima sulla capacità di conoscenza e non dentro il giudizio. Tanto da rigua-dagnare all’arte spessore conoscitivo, condannandola, però, alla pura immanenza: ridiventa conoscenza delle cose, o meglio di parti precise di esse, non altrimenti definibili.

Ma dall’insieme delle formulazioni approntate consegue che, se la visione artistica è pensata come completamente autonoma, certo non è possibile accettare per essa qualsiasi forma di subalternità sia rispetto alla conoscenza scientifica sia a quella filosofica. Di qui la critica alle teorie dell’imitazione, e in sede di pratica artistica alle correnti natu-ralistiche di fine secolo da parte di Fiedler 32 che, erede dei grandi sistemi dell’idealismo, ricolloca l’arte al di sopra della natura. Mentre pensa a un’arte che significa solo se stessa, come avviene nella sua teoria linguistica, segna con decisione quei percorsi su cui si avvierà l’arte degli inizi del secolo.

A ben guardare sembra proprio che Fiedler si muova su un doppio binario: dalla parte della filosofia dell’arte, sottolinea Boehm, porta a compimento il processo iniziato con Michelangelo, l’assolutizzazione dell’artista e della sua attività oltre tutte le attività umane, mentre, dalla parte della teoria della pittura, acquisisce per essa un dato di profonda importanza, la sottolineatura di una autonomia propria e di un logos specifico della fenomenicità sensibile dell’arte, con cui la pratica arti-stica del Novecento ha dovuto necessariamente confrontarsi. L’ipotesi di Boehm è che Fieder, trovandosi in una condizione che rendeva as-solutamente impraticabile una possibile filosofia dell’arte, abbia invece approntato una teoria della pittura che, dopo di lui, ha imparato a riferirsi a un alfabeto specifico di forme mediante le quali produrre i suoi significati e i propri oggetti significanti. Per l’autore è proprio su questo terreno, cioè i lasciti all’arte degli inizi del secolo, che la centra-lità dell’opera di Fiedler va inseguita nelle sue molteplici implicazioni.

Invece, dalla parte della riflessione filosofica, il suo contributo, pur rivelandosi a volte decisamente dirompente, soprattutto per quel filo rosso che intende vedere l’arte non dentro o accanto alla filosofia, ma dotata di una sua totale autonomia, si dimostra a volte affatto debo-le. Soprattutto verso la tradizione teorica del passato, probabilmente conosciuta solo nelle sue varianti meno complesse; quella tradizione la cui sottovalutazione è chiaramente documentata da una lettura dei brevi testi che l’autore dedica ai grandi sistemi filosofici del Settecento. Sicché questi saggi testimoniano, in maniera esemplare, il rapporto che Fiedler intrattiene con la riflessione estetica del passato e del suo vicino presente.

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Infatti, da un punto di vista filosofico, Fiedler si pone rispetto alle teorie del passato come un conoscitore sapiente che non cerca di com-prendere e invece giudica a partire dalle sue idee, sostiene Scheer 33 in un lavoro che costituisce il suo contributo a quel volume che si propo-ne come un bilancio senz’altro decisivo in terra natia. Perché sembra che le letture fiedleriane relative alla tradizione artistica raddoppino e confermino idee espresse in lavori più noti, rivelandosi come la verifica, da parte dell’autore, di ipotesi già elaborate altrove, così da dover esse-re intese non come interpretazioni, ma come espressione di censure che possano risultare di qualche utilità alle proprie dimostrazioni. Infatti gli autori del vicino passato e i grandi sistemi del Settecento vengono esaminati non nel loro significato storico, ma solo come testimonianze in negativo di quanto si cerca di accreditare nella teoria: un nuovo punto di vista capace di chiarire l’origine e l’essenza dell’arte.

A ben guardare, sottolinea ancora Scheer, quello di Fiedler non è un attacco alla tradizione, ma solo a quell’aspetto dell’esperienza artistica che viene indicato come carente nei sistemi teorici del pas-sato. Nelle sue analisi l’accusa non riguarda il disconoscimento della qualità conoscitiva dell’arte che, a partire da Socrate e passando per Platone, ha sempre e comunque improntato la riflessione del passa-to. L’accusa riguarda il non aver riconosciuto il carattere autonomo della conoscenza originata dall’arte. In questa direzione le critiche a Socrate 34, da parte di Fiedler, risultano particolarmente esemplari: gli si contesta il fatto che pur avendo trasferito la riflessione sull’universo artistico da una ontologia primitiva, lavorata sulla contrapposizione di soggetto e oggetto, ugualmente pensato come esistente in sé, a un soggettivismo orientato a porre l’esistenza della verità nel campo del cocetto, abbia poi subordinato l’arte alla certezza dei concetti e del-la conoscenza contro l’oscillazione delle impressioni. Lungo il filo di queste riflessioni Fiedler ritiene che Socrate abbia consegnato il luogo della razionalità della conoscenza al pensiero discorsivo e alla lingua verbale, intendendo però, e contemporaneamente, l’esperienza artistica come un gradino preliminare verso la conoscenza scientifica. Su questa strada, la riflessione filosofica consegna l’arte a un pensiero che cerca la sua essenza in qualcosa che non si identifica con la conoscenza.

Per Scheer è dunque questa l’ipotesi che muove Fiedler portandolo a utilizzare le teorie del passato per documentare la presenza di tale presupposto, e la sua proposta, al contrario di quella socratica, non ritiene necessario il passaggio al concetto per stabilizzare l’oscillazione delle percezioni. Nella sua ipotesi è sufficiente la continuazione delle percezioni in rappresentazioni visive chiare, perché, nel processo del suo originarsi, l’arte non percepisce ma tematizza le proprie percezio-ni, formando rappresentazioni che diventano oggettive. È questo il motivo, secondo Scheer, per cui Fiedler è convinto di aver ricollocato Socrate nella giusta posizione, cioè di nuovo sui piedi.

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L’argomentare di Fiedler parte senz’altro da un nodo decisivo in-dividuato nella tradizione: la non separazione tra estetica e filosofia dell’arte che motiva il tentativo tenace di eliminare l’estetica dal terri-torio delle ricerche sull’arte. Se per lui l’estetica è insegnamento di una conoscenza legata ai sensi, è fuori discussione che egli abbia operato una lettura riduttiva della tradizione, privilegiando una sola dottrina, sentenzia ancora Scheer, quella che lega l’arte al giudizio di gusto, alla teoria del bello e alla ricerca di particolari modalità di sentimento. Partendo da tali presupposti, è sicuramente fondato il suo sospetto che tali teorie superficiali siano in grado di cogliere dell’opera solo aspetti esterni e non il suo significato più profondo, che la vede impegnata ad arricchire la conoscenza. Come fondata è la messa in guardia dai rischi che comporta il legare la bellezza all’arte, facendo dipendere da tali vincoli il giudizio.

Di qui, è ovvio, le critiche a Winckelmann per il privilegio accor-dato al concetto di bellezza come criterio di accesso all’opera, e al gusto come giudice parziale sulle qualità dell’operazione artistica. In particolare Fiedler vede come estremamente pericolosa quella misura oggettiva di bellezza che Winckelmann trasferisce nel mondo greco, come un vertice di perfezione non più raggiunto dopo la crisi del mondo classico. Perché la sua teoria, si sa, tematizza l’eterno presente dell’arte, contro la storia che dell’opera coglie solo aspetti accessori. Come accessorio è quel concetto di bellezza così spesso ricorrente negli studi sull’arte, e che invece potrebbe essere solo un elemento di accompagnamento, dipendente da una valutazione che preferisce un giudizio minore (appunto sulle qualità belle) piuttosto che concentrarsi su quell’aspetto innovativo del mondo che è afferrato attraverso i sensi per il tramite dell’opera.

L’elemento che può far avanzare la discussione, per Scheer, risiede nel fatto che Fiedler abbia relegato il predicato della bellezza in una categoria molto ristretta dell’estetica: quella che assimila il bello al piacevole e il semplice a ciò che si presta al gusto, elementi che risul-tano poco rilevanti in qualsiasi dottrina estetica che pretenda qualche credibilità. Così Fiedler manca tutta una tradizione che da Platone in poi ha riferito la bellezza alla conoscenza, ci avverte ancora l’autrice in maniera sapiente. Una tradizione nelle cui punte più avanzate il predicato bello non è legato a precisi contenuti della natura, oppure a effetti particolari nel soggetto, ma sottolinea una modalità particolare di conoscenza: non il che cosa ma il come di essa, la visibilità della co-noscenza, il suo carattere unitario e non discorsivo. In questo caso la bellezza va intesa come apertura a una conoscenza nella forma sovrana della visione, precisa ancora l’analisi. Essa detiene un significato legato ai sensi e indica non un oggetto di piacere ma il compiacimento per una modalità di conoscenza non faticosa e priva di qualsiasi collega-mento con i concetti. Non è un caso, sottolinea ancora Scheer, che nel

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Medioevo tale modalità di conoscenza sia legata alla visione religiosa.L’aver superato tutta questa tradizione porta Fiedler alla convinzio-

ne orgogliosa di svolgere un’attività di pioniere. Pioniere di un nuovo modo di filosofare sull’arte, pioniere di un’estetica del produrre che punti nuovamente sulla funzione sacerdotale dell’artista 35, investito della salvaguardia del carattere sacrale della propria attività. Perché Fiedler non è affatto convinto che le rappresentazioni visive della real-tà precedano il fare dell’arte e, così come è contrario al dogmatismo dei concetti, è contrario all’ipostasi dei quadri visivi. Inoltre non pensa, con Winckelmann, che l’arte abbia raggiunto una volta un culmine, ma ritiene che essa costituisca un processo di conoscenza duraturo che accompagna da sempre l’uomo e che riveste il compito di ampliare costantemente il lavoro di appropriazione della verità visiva.

D’altra parte, il legame con l’esperienza non significa, per lui, che l’artista entri nella sensibilità: egli rimane spirito e si pone come spirito di fronte alla materia, come l’io dell’occhio e della mano, capace di conformare il materiale della percezione secondo precise leggi della ragione. Qui Fiedler, sottolinea ancora Scheer, si sente vicino al Kant della prima Critica, in quel passaggio in cui si assicura che i concetti sono mezzi per la visione. Un programma, si legge nel saggio, rimasto incompiuto, che Fiedler si impegna a portare a termine, proponendo la conoscenza artistica come sviluppo ulteriore della visione.

A conclusione della sua pregevole analisi, anche Scheer individua il tassello mancante nelle proposizioni fiedleriane: il non aver colto il fatto che nella Critica del giudizio Kant rispetti la specificità di una conoscenza visiva non sottomessa al concetto. Limiti, sottolinea an-cora, che pur testimoniando una non sistematicità delle competenze filosofiche di Fiedler, non possono tuttavia ridurre il significato delle sue proposizioni teorico-artistiche.

La centralità di Fiedler per una riflessione che investa oggi l’estetica e che sia capace di configurarsi come un’estetica della pittura, è stata sottolineata di recente da Carchia in un saggio che ripercorre momen-ti e progetti emersi dopo la crisi delle filosofie idealistiche. L’ipotesi che Carchia si propone di dimostrare con le sue argomentazioni è il ruolo determinante giocato dalla pittura nel processo del «costituirsi autoriflessivo dell’estetica» 36. L’intenzione è quella di avviare «una ricerca che si propone più che come introduzione alla pittura a partire dall’estetica, come un accostamento all’estetica a partire dai problemi della pittura» 37.

In questa direzione il progetto dovrebbe tentare di ricucire il lega-me della pittura con l’estetica sotto il segno dell’idea di classico che proprio un’indagine sulla pratica pittorica potrebbe aiutare a definire nei suoi fondamenti. Anche Carchia configura un ritorno alla riflessio-

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ne e alla sana tradizione dopo tutti i possibili: soprattutto le estetiche di indirizzo pragmatico degli anni settanta che, per sottolineare il ri-chiamo delle arti figurative all’esperienza, hanno preferito accentuare la dimensione fattuale e l’esistenza storico-empirica delle arti figurative.

Di qui l’autore propone il recupero del modello-Fiedler per av-viare una ricerca che sia capace di imitare quella stagione felice di fine secolo che, separando la teoria dell’arte dalla filosofia di indirizzo estetico, inaugurava l’incontro felice della riflessione teorica con le pra-tiche artistiche degli inizi del Novecento. E proprio in questo contesto la sana lezione fiedleriana potrebbe servire da modello per centrare la necessità di ascolto e la capacità di attenzione alle origini di quel lavoro che è l’esperienza dell’arte, contro una disciplina, l’estetica, il cui sguardo si rivolge troppo spesso agli effetti, all’a postriori legato alla recezione. «L’esperienza enfatizzata dalle più recenti estetiche prag-matiche non è quella atemporalmente originaria del poiein, del creare (come nella Kunstwissenschaft), bensì quella storicamente condizionata della fruizione. Mentre, dunque, il rifiuto opposto dalla Kunstwissen-schaft all’estetica finiva con l’evidenziare, grazie alla sua insistenza sulle leggi apriori del fare e del costruire […] soprattutto i caratteri formali dell’opera, l’esperienza in questione nelle teorie della recezione è, piut-tosto, quella di un a posteriori storico-fattuale. Ques’ultimo, inoltre, non ha propriamente a che fare con ciò che la tradizione intendeva col termine “gusto”. Il richiamo all’esperienza, infatti, non si collega più qui con alcuna pretesa normativa e universale; si tratta di uno spazio non già, kantianamente, della “sociabilità”, bensì della socialità, nel quale i referenti in termini di valore sono storicamente cangianti e transeunti. Quel vincolo tra arte e bellezza, che la Kunstwissenschaft aveva rotto in favore dell’arte, ma per dare vita a una nuova bellezza, si scioglie ora definitivamente tramite l’abbandono di qualunque idea di normatività» 38.

Dunque, per Carchia, la crisi dell’estetica deriva dalla rimozione del concetto di bellezza e soprattutto dall’abbandono dell’idea di clas-sico come incontro dell’arte con le categorie del bello. Per l’autore, la pratica pittorica potrebbe diventare il punto di partenza di una riflessione capace di rinnovare i propri fondamenti: «La pittura e le arti figurative sono sempre state, per la riflessione filosofica, l’ambito di questo difficile incontro fra verità e storia, fra platonismo (condanna dell’arte) e aristotelismo (attenzione al poiein), fra antichità (l’eros) e cristianesimo (la caducità e la malinconia), fra bellezza e arte insomma, in quanto ripresa nostalgica (nella “Rinascenza”) di una perfezione originaria, ancor sempre ripetibile e, anzi, rinnovabile. È proprio grazie alla centralità dell’esperienza della pittura che l’estetica, al suo culmine, individua nell’unione di arte e bellezza l’eccellenza del “classico”» 39.

In questa direzione, sottolinea ancora Carchia, la scomparsa del-l’idea di classico e dunque del bello in favore dell’interessante, del

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sublime, del brutto, dell’ironia, dell’umorismo, dell’avventura e del sen-timento, ha minacciato anche l’arte che ha rischiato di «ricadere nella sua antica condizione servile, condannata all’indifferenza strumenta-le, destituita di significato in seguito allo sciogliersi del suo vincolo con la bellezza» 40. La crisi del valore va intesa come crisi di identità. Così: «Se, col romanticismo, viene meno, in certo modo, la tensione fra l’arte e l’ideale, oggi sembra svanire anche quella fra l’arte e la storia, ciò che garantiva ancora in qualche modo i confini dell’opera, tracciando la linea della sua differenza dalla realtà. Fra i rischi degli attacchi contro l’autonomia e l’isolamento dell’opera, rinnovatisi con zelo a partire dagli anni Settanta e trapassati in alcune varianti del postmodernismo, volte a stabilire per decreto l’estetizzazione della società, c’è proprio quello dell’allentarsi di qualunque tensione nei confronti della dimensione del valore, col conseguente degrado della sfera artistica, nuovamente confusa col mondo del semplice produrre lavorativo e della tecnica» 41.

Per Carchia, l’unico modo per eludere il rischio di appiattire l’ar-te sul mondo esterno o una realtà estranea, in nome di un ritorno all’esperienza che, però, non somiglia affatto al fiedleriano richiamo all’autentica esperienza artistica, è convincersi che un’estetica non nor-mativa, cioè senza alcun rapporto tra arte e bellezza, non sia neanche ipotizzabile. È tuttavia necessario, ci avverte, convincersi che il classico è l’anelito della forma alla trascendenza, e non la prescrizione di rego-le. Di qui la proposta di tornare a riflettere su Kant che aveva capito per tempo che senza necessità e senza universalità non può manifestar-si esperienza del bello, e che tuttavia sapeva pure che tale normatività non può essere prescritta, in quanto estranea alla contigenza storico-sociale. E di qui, ancora, il bisogno di tornare a riflettere sulle fonti, lì dove il paradigma di classico si è appunto formato: nel neo-platonismo rinascimentale e nella teoria del puro-visibilismo.

Il classico come norma, avverte l’autore, è contemporaneamente atemporale e storico, in quanto ritorno legato al tempo del ricordo e della malinconia; è memoria dell’antico ed esiste solo lì dove l’antico si afferma nella sua discontinuità con il nuovo. Ma nella pittura l’antico si configura come natura, sicché essa è votata ad uno strano destino: al-l’antico si sostituisce la natura, mentre il ritorno a una dimensione mitica (il classico) sembrerebbe perdere le sue caratteristiche di temporalità: «Nell’universo dei generi artistici, la pittura sembra dunque a prima vista contraddire l’ipotesi generale posta all’inizio, secondo cui il “clas-sico” vive della tensione fra la sfera sovratemporale del valore e quella temporale del ricordo, della storia-memoria. Sembra, insomma, che la normatività del classico debba prescindere in pittura da qualunque con-tingenza storica per affidarsi all’unica canonicità della natura» 42.

Dunque nella natura, cui la pittura ritorna, la norma si configura come una normatività latente iscritta nel cerchio autoreferenziale tra

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visione e mano dell’artista. Norma è il farsi scrittura della pittura stessa ed è la legalità interna del fare artistico; norma non è la vita spirituale ma il corpo, come testimonia l’esperienza del ritratto; norma, infine, è l’iscriversi dell’opera nel dominio della forma ed è l’individuazione di una normatività interna al visibile in quanto riscoperta del volere arti-stico arcaico, che è ottico-pittorico 43. Come nella pittura succede alla sua componente di colore 44, che dopo una storia secolare di subalter-nità per via del predominio delle funzioni mimetiche, viene finalmente avanti rispetto al disegno, proponendosi come oggetto primario del quadro e dunque come fenomeno che mostra solo se stesso.

Così la via della pittura, nella direzione della norma e dunque del classico, è la possibilità di ritrovare le ragioni del racconto e del mito dalla parte della visione. È proprio questo il compito che spetta alla futura riflessione estetica: l’analisi della componente-colore e dei suoi funzionamenti nella tessitura del quadro. «Solo una considerazione precisamente estetica del colore, che prenda il posto di quella otti-co-fisiologica che porta all’astrazione, dischiude la possibilità di una “classicità” della pittura capace di muovere dalle sole ragioni della forma» 45. Allora la pittura si rivelerà alla riflessione estetica come la prosecuzione della lingua della natura, prima di ogni separazione tra soggetto e oggetto. Soprattutto si mostrerà come quell’esperienza unica nel suo genere, capace di coniugare il mito nell’estremo della forma e di eliminare le differenze tra normatività e soggettività, rigore ed espressione.

