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Fabrice Kircher Daniel Kircher IL MISTERO DI RENNES-LE-CHÂTEAU Nuove ricerche, nuove ipotesi

[eBook - ITA] Fabrice Kircher - Daniel Kircher - Il Mistero Di Rennes-Le-Chateau

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Fabrice Kircher Daniel Kircher

IL MISTERO DI RENNES-LE-CHÂTEAU

Nuove ricerche, nuove ipotesi

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INDICE

PRIMA PARTE – I FATTI

Il caso dell’abate Saunière.......................................................................................... 3

I misteri di una parrocchia rurale ............................................................................. 12

La maledizione di Rennes-le-Château...................................................................... 36

I messaggi di Béranger Saunière .............................................................................. 43

Il priorato di Sion...................................................................................................... 52

I tesori del Razès....................................................................................................... 56

SECONDA PARTE – ALCUNE IPOTESI

L’abate Saunière alla ricerca del Graal?................................................................... 62

L’abate Saunière sulla pista della pietra filosofale?................................................. 65

I misteri della grotta.................................................................................................. 69

Il crittogramma del pescatore stolto ......................................................................... 78

TERZA PARTE – APPENDICI

La lapide di Coumesourde........................................................................................ 84

Boudet e i Misteri di Eleusi ...................................................................................... 86

Alcuni disegni assai singolari................................................................................... 93

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PRIMA PARTE

I FATTI

Il caso dell’abate Saunière Quando monsignor Paul-Félix de Beauséjour assunse il vescovado di Carcassonne,

senza dubbio si rese conto dell’eminente onore che gli era stato reso: diventare un successore degli Apostoli. Certamente soppesò anche le difficoltà e i pericoli del suo incarico.

Indubbiamente, per la Chiesa come per l’umanità, nessuna epoca può essere consi-derata particolarmente fausta, ma in quell’anno 1902 i tempi sembravano assai turbo-lenti. Non riuscendo ad accordarsi in positivo sui programmi, Destra e Sinistra non sapevano far altro che stringersi l’una intorno all’antisemitismo, l’altra all’anticlericalismo. L’affaire Dreyfus, che aveva condotto la Francia sull’orlo della guerra civile, si era concluso con la grazia accordata al celebre capitano. Ma aveva provocato il concentramento di tutte le forze progressiste nel blocco delle Sinistre, che ambiva a scalzare l’autorità morale della Chiesa più che a realizzare riforme so-ciali. Era l’epoca in cui un Ministro della Guerra massone faceva schedare gli ufficia-li dell’esercito che andavano a messa. L’epoca in cui il terrorismo anarchico assassi-nava presidenti, imperatrici ed ecclesiastici. L’epoca in cui il «Petit Pére Combes» 1 preparava la legge sulla separazione fra Stato e Chiesa.

D’altronde, i mali del secolo non avevano risparmiato il vescovado di Carcassonne, poiché il predecessore di monsignor De Beauséjour, negli ultimi anni della sua vita, era stato accusato di aver distratto l’eredità di una ricca famiglia di Coursan. Il nuovo Vescovo si trovava dunque in una situazione piuttosto delicata. La virtù della pruden-za, nonché i suoi doveri pastorali, gli imponevano di evitare ogni scandalo che, nell’atmosfera infervorata dell’epoca, avrebbe potuto nuocere alla Chiesa, soprattutto in quelle radicali terre del Mezzogiorno tolosano.

Probabilmente Monsignor De Beauséjour effettuò una ricognizione della diocesi. Fu forse in quel momento che gli si pose per la prima volta il caso dell’abate Sauniè-re. Considerati i gravi problemi dell’epoca, quello costituito dal curato di un modesto villaggio di meno di 200 abitanti, in una campagna povera, lontano dalle grandi città e dalle grandi vie di comunicazione, poteva sembrare piuttosto insignificante. Tanto più che Béranger Saunière, nei 17 anni in cui aveva officiato in quel paesino sperdu-to, non era stato al centro di alcuno scandalo. Tuttavia, sin dall’inizio, le strane voci

1 Era il soprannome di Émile Combes, Presidente del Consiglio dal maggio 1902 al gennaio 1905 [N.d.T.].

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che correvano sul suo conto negli ambienti prossimi al vescovo convinsero il prelato che il curato di Rennes-le-Château non era un prete di campagna come gli altri.

In effetti, gli si attribuivano assenze ingiustificate, viaggi, edifici sontuosi, organiz-zazione di feste nel suo villaggio, e si raccontava che offrisse ospitalità a personaggi che giungevano da molto lontano per fargli visita, personalità che certo non ci si a-spettava di vedere in una frazione del Razès.

Giunto a questo punto della sua indagine, immaginiamo che il Vescovo abbia do-mandato al segretario se monsignor Billard, il suo predecessore, vescovo di Carcas-sonne dal 1881 al 1902, avesse chiesto spiegazioni a quel singolare pastore. Effetti-vamente lo aveva fatto, ma senza insistere: Béranger Saunière aveva pagato la ristrut-turazione del monastero domenicano di Prouilles. È facile immaginare lo stupore del prelato quando apprese l’ammontare del restauro: un milione di franchi. Il franco, all’epoca, valeva quanto il dollaro!

Da dove proveniva dunque quella fortuna? Senza dubbio monsignor De Beausé-jour era lungi dal pensare che questa domanda, che era uno fra i primi a formulare, se la sarebbero posta innumerevoli altre persone, straniere e francesi, fino all’ossessione, molto tempo dopo la sua morte.

Beninteso, il titolare del vescovado di Carcassonne disponeva di informazioni det-tagliate sullo stato civile e sulla carriera dell’abate. Ma non erano affatto utili a chiari-re il problema. Béranger Saunière era nato nel paesino di Montazels, nel dipartimento dell’Aude, l’11 aprile 1852. Parecchi biografi, occultisti ed esoteristi attribuiranno una certa importanza al fatto che fosse nato sotto il segno dell’Ariete. Se intendiamo essere più seri, il fatto che il padre fosse l’amministratore di un castello del marchese di Cazemajou, poi di quello del signor De Bourzès ha un’importanza più evidente. Dunque, un ambiente molto «antica Francia», cattolica, conservatrice, proprietaria terriera, probabilmente fedele al re. Non stupisce, dunque, che l’intendente di questi aristocratici avesse fondato una famiglia di sette figli. Né che due di loro fossero en-trati negli Ordini: Béranger, il maggiore, e suo fratello Alfred, nato nel 1855.

Béranger Saunière entrò al seminario maggiore di Carcassonne nel 1874 e fu ordi-nato prete nel 1879. La sua carriera cominciò relativamente bene: fu vicario di Alet dal 1879 al 1882, poi curato del villaggio di Clat per tre anni. La sua intelligenza e la sua cultura gli valsero, sin dal 1885, la nomina di professore al seminario di Narbon-ne. Poi, il disastro! Appena un mese dopo la promozione, il 1° giugno 1885, venne e-siliato a Rennes-le-Château.

A questo punto della sua indagine, monsignor De Beauséjour dovette certamente chiedersi: «Perché un tale capovolgimento? ».

E sentire una risposta del genere: «Perché l’abate Saunière aveva troppo a cuore le questioni secolari!».

In effetti, il curato caduto in disgrazia era una di quelle personalità forti di cui il don Camillo di Guareschi offre un’immagine fedele. Antirepubblicano feroce - con-siderato il suo ambiente culturale e familiare, era abbastanza logico -, non aveva mai fatto mistero delle sue opinioni. Le autorità civili l’avevano schedato come «reaziona-rio militante». Ai nostri giorni non sarebbe così grave. Ma all’epoca era ancora lo Stato a stipendiare i preti... cosicché disponeva di mezzi di pressione irresistibili.

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Sembra che, in seguito a una predica preelettorale piuttosto virulenta, le autorità civili avessero sollecitato i suoi superiori affinché il seccatore fosse allontanato.

Ma ciò ancora non spiegava come questo ecclesiastico, a cui avevano stroncato la carriera, avesse fatto a ritrovarsi una fortuna da gestire. Di famiglia povera, in una cu-ria in capo al mondo, non disponendo d’altro che del modesto salario riservato a un semplice curato, aveva anche sollecitato al vescovado 2000 franchi per restituire all’amministrazione comunale un prestito concesso per le riparazioni più urgenti della chiesa. Era il 1893.

Appena quattro anni dopo, Béranger Saunière pregava monsignor Billard di venire a inaugurare la chiesa di Maria Maddalena a Rennes-le-Château, rimessa a nuovo a sue spese. Dove aveva trovato il denaro necessario? Cos’era accaduto nel frattempo?

Il solo fatto insolito che monsignor De Beauséjour potesse rilevare sul conto di Saunière, nel corso di quel periodo, fu la denuncia nel 1895 di due parrocchiani di Rennes-le-Château, che accusavano l’abate di svolgere attività notturne nel cimitero, di violare le tombe. Monsignor Billard gli aveva allora intimato di cessare quel lavoro inopportuno.

A quel punto delle sue indagini, ovviamente il Vescovo di Carcassonne sentì il bi-sogno di interrogare direttamente l’abate Saunière. Se non avesse avuto nulla da rim-proverarsi, e monsignor De Beauséjour voleva crederlo, non avrebbe avuto difficoltà a rivelare la provenienza della sua fortuna. Se si fosse rifiutato, spettava a lui, il Ve-scovo, adottare le misure necessarie per evitare un eventuale scandalo. Quindi convo-cò il curato di Rennes-le-Château a Carcassonne. Qualche giorno dopo ricevette un biglietto così concepito:

Monsignore, ho letto col più grande rispetto la lettera che mi fa l’onore di scrivermi e alla quale riservo la più grande attenzione. Mi creda, l’interesse della questione che Lei sol-leva non mi sfugge, però merita riflessione. Così, permetta che, preso da un’occupazione urgente, rimandi di qualche giorno la mia risposta. La prego di accettare [...] B. Saunière, prete. Una lettera così, indirizzata a qualunque superiore, sarebbe qualificata come sfac-

ciata. Quindi il Vescovo ne inviò una seconda, nettamente più comminatoria. Questa volta la risposta fu più personale: l’abate Saunière si doleva molto di non poter af-frontare il viaggio fino a Carcassonne, poiché la malattia lo tratteneva a Rennes-le-Château. A sostegno di ciò, allegava un certificato medico firmato da un certo dottor Rocher, di Couiza. La scusa era inattaccabile e si rinnovò spesso. Di fatto, a ogni convocazione del vescovado.

Il sospetto che i certificati fossero dovuti alla compiacenza del medico, fu confer-mato al Vescovo non appena seppe che il dottor Rocher era uno dei commensali abi-tuali di Béranger Saunière a Villa Betania. Sì, perché il curato di Rennes-le-Château non solo era riuscito a restaurare completamente la chiesa, ma aveva anche fatto co-struire, a fianco del presbiterio, una casa per gli ospiti dove c’era sempre un posto a

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tavola. E le personalità locali o straniere che gli facevano visita non lesinavano elogi sulla raffinatezza dei banchetti del loro ospite. Non si parlava forse di vini di Malva-sia e Tocai, di rum della Martinica consegnato in fusti? Come se non bastasse, aveva fatto costruire una sorta di serraglio personale con pavoni, scimmie, pappagalli e an-che pesci. Per ricevere i suoi ospiti, che talvolta giungevano da molto lontano, da Pa-rigi o addirittura dall’estero, si diceva che avesse acquistato mobili pregiati e maioli-che. E li faceva servire da una cameriera in cuffietta e grembiule bianchi.

Pur non disponendo più dei mezzi dell’Inquisizione, un vescovo è sempre bene in-formato. Eppure monsignor De Beauséjour si chiedeva cosa ci fosse di vero nelle vo-ci che pretendevano che il curato di Rennes-le-Château si facesse preparare il cassou-let con anatre ingrassate a savoiardi e asparagi acquistati a... Lille! Si raccontava an-che che, per costruire la sua torre - perché si era anche fatto costruire una torre a due piani, con mura merlate e guardiola, alla quale aveva dato il nome di Magdala, per ospitare la sua immensa biblioteca - avesse fatto portare da molto distante (quando nei dintorni abbondavano), a dorso di mulo, le pietre destinate all’edificio! Chi erano gli invitati di questo singolare prete? Ecclesiastici come il lazarista Ferrafiat, persona-lità locali come l’archeologo Ernest Cros: niente di più normale. Ma anche il Segreta-rio di Stato alle Belle Arti, Dujardin-Beaumetz, la celebre cantante lirica Emma Cal-vet, la marchesa di Bozas e la donna di lettere Andrée Bruguière. C’era anche un cer-to Jean Orth, che i parrocchiani di Rennes-le-Château chiamavano lo «Straniero», forse di nazionalità tedesca o lussemburghese. Si sospetta che, dietro questo pseudo-nimo, si celasse l’arciduca Jean Népomucène Salvator di Habsbourg-Lorraine.

In breve, una condotta assai poco conforme alla povertà evangelica, che contrasta-va nettamente con la misera vita dei contadini del Languedoc-Roussillon. È compren-sibile che un vescovo ne sia stato scandalizzato e abbia ritenuto doveroso porre fine a questa vita, se non dissoluta, almeno chiassosa. Innanzitutto ordinò a Béranger Sau-nière di ritirarsi in convento. Assai normale per un prete, e si poteva sperare che qual-che settimana di silenzio e raccoglimento lo avrebbero indotto a tornare in sé e a rav-vedersi. Rifiuto del sibarita di Rennes-le-Château! Questa volta la questione si aggra-vava, poiché nella Chiesa la disciplina ecclesiastica non è lettera morta. Indignato per esser stato sfidato ancora una volta, monsignor De Beauséjour decise di trasferire il prete recalcitrante. Gli assegnò la parrocchia di Coustauge. Sanzione ancora relativa-mente leggera, che di norma è accettata senza clamore.

Ma era scritto che Béranger Saunière sarebbe stato ribelle e sfacciato fino in fondo. Qualche giorno dopo, il vescovado di Carcassonne ricevette una lettera in cui l’abate Saunière semplicemente dichiarava di non poter accettare la sua nuova destinazione, poiché: «Non posso lasciare una parrocchia in cui i miei interessi mi trattengono» 2.

Era troppo! Anche la pazienza di un vescovo ha un limite. Questa volta la convo-cazione al vescovado fu così imperiosa che il recalcitrante non potè sottrarvisi.

Non possediamo alcuna testimonianza del colloquio che ebbe luogo tra Béranger Saunière e il suo Vescovo. Ma, alla luce degli avvenimenti che seguirono, possiamo ricostruirlo a grandi linee. In primo luogo, ammantando le proprie parole di unzione

2 Citato in Gérard de Sède, Le trésor maudit de Rennes-le-Château, J’ai lu, Paris 1972.

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episcopale ma con fermezza, monsignor De Beauséjour dovette domandargli l’origine delle risorse che gli permettevano quello stile di vita principesco.

Ma Béranger scansò la questione. A suo dire, l’origine dei fondi era coperta dal se-greto confessionale. Gli sarebbero stati affidati da grandi peccatori che aveva avuto il piacere di riportare alla fede. Probabilmente l’argomento non convinceva il prelato: dove avrebbe poturo trovare pecorelle abbastanza ricche da affidargli tali somme un modesto curato di campagna? Comunque non poteva insistere: ogni confessore deve infatti serbare il segreto sui peccati che gli sono confessati e non deve svelarli a nes-suno, nemmeno indirettamente, dietro alcun pretesto. Se quel peccato è un crimine, può ad esempio rifiutare al colpevole l’assoluzione finché non si sia consegnato alla giustizia. Ma non può denunciarlo, neanche per prevenire altri crimini. Monsignor De Beauséjour doveva ammettere la sconfitta.

Del resto, aveva altri motivi di rimprovero. Per esempio, l’abate Saunière faceva un uso assai profano della sua improvvisa ricchezza, uso che conveniva molto di più a un nuovo ricco che a un discepolo di Gesù Cristo! Anche in questo caso, l’interessato ebbe gioco facile a difendersi: donava al Comune della sua parrocchia una rendita annuale di 5000 franchi, oltre ad aver fatto alle famiglie più povere di Rennes-le-Château doni da 10 a 15 mila franchi 3. Quanto alle costruzioni, riguarda-vano in primo luogo la chiesa e gli edifici della curia, che aveva rimesso completa-mente a nuovo.

Conoscendo la reputazione dell’abate Saunière, senza dubbio amante della bella vi-ta, ma deciso, combattivo, addirittura aggressivo, è lecito pensare che approfittò dell’occasione per contrattaccare. Dopo tutto, aveva restaurato e abbellito la sua chie-sa senza, per così dire, chiedere un centesimo al vescovado. Ciò non meritava forse più complimenti che rimproveri? Di norma spettava alla diocesi, alla Chiesa di Fran-cia, assumersi queste spese.

Villa Betania

L’interlocutore di monsignor De Beauséjour non era certo biasimevole per questo. 3 Beninteso, è difficile tradurre queste somme in potere d’acquisto attuale, ma cambiando franchi in euro e moltiplicando per due o tre, non si dovrebbe essere lontani dalla somma.

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Invece, per gli altri edifici: quella villa... come si chiamava? Betania? e la torre... Ma-gdala?

Ma, ancora una volta, l’abate Saunière aveva la risposta pronta. Spiegò che quegli edifici sarebbero diventati, dopo la sua morte, una casa di riposo per preti anziani. Tanto valeva dunque renderli il più possibile confortevoli.

Non si diventa vescovi senza conoscere un minimo l’animo umano. Monsignor De Beauséjour si rendeva perfettamente conto che il suo scaltro subordinato tentava di dargliela a bere. Ma anche lui era tenace e determinato: esigette che il curato di Ren-nes-le-Château gli rendesse il conto esatto delle sue spese.

È la minuta del rendiconto quella che Gérard de Sède, ha avuto fra le mani? L’ammontare delle spese di costruzione dell’abate Saunière era valutato in 193.000 franchi dell’epoca. Franchi d’oro! E nessuna fattura era allegata al fascicolo. L’autore stima che la ristrutturazione della tenuta dell’abate sia costata un milione e parla di truffa deliberata. Non arriviamo a tanto. Béranger Saunière annotava scrupolosamen-te tutte le spese, è assolutamente possibile che abbia inviato i giustificativi con la nota finale. Inoltre, ed è normale, le dicerie possono benissimo aver esagerato la portata delle spese del curato. E oggi, con la distanza cronologica, l’inflazione, il deprezza-mento della moneta, è difficile ricostruire l’ammontare esatto della sua magnificenza.

Un solo esempio: Béranger Saunière avrebbe acquistato una carriola a 16 franchi. Secondo i calcoli della Banca di Francia, un franco del 1900 equivaleva a 1.538 fran-chi nel 2000. Fate il conto: il prezzo della carriola, a quella data, avrebbe raggiunto i 24.608 franchi!

Del resto, è difficile comprendere quale interesse avrebbe avuto il curato di Ren-nes-le-Château a celare la portata delle sue spese. È palese che non poteva sobbarcar-sele con lo stipendio da semplice curato che, all’epoca - erano ancora remunerati dal-lo Stato - ammontava a 75 franchi mensili.

Fu questo a indurre il vescovado di Carcassonne ad agire? Nel 1908 avviò un pro-cedimento a carico del prete, accusato di dedicarsi a un traffico di messe. Per i non cattolici precisiamo che ai fedeli è permesso pagare una messa per intenzioni partico-lari. Nella maggior parte dei casi, sono a suffragio dei cari estinti, per abbreviare il lo-ro soggiorno in Purgatorio. Si possono anche far dire per l’anima dei vivi, oppure per la salute della Chiesa, della Patria.

Nel 1745, quando Luigi XV era gravemente malato, ne furono ordinate talmente tante per la sua guarigione che il re si guadagnò il soprannome di «Beneamato». Cer-to, in buona dottrina, queste funzioni devono avere un fine altruista; in pratica...

Poiché il rettore di una parrocchia spesso riceve l’ordine di più messe nello stesso tempo, non può dirle tutte e dunque le trasmette sia ai conventi che ai confratelli me-no oberati di lavoro. Chiaramente non può trattenere il prezzo del servizio reso, poi-ché contravverrebbe alla raccomandazione di Cristo: «Avete ricevuto gratuitamente, donate gratuitamente» e si renderebbe colpevole di simonia; il denaro è integralmente destinato all’istituzione ecclesiastica.

Dunque, per l’etica cristiana, il traffico di messe è gravissimo. Ma questa sembra la sola cosa che sia stata ufficialmente rimproverata all’abate Saunière. Dopo monsignor De Beauséjour, è J.-J. Boudu a parlarne, fornendo anche alcuni dettagli: a suo parere,

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sono 100 mila le intenzioni di messe che, fra il 1893 e il 1915, sarebbero state tra-smesse all’abate Saunière. Vale a dire 11 o 12 messe al giorno per circa 22 anni! Inu-tile dire che quest’ipotesi pone più problemi di quanti pretenda di risolverne. Perché tante persone avrebbero voluto far dire messe a un oscuro canonico di una modesta parrocchia sperduta nella profonda Francia? Può capitare à ecclesiastici di una rino-mata santità, ma Béranger Saunière non era padre Pio.

