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Cosa può dire la teoria peirciana del segno alla storia dell’arte? 1 James Elkins Abstract. A partire dagli anni 50 del secolo scorso, la storia dell’arte ha perso e riscoperto più volte la semiotica e attualmente gli studiosi usano una mescolanza eclettica di teorie derivate principalmente da Ferdinand de Saussure e da Charles Sanders Peirce. Dei due, Peirce costituisce forse il modello più influente, soprattutto per quanto riguarda la sua tripartizione del segno in icona, indice e simbolo. (Il modello saussuriano confluisce più fortemente nel momento poststrutturalista della storia dell’arte, risalente agli anni 70). L’interesse per le questioni semiotiche è tornato centrale, oggigiorno, con l’affermarsi della cultura visuale a disciplina: per definire il nuovo campo d’indagine, quest’ultima può scegliere tra un’ampia gamma di pratiche semiotiche – ma può anche decidere di bypassare la semiotica integralmente. Questo saggio apporta il proprio contributo alle discussioni attuali. Il fulcro della mia argomentazione è che Peirce è molto più stravagante di quanto si pensi: è idiosincratico e difficile, e a volte di un ermetismo bizzarro. Per le principali finalità della storia dell’arte e degli studi visuali, Peirce risulta semplicemente non necessario; e quand’anche risulti pertinente, non potrebbe esserlo che in qualità di modello esemplare di un ragionamento logico serrato, raro a trovarsi negli studi visuali o nella storia dell’arte. 1 2003, Culture, Theory and Critique, 44:1, pp. 5-22; titolo originale “What does Peirce’s sign theory have to say to art history?”, traduzione di Cristina Girardi.

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Cosa può dire la teoria peirciana del segno alla storia dell’arte?1 James Elkins Abstract. A partire dagli anni 50 del secolo scorso, la storia dell’arte ha perso e riscoperto più volte la semiotica e attualmente gli studiosi usano una mescolanza eclettica di teorie derivate principalmente da Ferdinand de Saussure e da Charles Sanders Peirce. Dei due, Peirce costituisce forse il modello più influente, soprattutto per quanto riguarda la sua tripartizione del segno in icona, indice e simbolo. (Il modello saussuriano confluisce più fortemente nel momento poststrutturalista della storia dell’arte, risalente agli anni 70). L’interesse per le questioni semiotiche è tornato centrale, oggigiorno, con l’affermarsi della cultura visuale a disciplina: per definire il nuovo campo d’indagine, quest’ultima può scegliere tra un’ampia gamma di pratiche semiotiche – ma può anche decidere di bypassare la semiotica integralmente. Questo saggio apporta il proprio contributo alle discussioni attuali. Il fulcro della mia argomentazione è che Peirce è molto più stravagante di quanto si pensi: è idiosincratico e difficile, e a volte di un ermetismo bizzarro. Per le principali finalità della storia dell’arte e degli studi visuali, Peirce risulta semplicemente non necessario; e quand’anche risulti pertinente, non potrebbe esserlo che in qualità di modello esemplare di un ragionamento logico serrato, raro a trovarsi negli studi visuali o nella storia dell’arte.

1 2003, Culture, Theory and Critique, 44:1, pp. 5-22; titolo originale “What does Peirce’s sign theory have to say to art history?”, traduzione di Cristina Girardi.

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La teoria del segno di Peirce si trova in una strana condizione: è molto discussa tra gli specialisti, ampiamente influente nei cultural studies e in antropologia e ampiamente citata nella storia dell’arte e nella critica d’arte (Baldwin 1981; Iverson 1988). Tuttavia, c’è un’enorme disparità tra le brevi e schematiche allusioni a Peirce diffuse nella storia dell’arte e la complessità stravagante insita nelle dottrine e nella loro elaborazione nel pensiero peirciano. Considerata la rilevanza della produzione storico-artistica che si riconosce almeno in parte come semiotica e la frequenza con cui tale produzione invoca il nome di Peirce, questa differenza risulta tanto più significativa. Sebbene Peirce sia, secondo una diffusa lettura genealogica, il “padre” della semiotica, solo di recente le sue teorie sono state riconosciute fondamentali come quelle di Saussure. In questa sede non voglio discutere di tale situazione; nel corso della ricezione storica delle teorie semiotiche si registrano altre omissioni ugualmente interessanti, incluso il lavoro di Karl Bühler, Thure von Uexküll e R. G. Collingwood (Deely et al. 1986, p. xii). Tutti i casi di dimenticanza parziale meriterebbero un’indagine storica, dal momento che avrebbero molto da dirci su come vogliamo che sia la nostra semiotica. Ma in questa sede non affronterò tale argomento. Piuttosto, dedico questo saggio al problema delle difficoltà applicative della dottrina di Peirce: mostrerò come nella storia e nella critica d’arte attuali le sue idee siano utilizzate in modo così semplicistico, e così lontano dai testi originali, che in molti casi gli storici dell’arte potrebbero fare decisamente a meno di invocare il suo nome. Parallelamente, mi soffermerò ad ammirare l’intera estensione delle elucubrazioni peirciane, per proporre, alla fine, un confronto tra le ossessioni di Peirce e una letteratura storico-artistica interessante. I La storia dell’arte che fa riferimento a Peirce ignora o svilisce il suo progetto incompiuto per una semiotica più comprensiva, riducendolo alla triade icona-indice-simbolo. Spesso, e persino in ambito filosofico (Deleuze e Guattari 1980, p. 142)2, si ritiene che la citazione della mera tricotomia rappresenti adeguatamente le sue teorie, per certi versi perché questa (in netta antitesi con la teoria successiva, che lascia più disorientati) può essere definita facilmente e autonomamente: tutti i segni, dice Peirce, sono in parte iconici (denotano nella misura in cui sono simili ai loro oggetti), in parte indicali (sono “realmente determinati” dai loro oggetti), e in parte simbolici (denotano “in virtù di una legge”) (Peirce 1965, pp. 2.247-49)3. La ricerca di esempi adeguati fa emergere immediatamente un problema, che credo sia alla base delle difficili relazioni tra la tricotomia peirciana e l’uso che la semiotica storico-artistica fa di essa. Nella terminologia storico-artistica, un esempio ragionevole dei tre modi in cui i segni funzionano sarebbe costituito dalle forme in un quadro naturalistico (denotano nella misura in cui sono simili ai loro oggetti), dalla traccia di una pennellata sul quadro (è “realmente determinata” dal rapido movimento della mano dell’artista), e dal soggetto del quadro, per esempio una Crocifissione (denota sulla base di una “legge”, in

2 Gli autori (p. 206) affermano che “i diagrammi devono essere distinti dagli indici, che sono segni territoriali, ma anche dalle icone, che sono segni di deterritorializzazione…”. E in nota (p. 764, n. 38) spiegano: “Peirce è veramente l’inventore della semiotica. Per questo possiamo servirci di alcuni suoi termini, sia pure in un’altra accezione”. 3 Solitamente i passi dei Collected Papers vengono citati senza i titoli dei singoli manoscritti perché provengono dalle fonti più disparate. In alcuni casi, gli studiosi di Peirce riportano date di composizione approssimative.