In questo orizzonte teorico, dove l’attenzione si rivolge all’opera e alla forma come lo spazio entro cui si consuma e si annulla la distanza tra norma come mito e storia come tempo, e dove la via dell’estetica si configura come un’ermeneutica della forma, o meglio del tempo della forma, è determinante, per Carchia, il ruolo giocato da Fiedler agli ini-zi del secolo. Per la centralità attribuita alla pittura e per l’idea di spo-stare la riflessione da una teoria del bello a una teoria dell’arte capace di: «[…] ritagliare i propri confini all’interno delle forme con le quali il soggetto disciplina la sua esperienza del mondo» 46. Per l’attenzione al lato della produzione, come pendant della contemplazione, e per lo spessore assegnato all’origine come spazio di una conoscenza che non feticizza. Per la risoluzione dell’origine non in un essere ma in un divenire 47. Per quel movimento della coscienza consegnato alla circo-larità tra occhio e mano 48. Ancora, per il trasformarsi del soggetto in puro occhio del mondo, per il coappartenersi di essere e mondo e per il coincidere di arte e di realtà. Infine, per la messa al bando dell’in-tuizione e il suo risolversi nell’espressione come veicolo del rapporto con il mondo. Infatti: «L’orizzonte e il privilegio della “pura visibilità” si determinano proprio a partire da questa dialettica fra intuizione ed espressione. Solo nello spazio del visibile sembra realizzabile la possi-bilità di un movimento espressivo nella forma dell’assoluto divenire,

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in quanto passaggio all’attività artistica della mano. Le arti verbali, per contro, sono più soggette alle insidie della percezione e dell’intuizione, più difficili da incanalare nel movimento espressivo» 49.

Dunque, nello spazio inaugurato da Fiedler si realizza la coinciden-za tra contenuto e linguaggio della pittura, tra l’opera e l’idea che essa non incarna ma è (cioè mette-in-forma), tra immanenza e storia, pen-sata non più come esterna, ma iscritta nello movimento della forma e nel processo del suo divenire. E allora: «Che accade […] allorché alla “storia degli effetti” si sostituisce la storia dell’“origine”? Accade che la storia viene completamente risucchiata dentro il dominio dell’arte. L’“origine”, infatti, non è concepita come un principio capace di dare inizio ad una serie storica; piuttosto, essa è un vortice sempiterno, il fondamento non ipostatizzabile del divenire e della vita» 50.

Così, l’origine riconsegna la storia alla vita e rinomina come sto-ria l’insieme dei movimenti espressivi dell’origine. In questo modo, la teoria apre a una storia dell’arte non impersonale, ma incarnata nelle singole personalità e nel movimento della creazione, ed è questo il lascito più importante consegnato da Fiedler alla futura ricerca: «C’è, nelle formulazioni fiedleriane, tutto il pathos di una posizione che vor-rebbe porsi, eroicamente, come tentativo di riconquista della classicità nel pieno della temperie romantica» 51. Infine, l’ultimo tassello in grado di comporre e chiudere il cerchio, è, per l’autore, la risoluzione della critica nell’attività artistica e la trasformazione del giudizio estetico nella comprensione del processo che la produzione artistica attiva: un processo che porta chi guarda a diventare a sua volta creatore nel-l’incontro tra artista e spettatore e nel movimento dell’attività della pittura come origine.

Carchia conclude la sua pregevole analisi riconoscendo a Fiedler il merito di aver compreso la tensione tra la forma e la sua profondità e di aver indicato la via per capire che lo sfondo mitico dell’opera, quella natura che nella pittura incarna il classico e la norma, non può trovarsi fuori dell’opera come suo soggetto o tema, ma coincide con la forma e con il movimento della sua costruzione. «Nell’ermeneutica fiedleriana, il congedo da ogni determinazione estrinsecamente storica dell’opera d’arte, l’orientamento dell’indagine in direzione della forma pura, seguono il movimento pre-rappresentativo e ante-storico del-l’opera a partire dalla sua origine […] la profondità a cui si alimenta l’attività artistica. Se il “tempo mitico” è lo sfondo contro il quale solo può cominciare a profilarsi il contorno della figura, questo manifestarsi per converso ha come condizione la consumazione di qualunque re-sidua simbolicità del mito. L’equilibrio colmo di tensione fra forma e “essere mitico” ha a suo presupposto, in Fiedler, l’affermazione della classicità della forma, vale a dire l’integrale consumazione in essa di ogni residuo semantico» 52.

Non basta. Se anche per l’iconologia il processo dell’interpretazione

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si configura come tensione a cogliere l’elemento mitico nello spessore formale, inseguendo a ritroso il processo discontinuo che ha risolto il simbolo nella forma, secondo Carchia la via dell’estetica deve essere in grado di seguire, nell’ermeneutica, la forma nella sua genitività, di riconoscere, quella temporalità di cui il pittore Marées 53 doveva ben essere consapevole, quando spiegava all’amico Fiedler che il processo di generazione dell’opera può essere accostato all’evento del parto, come creazione attraverso una sequenza temporale (la gravidanza) di un essere prima non esistente.

Da qui la necessità di risolvere l’estetica in un’ermeneutica della pittura che «[…] situi il proprio principio costitutivo nella capacità di individuare il “tempo della forma” nelle opere che indaga, riconoscen-done la legge formativa nella tensione fra il loro fondamento mitico e la forma che lo concilia […] Diversamente da ciò che accade nel testo letterario, la natura “monumentale” dell’opera pittorica implica una co-stitutiva inseparabilità di essenza e di apparenza, di substrato materiale e significazione, ciò che appunto sembra in contrasto con quella du-plicità semantica, con quella doppiezza del simbolo che appare come un requisito essenziale per l’esercizio stesso dell’interpretazione» 54. Un esercizio che riveste a volte i tratti di un evento impraticabile e quasi impossibile: «Ciò che l’ermeneutica cerca nella pittura non è il profilarsi della trasparenza simbolica sopra la materialità della lettera, bensì la maniera misteriosa in cui esse stanno reciprocamente avvinte, l’unione di trasparenza e oscurità. Il suo compito è, allora, paradossale, poiché essa non mira all’incremento di un senso esteriorizzabile, bensì ad una risoluzione della stessa coscienza storico-critica nella silenziosa eloquenza della forma. L’articolazione mitica, il tempo della forma, non si possono obiettivare ed estrarre fuori dalla loro immanenza figurativa, sicchè la significazione dell’opera pittorica rifluisce perennemente su di sé. C’è un’ineliminabile opacità in un esercizio di questo tipo: la forma pura, infatti, è l’indicibile. Essa può essere il telos, non della parola, ma dell’agire, come vide bene Fiedler» 55.

Vale allora la pena di porsi la domanda: il tempo della forma è pure quella possibilità che consente di ripensare il rapporto tra l’opera e il movimento della visione, di inscrivere in una processualità il di-scontinuo che l’opera mette-in-forma tra visibile e invisibile?

Alla luce della pratica artistica l’attenzione al tempo della forma, su cui Carchia richiama l’attenzione dell’estetica, sembra essere un percor-so che la pittura degli inizi del secolo ha seguito per tempo e prima di tutti i consigli possibili. Perché è proprio a Fiedler che occorre far ri-salire quella formula felice che decreta i transiti dell’arte senza oggetto, al cui incontro gli artisti del primo Novecento si muovono tra alterne

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vicende e ognuno alla propria maniera: «L’autoriflessione degli artisti astratti si serve con particolare predilezione di Fiedler perché egli non solo ha superato i legami oggettivi a norme della natura (oggetti) o l’impegno sociale di un’arte che si propone di agire attraverso il ris-pecchiamento della realtà, ma perché di qui, ha mostrato che all’arte, fondata sull’attività chiarificatrice della coscienza creativa, spetta una propria consistenza, sottolineata attraverso espressioni quali legislazio-ne o significato autonomo. Essa si sviluppa al di fuori del rapporto con la realtà, ma non in senso peggiorativo. Ciò significa che deve produrre realtà e ricrearla in modo completamente autonomo. Già nella teoria linguistica di Fiedler divenne chiaro che un’arte così determinata ot-tiene una propria assolutezza: ciò che essa conosce e rappresenta non significa altro che arte. “Il contenuto dell’opera d’arte non è altro che il suo stesso conformarsi”» 56.

Se la questione è ben posta, è proprio enorme il numero degli artisti i cui esercizi possono in qualche modo essere riferiti alle teorie artistiche di Fiedler. Ancora una volta la mappa della geografia dei nomi può avva-lersi dell’autorevole testimonianza di Boehm: «A uomini come Cézanne, Paul Klee, Kandinsky, l’autonomo diventare visibile della realtà come scopo dell’arte, avrebbe potuto mostrarsi come la formulazione paradig-matica delle proprie opinioni, senza la necessità di una relazione storica diretta. In un’intera serie di citazioni potrebbe mostrarsi una dipendenza da Fiedler da parte di Klee che, presumibilmente, era a conoscenza dei suoi scritti […] Al di là di questo esempio Fiedler è stato importante per un’arte che è comprensibile solo se la si intende come assolutamente non-mimetica e dotata di significato autonomo. Allo stesso modo la frase di Klee dalle Confessioni Creative: “L’arte non restituisce il visibile ma rende visibile” non tenta di formulare altro se non il fatto che essa è un fare autogenerantesi, che non può derivare da alcuna modalità esterna del vedere e per il quale il concetto della visibilità non descrive alcun rapporto di visione ma un movimento di espressione» 57.

In questa direzione (il censimento dei lasciti di Fiedler all’arte degli inizi del Novecento) sono stati veramente tanti gli esperimenti tesi a provare, in qualche modo, parentele ed eredità. Gehlen, per esempio, che ha letto la presenza di Fiedler dietro la pratica dell’impressionismo, per l’attenzione ad un occhio cui si chiede di svincolarsi da qualsiasi rapporto con la ragione. «Attribuendo in questo modo all’arte il com-pito di redimere, per così dire, il contenuto della percezione, Fiedler già ottanta anni fa si volgeva contro la pittura servilmente imitativa con la medesima energia che si usa oggi, solo con argomenti migliori, attaccando nel contempo l’“idealizzazione” della natura nell’arte. La sua teoria garantiva la piena autonomia del regno dell’arte proprio nel suo prendere le mosse dalla percezione. Questa dottrina, in fondo genialmente semplice e chiara, poneva tutta l’importanza che si può attribuire a un’immagine in quanto opera d’arte nella sua qualità di

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attiva autoelevazione e potenziamento della visibilità. Si situa qui l’affi-nità con la pratica artistica dell’impressionismo, affinità che si dimostra anche in una seconda direzione, vale a dire in un certo svuotamento dell’immagine da contenuti di pensiero, parimenti già praticato da von Marées […] L’intima razionalità figurativa conseguita nella riflessione costante sul visibile e nella sua ulteriore rielaborazione formativa basta completamente a se stessa, ci si può appropriare compiutamente del-l’immagine, senza avvertire il bisogno di allontanarsene per continuare a pensare in concetti» 58.

Per Gehlen, ciò che accomuna l’impressionismo a Fiedler è l’atten-zione all’intelligenza dello sguardo e dunque alla razionalità dell’im-magine: «Su questo punto egli si sarebbe inteso con gli impressionisti, per i quali, parimenti, il problema era l’analisi ottica di ciò che ottica-mente è dato, e fra i quali i più vicini a lui sarebbero stati, a quanto sembra, Pissarro e Cézanne» 59. Di qui, l’autore prova pure a segnare il posto di Fiedler dentro quella linea di discendenza che, muovendo dall’impressionismo e passando per Cézanne, conduce direttamente al cubismo, e proprio grazie a quell’elemento tanto centrale nei suoi percorsi: il riconoscimento nell’arte di una ragione non discorsiva ma immaginativa, l’intelligenza intraottica di Read: «[…] Fiedler ha avuto l’idea fondamentale secondo cui il concetto rimuove la percezione e al contrario la percezione assimilata, elaborata otticamente rimuove il concetto. A partire da qui, Fiedler è giunto alla sua prima affermazio-ne capitale, alla fondazione di una peculiare legislazione della pittura ed alla definizione del suo rapporto con il mondo esterno. Nacque qui una concezione che è diventata più tardi nel cubismo sintetico addirittura un principio stilistico: “Noi cesseremo”, scriveva, “di voler scorgere l’arte attraverso la natura; piuttosto, noi ci assoggetteremo all’arte affinché essa ci insegni a vedere la natura”» 60.

Quella segnata da Gehlen è una linea di discendenza che, in manie-ra paradossale, lascia fuori dai vettori di sviluppo proprio la via tedesca verso la modernità: «In questa tesi è incluso il ripudio dell’emozione come sorgente d’ispirazione, il rifiuto dunque del turbamento espres-sionista» 61. Il difetto, in maniera altrettanto paradossale, sembra essere la scelta di quel percorso verso l’astrazione di cui, invece, il movimento è stato così orgoglioso, perché «[…] l’espressionismo non tocca affatto la sacra realitas del mondo esterno, dal momento che esso esiste sol-tanto nella misura in cui la rigetta. Ciò di cui si avverte la mancanza è, di conseguenza, il confronto specificamente pittorico, ottico, con la realtà, la quale in luogo di ciò riceve semplicemente qualcosa di preconfezionato. Da qui l’impressione frequente di una mancanza di sovranità, dell’assenza di un dominio spirituale dell’artista sull’immagi-ne, che appare come elaborata a metà e trascurata; si brancola intorno e ci si aiuta alla fine con giustificazioni di tipo storico: certo, si trattava per quei tempi di un’innovazione potente» 62.

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Però, in questa stessa linea di discendenza Carchia, questa volta let-tore di Gehlen, si affretta a reintrodurre dall’ingresso centrale proprio il bistrattato espressionismo correggendo così le direzioni vettoriali: «[...] la stessa teoria della visibilità (di Fiedler) si lascia interpretare, sulla scorta soprattutto degli sviluppi che ne ha dato la teoria della critica d’arte alla svolta del secolo, in una direzione affatto diversa da quella indicata da Gehlen. Essa, infatti, non indica tanto e solo la direzione verso il sempre più compiuto emanciparsi dell’immagine, la svolta soggettivo-riflessiva. Insieme, con questa accentuazione dell’ap-parenza, essa indica anche la strada per la realizzazione, per la migliore obiettivazione possibile di questa medesima apparenza: liberazione e obiettivazione dell’apparenza sono nella teoria di Fiedler un’unica e medesima cosa. Entro questo orizzonte, l’astrazione non è più allora l’impossibilità soggettiva di dare un corpo all’immagine fenomenica, ovvero una sorta di autoriflessione impotente fuori dell’esercizio com-piaciuto di sé, bensì proprio l’unico modo di esprimersi dell’autonomia pittorica liberata» 63.

D’altra parte, gli stretti rapporti di Fiedler con gli artisti tedeschi degli inizi del Novecento sono sicuramente documentati da tempo: in primo luogo dalla parte degli artisti che amavano riferirsi a Wor-ringer 64 e a quel testo del 1907 in cui la discussione riguarda due possibili direzioni di sviluppo dell’attività artistica e che consente di recuperare nei percorsi artistici dell’espressionismo una doppia ma-trice: una formale riferita a Fiedler e l’altra espressiva di lippsiana memoria e che, per via dei legami con Kant, permette di rileggere l’espressione stessa come lavorata sui livelli della sua messa in forma. In questa linea di discendenza che parte da Marées e approda a Kan-dinsky, passando attraverso la critica tedesca degli inizi del secolo e l’elaborazione teorica degli stessi artisti impegnati a chiarire gli approdi all’arte senza oggetto, l’insegnamento di Fiedler è fuori discussione. Per la sottolineatura del carattere conoscitivo dell’arte (la piramide ascendente che secondo Kandinsky descrive in maniera metaforica il movimento dello spirituale), per l’attenzione alle forme e alle loro re-ciproche articolazioni (la grammatica dei colori) e per l’accentuazione del carattere costruttivo del lavoro artistico (la grande composizione che sintetizza in una formula quell’esperienza singolare che vive l’artista “vivendo” il suo quadro).

Se si intende essere più precisi, i legami tra Fiedler e l’espressio-nismo si giocano probabilmente dentro quella felice metafora di fie-dleriana memoria che Bahr, lettore di Worringer, conia nel 1910 65 e dunque per tempo sugli scenari espressionisti: la seconda vista che non viene dopo una prima, ma le si pone di fronte, come via dell’espressio-ne contro l’impressione, della conoscenza contro la percezione, della visione oltre l’impressione.

Ma è ancora il caso di continuare a praticare queste contrapposi-

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zioni che agli inizi del secolo erano funzionali ad accreditare una via tedesca verso il moderno, rispetto a quella francese, sicuramente più autorevole? E di questo Fiedler è ben informato, quando critica e con-danna le tendenze realistiche a lui contemporanee pur riconoscendone la superiorità in quel preciso momento storico, proprio per via di una situazione politica e sociale più favorevole. È ancora il caso di mettere Gehlen contro la sua stessa nazione, che porta il peso di una difficile eredità, ci ha spiegato Belting 66, che di fatti di casa sua è veramente ben informato? Non è piuttosto opportuno leggere oltre le contrap-posizioni e ipotizzare un filo rosso che corre lungo tutta l’arte degli inizi del secolo, pur nelle sue molteplici manifestazioni? Un filo rosso che parte proprio da Fiedler e che porta sulla ribalta termini nuovi come occhio, vista, conoscenza contro mimesi, forma non contro il contenuto, ma a esso legato in un rapporto più complesso, costruzione come sintassi degli elementi formali (del colore, soprattutto), sguardo come visione e infine seconda vista come un altro modo di nominare quell’alterità e quel doppio che attraverso la via della psicoanalisi sta irrompendo con forza sugli scenari dell’arte fino a scardinare inevita-bilmente tutte le certezze della tradizione? E non è merito proprio di Fiedler il fatto che l’arte delle avanguardie abbia cominciato a pensare se stessa come dotata di uno spessore teorico (la pratica del commen-to) assegnando al proprio tempo specifico, tempo della forma come tempo dell’attività, l’avventura speciale di relazionare il visibile e l’in-visibile, il corpo e la sua conoscenza, così da ipotizzare l’esistenza, qui, di un corpo pensante o di un pensiero di tipo corporeo?

Così come fa Hans von Marées, che qualifica l’evento dell’opera come feto e caratterizza quindi il parto/opera come legato al tempo della gestazione; ma come fa pure Fanz Marc, che ama ribattezzare la seconda vista come l’occhio innocente dell’animale, e ancora Schön-berg, che dipinge l’occhio come unico evento del quadro e dà alla tela il titolo di pensiero. Una scelta che in quello stesso momento pure Wedekind compie a teatro, quando si presentava sul palcoscenico nei panni di una scimmia, pensando di poter assimilare il suo pensiero alla sapienza di Goethe.

Nondimeno, se la pratica figurativa degli inizi del secolo agisce se stessa come un pensiero di tipo corporeo, essa sembra collocarsi, in maniera inequivocabile, proprio nel solco che già l’impressionismo aveva inaugurato quando si era fatto carico di disarticolare tutte le certezze accreditate: il logos che la pittura nomina quando si lega al di-segno, elemento nobile perché più mentale, come ben sappiamo dopo le istruzioni di Vasari. E poi anche quella stessa natura, la cui troppo stretta vicinanza per il tramite dell’impressione finisce per azzerare i contenuti fino a rendere indifferenti i soggetti. E non era altrettanto scandalosa l’eliminazione della profondità, che riducendo il tempo del racconto, sostituisce alle seduzioni della mimesi l’organizzazione

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coloristica della superficie della tela? Così come lo era il concentrarsi sulla resa della percezione visiva (dunque ciò che riguarda l’occhio) in stretto rapporto con la mano dell’artista, al quale si chiede di azionare una pittura veloce, più veloce dei concetti stessi, messi da parte per far avanzare ancora una volta i sensi e dunque la corporeità.