Indubbiamente si possono sempre ordinare più messe alla volta, cioè (almeno teo-ricamente) cento o mille. Il curato di Rennes-le-Château avrebbe potuto ricevere fi-nanziamenti in questo modo dai suoi amici dell’alta società. Ma perché avrebbero uti-lizzato questo espediente/quando era così facile, e molto più discreto, affidargli diret-tamente le somme?

Per spiegare il suo improvviso arricchimento, si sostenne che l’abate Saunière a-vesse costituito, a partire dal 1896, un’autentica rete di corrispondenti che gli affida-vano intenzioni di messe. Il vescovado sostenne anche che li reclutasse con annunci sui giornali. A gestire questa rete sarebbe stato proprio il fratello del curato di Ren-nes-le-Château: il reverendo padre Alfred Saunière. Prestiamo un po’ d’attenzione a questo personaggio, che in seguito ritroveremo.

Fratello minore di Béranger, nato nel 1855 nello stesso villaggio di Montazels, fu ordinato prete un anno prima di lui, nel 1878, ed entrò nei Gesuiti. Prima di tutto in-traprese la carriera professorale nelle istituzioni scolastiche del suo Ordine e, dal 1893, fu docente al seminario minore di Narbonne. In breve, una carriera apparente-mente più brillante rispetto a quella del fratello.

Fisicamente, le rare foto che possediamo di lui mostrano sempre il medesimo pro-filo da medaglia, lo stesso sguardo imperioso del fratello maggiore. Si dice che anche lui fosse amante della bella vita e che condividesse il suo gusto del segreto.

Avrebbe potuto trasmettergli le intenzioni di messe? Senza alcun dubbio. Grazie alle sue relazioni, avrebbe potuto fargli pervenire doni da fedeli agiati? Più che pro-babile. E d’altronde, nient’affatto riprovevole.

Ma non è verosimile che un modesto insegnante di provincia, foss’anche gesuita, sia stato in grado di far beneficiare suo fratello curato di uno stile di vita da miliona-rio. L’accusa di traffico di messe, la soluzione più prosaica dell’affaire di Rennes-le-Château, riposa certamente su un fondo di verità, senza il quale non sarebbe stata cre-dibile. Ma anche se fosse, poteva costituire l’unica fonte della fortuna del curato?

Resta il fatto che il procedimento di sospensione dell’abate Saunière fu avviato dal Vescovo di Carcassonne. Per comprenderlo, occorre rifarsi al contesto dell’epoca: siamo in piena repubblica radicale, vale a dire con un governo alla Homais4 che tenta di camuffare l’immobilismo sociale con la virulenza dell’anticlericalismo. Le congre-gazioni sono appena state espulse dalla Francia, la legge di Separazione è stata votata, il regime ha decretato l’Inventario dei beni ecclesiastici che, per molti cattolici, altro non è che il preludio all’esproprio. In numerose regioni, soprattutto a ovest, ci si arma per difendere le chiese. Il paese sembra sull’orlo della guerra civile. 4 Homais è un personaggio di Madame Bovary di Flaubert e incarna proverbialmente le bassezze piccolo borghesi [N.d.T.].

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In un clima tale, si capisce che i franchi tiratori, le persone che giocano indivi-dualmente, siano mal viste. Era il caso di Béranger Saunière che, oltre alle sue stra-vaganze, passava, lui che era un vecchio reazionario, per essere in ottimi rapporti con personalità radicali, che riceveva e alloggiava nella sua tenuta di Rennes-le-Château!

Ma si deve esattamente parlare di procedimento di sospensione perché, contraria-mente alle leggende che la rappresentano come una monarchia o addirittura una setta, la Chiesa cattolica è una fra le istituzioni più rispettose del diritto, se non la più buro-cratica. E chi conosce le regole ed è intenzionato a utilizzarle, può facilmente, grazie ai cavilli, trascinare il processo in modo analogo a quanto si può fare davanti a un tri-bunale civile. Appellandosi ripetutamente e sollevando vizi di forma, il fariseo di Rennes-le-Château riuscì a rallentarlo per parecchi mesi. Fu solo il 5 dicembre 1910 che i giudici ecclesiastici lo dichiararono «suspens a divinis». Vale a dire che era interdetto dal celebrare l’Eucarestia e dall’amministrare i sacramenti. Monsignor De Beauséjour trasse immediatamente le conseguenze di questo giudizio, nominando l’abate Henri Marty curato di Rennes-le-Château. Ma immaginare che Béranger Sau-nière avrebbe accettato di capitolare significava non conoscerlo. In primo luogo, ri-fiutò di lasciare il posto. E poiché, dalla promulgazione della legge Combes del 1905, i presbiteri erano divenuti beni comunali, l’abate Marty non potè prenderne possesso: la municipalità era solidale con il suo curato. Il nuovo arrivato, considerato un intruso da tutto il paese, era dunque costretto ad abitare a Couiza, a diversi chilometri di di-stanza e quindi ogni giorno doveva arrancare sulla ripida salita che porta alla rocca di Rennes. Gli automobilisti di oggi, che accedono all’altopiano con le loro potenti vet-ture, possono immaginare la fatica che dovette rappresentare, all’inizio del secolo, la scalata quotidiana di una strada a tornanti, stretta e ciottolata, spesso sotto la piog-gia o il sole cocente del Mezzogiorno tolosano! Una volta issato su quel belvedere, per l’infelice non erano ancora terminati i soprusi, poiché ogni giorno doveva officia-re in una chiesa vuota, totalmente disertata dai parrocchiani. Infatti questi si pressa-vano, alla stessa ora, a Villa Betania, dove il curato Saunière, il loro curato, celebrava una messa privata in una cappella che aveva fatto ristrutturare. La tradizione non dice per quanto tempo il povero abate Marty sopportò questo regime, prima di rinunciare.

Assai più tenace, Béranger Saunière si era appellato alla corte di Roma per ottenere la revisione del processo. Questo nuovo procedimento fu avviato nel 1911. Per due anni, il curato di Rennes-le-Château finanziò il soggiorno a Roma dell’avvocato della sua causa, il canonico Huguet, della diocesi di Agen.

Abilmente questi fece notare che, se una messa vale 50 centesimi, l’abate Saunière avrebbe almeno dovuto vedersi affidare 386.000 messe per coprire il solo prezzo dei suoi edifici. Anche attribuendogli una rete di corrispondenti capillare in tutta la Fran-cia, un numero tale di messe era difficilmente credibile. Il vescovado di Carcassonne sosteneva che avesse organizzato un sistema di annunci per raccoglierle ma, come prova, potè produrre un solo ritaglio di giornale proveniente da «La veillée des chaumières». Questi argomenti dovettero fruttare: nell’ottobre del 1913, l’accusa di monsignor De Beauséjour fu respinta dalla Congregazione del Concilio e Béranger Saunière venne reintegrato nella curia di Rennes-le-Château.

Nell’abbondante letteratura che ha suscitato l’enigma Saunière, questo giudizio è

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sempre parso misterioso. Come aveva potuto questo piccolo abate plebeo, alla corte di Roma, vincere contro il suo Vescovo, per di più aristocratico? Doveva avere amici potenti, protezioni occulte! Fiumi d’inchiostro sono stati versati per elaborare ipotesi in merito.

Sensatamente non è meglio ritenere che la causa dell’accusa fosse infondata e che il tribunale pontificio ne abbia tenuto conto? Non bisogna dimenticare che la morale cattolica riprova il giudizio temerario e vigila «a interpretare, per quanto possibile, in senso favorevole i pensieri, le parole e le azioni del prossimo»5.

Perciò, non bisogna stupirsi che la Congregazione del Concilio abbia infine ritenu-to di doversi «rimettere alla coscienza dell’abate» (consulat conscientiae suae). Mon-signor De Beauséjour era dunque sconfessato? No. E la motivazione della sentenza lo prova. Aveva fatto il suo dovere, denunciando un prete la cui fortuna sospetta ri-schiava di essere fonte di scandalo.

Erano finite le noie giudiziarie dell’abate Saunière? Pare di no. Secondo Gérard de Sède, monsignor De Beauséjour formulò un controricorso e: «L’11 aprile 1915, senza che alcun nuovo indizio fosse emerso contro di lui, il curato di Rennes-le-Château fu definitivamente interdetto»6.

Secondo un altro ricercatore, Patrick Mensior 7, il processo di Roma non arrivò mai a conclusione.

Comunque, materialmente la situazione di Béranger Saunière restava invariata. Continuava ad abitare e officiare nel suo villaggio, e addirittura progettava di prose-guire i lavori. Avrebbe parlato di far arrivare l’acqua corrente a Rennes-le-Château, di acquistare un’automobile e di far tracciare una strada carrozzabile per servirsene. Ha veramente spinto la sua stravaganza fino al progetto di circondare la parrocchia con bastioni come nel Medioevo e di innalzare una torre alta 70 metri?

In ogni caso, questi ultimi progetti non si concretizzarono: nel gennaio 1917, Bé-ranger Saunière scompariva, portato via dalla cirrosi e da un’apoplessia. Aveva 65 anni.

Alla lettura del suo testamento, la sorpresa fu grande: quell’uomo, che sembrava disporre di fondi considerevoli, non possedeva nulla di proprio. Gli edifici e il parco di Rennes-le-Château erano di proprietà della sua fedele serva: Marie Denarnaud.

5 Catéchisme de l’Église catholique, Mame-Plon, Paris 1992, p. 501. [Catechismo della Chiesa cat-tolica, Libreria editrice vaticana, Città del Vaticano 1993, N.d.T.].6 Le trésor maudit cit. Si noti che, in Rennes-le-Château, le dossier, les impostures, les phantasmes, les hypotheses (Laffont, Paris 1988), il medesimo autore dichiara che, nel 1915, il Vaticano annullò le sanzioni adottate.7 Patrick Mensior, L’extraordinaire secret des prètres de Rennes-le-Château, Les 3 Spirales, Corps 2001.

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I misteri di una parrocchia rurale Béranger Saunière aveva 33 anni quando, nel giugno 1885, si vide affidare la pic-

cola parrocchia di Rennes-le-Château. Anche se appariva come una sanzione, era ben preparato al suo compito. Nato in provincia, cresciuto in campagna, parlava perfetta-mente l’occitano, era avvezzo al contatto con la natura e alla vita rude dei contadini: in breve, il modello stesso del curato campestre. Fisicamente, era dotato di tutto il ne-cessario per imporsi alle sue pecorelle: alto, atletico, capelli folti e sguardo penetran-te, possedeva il profilo di un imperatore romano. Pescatore e cacciatore apprezzato, godeva inoltre del prestigio di un’istruzione nettamente superiore alla media.

Tuttavia, poiché un uomo è sempre un uomo, possiamo scommettere che ebbe un attimo di scoraggiamento quando si insediò nella nuova curia. In effetti, la chiesa era in uno stato pietoso. Il tetto era pericolante, al punto che la pioggia cadeva sull’officiante. Quanto al presbiterio, era praticamente inabitabile. Nei primi tempi, il nuovo curato dovette alloggiare in una casa privata, quella di Alexandrine Marro. Quest’ultima, con un arpagonismo tutto contadino, gli fece pagare un affitto carissi-mo.

Se il termine «esilio», applicato alla nuova assegnazione dell’abate Saunière, dev’essere sfumato, in effetti rappresentava una realtà sociale relativamente diffusa. Il curato ribelle (già allora!) si vide privare del suo stipendio dallo Stato? La cosa non pare impossibile, in un’epoca in cui le passioni politiche erano esacerbate e in cui Gambetta8 concludeva uno dei suoi più famosi discorsi con l’affermazione: «Il cleri-calismo, ecco il nemico», e in cui non si aveva alcun riguardo per chi osava replica-re9.

Appena potè, il curato restaurò il presbiterio e chiamò presso di lui una vecchia zia, Rose Saunière, vedova Sylvestre. Il rapporto episcopale del 1889 attesta che lo servi-va in qualità di domestica. Dopo di lei, l’abate Saunière accolse un’intera famiglia, i Denarnaud, imparentati con la sua precedente ospite, la signora Marro. Uno dei bam-bini di quella famiglia era Marie Denarnaud.

La vita era difficile, soprattutto sul piano finanziario: intorno al 1890, il diario dell’abate registra, in 16 mesi, 90 franchi di spese e 25 franchi di entrate. Un’annotazione precisa: «Fondi segreti, 80 franchi e 25 centesimi» 10. Come si può notare, la sua indigenza era reale. Il nuovo curato non mancava né di coraggio, né di buona volontà. Aveva immediatamente avviato le riparazioni più urgenti. Per far ciò, 8 Léon Gambetta (1838-1882), figlio di un immigrato italiano, avvocato e giornalista. Divenne cele-bre per la difesa del repubblicano Delescluze e alle elezioni del maggio 1869 venne eletto a Parigi e Marsiglia [N.d.T.].9 Molti anni dopo, monsignor Lefebvre, il vescovo integralista, constatava: «Nessuno è più settario di un liberale».10 de Sède, Le trésor maudit de Rennes-le-Château, J’ai lu, Paris 1972.

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disponeva di un lascito di 600 franchi che uno dei suoi predecessori, l’abate Pons, a-veva fatto alla parrocchia.

Qui incontriamo il primo di questi curati, all’apparenza insignificanti, che hanno dato forma all’enigma di Rennes-le-Château. L’abate Pons aveva esercitato il suo ministero nel piccolo villaggio durante il Secondo Impero. Aveva la reputazione di guarire gli incurabili. Poiché accettava remunerazioni per i suoi «miracoli», avrebbe acquisito una pessima fama di imbroglione e ciarlatano, che l’avrebbe perseguitato fino ai nostri giorni. Ma se i suoi doni fossero dovuti al segreto di Rennes-le-Château?

Seicento franchi! Come si può immaginare, la maggior parte di questa somma do-vette essere consacrata alla meschina realtà della vita quotidiana. Era l’epoca in cui un colpo di fucile provvidenziale forniva pasti ghiotti. Per cominciare le riparazioni della chiesa, l’abate Saunière dovette far agire le sue relazioni. È così che ricevette, nel 1886, un dono di 3000 franchi dalla contessa di Chambord. A priori, può sembra-re strano che la vedova del pretendente al trono di Francia potesse interessarsi in que-sto modo alle difficoltà di un modesto curato di campagna. Ma non va dimenticato che Béranger Saunière doveva il suo declassamento al partito preso in favore della monarchia. La solidarietà aristocratica con chi le era fedele, un comprensibile interes-se, quanto la sincera devozione cattolica della famiglia reale di Francia, dovevano a-verla condotta a questa generosità. Per bizzarro che possa sembrare, questo fu l’unico dono che Saunière ricevette. Il solo, almeno, di cui è possibile identificare la fonte. Anche se fossero stati peccatori pentiti, perché gli altri donatori che Béranger Sauniè-re ha chiamato in causa hanno voluto rimanere anonimi? E soprattutto, come hanno fatto a restare tali?

Che questa somma, pur invidiabile, non sia stata sufficiente, è provato dal fatto che, nello stesso periodo, mendicò all’amministrazione comunale riluttante (gli avari si trovano a tutte le latitudini) la somma di 1400 franchi per avviare i primi lavori.

Conviene precisare che, a partire da questo punto, la cronologia diventa incerta, fatto che non deve stupire. I riferimenti temporali sono quelli che si cancellano più rapidamente dalla memoria, se non si tiene un diario, come faceva l’abate Saunière. Inoltre, i testimoni furono interrogati dagli investigatori solo intorno agli anni ‘40 e ‘50. Quanti ne restavano? Quanto erano affidabili i loro ricordi? Quale valore hanno le tradizioni familiari a quel proposito?

Non stupisce dunque che i diversi autori che hanno esaminato la questione si con-traddicano su alcuni punti essenziali. Dopo aver incrociato le testimonianze, sembra pertanto che si possa ritenere verosimile lo schema seguente.

I primi lavori ebbero luogo fra il novembre del 1886 e il febbraio del 1887, vale a dire dopo che Saunière ebbe ricevuto il dono della contessa di Chambord. Si sostiene che cominciarono dall’altare, fatto che a priori sembra sorprendente, poiché tutte le testimonianze insistono sulla drammatica vetustà del tetto. È più verosimile che ini-ziassero dal restauro della copertura e delle vetrate: queste ultime furono affidate a Henri Feur.

Dev’essere intorno al 1887 che avvenne la prima scoperta insolita. Rovesciando una lapide di fronte all’altare, si scoprì con sorpresa che era scolpita dal lato verso il

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pavimento. Oggi è conosciuta col nome di «lapide dei cavalieri» ed era costituita da due pannelli scolpiti: alcuni cavalieri sotto due portali scolpiti, che potrebbero anche rappresentare archi di trionfo. Sopra erano raffigurati dei motivi (animali?) che il tempo ha reso indistinti. Sul pannello di sinistra, era rappresentato un cavaliere con lo scudo al braccio, mentre suona il corno. E forse una riproduzione di Rolando a Ron-cisvalle? Su quello di destra vi sono due uomini, uno dei quali brandisce una spada o una lancia. Potrebbe essere un simbolo templare, se quest’opera non fosse attribuita all’VIII-IX secolo. Perché si è voluta nascondere questa scultura? Fatto ancora più importante: la lapide celava una marmitta piena di oggetti brillanti. Secondo la tradi-zione, due persone avrebbero fatto questa scoperta insieme all’abate. Si può supporre - non è confermato - che si trattasse dei muratori Pibouleau e Babou. Secondo quanto disse sessant’anni più tardi Corbu, erede di Marie Denarnaud, il curato avrebbe im-mediatamente congedato i due operai col pretesto che fosse ora di pranzo. Quando tornarono, la marmitta era scomparsa. A uno dei muratori che gli avrebbe chiesto co-sa c’era all’interno, Béranger Saunière avrebbe risposto che si trattava di medaglie di Lourdes prive di valore, ma avrebbe rifiutato di dargliene, nemmeno come ricordo.

Raccontato in questi termini, questo piccolo sunto dà adito a molti dubbi. Ci si immagina degli uomini, fossero anche operai di cent’anni fa, al quale l’appetito fa-rebbe scordare la curiosità? Non avrebbero immediatamente verificato cosa contene-va realmente quella marmitta? E come si può credere che abbiano potuto essere rag-girati da una menzogna così grossolana? Non dimentichiamo che, all’epoca della scoperta, le apparizioni della Vergine a Bernadette Soubirous risalivano a meno di trent’anni prima. Il nascondiglio era evidentemente molto anteriore a quell’epoca. E perché, se quelle medaglie erano prive di valore, quei due babbei non avrebbero, a buon diritto, preteso almeno di vederle? E, visto il rifiuto, non è strano che in un vil-laggio così piccolo non fosse subito circolata la voce che il curato aveva messo le mani sul «tesoro della chiesa»?

Le incongruenze sono tali che non possiamo non stupirci del fatto che un autore se-rio come René Descadeillas rilevi con gravità: «Non era un tesoro, ma un semplice gruzzolo».

Ciò che ha dato consistenza a questa storia del tesoro /gruzzolo, e che probabil-mente è all’origine di questa storia, sono due regali fatti da Ber anger Saunière, all’epoca della sua munificenza, a due amici: un calice d’oro, magnificamente lavora-to, donato all’abate Grassaud, e una collezione di monete antiche, risalenti ai secoli V-VIII, che avrebbe offerto all’abate Courtauly.

Quest’ultimo dono, almeno, pare sorprendente. L’abate Courtauly fu ordinato prete solo nel 1921, quattro anni dopo la morte di Saunière. L’avrebbe incontrato nel 1908, all’età di 18 anni, e avrebbe anche trascorso due mesi a Rennes-le-Château. Durante la sua permanenza, avrebbe eseguito un dipinto (quale?) nella chiesa, frequentemente corretto da Béranger, «che ci teneva al minimo dettaglio». Sembra difficile credere che si offrano monete antiche a un ragazzetto, per di più maldestro. Comunque, visto che Gérard de Sède testimonia che furono consegnate a quell’ecclesiastico, accettia-molo. Ma l’abate Saunière avrebbe anche potuto acquistare quelle monete e quel cali-ce. Certamente ne aveva i mezzi.

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La lapide dell’altare

In breve, cosa bisogna pensare di questo episodio? La «lapide dei cavalieri» esiste: oggi è esposta nel piccolo museo del paese.

Si può credere che le circostanze della sua scoperta furono proprio quelle descritte. Resta il fatto che la marmitta colma di monete d’oro e oggetti cultuali è una storia in-ventata, non appena ci si accorse dell’improvvisa ricchezza del curato. Perché quella lapide fu girata in quel modo? Non bisogna dimenticare che il rispetto per i vecchi sassi, lo scrupolo delle belle arti, è molto recente. In tempi più... utilitaristici, avevano valore solo come materiale da costruzione.