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tal caso, di “un’associazione di idee generali”). Ma si prenda in considerazione l’esempio riportato da Peirce a proposito di questa stessa tricotomia:

Si consideri, per esempio, l’enunciato “piove”. In questo caso l’icona è la fotografia mentale composta di tutti i giorni piovosi di cui chi pensa ha fatto esperienza. L’indice è tutto ciò per mezzo del quale egli distingue quel giorno, così come si colloca nella sua esperienza. Il simbolo è l’atto mentale per mezzo del quale egli contrassegna quel giorno come piovoso (Peirce 1965, p. 2.438; Feibleman 1969, p. 92).

Si pone a questo punto una questione vaga ma pressante, poiché sembrerebbe che Peirce stia ragionando in modo molto più generale e astratto di quanto potrebbe fare un teorico del visivo. Se un segno iconico ha solo bisogno di essere “come” o di “assomigliare” al suo oggetto, ciò significa che non deve necessariamente essere visivo, e in particolare che non deve necessariamente essere naturalistico. Questa disgiunzione tra il concetto peirciano di “iconicità” e il dominio del visivo è stata utilizzata, al contempo, sia per criticare gli usi inappropriati della teoria peirciana nelle arti visive (che a volte tendono a ridurre l’iconico al naturalistico), sia per giustificare la posizione marginale assegnata a Peirce (Bal 1991, pp. 31-32). Do a questa il nome di “questione del vago” perché non c’è un motivo a priori per cui una teoria non dovrebbe venire ben illustrata da esempi precisi, e per cui, nonostante alcuni aspetti problematici del concetto di “rappresentazione” in Peirce (Kalaga 1986, pp. 43-60; Martin 1969, pp. 144-57), il concetto peirciano di “iconico” dovrebbe risultare anche del tutto appropriato per codificare i quadri naturalistici. Peirce dà prova di riflettere in modi inattesi anche nei casi in cui fornisce illustrazioni “empiriche”. Di qui sono indotto a sospettare che persino sui fondamentali egli possa pensarla in modo diverso da come si aspetterebbe la teoria del visivo.4 Il punto centrale delle mie riflessioni sulla questione del “vago” è che se cerchiamo di delimitare la portata concettuale o pragmatica della tricotomia peirciana, rischiamo di compromettere la coerenza della teoria, perché non abbiamo le idee chiare su come questa si accordi con i suoi esempi. Con l’intento di proporre un programma di ricerca per la storia dell’arte semiotica, Mieke Bal e Norman Bryson ammettono che la semiotica di Peirce fa parte di un “complesso sistema logico, che interessa per buona parte solo gli specialisti”, e riconoscono che “qualsiasi identificazione dell’icona con l’intero dominio del visivo è errata” (Bal e Bryson 1991, pp. 188-89; Bal e Bryson 1992). Ma allora anche la relazione di somiglianza che loro usano per definire l’icona è errata, per il fatto stesso che è limitata: perché mai addurre un concetto se il suo significato deve poi venir a tal punto virgolettato da fargli perdere molto del suo potere sintattico e semantico? I segni iconici interessarono Peirce principalmente per la loro qualità di denotare semplicemente in virtù dei caratteri loro propri, e anche se Bal e Bryson citano uno dei testi che dà questa definizione, continuano poi a usare il concetto di iconicità come se fosse basato sulla somiglianza o – anche se meno erroneamente – su un “modo di leggere”. Come giustificare un tal genere di semplificazione 4 Allo stesso tempo, dal passo sopra riportato emergere un problema più preciso, riguardante gli usi, a volte stranamente forzati, di concetti quali “rappresenta” e “fotografa” in Peirce. L’ampio grado di genericità che egli assegna a espressioni come “fotografia composita” rende il passo problematico per gli studi del visivo, che con il termine fotografie (e con i tropi delle fotografie) si riferiscono a oggetti più specifici; la stessa genericità che egli ha bisogno di attribuire a verbi come “contrassegnare” e “collocarsi” (unendo impropriamente, a quanto pare, la funzione indicale con una descrizione del simbolico) fa sì che anche questi ultimi, analogamente, risultino inappropriati per un discorso analitico.

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e di decurtazione? Se la semiotica di Peirce, come dicono Bal e Bryson, è un “complesso sistema logico”, allora non si può pensare di modificare le definizioni di termini fondamentali senza intaccare, con ciò, l’intero sistema. In base a quale metalogica Bal e Bryson possono tirar via ciò che più loro aggrada dalla “minuziosità esasperante” dell’intera teoria, senza avvertire minimamente la necessità di preoccuparsi delle conseguenze? (Bal, Bryson 1991, pp. 189-90). Una conseguenza del loro modo di operare è che la “teoria semiotica di Peirce” finisce per comunicare qualcosa che “aiuta a riflettere sugli aspetti del processo artistico nella società”: in altri termini, essa non diventa né una “filosofia” né una “teoria”, ma un piccolo accorpamento di nozioni informali riguardanti i modi in cui i segni funzionano (Bal, Bryson 1991, p. 191). Si tratta di questioni interessanti, ma esse riguardano molto più il problema della trasformazione inesorabile delle teorie che quello della natura della teoria peirciana e perciò, in tal sede, preferisco lasciarle da parte. Alla fine, insomma, l’icona diviene il quadro naturalistico, e l’indice diviene il token, la copia, o la riproduzione meccanica, secondo l’accezione in cui ormai li troviamo nella critica d’arte contemporanea. Considerata la continua rifrazione delle idee di Peirce, sarebbe utile chiedersi anche se le versioni tronche della sua teoria che predominano nella storia dell’arte siano realmente in grado di svolgere il compito che gli viene attribuito. Nel caso di Bal e Bryson, si potrebbe affermare – e credo che questo renda fede alle loro intenzioni – che Peirce può servire alla semiotica storico-artistica per lo più come una specie di promemoria, o di indicatore euristico delle proprietà dei segni, come del loro dinamismo, spesso trascurati negli studi di stampo maggiormente saussuriano. In tal caso, una sistematizzazione della cogenza del loro ruolo si allontanerebbe dalle dottrine di Peirce per propendere verso l’uso cui si riferiscono le formule di Bal e Bryson – e a questo punto direi che, ai loro fini, Peirce stesso diventa sempre più irrilevante. In genere, oltre all’idea che il segno iconico coincida con la somiglianza o il naturalismo, altri due meriti si riconoscono alla tricotomia peirciana, in sua difesa: di aver superato la dicotomia “parola-immagine” e di aver introdotto il concetto di indice. Per entrambi valgono le medesime obiezioni fatte in merito alle applicazioni distorte. Si è detto che la tricotomia peirciana consente alla storia dell’arte di andare “oltre” la netta opposizione tra “parola” e “immagine”, che ancora costituisce il principale oggetto di discussione sulla relazione tra il linguaggio e i quadri (Bryson 1981). Non importa come venga denominato – sia esso “verbale” e “visivo”, “discorso” e “figura”, o perfino “Divenire” ed “Essere” –, il problema del linguaggio e dei quadri sembrerebbe risolversi sostanzialmente in una coppia di modi complementari e pare che la tricotomia di Peirce mostri una via d’uscita da questo impasse critico. Bisogna ammettere, tuttavia, che se ciò fosse vero, la tricotomia peirciana avrebbe dovuto affrontare adeguatamente le specifiche questioni sorte negli ultimi decenni intorno al concetto di “parola-immagine” – culminate nella Conferenza Internazionale su Parola e Immagine, in riviste come Word & Image, Visibile Language, e Image and Text, e in molteplici monografie dedicate all’argomento – e non avrebbe dovuto toccarle solamente di sfuggita. Un ostacolo insormontabile, in tal caso, è costituito dal fatto che il dibattito su parola e immagine chiama in causa problemi molto diversi da quelli peirciani del simbolico e dell’iconico, cosicché la polarità non viene accresciuta ma viene semplicemente rimpiazzata. Il termine “parola”, ad esempio, rinvia normalmente all’idea di “narratività” e di “contenuto simbolico”, mentre il concetto di simbolo in Peirce si riferisce anche a tutto ciò che non significa “per essere realmente interessato” o “per somiglianza”. Ma pur volendo tralasciare queste questioni, resta il problema di individuare un esempio convincente che dimostri la presenza di tutti e tre i segni in una singola opera. Se dico a