D’altra parte, in questo atlante delle filiazioni, così sapientemen-te approntato da altrettante voci competenti, potrebbero ancora ag-giungersi altri nomi autorevoli, perfino lontani da quei percorsi che in qualche modo si sono riferiti a Fiedler. Per esempio il surrealismo che, dalle sue postazioni, pure sembra decisamente compromesso. È quanto ci spiega in Germania Beat Wyss che, dopo aver iscritto Duchamp e Magritte in una linea nominalistica che parte da Fiedler, prova a rileggere l’opera di quest’ultimo la chiave dei sogni come la stesura, in termini iconici, dello scritto fiedleriano che discute delle origini dell’attività artistica 67.

Sul filo di questa traccia di lettura, la lettura di Beat Wyss cerca di spingere più avanti nel tempo il proprio entusiasmo, fino a rileggere l’informale e l’espressionismo astratto come una ripresa del fiedleriano concetto di movimento d’espressione. E sembra proprio che questo entusiasmo che incanala la teoria fiedleriana dalla parte della pratica pittorica sia decisamente diffuso in Germania, se perfino Boehm, a volte critico quando la discussione riguarda il rigore delle competenze filosofiche dell’autore, definisce Fiedler un traduttore con il cui aiuto è stato possibile scoprire nuovi aspetti dell’arte: aspetti che vanno ad-dirittura oltre il visibile, come testimonia il lavoro di tanti artisti più vicini e che indagano su elementi della realtà non ancora conosciuti, nel tentativo di stimolare il rapporto con il mondo e dare una eventualità al visibile, all’esperienza umana come esperienza possibile 68.

È dunque questo (la pittura del Novecento) lo spazio teorico privi-legiato dove è opportuno tornare a ripensare Fiedler? Per assegnargli finalmente il posto che gli spetta?

1 K. Fiedler, Aforismi sull’arte, trad. it. e intr. di V. Segre Rutz, cit., p. 7. Gli Aforismi sono stati raccolti da Konnerth e pubblicati per la prima volta nel 1914, nell’edizione degli Schriften über Kunst.

2 Ivi, p. 6.3 I. Kant, Critica della ragion pura, trad. it. Utet, Torino 1977.4 I. Kant, Critica della facoltà di Giudizio, a cura di E. Garroni e H. Hohenegger, Einaudi,

Torino 1999.5 K. Fiedler, Aforismi sull’arte, cit., p. 6.6 Ivi, p. 8.7 Ivi, p. 6.8 Ivi, pp. 12-13.9 Ivi, p. 13.10 L’attacco di Fiedler alla storia, e il suo disinteresse nei confronti della storia dell’arte,

costituisce un argomento senz’altro delicato all’interno della sua opera. Perché esistono dei

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punti in cui la teoria sembra aprirsi, in qualche modo, a questioni di tipo storiografico. Cen-trali, in questa direzione, sono i quattro saggi presenti nella Fiedleriana con il titolo Über die Bauten auf dem Tempelberg von Jerusalem e che sono stati pubblicati per la prima volta, a cura di G. Winter, in Arkitektur als Kunst, vier unveröffentliche Vorträge Konrad Fiedlers zur Architektur, pp. 263-304 nel volume Aa. Vv. Auge und Hand, Konrad Fiedlers Kunsttheorie im Kontext, herausgegeben von S. Majetschak, Fink, München, 1997, cit., pp. 263-304. Peraltro, già Venturi aveva individuato, nei saggi fiedleriani, un interesse di tipo storiografico.

11 K. Fiedler, Sulla valutazione delle opere d’arte figurativa, in Scritti sull’arte figurativa, cit., pp. 33-68. I due curatori hanno preferito sostituire al termine giudizio, usato da Ragghianti nella versione del 1963, quello di valutazione, per conservare nella nostra lingua quella stessa sfumatura di senso che la lingua tedesca offre tra urteilen e be-urteilen, e che sottolinea nella preposizione del verbo composto un’attività di analisi compresa nel secco giudizio. Ivi, p. 54.

12 Ivi, p. 56.13 Ivi, p. 59.14 Ivi, pp. 55-56.15 Ivi, p. 57.16 Ivi, pp. 65-66.17 K. Fiedler, Sull’origine dell’attività artistica, in Scritti sull’arte figurativa, cit., pp. 69-152.18 Ivi, p. 117.19 Questo è uno dei punti ambigui della teoria fiedleriana su cui giustamente richiamano

l’attenzione Pinotti e Scrivano, Introduzione a K. Fiedler, Scritti sull’arte figurativa, cit., p. 10: «[…] è più urgente capire la terza e più controversa posizione di Fiedler, secondo cui l’opera d’arte e la tecnica artistica non sono poi davvero importanti per la comprensione dell’attività artistica: questa infatti né costituirebbe come suo scopo la produzione dell’opera né avrebbe nella tecnica una qualche possibilità di essere rappresentata».

20 K. Fiedler, Sull’origine dell’attività artistica, cit., p. 119.21 Ivi, p. 120.22 Ivi, pp. 120-21.23 Abbiamo provato a trasferire anche alla lingua italiana le associazioni logiche che il

termine tedesco Darstellung (da -stellen) contiene.24 Boehm, Introduzione a K. Fiedler, Schriften zur Kunst, pp. VII-XCVII.25 Nel volume a cui qui si fa spesso riferimento, e che la Germania ha regalato a Fiedler

a cento anni dalla sua morte, la questione del rapporto tra arte e lingua costituisce il nodo intorno a cui si gioca la scommessa della sua attualità: una vicinanza implicita all’origine, ma che oggi l’indagine è chiamata a rendere manifesta, esplicitando gli eventuali modelli cui l’autore fa riferimento e che lo hanno pure autorizzato a negare all’arte il carattere referen-ziale, attribuito da sempre ai suoi prodotti. Un rapporto, sottolinea Majestschak, iscritto nei testi e consegnato a quei fogli che costituiscono, con il termine di Fiedleriana, il suo lascito nella Staadtsbibliotek di Monaco di Baviera. Infatti: «In uno dei suoi testi postumi Konrad Fiedler notava che ricerche sull’essenza e l’origine della lingua potrebbero gettare una luce significativa sulla questione relativa all’essenza e all’origine dell’arte», S. Majetschak, Die Sprachlichkeit der Kunst, in Aa.Vv., Auge und Hand, cit., p. 114 e ss.

26 Majetschak è convinto dell’esistenza di una stretta relazione tra Fiedler e la teoria di Von Humboldt. Quest’ultimo gli avrebbe insegnato a pensare l’attività artistica come capace di stare accanto alla filosofia e alla scienza. Infatti pure Fiedler – avverte l’autore – è convinto che il pensiero discorsivo sia legato alla lingua e pensa che non possa esistere nessun pensiero che non sia collegato ad una forma (di parole, di toni, d’immagine). E pensa ancora che la coscienza non sia una corrente di percezioni che si affacciano sulla sua soglia, ma uno strut-turarsi e destrutturarsi continuo, in un flusso in cui il fissarsi di formazioni sensibili determina appunto le parole della lingua, mediante le quali il pensiero guadagna una sua struttura. In questa direzione la lingua è intesa come una forma in cui per l’uomo nasce un possesso del mondo, invece di essere pensata come un mezzo con cui venga designata una realtà già esi-stente. Anzi, sottolinea ancora l’autore, sia Fiedler che Humboldt sono convinti che noi non avremmo alcuna conoscenza di una realtà che non sia già stata interpretata e formata lingui-sticamente nelle nostre rappresentazioni, e dunque pensano che noi viviamo con gli oggetti così come la lingua ce li presenta e ce li mostra dentro la sua concezione del mondo.

27 G. Boehm, cit., p. LXX.28 E. Garroni, H. Hohenegger, Introduzione a I. Kant, Critica della facoltà di giudizio,

cit., p. LIV.29 Ivi, p. XLIX.

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30 Ivi, p. LII.31 La citazione da Kant è in G. Boehm, cit., p. LXXI.32 Nel corpo degli Scritti il saggio Moderner Naturalismus und künstlerische Wahrheit,

1881 (K. Fiedler, Schriften zur Kunst, vol. 1, cit., pp. 81-110) costituisce un documento de-cisamente centrale per individuare le preferenze dell’autore in materia di pratica artistica. La stroncatura dei movimenti realisti, però, riflette una tendenza più generale che l’autore condivide con i critici tedeschi di inizio secolo, contrari ad un’apertura della Germania al-l’arte francese.

33 B. Scheer, Fiedler als Interpret antiker und moderner Kunsttherie, in Aa. Vv., Auge und Hand, cit., pp. 71-80.

34 Cfr. soprattutto K. Fiedler, Über die Kunsttheorie der Griechen und Römer, in Schriften zur Kunst, Band II, cit., pp. 195-246.

35 Vale la pena ricordare che questa funzione sacerdotale tra astrazione e empatia sarà ciò che caratterizza il cammino di Kandinsky verso la spirituale. Cfr. il nostro Il Cavaliere Azzurro. Figure e problemi, Guerini, Milano 1994, a cui ci permettiamo di rinviare.

36 G. Carchia, Arte e bellezza, cit., Il Mulino, Bologna 1995, p. 7.37 Ibidem.38 Ivi, pp. 10-11.39 Ibidem.40 Ivi, p. 12.41 Ivi, p. 13.42 Ivi, pp. 17-18.43 A. Riegl, Industria artistica tardo romana, trad. it. Sansoni, Firenze 1974.44 Qui occorre sottolineare che il contributo determinante dell’impressionismo alla co-

struzione della modernità, e dunque il suo eventuale ruolo per quanto attiene all’edificazione di un’estetica della pittura, si gioca soprattutto nello scarto tra colore e disegno, come già Baudelaire, lettore di Delacroix, aveva intuito per tempo. Cfr. Ch. Baudelaire, Scritti sull’arte, trad. it. a cura di E. Raimondi, Einaudi, Torino 1981.

45 G. Carchia, Arte e bellezza, cit., p. 33.46 Ivi, p. 35.47 Infatti: «Se l’origine è lo spazio della conoscenza colto nel processo stesso del suo di

venire, l’arte è propriamente questa conoscenza di se non reificata», ivi, p. 37.48 Di tale movimento viene detto che consente di «[…] non obbiettivare mai il proprio

spazio rappresentativo e di sfuggire così all’inganno di una presunta separazione fra la co-scienza e la realtà, fra il soggetto e il mondo», ibidem.

49 Ivi. p. 39.50 Ivi, p. 41.51 Ibidem.52 Ivi, p. 140.53 Marées è sicuramente l’esatta incarnazione di quella figura di artista cui Fiedler guarda

in lontananza, per l’idea di eccezionalità della sua esperienza e per l’esibizione sofferta di un lavoro difficile che implica una vera e propria gestazione. Così, a risentire il pittore: «La ragione, per cui perfino uomini d’arte come Böcklin siano così poco soddisfacenti nelle loro prestazioni risiede in sommo grado nel fatto che quasi tutti i moderni, o tutti, partono dall’ap-parizione, un difetto – perché lo è – che è senza dubbio conseguenza dell’epoca degli epigoni. In questo modo la nascita naturale o simile alla natura di un’opera d’arte diventa impossibile, gli elementi accessori diventano principali e viceversa. Mi sembra che l’apparizione debba essere l’ultimo risultato del lavoro artistico e che essa venga condizionata dagli oggetti che sono rappresentati. Sono convinto che tutte le opere d’arte veramente soddisfacenti siano nate dal feto, come l’uomo; solo con l’ultimo tratto c’era l’apparizione. Credo che adesso in tutte le cose d’arte sia così; si vuole in qualche modo produrre effetto sul pubblico senza rappre-sentare veramente». H. von Marées, Briefe, nuova ed. con una nota di Anne-S. Domm, Piper, München 1987, p. 139. Sulla figura dell’artista, e sui suoi rapporti con Fiedler, ci permettiamo di rinviare al nostro Hans Von Marées, Edizioni Paparo, Napoli 2000.

54 G. Carchia, Arte e bellezza, cit., pp. 145-46.55 Ivi, p. 147.56 G. Boehm, Introduzione a K. Fiedler, Schriften zur Kunst, cit., pp. LXXIII- LXXIV.57 Ivi, pp. LXXVI- LXXVII58 A. Gehlen, Quadri D’Epoca, trad. it.e intr. di G. Carchia, Guida, Napoli 1989, pp.

102-03.

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59 Ivi, p. 104.60 Ivi, p. 105.61 Ibidem.62 Ivi, p. 230.63 G. Carchia, Introduzione a G. Gehlen, cit., p. 12.64 W. Worringer, Astrazione e Empatia, trad. it. e intr. di J. Nigro Covre, Einaudi, Torino

1975. Dell’autore si confronti soprattutto Problemi dell’arte, trad. it. a cura di M. R. De Rosa, 10/17, Salerno 1992, dove Worringer, in qualità di critico del movimento, analizza pure i suoi lasciti all’espressionismo.

65 H. Bahr, Espressionismo, trad. it. e intr. di M. De Micheli, Milano 1945.66 H. Belting., I tedeschi e la loro arte. Un’eredità difficile, trad. it. Il Castoro, Milano

2005.67 Ma l’interpretazione iconografica più vicina alle idee espresse da Fiedler in questo

scritto e che riguardano il rapporto tra la mano e la vista e soprattutto la riformulazione del lavoro che porta all’opera d’arte nei termini processuali di movimento d’espressione e addirittura di generazione, è sicuramente quella che emerge dal carteggio del pittore Marées con Fiedler.

68 G. Boehm, Die Logik des Auges. Konrad Fiedler nach einhundert Jahren, in Aa.Vv., Auge und Hand, cit., p. 41.

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Bellezza e arte fra Seicento e Settecento

Se torniamo nuovamente a Fiedler e ai suoi rapporti con l’estetica, ponendoci ancora una volta dalla parte di quella filosofia dell’arte alla cui edificazione correvano i suoi sogni, non si può non constatare che la liquidazione di una tradizione consolidata avvenga troppo in fretta. Così come occorre rilevare che tale tradizione si era consolidata pro-prio attorno a quei due concetti contro cui maggiormente si dirigono i suoi anatemi: l’idea di bellezza e la teoria dell’imitazione, i cui corollari vengono espulsi con forza da quel dizionario che l’autore si preparava ad approntare.

Tuttavia se la nozione di bellezza è lo snodo intorno a cui deve organizzarsi il sapere dell’arte e il sapere teorico intorno all’arte, come ci ha avvertito Carchia in maniera esemplare, sembra che neanche il concetto di imitazione rientri tra gli elementi del tutto innocui di cui la riflessione estetica possa fare a meno. Come ha sottolineato Gadamer 1, che, dalle sue postazioni, parla pure di una temporalità, questa volta a posteriori e dunque dalla parte dei lettori, e traccia in tal modo i confini entro cui inscrivere l’esperienza che l’opera vive nel tempo delle sue interpretazioni, delle sue possibili rappresentazioni: «Da tutto ciò deriva una conclusione, e cioè che il senso conoscitivo della mimesis è il riconoscimento. Ma che cosa significa riconoscimento? […] Che cosa sia il riconoscimento, nella sua essenza più profonda, non lo si capisce se ci si limita a osservare che in esso viene conosciuto di nuo-vo qualcosa che già si conosce, che il conosciuto viene riconosciuto. Il piacere del riconoscimento consiste piuttosto nel fatto che in esso si conosce più di ciò che già si conosceva. Nel riconoscimento la cosa conosciuta emerge, per così dire, come attraverso una nuova illumina-zione, dalla casualità e dalla variabilità delle condizioni in cui in genere è sommersa, e viene colta nella sua essenza. Essa viene conosciuta come qualcosa [...] Dal punto di vista della conoscenza del vero, l’essere della rappresentazione è più che l’essere del materiale rappresentato» 2. Per Gadamer, l’azione/rappresentazione, cui si assegna valore di co-noscenza, è pensata come l’Erlebnis specifico dell’opera, come quella temporalità che completa l’evento della sua messa-in-forma, introdu-cendo anche la recezione nel circuito della generazione: «Se l’arte non

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è la varietà di mutevoli Erlebnisse, il cui oggetto viene di volta in volta riempito soggettivamente di significato come una pura forma vuota, la “rappresentazione” va riconosciuta come il modo di essere dell’opera d’arte in quanto tale» 3.

Se il concetto di imitazione dalla parte dell’opera spinge a riflette-re sul circolo ermeneutico tra rappresentazione e riconoscimento, sul versante dei rapporti con la pedagogia porta a centrare l’attenzione sul circuito dell’assimilazione e dunque della formazione della personalità, argomento sul quale Fiedler può apportare contributi molto validi, che vanno nella direzione della costituzione dell’io dell’occhio, inteso come specifico e differente dall’orecchio e dagli altri sensi, ci avverte Mollenhausen 4, in quel testo già più volte visitato.

Allora, uscendo da tutte le censure possibili, occorre tornare a in-terrogare questi due imputati eccellenti e decisamente sotto processo nel corpo delle opere fiedleriane. Occorre tornare a interrogarli di-rettamente alla fonte, nei testi teorici sull’arte, se è vero che la via da battere potrebbe essere quella di rivedere l’estetica dalla parte della pratica figurativa, lì dove la teoria ha raggiunto punte di forte comples-sità, non a caso proprio dentro ai concetti di imitazione e di bellezza e intorno all’idea di classico. Si tratta di impegnare qualche riflessione su quella bistrattata teoria artistica del Settecento che, in maniera illu-minante, Fiedler definisce come nuova, per poi liquidarla senza alcuna possibilità di appello. E mai il termine nuovo è stato più appropriato come nel caso dell’ambiente del neoclassicismo e cioè degli intellettuali attivi intorno al circolo del cardinale Albani, le cui discussioni intorno al concetto di bellezza e alle modalità di conoscenza che essa mette in moto offrivano contributi decisivi per segnare quella traettoria che porta alla modernità. Traettoria di cui Fiedler costituisce sicuramente una stazione cruciale.

È nel Seicento che la discussione sull’arte, in stretto rapporto con la corrispondente pratica, comincia a concentrarsi su due nozioni-gui-da: l’idea (di provenienza manieristica) e la bellezza (di origine antica ma abbastanza nota alla cultura umanistica, a partire da Leon Battista Alberti), concetti che adesso cominciano a coniugarsi insieme. Una data è centrale: il 1660, l’uscita de Le Vite dei pittori, scultori e ar-chitetti 5 di Bellori alle quali, quattro anni dopo, viene allegato come introduzione il discorso pronunziato all’Accademia di San Luca, l’Idea del pittore, scultore e architetto, scelta delle bellezze naturali superiori alla natura. Con queste due opere l’autore sposa e consacra nell’am-biente romano quelle idee che venivano dalla Francia: l’odio di Pous-sin per Caravaggio pensato come venuto al mondo per distruggere la pittura (ma che Bellori, con più prudenza, condanna come troppo naturalista) e soprattutto l’appello alla ragione nei confronti dell’opi-

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nione del popolo contro cui tuonava in Francia un fanatico seguace di Poussin, Roland Fréat signore di Chambray 6 che, appena due anni prima, aveva levato la sua voce per sottolineare il decadere delle arti nella Francia di Mazzarino e per condannare una pittura cortigiana e libertina che aveva perso il suo contatto con la ragione. Di qui il ri-chiamo di De Chambry ai valori antichi contro l’attuale tipo di moder-nità (povera di invenzione, di disegno e di decoro) e l’appello per un ritorno alla ragione e alla ragionevolezza: a una pittura che non segua l’opinione del volgo ma che individui i principi della perfezione, già disarticolata in parti e indicata nelle sue componenti. Si tratta di una perfezione che invece di richiamarsi al processo del progresso artistico (il cammino verso una meta) che era stato in fondo il progetto del rinascimento, comincia a definirsi come un’insieme di regole ordinate sotto la guida della ragione: «[…] prima ancora di prendere in mano i pennelli, è necessario che egli (il pittore) accordi il suo occhio al ragionamento, per mezzo dei principi dell’arte, sicché è necessario che egli sappia non soltanto che l’arte insegna a vedere le cose come sono in se stesse, ma che essa altresì insegna il modo secondo cui devono essere raffigurate» 7.