In una data molto controversa, fra il 1886 e il 1891, il campanaro della chiesa, Captier, scendendo dal campanile notò degli strani riflessi fra i calcinacci dissotterrati dagli operai. Avvicinandosi, mise la mano su una boccetta contenente delle pergame-ne. Le avrebbe immediatamente consegnate al curato. Più che mai, su questa questio-ne il condizionale è di rigore. Poiché ogni volta che vennero interrogati autentici con-temporanei dell’abate Saunière, essi sostennero di non sapere nulla. Così Léontine Marre: «[I giornalisti] non mettono mai nei loro articoli quello che dico loro, parlano sempre di pergamene trovate nel pilastro dell’altare, ma io non ho mai raccontato una cosa simile».

Queste pergamene, evanescenti sin dall’inizio, sarebbero state contenute sia in un pilastro visigoto dell’altare, sia in un balaustro di legno di epoca più tarda. Una picco-la spiegazione è necessaria. L’antico altare maggiore della chiesa era sostenuto da due pilastri visigoti. Cioè scolpiti in uno stile diffuso nel Mezzogiorno tolosano dal V all’VIII secolo, al tempo della dominazione visigota. Tuttavia, la costruzione della chiesa di Maria Maddalena di Rennes-le-Château risale all’XI secolo. Si deve dunque ammettere che alcuni suoi elementi, fra i quali proprio l’altare, abbiano fatto parte di un santuario anteriore. A meno che questo stile architettonico non sia sopravvissuto

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nell’edificio per ragioni estetiche o tradizionali. Secondo la prima versione dell’affaire, togliendo la pesante lastra che serviva da

mensa eucaristica, l’abate Saunière e due operai - gli stessi che avrebbero partecipato alla scoperta del gruzzolo - ebbero la sorpresa di scoprire che uno dei pilastri era ca-vo. La nicchia segreta era zeppa di foglie di felci seccate, che proteggevano tre tubi di legno sigillati con la cera. Si suppone che avessero contenuto i manoscritti. Ma poi-ché è sempre stata questione di due soli manoscritti...

Nella seconda versione, le pergamene sarebbero state trovate in una boccetta, con-tenuta in un pilastro cavo della balaustrata in legno. Precisiamo che prima del Conci-lio Vaticano II, il prete officiava dando la schiena al pubblico ed era separato dai fe-deli da una piccola balaustrata in legno, marmo o ferro battuto, davanti alla quale si inginocchiavano i comunicandi per ricevere l’ostia.

Evidentemente sarebbe interessante sapere dove sono state realmente trovate que-ste pergamene. Nel caso del pilastro visigoto, possono esservi state deposte sin dall’Alto Medioevo. Nel caso della balaustra, al contrario, bisogna risalire al XVI se-colo. Le balaustre nelle chiese non compaiono prima del Concilio di Trento, che le impose.

Ora, cosa ne fu delle pergamene? E difficile trovare informazioni tanto contrastanti come in questa questione. Secondo una prima versione, rivelata da Gérard de Sède nel libro Le trésor maudit de Rennes-le-Château, il Sindaco, una volta al corrente, a-vrebbe insistito affinché fossero conservate negli archivi municipali. Il curato Sauniè-re, per contro, era del parere di venderle. Avrebbe infine convinto il suo interlocutore o l’avrebbe ingannato consegnandogli una copia delle pergamene. In seguito, il prete avrebbe mostrato i documenti al suo Vescovo, all’epoca monsignor Félix Billard. Quest’ultimo avrebbe mandato il curato di Rennes-le-Château a Parigi per far esami-nare i documenti, viaggio che Saunière negò sempre di aver intrapreso. Ma, secondo quanto dice Corbu, il legatario di Marie Denarnaud, il nostro prete fece invece il viaggio fino alla capitale, consegnò gli scritti indecifrabili all’abate Bieil, direttore dell’Institut Saint-Sulpice... 11 che non glieli rese! Il Vescovo gli rimise la somma di 2000 franchi, cosa che gli avrebbe permesso di insabbiare l’affaire, ma senza dubbio anche di svincolare l’abate Saunière dal debito che aveva contratto con il Comune per le riparazioni della chiesa.

Ecco, scevro da ogni romanticismo, «l’affaire delle pergamene». Sono state tradot-te? Non si sa. Questa traduzione è stata consegnata a Béranger Saunière? Non si sa. Rivelava un qualunque segreto? Non si sa.

Semplice considerazione di buon senso: se queste pergamene avessero rivelato l’ubicazione di un tesoro, visto che - e su ciò i pareri sono unanimi - Béranger Sau-nière non era stato in grado di tradurle, sarebbe stato il decifratore a beneficiare del segreto. Dunque, non potrebbero spiegare l’improvvisa fortuna di cui l’abate godette qualche anno più tardi.

Aggiungiamo due dettagli: nel 1901, sarebbe stato monsignor Billard a intrapren- 11 Il seminario di Saint-Sulpice, connesso alla celeberrima chiesa, fu fondato nel 1642 da monsignor Olier. È sede della Scuola Superiore di Teologia cattolica [N.d.T.].

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dere il viaggio a Parigi, per incontrare il direttore di Saint-Sulpice. Come ritengono alcuni autori, fu per discutere il problema delle pergamene? In secondo luogo, nel 1910 il Municipio di Rennes-le-Château bruciò e con esso tutti gli archivi. Dunque non si può sperare di ritrovare le copie che, a quanto pare, il curato aveva consegnato al Comune.

Ciò non impedì affatto che molti documenti, più o meno oscuri, fossero presentati come loro riproduzioni. Ci interesseremo solo a quelli che Gérard de Sède pubblicò nel 1967. È vero che sono i più celebri. Il primo, redatto in latino, è un estratto dal Vangelo di Giovanni (12,1-12).

Sei giorni prima della Pasqua ebraica, Gesù andò a Betania dove c’era Lazzaro, quello che egli aveva risuscitato dai morti. Lì prepararono per lui una cena: Marta serviva e Lazzaro era uno dei commensali. Maria prese un vaso di nardo purissimo, unguento profumato di grande valore, e lo versò sui piedi di Gesù; poi li asciugò con i suoi capelli e il profumo si diffuse per tutta la casa. Cera anche Giuda Iscario-ta (uno dei discepoli di Gesù: quello che poi lo tradirà). Giuda disse: «Si poteva vendere questo unguento per trecento monete d’argento e poi distribuirle ai pove-ri!». Non lo disse perché si curava dei poveri, ma perché era ladro: teneva la cassa comune e prendeva quello che c’era dentro. Gesù dunque disse: «Lasciatela in pace: ha fatto questo per il giorno della mia sepoltura. I poveri li a-vete sempre con voi, ma non sempre avrete me». Una gran folla venne a sapere che Gesù era a Betania e ci andò: non solo per lui, ma anche per vedere Lazzaro che Gesù aveva risuscitato dai morti. Allora i capi dei sacerdoti decisero di uccidere anche Lazzaro, perché molti andavano a vederlo e credevano in Gesù. Il giorno se-guente, c’era molta gente che si recava alla festa. Quando sentirono che Gesù stava per arrivare a Gerusalemme, presero rami di palma e gli andarono incontro. 12

Quanto al secondo, consisteva in un estratto dal Vangelo di Matteo (12,1-9): Un giorno Gesù passava attraverso i campi di grano. Era sabato e i suoi discepoli strapparono alcune spighe e le mangiarono perché avevano fame. I farisei se ne ac-corsero e allora dissero a Gesù: «Guarda! I tuoi discepoli fanno ciò che la nostra legge non permette di fare nel giorno del riposo». Gesù rispose: «Ma non avete let-to, nella Bibbia, cosa fece Davide un giorno che lui e i suoi compagni avevano fa-me? Come sapete, entrò nel tempio e tutti mangiarono i pani offerti a Dio. Non a-vrebbero potuto mangiarli, perché la legge dice che soltanto i sacerdoti possono mangiare quei pani. Oppure non avete letto nei libri della legge di Mosè che cosa fanno i sacerdoti? Quando è sabato, essi nel tempio non seguono la legge del ripo-so, eppure non sono colpevoli. Ebbene, io vi assicuro che qui c’è qualcuno che è più importante del tempio! Se voi sapeste veramente il significato di queste parole della Bibbia: “Voglio la misericordia, non i sacrifici” non avreste condannato uo-

12 Nuovo Testamento, traduzione ecumenica. [La Bibbia. Traduzione interconfessionale, ElleDiCi-Alleanza Biblica Universale, Leumann (To)-Roma 1985, N.d.T.]

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mini senza colpa».

E in un estratto dal Vangelo di Marco (11,27-28): «E disse loro: “Il sabato è fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato, cosicché il Figlio dell’uomo è anche signore del sabato”».

Questi due documenti erano stati affidati all’autore, «dopo moltissime tergiversa-zioni», da un certo marchese di Chérisey.

Sembra che fossero la copia dei manoscritti consegnati da Béranger Saunière all’abate Bieil per essere tradotti. Come erano giunti in suo possesso quei fogli? Mi-stero!

Lasciamo la parola a De Sède: Feci subito due osservazioni: innanzitutto, al contrario della loro fattura arcaica, quei documenti non sembravano molto antichi. Inoltre, entrambi sembravano cifrati: nel testo del primo, sono state inserite cento-ventotto lettere supplementari che in sequenza non offrono alcun senso apparente; nel secondo, vi sono lettere sfalsate, altre sottolineate da un punto, da linee più o meno lunghe ecc.; infine, in entrambi figurano delle specie di geroglifici che po-trebbero essere chiavi di lettura. Li affidò a specialisti del Codice, i quali conclusero che erano «opera di un eccle-

siastico nutrito di Sacre scritture, amante del mistero e della fantasia». L’avremmo indovinato anche senza perizia crittografica! Notiamo che De Sède

non rivelò mai il messaggio contenuto nelle pergamene, e nemmeno se ce ne fosse realmente uno.

Fu lo stesso marchese di Cherisey, nell’ottobre del 1973, a proporne la lettura se-guente: Pastore, nessuna tentazione. Che Poussin, Téniers, custodiscano la chiave. Pax DCLXXXI. Per la croce e questo cavallo di Dio, finisco questo demone di guar-diano a mezzogiorno. Mele blu.

Non ci è di grande aiuto. D’altronde, qualche anno più tardi lo stesso marchese di Cherisey avrebbe confes-

sato che quelle copie erano false. Sapendo che i «veri documenti» erano scomparsi, avrebbe molto semplicemente consegnato a De Sède un documento cifrato conservato alla Biblioteca Nazionale!

Cosa concludere da tutto questo guazzabuglio? Per farcene un’idea, consultiamo un altro autore: Robert Charroux. Questi, che si proclama «Presidente del club inter-nazionale dei cercatori di tesori», ha pubblicato nel 1962 - dunque proprio all’inizio dell’affaire -, in Trésors du monde, le seguenti righe:

Ecco, secondo Corbu, cosa dovette accadere in seguito: Il curato cerca di decifrare i documenti; riconosce i versetti del Vangelo e la firma di Bianche di Castiglia col suo sigillo reale, ma il resto continua a essere un rebus. Dunque, nel febbraio 1892 va a Parigi per consultare qualche linguista, al quale per prudenza fornisce i docu-menti solo in modo frammentario. Non posso rivelare la fonte delle mie informa-

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zioni (è Noël Corbu a parlare), ma posso assicurare che si trattava del tesoro della Corona di Francia: diciotto milioni in cinquecentomila monete d’oro, gioielli, og-getti cultuali, ecc. 13

Affinché questo passo sia intelligibile, va precisato che Corbu - l’erede di Marie

Denarnaud, la serva del curato - aveva trasformato Villa Betania in hotel. Dunque, per far arrivare i turisti in quell’angolo sperduto, aveva tutto l’interesse a promuovere la leggenda del «Tesoro dell’abate Saunière».

Arrischiamo dunque la spiegazione più probabile: nel corso del restauro della chie-sa, il campanaro scorge qualcosa di sospetto e lo consegna al curato. Avendolo aper-to, si accorge che sono reliquie, e lo dice. Reliquie, cioè qualche pezzetto d’ossa privo di valore per la nostra mentalità materialista. Nel Medioevo non era così. I telespetta-tori che hanno visto il celebre feuilleton Les rois maudits 14 forse ricordano questo dialogo fra Carlo di Valois e Roberto di Artois:

«Cos’avete ricevuto dal re san Luigi?» «Niente. Mia zia Mahaut ha confiscato tutto quello che apparteneva a mio padre insieme alla mia eredità.» «Io possiedo un osso del suo tallone.» E mostra con fierezza il reliquario a forma di piede che lo conteneva. Si presume

che questa conversazione abbia avuto luogo alla vigilia della guerra dei Cent’anni. Ma il culto delle reliquie era ben precedente: così, in un passo della Chanson de Ro-land, è scritto che l’eroe aveva incastonato sull’impugnatura di Durandal, la sua spa-da migliore, un dente di san Pietro, sangue di san Basilio, capelli di san Denis e un lembo della veste di santa Maria 15.

Ogni parte del corpo, ma anche un lembo d’abito di un personaggio santificato, ve-niva riverito, aureolato di virtù taumaturgiche. I grandi centri religiosi, ma anche i principi e i re, desideravano vivamente acquisirne. Fatto ciò, li si disponeva in reli-quari spesso sontuosi, d’oro e pietre preziose. Il culmine in questo campo lo raggiun-se certamente san Luigi, che acquisì a peso d’oro alcuni frammenti della Santa Croce e della Corona di spine, e fece costruire la Santa Cappella per conservarli. Altrettanto spesso i nascondigli era assai più modesti, quasi segreti. In effetti, ci sono moltissimi esempi di traslazioni di reliquie dirottate dalla loro meta con la forza bruta. Anche numerose guerre private dovettero avere per oggetto il possesso di questo genere di ricchezze. Ma prima di sorridere con commiserazione di questa follia dei tempi pas-sati, pensiamo alle somme astronomiche raggiunte da certi carichi di droga, ai crimini generati da questo traffico, alla potenza, anche politica, dei cartelli che lo gestiscono. 13 Charroux, Trésors du monde, J’ai lu, Paris 1971. [Trad. it. I grandi tesori del mondo, Ed Mediter-ranee, Roma 1976, N.d.T.]14 Les rois maudits andò in onda nel 1971-72, per un totale di sei puntate, sul secondo canale nazio-nale francese. La regia era di Claude Barma [N.d.T.].15 «En l’oriet punt asez i ad reliques: / La dent seint Perre e del sanc seint Basilie, / E des chevels mun seignor seint Denise, / Del vestement i ad seinte Marie» (CLXXIII, 2345-2348) [N.d.T].

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E dire che, contrariamente alle ossa e ai vestiti dei santi e dei martiri, eroina, cocaina e cannabis non hanno alcuna dimensione salvifica, nemmeno benefica. L’uomo è il solo essere dotato di irrazionalità.

Questo per far comprendere che, quando una chiesa riusciva a procurarsi tali «teso-ri», spesso riteneva prudente nasconderli accuratamente. Nella chiesa di Santa Maria Maddalena a Rennes-le-Château erano nella «capsa», l’urna ricavata nel pilastro che sosteneva l’altare. Fu Antoine Captier, il campanaro, a scoprirli e a consegnarli al cu-rato, come sostiene lo stesso Gérard de Sède 16.

Quindi, se rammentiamo il vecchio detto: «Chi si è tagliato il dito a un’estremità della Grande Ruota, si ritrova amputato del braccio quando la notizia raggiunge l’altra estremità» 17, è piuttosto facile comprendere che fu questo fatto a dar vita alla leggenda delle pergamene. Leggenda che probabilmente si diffuse nella parrocchia molti anni dopo la scoperta delle reliquie, in un momento nel quale le sontuosità del curato cominciavano a far discutere. Poiché ai nostri giorni è difficile attribuire un va-lore a frammenti d’ossa, l’immaginario li sostituì con carte che si riteneva, per certo, fornissero la chiave di un favoloso tesoro. Mancava solo l’immaginazione di un al-bergatore, interessato a far arrivare i turisti, per dare consistenza a una voce infarcita di dettagli inverificabili.

D’altronde, va notato che l’abate Saunière potè dare inizio alle sue grandi spese so-lo cinque o, addirittura, dieci anni dopo la scoperta di questo sedicente gruzzolo.

Passiamo al libro dell’abate Boudet. Questi era il curato di Rennes-les-Bains, vil-laggio situato a qualche chilometro da Rennes-le-Château e, come quest’ultimo, ve-stigia dell’antica Rhedae. Noto erudito, conosceva perfettamente il greco, il latino, l’inglese e il sassone, e a quanto pare non aveva avuto alcun rapporto con Saunière, di una quindicina d’anni più giovane, prima dell’insediamento di questi in una delle par-rocchie vicine. Nel 1886, dunque un anno dopo l’arrivo di Saunière a Rennes-le-Château, l’abate Boudet fece stampare un libro che, in seguito, è diventato parados-salmente celebre: La vraie langue celtique et le cromleck de Rennes-les-Bains 18.

Cominciamo innanzitutto col precisare ai non iniziati che un cromlech è un cerchio composto da menhir. Il più celebre cromlech esistente è, beninteso, quello di Stone-henge, nella campagna inglese presso Salisbury. Non era certo l’unico; come è stato testimoniato, quello di Avebury, sempre in Inghilterra, lo superava: «Come una cat-tedrale supera una chiesa di paese». Ma venne distrutto dall’estensione del borgo di Avebury, che inizialmente era circoscritto dai menhir.

Il libro desta perplessità sin dal titolo. Cosa c’entra un monumento d’arte preistori-ca in un trattato di linguistica? Altra particolarità: sulla copertina del volume, sotto il titolo e il nome dell’autore, si trova la data di pubblicazione, «1886», circondata da

16 Gérard de Sède, Rennes-le-Château, le dossier, les impostures, les phantasmes, les hypothèses, Laffont, Paris 1988, p. 2217 II detto francese si riferisce all’ingigantimento che assumono le notizie nel corso della diffusione per passaparola [N.d.T].18 L’edizione moderna più recente è stata edita da C. Lacour, Nìmes 1999 [N.d.T].

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eleganti arabeschi. Non è abituale stampare in questo modo la data di pubblicazione di un’opera, e ancor meno farne un motivo d’ornamento. Notiamo fra parentesi che lo stampatore Pomiès che l’editò, che si riteneva avesse cessato l’attività nel 1880, in realtà continuò il proprio lavoro fino al 1888.

Il contenuto del libro non è meno stupefacente della copertina. L’autore vi afferma, in maniera molto seria, che la lingua celtica è il linguaggio primitivo dell’umanità e che si è mantenuta fino ai nostri giorni attraverso quelle lingue gemelle (!) che sono l’inglese e l’occitano. Tutte le altre lingue umane, senza eccezione, derivano da quest’idioma comune. Gli esempi forniti a sostegno di questa tesi sono divenuti cele-bri. Per esempio, Yaweh, il nome del Dio di Mosè, sarebbe stato formato dai pronomi personali inglesi, I, He, We, You (io, egli, noi, voi). Allo stesso modo, i Numidi do-vrebbero il loro nome all’abitudine di far pascolare le greggi in nuove praterie, new meads in inglese! Tutto il libro ha questo tono.

Tutto ciò è piuttosto strano, perché effettivamente l’abate Boudet era un erudito e alcuni suoi lavori, come le Recherches sur la phonétique des dialectes languedo-ciens19, furono accolti con favore dagli storici. Non stupisce dunque che alcuni ab-biano voluto cercare un messaggio segreto dietro la stravaganza del testo. E... perché no! Una mappa segreta. La loro opinione è confortata da una mappa che illustra il li-bro dell’abate e che rappresenta i dintorni di Rennes-les-Bains, in cui non figura il cromlech annunciato dal titolo... e a ragione! Non è mai esistito!

Perché redigere «un’opera crittografata di geografia» (Gérard de Sède), se non per rivelare all’iniziato o all’appassionato di misteri l’ubicazione di qualche tesoro? Per-ché non quello dell’abate Saunière? Si noti che le due parrocchie erano vicine, i due preti certamente si conoscevano e senza dubbio erano amici...

Gérard de Sède è l’autore che si è spinto più lontano in questa direzione. In Ren-nes-le-Château, asserisce che l’abate Boudet utilizzò lo stesso sistema crittografico, basato sul calembour e l’omofonia, usato da Jonathan Swift. L’autore dei Viaggi di Gulliver avrebbe così codificato due sue opere: il Discorso per provare l’antichità della lingua inglese, dimostrando con diversi esempi che l’ebraico, il greco e il latino sono state derivate dall’inglese e L’arte punica, arte del calembour, o il Fiore delle lingue in 79 regole.