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qualcuno bisbigliando “Per favore, fai silenzio”, il tono della mia voce ha le qualità che voglio fare assumere alla voce di quella persona, e così è iconica – ma questo è un uso occasionale e marginale dell’iconico. Allo stesso modo, una fotografia avrà alcune componenti simboliche, ma può risultare difficile trovare un esempio valido ad attestare la loro importanza:

Una fotografia significa almeno in parte in modo iconico riproducendo, per esempio, le relazioni scalari, i contorni e le modulazioni tonali dei suoi oggetti. Ma queste non sono che alcune delle caratteristiche possedute dalla fotografia. Altre proprietà come il suo peso, il gusto, l’odore, le dimensioni e l’estensione spaziale non sono incaricate, generalmente, di veicolare significazione. … I parametri dell’iconicità, della selezione delle proprietà destinate a fungere da canali di referenza, sono contrattuali. … Isole di iconicità galleggiano nei mari della convenzione. (McNeil 1985, p. 13)

Così come è formulato, un ragionamento di questo tipo è impeccabile, ed è giusto ricordare che in ogni opera è presente una significazione “contrattuale, mimetica e continua”. Senza dubbio la fotografia ha delle componenti simboliche; alcune sono state esplorate da studiosi che si sono focalizzati sulle condizioni della loro evoluzione storica, mentre altre riguardano l’inquadratura, la manipolazione dell’immagine, e altre soluzioni del genere (Galassi 1981). Quando si presenta la necessità di dover parlare di tutti e tre i tipi di segni come elementi che in potenza, in teoria o “in origine” sono ugualmente determinanti per la significazione, il discorso comincia a sembrare un poco forzato, simile un po’ a un letto di Procuste. Per quanto riguarda il concetto di indicalità, esso è stato proposto per caratterizzare una relazione tra l’opera d’arte e il mondo tipica di diverse opere moderne e postmoderne, dall’espressionismo astratto fino alla pittura minimalista degli anni Settanta (Krauss 1985, p. 328, n. 2). Secondo Rosalind Krauss la relazione indicale di Peirce è appropriata a descrivere il modo in cui alcune opere minimaliste (per esempio, dipinti che mimano il colore del muro su cui sono appesi) riducono la tradizionale relazione figurativa della pittura col mondo allo “statuto di calco, di impronta, di traccia”. Il disegno, per esempio, non ha più la natura di strategia formale, di “codice della realtà” o di organizzazione interna, ma diviene “impronta”, “evidenza”, della realtà (Krauss 1985, p. 230; Peirce 1955, p. 106). Dacché secondo Peirce le fotografie sono “fisicamente costrette a corrispondere punto per punto all’oggetto in natura”, in questi particolari approcci dell’arte moderna si manifesterebbe la stessa relazione indicale che si ha in fotografia, ed entrambe testimonierebbero di una rivincita consapevole o inconsapevole dell’indicale sull’ottico o iconico. Su questo versante si presentano due difficoltà interdipendenti. La prima difficoltà riguarda il problema di caratterizzare accuratamente la nozione peirciana di indicalità, e ciò rimanda di nuovo alla difficoltà dell’esemplificazione. Quando la si spiega come una connessione causale diretta, l’indicalità è certamente interpretata male (Burks 1948-49, p. 679; Greenlee 1973, p. 85; McNeill 1985, p. 13, n. 12). Del resto, neppure il fatto che Peirce concepì la causalità come uno dei modi dell’indicalità è di grande aiuto, perché in questo modo il promemoria del campo indicale rimane mal definito (Goudge 1965, p. 53). Diversamente da altri storici dell’arte che evocano il concetto di indicalità, Krauss non lo riduce a una fattispecie di causalità; ma poiché non lo fa, esso ha un’efficacia limitata nel suo discorso.5 La

5 Questo non mette in dubbio la precisione del suo uso di Peirce, che diviene un po’ problematico solo quando Krauss distingue due dipinti apparentemente simili, riferendo implicitamente uno al dominio dell’iconico e identificando esplicitamente l’altro con il regime dell’indicale. Credo che Peirce sarebbe