L’abbandono del grande progetto della cultura rinascimentale, il suo cammino verso una pittura sempre più aderente alla natura, e l’appello alle regole e all’antico (che può assicurare la perfezione so-prattutto nelle parti che attengono ai moti, grazie al decoro e all’esatta collocazione delle figure) è testimoniato dal passaggio di ruolo dei propri idoli: a Michelangelo si sostituisce Raffaello, che d’ora innanzi sarà indicato come modello di perfezione, mentre all’antichità romana tanto cara a Vasari già comincia ad affiancarsi quella greca. Contro la modernità attuale, dove Caravaggio affianca i manieristi, De Chambray oppone una modernità più moderna, perfino attenta alle nuove tec-niche di riproduzione (soprattutto la stampa) e consacrata all’illustre nome di Poussin, che «[…] dopo i famosi pittori antichi come Apelle, Timante, Protogene e altri simili, è il più degno tra quelli che la Pittura abbia trovato da favorire» 8.

Di qui prende le mosse Bellori che, da parte sua, ha già ereditato dall’ambiente romano, grazie al contatto con il mondo degli eruditi e dei letterati, un atteggiamento selettivo contro gli incolti cortigiani e contro quegli artisti, come Caravaggio, troppo vicini alla natura. Così, dopo i furori controriformisti del manierismo, lancia un appello per un ritorno al carattere nobile della professione e al suo aspetto teorico che accomuna la pittura alla poesia e alla matematica. In questo modo trova già pronta la distinzione tra stile ideale e stile naturale, insieme al parallelismo tra pittura e poesia e, insinuandosi nei conflitti tra uma-nisti, mercanti d’arte e artisti, rispolvera l’antica teoria rinascimentale dell’idea come terza via contro i contrari estremi della fantastica idea manierista e del naturalismo 9.

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Ma c’è il sospetto che la teoria dell’idea, usata come un corpo aggiunto e separato dall’impalcatura delle Vite, serva a giustificare la dottrina della selezione e a convalidare le stesse scelte di Bellori che, al contrario di Vasari, di cui pure continua il progetto, opera esclusioni e rifiuti, per regalare a Roma il Pantheon dei suoi eroi e per celebrare di essa un’idea eterna. In fondo anche il suo classicismo non è ancora l’individuazione di uno stile, ma il concepimento di un’idea di bellezza immortale collocata in un luogo eterno. Un’idea di bellezza che Roma guadagna con i suoi monumenti, dunque con quel patrimonio antico che, senza essere ancora indicato come un linguaggio, è solo un punto di riferimento per la pratica artistica contemporanea che adesso ha tutti gli elementi per superare i risultati del passato.

Per altro l’autore si preoccupa anche di delineare una compiuta teoria della bellezza, che, pur radicandosi nelle speculazioni dei trattati manieristi, soprattutto di Zuccaro 10, preferisce privilegiare di essa le sue varianti rinascimentali, così da sottolineare anche idealmente quella comunanza con il progetto della rinascita dopo le zone d’ombra 11 e le epoche di decadenza. Zone d’ombra che nel caso del classicista Bellori si raddoppiano: se da una parte c’è, come nel rinascimento, l’abbandono dello studio diretto del reale e del vero, dall’altra c’è anche il pericolo del naturalismo tout-court che, non avendo alcun interesse per le scelte e la selezione, finisce per trascurare l’ideale. Di qui l’ipotesi del ciclo e del suo cominciare daccapo, dove il ricomin-ciamento tra gli opposti poli di maniera e di natura cerca la salvezza in un giusto mezzo che il modello dell’arte antica può ben fornire nella misura in cui, attenendosi ad una realtà purificata e nobilitata, può ritenersi veramente naturale.

L’idea, si sa, ha una sua storia antica che risale all’Orator di Cice-rone 12, ma il suo cammino all’incontro con la teoria della bellezza, si colora di una duplice sfumatura. Infatti, talvolta è più schiacciata su una qualità platonica, come essenza della mente di Dio e di quella dell’artista, caratterizzando attraverso le sue qualità la produzione ar-tistica nei termini di una creazione che gareggia con quella divina 13; altre volte invece è privilegiata nelle sue varianti aristoteliche, che ne accentuano gli aspetti immanenti e la pensano come oggettivamente presente nelle cose, come tipo o come raccolta di parti. È quest’ultimo aspetto che caratterizza il rinascimento e che trova la sua sistemazio-ne definitiva in Bellori per essere poi trasmessa in questa formula al neoclassicismo. Forse va sottolineato che tale doppia accentuazione dell’idea, accompagnandosi spesso alla specificazione della bellezza, qualifica pure, in maniera alterna, le epoche di maggiore astrazione o di maggiore naturalismo. Basta pensare a Winckelmann e al suo privi-legiare solo quelle forme d’arte dove è la natura il centro di interesse (la Grecia, rinascimento) rimuovendo tutto ciò che preferisce invece stili ad essa lontani, come il medioevo.

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D’altra parte, anche Bellori non è immune da tale oscillazione se apre il suo saggio con una tipica partenza neo-platonica pensando che le idee siano immagini originarie, modelli delle creature prodotti dallo spirito creatore. E pensa pure che gli oggetti siano solo copie deforma-te delle idee e che sia una prerogativa dell’artista recare in sé un’im-magine incontaminata della bellezza secondo cui la natura possa venire corretta. Fin qui la sua teoria non differisce molto da quel disegno interno di Zuccaro che è segno di Dio in noi. Ma subito dopo cambia direzione e ritiene che l’idea artistica provenga dalla contemplazione sensibile manifestandosi, però, in una forma sublimata 14.

Così l’idea, parafrasando Platone, viene indicata come una perfetta cognizione della cosa cominciata sulla natura, è pensata proveniente dall’esperienza ed è conquistata a posteriori mediante la contemplazione della natura: una formulazione che consente di criticare sia chi le si allontani sia chi le si accosti troppo. Bellori è abile anche nel manovrare concetti autorevoli, sicché prende da Cicerone quella formula secondo la quale le opere d’arte si riferiscono a un’immagine speculativa e pone poi al loro posto gli oggetti di natura che in tal modo sono indicati come corrispondenti a una immaginata forma, cioé in rapporto con la percezione sensibile. In questa direzione eleva a sistema un’ipotesi del rinascimento, e cioè il passaggio dall’imitazione della natura al suo superamento, proponendo poi tale teoria come una dottrina storica e filosofica di fronte a quella manieristica ed esaltando ancora una volta, al posto dei caratteri metafisici che preferiva quest’ultima, la capacità di conoscenza dell’uomo. Tanto che il ciclo possa ricominciare. E come nel rinascimento l’idea si rivela come una visione della natura purificata dal nostro spirito. Appunto l’ideale.

L’accentuazione di tale carattere normativo porta inevitabilmente Bellori a esibire posizioni ancora più estreme di quelle del manieri-smo nei confronti della realtà. È convinto che mentre l’arte non abbia bisogno della natura per innescare il processo di sublimazione che le compete, allo stesso modo ritiene che essa debba superare la natura stessa. Per la prima volta, così, idealismo e naturalismo, studio dell’an-tico e dei modelli si escludono a vicenda fino a poter coniare quel-l’espressione dispregiativa che indica l’arte come scimmia della natura. Di qui il paradosso di una guerra, quella di Troia, combattuta non per una donna vera ma per colpa di una statua che Paride avrebbe rapito e portato a Troia.

In questo orizzonte teorico il richiamo all’antico diventa un concetto normativo, perché lo studio delle sculture deve guidare alle bellezze emendate della natura. Uno studio che si concretizza soprattutto nel-l’osservazione di quell’idea confermata dagli esempi e consacrata dai sapienti e che pertanto si è organizzata in regole e leggi di una meravi-gliosa idea e bellezza ultima che, essendo una sola in ogni specie, non può essere alterata senza essere distrutta. In tal modo l’arte, non più

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indicata come manifestazione del Logos, abbandona il regno teologico e diventa materia dell’estetica, mentre la stessa nozione di imitazione finisce per modificarsi diventando selezione di modelli artistici secondo principi retorici, piuttosto che imitazione, seppure selettiva, della na-tura, come avverrà più tardi nel neoclassicismo. E finalmente si assiste all’elogio della verosimiglianza e della fantasia capace di creare forme più belle di quelle naturali.

Ma è soprattutto nel Settecento che Roma, insieme all’idea di clas-sico che caratterizza il suo fascino, diventa meta di viaggio o è la tappa conclusiva di un viaggio solo sognato. Come è il caso di Winckelmann, disposto a pagare qualsiasi prezzo pur di raggiungere la città, e come succede a Mengs che il padre conduce a Roma a soli quattordici anni, dopo sforzi estenuanti e digiuni prolungati per calarlo in quegli illu-stri antenati dei quali il suo nome costituisce il diagramma: appunto Correggio e Raffaello, cioè Anton Rafael Mengs. Roma, naturalmente, è soprattutto meta di un viaggio nella storia e dentro quei pezzi che documentano la sua storia: le rovine alle quali già il Seicento, nelle espressioni del classicismo, aveva chiesto di legittimare regole precise da imporre alla pratica figurativa, e dove il Settecento, invece, in sin-tonia con il suo spirito illuministico, cerca gli elementi razionali di uno stile artistico da portare a nuova vita: appunto il neo-classicismo. È proprio alla Roma ancora solo sognata che guarda Winckelmann quan-do nel 1755 pubblica in Germania I pensieri sull’imitazione dell’arte antica 15 – perché in fondo Winckelmann scrive intorno alla Grecia sognando Roma 16 – e indica agli artisti la via della rinascita dopo gli errori del barocco e dunque d’accordo con i suoi illustri antenati (Vasari prima e Bellori dopo) che avevano già pensato l’arte in termini di cicli.

Cosi, alla metà del Settecento, Roma non è solo culla di antichità, ma anche sede di Accademie importanti dove convergono artisti stra-nieri: il luogo dove l’arte può essere guardata e può anche essere impa-rata tramite l’insegnamento. È centro di eruditi e di grandi collezioni, tanto da garantire, tramite una committenza laica, un maggior senso di indipendenza all’artista che, proprio adesso, oltre al già acquisito attri-buto di intellettuale guadagna pure quello di filosofo. Ciò che infatti sarà Mengs. Adesso Roma è una realtà variegata, attraversata da flussi di energie ben più complessi del solo neoclassicismo, a risentire André Chastel 17. È proprio la complessità di questa situazione a spiegare fatti così distanti tra loro: Winckelmann e Piranesi, cioè l’esistenza di un doppio sentimento dell’antico, un sentire severo e l’altro visionario e passionale, e a spiegare pure il proporsi contemporaneo, e completa-mente opposto, di due modalità di artista alla ricerca della bellezza: il pittore formato dalla natura e l’altro reso tale dalla filosofia. Da una parte c’è Batoni con il suo senso naturale per il bello e che al neo-classicismo preferisce Raffaello e i Carracci; dall’altra c’è Mengs, che

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arriva alla bellezza attraverso la teoria e i programmi dell’amico Win-ckelmann. È la complessità della situazione romana a chiarire come a Roma Mengs possa coniugare senza contraddizione i due aspetti della sua personalità artistica: la vocazione per la teoria da una parte, e l’attenzione all’arte rinascimentale dall’altra che il pittore aveva già imparato a conoscere a Dresda negli anni giovanili 18.

In una direzione così complessa e articolata si capisce pure come Roma possa diventare perfino un topos immaginario e dunque quel luogo mentale, cioè di ricordi antichi, dove Mengs che schiva il quo-tidiano può immergersi dimenticando il presente 19. Un destino con il quale il pittore finisce per identificarsi vivendo anche privatamente l’attualità del passato che lo spirito neoclassico andava profetando, quello stesso destino che il padre sceglie per lui alla nascita ma che sarà poi l’amico Winckelmann a decretare con tutta la forza della sua autorevolezza 20.

La fortuna di Mengs si lega al movimento del neoclassicismo e si dialettizza nel rapporto con Winckelmann, il cui entusiasmo, proba-bilmente, va riferito all’attività teorica dell’amico e non a quella figu-rativa 21. Perché come pittore egli segna una fase di transizione e di passaggio dal rococò al neoclassicismo il cui vero interprete, in termini figurativi, è David come esponente di uno stile pulito, asciutto e im-prontato alle virtù morali che per Winckelmann diventano elemento di stile 22. E se Mengs non sempre si riconosce nei principi figurativi del neoclassicismo, è sicuramente un vero interprete dello spirito illu-ministico, soprattutto nell’attività di ritrattista dove esprime un’idea di ritratto ispirato alla qualità morali del personaggio.

Decisamente più articolato è il rapporto teorico che da subito si sta-bilisce tra Mengs e Winckelmann e che riguarda le investigazioni relative a quel concetto di bellezza che il pittore, spingendosi addirittura più avanti del suo tempo, è già portato a relativizzare. Invece Winckelmann non è tanto interessato a una compiuta elaborazione dell’idea di bel-lezza 23, quanto piuttosto preoccupato di trovare un posto dove pensarla realmente esistita: appunto l’antico 24 e i suoi monumenti. La sua teoria del bello ideale, strettamente connessa a quella dell’imitazione 25, è già tutta formulata nella prima opera giovanile, I pensieri sull’imitazione, composti a Dresda, e destinati a rimanere il nucleo centrale del suo pensiero anche nelle opere successive.

Per Winckelmann il bello ideale è stato conseguito dall’arte greca, grazie all’osservazione diretta della bellezza naturale, offerta dagli atleti nelle palestre e nei ginnasi. Qui la frequente osservazione di corpi belli ha portato gli artisti al superamento dei modelli naturali e all’approdo all’idea di bellezza: una bellezza puramente intellettuale e del tutto smaterializzata. Più tardi il suo pensiero si precisa ancora, attraverso la nozione di stile: il bello ideale è stato conseguito nello stile elevato, ossia lo stile dell’arte greca formatosi in particolari condizioni storiche,

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politiche, economiche, e naturali (il clima), che si sono verificate con-temporaneamente nella Grecia del V secolo. Tale bellezza ideale, d’altra parte, sarebbe stata raggiunta, fra i moderni, dal solo Raffaello 26 per il caso-Galatea, e si tratta di una bellezza che non si comprende subito, perché presuppone l’esercizio di una facoltà puramente razionale, come dimostra l’Attila delle stanze raffaellesche.

Senza dubbio l’ipotesi di sviluppo storico-artistico che Winckel-mann traccia nei suoi scritti è funzionale al progetto di indicare all’arte del suo tempo un preciso percorso: il bello è conseguibile attraverso l’imitazione dell’arte greca, perché solo quest’ultima l’ha conseguita ed espressa al sommo grado in precise circostanze. La bellezza, ossia la varietà nella semplicità, si può perciò trovare solo nella statuaria 27 greca (quella che meglio della pittura è sopravvissuta all’azione distruttrice del tempo) e può essere ammirata dagli artisti nel Laocoonte, nell’Apollo, nel Torso del Belvedere, nella Venere dei Medici e nell’Antinoo Albani, ossia nelle statue più note ai viaggiatori dell’epoca, e perciò più cele-brate in pagine memorabili. Compostezza, nobilità, razionalità, sono questi i valori di cui Winckelmann investe la statuaria greca, e che addita anche ai suoi contemporanei. Così, l’antico, non più pensato come evasione in un mondo di belle favole mitologiche 28, si propone come un modello etico al quale rifarsi. È Laocoonte che in preda a sofferenze inimmaginabili non tradisce la sua nobile compostezza e sopporta storicamente il dolore. Ed è questo il tratto più nuovo che segna le sue riflessioni; è l’equazione antichità/moralità che riesce a distinguere la sua teoria dalla vuota erudizione del mondo antiquario circostante 29. È qui che l’antico riceve la sua più rigorosa sistemazione, attraverso il metodo della lettura stilistica, e diventa quel passato nel quale l’uomo ha esercitato, al massimo grado, la virtù.

D’altra parte, è proprio l’ancoraggio alla statuaria greca che con-sente a Winckelmann di superare quell’ambiguità che aveva segnato il passaggio della trattatistica dal Cinquecento al Seicento, cioè l’oscilla-re del concetto di bellezza tra qualità platoniche e aspetti aristotelici, cioè legati alla natura. Perché se la bellezza ha sicuramente una natura spirituale, l’individuazione di quel luogo dove essa è stata consacrata, consente all’artista non di accorciare la strada, ma di percorrere un sentiero certamente più fruttuoso. «Queste frequenti occasioni di os-servare la natura spinsero gli artisti greci ad andare ancora oltre: essi cominciarono a formare certi concetti generali delle bellezze, sia nelle singole parti che in tutte le proporzioni dei corpi, che si innalzavano addirittura al di sopra della natura; il loro modello era una natura spiri-tuale, concepita nel solo intelletto» 30. Da qui l’individuazione di quelle regole della bellezza di cui l’arte greca sarebbe depositaria: «Se l’artista si basa su queste fondamenta e si lascia guidare la mano e il sentimento dalla regola greca della bellezza, è già sulla strada che lo condurrà si-curo all’imitazione della natura. I concetti dell’intero, del perfetto nella

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natura dell’antichità gli chiariranno e renderanno più sensibili i concetti del parziale nella nostra natura. Egli saprà, scoprendo le sue bellezze, collegarle con il bello perfetto, e con l’ausilio di tali forme sublimi ed eternamente presenti, diverrà una regola per se stesso» 31.

Queste regole, nondimeno, non diventano leggi di tipo accademico ma altrettanti elementi di stile (il panneggio, il contorno, il profilo e la nobile semplicità e quieta grandezza) che consentono a Winckelmann di poter definire e descrivere una forma sensibile della bellezza: «Il bello è dato dalla varietà nella semplicità. Questa è la pietra filosofale che gli artisti debbono ricercare e che pochi di essi riescono a trovare […] La linea che descrive il bello è ellittica, e in essa è contenuta la sem-plicità assieme ad un continuo mutamento. Questo è facile a dirsi, ma difficile da imparare: quale linea più o meno ellittica possa raccogliere le singole parti nell’unità della bellezza, questo l’algebra non lo può determinare» 32. Un ambiguità per risolvere la quale, il più delle volte, si chiede aiuto alla teoria della selezione, che tra poco esploderà pro-prio nelle discussioni avviate dentro al circolo del cardinale Albani 33. Infine, passando dal totale alle parti, Winckelmann può finalmente specificare le qualità della bellezza in termini di caratteristiche di stile: la bellezza delle forme dell’espressione, del profilo, dei moti, per la cui percezione postula perfino l’esistenza di un senso interno che deve cogliere, elaborare e gustare ciò che il senso esterno (l’occhio) cattura. Un senso interno che proprio l’educazione e ancora una volta la vista dei monumenti, può rendere più esercitato.