Benissimo! Poiché il codice è stato svelato, quale messaggio fornisce il manoscrit-to decifrato? Ci è rivelato da un’opera precedente del decifratore stesso: Le trésor maudit de Rennes-le-Château. Eccolo nel suo senso letterale:

Gennaio: il maltempo ferma i lavori. Febbraio: il calore è sufficiente per determi-nare lo scioglimento dei ghiacci. Marzo: le piogge continue trasformano il terreno in palude. Luglio: differire le grandi riunioni, le assemblee. Agosto: i ruscelli ces-sano di scorrere. Settembre: desiderare di sotterrarsi, di rinchiudersi nelle caverne. Ottobre: affrettarsi coi lavori, coprirsi con vestiti di lana. Alba: l’uomo spossato dalla fatica. Mattino: camminare facilmente. Sera: correre in fretta verso casa. Un campo. Una fonte: cominciare ad affrettare la propria corsa. Una fontana: precipi-

19 In realtà il titolo è Remarques..., pubblicato in «Mémoires de la Société des Arts et Sciences de Carcassonne», t. VII, 1884-85 [N.d.T.].

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tare la corsa. Capanna: una selva di teste sotto lo stesso tetto; uccidere con uno spillo gli insetti disgustosi che pizzicano. Casa: meditare. Cantina: parte della casa in cui si potrebbe essere inebetiti a forza di bere. Tuono: vedere in alto il fulmine che è sicuro di nuocere. Tenebre: placare il brusio. L’occhio si chiude come a cau-sa di una botta. Pianti. Rifiutare il necessario. Rompersi la gamba. Gridare per l’orrore. Saccheggiare. Essere obbligato ad avere i capelli bianchi. Fare attenzione alle istruzioni: parlare un certo gergo all’esterno. Caritatevolmente il decifratore ci avverte che questo messaggio deve essere ancora

interpretato. Ecco ciò che ne risulta, secondo il suo parere: [Il luogo] è inaccessibile in alcune stagioni, occorre recarsi soli e con vestiti pesan-ti, bisogna partire all’alba, prima camminare faticosamente in altitudine, riprendere la marcia su un terreno più facile fino a che non si trovi un campo, poi una fontana, poi una malga popolata da pecore, in cui bisogna temere le punture delle zecche, si tratta di una caverna naturale, non ci si può avventurare sventatamente poiché l’ingresso è ostacolato da un pericoloso sifone, è pericoloso farsi luce, gli occhi la-crimano ma non bisogna strofinarli, c’è il rischio di rompersi una gamba, si assiste a uno spettacolo orrendo ma è possibile saccheggiare, se ne esce con i capelli bian-chi e allora si devono rispettare le istruzioni che ordinano di parlarne solo di nasco-sto.20

Ammettiamolo! Ma che razza di posto è? E perché vale la pena impegnarsi tanto

per trovarlo? Né il decifratore né, a quanto pare, il testo lo rivelano. E soprattutto, cos’ha a che vedere questo luogo con ciò che solitamente si chiama «il tesoro dell’abate Saunière»? Ancora una volta, niente lo indica.

A questo punto della nostra inchiesta, conviene tornare al buon senso. Secondo o-gni verosimiglianza, l’abate Boudet fece pubblicare la sua opera nel 1886. Perché? Senza dubbio perché quest’ultimo voleva presentarlo all’Académie des Sciences, In-scriptions et Belles-Lettres di Tolosa, nella speranza di ottenere la medaglia d’oro. Nel 1887, il relatore dell’istituzione rifiutò educatamente l’opera: «L’Accademia, pur riconoscendo in questo volume una quantità tale di lavoro che merita rispetto, non crede di dover consacrare con una ricompensa un sistema di ricostruzione storica tan-to ardito quanto inedito».

Ma si dirà: un erudito affermato può vaneggiare in questo modo? Dopo aver fre-quentato ambienti ufologici ed esoterici, siamo in posizione favorevole per testimo-niare che la cultura, l’erudizione, non sono incompatibili col delirio interpretativo. Bisogna anche dire che un libro pubblicato nel 1886 è stato necessariamente scritto mesi, se non anni, prima di quella data. Ora, Béranger Saunière arrivò nella sua par-rocchia d’esilio solo a metà del 1885. Al momento della pubblicazione, si dibatteva fra le peggiori difficoltà finanziarie. L’abate Boudet stesso non si fece mai notare per capricci voluttuari come il suo vicino. Generoso ma povero, conduceva una vita asso- 20 De Sède, Le trésor maudit cit., pp. 116-117.

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lutamente edificante con la madre e la sorella, consacrando il suo tempo libero, oltre che ai lavori d’erudizione, a vangare l’orto e a fare spedizioni archeologiche nella campagna della parrocchia. Come nota molto giustamente Jean-Philippe Camus:

Se l’abate Boudet non fosse stato prete a Rennes-les-Bains, la sua opera sarebbe caduta nell’oblio più totale; nessuno avrebbe sostenuto che racchiudesse la chiave per trovare un tesoro. Ma ecco, l’abate Boudet esercitava il suo ministero ad appe-na qualche lega dal suo collega, l’abate Saunière. Quindi, secondo alcuni, doveva essere immischiato nell’affaire.21

Passiamo a un altro mistero, quello del famoso viaggio che Béranger Saunière a-

vrebbe fatto a Parigi, a quanto sembra per far esaminare le pergamene. Fu il vescovo di Carcassonne, monsignor Billard, a mandarlo. A priori sembra bizzarro: non avreb-be potuto semplicemente inviare i documenti alle persone competenti per posta, con una lettera di chiarimento? Si noti che, nel XIX secolo, le poste erano molto più dili-genti e sicure di oggi.

Questo viaggio, che assunse tanta importanza nella letteratura relativa a Rennes-le-Château, si ritiene avesse avuto luogo nel 1891 o nel 1893, ma non si trova una ra-gione valida per privilegiare un anno piuttosto che un altro. Da parte sua, Béranger Saunière negò sempre di essere stato a Parigi.

In breve, secondo la tradizione, inviato dal suo Vescovo, il curato dell’Aude fu o-spitato dell’abate Bieil a Saint-Sulpice. Questi gli presentò suo nipote Ané, un editore religioso, nonché suo pronipote Émile Hoffet. Anche quest’ultimo, che aveva appena vent’anni, era entrato negli Ordini, in qualità di fratello oblato. Sin qui tutto assolu-tamente normale. Ciò che sorprende maggiormente è il seguito della carriera di que-sto giovane prete. Dopo essere stato curato della chiesa della Trinità, diverrà membro del servizio di documentazione del Vaticano. Dirigerà anche la rivista «Regnabit», al-la quale collaborò René Guénon22. All’epoca, si dice che Émile Hoffet parlasse già diverse lingue e fosse iniziato alla paleografia e alla crittografia. Paradossalmente, Béranger Saunière e l’abate Bieil non affidarono a lui i documenti da decifrare.

Ma è forse grazie a Émile Hoffet, che scriverà parecchie opere sulla massoneria e i rosacroce, che il curato di Rennes-le-Château fu messo in contatto con la celebre can-tante lirica Emma Calvet? È possibile, poiché questa «Callas dell’epoca» era un’appassionata di esoterismo. Visto che frequentava celebri occultisti, come Flam-marion, Richer, Rochas, Encausse e Péladan, se ne desume facilmente che l’abate Saunière fosse stato introdotto nei circoli esoterici più esclusivi di Parigi. Come se non bastasse, si attribuì al povero curato di campagna una relazione con la bella arti-

21 Jean-Philippe Camus, L’énigme de Rennes-le-Château enfin résolue, «L’Inconnu», n. 275, agosto 1999.22 «Regnabit. Revue universelle du Sacré-Cœur» fu pubblicata dal 1921 al 1929 a Parigi. Gli scritti di René Guénon per la rivista, datati 1925-1927, sono riprodotti in facsimile in Écrits pour «Regna-bit», a cura di PL. Zoccatelli, Arché-Nino Aragno, Milano-Torino 1999 [N.d.T.].

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sta. Béranger Saunière emulo di Aramis e di Nicolas Flamel23! Come se non bastasse, lo si fece un affiliato all’ordine della Rose-Croix Catholique, du Temple et du Graal, fondato nel 1891 proprio da Joséphin Péladan, detto «il Sâr»24. A meno che non fosse affiliato all’Ordre Kabbalistique de la Rose-Croix, fondato l’anno precedente dal marchese Stanislas de Guaita e dal dottor Gérard Encausse detto Papus. È comunque molto per un soggiorno di qualche settimana a Parigi.

Quale fu il risultato di questa spedizione? Apparentemente nessuno, poiché il cura-to di Rennes-le-Château riguadagnò il suo villaggio senza i documenti (d’altronde, non si sa se fossero due, tre o quattro) e, a quanto sembra, né meglio informato né più ricco che alla partenza, visto che deve accettare dal vescovado una somma di 2000 franchi come rimborso di quei manoscritti.

Ma che prove abbiamo di questo ipotetico soggiorno nella capitale? Nessuna! Gé-rard de Sède nomina effettivamente una foto dell’abate Saunière scattata, pare, al 27 di Rue du Faubourg Montmartre, da Vaugon, che avrebbe fatto ritoccare da un foto-grafo di Limoux: G. Mas. In ciò vede la prova che il prete ha voluto dissimulare il suo viaggio a Parigi. Ma piuttosto non avrebbe fatto ritoccare da un atelier parigino una foto di Limoux? Inoltre, secondo alcuni, è Alfred Saunière e non Béranger a comparire nella foto di Montmartre. In ogni caso, i due scatti sono molto diversi: quello di Parigi rappresenta il soggetto di tre quarti, quello di Limoux lo mostra di profilo.

Allora? Segnaliamo che la fonte di questa storia è ancora Noël Corbu, che dice di citare alcune confidenze di Marie Denarnaud, la serva del curato. E abbiamo visto che aveva tutto l’interesse a infiorare la verità. Ricordiamo che nessun contempora-neo di Béranger Saunière ha mai parlato di pergamene.

(Un solo abitante di Rennes-le-Château raccontò ai giornalisti di aver assistito a questa scoperta: Antoine Verdier. Il solo problema è che, nato nel 1886, non aveva nemmeno l’età per fare il chierichetto quando avvenne il presunto ritrovamento.)

Quel che diede credito a questo mitico viaggio è il fatto che, più tardi, al momento di Villa Betania e dello splendore di Béranger Saunière, ricevesse oltre alla grande Emma Calvet (o Calvé), Papus (Gérard Encausse), Sâr Mérodack (Joséphin Péladan) e la marchesa di Bourg di Bozas (è lei che si riteneva fosse l’amante di Alfred Sau-nière). Ma il curato di Rennes-le-Château non doveva necessariamente averli incon-trati a Parigi. In effetti, tutte queste personalità erano originarie della Linguadoca e spesso tornavano nella loro provincia natale, come Emma Calvet, nata e morta in A-veyron.

Niente impedisce quindi che Béranger Saunière li abbia incontrati senza lasciare la regione.

Fino al 1891, dunque, contrariamente alla tradizione, nulla permette di pensare che Béranger Saunière abbia fatto una scoperta insolita, e nemmeno che abbia lasciato l’Aude o incontrato personalità inabituali per un curato di campagna. E un semplice

23 Nicolas Flamel (1330-1418) fu un noto alchimista e cabalista francese. Cfr. Œuvres, Belfond, Pa-ris 1973 [N.d.T.].24 «Gran Maestro» [N.d.T.].

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sacerdote che vive miseramente e tenta di migliorare gli arredi cultuali della propria parrocchia. Ma nel 1891 - e questa volta possiamo datarlo con precisione - si produce una serie di eventi ai quali la posterità, forse a torto, avrebbe conferito una grande importanza.

Il primo di questi eventi è menzionato nel diario dell’abate in data 21 settembre, col laconismo che gli è abituale: «Lettera da Granès (un villaggio vicino). Scoperta di una tomba. La sera, pioggia».

Contrariamente a ciò che afferma Patrick Mensior, non è affatto provato che questa tomba fu scoperta nella chiesa. Innanzitutto, è inconcepibile che abbia potuto restare segreta fino a oggi, poiché in seguito l’edificio è stato oggetto di ricerche ufficiali o di frodo. Non dimentichiamo che il sito dell’antica Rhedae, di cui le due Rennes non sono che insignificanti vestigia, fu vasto e dovette comprendere cimiteri e necropoli. Del resto, è assai poco probabile che, se il curato avesse fatto questa scoperta nella chiesa, non precisasse il luogo dov’era avvenuta - nel coro, sotto l’altare, sotto l’acquasantiera, ecc. Infine, lo stesso abate Saunière sembra aver attribuito poca im-portanza al fatto, poiché lo menziona senza commenti, fra una banale lettera e un ac-quazzone che non è da meno.

Il secondo di questi episodi è l’annotazione, sempre nel diario del curato: «Visto il curato di Névian. Da Gélis. Da Carrière. Visti Cros e Secret», in data 29 settembre 1891.

Gélis è il curato della vicina parrocchia di Coustaussa. Il curato di Névian non sembra essere coinvolto nell’affaire. Il suddetto Carrière è rimasto sconosciuto. Sau-nière conosceva due Cros: Ernest, ingegnere e archeologo, di cui s’è voluto fare un suo amico benché fosse massone, e il vicario generale del vescovado. In questo caso, il famoso Secret non era Guilhelm, il segretario del vescovado? E stato obiettato che, quando ne parlava, Béranger Saunière scriveva «Secrét». L’obiezione non ci pare convincente. L’abate scriveva in fretta, al termine di una giornata piena e in uno stile volutamente sintetico. Al contrario, a favore dell’identificazione di Secret con Guil-helm c’è il fatto che «Secret» è scritto con la maiuscola e, soprattutto, è affiancato a Cros, il vicario generale. Non è affatto strano che Béranger Saunière abbia incontrato insieme i due uomini nel corso di una visita al vescovado. Si sarà semplicemente di-menticato di mettere un accento nella sua abbreviazione.

Dopo le riserve che abbiamo appena avanzato, il terzo evento di questo «indimen-ticabile 1891» (De Sède) può far sorridere. Si tratta di due illustrazioni ritagliate dal giornale «La Croix» e incollate su un foglio. La prima rappresenta tre angioletti che portano un neonato verso il cielo. Legenda: «L’anno 1891 portato nell’eternità col frutto di cui si parla qui sopra».

La seconda, che la completa, mostra i tre Magi che offrono al bambin Gesù oro, incenso e mirra.

In modo abbastanza sconcertante, i diversi autori che si sono appassionati all’enigma di Rennes-le-Château sembrano aver completamente negletto il grande evento di questi anni nella vita di Béranger Saunière. In effetti, il vescovo - sempre monsignor Billard - gli affidò, oltre a Rennes-le-Château, la vicina parrocchia di An-tugnac, il cui curato era appena andato in pensione. Tutte le domeniche, dal maggio

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1890 al giugno 1891, il nostro prete copre dunque a piedi la decina di chilometri che separano Rennes da Antugnac. Doveva attribuire una certa importanza a questa nuova missione, poiché conservò la redazione delle sue prediche in questa parrocchia con il titolo: Mon enseignement à Antugnac25.

Perché ci tenne a conservare il testo delle prediche agli abitanti di Antugnac e non il testo di quelle che rivolgeva ai propri parrocchiani? Si trattava di un messaggio ci-frato?

Notiamo che, il 21 giugno 1891, una statua di Nostra Signora di Lourdes fu eretta sul famoso pilastro visigoto davanti a tutto il villaggio’ e in presenza di padre Ferra-fiat. Quest’ultimo faceva il giro dei villaggi per incitare i fedeli alla penitenza e all’approfondimento della fede. Pratica molto corrente nei secoli scorsi e che pare es-sere caduta in disuso dopo l’ultimo Concilio. Questo spiega, al contempo, l’iscrizione «Penitenza! Penitenza!» ai piedi della statua e quella della placca che reca l’iscrizione: «Missione 1891».

Ancora una volta, qui non è il caso di subodorare alcunché di misterioso. Le «mis-sioni» nella Francia di un tempo erano eventi considerevoli che influenzavano molto le coscienze. Anche solo per questa ragione, l’anno 1891 meritava una menzione spe-ciale nella memoria del curato d’allora.

Quello che più concretamente ci interessa fu un evento che dovette avvenire in quello stesso anno. In effetti, nel 1911, al momento delle sue noie col vescovado, l’abate Saunière inviò al vicario generale, fra i giustificativi dei suoi introiti, la preci-sazione seguente: «Famiglia ospitata a casa mia da vent’an-ni, composta da padre, madre e due bambini, 52.000 franchi». Non può che trattarsi della famiglia Denar-naud che, alloggiata in un appartamento troppo piccolo, si sistemò nel presbiterio, contribuendo finanziariamente alle spese di vitto e alloggio. All’epoca, nella profonda Francia, questo genere di sistemazione non era rara e non scioccava nessuno.

Senza dubbio Rose Sylvestre, la zia di Béranger Saunière, era deceduta o era parti-ta. Fu allora, verosimilmente, che Marie Denarnaud, figlia della coppia, di 23 anni (e non 18 come sostengono alcuni autori), prima cappellaia a Espéraza, divenne la sua governante. Non lo lascerà mai più.

Chiunque abbia vissuto in un paesino sa che a una giovane «perpetua del curato» si attribuisce subito una relazione con quest’ultimo. Perciò dalla notte dei tempi la Chiesa interdice la coabitazione di un prete con una donna che non sia in «età canoni-ca». Se Béranger Saunière si illuse che il fatto di accogliere tutta la famiglia dovesse preservarlo dallo stesso sospetto, doveva andare incontro a una cocente delusione. In effetti, tutta la vulgata dell’affaire di Rennes-le-Château afferma che Marie Denar-naud fu la sua amante. La sua «madonna», diranno i paesani! Stando ai fatti, nulla permette di confermare questa relazione. È fuor di dubbio che intrattennero relazioni di affetto e confidenza, addirittura di complicità, poiché Marie accettò di fungere da prestanome per il curato, ma è avventuroso affermare che andarono oltre.

Fino a quest’epoca, e defalcati gli elementi che si innestarono in seguito sulla leg-genda, la vita di Béranger Saunière era stata quella di un curato molto ordinario. Ma è 25 Béranger Saunière, Mon enseignement à Antugnac (1890), Bélisane, Nice 1984 [N.d.T.].

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intorno a quegli anni che il suo comportamento cominciò a divenire sorprendente. In effetti, spesso accompagnato dalla sua serva, percorre per giornate intere i dintorni del villaggio con una gerla sulla schiena. La sera, quando riguadagna la parrocchia, sembra portare sulle robuste spalle un carico pesante quanto la croce di Cristo. Alle sue pecorelle che lo interrogano, risponde che vuole costruire una grotta di pietre, vi-cino alla chiesa. Grotta di Lourdes o grotta di Maria Maddalena? Non lo precisa. E quando gli si obietta che sotto mano ha in abbondanza pietre che invece va a cercare molto lontano, ribatte che necessita di pietre di dimensione e forma particolari.

In effetti, visto che con le proprie mani costruì una grotta vicino al cimitero, la cu-riosità dei parrocchiani non si spinse oltre. Parallelamente, costruì una piccola casetta sopra un pozzo, che utilizzava come uno studio e che chiudeva sempre accuratamente a chiave quando non era presente. Tutto ciò diverrà sospetto solo molto più tardi.

Ciò che mise la pulce nell’orecchio agli abitanti di Rennes, furono le attività not-turne del prete. Notturne e, per di più, nel cimitero. Incrociando testimonianze molto tarde, sembra che, senza chiedere a nessuno l’autorizzazione, abbia trasportato i resti di tombe più o meno abbandonate in un ossario situato all’estremità del cimitero.

La grotta costruita dall’abate Saunière

Era doppiamente sconveniente poiché, legalmente, non aveva autorità sul cimitero. Il Comune gli ordinò di lasciare le cose allo stato originario. Béranger Saunière con-tinuò, prestando per la prima volta il fianco all’accusa di satanismo. I paesani sporse-ro denuncia alla prefettura e, senza dubbio, anche al vescovado. Una di queste denun-ce è stata conservata in tutto il suo tono pittoresco:

Signor Prefetto, Non siamo affatto contenti che il cimitero funzioni, soprattutto nelle condizioni in cui è stato finora? Se ci sono croci, vengono portate via, anche le pietre sulle tom-be, e nello stesso tempo questo presunto lavoro non consiste né in riparazioni né in niente (sic). Questa denuncia è datata 14 marzo 1895. Prima di arrivare a ciò che sembra essere

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il nocciolo di questa storia (la questione delle stele), riferiamo la risposta del pastore alla moglie26. Ebbe luogo esattamente quattro mesi più tardi. Il 14 luglio, in effetti, un incendio scoppiava nel fienile presso la chiesa. I pompieri, vista l’urgenza e l’assenza del curato, forzarono la porta del locale per accedere al pozzo. Al suo ritorno, Béran-ger Saunière prese malissimo la cosa e già l’indomani sporse denuncia al commissa-riato di Couiza per violazione di domicilio. Purtroppo i pompieri non ci hanno lascia-to una descrizione di quello «studio».