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studiosa riprende da Peirce solamente l’idea della “connessione fisica” e della “corrispondenza punto per punto”, ma la sua analisi delle opere d’arte va ben oltre. Esplora e prende in considerazione la produzione di tracce, impronte, calchi, corrispondenze fisiche, registrazioni, e copie, ognuna diversa dai concetti di Peirce. In generale, la storia dell’arte ha sviluppato un lessico estensivo dei segni indicali in pittura: oltre ai termini presenti nel lavoro di Krauss, ci sono figure repoussouir, figure nel quadro che “additano” all’azione, “spettatori” interni ai dipinti, “pittori-osservatori” in quadri che simulano alcune funzioni dell’osservatore esterno, specchi e suoi sostituti, e strumenti della reciprocità dello sguardo (Alberti 1436, Alpers 1983, Fried 1990; Olin 1992). In mezzo a tanta varietà, non è facile capire come l’esistenza della categoria generale di Peirce possa essere d’aiuto. Se proprio dovesse esserlo, comunque, lo sarebbe in virtù delle particolari connessioni che essa propone tra l’indicale, l’iconico e il simbolico. La teoria potrebbe cioè indicare alcune relazioni non evidenti tra questi tre tipi. Ma lo fa? L’unica relazione che Peirce specifica è la relazione che chiama Primità, Secondità e Terzità; per dirla in modo semplice, questa vuole che ogni segno simbolico includa un segno indicale e uno iconico, e che ogni segno indicale ne includa uno iconico. Una pennellata in un dipinto assomiglierà pertanto anche a un oggetto o a una figura – o, per dirla in termini generali, denoterà il figurativo. Sebbene ciò abbia causato alcune incomprensioni tra gli storici che considerano la somiglianza iconica non pertinente al concetto di indicalità (McNeill 1985, p. 12)6, il vero problema è che la teoria non presenta un grado di specificità sufficiente a garantirle una risonanza effettiva nei concetti storico-artistici – e questo vale in modo particolare per quelle analisi che, con una libertà un po’ eccessiva per essere semplici applicazioni della teoria, collegano l’indicale alle condizioni economiche e sociali (Fig. 1). Anche se è insufficiente – e, in fin dei conti, irrilevante – parlare di una fotografia quale quella di Stieglitz come un effetto causale della tecnologia e dei raggi luminosi, è comunque poco chiaro – o peggio privo di senso – suggerire che la sua indicalità implica la Primità dell’icona. Qualsiasi cosa sia, la fotografia non si riduce di certo a una mera relazione di dipendenza tra queste due funzioni. Uno dei contributi più ragionevoli sull’equazione tra indice e fotografia è costituito dal saggio di Richard Shiff “Fototropism (Figuring the Proper)”, dove si sostiene che la pittura e la fotografia “ricostituiscono” le funzioni che in passato si trovavano mescolate nella pittura classica, “la quale era ‘ideale’ e ‘reale’ allo stesso tempo” (Shiff 1989, p. 171). Nel contesto di questo saggio, è particolarmente significativo notare che la tesi di Shiff funziona per la pittura e la fotografia proprio perchè non si rifà, e anzi diviene contrario, a Peirce. Qualcosa di simile può dirsi per il meditato lavoro di Fred Orton Figuring Jasper Johns, che riconosce nei dipinti e nelle stampe di Johns “simultaneamente un contenuto indicale o descrittivo e una superficie decorativa” (Orton 1994, p. 9). Nel corso di una lunga analisi, Orton mette insieme spiegazioni “indicali” (come il racconto di Johns che vide i suoi schemi a tratteggio su una macchina in corsa) con una “catena causale o metonimica” di significati, comprese le opinioni di Johns su Picasso e Pollock (Orton 1994, p. 82). Nella misura in cui mescolano quelli che Nelson Goodman chiama itinerari di riferimento, il libro di Orton e il saggio di

stato contrario a un tal tipo di distinzione in quanto non sufficientemente completa, dal momento che non contempla l’implicazione necessaria dell’iconico nell’indicale come sua “forma degenerata”, e neppure la natura “vivente” dei segni; ma ciò non costituisce un fraintendimento di Peirce. 6 McNeil critica l’esempio dell’ “orma impressa sulla sabbia che significa la presenza passata di un orso” in quanto, essendo “contemporaneamente anche un segno iconico della zampa del orso”, “non esemplifica adeguatamente la categoria” dell’indicale. Probabilmente Peirce direbbe che è invece un esempio più completo perchè include anche il Primo oltre al Secondo.

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Shiff sono in linea con Peirce: ma i loro miscugli, come sanno entrambi, sono molto lontani dal pensiero peirciano vero e proprio. Nella storia dell’arte la Primità fu menzionata per la prima volta nel 1969, nel lavoro di Annette Michelson su “Robert Morris: An Aesthetic of Transgression” (Michelson 1969, p. 19). Michelson usò solamente la Primità, e non la Secondità o la Terzità, facendo parallelismi tra la Primità e altri stati “non cognitivi” della mente nel pensiero religioso. I parallelismi erano suggestivi ma, come accadde per molti scritti seguenti, la filosofia tricotomica di Peirce non era necessaria per sviluppare l’argomento. La tricotomia “fondamentale” di Peirce è un modo per ricordare che i regimi di rappresentazione seguono una “regressione e simbiosi triadica”, ma nell’arte visiva non si ha bisogno, spesso, di pensare alle opere come a “una commistione triadica di elementi contrattuali, contigui e verosimili” (McNeil 1985, p. 14). In quest’ottica, la teoria della significazione tricotomica cade vittima di un triplice arretramento: riducendo la sua gamma di esempi senza aver ben capito quanto tale riduzione intacchi la sua coerenza, essa viene applicata solo all’arte visiva; è necessario applicarla senza porsi il problema della sua relazione con la più ampia teoria peirciana; e sembra funzionare principalmente come un dispositivo mnemonico o euristico, privo del potere di suscitare discussioni più specifiche sulle opere d’arte. II È a causa di queste difficoltà, forse, che nei recenti scritti storico-artistici si è iniziato a citare il progetto incompiuto per le 66 classi di segni. Si è detto che questa teoria più tarda (rinvio per ora la questione del se mai Peirce abbia realmente avuto questo tipo di teoria) abbia il vantaggio di riuscire a distinguere differenze “determinabili” tra quadri, “diagrammi, schemi, grafi, parole, e spartiti”, poiché ognuno avrebbe “dosi” diverse di iconicità, indicalità e simbolicità (Davis 1992, p. 247)7. Se ciò fosse vero, sarebbe di grande interesse per la teoria dell’arte e per la semiotica in generale; tra le altre peculiarità, infatti, questa teoria si presterebbe a un confronto con quelle di Nelson Goodman su tali tipi di “notazioni” (Goodman 1968). Per questo motivo vale la pena ripercorrere brevemente la prova delle 66 classi di segni. La questione offre di nuovo l’opportunità di affrontare il problema degli esempi. A tal riguardo, mi sono limitato a due tropi strutturali, nessuno dei quali compare in Peirce: il primo, un comune diagramma di prospettiva basilare, il secondo, una metafora arborea per le genealogie delle ramificazioni peirciane. Ritornerò in seguito un’ultima volta sulla questione per suggerire che, come tropi generativi, queste due illustrazioni non sono di grande aiuto euristico. Uno dei motivi per cui questo materiale non è conosciuto fuori dagli studi peirciani è il modo in cui è scritto, condensato, freddo, tipico di un esperto di logica e matematica. È bene imitare almeno un aspetto di questa scrittura, procedendo con l’usare paragrafi numerati. 1. Per cominciare, nella teoria di carattere più generale tutti i fenomeni sono classificati secondo tre categorie: un Primo è qualcosa in se stesso, un Secondo esiste in relazione diadica con un’altra cosa, e un Terzo è una mediazione, che non può venire separato da una legge o ragione (Peirce 1965, pp. 1.295-99, pp. 1.418-21; Sanders 1970; Weiss e Burks 1945). Questa classificazione ha origine dalla sua teoria fenomenologica di base, secondo la quale alla percezione immediata del presente assoluto segue la consapevolezza, che si costituisce successivamente, dei modi in cui le rappresentazioni si danno alla coscienza.

7 Riguardo all’attuale letteratura andrebbe inoltre sottolineato che “ipoicona”, a volte reso erroneamente in forma di aggettivo, è il sostantivo di “iconico”; nel vocabolario di Peirce, quindi, non esiste il termine “ipoiconico”.