Su questo punto Mengs 34 è più preciso e chiede al gusto, cioé ad una facoltà che attiene al soggetto, di farsi carico e di proporsi come veicolo di produzione della bellezza nell’arte. E se il gusto diventa l’organo cui si affida la responsabilità della scelta, il suo funzionamento va oltre la selezione per qualificarsi invece come caratteristica di stile, lì dove Mengs spingendosi oltre Winckelmann e oltre la sua epoca pensa la perfezione della pittura come un concetto non più unitario. Infatti nella sua teoria è più marcata la definizione dei caratteri della bellezza, e soprattutto è più evidente la frattura tra soggetto e oggetto: una frattura che il pittore tenta di mediare attraverso sottili distinzioni, che riguardano la differenza tra bellezza e perfezione, elementi reali dell’oggetto e sue caratteristiche ideali. Perché il punto della discussione risiede proprio nella capacità di saper decidere se l’ideale, calandosi nella cosa, perda le sue qualità o non preferisca piuttosto astrarne per conservare se stesso. Mengs risolve la questione lasciando la perfezione in un ambito ultraterreno e astratto e rinominando in termini di bel-lezza e di gusto le sue varianti terrene. «Siccome la perfezione non è propria dell’umanità, e si trova solamente in Dio, né comprendendosi niente dell’uomo fuorché quello che cade sotto i sensi, così l’Onni-potente gli ha voluto imprimere una visibile idea della perfezione, e questa è ciò che si chiama bellezza. Questa bellezza trovasi in tutte le

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cose create ogni qualvolta l’idea, che abbiamo di una cosa, e il nostro senso intellettuale non possono andare nell’immaginazione più oltre di quello che vediamo nella materia creata» 35 .

In questa direzione la bellezza è pensata come parvenza di perfezio-ne in una cosa visibile, ma soprattutto accordo tra soggetto e oggetto: «Perciò vi è bellezza in tutte le cose, giacché la natura non fece niente che fosse inutile, e come già si è detto vi è bellezza in ciascuna cosa, sempre che la medesima apparisca perfetta a quell’idea ed aspetto a cui appartiene. L’idea viene dalla cognizione della destinazione di una tal cosa; e questa cognizione proviene dall’anima. La bellezza si tro-va allora in qualunque cosa, quando tutta la materia è conforme alla sua destinazione» 36. E ancora: «La bellezza consiste nella perfezione della materia secondo le nostre idee. Siccome Iddio solo è perfetto, la bellezza è perciò una cosa divina» 37.

In tal modo il soggetto, caratterizzandosi come l’anima della ma-teria, acquista tutte le valenze di quella sana ragione illuministica di cui il neoclassicismo è una delle forme di celebrazione: «Quanto più la bellezza si trova in una cosa, tanto più è la medesima animata. La bellezza è l’anima della materia. Siccome l’anima dell’uomo è la causa del suo essere, così anche la bellezza è come l’anima delle figure [...] ma siccome la perfezione partecipa tanto del divino, perciò nella natura si trovano poche cose perfette, ed al contrario molte imperfette vi sono. Il perfetto è quello che si vede pieno di ragione» 38. È probabilmente qui il punto di maggiore novità della teoria: il ricondurre la bellezza, tramite la scelta, a un’attività del soggetto, perché, dopo le citazioni d’obbligo e il richiamo all’antico con la connessa idea dei cicli, Mengs assimila la bellezza al gusto rinominando in termini di buon gusto quel-la scelta che spesso si era caratterizzata come l’unico modo possibile per pensare il rapporto tra l’arte e la natura: «Il gusto è quello che determina il pittore alla scelta; e dalla sua scelta si giudica e si conosce se il suo gusto sia buono o cattivo […] Il gusto è quello che nel pittore produce e determina uno scopo principale, e che gli fa scegliere, o rigettare, ciò che al medesimo conviene, o gli è contrario» 39.

Se ancora esistessero dubbi circa l’assimilazione tra l’idea e la ragio-ne tramite il vicolo del gusto, Mengs è perentorio: «L’imitazione è la prima parte della pittura, ed in conseguenza la più necessaria ma non già la più bella [...] l’idea, che è la prima generatrice del gusto, è come l’anima, di cui l’imitazione forma il corpo. Quest’anima, ossia ragione, deve scegliere da tutto lo spettacolo della natura quelle parti che sono le più belle secondo tutte le idee umane; ma non deve creare nuove parti che non si trovino nella natura, mentre allora si diminuirebbe l’arte, e perderebbe, per così dire, il suo corpo; onde le sue bellezze diverrebbero oscure agli uomini. Per quest’idea non intendo altro che la buona scelta, che si deve fare delle cose naturali, e non già un’in-venzione di cose nuove» 40.

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In questa direzione, sciogliendo il concetto di ideale dai vincoli normativi del classicismo e definendo in termini moderni la ragione non come il qualificativo della regola (appunto la regola razionale) ma, con una terminologia illuministica come la presenza del soggetto nell’oggetto, Mengs, in accordo con i tempi nuovi, pensa a una perfe-zione non più compatta, ma specificata nelle sue differenti componenti: il disegno, il chiaroscuro e il colore, a loro volta capaci di assicurare l’espressione, il dilettevole e l’apparenza di verità, e alternativamente impersonate da Raffaello, Correggio e Tiziano. I tre grandi professori dell’arte. E indica dunque il moderno come l’epoca della parcellizzazio-ne ma anche della specializzazione, dopo quell’età dell’oro che è stata l’arte antica: «Essendo però l’ideale la prima e massima parte di tutta l’arte, gli antichi greci sono stati i più grandi di tutti, poiché la scelta del loro gusto comprendeva tutte le perfezioni possibili. Eglino giun-sero secondo a me pare, a un tal grado di perfezione, primieramente, perché presso di loro gli sciocchi non giudicavano le opere, come pur sovente succedere presso di noi; ma un tal giudizio era riservato ai savi e ai filosofi, come già ho detto in un altro luogo» 41.

Così, in accordo con la doppia vocazione per l’antico e per il rina-scimento, Mengs indica una via dell’imitazione capace di essere gui-data dalla ragione: «Due sono le vie che conducono al buongusto, qualora la ragione ne sia la guida. L’una, che è la più difficile, è quella di scegliere dalla natura stessa il più utile e il più bello. L’altra, più facile, si è di apprendere dalle opere in cui la scelta si è di già fatta. Per la prima sono arrivati gli antichi alla perfezione, vale a dire alla bellezza e al buongusto. La maggior parte dei moderni però, dopo i tre sopraddetti gran lumi, vi sono pervenuti per la seconda strada. I tre accennati valentuomini hanno battuto non solo la prima strada, ma anche un’altra di mezzo tra la natura e la imitazione» 42.

Anche per Mengs, come già per Winckelmann, l’antico è lo stru-mento per riconciliare l’uomo alla natura senza venir meno all’impe-rativo categorico della ragione che costituisce il vanto della cultura settecentesca. E l’artificio capace di garantire la difficile mediazione tra la natura, che è spesso sentimento, e la ragione, che di tutto vuole appunto dare ragione, è proprio il concetto di bellezza elaborato adesso in senso moderno, e cioè all’interno dell’ordine di un linguaggio: quelle regole greche della bellezza di cui aveva parlato l’amico autorevole. L’altra metà del bello – il cui complemento, di derivazione antica, ha caratteristiche erudite e deriva da reminiscenze letterarie, dalle formule dei trattatisti seicenteschi che avevano sapientemente riciclato Zeusi insieme a Raffaello – è, in linea con i tempi, non ancora il quotidiano baudeleriano, ma quella ragione di origine illuministica che sta len-tamente operando la sua rivoluzione e sta per scoprire con Kant le qualità soggettive della conoscenza. E naturalmente di tutto ciò che l’uomo produce in termini di conoscenza. L’arte, in primo luogo.

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Proprio in questa direzione il concetto di bellezza, con le sue voci discordi, può diventare esemplare di una rivoluzione in atto anche nel mondo dell’arte, che già con Winckelmann e proprio grazie al concetto di imitazione, paradossalmente stava operando il divorzio con il passato per proporre alla pratica artistica la via dell’imitazione non dell’altro da se, appunto la natura, ma di linguaggi ed epoche interni alla sua storia: l’antico e la scultura greca. Quella via verso il moderno alla quale anche Mengs dà il suo contributo quando, parlando proprio della bellezza, non pensa più a un concetto unitario, a quella idea di perfezione assoluta ereditata dal classicismo seicentesco, ma preferisce parlare di una perfezione specifica ai vari aspetti della pittura: il colori-to, il disegno e la grazia. In linea dunque con Lessing (1766) critico di Winckelmann 43, che ama puntare sui molteplici Laocoonti possibili per sottolineare la non-omogeneità e comparabilità dei linguaggi artistici. Ma così, siamo già alla fine di quell’epoca che è in discussione qui.

Il dibattito-scontro tra Mengs e Spalletti 44 (un oscuro abate greci-sta sicuramente legato al circolo del Cardinale Albani per il suo stretto rapporto con Mengs) si muove su questo difficile spartiacque tra pas-sato e presente, tra due mondi che proprio la nozione di ragione stava scuotendo dalle sua fondamenta, fino a costringere anche l’universo artistico ad attrezzarsi degli strumenti teorici adeguati.

Mengs, in fondo, è il complemento di Winckelmann e per spiegare cosa sia la bellezza e dopo aver chiamato in causa il Seicento e il suo concetto di perfezione, propone gli schemi matematici dell’astrazione per giustificare mediante la corrispondenza il salto tra due universi tra loro difficilmente omologabili: la natura e la ragione. Perché per lui, in linea con quella tradizione di cui è forse l’ultimo rappresentante, la bellezza è insieme ideale e reale, dunque al di là e contemporaneamen-te dentro la natura, disseminata in essa. Responsabile della mediazione è ancora una volta la ragione che mediante le operazioni di scelta che il gusto/ragione mette in piedi, è capace di garantire il passaggio dalla natura di per sé imperfetta all’arte che mediante i processi di selezione produce bellezza e dunque perfezione.

Una difficoltà che ben coglie l’amico Spalletti quando su invito dell’illustre pittore, ma notevolmente in imbarazzo a discutere di un siffatto argomento, in maniera pacata, assolutamente ignaro delle im-plicazioni che le sue note avrebbero potuto produrre, mette in crisi quel fondamento su cui la teoria neoclassica del bello trovava il suo fondamento. Inconsapevole, profondamente legato a quella cultura che riconosceva alla bellezza qualità di ordine, simmetria e corrispondenza, Spalletti pensa al bello non come entità in sé, e dunque esistente in natura, ma come un attributo dell’oggetto che l’oggetto stesso non possiede al suo interno, e che la ragione gli attribuisce mediante un giudizio: «Per accomodarmi alla costumanza, che praticasi, incomincerò questo mio ragionamento colla definizione della Bellezza, la quale a mio

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avviso è quella modificazione inerente all’oggetto osservato, che con infallibile caratteristica, quale il medesimo apparir deve all’intelletto, che compiacesi in riguardarlo, tale glielo presenta» 45.

In tal modo la bellezza, in quanto attributo e non qualità, è indi-cata da Spalletti non come oggetto, di difficile definizione, ma come concetto che è la ragione finalmente a elaborare ancora una volta me-diante la corrispondenza. Una corrispondenza praticata questa volta non tra entità non-omologabili (ideale e reale), ma tra universi che è proprio la ragione a relazionare: il soggetto e l’oggetto. Una relazione che non può più modificarsi in assoluto ma deve rimanere tale. Da qui la dipendenza dell’idea dal giudizio-amor proprio, e di qui soprattutto l’ipotesi che non esista la bellezza ma l’attributo bello, che, in quanto aggettivo, attiene non all’oggetto in quanto tale, ma proprio all’oggetto particolare: alle sue caratteristiche. Da qui, infine, l’idea che l’arte non debba contraffare la verità in nome della moralità, ma sia in relazione con la verità e in quanto tale sia funzione della conoscenza. O meglio sia essa stessa costruttrice di conoscenza.

Siamo ancora una volta alla fine di un’epoca. Un’epoca di cui Mengs è ancora il tenace paladino quando rifiuta in blocco le idee dell’oscuro Spalletti che probabilmente non ha nemmeno le competenze necessarie per parlare della bellezza. Perché essa deve invece conservare i suoi caratteri di assolutezza e idealità: «L’amor proprio non può mai essere origine della bellezza, che è una qualità aderente all’oggetto bello, e non qualità di chi l’ammira. Esso non è altro che quel che io chiamo giudizio relativo a noi medesimi, e che è inseparabile da noi [...] L’amor proprio solamente può entrare nelle cose relative ad un uomo, e ad un altro in particolare; ma l’idea della bellezza nasce in noi quando crediamo che la cosa che noi ammiriamo sia tale, che tutti gli uomini debbano convenire a lodarla; poiché non nasce dal semplice piacere che ci dà, ma dalla conoscenza della perfezione dell’oggetto da noi creduto mezzo convincente per essere da tutti lodato» 46.

Si deve certo concordare che l’accertamento delle caratteristiche 47 che attengono alla bellezza impegnerà i giudizi delle generazioni e dei secoli successivi. Giudizi nei quali le qualità conoscitive dell’arte, per il tramite della bellezza e attraverso i rapporti/differenze con la ragione, sono sicuramente ben accreditati. Giudizi che forse Fiedler espelle troppo in fretta dalla geografia dei suoi riferimenti.

1 H.-G. Gadamer, Verità e metodo, trad. it. a cura di G. Vattimo, Bompiani, Milano 1960.

2 Ivi, pp. 145- 47.3 Ivi, p. 148.4 K. Mollenhauser, Fiedlers Beitrag zu einer Theorie ästhetischer Bildung, in Aa. Vv., Auge

und Hand, cit., pp. 95-112.5 G. C Bellori, Le vite de’pittori, scultori e architetti, intr. di G. Previtali, Einaudi, Torino

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1976. Il saggio di Previtali, centrale per entrare nel mondo teorico e figurativo di Bellori, è stato ripubblicato nel catalogo della mostra L’idea del Bello, Viaggio per Roma nel Seicento, con Giovan Pietro Bellori, De Luca, Roma 2000.

6 R. Fréart de Chambray, La perfezione della pittura, trad. it. e intr. di F. Fanizza, Ae-sthetica, Palermo 1990.

7 Ivi, p. 44.8 Ivi, p. 90.9 Sul concetto di idea e sul suo cammino dal rinascimento al manierismo si rimanda

naturalmente alla lezione centrale di E. Panofsky, Idea. Contributo allo studio dell’estetica, La Nuova Italia, Firenze 1952, 1996.

10 F. Zuccaro, L’idea de’ scultori, pittori e architetti divisa in due libri, Torino 1607, ri-stampata in Bottari, Lettere pittoriche, Roma 1768. Per un’analisi di tali fonti si rimanda a J. Schlosser Magnino, La Letteratura artistica, trad. it. La Nuova Italia, Firenze 1964.

11 L’idea delle zone d’ombra e dei cicli risale, per via diretta, a Vasari di cui Bellori, peraltro, si sente il continuatore ideale.

12 L’idealizzazione rimanda a una rappresentazione della realtà, modificata per accordarsi a un modello di perfezione, appunto un ideale, che può avere come riferimento un’idea preesistente e indipendente dalle osservazioni della natura (è la versione platonica) oppure procedere dalla natura come sua astrazione, in un ciclo che poi la vede ritornare ad essa (è la linea che discende da Aristotele). Ed è proprio l’oscillazione fra questi due sistemi di rife-rimento che caratterizza il dibattito teorico tra il Cinquecento e il Seicento, tra il manierismo e il classicismo. Ma fino alla metà del Cinquecento la frattura tra reale e ideale non è ancora così netta, né si è già formata la teoria dell’imitazione.

13 È il caso del manierismo. Infatti: «Dico adunque che […] Iddio […] avendo per sua bontà creato l’uomo […] ad immagine e similitudine sua […] volle anco darli facoltà di formare in se medesimo un Disegno interno intellettivo, acciocchè col mezzo di questo conoscesse tutte le creature e formasse in se stesso un nuovo Mondo, e internamente in essere spirituale avesse e godesse quello che esternamente in essere naturale gode e domina; e inoltre acciocché con questo Disegno, quasi imitando Dio e emulando la Natura, potesse produrre infinite cose artificiali simili alle naturali, e col mezzo della pittura e della scultura farci vedere in terra nuovi Paradisi. Ma l’uomo, nel formare questo Disegno interno è molto differente da Dio, perché ove Iddio ha un sol Disegno, quanto alla sostanza compitissimo, comprensivo di tutte le cose […], l’uomo in se stesso forma vari disegni, secondo che sono distinte le cose da lui intese […], oltre il che ha l’origine sua bassa, cioè dai sensi, come diremo poi», Federico Zuccaro, L’Idea dei pittori, scultori e architetti 1584, cit. in E. Panofsky, Idea, cit., p. 53.

14 «Questa idea ovvero dea della pittura e della scultura, aperte le sacre cortine de gl’altri ingegni de i Dedalo e de gli Apelli, si svela a noi e discende sopra i marmi e sopra le tele; originata dalla natura supera l’origine e fassi originale dell’arte, misurata dal compasso del-l’intelletto diuiene misura della mano ed animata dall’immaginatiua dà vita all’immagine», Gio.Pietro Bellori, L’idea del pittore, dello scultore e dell’architetto, scelta delle bellezze naturali superiore alla natura, in E. Panofsky, Idea, cit., Appendice II, p. 157.

15 J. J. Winckelmann, Pensieri sull’Imitazione dell’arte greca nella pittura e nella scultura (1755), trad. it. a cura di M. Cometa, Aesthetica, Palermo 1992. È presente, qui, anche il saggio Commento ai Pensieri sull’Imitazione delle opere greche nella pittura e nella scultura e risposta all’Epistola sopra detti Pensieri. Dell’autore si confronti pure J. J. Winckelmann, Saggio sull’allegoria, specialmente per l’arte, trad. it. a cura di E. Agazzi, Minerva, Bologna 2004.

16 Per quanto riguarda il rapporto di Winckelmann con Roma, si rimanda al lavoro di ricostruzione filologica eseguito da J. Raspi Serra, sulla massa dei manoscritti winckelman-niani. J. J. Winckelmann, Ville e Palazzi di Roma, a cura di J. Raspi Serra, in cinque volumi, Roma, 2000-2005. IL sesto è in corso di stampa.

17 «È un’esperienza unica, d’apparente austerità e di fervore culturale, di rovine e di fasti, di chiari e di scuri, di “lunga durata” storica da meditare e di lezioni morali e poetiche da svolgere, un’esperienza indispensabile e quasi sempre feconda, che offriva questa Roma del 1750 da cui discende tutta l’Europa dei lumi, e in cui si incrociano, si interrogano e si guardano con occhi invidiosi gruppi rivali e attivi di italiani e di stranieri: gli inglesi con la loro curiosità archeologica instancabile e la loro attività commerciale (quegli stessi della cui “anticomania” forniva una pungente satira la Parodia della Scuola d’Atene di Reynolds), i tedeschi dottrinari preoccupati di formulare gli elevati principi della cultura e i francesi assiepati nell’Accademia di Francia», A. Chastel, Prefazione al catalogo della mostra: Piranèse et les français, Roma 1976, p. 11. Sull’argomento si confronti, pure, L. Barroero, La pittura

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a Roma nel Settecento, in Aa. Vv., La pittura in Italia, il Settecento, Tomo 1, Electa, Milano 1990, pp. 383-463.