Torniamo alle stele, che rappresentano senza dubbio l’aspetto più intrigante dell’affaire di Rennes-le-Château. La prima, detta «la stele», è celebre per l’incoerenza del suo epitaffio, in cui si rilevano almeno dieci errori. Era eretta vicino al campanile della chiesa di Santa Maria Maddalena, sulla tomba delle signore di Hautpoul-Blanchefort, un tempo signori di Rennes. La seconda, che chiameremo la «lapide orizzontale», si ritiene che avesse ricoperta la medesima tomba. Constatere-mo che l’iscrizione che vi figura non è meno cabalistica.

Dopo la pubblicazione del primo libro su questo affaire, quello di Gérard de Sède, si è convenuto che Béranger Saunière avrebbe consacrato buona parte delle sue attivi-tà notturne a raschiare e levigare con la pietra pomice queste due pietre per farne spa-rire le iscrizioni. È quindi facile concludere che dovevano racchiudere una sorta di messaggio in codice la cui decifrazione avrebbe condotto il curato di Rennes-le-Château alla ricchezza. Una fortuna che avrebbe voluto rendere inaccessibile cancel-lando la pista che l’aveva condotto a essa.

Ma in questa storia nulla è semplice. La stele, che si presume distrutta dall’abate Saunière nel 1895, fu riprodotta da Elie Tisseyre nel «Bulletin de la Société d’études scientifiques de l’Aude» nel... 190627. E questa riproduzione che presentiamo ai no-stri lettori.

Quanto alla lapide, il suo caso è ancora più misterioso. La rappresentiamo secondo il modello che De Sède ha fatto figurare nelle sue prime opere. Sostiene di averlo tro-vato in Eugène Stublein (nella sua opera Pierres gravées du Languedoc28) a cui sa-rebbe stato trasmesso da un certo R. Chésa. Vale a dire che la sua provenienza è dub-bia. Non sapremmo nemmeno se questo rebus pietrificato ricopriva proprio la tomba della marchesa, se una conferma parziale non ci venisse da un commensale dell’abate Saunière: l’ingegnere Ernest Cros, che era un appassionato di archeologia.

Questi, scandalizzato dal vandalismo dell’ecclesiastico, aveva tentato di ricostruire il testo della stele interrogando i paesani. Certo, con tutte le note incertezze concer-nenti la testimonianza umana. In conclusione, il lavoro di Cros confermerebbe l’incisione di quattro parole: reddis, cellis, regis, arcis, con un tratto verticale che li separava, il segno P.S. e l’iscrizione Praecum. Il polipo, così come le lettere greche 26 Il riferimento degli autori è di doppio livello: da un lato richiama il ruolo «pastorale» dei sacerdo-ti cristiani, secondo la metafora evangelica; dall’altro sfrutta un’espressione idiomatica francese, che indica una risposta che chiude la discussione, N.d.T.27 Elie Tisseyre, Excursion du 15 juin 1905 a Rennes-le-Château, in «Bulletin de la Société d’études scientifiques de l’Aude», t. XVII, Carcassonne 1906 [N.d.T.].28 Eugène Stublein, Pierres gravées du Languedoc, Limoux 1884 [N.d.T.].

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che compongono la frase latina Et in Arcadia Ego, non figura in questa ricostruzione.

La stele verticale

I testimoni affermarono pertanto al ricercatore: «C’erano altre lettere verticali, ma non vi possiamo dire cosa volevano dire, non ci abbiamo mai capito niente. Ci hanno detto che era greco». Ernest Cros avrebbe commentato nelle sue note: «Personalmen-te non penso fosse greco, ma segni cabalistici templari».

Una conferma indiretta della realtà di questa iscrizione in greco ci è fornita dall’arredamento dell’abate Saunière. In effetti, aveva decorato i suoi appartamenti privati con tre quadri. Il primo era un ritratto di papa Celestino V, il secondo era il Sant’Antonio Eremita di David Téniers e il terzo I pastori d’Arcadia di Poussin29.

Quest’ultimo rappresenta, in un paesaggio montano, una donna e tre pastori davan-ti a una tomba. La donna pare essere stata condotta in quel luogo dai suoi compagni. Uno di questi è vestito di blu, l’altro di bianco, il terzo di rosso. Gli ultimi due sono coronati da frappe e hanno un bastone in mano. Il primo, inginocchiato a terra, indica l’iscrizione latina: Et in Arcadia Ego (Ero in Arcadia).

Molti autori hanno costruito su questa tela le ipotesi più stravaganti. Alcuni hanno addirittura voluto cercare nei dintorni di Rennes-le-Château la tomba e il paesaggio che servirono da modello al pittore. Notiamo semplicemente che questa tela fu dipin-ta nel XVII secolo e che la tomba in questione fu costruita per la famiglia Galibert nel... 1903. Sicuramente v’è una certa somiglianza paesaggistica. Ma questo non è certamente unico.

Non è più semplice immaginare che, conoscendo questa iscrizione grazie alla stele

29 David Teniers il Giovane (1610-1690), La tentazione di Sant’Antonio (1640-50), Museo del Lou-vre, Paris. Nicolas Poussin (1594-1665), I pastori d’Arcadia (1629-30), Museo del Louvre, Paris [N.d.T.].

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del cimitero, l’abate Saunière, colpito per averla ritrovata su un quadro, abbia voluto comprarne una riproduzione? (L’originale, acquistato da Luigi XIV, si trova in depo-sito al Louvre.) Notiamo ancora che si è preteso che l’abate Saunière avesse sicura-mente acquistato i tre quadri nel corso del suo ipotetico viaggio parigino. Nulla per-mette di confermare questa teoria.

La lapide orizzontale «Qui giace la nobile M / arie de Nègre / Darles dama / Dhaupoul de /

Blanchefort / dell’età di ses / santasette anni / deceduta il / 17gennaio/ 16[o]81 / Requies Catin / Pace»

Insistiamo su un fatto: i vari fatti avvenuti nel 1895, e solo loro, possono essere collegati all’improvviso arricchimento dell’abate Saunière. In effetti, a partire da que-sto momento si lancia in grandi spese. La chiesa e il presbiterio furono interamente rinnovati. Fece innalzare un calvario all’esterno della chiesa, facendolo spostare tre volte affinché fosse ben allineato all’altare di Santa Maria Maddalena. Altri lavori trasformano la chiesa, viene allestita una nuova Via Crucis, si lastrica a scacchiera il pavimento.

Scultori e pittori sono all’opera. Dettaglio inatteso: al di là del suo zelo pietoso, fa sistemare una stanza segreta adiacente alla sacrestia, alla quale si può accedere solo attraverso un falso armadio a muro: uno «studio» destinato a restare ignoto ai pom-pieri? Infine, il 6 giugno 1897, alla festa di Pentecoste, monsignor Billard viene so-lennemente a inaugurare il complesso.

Il Vescovo di Carcassonne ebbe la curiosità di domandare al suo subordinato dove si era procurato il denaro necessario? Ne aveva tutte le ragioni: le fatture note per i

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vari lavori ammontano a un totale di 15.346,40 franchi. Si noti che il Comune di Rennes-le-Château aveva autorizzato l’erezione del calvario sin dal 1891, ma lo si era potuto inaugurare solo sei anni più tardi. Si può dunque pensare che l’abate Saunière, come fa la maggior parte delle persone a corto di denaro quando dispone di entrate ingenti, abbia innanzitutto voluto realizzare i progetti che accarezzava da tempo e che la sua indigenza non gli aveva permesso di mettere in pratica.

A partire dal 1898 e con la mediazione di Marie Denarnaud, Béranger Saunière comincia ad acquisire terreni nel villaggio, come preludio a nuovi progetti. Nell’aprile del 1900 riceve il permesso di costruire Villa Betania. A tre piani, in stile rinascimentale, è destinata ad accogliere gli invitati del curato, mentre egli resta mo-destamente nel presbiterio, dall’altra parte del cortile. Le camere sono graziose e ben ammobiliate. La costruzione è completata nel 1902. Per erigerla, si erano dovute ac-catastare numerose carrettate di terra friabile. Inoltre, fu adornata da un parco e da

serre. Appena fu terminata, l’abate Saunière mise in cantiere la torre Magdala. In stile

neogotico, merlata e fiancheggiata da una guardiola, era destinata a contenere la bi-blioteca dell’abate. Vi lavorano 17 operai, pagati e nutriti dal committente. L’opera sarà completata da una terrazza a forma di cammino di ronda semicircolare che do-mina la falesia di Rennes-le-Château. Per rilegare le opere - più di mille - destinate ai due piani di questa incredibile biblioteca, il curato fa venire a sue spese uno speciali-sta da Castelnaudary, Henry Barret. Per riporle ordina a Carcassonne, da Noubel, mobili in quercia massiccia. Oltre a questa biblioteca, che probabilmente sognava da tempo, l’abate è un collezionista. Finirà per possedere circa 10 mila cartoline e quasi 100 mila francobolli. Un fotografo si sistemò da lui per ritrarre tutti i siti interessanti del paese e l’abate non esitò affatto a ordinare a Parigi, da Zion, apparecchi fotografi-ci di alta precisione. Inoltre, si costruì un parco comprendente piscine, un aranceto e un serraglio di animali esotici.

Quanto gli venne costare quella tenuta? Un milione dell’epoca, stima Gérard de Sède nella sua prima opera, ma non fornisce alcun conto a sostegno della sua tesi. Nel facsimile di una minuta pubblicato in Rennes-le-Château, nel 1988, riporta la spesa a proporzioni più ragionevoli: Villa Betania è stimata 90 mila franchi, la torre Magdala 40 mila, le terrazze e il parco 19.050, la sistemazione dell’interno 5 mila e il mobilio 10 mila. Ossia un totale di 164.050 franchi. Che non è affatto male per uno stipendio annuale di 900 franchi.

Ma ciò che non svelava questo inventario, che pare fosse destinato a essere indaga-to da monsignor De Beauséjour, è lo stile di vita che ormai conduceva questo curato di campagna. Come s’è detto, a Villa Betania accoglieva il bel mondo e c’era sempre posto a tavola, sia per gli operai dei suoi cantieri che per gli invitati di riguardo. A due riprese, alcuni archeologi della Société d’études scientifiques de l’Aude furono suoi ospiti e l’impressione estasiata che lasciò loro la sua «oasi» si coglie nella de-scrizione che ne fecero nei loro bollettini degli anni 1906 e 1909. Emma Calvet, s’è detto, il Segretario di Stato alle Belle Arti, Dujardin-Beaumetz, la marchesa di Bourg di Bozas, la donna di lettere Andrée Bruguière, detta viscontessa di Artois, furono i suoi ospiti più noti. Per riceverli, Marie Denarnaud si atteggia a padrona di casa, ag-

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ghindata con i vestiti più eleganti. E le spese per cibi e bevande sembrano faraoniche. Fattura del 1 novembre 1900:

1 fusto di rum della Martinica in cassa ABC n. 1031: 45 litri a 2 franchi = 90 franchi 50 litri di rum a 2,35 franchi = 117,35 franchi (rum perfetto, quasi d’annata) 33 litri di vino bianco Haut Barsac 33 litri di Malvasia 17 litri di china dorata 53 litri di Banyuls 12 litri di moscato Altre fatture: il 17 aprile 1910: Vino prelibato Salté = 96,90 franchi; il 5 maggio

1919: 220 litri di Banyuls = 135 franchi. A Rennes-le-Château, il vino per la messa doveva dare un’idea di quello di Cana. Mentre nei dintorni del villaggio i terreni erano aridi e secchi, nell’orto del curato

crescevano «legumi da far ingelosire i nostri ortolani». Certo: piscine, parco dei di-vertimenti e orto erano alimentati da tre immense cisterne. Il curato si incaricava an-che di allietare il villaggio con feste. Così, per l’inaugurazione della statua di Nostra Signora di Lourdes, che aveva fatto erigere sulla piazza della chiesa: «Scoppiò un immenso fuoco d’artificio; tutto intorno al sagrato, legati da una miccia Bickford, Saunière aveva disposto numerosi petardi le cui salve riecheggiarono a diverse leghe di distanza» (Gérard de Sède).

Detto ciò, prima di credere di essere piombati nell’atmosfera del Conte di Monte-cristo o delle Mille e una notte, bisogna smorzare la leggenda del «Curato di Rennes-le-Château». Innanzitutto ricordiamo che Dujardin-Beaumetz, prima di occuparsi del-le sue funzioni ministeriali, fu consigliere generale di Couiza, il capoluogo del canto-ne di Rennes-le-Château. Dunque, non stupisce che abbia fatto la conoscenza di Bé-ranger Saunière. Allo stesso modo, molti autori parlano di una relazione che avrebbe stretto con Emma Calvet, alcuni insinuando addirittura che le doveva la sua fortuna, altri pensando, al contrario, che lei beneficiò della sua generosità. Ora, mentre l’abate corrispondeva regolarmente con i suoi conoscenti, non si è ritrovata alcuna lettera in-viata alla cantante lirica o viceversa. Nelle sue memorie, Sous tous les ciels, j’ai chanté30, la cantante non fa mai allusione al prete; è vero che è molto discreta in me-rito alla sua vita privata. Constatando che il solo legame fra questi due personaggi so-no «due vignette dei cioccolatini Guérin-Boutron decorati col ritratto della diva», Mensior dubita addirittura che si siano mai conosciuti.

Un altro mistero è quello dello «Straniero», il «signor Guillaume», «Jean Orth», identificato da tempo con l’arciduca Jean Salvator di Habsbourg-Lorraine. Questo personaggio, nato principe di Toscana ma cresciuto a Vienna dopo che il padre ebbe perduto la corona, fu amico intimo dell’arciduca Rodolfo, figlio dell’imperatore Francesco Giuseppe e di Sissi. In effetti, questi due arciduchi avevano simpatie «di

30 Emma Calve, Sous tous les ciels, j’ai chanté, Plon, Paris 1945 [N.d.T.].

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Sinistra», per cui erano mal visti a corte. Si sa come l’erede al trono si suicidò con la sua amante a Mayerling. In seguito a questo dramma, Jean Salvator cadde in disgra-zia: era rimproverato di aver avuto un’influenza nefasta sul cugino e forse di averlo indirettamente portato a quel destino funesto.

Decaduti i titoli e le prerogative, cominciò a viaggiare sotto lo pseudonimo di Jean Orth, dal nome del suo castello di Orth, nel Salzkammergut, dove aveva ammassato un autentico tesoro in opere d’arte. Avrebbe potuto, in un momento qualunque, spin-gersi fino a Rennes-le-Château? Le date si oppongono: in effetti, l’arciduca si imbar-cò a Portsmouth sulla goletta «Santa Margharita» il 26 marzo 1890, per (verosimil-mente) morire nel naufragio della nave nei dintorni di Capo Horn, nel luglio dello stesso anno. 1890! Quindi, prima dell’arricchimento improvviso di Béranger Sauniè-re, prima addirittura del suo ipotetico viaggio a Parigi.

Dunque, la storia di Jean Orth commensale dell’abate è solo un mito? Non traiamo conclusioni affrettate! Esiste un altro Jean Orth, lussemburghese, che grazie al suo nome fu confuso per tutta la vita col famoso arciduca. Come quest’ultimo, era un grande viaggiatore e un illuminato amante dell’arte. Finì assassinato in Egitto, in cir-costanze piuttosto misteriose, nel 1921. Potrebbe aver incontrato l’abate Saunière - forse - per acquistare da lui gioielli e opere d’arte? È possibile, ma niente permette di rispondere a questa domanda, in un senso o nell’altro.

E c’era anche Alfred Saunière, suo fratello, la cui vita non fu affatto edificante. Sempre in stretto contatto col fratello maggiore, il gesuita della famiglia si vide so-speso dalle sue funzioni religiose nel 1903, in seguito a uno scandalo: aveva avuto un figlio dalla sua amante, una certa Émilie Salière. Assai addolorato, si spense a Mon-tazels, il suo paese natale, due anni più tardi.

Fu questo episodio a dar vita alle voci secondo cui avrebbe avuto una relazione con la marchesa di Bozas, una delle ospiti di Villa Betania? Lo si accusò anche di disone-stà: precettore della famiglia Chefdebien, avrebbe rubato alcuni documenti dagli ar-chivi della famiglia. Sarebbe stato interessante conoscere la data precisa di quel furte-rello, poiché questa famiglia nobile, legata, come gli Hautpoul-Blanchefort, alla sto-ria del Razès, avrebbe effettivamente potuto detenere informazioni. .. utili ai cercatori di tesori. Ma non si è mai conosciuto questo dettaglio, e nemmeno ottenuto la prova del furto.

Altro episodio: l’istitutore Jamet fu accusato di aver ricattato Béranger Saunière. L’unico fatto che permetterebbe di dare credito a quest’accusa è che l’interessato potè acquistare una tenuta grazie alla liberalità dell’abate. Certo, all’epoca preti e «ussari della Repubblica» erano spesso rivali, ma è veramente escluso che quest’ultimo abbia potuto ispirare al curato una stima sufficiente per ottenere il suo aiuto disinteressato?

Altro aspetto dell’esistenza di Béranger Saunière durante questi anni: misteriosi viaggi che lo tennero distante dalla sua parrocchia a volte per diversi giorni. Certo, nemmeno a un prete è vietato spostarsi dove vuole, ma quando lascia il villaggio, «munito di una valigia così pesante che, a volte, la porta sulle spalle come una croce, altre volte, la carica a dorso d’asino» (De Sède), si converrà che è intrigante. Avrebbe mandato a diverse persone lettere impostate a Perpignan, Nizza, Lons-le-Saunier, Valenciennes... tutte città di frontiera.

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Robert Charroux ha conservato una di quelle lettere indirizzate a Marie Denarnaud: «Mia piccola Marinette, come stanno le nostre bestie? Fai una carezza a Faust e a Pomponnet [i cani], saluta i conigli. A presto Marie. Tuo Béranger».

Nello stesso tempo, se bisogna credere a Gérard de Sède, vaglia da 100 a 150 fran-chi vengono giornalmente indirizzati a Marie. Sono emessi in Germania, Spagna, Svizzera, Italia, e talvolta provengono da comunità religiose. All’inizio del XXI seco-lo si pensa immediatamente al riciclaggio di denaro sporco ma, oltre al fatto che que-sta pratica cent’anni fa era più che embrionale, cosa si sa degli spostamenti del curato di Rennes-le-Château?

Questo non sorprenderà nessuno: non molto. Si sa che era in contatto epistolare con una banca parigina: la banca Petitjean, in Rue Montmartre, che mandò addirittura un impiegato, De Bauvière, a incontrare il curato nella sua parrocchia. Sembra anche che fosse in relazione con una banca lussemburghese - e qui non si può non pensare al vero Jean Orth - così come con la banca Fritz Dòrge di Budapest, e che possedeva conti alla Banca du Languedoc et du Roussillon, a Perpignan, e alla Banca Pommier et Pavie di Tolosa. Si sa pure che Béranger Saunière era costantemente in contatto con un gioielliere di Mazamet. Alcune persone gli hanno anche attribuito un pellegri-naggio alla cappella del monte Pilato, nelle Cévennes, anch’essa dedicata a Maria Maddalena. Doveva anche aver frequentato Lione, poiché aveva un indirizzo al quale riceveva lettere e pacchi: in Rue des Macchabés (sic). Fra le carte lionesi di questo af-faire, André Douzet ha ritrovato due fatture di affitto di animali da tiro a nome Sau-nière, datate 1898 e 1899. Sono forse connesse al viaggio sul monte Pilato, distante 60 chilometri? È stata scoperta anche la fattura per una macchina fotografica profes-sionale e due binocoli molto potenti.

Una cosa sembra certa: le entrate di denaro dovettero essere piuttosto irregolari. Così, nel 1911 l’abate Saunière prese contatto col Crédit Foncier, per ottenere un pre-stito ipotecario di 6000 franchi. Nel 1915 chiese dilazioni a un artigiano che gli aveva portato una biblioteca. E addirittura si fece redigere un certificato di indigenza per beneficiare dell’assistenza giuridica! In molti hanno pensato che il curato di Rennes-le-Château fosse allora andato in rovina (a causa dell’interruzione del traffico di mes-se?) e che gli ultimi progetti che gli sono stati attribuiti fossero puramente fantasiosi.

Tuttavia non sembra sia così: alcune fatture provano che continuò ad acquistare vi-ni pregiati, a offrire vestiti a Marie e che progettò addirittura di erigere nella sua tenu-ta un’edicola da 1000 franchi... che accetterà di pagare 2500 franchi. L’investimento più sorprendente di quel periodo ci è rivelato da André Douzet: nel corso dell’anno 1916, passò l’ordine a un fonditore dei dintorni di Aix-en-Provence per una mappa in rilievo dei luoghi della Passione di Cristo... che non ha alcun rapporto con la realtà31.