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2. Un segno è per sua natura triadico, dal momento che Peirce lo definisce come “qualcosa che sta a qualcuno per qualcosa sotto qualche rispetto o capacità” (Peirce 1965, p. 2.228). Ogni segno quindi è diviso in tre parti: “il segno in se stesso, il segno considerato in relazione con il suo oggetto, e il segno considerato in rapporto con l’interpretante”. Mi si permetta di rendere questa tripartizione nei termini del diagramma rudimentale della prospettiva composto di soggetto osservatore, oggetto della visione, e quadro. In questo caso la prima suddivisione, il “segno in se stesso”, è l’elemento di mezzo del diagramma, la seconda, “il segno considerato in relazione al suo oggetto”, diviene la combinazione dell’elemento di mezzo e di quello a destra del diagramma, e la terza, “il segno considerato in rapporto con l’interpretante”, corrisponde all’intero diagramma.

Segno in se stesso Segno in relazione al suo oggetto

Segno in rapporto con l’interpretante

Fig. 2 – Segni, oggetti e interpretanti 3. Ogni parte della suddivisione – di cui tratto al mio secondo paragrafo – è presente in tutte e tre le categorie – descritte nel mio primo paragrafo – e comporta la sistemazione riportata nella Tabella 1. Risulta subito evidente quanto sia limitata l’enfasi storico-artistica su icona, indice e simbolo. Paul Weiss e Arthur Burks propongono il seguente esempio astratto: “il segno considerato in relazione con il suo oggetto (la seconda delle tre suddivisioni) può avere questa relazione con l’oggetto per somiglianza, per connessione esistenziale, o per il tramite di una legge” (Weiss e Burks 1945, p. 384). Questo ragionamento è corretto, ma difficile da applicare alla prima suddivisione. Si dovrebbe dire, per esempio, che i segni in relazione a se stessi possono avere questa relazione con se stessi 1) per somiglianza, 2) per connessione esistenziale, oppure 3) per il tramite di una legge. Questo genere di difficoltà è endemico nella teoria di Peirce, dove considerazioni logiche lo guidano verso proposizioni e relazioni che sono date a priori per avere la possibilità di corrispondere a stati di cose reali. 4. Il Secondo e il Terzo hanno “forme degenerate”. Una Secondità genuina è “concatenata”: essa si scinde in una specie debole e in una forte, dove la specie forte può continuare a scindersi, producendo una sequenza infinita di ramificazioni deboli della Secondità forte (Peirce 1965, p. 2.365, p. 5.70-72). Il Terzo si scinde in due specie deboli e in una forte, e la meno debole delle specie deboli può scindersi ancora, proprio come fa il Secondo, in una forte e in una debole. La specie forte della Terzità può scindersi, a sua volta, ancora in altre tre.

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(A) Segni in se stessi

(B) Segni in relazione con i loro oggetti

(A) Segni in relazione con gli interpretanti

1. Primo 2. Secondo 3. Terzo

Qualisegno Sinsegno Legisegno

Icona Indice Simbolo

Rema Proposizione Argomento

Tabella 1 – Tricotomie o suddivisioni

n. Categoria Numero Denominazione Esempio 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10

Primo Secondo Secondo Secondo Terzo Terzo Terzo Terzo Terzo Terzo

111 211 221 222 311 321 322 331 332 333

Qualisegno (Iconico Rematico) Sinsegno Iconico (Rematico) Sinsegno Indicale Rematico Sinsegno (Indicale) Dicente Legisegno Iconico (Rematico) Legisegno Indicale Rematico Legisegno Indicale Dicente Simbolo Rematico (Legisegno simbolico) Simbolo Dicente (Legisegno Simbolico) Argomento (Legisegno Simbolico Argomentativi)

Una sensazione di “rosso” Un diagramma individuale Un pianto spontaneo Una banderuola o una fotografia Un diagramma, indipendentemente dalla sua individualità effettiva Un pronome dimostrativo Grida di un artigiano ambulante Un nome comune Una proposizione Un sillogismo

Tabella 2 – Dieci tipi di segni Gary Sanders, studioso di Peirce, rappresenta il tutto con un diagramma (Fig. 3). Tralasciando per il momento gli archi contrassegnati dai numeri, il tronco dell’albero mostra la Terzità forte, che ad ogni diramazione si scinde in Primità degenerata (diretta verso il basso a sinistra) e in Secondità (diretta verso destra). A sua volta, ogni Secondo può scindersi in un ramo forte e in uno debole, con il forte che continua a emettere specie deboli. 5. I segni possono dare origine solo ad altri segni della stessa categoria, o di quella di livello inferiore. Quindi, i Primi possono determinare solo altri Primi, mentre i Secondi possono dare origine ai Primi, e i Terzi possono dare origine ai Primi, ai Secondi e ai Terzi (Peirce 1965, p. 5.235). Il diagramma ne offre una chiara illustrazione, dove i Terzi danno origine ai Secondi, ai Primi e a un tronco del Terzo forte che continua a svilupparsi. Nella Tabella 1, ciò significa che quando si giunge a dare l’intera descrizione di un segno e a integrare le suddivisioni, un Qualisegno, essendo un Primo, non può essere associato a un Indice, che è un secondo. Per lo stesso motivo, invece, un Legisegno, che è un Terzo, può essere associato