18 Qui Mengs aveva respirato quell’aria di forte apertura culturale impressa alla città da Augusto III, che sognava di far rivivere i fasti d’Augusto, sogno cui aveva pure regala-to la costruzione di una pinacoteca che diventò subito un’Accademia, peraltro prestigiosa, grazie all’acquisto della Madonna Sistina di Raffaello nel 1744. Si confronti il catalogo della mostra Mengs. La scoperta del Neoclassicismo, a cura di S. Roettgen, Padova, Dresda 2001, Marsilio,Venezia.

19 La Roettgen informa che il pittore sognava ancora una volta, alla fine dei suoi anni e dopo aver perso ricchezza e affetti, di essere Raffaello per vivere in un corpo morto senza l’obbligo di trovarsi anima e corpo nel presente, come confessa a Giacomo Casanova, fratello del suo amico pittore, ivi, p. 29.

20 Nella sua Storia dell’arte dell’Antichità Winckelmann scrive: «Il compendio di tutte le bellezze delle figure degli antichi che sono state descritte si trova nelle opere immortali del signor Antonio Raffaello Mengs, primo pittore di corte dei re di Spagna e di Polonia, il più grande artista del suo tempo e forse anche dei tempi che verranno. Egli si è sorto come una fenice dalle ceneri del primo Raffaello, per insegnare al mondo la bellezza nell’arte e per elevarsi in questa nel più alto volo a cui l’uomo possa giungere. Da quando il popolo tedesco poté dirsi fiero di un uomo che al tempo dei nostri padri illuminò i saggi e diffuse tra tutti i popoli il seme della scienza universale, mancava ancora alla sua gloria che dal suo grembo uscisse colui che doveva dare nuova vita all’arte e che, nella stessa Roma culla delle arti, lui, il Raffaello tedesco, fosse ammirato e riconosciuto come tale». (Come curiosità erudita il giudizio di Winckelmann viene espresso per un quadro, Giove e Ganimede che costituisce uno dei falsi più famosi), J. J. Winckelmann, Storia dell’arte nell’antichità, con uno scritto di E. Pontiggia, SE, Milano 1990, p. 140.

21 Per un’analisi del movimento del neoclassicismo si rimanda a H. Honour, Neoclassici-smo, trad. it. Einaudi, Torino 1980.

22 La pittura classicheggiante di Mengs, almeno fino al Parnaso nella villa Albani (1761) non si distingue molto da quella alla moda del gusto internazionale Luigi XV e anche se è caratterizzata da una ricerca un po’ pedante della precisione archeologica, non differisce affatto, nell’intonazione patetica ed elegiaca, da quell’atteggiamento sostanzialmente rococò riscontrabile, ad esempio nella venditrice di amorini di Vien. E in fondo anche il Parnaso che Mengs affresca nella volta della galleria del palazzo costruito dal cardinale, amico e protettore di Winckelmann, per custodirvi la propria raccolta di antichità, è un omaggio e una fedele traduzione pittorica dei principi estetici dell’amico, oltre che una ricreazione della pittura greca. Ed è naturalmente un tributo ad Albani, moderno Apollo alla guida delle Muse. Va rilevato che il Parnaso, la cui realizzazione fu sicuramente sorvegliata da Winckelmann, appare meditato sull’affresco vaticano di Raffaello, oltre che sull’antico (comprendendo dunque i due principali motivi conduttori del classicismo mengsiano). Cosi, se la scelta tematica di Apollo è un chiaro richiamo all’Apollo del Belvedere, tanto caro a Winckelmann, la preferenza del quadro riportato al posto dello scorcio prospettico e il motivo ovale della composizione (che richiama quella linea ellittica che per Winckelmann sintetizza il bello, cioè la semplicità insieme a un continuo mutamento), sono altrettanti elementi iconografici che confermano la derivazione del quadro, e il tributo di Mengs alla cultura del neoclassicismo.

23 La conoscenza a Dresda di alcune opere dell’arte antica, fra cui le tre Vestali prove-nienti da Ercolano (qui giunta dopo una complessa vicenda) e la Madonna Sistina di Raf-faello, offrono a Winckelmann l’occasione per le sue prime riflessioni sullo stile elevato del panneggio dell’arte greca, sulla bellezza ideale e sull’imitazione. Tuttavia il punto più originale della sua ricerca più che essere rappresentato dalla ripresa della teoria del bello ideale (che può già vantare all’epoca un lungo percorso) deriva dalla sua associazione ai valori della nobile semplicità e quieta grandezza. Così, nei Pensieri sull’imitazione (1755), si legge che: «Il violento, il veloce appare per primo in ogni azione umana; il posato, il profondo vengono alla fine. Ci vuole tempo però per ammirare tutto ciò», J. J. Winckelmann, Pensieri sull’imi-tazione, cit., p. 44.

24 Prima ancora di arrivare in Italia Winckelmann è già un appassionato cultore dell’anti-chità greca, sia pure non ancora nei modi consapevoli conseguiti attraverso lo studio diretto delle opere presenti a Roma e a Napoli, che lo portano poi alla stesura, nel 1764, del suo tentativo di elaborare una compiuta definizione della storia dell’arte greca.

25 Sulla teoria dell’imitazione Winckelmann ritorna nei Brevi studi sull’arte antica (1756-59), operando una distinzione fondamentale, fra imitazione e copia. Copia è servire servilmen-

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te, imitare è mettere in atto un processo per cui la cosa imitata ne diventa un’altra, autonoma e originale. A chiarire meglio che cosa intenda, Winckelmann suggerisce gli esempi di Dome-nichino e Poussin, i quali, partendo dall’imitazione delle fonti antiche (teste di Alessandro e di Niobe il primo, le pietre incise il secondo) hanno creato opere nuove.

26 Raffaello è, fin dalle prime riflessioni, emblema della bellezza classica, desunta e con-seguita grazie allo studio degli antichi. La differenza che esiste tra l’imitazione della natura e l’imitazione degli antichi è fornita dai due opposti esempi di Caravaggio e Raffaello (si legge nel 1755 nei Pensieri sull’imitazione). Cosi, Raffaello viene indicato come modello agli artisti viventi, a riprova che la bellezza ideale può ancora essere conseguita, a patto che si operi come lui, si segua il suo stesso esempio.

27 Sulla questione della scultura, e del ruolo che essa ha giocato in rapporto all’estetica cfr. Aa. Vv., Estetica della Scultura, a cura di L. Russo, Aesthetica, Palermo 2003.

28 Tali favole, tuttavia, erano ancora perseguite dall’arte tardo-barocca e rococò di Tiepolo e dei napoletani che, perciò, vengono duramente criticati.

29 Non c’è dubbio, infatti, che per motivi diversi l’interesse per l’antichità sia stato in Francia come in Italia un elemento costante attraverso i secoli, e nell’opera sia dei teorici che degli artisti. Un interesse che poi, alla metà del Settecento, viene alimentato dall’appor-to delle nuove campagne di scavo, effettuate a Roma, e, soprattutto, dal ritrovamento, nel regno di Napoli, delle città sepolte di Ercolano (1738) e di Pompei (1748). Tuttavia l’antico, fatta eccezione per Poussin, da Raffaello ai Carracci, a Domenichino e a Guido Reni, è stato interpretato sempre come un modello di perfezione formale, verso cui guardare con gli occhi nostalgici di chi ha la consapevolezza che il passato sia un bene irrimediabilmente perduto. Solo Poussin, l’artista filosofo del Seicento, ha cercato di eternare la storicità del passato, andando oltre il puro recupero dei motivi dall’antico ed elaborando uno stile, quello della composizione lineare, ispirato dai bassorilievi antichi (o dalle Nozze Aldobrandini), che suggestionerà poi anche l’arte di David.

30 J. J. Winckelmann, Pensieri sull’imitazione dell’arte greca nella pittura e nella scultura, cit., p. 36.

31 Ivi, p. 39.32 J. J. Winckelmann, Brevi studi sull’arte antica, in Il Bello nell’arte, cit., p. 59.33 «La bellezza è di due specie, individuata, e ideale; la prima è un complesso delle belle

forme d’un individuo, e la seconda un estratto di essa presa da più individui; dicesi poi ideale non rispetto alle parti, ma al totale, in cui la natura può essere superata dall’arte. La natura ha formato sempre e va formando tutto giorno dei visi comparabili a quante teste della più sublime bellezza veder si possono scolpite nei marmi e nelle gemme: anche a dì nostri si veggon vive delle Niobi e degli Apollini Vaticani», J. J. Winckelmann, Monumenti antichi inediti, in Il Bello nell’arte, cit, p. 147.

34 A. R. Mengs, Pensieri sulla Pittura (pubblicata in Germania nel 1762 e tradotto in italiano da Giuseppe Niccola D’Azara nel 1780), ora nell’edizione a cura di M. Cometa, Aesthetica, Palermo, 1996.

35 Ivi, p. 27.36 Ivi, p. 29.37 Ivi, p. 30.38 Ivi, pp. 30-31.39 Ivi, pp. 38-39.40 Ivi, p. 40.41 Ivi, p. 44.42 Ivi, p. 45.43 Lessing, come si sa, usa il Laocoonte, e le suggestive letture di Winckelmann, come

quel luogo mentale capace di costruire la differenza tra i linguaggi artistici: quelli spaziali (la pittura) e quelli temporali (la poesia). Naturalmente, tali differenze si giocano proprio in termini di linguaggi di bellezza. Cfr. G. Ephraim Lessing, Laocoonte, a cura di M. Cometa, tra. it. Aesthetica, Palermo 1991.

44 G. Spalletti, Saggio sopra la Bellezza, a cura di P. D’Angelo, Aesthetica, Palermo, 1992 (la prima edizione è del 1765).

45 Ivi, p. 56.46 Ivi, pp. 99-100.47 Per quanto riguarda la complessità del pensiero di Mengs, legato in qualche modo alla

percezione che il suo cammino della bellezza cominci a transitare verso nuove frontiere, si può rileggere una riflessione del 1768, consegnata ad una lettera all’amico Ghelli: «Parlando poi

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in particolare della nostr’arte quale labirin[to] si presente mai alla mia mente: non sappiamo ne dove sia l’ultimo termine della Pittura ne sin dove è concesso al Uomo di arivare, l’anima nostra sente anche all’infinito, ma dov’è quella man che a tal segno ubidisca all’intelletto, che nel istante ch’il pensier nostro di materia si veste non mori nelle nostre mani mentre nasce? ne mai li Uomini, anche più grandi fecero l’opere lori uguali a lor concetti. Dicesi in generale che la Pittura e imitatrice del vero, e così è, ma fin che non si sa, a qual segno si possa arivare in questa imitazione, che c’insegnerà la strada? Dirasi gli esempi deli Uomini grandi, seguasi dunque Raffaello, ma il Coregio Tiziano ed altri sono ellino men vere? non certo: uniscasi dunque li tre ma fra loro vi è tanta differenza che lo stile del uno struge e contadice quello del altro converra dunque credere che ogniun di loro solo in parte colse nel segno d’onde nasce l’esser dissimile tra Lori. Tremo dunque che questi erano tutti vicini al vero, ma essendo il vero unico e ellino fra lori diversi, si conosce che ancora erano distanti […] Per la nobiltà della pittura non basta poi la verità, bisogna agiu[n]gervi la belleza non solo relativa ma anche intrinseca, quest’ultima di alcun modo si opone alla medema verità e tal volte al carattere che tanto piace e questo fu lo stile de Antichi Grecia: ma questa si opone alle forti espressioni di Rafaele alli graziosi contorsioni del Coregio, ed alli artificiosi effetti di Tiziano, mentre parmi che solo consista nel imitazione delle cose vere ridotte al modo più semplice de soli parti essenziali. Con tanta difficoltà chi potrà erigersi giudice e voler ad altri insegnar il camino? dirò solo il mio parere che è come segue cioè. Il Pittore dè imitare la verità la dove la trova più somiliante alle opere delli Uomini grandi tanto nel essenziale come nel acidentale». Cfr. S. Roettgen, Catalogo della mostra Mengs. La scoperta del Neoclassicismo, cit., p. 31.

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Appendice

Nel corpus delle opere di Konrad Fiedler la piccola sezione registrata sotto il titolo Zur neueren Kunsttheorie 1 si presenta come una serie di appunti, o meglio di recensioni, quasi il fissaggio di pensieri veloci per un lavoro progettato e da farsi. Un lavoro lasciato incompiuto, forse per via di una morte arrivata troppo in fretta, di una vita durata troppo poco.

Si tratta di un dattiloscritto non datato, registrato nel lascito della Fiedleria-na sotto la sigla II, 11, e successivo, per numero e ordinamento, all’altro Über die Kunsttheorie der Griechen und Römer 2 (II, 10), probabilmente perché con esso apparentato per affinità di temi. Il manoscritto, ora, è presente nel secondo volume dell’edizione degli Scritti curata da Gottfried Boehm.

È dunque un manoscritto postumo, decisamente poco omogeneo e di cui non si ha ulteriore traccia in altri lavori portati in qualche modo a compimento, magari sotto forma di contributi a riviste 3. Ma Fiedler non è nuovo alla pratica degli appunti, delle annotazioni, dei taccuini di viaggio 4 (nei quali registra, or-dina e raggruppa quanto ha visto, o letto), come la quantità di diari e di lettere testimonia. In questo caso la scrittura è apparentemente frammentata, ma nella realtà diretta e incisiva, abbastanza vicina alla formula delle dichiarazioni brevi e perentorie che l’autore aveva già sperimentato negli Aforismi. Sembrerebbe un manoscritto a latere di scritti più importanti e più noti, se Fiedler non ha avvertito il bisogno di corredarlo di una stesura meglio articolata.

Eppure si tratta di un manoscritto centrale, nel corpus della sua opera, se si sceglie l’ipotesi di considerare questo testo come un banco di prova di quanto la teoria aveva già proposto o andava proponendo, e come verifica di una di-mostrazione lavorata altrove. Perché Fiedler non ha assolutamente dubbi circa la sua attività di pioniere: di una teoria dell’arte che finalmente punti sulla qualità conoscitiva di quei procedimenti che essa mette in atto. E pure pionie-re di una nuova filosofia che lasci alle spalle la tradizione estetica con tutto il peso di un bagaglio ingombrante. In questa direzione, come lettore della teoria artistica del Settecento, individua nei grandi nomi di quella tradizione ciò di cui è già a conoscenza: l’urgenza di cambiare strada per via delle colpe di quei padri illustri. E di questi stessi padri si propone, dunque, non come lettore e interprete, quanto piuttosto come recensore e censore di ciò che esuli dal proprio orizzonte teorico. Così, il manoscritto diventa ancora più intrigante per andare direttamente al cuore della teoria nel suo complesso e per capire quale avrebbe potuto essere una storia delle dottrine artistiche nel tempo, se mai Fiedler l’avesse scritta.

1 K. Fiedler, Zur neueren Kunsttheorie, in Schriften zur Kunst, Band II, cit., pp. 247-90. Di questa sezione viene qui presentato solo quanto attiene al Settecento.

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2 K. Fiedler, Über die Kunsttheorie der Griechen und Römer, in Schriften zur Kunst, Band II, cit., pp.195- 246.

3 Oltre che con altre riviste Fiedler ha collaborato per un certo periodo, tra gli anni 1860 e 1880, con la rivista “Die Grenzboten”, firmandosi con la sigla My e Rho. È legata soprattutto a questa collaborazione la sua attività di critico militante.

4 Come testimonia soprattutto la terza sezione della Fiedleriana, in cui sono raccolti elenchi di classificazione delle opere d’arte italiane ordinate per stili e città, o come dimostra la trascrizione del Trattato della Pittura di Leonardo, ricopiato in lingua originale (per quanto riguarda le pagine ritenute significative). Fiedler ha poi pubblicato, nel 1882 e sempre su “Die Grenzboten”, un’analisi della traduzione del Trattato da parte di Ludwig. Cfr. Ein Künstler über Kunst und Kunstgelehrte, in Schriften zur Kunst, Band II, cit., pp. 345-49.

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Sulla teoria artistica recente:Winckelmann, Lessing, Kantdi Konrad Fiedler

Johann Joachim Winckelmann

Pensieri sull’imitazione delle opere greche nella pittura e nella scultura (1755)

Winckelmann parte ovunque dall’ipotesi che l’artista sia chiamato a migliorare la natura imitandola, e dimostra la superiorità delle opere antiche sulle moderne per quanto attiene alla bellezza. Egli sostiene che Bernini abbia pensato che l’arte consista solo nel cercare la bellez-za, ma che non sia capace di superare la natura; sostiene ancora che il pittore avrebbe abbandonato il pregiudizio di una volta davanti alla Venere dei Medici.

Secondo lui, invece, se fosse stata la Venere ad aver insegnato a Bernini come trovare nella natura le bellezze altrimenti nascoste, do-vrebbe derivare di qui che «la bellezza delle statue antiche sia più semplice da scoprire della bellezza in natura e che essa sia più com-movente, non così dispersa, ma piuttosto più concentrata in unità di quanto lo sia l’altra».

In tal modo Winckelmann non contraddice affatto Bernini e lascia involontariamente intendere che il vero scopo dell’arte non consista nel cercare più bellezza di quanta ne abbia creata la natura (cosa che del resto si può fino a un certo grado) ma nel presentarsi piuttosto come la sua interpretazione e nel mostrare all’uomo, tra le altre cose che gli insegna, anche la bellezza in natura. Così cade di nuovo nel-l’ipotesi che l’arte possa e debba produrre qualcosa più bello della natura.

A causa della forte ammirazione che giustamente concede alle opere degli antichi, Winckelmann è sempre più indotto a scorgere in esse gli unici modelli artistici e a lasciar valere le altre opere d’arte solo fin-tantoché ci avvicinino ai pregi degli antichi, così come è spinto a non riconoscere nessun altro mezzo per il progresso dell’arte se non l’imi-tazione degli antichi. A tale parzialità deve necessariamente approdare nel momento in cui impiega il gusto come giudice sulle opere d’arte e nel momento in cui l’arte antica corrisponde di fatto al suo gusto. At-

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traverso Raffaello gli si chiarisce quanto pensa di poter far risalire allo studio dell’antico. Nondimeno cita la massima di Michelangelo: «Chi va dietro a altri, mai non gli passa innanzi; e chi non sa far bene da sé, non può servirsi bene delle cose d’altri». Tale massima avrebbe dovuto convincerlo del fatto che quanto nelle opere dei grandi artisti dipende dallo studio di maestri estranei possa certo essere enorme e significativo ma che tuttavia sia solo la veste esteriore rispetto al suo centro indivi-duale e originale. Ciò che è veramente significativo in un’opera d’arte non ha un modello, né può servire da modello; è l’effetto immediato dell’individualità, che non nasce per imitazione, né deve essere capace di imitazione.

«Nulla può mostrar più chiaramente il vantaggio dell’imitazione degli antichi, rispetto all’imitazione della natura, che prendere due giovani di pari buon talento e far loro studiare al primo l’antichità e al secondo la semplice natura. Quest’ultimo rappresenterebbe la na-tura cosi come la trova, se fosse italiano dipingerebbe forse come il Caravaggio, se fosse olandese, e avesse fortuna, come Jacob Jordaens; ma quello formerebbe la natura come essa lo richiede e dipingerebbe figure come Raffaello».