Quale consistenza potevano dunque avere gli ultimi progetti che gli vengono attri-buiti? Cioè: acquisto di un’automobile, tracciato di una strada carrozzabile dal villag-gio a Couiza per poterla utilizzare, installazione dell’acqua corrente presso tutti gli abitanti del villaggio, costruzione di una nuova cappella al centro del cimitero provvi-

31 Jean-Philippe Camus, L’énigme de Rennes-le-Château enfin résolue, «L’Inconnu», n. 275, agosto 1999.

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sta di una piscina battesimale come ai primi tempi del cristianesimo? Fatto sta che, qualche giorno prima della sua morte, avrebbe ordinato al suo architetto Tiburce Carminade i progetti di una nuova torre Magdala, alta 70 metri, servita da una scala a chiocciola e i cui muri sarebbero stati interamente tappezzati da libri! Il preventivo era stato firmato il 5 gennaio 1917, per un ammontare stimato in 8 milioni di franchi dell’epoca. Ma il 14 gennaio Béranger Saunière era colpito da emiplegia e soccom-beva il 22 di quel mese.

Marie Denarnaud, legatario universale, non sviluppò questi progetti. A quanto pa-re, pagò i debiti che il suo vecchio padrone aveva contratto col Crédit Foncier e visse molto semplicemente nel presbiterio di Rennes-le-Château fino alla sua morte. Se af-fittò Villa Betania alla famiglia Corbu nel 1946, fu, pare, più per rendere maggior-mente agevole la manutenzione che per necessità economiche. Si spense il 29 gen-naio 1953, a 85 anni, senza aver mai rivelato il segreto del curato Saunière; e questa frase: «Le persone di qui camminano sull’oro senza saperlo. Con quello che ha la-sciato il curato, si nutrirebbe Rennes per cent’anni e ancora ne avanzerebbe. Non vi fate scrupoli, mio buon Noël (Corbu), un giorno vi confesserò un segreto che farà di voi un uomo ricchissimo», l’ha realmente formulata?

Altri due misteri vengono a innestarsi su quest’affaire. Dopo l’attacco del 14 gen-naio 1917, l’abate Rivière, curato di Esperaza, fu mandato a chiamare per ammini-strare l’estrema unzione a Béranger Saunière. Era un amante della bella vita che si era sempre inteso col curato di Rennes-le-Château, malgrado le noie di quest’ultimo con la gerarchia ecclesiastica.

Raccolse così l’ultima confessione del suo collega e, secondo Mensior, gli rimosse il «suspens a divinis». Quel che colpì fu che lasciò la camera del malato col viso alte-rato. Sicuramente gli scribacchini glossarono su questo fatto: quale spaventoso segre-to aveva rivelato Béranger Saunière sul letto di morte? Si arrivò a sostenere che l’abate Rivière cambiò totalmente carattere dopo quell’episodio, al punto da non ride-re più.

Qui si tratta di puro ricamo su un fatto reale: l’emozione di un uomo che vede mo-rire un amico.

Il secondo mistero scaturisce dagli ultimi progetti dell’abate Saunière. Questi furo-no subito abbandonati e i progetti toccarono in sorte a Ernest Cros, un amico del de-funto. Secondo le dichiarazioni di quest’ultimo, la sua proprietà di Bains-de-Ginoles fu svaligiata nel 1930. Allora questi famosi progetti sparirono. Tentarono qualche cercatore di tesori?

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La maledizione di Rennes-le-Château

Allora l’abate Mazière mi ha guardato bene in faccia e, senza alzare la voce, mi ha detto: «Capisco che lei si interessi all’affaire di Rennes-le-Château. Ma devo avver-tirla: costituisce un certo pericolo...».

Si chiude con queste enigmatiche parole il primo libro che Gérard de Sède ha dedi-cato all’enigma del Razès. Fece molto per ammantare questa storia dell’alone roman-tico che seduce le masse. La quarta di copertina del Trésor maudit de Rennes-le-Château, edito da J’ai lu, insisteva molto su quest’aspetto: «Quale fu il segreto di Bé-ranger Saunière, curato del paesino di Rennes-le-Château [...]? Ma, soprattutto [cor-sivo nostro], come si spiega che chiunque sfiori la verità -oggi come ieri - lo faccia mettendo in pericolo la propria vita?».

Non c’era bisogno d’altro per conferire a tutto il dossier, già complicato di per sé, una fama sulfurea e inquietante, simile a quella che circonda la scoperta della tomba di Tutankhamon. Esaminiamo imparzialmente tutti i fatti che gli hanno conferito que-sta reputazione.

Il primo risale al principio della storia: al momento della scoperta della lapide dei cavalieri. A pagina 22 del suo libro Le trésor maudit de Rennes-le-Château, Gérard de Sède scrive:

Nel luogo stabilito, Saunière ordina che si scavi una fossa profonda un metro, poi congeda tutti col pretesto che è ora di pranzo e resta in chiesa da solo. In fondo alla fossa, gli operai avevano comunque avuto il tempo di scoprire due scheletri e di in-travedere una marmitta piena di oggetti brillanti.

La torre Magdala

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S’è già detto cosa conviene pensare della scoperta del presunto gruzzolo. Questa variante rende la storia ancora più inverosimile: due operai ingenui a sufficienza per farsi soffiare un tesoro dal curato, per di più sarebbero stati così discreti da non far parola della scoperta di due scheletri nel sottosuolo della chiesa? E questo dopo aver dovuto scavare una fossa profonda un metro? È sufficiente mettersi al loro posto per ritenere questi fatti altamente sospetti. E c’è da pensare che sicuramente il sindaco e la polizia avrebbero dovuto essere subito informati di un ritrovamento così straordi-nario. Possiamo dunque ritenere probabile che il fatto reale che diede vita a questa leggenda fu la scoperta di un cranio spaccato, nello stesso posto... settant’anni più tardi! Ne riparleremo a tempo debito.

Il secondo fatto di questa leggenda è, ahimè!, troppo reale. Ebbe luogo il 1° no-vembre 1897. Quel giorno, il mattino di Ognissanti, si scoprì il corpo dell’abate Gé-lis, assassinato nel suo presbiterio di Coustaussa. Béranger Saunière, che aveva appe-na cominciato il suo programma di costruzioni, conosceva bene quella località, anco-ra più vicina di Rennes-les-Bains alla sua parrocchia. Insieme al suo collega, l’abate Boudet, fu uno dei primi a raccogliersi al cospetto della sventurata vittima. Benché più giovane di un quarto di secolo rispetto al suo confratello, intratteneva con lui rap-porti costanti, certamente amichevoli.

Questo crimine rimane un mistero, in primo luogo perché non si scoprì il colpevo-le, e anche per qualche enigma supplementare. All’epoca, «Le Courrier de l’Aude» riferì la notizia del crimine in questi termini:

Riverso in un mare di sangue, del quale la sottana è ampiamente macchiata, la vit-tima ha le mani giunte sul petto e una gamba piegata e girata verso l’interno. L’abate Gélis, colpito dal suo assassino con una violenza e un accanimento inaudi-ti, non reca meno di 12-14 orribili ferite alla testa, poco sopra la nuca. In diversi punti, il cranio è fratturato e il cervello esposto. Tre ferite di minore importanza si estendono sul viso del cadavere. Le pareti e il pavimento della cucina sono insudi-ciate da ampie macchie di sangue. Mentre qualche ferita sembra essere stata inferta con un corpo contundente, altre sembrano causate da uno strumento da taglio. Tut-to lascia supporre che la vittima non sia stata sopraffatta senza prima opporre una disperata resistenza. Una somma di 1500 franchi è stata trovata intatta, tuttavia i cassetti erano aperti ed erano stati perquisiti tutti i mobili. Perché? Se non era per rubare denaro o valori, l’assassino, che ha cercato minuziosamente ovunque, dove-va forse far sparire un documento? È una semplice supposizione. Qualche anno prima, uomini mascherati erano penetrati nel presbiterio. Non sono mai stati sco-perti gli autori dell’effrazione. Il più grande mistero è chiamato a regnare su quest’orribile dramma. Nessun testimone, nessun sospetto, nessuna pista da segui-re: Dio solo sa chi è il colpevole. 32

Questo articolo è prezioso, poiché è stato scritto nel momento in cui la leggenda

32 Citato in Gérard de Sède, Le trésor maudit de Rennes-le-Château, J’ai lu, Paris 1972, pp. 158-159.

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dell’abate Saunière non aveva ancora preso forma. In seguito, e senza dubbio a causa di questa leggenda, sono stati accostati i due affaire e alcuni ricercatori hanno cercato di saperne di più. Oggi pare appurato che il prete abbia aperto al suo assassino. Que-sti, probabilmente nel corso della conversazione, era riuscito ad aggirare l’ecclesiastico, per colpirlo da tergo con un attizzatoio. Ferito alla testa, lo sventurato anziano - l’abate Gélis aveva settant’anni - ha la forza di alzarsi e precipitarsi alla fi-nestra, indubbiamente per chiamare aiuto. Ma l’assassino non lo lascia e finisce di massacrarlo a colpi d’ascia. Apparentemente, un crimine commesso in un raptus di rabbia. Ma altri fatti smentiscono questa supposizione: secondo il rapporto del giudi-ce istruttore, «le precauzioni prese dimostrano una presenza di spirito incredibile». In effetti, il presbiterio fu ritrovato in perfetto ordine. Nessun mobile ribaltato, nessun cassetto svuotato! L’assassino ha saputo evitare le pozze di sangue per non lasciare impronte. Non ha lasciato tracce né all’interno né all’esterno. Ancora più strano: sembra aver voluto mettere il corpo della sua vittima in una posizione particolare: su-pino, le mani giunte sul petto, una gamba piegata e girata verso l’interno. Avrebbe voluto trasmettere un messaggio simbolico: chi ha familiarità con i tarocchi avrà ri-conosciuto la figura dell’impiccato. Si noti che, nella versione dei tarocchi di Oswald Wirth, questa figura - che rappresenta un uomo a testa in giù, appeso per un piede - mostra una pioggia di monete d’oro che cadono dalle tasche dell’impiccato. Un’allusione alle ricchezze del curato?

Eppure il furto non sembra esser stato il movente del crimine, anche se, nella ca-mera dell’abate, senza lasciare tracce l’assassino ha forzato la serratura di uno zaino. Fu confermato che il prete vi teneva carte e documenti che gli appartenevano. «L’assassino non ha aperto lo zaino per rubare, ma per cercare qualcosa», conferma il rapporto del giudice. Il «disinteresse» dell’omicida è confermato dal fatto che si ri-trovarono 683 franchi in oro e banconote nell’ufficio del prete, nonché 106,90 franchi nel suo comodino.

Ma questa non fu l’unica sorpresa che, in questo ambito, attendeva gli investigato-ri: in una nota datata 24 settembre 1897, il curato Gélis rivelava di aver nascosto in casa e nella sacrestia una somma di 13 mila franchi. Scrive ancora il giudice: «Dopo accurate ricerche, conformemente alle indicazioni fornite ma comprese solo allora, abbiamo trovato 4000 franchi sotto un tabernacolo e 2000 franchi sotto un masso. Questo in sacrestia, in uno scantinato al secondo piano sottoterra».

Per quanto riguarda il presbiterio, si trovarono 1000 franchi in luigi d’oro nella cornice del caminetto e altrettanti sotto una «pietra dei luoghi di decenza». Sempre in monete d’oro, 1000 franchi nei terreni annessi, senza parlare di diverse somme nei li-bri della biblioteca. Si scoprirono ovunque napoleoni da 20 e 10 franchi, racchiusi nelle canne fumarie o in tubi di latta. Solo 1000 franchi, segnalati in cantina, non fu-rono ritrovati. L’abate Gélis li aveva dati, quello stesso 24 settembre 1897, al curato-decano di Trèbes, incaricandolo di acquistare per suo conto obbligazioni delle ferro-vie? Quest’ultimo confermò di aver ricevuto quel giorno, dal suo confratello, la somma di 1200 franchi. Ma, soprattutto, dichiarò che da circa tre anni l’abate Gélis gli affidava la somma di 1000 franchi ogni anno per gli stessi fini, chiedendo di non scrivergli mai al proposito.

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Come aveva potuto un modesto curato di campagna accumulare tali somme? Non potevano provenire dai suoi risparmi. Ricordiamo che allora lo stipendio annuale di un prete era di 900 franchi. I conti dell’abate Gélis, per gli anni 1895-1897, allegati al fascicolo d’inchiesta, dimostrano che viveva con circa 700 franchi all’anno. Non è economizzando 200 franchi di qui e 200 là che si costruisce un tale capitale.

Era il possesso di questa piccola fortuna a rendere l’abate così diffidente? Viveva solo, non frequentava nessuno e dormiva tutto l’anno con le imposte chiuse, cosa che in estate non mancava di stupire. Inoltre, la sua porta era costantemente sprangata, fatto non abituale allora nei paesi. Pure è appurato che l’abate Gélis aprì lui stesso la porta al suo assassino. Dunque doveva essere, se non un familiare, almeno una perso-na di cui si fidava. I sospetti del giudice istruttore, Raymond Jean, si concentrarono su un nipote della vittima, dalla reputazione piuttosto cattiva. Ma quest’ultimo dispo-neva di un solido alibi. Qualche giorno prima della sua morte, sua nipote aveva sor-preso l’abate Saunière33 in compagnia di un uomo, col quale visibilmente non aveva voglia di essere visto. Più tardi le disse che si trattava di un amico. Senz’altra spiega-zione.

Ora, quell’uomo poteva essere Béranger Saunière? È assai poco probabile, perché l’abate Gélis non aveva alcuna ragione di nascondere una banale visita. La quindicina di migliaia di franchi in possesso del curato di Coustaussa gli fu affidata dal suo con-fratello di Rennes-le-Château? L’abate Gélis cominciò i suoi investimenti all’incirca all’epoca in cui Saunière divenne improvvisamente ricco. Detto ciò, non si capisce perché avrebbe privilegiato quel collega fra tanti altri: l’abate Rivière, per esempio, o ancora l’abate Boudet, col quale certamente intratteneva gli stessi rapporti. L’abate Saunière avrebbe potuto assassinare l’abate Gélis? Teoricamente sì. Il curato di Cou-staussa attendeva l’omicida, poiché aveva staccato la campanella della porta d’ingresso e aveva aperto all’assassino in piena notte. Ma, appunto, perché i due preti avrebbero desiderato parlarsi di notte, visto che i loro contatti erano abituali e non at-tiravano l’attenzione di nessuno? Inoltre, non si vede perché Béranger Saunière a-vrebbe improvvisamente provato il bisogno di eliminare un uomo che forse, nel vero senso della parola, aveva coperto d’oro. Non si capisce nemmeno perché Gélis avreb-be improvvisamente minacciato un uomo che lo aveva colmato di benefici.

In breve, l’unico fatto che permette di collegare queste due questioni sono le risor-se apparentemente sproporzionate di cui disponevano i due curati e l’uso piuttosto profano che ne facevano.

Il terzo fatto si allaccia all’enigma di Rennes-le-Château in virtù di un legame an-cora più tenue. Riguarda il famoso abate Boudet che, alla fine della propria vita, ebbe anche lui noie con il vescovado - a causa della sua amicizia con Béranger Saunière? - e, a quanto sembra, fu costretto a distruggere il suo ultimo libro (intitolato Lazare, veni forasi34), che avrebbe contenuto indiscrezioni religiose. Deluso, avrebbe rasse-

33 Si tratta certamente di una distrazione degli autori: la persona sorpresa non poteva essere altri che l’abate Gélis [N.d.T.].34 Il presunto facsimile del testo, datato 1896, è contenuto in Jean-Luc Chaumeil, L’alphabet solai-re, Trédaniel, Paris 1996 [N.d.T.].

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gnato le dimissioni nel maggio 1914, prendendo a pretesto l’aumento dell’affitto del presbiterio deciso dal Comune, e si sarebbe ritirato ad Axat. Fu sostituito dall’abate Rescanière, missionario diocesano, incaricato dal Vescovo di fare luce sull’«affaire Boudet-Saunière». Lo afferma Gérard de Sède35, citando come fonte l’abate Joseph Courtauly, che avrebbe conosciuto Béranger Saunière (vedi sopra), il quale, «ormai anziano, era divenuto assai diffidente e arrivava a rifiutarsi di aprire al vicario genera-le del vescovado». Sicuramente l’investigatore diocesano non ebbe il tempo di appro-fondire molto le sue indagini, perché lunedì 1° febbraio 1915, «intorno all’una o le due del mattino, doveva ricevere la visita di due uomini, dei quali non si è mai ritro-vata traccia. Al mattino era morto, completamente vestito, steso sul parquet: la causa del decesso è tuttora un mistero».

Gérard de Sède aggiunge in nota che l’abate Rescanière, qualche tempo prima del-la sua morte, era stato vittima di un attentato: sarebbe stato accoltellato. In seguito a questo dramma, l’abate Boudet «depresso» (per il rimorso?) avrebbe deciso di scrive-re al vescovado. Ma quando il delegato di monsignor De Beauséjour arrivò ad Axat, il 30 marzo 1915, l’abate Boudet era appena morto a causa di un’intossicazione ali-mentare. Nel corso della giornata, avrebbe ricevuto la visita di due uomini...

Raccontata in questo modo, la storia ricorda sicuramente la tragica sorte del curato Gélis. Senza dubbio per radicare nella mente della gente l’idea che questi ecclesiastici siano stati tutti vittime della stessa banda, decisa a proteggere i segreti di Rennes-le-Château. Certamente si sgonfierà l’affaire ricordando innanzitutto che, tra l’enigma Saunière e quello dell’omicidio Gélis, non si è mai riusciti a stabilire alcun legame. Inoltre, ci si domanda chi abbia potuto testimoniare della visita di quei due uomini all’abate Rescanière, alle due del mattino! Quanto alla leggenda dell’ultimo libro dell’abate Boudet, è ora accertato che fu inventata da un mitomane. Lungi dall’essere mai stato in conflitto con la gerarchia ecclesiastica, l’abate Boudet, nato nel 1837, or-dinato prete nel 1861, molto semplicemente era andato in pensione nel maggio 1914. Quanto all’abate Rescanière, non esiste alcuna prova che fu mai incaricato di una qualsiasi inchiesta da parte del vescovado. Gravemente malato, fu nominato a Ren-nes-le-Château per ragioni di salute.

Gli altri fatti avvennero molto tempo dopo. Così, nel marzo 1956, prima della grande moda di Rennes-le-Château, quattro cercatori di tesori intrapresero degli scavi nel villaggio. Erano Descadillas, conservatore della biblioteca di Carcassonne, il dot-tor Malacan, medico, Brunon, ottico, e Despeyronat... radioestesista. Molto logica-mente, cominciarono a scavare di fronte al pulpito, nel luogo in cui era stata scoperta la «lapide dei cavalieri».

La sola cosa che si scoprì fu un cranio spaccato nella regione occipitale. A questo proposito Gérard de Sède parla di un’incisione rituale, altri ricercatori propendono piuttosto per una ferita mortale. Perché si trovava là? Va ricordato che nel Medioevo veniva attribuita una grande importanza all’essere seppelliti in chiesa. E chi non riu-sciva a stabilirvi la propria sepoltura, ci teneva a essere sotterrato il più vicino possi-bile all’edificio sacro. Si riteneva anche che le tombe bagnate dalla pioggia che cade-

35 De Sède, Le trésor maudit cit, p. 160

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va dal suo tetto fossero sotto la sua protezione. Smorzato l’entusiasmo a causa della macabra scoperta, il quartetto si trasferì nel

parco di Béranger Saunière e cominciò a scavare una fossa. Alla profondità di un me-tro e mezzo fece la scoperta: nessun tesoro, quello no! Ma i corpi di tre uomini. Tre uomini uccisi con un’arma da fuoco!

La polizia fu subito avvertita, venne nominato un giudice istruttore, si avviò un’inchiesta. I corpi esumati erano parzialmente decomposti, ma lembi di vestiti e in-dumenti intimi aderivano alle ossa, così come dei capelli e un paio di baffi. Diciamo immediatamente che le indagini non portarono a nulla: non si scoprì né l’identità del-le vittime, né quella dei loro assassini. Questo crimine può essere collegato al mistero di Rennes-le-Château? Forse. Secondo le constatazioni, risalirebbe all’agitato periodo dell’Occupazione e della Liberazione. E qui non ci si può impedire di fare un richia-mo: durante la guerra, Villa Betania fu requisita della famosa sezione Weisthor delle SS, dal nome di colui che la comandava. Questa sezione era definita «speciale» poi-ché comprendeva solo accademici, linguisti, astrologi, esoteristi, ricercatori del para-normale e altri veggenti. All’epoca, il distaccamento che aveva occupato Rennes-le-Château era diretto dal famoso archeologo Otto Rahn36. Prima della guerra, questi aveva già soggiornato più volte nella regione pirenaica. Si interessava molto al Graal, ai catari e a Montségur.