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con un Simbolo, con un Indice, o con un’Icona. E il Simbolo, a sua volta, può essere associato con un Argomento, con un Dicisegno, o con un Rema. Se immaginiamo di traslare, in ognuna delle caselle della Tabella 1, i numeri 1, 2, e 3, le combinazioni possibili prendono la forma di 111, 211, 221, 311, 321, 322, 332, 333, per un totale di 10 classi di segni. La Tabella 2 propone questo schema in colonna. Qui la parola “Dicente” sta per “Proposizione”, mentre tra parentesi sono inseriti i termini ridondanti o inessenziali. Per ognuno di essi Peirce propone esempi empirici: li tralascio per il momento, riservandomi di trattarli in seguito. 6. La Tabella 2 presenta le 10 classi di segni. Un procedimento logico a priori dà le 10 suddivisioni dei segni mostrate sulla sinistra della Tabella 3, ognuna distinta in tricotomie (Peirce 1965, pp. 1.471, 1.530, 1.536, 6.326, Sanders 1970, p. 15, n. 16). Peirce crea le 10 suddivisioni integrando la Tabella 1 con le sue forme degenerate: distingue due oggetti e tre interpretanti (Peirce 1965, p. 2.265, Weiss e Burks 1945, p. 384)8. C’è l’oggetto “come il Segno lo rappresenta”, di solito chiamato l’Oggetto Immediato, e l’oggetto “realmente efficiente (cioè, che agisce come una causa efficiente nel senso aristotelico) ma non immediatamente presente”; egli di solito lo chiama l’Oggetto Dinamico. Come interpretanti ci sono l’interpretante immediato, come “significato nel Segno”, l’interpretante dinamico, o “effetto realmente prodotto dal Segno sulla mente”, e l’interpretante normale, o “effetto che verrebbe prodotto sulla mente dal Segno dopo un sufficiente sviluppo del pensiero” (Peirce 1965, p. 8.343)9. Tutto questo porta a una tabella di 10 suddivisioni (Tabella 3; Weiss e Burks 1945, pp. 387-388; Sanders 1970: 9-11). In questo caso ho aggiunto alcuni esempi di Peirce di cui si discuterà in seguito; i suoi esempi si riducono sempre più fino a esaurirsi verso la fine del testo. 7. Le supposte 66 classi di segni si sarebbero allora sviluppate a partire da questa tabella, esattamente come se fosse un’estensione della Tabella 1. Invece di contare 111, 211, 221, ecc., potremmo procedere contando 1111111111, 2111111111, 2211111111, 2221111111, 2222111111, e così via, tutte le altre combinazioni fino a quella del 3333333333, per un totale di 66 classi. Nella Figura 3 le 66 classi sono indicate dalle linee che intersecano la curva contrassegnata con il numero “X”. Tuttavia Peirce non sviluppò mai le 66 classi di segni, e il suo progetto rimase incompiuto. Egli pensa al suo lavoro come a un’impalcatura, e indica continuamente alla quantità di lavoro che rimane da fare. Se ognuna delle 10 suddivisioni si risolve in un’altra tricotomia (fatto sul quale egli nutriva dei dubbi), avrebbe non 66 ma 3¹º o 59.049 classi; ad un certo punto dichiara che non si accingerà ad andare oltre poiché “dovrei prendere in considerazione 59.049 classi, il che è certo un’impresa difficile”. La teoria del segno di Peirce è un “gigante addormentato”, che anche lui fu restio a disturbare (Martin 1969, p. 157). 8 Un altro modo in cui il suddetto principio può venire enunciato è che i Terzi hanno due forme degenerate, e i Secondi ne hanno una (poiché anch’essi danno origine a specie forti che non si considerano degenerate). Questo modo di presentare la questione si può seguire visivamente su ogni singola colonna della Tabella 1: i Legisegni, per esempio, hanno Sinsegni e Qualisegni come forme degenerate, mentre i Sinsegni hanno i Qualisegni come loro forme degenerate. Procedendo in tal senso, si può capire come si arriva alle 10 suddivisioni di segni (Tabella 3). Iniziando dalla colonna (C) della Tabella 1, Peirce nota che gli Argomenti, che sono Terzi, sono di tre generi: Abduzione, Deduzione, e Induzione. Anche la Deduzione, essendo un secondo, è concatenata con due tipi, mentre l’Induzione, essendo un Terzo, si scinde in tre tipi. 9 Ci sono diversi sinonimi. Gli oggetti possono essere “esterni” o “dinamici” (la forma forte) e “immediati” (la forma degenerata); gli interpretanti possono essere “espliciti”, “logici” o “finali” (la forma forte), “dinamici”, “effettivi”, o “energetici” (la forma singolarmente degenerata) e “destinati”, “emozionali”, o “immediati” (la forma doppiamente degenerata”).

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III È interessante chiedersi perché questo schema – piuttosto che l’idea incompleta e poco chiara che ci potrebbero essere 66 classi – non abbia attirato maggiore attenzione fuori dagli studi peirciani. Esso è certamente carico di assunzioni che potrebbero sembrare inappropriate o sindacabili: ci sono le nozioni riguardanti l’immaginazione e la comprensione “piena” dei segni, le dottrine delle forme “degenerate” e dei Primi, Secondi, e Terzi, e la logica a priori della ramificazione genealogica che Peirce usa per generare le sue suddivisioni e classi. C’è lo scontro insanabile, condotto con un linguaggio preciso, con la fenomenologia generale, le assunzioni mentaliste e la solida fiducia nella logica (Juchem 1990). Tutto ciò sembra così esageratamente idiosincratico, così drasticamente lontano dal tono discorsivo persino della semiotica più analitica che, invece di provare a basarci sui suoi risultati, saremmo tentati, come fa Gary Sanders, di cominciare a leggere Peirce dal punto di vista di un critico letterario o di uno psicanalista: per individuare schemi, e magari “una struttura formale che ricorre”, a livello soggiacente, lungo tutto il pensiero peirciano come la figura a ramificazioni del diagramma (Sanders 1970, p. 115, n. 6). Quando ho proposto, per la sua tricotomia, il diagramma prospettico come tropo “soggiacente”, semi-nascosto, avevo in mente qualcosa del genere. Leggendo Peirce, si è spesso tentati di provare a far emergere gli schemi soggiacenti e le inclinazioni del pensiero, poiché le sue dottrine sembrano avere una presa discontinua sui fatti empirici. D’altro canto, le tricotomie e le suddivisioni peirciane non sono prive di punti di contatto con i concetti della storia e della critica d’arte. Per come vengono intesi in filosofia e per come ricorrono nei dipinti, i concetti di “Astrattivo” e “Concretivo” fanno da ponte tra questi versanti. I concetti di “Suggestivo”, “Imperativo”, e “Indicativo” richiamano gli atti di linguaggio performativo e constativo di J. L. Austin, i quali hanno avuto alcuni punti di contatto con la storia dell’arte. Nel complesso, però, queste non sono distinzioni che si sposano bene con l’attività concreta della storia dell’arte attuale, e di certo non c’è nulla in esse che possa aiutare a distinguere tra “diagrammi, carte, grafi, parole, e spartiti”, e neppure nulla che abbia un riscontro diretto con lo sviluppo dei problemi semiotici – neppure con quelli che riguardano più da vicino il presente assoluto e l’immediatezza fenomenologica, che del resto sono stati ampiamente recuperati attraverso la lettura di Saussure, piuttosto che di Peirce. Da un punto di vista metodologico, tuttavia, e non relativo a concetti specifici, questa operazione di Peirce è certamente affascinante. Egli pensa intensamente, e forza il suo pensiero da una sola tricotomia fino ad arrivare alle 10 classi, tentando poi di andare avanti verso le 66 fino addirittura alle 59.049 classi. Nella selva della significazione, tra le molteplici ramificazioni della sua logica e della sua propria esperienza, quasi si smarrisce. Riflette sulle combinazioni e sui poteri delle 10 classi, e poi ancora sulle “sensazioni” dei colori e sulla spinta esercitata contro una porta chiusa. Direi che è proprio questa forte mescolanza a meglio richiamare la nostra comprensione dei quadri in qualità di oggetti semiotici. I significati sembrano infiniti, e allo stesso tempo sospettiamo il contrario – tuttavia ci sfuggono interamente le regole e la fenomenologia. Ed è a questo punto che vengo alla mia lettura personale. La logica peirciana è solida e acquosa allo stesso tempo e i problemi che le concernono derivano dal particolare miscuglio di quelli che Peirce chiama l’a priori e l’“empirico”. Per fare un esempio, perché mai dovrebbero esserci tre interpretanti, e solo due oggetti, e perché proprio quegli interpretanti? Perché l’ultimo, l’interpretante “normale”, dovrebbe essere “l’effetto che sarebbe prodotto nella mente dal segno dopo un sufficiente sviluppo del pensiero”? Una