Per dipingere figure come quest’ultimo, egli dovrebbe essere ap-punto Raffaello, e non si comprende come lo studio degli antichi lo porti a diventarlo. L’opinione dominante in Winckelmann è sempre l’idea che l’artista non abbia nulla di meglio da fare se non tentare di avvicinarsi il più possibile agli antichi; di qui discende che per lui l’arte sia qualcosa che una volta ha raggiunto completamente il suo scopo, e cioè nell’antichità. Essa potrebbe essere valutata giustamente solo da chi veda in essa un mezzo di espressione dell’istinto di conoscenza, duraturo e capace di accompagnare l’umanità in tutte le sue stazioni.

Purtroppo Winckelmann conosce solo questi due aspetti dell’arte: la bella forma e il contenuto significativo. Addossa all’ultimo il peso maggiore e sostiene addirittura che il più grande successo della pittura consista nella rappresentazione di oggetti invisibili, passati e futuri; e più lontano: «Tutte le arti hanno uno scopo finale doppio: devono divertire e contemporaneamente insegnare». Ma questa è, appunto, l’opinione più diffusa e il fatto che Winckelmann non sia riuscito a liberarsene, è il motivo del suo inganno.

Commento ai pensieri sull’imitazione delle opere greche etc. (1756)Un paragone tra Jordaens e Rubens porta al risultato che: «Jor-

daens, che apparteneva ad una schiatta spirituale inferiore, non può essere affatto paragonato, per ciò che concerne la pittura sublime, a Rubens, suo maestro: egli non poté elevarsi alla stessa sua altezza, né porsi al di sopra della natura. Egli dunque la seguì più da presso, e se con ciò si ottiene una maggiore verità, a Jordaens si potrebbe attribuire

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il carattere di una maggiore verità rispetto a Rubens. Egli ha dipinto la natura così come l’ha trovata».

Anche qui Winckelmann è completamente irretito nel punto di vi-sta tradizionale circa la verità di natura, senza pensare che essa appaia diversa se è vista da un Rubens o da un Jordaens.

«Disegno e colorito si conseguono attraverso continui esercizi: pro-spettiva e composizione, prese in senso molto stretto, si basano su regole fisse. Tutto questo è meccanico e dunque occorre solo un’anima meccanica per conoscere e ammirare una tale arte».

Esiste qui, di fondo, un equivoco relativo all’essenza della produzione di un’artista figurativo, e che accomuna la maggior parte dei non artisti i quali vedono nella cosiddetta tecnica un mezzo subordinato e suscettibile di apprendimento per l’espressione di idee non prevedibili. È la scissione dell’arte, che lascia risiedere quanto è giusto nel mezzo. L’individualità geniale, veramente dotata da un punto di vista artistico, si manifesta in quanto la gente chiama tecnica. Naturalmente anche gli artisti di una volta procedevano in maniera tale da apprendere la tecnica in maniera mec-canica, così da possedere un mezzo per l’espressione di pensieri astratti. Ma i veri artisti vedono nella cosiddetta componente tecnica il mezzo che non va appreso fino in fondo per estorcere alla natura il suo segreto, eternamente nuovo; ma dove l’elemento tecnico viene adoperato come qualcosa di appreso, già entra la maniera al posto dell’arte e, solo dove esso appare come qualcosa di continuamente cercato, c’è vera arte.

Winckelmann riassume sostenendo che tutti i piaceri durano e proteggono dalla noia solo nella misura in cui impegnino la mente. Semplici sensazioni (come quelle provocate attraverso l’osservazione di paesaggi, pezzi di frutta o di fiori) hanno scarsa presa sulla men-te. Sullo stesso livello si trovano pitture di storia che rappresentano persone e cose come sono e come appaiono. Una semplice imitazione non è sufficiente per un’opera d’arte. Un pittore di storia non deve limitarsi a un contorno che si elevi al di sopra della natura comune, né alla nobile espressione di un paesaggio; tutto questo si ferma ancora al livello dell’imitazione; la verità piace e agisce maggiormente nella veste dell’allegoria; a distanza incide di più sull’uomo quanto è celato, di quanto lo faccia ciò che è manifesto. Ogni idea agisce in maniera più efficace se è accompagnata da altre idee; impressiona soprattutto il trasformarsi di tali combinazioni; e anche questo si ottiene attraverso l’allegoria.

Non si può negare che tutti questi motivi che Winckelmann apporta per raccomandare l’allegoria, conducano al fatto che la mente non sia capace di cogliere nell’opera d’arte se non quanto sia rappresentazione simbolica di concetti astratti. Qui Winckelmann concorda completa-mente con quanti pensano che l’opera d’arte consista in un piccolo piacere per i sensi e nell’impegno per un intelletto intelligente.

Ma non c’è alcuna traccia del fatto che l’opera d’arte, appunto lì

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dove può procurare solo un effetto estetico, possa pretendere il più grande lavoro dell’intelletto, e offrire contemporaneamente la massima soddisfazione.

Ricordi sull’osservazione delle opere d’arte (1759)«Osserva bene se l’autore dell’opera d’arte che tu stai consideran-

do abbia lavorato seguendo il proprio pensiero o imitando altri, se abbia conosciuto la principale ragione dell’arte, la bellezza, o soltanto modellato secondo le forme che gli erano note, e se abbia lavorato da uomo o giocato da fanciullo».

«Il secondo argomento nella giusta considerazione delle opere d’ar-te deve essere la bellezza. Per l’uomo che pensa, il più alto modello dell’arte è l’uomo stesso, ma solo la sua superficie esterna, e conoscerlo è per l’artista non meno difficile che non sia per il filosofo conoscere il suo interno; e la cosa più difficile è quella che non sembra esserlo, cioè la bellezza, poiché in fondo essa non è legata né a un numero né a una misura».

Questa splendida posizione viene offuscata solo dal fatto che sem-pre e daccapo la bellezza si presenta come il principale compito del-l’arte. Solo quando la bellezza retrocede al rango di una circostanza secondaria di accompagnamento, diventa possibile una comprensione artistica non parziale.

Della grazia nelle opere d’arte (1759)«Nell’insegnamento relativo alle opere d’arte, la grazia costituisce

l’elemento più sensibile e la prova più convincente per dimostrare la superiorità delle opere antiche sulle moderne: da essa deve cominciare l’insegnamento che voglia approdare al più alto concetto della bellezza astratta».

Dappertutto il più alto grado di bellezza nelle opere degli antichi è addotto come un privilegio assoluto rispetto a quelle moderne; il cosiddetto buon gusto giudica circa il valore massimo o più modesto dell’opera d’arte. Una misura così soggettiva deve necessariamente con-durre a unilateralità e parzialità. Per rendere giustizia alle prestazioni artistiche di epoche e popolazioni differenti, occorre individuare una misura oggettiva. Anche se i Greci furono il popolo eletto in materia di bellezza, non per questo lo furono anche nei confronti dell’arte nel suo complesso.

Winckelmann parla della grazia nelle opere degli antichi tanto in rapporto alla posizione e ai gesti della figura umana quanto ai loro or-namenti e abiti adducendo per contrasto la sua mancanza nelle opere dei moderni.

Certo non si può negare che nelle opere degli antichi la superiorità

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della grazia pervenga a una misura più universale rispetto alle opere dei moderni. Ma la si potrà considerare una superiorità assoluta solo se si ponga leggiadria e bellezza come la legge suprema dell’arte. Proprio Winckelmann avverte le difficoltà di questo punto di vista dove parla di Michelangelo e lo critica per la sua mancanza di grazia e di bellez-za, avvertendo però che malgrado tale mancanza egli sia un’artista di ugual valore rispetto agli antichi. Ignora che è cosa ben diversa se, in rapporto alla grazia, si confrontino con le antiche opere del proprio tempo oppure opere del XV e del XVI secolo. Se in entrambe si può segnalare una mancanza di grazia, essa tuttavia dipende da mo-tivi totalmente diversi. Perché il XVIII secolo non tende ad altro, in arte, se non a leggiadria e bellezza e tuttavia bisogna ammettere che tali concetti di una volta fossero poco naturali, affettati e artificiosi e che dovessero essere adatti a suscitare più disgusto che ammirazione in chi fosse interno al mondo dell’arte antica. Il XV e XVI secolo inseguono nell’arte uno scopo completamente diverso e se, sulla sua strada, Michelangelo incontrò solo raramente leggiadria e bellezza, non fu per questo inferiore. E neppure il compito che si era dato. Egli non è misurabile con quella misura. Grazia e bellezza possono essere trovate ovunque nella natura e perciò non sono per l’arte un requisito assoluto.

Soprattutto nelle opere degli antichi bisogna distinguere se i linea-menti più raffinati che ci appaiono come grazia si fondino pure sulla ricerca della grazia. Secondo Winckelmann: «Negli atteggiamenti delle figure antiche, il piacere non si manifesta col riso, ma mostra soltanto la serenità della gioia interna; sul volto di una Baccante non appare – si potrebbe dire – che l’aurora della voluttà. Nella tristezza e nello sdegno tali atteggiamenti sono un’immagine del mare dal fondo ancora tranquillo, quando la superficie già incomincia ad agitarsi; anche nel dolore più intenso Niobe appare l’eroina che non cede a Latona».

Ci si è abituati ad attribuire tali finezze (il non-urlo del Laocoonte è uno degli esempi più illustri) al gusto e al senso di bellezza degli artisti antichi; ma non sempre si è nel giusto; piuttosto l’artista, nella sua scelta dei tratti infinitamente numerosi che l’osservazione della natura gli fornisce, viene guidato molto meno dal maggiore o minore valore estetico che dalla rarità o finezza dell’osservazione; il primo accendersi del piacere nel volto di una baccante non è necessariamente più bello della completa espressione del piacere sensuale (e spesso questo non è stato rappresentato dagli antichi in maniera meno magistrale); ma scoprire quel piacere già nelle prime impercettibili tracce in cui si ri-flette sulla superficie del volto e restituirlo riproducendolo: proprio qui risiede quel senso raffinato e quella maestria che si mostra solo nelle migliori opere d’arte. La finezza e profondità della conoscenza artistica da portare alla luce nell’opera d’arte è il criterio, non la misura di una bellezza cercata e raggiunta.

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Descrizione del Torso nel Belvedere a Roma (1759)Questa descrizione è la più chiara testimonianza del fatto che l’en-

tusiasmo di Winckelmann per le opere degli antichi derivava da una comprensione molto approfondita. Eppure, secondo lui: «Non basta dire che una cosa è bella: si deve anche sapere fino a che punto e per-ché essa sia bella». E qui si riconosce cosa manchi nell’osservazione di Winckelmann sull’arte; perché di continuo riconosce il pregio dell’opera nel fatto che si dia dell’Ercole una figurazione tanto compiuta e cioè una figurazione nella quale l’artista figurativo abbia superato il poeta. È stupefacente come Winckelmann descriva questo Ercole divino. Ma l’intera descrizione dimostra quanto poco riesca a evitare di interpretare le opere d’arte come illustrazioni. Non si può negare che una parte del-l’opera e della sua bellezza risieda nelle argomentazioni apportate. Ma, se avesse voluto estrarre la sostanza del significato artistico dell’opera, avrebbe dovuto prescindere da tutte quelle qualità relative alla favola di Ercole e avrebbe dovuto mostrare dove si relazioni alla natura, sem-pre uguale eppure mutevole, sempre comprensibile eppure enigmatica. In punti isolati ci arriva molto vicino, solo che non eleva a principio questa modalità di descrizione e di comprensione e sempre daccapo intende la completezza specifica dell’opera d’arte soltanto come mezzo per l’espressione di rappresentazioni che si trovano già fuori dal circuito di quelle veramente artistiche.

Lettera a Bianconi sulle scoperte ercolanensiNotizie sulle statue marmoree di Ercolano.Qui Winckelmann critica una statua di Giove scoperta a Ercolano,

perché non corrisponde alla rappresentazione prevedibile di Giove e cita come esempio il Torso di Ercole. Parla solo di questa parte dell’opera e gli sembra che costituisca l’unica misura. E critica pure il fatto che uno sculture moderno abbia progettato una statua equestre del re con le staffe, mentre gli antichi non se ne sarebbero serviti. Più oltre si sofferma sui ferri di cavallo in un centauro. Nei confronti di queste esposizioni, giuste in un certo contesto, occorrerebbe almeno sottolineare che non hanno alcuna relazione con l’opera d’arte in senso stretto. D’altra parte, nel giudizio artistico di Winckelmann, l’interesse antiquario risulta spesso dominante.

Dissertazione sulla capacità di sentimento del bello nell’arte e sul suo insegnamento (1763)

Winckelmann descrive in maniera eccellente la capacità di senti-mento del bello. Ma anche qui, ancora una volta, occorre rilevare che egli riconosce in questa capacità l’unico mezzo per comprendere e giudicare le opere d’arte; e biasima perciò Stosch perché ha preferito

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il Fauno Barberini all’Apollo del Belvedere, e attribuisce tale preferenza alla sua ignoranza nei confronti della vera bellezza. Colui che vede il più alto scopo dell’arte nella bellezza della composizione, deve neces-sariamente incorrere in parzialità ed errori. Si può ben ritenere che una grande sensibilità per la bellezza sia l’inizio di una comprensione dell’opera d’arte; la bellezza, infatti, ne forma una parte e cioè quella a cui è più sensibile la maggior parte degli uomini. Ma chi, al di là e oltre la piacevole sensazione della bellezza, non riesca a elevarsi alle più alte vette della conoscenza, non comprenderà mai appieno l’arte.

L’intera trattazione è piena delle osservazioni migliori e più giuste e quindi anche di giudizi ingiusti e sbagliati; tra gli altri, soprattutto, quello relativo alle Tombe di Michelangelo.

Tentativo di un’allegoria soprattutto per l’arte (1766)«Poiché l’arte, e soprattutto la pittura, è, come dice Simonide, una

poesia muta, essa deve avere quadri inventati, e cioè deve innanzitutto rendere i pensieri in figure».

In generale, al di fuori dell’esigenza di una separazione tra sim-bolismo, allegoria etc., avremmo potuto attenderci di più, e cioè che Winckelmann avesse chiarito il posto dell’allegoria nell’arte. Perché più che come una sua parte occorre definire l’allegoria un travestimento della stessa, così come, benché si possa utilizzare l’arte per scopi di decorazione, non si deve necessariamente definire essenziali i requisi-ti decorativi. Le richieste che Winckelmann pone all’allegoria, e cioè che essa sia semplice, piacevole e chiara nella dimensione, che diventi subito comprensibile e senza aggiunte, sono del tutto giustificate, ma riguardano l’opera d’arte solo nella misura in cui essa serva come alle-goria, e non come opera d’arte. Quest’ultima, infatti, non ha bisogno d’essere allegoria e l’allegoria non ha bisogno di essere opera d’arte; entrambe possono coincidere, senza che questo sia essenziale. Il fatto che i Greci indichino nella rappresentazione allegorica un culmine non più raggiunto, è uno dei loro innumerevoli pregi; ma l’alto valore delle loro prestazioni artistiche si fonda su qualità completamente diverse.

Storia dell’arte anticaAlla base delle analisi non c’è alcuna esposizione approfondita

circa l’essenza dell’arte e inoltre il punto di vista a partire dal quale occorre osservarla si modifica continuamente, perché una volta se ne parla come di un mezzo di rappresentazione simbolica, un’altra come espressione figurativa di pensieri, e un’altra ancora come mezzo per il piacere nella bellezza.

Libro 4°, cap. 1: Winckelmann indica i motivi che devono aver prodotto la fioritura dell’arte presso i Greci. La natura e il clima fa-

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vorirono la produzione di belle forme, la benevola e gaia indole dei Greci contribuì ad abbozzare quadri belli e piacevoli; la libertà politica favorì l’arte; essa fu utilizzata per il riconoscimento pubblico (statua), per oggetti del culto religioso; gli artisti e le loro opere ebbero alta stima, etc. Il capitolo si chiude con la frase: «Rispetto ad altri popoli, presso i Greci l’arte godé di tali vantaggi e su questo terreno poterono nascere così magnifici frutti».

Non si può negare che Winckelmann si fermi solo alla superficie di circostanze favorevoli, e che non scenda affatto nella profondità delle forze e delle capacità specifiche, alle quali i Greci debbono la loro superiorità in arte.

Cap. 2°: Bisogna parlare qui di quanto sia “essenziale nell’arte”, cosa che in Winckelmann coincide ovunque con la bellezza. § 9: «La bellezza, come scopo finale e fulcro dell’arte, richiede per il momento una trattazione generale, nella quale augurerei a me e al lettore di trovare soddisfazione». Seguono varie osservazioni sulla bellezza, e fi-nalmente il ben noto paragone con la più completa delle acque, che tanto più deve essere stimata sana quanto meno sia saporita.

Gotthold Ephraim Lessing

Punti di vista generali sul Laoocoonte di Lessing: 1. La bellezza è il primo ed ultimo compito dell’arte.2. La poesia ha un vantaggio rispetto all’arte figurativa, perché può

esprimere più cose di questa.3. Compito dell’arte è il piacere.

Fino ad oggi, tutta l’estetica riconosce come compito dell’arte l’imi-tazione e la creazione specifica della bellezza. Ma il concetto di bellez-za deve essere completamente espulso dall’estetica, mentre deve esse-re riconosciuto come compito dell’arte (sia figurativa che discorsiva) l’interpretazione della natura nella sua lingua e secondo la concezione personale dell’artista.

(Successivamente: Il concetto di bellezza non deve essere espulso dall’estetica, perché esplorare questo concetto è il compito specifico dell’arte; piuttosto è l’estetica che deve essere espulsa dal campo dell’os-servazione artistica, perché entrambe non hanno nulla in comune.)

I confini della pittura (o piuttosto delle arti figurative) e della poe-sia devono essere dedotti dalla differenza dei materiali che esse trat-

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tano, e non – come fa Lessing nel Laocoonte – dai differenti mezzi di rappresentazione offerti loro. Perché, anche se lo stesso argomento (come la morte di Laocoonte e dei suoi figli) è sottoposto alla tratta-zione plastica e a quella poetica, tuttavia il lavoro dello scultore rap-presenta in questo avvenimento qualcosa di completamente diverso dalla descrizione del poeta.

Nel Laocoonte Lessing parte sempre dall’ipotesi che il pittore deb-ba rappresentare lo stesso argomento del poeta, ma che i mezzi della sua rappresentazione pongano limiti diversi rispetto a quelli che deve osservare il poeta. Il pittore non dovrebbe entrare in concorrenza con il poeta, altrimenti sarebbe sempre perdente. Da queste argomenta-zioni si riconosce la giusta avversione contro la maniera allegorizzante degli artisti di allora. Ma in questo modo non si riflette assolutamente sul vero compito della pittura, e le è sempre assegnato un piccolo dipartimento nell’ampio regno dell’arte poetica.

Gli sforzi per decifrare, mediante la descrizione, gli oggetti rappre-sentati in quadri non più dati (soprattutto antichi) possono essere un esercizio per l’osservazione acuta, e avere anche un vantaggio per la conoscenza della mitologia, della storia, della vita di allora; ma non ri-guardano assolutamente l’arte, perché l’oggetto di un quadro è una cosa assolutamente secondaria e la sua conoscenza più esatta non può offrirci alcun chiarimento circa ciò che l’artista abbia voluto rappresentarvi.

Il compito più alto dell’arte figurativa è elevare alla sfera della co-scienza, e mediante i propri mezzi di rappresentazione, determinati oggetti che non sono accessibili ad alcun altro mezzo di rappresenta-zione. La rappresentazione della bellezza è uno di questi compiti, non quello principale o addirittura unico.