Un altro episodio curioso ebbe luogo nel 1960. Cholley, un ricercatore parigino, che nel castello di Monfort-l'Amaury avrebbe scoperto alcuni documenti che prova-vano l'esistenza di diversi nascondigli nella chiesa, arriva a Rennes-le-Château. Poi-ché si è preoccupato di munirsi di tutte le autorizzazioni ufficiali, il Comune lo lascia condurre le sue ricerche. Tutti i giorni un'equipe di cercatori di tesoro si rinchiude nel santuario. La chiesa di Maria Maddalena, che Béranger Saunière aveva restaurato con tanti sforzi, è metodicamente smantellata. Viene tolta la piastrellatura, poi i plinti. I muri sono sistematicamente sondati, le statue della Via Crucis vengono staccate, l'al-tare frugato. Sacrestia e campanile non vengono risparmiati! Notiamo fra parentesi che comportamenti tali non possono aver avuto luogo che nel Mezzogiorno anticleri-cale; in Bretagna o in Alsazia, per esempio... sarebbe stato impedito! Questo vandali-smo ha comunque finito per esasperare qualcuno: una sera, mentre apriva la porta della chiesa per uscire, Cholley vide una pesante massa abbattersi su di lui. Ebbe giu-sto il tempo di evitarla con un salto. Un dossale era stato posato contro la porta, in modo che cadesse su chi l'avesse aperta.

Indenne ma traumatizzato dall'incidente, il ricercatore parigino lasciò precipitosa-mente il villaggio. Non si rivide più.

Bisogna però essere particolarmente sospettosi per collegare, come fanno alcuni autori, l'affaire di Rennes-le-Château a due altri incidenti. Il primo ebbe luogo il 20 maggio 1968. Fra Castelnaudary e Carcassonne, Noél Corbu «moriva di morte vio-lenta» (riportato da Gérard de Sède). Come sappiamo, Corbu era l'erede di Marie De-narnaud e dunque, indirettamente, dell’abate Saunière. Inoltre era lui ad aver reso po- 36 Autore di Croisade contre le Graal (Pardès, Puiseaux 1999) e di La cour de Lucifer (Pardès, Pui-seaux 1994). [Trad. it. La corte di Lucifero, Barbarossa, Saluzzo 1989; Crociata contro il Graal, Barbarossa, Saluzzo 1991, NAT.]

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polare la leggenda del tesoro. Nella fattispecie, lo sventurato perse il controllo della sua Renault 16 e perì nell’incidente.

Qualche giorno più tardi, il 18 giugno 1968, monsignor Boyer subiva lo stesso ge-nere di incidente: la sua automobile si schiantava in località «Ponte del diavolo» (sic) e si ferì gravemente. Quel prelato era il vicario generale del vescovado di Carcasson-ne e si interessava molto all’enigma.

Gli autori di questo libro si sono ripromessi di non scordarsi mai di allacciare le cinture di sicurezza.

Noël Corbu aveva venduto la tenuta di Rennes-le-Château nel 1964. Il suo succes-sore fu Henri Buthion, un occultista che proveniva da Lione. Probabilmente indagava per parte sua sull’affaire. Fatto sta che «un giorno vide la morte assai da vicino: nel 1973, la sua vettura fu crivellata dalle pallottole di una mitraglietta calibro 9 mm»37.

«In realtà, il veicolo in questione era una macchina da tempo abbandonata nei pressi del belvedere. Quanto ai numerosi fori di proiettile che appaiono sulla carroz-zeria, erano opera del figlio di Buthion, che nel tempo libero si allenava al tiro con la carabina.»38

Infine, il 28 agosto 1974 Georgette Roumens-Talon veniva assassinata a Parigi. Il suo corpo fu ritrovato nel suo appartamento: era stata stordita con un candelabro, prima di essere strangolata con un filo elettrico. La signora era una nipote di Marie Denarnaud e aveva anche ricevuto due magnifici gioielli dall’abate Saunière: un braccialetto e un collier d’oro tempestati di granati, amandines e pasta di vetro di di-versi colori. A quanto pare, queste opere d’arte sarebbero caratteristiche dell’oreficeria visigota. Se n’è concluso che provenivano dal tesoro dell’abate Sau-nière, forse addirittura dal «gruzzolo» scoperto sotto la «lapide dei cavalieri». Niente lo prova. L’assassino fu arrestato: era membro di una setta. Niente autorizza neppure a collegare questo crimine agli enigmi del Razès. L’abate Saunière avrebbe benissimo potuto acquistare quei gioielli da un collezionista o da un gioielliere.

In breve, nessuno di questi episodi può essere collegato all’«affaire Saunière». Possiamo dunque concludere che sono il frutto del sensazionalismo giornalistico.

37 Gérard de Sède, Rennes-le-Château, le dossier, les impostures, les phantasmes, les hypothèses, Laffont, Paris 1988, p. 84.38 Patrick Mensior, L’extraordinaire secret des prètres de Rennes-le-Château, Les 3 Spirales, Corps 2001, p. 86.

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I messaggi di Béranger Saunière

Un messaggio ha sempre un destinatario. È ovvio? Non proprio, se si considera l’affaire di Rennes-le-Château. Il destinatario può essere sconosciuto da colui che re-dige il messaggio: per esempio, raramente un autore conosce i lettori del proprio li-bro. In questo caso, l’autore si preoccupa di scrivere la propria opera utilizzando un linguaggio - un codice - accessibile, noto a tutti. La scrittura è il veicolo consueto di questa categoria di messaggi.

Ma il destinatario può anche essere conosciuto dall’autore e il messaggio può esse-re destinato esclusivamente a lui. È questa necessità ad aver dato vita alle scritture segrete... sin dal momento in cui la scrittura è stata sufficientemente diffusa per essere alla portata di un gran numero di persone. Ai tempi dell’Impero delle Indie, per e-sempio, gli ufficiali britannici, invece di affaticarsi a inventare un linguaggio cifrato, utilizzavano molto semplicemente l’alfabeto greco.

Sin dall’inizio dell’affaire di Rennes-le-Château, si ha a che fare continuamente con messaggi cifrati: le celeberrime pergamene pubblicate da De Sède, la lapide e la stele della marchesa di Nègre di Blanchefort, il libro dell’abate Boudet e i messaggi che Béranger Saunière stesso avrebbe redatto per i posteri. Ciò pone evidentemente la domanda fondamentale: chi erano i destinatari di quei famosi messaggi? Per bizzarro che possa sembrare, nessuna delle circa 200 opere pubblicate finora sull’enigma del Razès ha risposto in maniera convincente a questa domanda. Gli autori del presente libro non hanno, a questo proposito, la pretesa di far meglio dei loro predecessori. Semplicemente tentano, con modestia, di andare dal noto all’ignoto, e là dove non sanno, preferiscono confessare la loro ignoranza piuttosto che elaborare ipotesi stra-vaganti.

Se non accertato, sembra almeno verosimile che Béranger Saunière dovesse la sua improvvisa fortuna alla decifrazione della lapide e della stele funeraria della marche-sa di Blanchefort. Pare non meno probabile che non fu il destinatario di questo o que-sti messaggi: ricordiamoci che il suo arrivo a Rennes-le-Château risale al 1885 e che non ha disposto di risorse eccezionali se non una decina di anni più tardi. Queste due iscrizioni, per lo meno curiose, sinora hanno resistito a ogni tentativo di traduzione. Nella seconda parte di quest’opera tenteremo di contribuire alla soluzione del pro-blema. Ma sin d’ora dobbiamo avvertire il lettore che, secondo ogni verosimiglianza, non potrà disporre della totalità del messaggio. In effetti, si sa che Béranger Saunière ha levigato la lapide e spostato la stele. Ma non è assolutamente certo che furono le sole iscrizioni che gli permisero di accedere... diciamo: al segreto. Dalle denunce dei paesani del 1895, emerge che il curato ha spostato alcune croci e pietre tombali. Dunque, si può ritenere probabile che queste depredazioni non si limitassero a una sola tomba. E che questo famoso messaggio dovesse essere completato da altri ele-menti!

Se a proposito del destinatario non possiamo far altro che congetture inverificabili, per contro l’autore del messaggio è identificabile: si tratta dell’abate Bigou, che fu il

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confessore della marchesa e, in qualche modo, suo esecutore testamentario. Diciamo brevemente ciò che sappiamo di certo su questo personaggio chiave, cioè non molto.

Antoine Bigou nacque il 18 aprile 1719 a Sournia. Divenuto prete, nel 1774 succe-dette a suo zio Jean Bigou in qualità di curato di Rennes-le-Château. E dunque anche come confessore della marchesa di Blanchefort. Questa decedette il 17 gennaio 1781, senza figli maschi e in dissenso con le tre figlie. Pare probabile, visti gli stretti legami che fatalmente uniscono un penitente alla sua guida spirituale, che incaricò l’abate Bigou di far rispettare le sue ultime volontà. Gli avrebbe anche confidato un segreto di famiglia? Se ce n’era uno, è possibile, addirittura probabile. L’avrebbe incaricato di trasmetterlo a qualche erede più degno della sua discendenza? Qui siamo alla peri-colosa soglia del romanzo.

Ciò che pare assodato è che mai una personalità, probabilmente istruita come pote-va esserlo un prete francese del XVIII secolo, avrebbe accettato una lapide con un’iscrizione tanto stravagante come quella che ci hanno lasciato le cure di Elie Tis-seyre. Inoltre, la discendenza della marchesa probabilmente non avrebbe mancato di protestare. Se non, addirittura, di esigere la sostituzione della lapide, se ne fosse stata al corrente. Quindi si pone la questione della data in cui questa è stata posata. Poiché non ci è pervenuta alcuna informazione affidabile, siamo costretti a fare delle conget-ture.

L’ipotesi che pare più seducente, se non più probabile, è il 1791. Perché? Perché il 12 luglio dell’anno precedente, l’Assemblea Costituente aveva votato la costituzione civile del clero, che metteva apertamente la Chiesa al servizio dello Stato. Evidente-mente, né il papa né un cattolico sincero lo potevano accettare. Un passo falso che non necessariamente doveva portare a una rottura se, di fronte alla protesta provocata da questa misura, l’Assemblea avesse scelto di negoziare. Al contrario, decise di met-tere il clero di Francia con le spalle al muro imponendo a tutti gli ecclesiastici france-si, col decreto del 27 novembre, un giuramento di fedeltà.

Il 27 novembre 1790 è una fra le date più misconosciute e funeste di tutta la storia di Francia. Separò i francesi come un colpo d’ascia. Da allora, durante la Rivoluzio-ne, si schierarono all’opposizione prima la Chiesa, poi il re, poi gli aristocratici, poi i contadini dell’ovest39, infine i vandeani. In breve, è piuttosto facile comprendere che l’abate Bigou capì che stavano arrivando in fretta i tempi delle persecuzioni e del Ter-rore. Come molti altri preti, in un primo tempo tentò di conciliare la propria fedeltà alla patria con la fede. Prestò giuramento il 20 febbraio 1791, ma con tante restrizioni che gli fu rifiutato. Qualificato come «refrattario», ormai era destinato a essere presto colpito dalle misure di ritorsione che il fanatismo rivoluzionario riserva a chi conside-ra suo nemico. Dunque, logicamente, fu quello il momento in cui ordinò e piazzò la famosa lapide.

Fu ancora lui a redigere l’enigmatica iscrizione sulla stele verticale? Oggettiva-mente nulla permette di affermarlo, poiché il nome della marchesa non vi figura. Al-cuni autori pensano che fosse molto anteriore alla Rivoluzione, che forse provenisse 39 Il termine utilizzato è Chouans: si tratta dei contadini della Francia occidentale che insorsero con-tro la Rivoluzione dal 1791 al 1799. Il loro nome deriva da quello di Jean Cottereau, detto Jean Chouan, uno dei capi della rivolta [N.d.T.].

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da una tomba del XIII secolo e che indicasse il luogo di un tesoro templare. È possi-bile, beninteso, ma in assenza di ogni prova a sostegno di questa ipotesi, pratichiamo l’«economia scientifica» e consideriamo l’abate Bigou l’unico autore del messaggio segreto di Rennes-le-Château.

A chi ne consegnò la chiave? Lo ignoriamo, poiché la Storia, in questi anni tragici, andava al galoppo. Sappiamo solo che fuggì dalla Francia e si spense il 21 marzo 1794 in Spagna, a Sabadell.

In breve, la maniera più logica per ricostruire l’affaire è dunque la seguente: l’abate Bigou, minacciato dalla Rivoluzione, lasciò un messaggio segreto che Béran-ger Saunière decifrò, che gli permise probabilmente di diventare ricco e che cercò di distruggere - peraltro riuscendoci, poiché dopo quasi cin-quant’anni tutti i tentativi di decifrazione restano vani.

Ma anche Béranger Saunière tentò di lasciare un messaggio a destinatari che ci so-no ignoti? Questione fondamentale, alla quale non bisogna affrettarsi troppo a ri-spondere in modo affermativo. Evidentemente, tutto dipende dalla reale fortuna dell’abate. Da questo punto di vista, sono state fornite le stime più contraddittorie e inverificabili. Constatiamo semplicemente che il curato di Rennes-le-Château realiz-zò progetti che gli stavano a cuore e che si mostrò prodigo con ostentazione. Oltre al-le spese verificate, aveva un surplus che gli permetteva di finanziare organizzazioni esoteriche o politiche? Non è possibile provarlo. L’appartenenza di Béranger Sauniè-re a una qualunque organizzazione occulta resta molto dubbia, e se fu un monarchico militante in gioventù, nulla prova che in seguito non avrebbe potuto cambiare orien-tamento. Non dimentichiamo che, nel 1892, papa Leone XIII aveva invitato i cattolici francesi a ricongiungersi alla Repubblica, e Béranger Saunière aveva per quel ponte-fice uno spiccato rispetto, al punto d’aver fatto incidere le sue arme sul timpano della chiesa.

Ma questo messaggio segreto, come ritengono numerosi autori, potrebbe essere di ordine spirituale (il luogo ove è conservato il Graal, la tomba di Maria Maddalena, se non di Cristo stesso!) o tecnico (segreti alchemici, trasmutazione dell’oro). Non vo-lendo affatto disprezzare senza discutere, ne diciamo due parole nella seconda parte del libro («Alcune ipotesi»). Ma facciamo subito una considerazione importante: nul-la permette di pensare che il messaggio di Béranger Saunière (se un messaggio esiste) abbia gli stessi destinatari dei messaggi dell’abate Bigou, e nemmeno di quelli dell’abate Boudet (ammettendo, certo, che il suo famoso libro sia realmente un crit-togramma).

Ora, dove dovrebbe essere questo messaggio? Molti ricercatori, a cominciare da Gérard de Sède, citano innanzitutto la chiesa stessa. Questa fece all’autore di L’or de Rennes40 una strana impressione, al punto da influenzare le sue conclusioni:

Appena entrati, vi coglie un disagio inquietante. Prima si vede un diavolo deforme che regge l’acquasantiera, poi l’occhio scopre poco a poco tutto un popolo di statue truccate come mimi, colte in posture insolite, che ne urlano di tutti i colori e fissano

40 Gérard de Sède (in collaborazione con Sophie de Sède), L’or de Rennes, Julliard, Paris 1967 [N.d.T.].

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sul visitatore il loro insostenibile sguardo vitreo. È saint Sulpice divenuto folle, il mu-seo Grévin delle Scritture41. Ma presto, come suo malgrado, ci si attarda a esaminare questo strano mondo in cui, non si sa a quale scopo, ogni dettaglio sembra concerta-to.42

Ma quando, dopo aver letto questa apocalittica descrizione, si visita questa sventu-rata chiesa di Maria Maddalena, ogni volta ci si chiede se l’autore e i suoi lettori han-no visto lo stesso santuario.

La chiesa di Rennes-le-Château fu consacrata a Maria Maddalena nel 1059, ma succedette, secondo ogni verosimiglianza, a un più antico luogo di culto cattolico, forse risalente all’VIII secolo. Inizialmente è in stile romanico, fatto che non stupisce vista la data della sua inaugurazione, ma gli ornamenti interni, ordinati e installati da Béranger Saunière, sono tipicamente conformi a quelli che si fabbricavano nel secolo scorso. Le vetrate, per esempio, furono ordinate a Henry Feur e le statue alla bottega Giscard di Tolosa, specializzata in decorazione di chiese.

La prima cosa che colpisce i visitatori è l’iscrizione latina che sormonta il portone d’ingresso: «Terribilis est locus iste». Tradotto letteralmente: Questo luogo è terribi-le.

Ora, la traduzione esatta è: Questo luogo è venerabile (o rispettabile). Non è la sola iscrizione che in questa chiesa viene tradotta in maniera fantasiosa.

Così, sotto una croce troviamo: «Cristus A.O.M.P.S. defendit». Queste iniziali sono state interpretate con la formula Antiquus Ordo Mysticusque Prioratus Sionis: un ten-tativo mistificante per collegare Béranger Saunière al celeberrimo Priorato di Sion. Parleremo di questa mistificazione nel prossimo capitolo. Notiamo semplicemente che, ben lungi dall’essere misteriosa, questa celebre iscrizione si trova a Roma sull’obelisco di papa Sisto V nella seguente forma: «Cristus ab omni malo populum suum defendit». Che significa: «Cristo protegge il suo popolo da ogni male». A sini-stra dell’ingresso si trova la famosa acquasantiera che impressiona sempre i visitatori privi di familiarità con le chiese. Si tratta di un diavolo ripugnante, schiacciato dal peso di una vasca a forma di cappasanta e sormontata da quattro angeli, ciascuno dei quali accenna uno dei gesti del segno della croce. L’iscrizione che accompagna il gruppo non potrebbe essere più esplicita: «Con questo segno, tu lo vincerai».

Evidentemente ci ricorda la frase che accompagnava la famosa visione di Costanti-no prima della battaglia di ponte Milvio: «In hoc signo vinces» («Con questo segno vincerai»)43.

Ma anche che, negli anni 1890-1900 e ancora ben più tardi, nelle campagne il dia-volo si incontrava di frequente quanto oggi gli extraterrestri. Chi non ha sentito quelle storie di auto che vanno inspiegabilmente in panne, in piena notte e in aperta campa-gna? Chi non sa che, generalmente, mentre il conducente cerca invano di far ripartire il motore, umanoidi con grosse teste compaiono per interessarsi a lui? All’inizio del 41 Il museo Grévin è il celebre museo delle cere di Parigi [N.d.T.]. 42 Gérard de Sède, Le trésor maudit de Rennes-le-Château, J’ai lu, Paris 1972, p. 11 43 Il ponte Milvio, uno fra i ponti più antichi di Roma, fu teatro della battaglia che nel 312 oppose Costantino a Massenzio [N.d.T.].

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secolo, la storia era molto più bucolica. Un contadino guidava il suo carretto in un avvallamento, quando inspiegabilmente si immobilizzava. Ed è nel momento in cui voleva aiutare il cavallo a tirarsene fuori che generalmente compariva il diavolo...

Notiamo che, se di fronte alla tecnologia degli «Omini Verdi» rimaniamo impoten-ti, il fatto di brandire un crocefisso, una medaglia benedetta o semplicemente di fare il segno della croce era sufficiente per mettere in fuga il demonio.

Qual era l’identità di quello di Rennes-le-Château? Per divertente che possa sem-brare, questo dibattito impegna intellettuali seri. Attualmente si esita fra Asmodeo e Eurinome44! In realtà quel diavolo è semplicemente... il diavolo. La sua rappresenta-zione in una chiesa, e in particolare sotto un’acquasantiera, è lungi dall’essere ecce-zionale. Patrick Mensior ne segnala una a Dinan e un’altra in Italia.

Il resto della decorazione ordinata da Béranger Saunière è altrettanto classica. Così fece posare quattro vetrate a mosaico e altre cinque rappresentanti rispettivamente santa Maddalena, Cristo in croce, Maria Maddalena, la resurrezione di Lazzaro e in-fine la missione degli Apostoli. Le statue furono ordinate allo scultore Giscard, che le decorò personalmente a olio per renderle più resistenti alle ingiurie del tempo. Così furono installati: san Giuseppe con il Bambino Gesù, sant’Antonio eremita, santa Germana, san Giovanni che battezza Cristo, san Rocco, santa Maria Maddalena, sant’Antonio da Padova; infine, la Vergine con il bambino. Queste statue sono vera-mente così spaventose? Questione di gusto: alcuni non considerano affatto estetiche le colonne di Buren45!