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spiegazione logica sufficiente esiste, ma come entra in relazione con la dimostrazione empirica? Mi riferisco con ciò a tutta la vessata questione dell’esatta maniera in cui Peirce elaborò la sua teoria. Parte di essa è data chiaramente a priori: la dottrina della Primità, Secondità, Terzità, o il principio delle “forme degenerate”. Molto spesso egli elabora le idee sulla carta per metterle alla prova in un secondo momento. A un certo punto avverte che sarebbe necessario avere “incontrato i differenti tipi di relazioni triadiche a posteriori” poiché “le descrizioni a priori significano poco; non dico niente del tutto, ma poco” (Sanders 1970, p. 4). Ma egli procede anche in senso inverso, a partire da “dati evidenti” e sensazioni a posteriori, e definendo e individuando progressivamente gli esempi. Come dimostra la forma delle contraddizioni e incompletezze interne, Peirce ha proceduto in senso inverso, a volte, anche quando poteva portare avanti il proprio ragionamento secondo gli schemi logici. In altre occasioni la sua mescolanza di pensieri assomiglia un po’ a un rompicapo. A proposito delle 10 classi di segni, Sanders nota che Peirce “o non è del tutto consapevole della necessità di un ‘ordine’, o sta cercando di stabilirlo in modo più o meno empirico” (Sanders 1970, p. 8). Cosa s’intende qui con “più o meno”? Trattando del “bel problema” di individuare la classe di appartenenza di un segno, Peirce nota che “anche se non si classifica il segno con esattezza, ci si approssimerà al suo carattere in misura sufficiente agli scopi ordinari della logica” (Peirce 1965, p. 2.265). Cosa s’intende con “scopi ordinari” in un testo del genere? Non è un caso che la lista finale delle 10 suddivisioni venga enunciata meglio nella fase iniziale che verso la fine. Le suddivisioni potrebbero sconfinare in un’altra ancora, o potrebbe rendersi necessario un numero maggiore di esse. Per ognuna delle 10 classi di segni (diversamente dalle 10 suddivisioni che abbiamo appena considerato) viene fornito un esempio (cfr. tab. 2; Peirce 1965, pp. 2.254-65). Come fanno gli esempi a costituire una serie? Possono essere “appresi”, come dice lui, come uno schema completo? Non sono in grado di affrontare queste questioni, poiché bisognerebbe comparare in modo serrato diversi testi per dare una risposta. A me sembra, però, che la vera lezione offerta da Peirce agli storici dell’arte e al dibattito su “parola-immagine”, consista in questa particolare confusione, in questa negoziazione oscillante tra il rigore corroborante della logica e la miriade di fenomeni dell’esperienza. In Peirce, come in nessun altro semiologo, c’è una dialettica sfrenata tra un desiderio d’ordine assoluto, categoriale (che corre fino al 59.049 esimo caso) e un interesse altrettanto grande, incommensurabile, per il felice caos fenomenico (piani geometrici, porte chiuse, e la “sensazione di rosso”). Non diversamente da Peirce, gli storici dell’arte si scontrano con il guazzabuglio inclassificabile dei segni e con le infinite ramificazioni “degenerate” di una teoria necessaria a contenerle. Le nostre risposte, come la sua, sono date secondo modalità discontinue, a volte a priori e a volte a posteriori. La fotografia di Stieglitz potrebbe essere descritta in modo approssimativo come un segno indicale che implica necessariamente la partecipazione del segno iconico, ma qualsiasi analisi meno superficiale comincerebbe a mettere in luce altri tipi di attività segnica. Traendo spunto dalla tabella 3, si potrebbero notare le sue “garanzie della forma”, “garanzie dell’esperienza”, il modo “suggestivo” in cui essa “dà spazio semplicemente alle sensazioni”, l’unione dei segni “percussivi” e “simpatetici”, e l’amalgama di significati “astrattivi”, “concretivi” e “collettivi”. Sotto a questa valanga, la triade icona, indice, simbolo un po’ si perde. Credo che una lettura peirciana più intensa e felice della fotografia dovrebbe includere le categorie relative agli interpretanti immediato, dinamico e normale. Per esempio, la fotografia include tutti e tre i tipi di interpretante immediato (categoria V): crea un osservatore ipotetico che sta sotto una tempesta di neve; in modo categorico propone il fotografo stesso in qualità di interpretante; e chiama in causa anche, come interpretante

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immediato, l’osservatore della fotografia. In una buona tradizione peirciana la tricotomia è indissolubile. E questo è vero per la maggior parte, se non per tutte, le fotografie. Se continuo a scorrere la tabella peirciana, alla categoria successiva (VI) trovo che l’interpretante dinamico (“l’effetto prodotto effettivamente nella mente”) può essere inteso in tre modi: simpateticamente, quando sento il freddo; percussivamente, quando provo compassione per il povero cavallo; e in termini d’uso, perchè penso anche all’utilità della carrozza. Nella fotografia di Stieglitz questa tricotomia è evidenziata in modo particolare ed è la dimensione del lavoro che la ricollega agli strazianti melodrammi della sofferenza resi famosi poco più tardi da Charlie Chaplin. Solo che la terzità, nella fotografia di Stieglitz, apre la strada alla secondità e alla primità, piuttosto che ad altri collegamenti. Tanto basti per quanto riguarda la natura dell’interpretante immediato e dinamico: ma cosa accade “dopo sufficiente sviluppo del pensiero” – cosa accade all’interpretante normale (categoria VIII)? La sua primità, sia esso uomo o donna, è “gratificante”: la fotografia dà una specie di debole piacere estetico, di quei piaceri che possono permettersi persone calme e felici quando guardano alla bella sofferenza di altre persone. La sua secondità consiste nel “produrre azione”: ma dubito che l’interpretante di Stieglitz sarebbe spinto ad andar fuori a sfamare il cavallo. La sua terzità consiste nel “produrre autocontrollo”: qui, per la prima volta, penso che lo schema di Peirce abbia un valore reale, perché l’effetto degli altri due interpretanti è di sprofondare in un piacere disinteressato. L’apatia politica viene ridefinita, in questo caso, come “autocontrollo”: un’etichetta interessante, considerata la debolezza morale della primità e della secondità di questa categoria. Secondo me, Peirce è la combinazione di una tagliente precisione matematica e di un intreccio molto ingarbugliato o disordinato di temi ricorrenti. Così non mi sorprende trovare, alla fine della Tabella 3, che le tre voci inserite alla categoria x, e descritte come “il tipo di Garanzia offerta dall’espressione del segno”, riflettono e ripetono le stesse possibilità: la fotografia mi garantisce istintivamente (riguardo al freddo e alla tristezza), mi garantisce sulla base dell’esperienza (ho camminato lungo queste strade, ho visto queste carrozze); e mi garantisce sulla base della forma (è un’opera d’arte: sono le sue forme a suscitare il mio interesse). Inutile dire che si potrebbe fare molto di più in questa direzione: il punto essenziale della mia argomentazione, in tal sede, è che se Peirce ramifica senza fine, è ugualmente senza fine l’interesse che, almeno per certi aspetti, suscita. Semplicemente, però, le sue ramificazioni e i suoi interessi minuziosi non coincidono con le più ordinarie preoccupazioni politiche, sociali ed estetiche della storia dell’arte. Come le tracce del carro diventano indistinte nello sfondo innevato, così le braccia spoglie dell’albero si dividono fino a che i suoi ramoscelli formano un reticolo indecifrabile. La Figura 1 e la Figura 3, infatti, sono in relazione: il pensiero di Peirce, tendente a ramificarsi all’infinito, riflette la complessità incomprensibile della significazione, propria persino di un’immagine così “semplice” come quella di Stieglitz. Credo che questa sia la ragione dell’interesse storico artistico per uno schema che promette un ordine rigoroso e semplice. Ma se Peirce è troppo procustiano, tecnico e irriducibile per la storia dell’arte, tra il suo modo di pensare e gli approcci degli storici dell’arte c’è anche una profonda similitudine. Nella storia dell’arte ci si è abituati alla citazione ripetitiva, a volte inappropriata e sempre bizzarra, della dottrina semiotica pura e del protocollo interpretativo. Essa viene associata alla produzione artistica contemporanea come se quest’ultima fosse un suo esempio o “caso di prova” e viene accompagnata, per di più, dalle descrizioni più semplici, più sensuali e personali: facciamo lo stesso che fece Peirce, ma con molto meno vigore. La nostra scrittura è rigorosa in modo accidentale ed è discorsiva in modo discontinuo. Quella peirciana invece