Anche se lo scopo dell’arte figurativa è la verità, non per questo si apre la porta alla piatta imitazione. Ciò che ognuno vede non ha bisogno di alcuna interpretazione. In questo campo la conoscenza può essere incrementata anche solo da quanti vedono ciò che rimane nasco-sto agli altri. Si basa qui la differenza tra la semplice abilità del talento e la maggiore capacità del genio. Sulla strada battuta dall’arte, l’una si accontenta di fornire a una sensibilità poco profonda merci leggere per il piacere, l’altra, allo sguardo stupito dei pochi in grado di capire, spalanca i territori nuovi che ha audacemente scoperto.

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Immanuel Kant

Kant (Critica del giudizio § 1) dice che il giudizio di gusto (che serve a distinguere se qualcosa sia bello o no) non è assolutamente un giudizio di conoscenza, non è logico ma estetico; con esso infatti non si definisce qualcosa nell’oggetto della rappresentazione, ma piuttosto come il soggetto si senta colpito dalla rappresentazione. Il sentimen-to di piacere e dispiacere, quello che fonda una speciale capacità di distinzione e di giudizio, non favorisce affatto la conoscenza. Tutto questo è certamente giusto, ma l’esplorazione dell’intero territorio di questa sensazione di piacere e dispiacere tocca solo all’estetica. L’arte non ha nulla in comune con tale giudizio di gusto; perché il suo vero compito è la conoscenza delle cose, la designazione di ben precise parti nell’oggetto della rappresentazione, che non si lasciano designare da nessun altro mezzo.

Kant (1. c. § 3.) distingue tra sensazione come definizione del sen-timento di piacere o dispiacere, e sensazione come rappresentazione di una cosa; quella è la sensazione soggettiva (che egli chiama senti-mento), questa è invece la sensazione oggettiva. Dunque, il vero cam-po dell’arte dovrebbe essere la sensazione oggettiva in questo senso kantiano, mentre in genere le viene assegnato quello della sensazione soggettiva, con la quale essa in fondo non ha in comune nulla più di quanto ne abbia la natura stessa. D’altra parte la differenza tra natura ed arte poggia non sul territorio estetico, ma su quello logico.

È cosa ben diversa se si dice che esiste un giudizio estetico della natura e dell’arte, o se invece che il giudizio estetico della natura è compito dell’arte, o addirittura che l’arte abbia qualcosa in comune con la realizzazione dell’ideale estetico.

«Tutte le facoltà o capacità dell’anima possono essere ricondotte a queste tre, che non molto lontano possono lasciarsi derivare da una base comune: la forza di conoscenza, il sentimento di piacere e dispia-cere, la capacità di desiderio».

Ci si chiede, ora, a quale di queste facoltà l’arte debba la sua ori-gine. Si dovrebbe dimostrare che essa provenga dalla forza di cono-scenza, ma che come altri suoi prodotti diventi l’oggetto per il senti-mento di piacere e dispiacere. Occorrerebbe solo indagare se la forza di conoscenza, la comprensione, contenga in sé una legge che renda necessaria la messa in forma artistica della percezione dei sensi. Si può definire l’arte una conoscenza teoretica della natura?

«1: L’arte viene differenziata dalla natura, come il fare (facere) viene

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differenziato dall’operare e agire (agere) e il prodotto – o le conseguen-ze del primo – in quanto opera (opus) viene differenziato dall’ultimo come effetto (effectus). Di diritto bisognerebbe definire arte solo il produrre attraverso libertà, cioè attraverso un arbitrio che ponga la ragione alla base delle sue azioni (segue esempio delle api).

2. L’arte, come abilità dell’uomo, viene anche differenziata dalla scienza (potere da sapere) come capacità pratica rispetto a quella teo-retica, come tecnica dalla teoria etc.

3. L’arte si differenzia dal mestiere, la prima si chiama libera, l’altra può anche chiamarsi arte a pagamento» (§ 43).

Nell’arte, nel senso più alto, il potere non è altro che un sapere, naturalmente un sapere che non può dimostrare sé stesso se non at-traverso quel potere, che però è da questo tanto poco separato da meritare di chiamarsi non-sapere, lì dove non compare come potere. Ciò viene per lo più negato nel momento in cui molti credono che se pervenissero anche solo al sapere sarebbero artisti, e che mancherebbe loro solo l’abilità per potere. In senso proprio si può cominciare a parlare di arte solo lì dove nel potere non viene alla luce nient’altro che un sapere e dove il sapere non arriva più o meno ad espressione attraverso il potere, ma si è piuttosto elevato fino al livello del potere. Il potere nella vera arte non è nient’altro che un sapere nel campo della rappresentazione visiva, e allo stesso modo si potrebbe chiamare il sapere nella scienza un potere nel campo dei concetti.

Per quanto riguarda entrambi i paragrafi – 43 e 44 – occorre sot-tolineare che Kant isola l’arte in senso proprio come arte estetica dal territorio dell’arte in generale, secondo la definizione del paragrafo 43 e la divide in arte piacevole e arte bella. Dunque essa, in questo senso banale, ha ancora bisogno dell’intenzione di pervenire al sentimento di piacere per far nascere l’arte in senso proprio. Solo questo tocca all’artista: con un’intenzione razionale e grazie a un mestiere che gli è proprio produce qualcosa, il bello, (che nel puro giudizio e non nella percezione dei sensi invece piace attraverso il concetto) e che nella stessa natura è disponibile per tutti quelli che possiedono gusto. Così l’arte arricchisce il mondo nel momento in cui aumenta la riserva della natura in un settore preciso, ma non introduce qualcosa di totalmente nuovo, completamente diverso da ogni altra opera della natura e del-l’uomo. Non è chiaro come l’uomo possa giungere a voler produrre ciò che la natura già gli fornisce; anche se si definisce la bellezza tanto in alto, è, tuttavia, qualcosa che è già data in natura anche senza l’arte, e se la bellezza è sua intenzione e suo scopo, in tal caso essa derive-rebbe la sua esistenza solo dal desiderio infantile di voler fare quanto la natura ha già fatto prima di lei. Per liberare l’arte da questa critica si può accettare che la bellezza artistica sia qualcosa di diverso e in grado di superare la bellezza di natura, tanto che il mondo sarebbe più povero, se l’uomo non avesse ricevuto il talento artistico. Se si accetta

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con Kant che la peculiarità della bellezza sia il fatto di compiacersi nel puro giudizio, allora la natura è bella appena si compiace nel puro giudizio, e di più l’arte non può fare.

Critica del giudizio, § 35: «Il giudizio di gusto si differenzia da quello logico per il fatto che quello include una rappresentazione sotto il concetto di oggetto, mentre questo non include affatto sotto un con-cetto, perché altrimenti la necessaria approvazione generale dovrebbe essere ottenuta attraverso prove».

Se si vuole contestare al gusto il diritto di giudicare sull’opera d’ar-te, si deve stabilire un concetto dell’opera come dell’oggetto di giudi-zio, e produrre così la possibilità di un giudizio logico. Ma se, come tutte le altre cose, le opere d’arte sono sottomesse al giudizio di gusto, bisogna puntare sulla loro qualità estetica; si può, però, contestare che in questo modo si colga la loro vera essenza. Essa può essere anche bella ed elevata; ma in quanto opera le corrispondono determinate proprietà che le spettano solo in quanto tale e che costituiscono un concetto di opera d’arte nel quale il singolo prodotto può essere inclu-so soltanto attraverso un giudizio logico. Se si concorda sul concetto, si può ottenere anche il consenso attraverso prova, un consenso che naturalmente non si fonda sul fatto che l’opera in questione esista in quanto bella davanti al giudizio di gusto, quanto piuttosto che il giudizio riconosca in essa un’opera d’arte. Ma quanti non siano per-venuti a un giusto concetto di arte o semplicemente a uno qualsiasi, si contentano del giudizio di gusto. Quelli che, grazie al loro concetto di arte, giudicano in maniera logica sulle opere, si ingannano facilmente sul loro procedimento, per il fatto che accanto a quello logico esiste anche un giudizio di gusto, e perché la stessa conoscenza può provo-care una sensazione di piacere.

È chiaro che se (come fa Kant) si accetta la bellezza nel concetto di opera d’arte, in tanto è possibile un giudizio logico sulla singola opera d’arte in quanto si può dire che sia il concetto che l’oggetto siano un’opera d’arte perché mi appaiono belli; ma il giudizio attraverso il quale si dichiara bello l’oggetto in questione deve precedere e non è affatto un giudizio logico quanto piuttosto un giudizio di gusto e non consiste nell’inclusione dell’oggetto in un concetto. Se non si considera la bellezza un requisito dell’opera d’arte e se ne definisce piuttosto il concetto in altro modo, occorre chiedersi se le relative proprietà, la cui presenza in un oggetto devono renderlo opera d’arte, possano essere conosciute per mezzo della ragione, senza che solo per mezzo del gusto possa venir trovata la bellezza. Dunque, se riconosciamo l’essenza dell’opera d’arte semplicemente nella possibile sottomissio-ne della rappresentazione visiva sotto il dominio della ragione (senza passare in qualche modo nel territorio del concetto), allora è solo la ragione, nella misura in cui è capacità di rappresentazione visiva, a

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giudicare le qualità artistiche di un oggetto. Non è il gusto a scoprire, nelle rappresentazioni visive che si danno in un’opera d’arte, qualcosa che non è accessibile a nessun’altra capacità dell’anima, ma è piuttosto la ragione ad afferrare il mondo di rappresentazioni visive modellate nell’opera d’arte. Non è chiaro se in questo intervento della ragione si vogliano riconoscere giudizi logici, ma si tratta, in ogni caso, di giudizi della ragione e non del gusto. Nel caso in cui, in un giudizio logico, si voglia esprimere se un oggetto sia o non sia un’opera d’arte, se abbia un valore artistico più o meno alto, non si deve esaminare quale giu-dizio di gusto sull’opera sia piaciuto, ma piuttosto se ed in che grado la comprensione relativa all’essenza visiva del mondo sia stata chiarita attraverso l’opera d’arte.

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1 Croce e l’estetica, di R. Assunto, P. D’Angelo, V. Stella, M. Boncompagni, F. Fanizza 2 Conversazione con Rudolf Arnheim, di L. Pizzo Russo 3 In margine alla nascita dell’estetica di Freud, di L. Russo 4 Lo specchio dei sistemi: Batteux e Condillac, di Ivo Torrigiani 5 Orwel “1984”: il testo, di F. Marenco, R. Runcini, V. Fortunati, C. Pagetti, G. Sertoli 6 Walter Benjamin: Bibliografia critica generale (1913-1983), di M. Brodersen 7 Carl Gustav Jochmann: I regressi della poesia, di P. D’Angelo 8 La Luce nelle sue manifestazioni artistiche, di H. Sedlmayr 9 Anima e immagine: Sul “poetico” in Ludwig Klages, di G. Moretti10 La disarmonia prestabilita, di R. Bodei, V. Stella, G. Panella, S. Givone, R. Genovese, G. Almansi,

G. Dorfles.11 Interpretazione e valutazione in estetica, di Ch. L. Stevenson12 Memoria e oltraggio: Contributo all’estetica della transitività, di G. Lombardo13 Aesthetica bina: Baumgarten e Burke, di R. Assunto, F. Piselli, E. Migliorini, F. Fanizza, G. Sertoli,

V. Fortunati, R. Barilli.14 Nicolò Gallo: Un contributo siciliano all’estetica, di I. Filippi15 Il processo motorio in poesia, di J. Mukarovsky16 Il sistema delle arti: Batteux e Diderot, di M. Modica17 Friedrich Ast: Estetica ed ermeneutica, di M. Ravera, F. Vercellone, T. Griffero18 Baltasar Gracián: Dal Barocco al Postmoderno, di M. Batllori, E. Hidalgo Serna, A. Egido, M. Blanco,

B. Pelegrín, R. Bodei, R. Runcini, M. Perniola, G. Morpurgo-Tagliabue, F. Fanizza.19 Una Storia per l’Estetica, di L. Russo20 Saverio Bettinelli: Un contributo all’estetica dell’esperienza, di M. T. Marcialis21 Lo spettatore dilettante, di M. Geiger22 Sul concetto dell’Arte, di Fr. Schleiermacher23 Paul Valéry e l’estetica della poiesis, di A. Trione, M. T. Giaveri, G. Panella, G. Lombardo24 Paul Gauguin: Il Contemporaneo ed il Primitivo, di R. Dottori25 Antico e Moderno: L’Estetica e la sua Storia, di F. Fanizza, S. Givone, E. Mattioli, E. Garroni, J.

Koller26 I principî fondamentali delle Belle Arti, di M. Mendelsshon27 Valori e conoscenza in Francis Hutcheson, di V. Bucelli28 L’uomo estetico, di E. Spranger29 Il Tragico: Materiali per una bibliografia, di M. Cometa30 Pensare l’Arte, di E. Garroni, E. Grassi, A. Trione, R. Barilli, G. Dorfles, G. Fr. Meier31 L’ordine dell’Architettura, di C. Perrault32 Che cos’è la psicologia dell’arte, di L. Pizzo Russo33 Ricercari Nowau. Una forma di oralità poetica in Melanesia, di G. M. G. Scoditti34 Pensieri sparsi sulla pittura, la scultura e la poesia, di D. Diderot, 35 Laocoonte 2000, di L. Russo, B. Andreae, G. S. Santangelo, M. Cometa, V. Fagone, G. Marrone,

P. D’Angelo, J. W. Goethe36 La decostruzione e Derrida, di A. Van Sevenant37 Contributi alla teoria della traduzione letteraria, di E. Mattioli38 Sublime antico e moderno. Una bibliografia, di G. Lombardo e F. Finocchiaro39 Klossowski e la comunicazione artistica, di A. Marroni 40 Paul Cézanne: L’opera d’arte come assoluto, di R. Dottori41 Strategie macro-retoriche: la “formattazione” dell’evento comunicazionale, di L. Rossetti 42 Il manoscritto sulle proporzioni di François Bernin de Saint-Hilarion, di M. L. Scalvini e S. Villari 43 Lettura del “Flauto Magico”, di S. Lo Bue44 A Rosario Assunto: in memoriam, di L. Russo, F. Fanizza, M. Bettetini, M. Cometa, M. Ferrante,

P. D’Angelo45 Paleoestetica della ricezione. Saggio sulla poesia aedica, di G. Lombardo

Aesthetica Preprint

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46 Alla vigilia dell’Æsthetica. Ingegno e immaginazione nella poetica critica dell’Illuminismo tedesco, di S. Tedesco

47 Estetica dell’Ornamento, di M. Carboni48 Un filosofo europeo: Ernesto Grassi, di L. Russo, M. Marassi, D. Di Cesare, C. Gentili, L. Amoroso,

G. Modica, E. Mattioli49 Scritti di estetica, di L. Popper50 La Distanza Psichica come fattore artistico e principio estetico, di E. Bullough51 I Dialoghi sulle Arti di Cesare Brandi, di L. Russo, P. D’Angelo, E. Garroni52 Nicea e la civiltà dell’immagine, di L. Russo, G. Carchia, D. Di Cesare, G. Pucci, M. Andaloro, L.

Pizzo Russo, G. Di Giacomo, R. Salizzoni, M. G. Messina, J. M. Mondzain53 Due saggi di estetica, di V. Basch54 Baumgarten e gli orizzonti dell’estetica, di L. Russo, L. Amoroso, P. Pimpinella, M. Ferraris, E.

Franzini, E. Garroni, S. Tedesco, A. G. Baumgarten55 Icona e arte astratta, di G. Di Giacomo56 Il visibile e l’irreale. L’oggetto estetico nel pensiero di Nicolai Hartmann, di D. Angelucci57 Pensieri sul sentire e sul conoscere, di Fr. Ch. Oetinger58 Ripensare l’Estetica: Un progetto nazionale di ricerca, di L. Russo, R. Salizzoni, M. Ferraris, M.

Carbone, E. Mattioli, L. Amoroso, P. Bagni, G. Carchia, P. Montani, M. B. Ponti, P. D’Angelo, L. Pizzo Russo

59 Ermanno Migliorini e la rosa di Kant, di L. Russo, G. Sertoli, F. Bollino, P. Montani, E. Franzini, E. Crispolti, G. Di Liberti, E. Migliorini

60 L’estetica musicale dell’Illuminismo tedesco, di L. Lattanzi61 Il sensibile e il razionale. Schiller e la mediazione estetica, di A. Ardovino62 Dilthey e l’esperienza della poesia, di F. Bianco, G. Matteucci, E. Matassi63 Poetica Mundi. Estetica ed ontologia delle forme in Paul Claudel, di F. Fimiani64 Orfeo Boselli e la “nobiltà” della scultura, di E. Di Stefano65 Il teatro, la festa e la rivoluzione. Su Rousseau e gli enciclopedisti, di E. Franzini66 Cinque lezioni. Da linguaggio all’immagine, di P. Ricoeur67 Guido Morpurgo-Tagliabue e l’estetica del Settecento, a cura di L. Russo68 Le sirene del Barocco, di S. Tedesco69 Arte e critica nell’estetica di Kierkegaard, di S. Davini70 L’estetica simbolica di Susanne Katherina Langer, di L. Demartis71 La percezione della forma. Trascendenza e finitezza in Hans Urs von Balthasar, di B. Antomarini72 Dell’origine dell’opera d’arte e altri scritti, di M. Heidegger73 Percezione e rappresentazione. Alcune ipotesi fra Gombrich e Arnheim, di T. Andina74 Ingannare la morte. Anne-Louis Girodet e l’illusione dell’arte, di C. Savettieri75 La zona del sacro. L’estetica cinematografica di Andrej Tarkovskij, di A. Scarlato76 La nascita dell’estetica in Sicilia, di F. P. Campione77 Estetica e critica d’arte in Konrad Fiedler, di M. R. De Rosa

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Periodico quadrimestrale del Centro Internazionale Studi di EsteticaPresso il Dipartimento FIERI dell’Università degli Studi di PalermoViale delle Scienze, Edificio 12, I-90128 PalermoPhono +39 91 6560274 – Fax +39 91 6560287E-Mail <[email protected]> – Web Address <http://unipa.it/~estetica>Progetto Grafico di Ino Chisesi & Associati, MilanoStampato in Palermo dalla Publisicula s.r.l.Registrato presso il Tribunale di Palermo il 27 gennaio 1984, n. 3Iscritto al Registro degli Operatori di Comunicazione il 29 agosto 2001, n. 6868Associato all’Unione Stampa Periodica ItalianaISSN 0393-8522Direttore responsabile Luigi Russo

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Aesthetics and Art Criticism in Konrad Fiedler

The present volume by Maria Rosaria De Rosa ([email protected]) participates in the recent scholarly trend that, from a variety of theoretical and critical standopoints, has rediscovered Konrad Fiedler’s legacy and has discussed his work within the broader and complex context of a reflection on form. More specifically, this study analyzes the historical conditions in which Fiedler, at the end of the nineteenth century, tested the idea of art theory and criticism as fields radically distinct and different from aesthetics. In the twentieth century, this idea has intersected, through a complex intertexual network of crossreferences, with some of the most significant approaches of the historical avant-guarde and the modern architecture movement.The study examines the relationship between aesthetics and art history, starting from Fiedler’s analyses of Kantian philosophy (especially the Critique of Judgement), Winckelmann’s thought, and Lessing’s work, in a dialogue that is never univocal or obvious, but rather productive and complex.The appendix features the Italian translation of the section of Fiedler’s Schriften that, under the title Zur neueren Kunsttheorie, collects his reflections, reviews, annotations, and notes on 18th-century art theories.