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è costantemente e intensamente logica, a tratti poetica. Ma vorrei dire che, in entrambe, i momenti più intensamente analitici si verificano quando gli schemi logici vanno incontro ad affermazioni intuitive. Quando si va alla ricerca di un teorizzare fluido e di una descrizione impressionistica, che corre a briglia sciolta, Peirce è la nostra migliore guida. Secondo me, ha poco senso tentare di seguire Peirce o addirittura affannarsi a citarlo, soprattutto quando le citazioni si limitano alla triade icona, simbolo, indice. Tuttavia, tenere a mente una figura così persistentemente strana come la sua può essere davvero di grande aiuto. Per riuscire a comprendere le immagini, infatti, non dobbiamo assolutamente temere di sondare le configurazioni più astruse, purché siano veramente e costantemente aperte a critiche trasversali. Nessuno lo ha fatto in modo più complesso di Peirce. La lettura dei suoi scritti non costituisce una buona guida per trovare teorie di supporto, ma è una guida meraviglioso per scoprire cosa può fare uno scrittore autentico con le immagini, con la teoria e con il senso comune.

Traduzione di Cristina Girardi

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I.

Il segno stesso “il Modo di Comprensione del Segno stesso; “modi diversi secondo i quali gli Oggetti sono presenti alla mente”

1. (Potisegni) Qualisegni (Tone, Marca) Segni “in se stessi come sono in se stessi”; come i “sentimenti”; per esempio, “Al primo istante del risveglio da un sonno profondo”. 2. (Attisegni) Sinsegni (token, replica) “il senso di qualche cosa che si oppone a uno Sforzo, come quando qualche cosa impedisce di spalancare una porta lievemente socchiusa” “segni in quanto Esperiti hic et nunc, come ogni singola parola in una singola posizione in una singola frase di un singolo paragrafo di una singola pagina di una singola copia di un libro”. 3. (Famisegni) Legisegni (type) “ciò che è già immagazzinato: nella Memoria: Familiare e, in quanto tale, Generale”.

II.

La natura dell’oggetto immediato “il Modo di Presentazione dell’Oggetto Immediato”; “come gli Oggetti possono presentarsi”.

1. Descrittivi “come una superficie geometrica, o una nozione assolutamente definita e distinta”. 2. Designativi (Denotativi, Indicativi, Denominativi). “come un pronome dimostrativo, o un dito puntato, dirigono brutalmente i globi oculari della mente dell’interprete verso l’oggetto” senza “un ragionamento indipendente” 3. Copulanti “né descrivono né denotano i loro Oggetti, ma esprimono solo le relazioni logiche di questi ultimi”; per esempio “Se – allora –”; “– causa –”.

III.

La natura dell’oggetto dinamico “Il Modo di Essere dell’Oggetto Dinamico”.

1. Astrattivi “come Colore, Massa, Bianchezza”. 2.Concretivi “come Uomo, Carlomagno” 3. Collettivi “come Genere Umano, la Razza Umana”.

IV. La relazione del segno con l’oggetto dinamico

1. Icona (somiglianza). 2. Indice. 3. Simbolo (Segno Generale)

V.

La natura dell’interpretante immediato “il Modo di Presentazione dell’Interpretante Immediato”; “la Natura dell’Interpretante Immediato”.

1. Ipotetici 2. Categorici (Imperativi). 3. Relativi.

VI. La natura dell’interpretante dinamico “il Modo di Essere

1. Simpatetici (Congruentivi). 2. Percussivi (Urtanti). 3. Usuali.

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dell’Interpretante Dinamico”; “la Natura dell’Interpretante Dinamico”.

VII.

La relazione del segno con l’interpretante dinamico “il Modo di Rapportarsi all’Interpretante Dinamico”; la“natura dell’Interpretante Immediato (o Sentito?)”.

1. Suggestivi (Eiaculativi). “dà una mera espressione a un sentimento” 2. Imperativi “include, naturalmente, gli Interrogativi” 3. Indicativi.

VIII.

La natura dell’interpretante normale “lo Scopo dell’Interpretante Finale”.

1. Gratificanti. 2. Produttivi di azioni. 3. Produttivi di autocontrollo.

IX.

La relazione del segno con l’interpretante normale “la Natura dell’Influenza del Segno”.

1. Rema (Sema, Termine, Sumsegno) “come un segno semplice”. 2. Dicisegno (Fema, Proposizione) “con antecedente e conseguente”. 3. Argomento (Deloma, Suadisegno) “con antecedente, conseguente, e principio di sequenza”.

X.

La relazione triadica del segno con il suo oggetto dinamico e con il suo interpretante normale.

1. Garanzia di Istinto. 2. Garanzia di Esperienza, “la Natura della Garanzia dell’Espressione”. 3. Garanzia di Forma.

Tabella 3 – Dieci suddivisioni dei segni

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Fig. 1 – Alfred Stieglitz, La strada (disegno per un manifesto), 1880-1899,

fotoincisione, Art Institute of Chicago

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Fig. 3 – Gary Sanders, Diagramma delle relazioni tra Primità, Secondità, e Terzità (Sanders 1970, p. 6)

pubblicato in rete il 20 marzo 2008

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