L’abate Saunière fece così allestire in fondo alla chiesa un grande confessionale in legno scolpito, il cui frontone evoca molto classicamente il Buon Pastore e la pecorel-la smarrita. Sopra il confessionale si trova un quadro enorme che rappresenta il Mon-te delle Beatitudini con l’iscrizione sottostante: «Venite a me, voi che soffrite, che siete prostrati, e vi recherò sollievo». Più insolita è, davanti al medesimo confessiona-le, l’installazione di una scacchiera con 64 caselle nere e bianche, i cui quattro angoli indicano il Nord, l’Est, il Sud e l’Ovest. In breve, niente rende singolare in modo ma-nifesto la chiesa di Maria Maddalena a Rennes-le-Château rispetto a tutte le altre chiese, cappelle e cattedrali del mondo.

Ciò non impedisce che, da decine di anni, ricercatori e curiosi tentino di scoprirvi un messaggio che l’abate Saunière vi avrebbe nascosto. Questo messaggio, certo - almeno lo si spera - permetterebbe di trovare il suo tesoro. Per citare un solo esempio di queste molteplici e sottili interpretazioni, ecco come Gérard de Sède decifra le im-magini della Via Crucis che, in ogni chiesa, ripercorre la Passione di Cristo:

La prima stazione della via crucis, il giudizio di Pilato, definisce [...] il quadro ge-ografico nel quale deve svolgersi la nostra ricerca. Subito attira l’attenzione a causa

44 Asmodeo è citato nel Libro di Tobia (3,8 e 3,17) come assassino dei sette mariti di Sara. Eurino-me è una divinità preolimpica che in seguito all’avvento del cristianesimo fu identificata con un demone superiore femminile [N.d.T]. 45 Daniel Buren (Boulogne-Billancourt, 1938) è un artista celebre per le sue installazioni; in partico-lare per le «colonne» di stoffa a strisce bianche e nere con le quali, nel 1985, allestì il cortile del Pa-lais Royal a Parigi [N.d.T.].

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di un dettaglio insolito: il procuratore della Giudea non si lava le mani in una va-schetta, ma in un vassoio bianco retto da un nero. Blanchefort e Roco Negro: qui troviamo un rebus topografico [...] Così, una nuova prova ci viene proposta utiliz-zando particolari intenzioni e procedimenti.46

Secondo questo autore, la sesta stazione, dov’è rappresentata una torre seminasco-

sta e una cupola, mentre santa Veronica porge un panno a Gesù Cristo sotto lo sguar-do di Simon Pietro, spiega come orientarsi, secondo le esigenze di un rebus che il let-tore stesso è invitato a decifrare.

Se guardiamo con attenzione la serie delle quattordici stazioni, noteremo che ogni volta il suolo è raffigurato in modo diverso: talvolta è bianco, talvolta nero, tal altra screziato; a volte è pianeggiante, altre volte è collinare. Niente giustifica per l’artista la raffigurazione di queste differenze, fatta eccezione la necessità di rap-presentarci, come in un modellino, la sequela di accidenti del terreno che il cerca-tore incontra sul percorso. Allo stesso modo, le diverse posizioni che s’impongono al cercatore, strada facendo, a causa della configurazione dei luoghi: qui si può sta-re eretti, ma altrove bisogna chinarsi, inginocchiarsi o strisciare nel fango; qui si può rimanere vestiti, ma altrove occorrerà denudarsi.47

A sostegno di ciò, Gérard de Sède fa notare che, alla terza stazione, Gesù sposta

una pesante pietra, fatto non menzionato da alcun Vangelo. L’autore lo interpreta come la descrizione di un passaggio angusto, nel quale si deve stare in ginocchio e in cui la strada è sbarrata da una grossa pietra che bisogna spostare.

Medesima situazione alla quarta stazione. Qui pare che l’itinerante possa rialzarsi, ma trova di fronte a sé una via senza uscita (simbolizzata dal gesto del soldato). Il quadro suggerisce, a quanto pare attraverso il pianto della Maddalena, di interessarci a una infiltrazione d’acqua che indica il cammino da seguire.

Non è solo la Via Crucis che dovrebbe guidarci in questa singolare caccia al tesoro, ma anche le statue della chiesa. Così, quella di santa Germana di Pibrac:

Si ritiene che questa pastora occitana sia vissuta alla fine del XVI secolo [...] Si racconta che dovesse fare l’elemosina di nascosto dalla sua matrigna. Questa, a-vendola sorpresa mentre portava del pane ai poveri, la obbligò ad aprire il grem-biule; ma il pane si tramutò immediatamente in rose. Si dice anche che andasse a pregare lontano in campagna, inginocchiata nel fango, di fronte a un cespuglio e che un giorno il ramo di un ruscello si seccò miracolosamente per lasciarla passare. Molto tempo dopo la morte di Germana, si ritrovò il suo corpo intatto, ma afflitto da un’infermità: un braccio era ripiegato su se stesso e rinsecchito.48

46 De Sède, Le trésor maudit cit, pp. 150 sgg 47 Id. 48 De Sède, Le trésor maudit cit, pp. 150 sgg.

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Gérard de Sède interpreta questa figura come un’allegoria. Germana, con i suoi fiori, rinvierebbe alla «tenuta Fleury». Il suo personaggio costituirebbe un riscontro anche all’indicazione di Cristo inginocchiato nel fango. Infine, parrebbe indicare al cercatore di tesoro che deve inoltrarsi nel letto di un torrente a secco.

Tutto è un pretesto per continuare questa ricerca iniziatica in forma di rebus. Così la decima stazione:

L’itinerante si è spogliato dei propri vestiti, il che significa, come mostra il quadro, che ha dovuto scendere sotto una cascata per una ripida parete e raggiungere una sala inferiore. Il soldato di destra, in virtù della sua posa, indica il luogo in cui, lì giunti, bisogna posare il piede. Quello di sinistra, la cui testa esce dal quadro per meglio attirare la nostra attenzione, tira a sorte la tunica senza cuciture; guardate la mano che tiene il corno: riproduce esattamente il gesto dell’Asmodeo dell’acquasantiera; notate anche i dadi, smisuratamente ingranditi, in modo tale che possiamo leggere i punti: 5 e 7, che sembrano proprio indicare una misura, forse quella dei passi da fare.49

Di fronte a un tale delirio interpretativo che, lo ripetiamo, non riposa su acun ele-

mento concreto, si è meno stupiti che il darwinismo, per esempio, abbia potuto allo stesso modo affascinare tanti uomini, per generazioni! Il nostro autore attribuisce una grande importanza a san Rocco, la cui statua si trova ugualmente nella chiesa. Forse è dovuto al fatto che, secondo la leggenda, nacque marcato da una croce rossa.

Pellegrino, arginò un’epidemia di peste tracciando un segno della croce. Le malat-tia non lo risparmiò e mantenne per tutta la vita una piaga purulenta nella parte alta della coscia. Per il suo nome e la sua leggenda, questo personaggio è estremamente singolare e molto ricco di risonanze simboliche. Il suo nome, Rocco, viene da «ru-beus», rosso, un’allusione alla croce da cui era segnato sin dalla nascita. Fatto cu-rioso, quel marchio era anche quello con cui un tempo si riteneva di poter ricono-scere alla nascita i re merovingi, che erano così della stirpe rossa. Qui, in modo più concreto, il santo segnala al contempo un masso marcato da una croce rossa e un orifizio purulento. Quali? Questo e solo un estratto di ciò che quest’autore e i suoi successori hanno saputo o

creduto di scoprire nella chiesa. Un ritorno al buon senso s’impone. Innanzitutto, che si sappia, lo studio della Via Crucis della chiesa di Maria Maddalena non ha mai permesso di scoprire alcun tesoro. Le ricerche, di cui questo luogo di culto è stato og-getto da parte di Cholley e di altri dopo di lui (alcuni hanno addirittura tagliato la te-sta e il braccio del diavolo, credendo di trovarvi degli indizi), sono state tutte altret-tanto infruttuose. La pavimentazione a scacchiera? Questa chiesa non è la sola a pos-

49 Id.

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sederla: Camus cita Jonquerette nei pressi di Avignone50. La volta celeste sul soffit-to? Si può ancora citare Jonquerette oppure la cattedrale di Salisbury, e anche la basi-lica del Bois-Chenu a Domrémy. La Via Crucis che va da sinistra a destra? È il caso di quella di Rocamadour, di quella della cattedrale di Perpignan e della chiesa parroc-chiale degli autori. Le regole liturgiche tacciono su questo punto, né questa disposi-zione né quella opposta sono errate.

Del resto, ci si può chiedere perché l’abate Saunière avrebbe voluto rivelare il luo-go in cui scoprì il suo tesoro. Ammettendo che fu proprio la ragione della sua im-provvisa fortuna, è evidente che si affrettò a dissotterrarlo e monetizzarlo dopo aver-ne discretamente depositati alcuni elementi a casa sua. Forse nella capanna di assi che sprangava così accuratamente e che rimproverò tanto duramente ai pompieri di aver forzato? O nella stanza segreta che fece allestire nella chiesa stessa e alla quale si ac-cedeva solo attraverso il doppiofondo di un armadio a muro, che chiudeva sempre a chiave?

Béranger Saunière fu l’adepto di un Ordine occulto e la sua chiesa un tempio dell’esoterismo? Non abbiamo elementi per affermarlo. Certo, rose e croci sono inci-se sul frontone della chiesa. È sufficiente per fare del curato un rosacroce? Allo stesso modo, si contano alcuni simboli massonici nella decorazione. Ma questa è opera dello scultore Giscard, lui stesso massone. Alcuni autori hanno fatto notare che la tomba dell’abate Gélis era orientata non verso oriente ma verso sud, verso Rennes-le-Château, e che era sormontata da una rosa e da una croce. Significa che faceva parte della Rosa + Croce? Anche la tomba di famiglia degli autori è orientata verso sud e ornata da una rosa e da una croce. Ma gli stessi autori assivurano che né loro né alcu-no dei loro parenti sono rosacroce.

Ora, Béranger Saunière ha nascosto il suo tesoro o ciò che ne rimaneva in un altro luogo indicato da un crittogramma? Ci sono solo due elementi che permettono di an-dare in questo senso. Sono ancora molto deboli.

In primo luogo, il modellino in rilievo che Béranger Saunière ordinò nel 1916 a un fonditore di Aix-en-Provence. Nel 1916, dunque poco prima della sua morte, fatto che renderebbe il suo comportamento molto più comprensibile piuttosto che nascon-dere un messaggio nella chiesa vent’anni prima. Questo modellino in bronzo reca al-cune iscrizioni. Innanzitutto si nota: «Il Calvario e il Santo Sepolcro. Stato primiti-vo».

Poi, sulla mappa stessa: «Giardino dei Getsemani», «Golgota o Calvario», «Cister-na», «Tomba di Giuseppe di Arimatea», «Tomba di Cristo».

Il problema è che questa cartina non ha alcun rapporto con la topografia reale dei luoghi della Passione di Cristo. Assomiglia molto di più a un paesaggio del Razès. Ma è difficile dirne di più.

Il secondo elemento è molto più sospetto. In effetti, apparve per la prima volta cin-quant’anni dopo la morte dell’abate Saunière, nel 1967. Fu Gérard de Sède che lo ri-velò al pubblico in Le trésor maudit de Rennes-le-Château, precedentemente pubbli-

50 Jean-Philippe Camus, L’énigme de Rennes-le-Château enfin résolue, «L’Inconnu», n. 275, agosto 1999, p. 40.

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cato col titolo meno audace: L’or de Rennes. È il famoso crittogramma «Pescatore stolto...». Pare che sia stato scoperto fra gli effetti personali di Béranger Saunière, re-datto su un quaderno di scuola a quadretti. Lo richiameremo più diffusamente nella seconda parte.

Diciamo subito che non v’è alcuna certezza che questo rebus - uno di più - sia ope-ra di Béranger Saunière. La sua decifrazione dunque non conduce per forza al luogo in cui ha nascosto il suo tesoro. Forse porta solo su una pista voluta da eventuali mi-stificatori.

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Il priorato di Sion

Il Priorato di Sion è una società retta dalla legge del 1901 sulle associazioni senza

scopo di lucro. È stata dichiarata il 25 giugno 1956 alla sottoprefettura di Saint-Julien-en-Genevois e ha sede sociale a Sous-Cassan, Annemasse (Alta Savoia). Il suo fine ufficiale è modesto: studio e mutuo soccorso fra i membri. All’epoca, il Priorato di Sion contava quattro membri:

- Pierre Bonhomme, detto Stanis Bellas, segretario-contabile: presidente. - Jean Delaval: vicepresidente. - Pierre Desfagots, operaio orologiaio: tesoriere. - Pierre Plantard, detto Chyren, disegnatore: segretario generale. La sola cosa che si può dire sui primi tre è che non sono immaginari e che tornaro-

no immediatamente a un anonimato da cui forse non avevano mai avuto intenzione di uscire. Solo il quarto, Pierre Plantard, avrebbe acquisito una certa fama grazie a una carriera di mistificatore-mitomane, la cui audacia si accompagna alla stravaganza. Il suo soprannome dell’epoca lo dimostra già ampiamente: Chyren era il nome del Grande Monarca a venire, nei versi di un troppo famoso astrologo del XVI secolo.

Nato il 18 marzo 1920 a Parigi, Pierre Plantard cominciò molto presto la sua car-riera di millantatore, poiché a 22 anni appariva col nome di Pierre de France in quali-tà di direttore-gerente di un mensile più o meno collaborazionista chiamato «Vaincre pour une jeune chevalerie», che si presentava come l’organo di un Ordine di cavalle-ria: l’ordine Alpha-Galates, che pare risalisse ai Galli. Ciò è già un’assurdità, poiché la cavalleria è un’istituzione che non risale, in quanto tale, a prima del X secolo.51

Nei fatti, l’ordine Alpha-Galates fu fondato probabilmente nel 1934 da Georges Monti (1880-1936), strano personaggio di avventuriero mitomane.

Quello che sappiamo di lui ci proviene da testimonianze e, soprattutto, da ciò che ne scrive l’abate Hoffet. Monti era in qualche modo il segretario di Péladan, che aveva fondato un ordine rosacroce dissidente, grande amico della cantante lirica Emma Calvet [...]. [Monti] era appassionato di esoterismo e condivideva le con-vinzioni del gran maestro sulfureo della Golden Dawn, Alester Crowley, il cui ruo-lo nella genesi ideologica di Adolf Hitler è indubbia. Apparteneva ugualmente alla Santa Vehme germanica, società segreta plurisecola-re il cui fine era la giustizia. Ma quale giustizia? Grazie alla sua straordinaria capa-cità di dissimulazione, Monti ha mantenuto contatti con gli ambienti cabalisti della Grande Sinagoga sefardita di Parigi. Istruito e iniziato, Monti chiede di convertirsi al giudaismo: sincerità o volontà di avvicinare i segreti dei rabbini più eruditi? Cu-riosamente e fatto rarissimo, la ottiene e nel 1933 diventa Marcus Velia, conte I-srael Monti.52

51 Cfr. Daniel Kircher, Les dragons de la mer, Corlet, Condé-sur-Noireau 1999.

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Questo Georges Monti fu immischiato nell’affaire Saunière? Constatiamo che la

relazione che lo collega al curato di Rennes-le-Château (segretario di un amico di un’amica di Béranger) è per lo meno debole. Nessun altro elemento della vita dell’uno o dell’altro di questi due uomini la conferma. Dunque, non possiamo seguire gli autori che lo affermano. In breve, l’ordine Alpha-Galates scomparve alla Libera-zione, se non addirittura prima, e non si sentì più parlare di Pierre Plantard prima del-la creazione del famoso «Priorato di Sion». Perché questo nome a connotazione reli-giosa per un’associazione assai profana di mutuo soccorso? A questo proposito non si può evitare l’accostamento con le misteriose iniziali «P.S.» incise sulla stele verticale della tomba della marchesa di Blanchefort. Il disegnatore industriale Pierre Plantard, già Pierre de France, direttore-gerente del mensile «Vaincre pour une jeune chevale-rie» e capo dell’ordine Alpha-Galates, avrebbe dunque utilizzato quelle iniziali per battezzare la nuova associazione?

Ci si convincerà apprendendo che il suddetto Pierre Plantard possedeva una piccola proprietà a... Rennes-les-Bains, e anche che nel 1959 conobbe uno scrittore-giornalista: Gérard de Sède. In un primo tempo, la collaborazione fra i due si concretò in un libro pubblicato nel 1962: Les Templiers sont parmi nous53, che con discrezione faceva già allusione al «Priorato del monte Sion», poi nel 1967 L’or de Rennes, che avrebbe lanciato effettivamente l’affaire di Rennes-le-Château. Uno fra gli aspetti più intriganti di questo libro fu la pubblicazione dei facsimile di due manoscritti che sa-rebbero stati trovati in chiesa da Béranger Saunière. Non ritorneremo più sulla dubbia autenticità di quei documenti. Ci si ricorda che il marchese di Cherisey propose per il primo manoscritto la traduzione seguente: «Pastore, nessuna tentazione. Che Poussin, Téniers, custodiscano la chiave. Pax DCLXXXI. Per la croce e questo cavallo di Dio, finisco questo demone di guardiano a mezzogiorno. Mele blu».

Il secondo manoscritto è autenticato dalle iniziali «P.S.» che appaiono come una firma. Il testo decifrato significherebbe: «Questo tesoro è del re Dagoberto II e di Sion ed è la morte».

Due considerazioni s’impongono: Béranger Saunière non ha potuto scoprire il suo tesoro grazie a questi due messaggi. In secondo luogo, l’autore di questi scritti cono-sceva bene il fascicolo dell’affaire. In effetti, un quadro del pittore Téniers (La tenta-zione di sant’Antonio) ornava l’abitazione dell’abate insieme ai Pastori d’Arcadia di Poussin. Inoltre, la firma «P.S.» è un evidente richiamo alla misteriosa iscrizione sul-la stele verticale. Sicuramente l’autore - il mistificatore - ha voluto introdurre nell’affaire al contempo Dagoberto II e il Priorato di Sion. Perché?

Nato nel 652, Dagoberto II divenne re dell’Austrasia nel 674. Poco dopo l’inizio del suo regno, fu assassinato su ordine di Pipino di Heristal, il 23 dicembre 679, e i-numato nella chiesa di San Remigio. Il 10 settembre 872 venne scoperta la sua tom-ba. Carlo il Calvo allora fece esumare il corpo e ordinò la costruzione in quel luogo

52 Jean-Philippe Camus, L’énigme de Rennes-le-Château enfin résolue, «L’Inconnu», n. 275, agosto 1999.53 Gérard de Sède, Les Templiers sont parmi nous, Julliard, Paris 1962 [N.d.T.].

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della basilica di San Dagoberto. Oggi resta solo il suo cranio, depositato in un con-vento di Mons in Belgio.54

Il monte Sion - detto anche «Ofel» o «Moria» - è, com’è noto, una delle due colli-ne di Gerusalemme. Anzi la più prestigiosa, poiché lì fu costruito il Tempio di Salo-mone. Storicamente, l’unica comunità religiosa cristiana che abbia mai portato questo nome fu l’abbazia di Santa Maria del Monte Sion, fondata nel 1099 da Goffredo di Buglione. Dopo la riconquista della Città Santa da parte di Saladino, i monaci si sta-bilirono a Saint-Samson nei pressi di Orléans e, in seguito, si sciolsero nell’ordine dei Gesuiti. L’espressione «Priorato di Sion» è nota solo grazie al «Journal officiel» del 20 luglio 1956, che registrò l’associazione di Bonhomme, Delavai, Desfagots e Plan-tard.

Il dramma - o la commedia - è che ormai questo fantomatico Priorato stava rinser-rando tutto l’affaire di Rennes-le-Château, come l’edera cinge il tronco dell’albero. Si può essere certi che, ogni tre libri pubblicati sul caso Saunière, due parleranno diffu-samente della discendenza nascosta dei Merovingi e degli sforzi costanti di una mi-steriosa società segreta, le cui diafane iniziali «P.S.» appaiono un po’ ovunque, per proteggerli. Stirpe merovingia che, dopo il supposto Sigisberto IV, figlio di Dagober-to II, conduce oggi a Pierre Plantard! Quali sono i legami con Béranger Saunière e con il suo improvviso arricchimento? Esistono solo per caso e grazie alla fertile im-maginazione di autori dei quali ci si può chiedere se siano ingenui o bassamente ve-nali.

I mistificatori-mitomani continuano, beninteso, ad alimentare la curiosità. Così, nel 1973 la rivista «Le Charivari» ci metteva al corrente che il Priorato di Sion contava, a quella data, 9.841 membri ripartiti in nove gradi. Bel successo davvero per un’associazione che, 17 anni prima, aveva solo quattro fondatori. Ma, secondo Gé-rard de Sède, una seconda versione gli accorda solo 1.093 membri e sette gradi. Inol-tre, il Priorato avrebbe 21 statuti nella versione «Charivari» e 22 nella seconda.

Pierre Plantard pubblicò nel 1959 un bollettino intitolato «Circuit», che si presen-tava come una «pubblicazione di studi sociali, culturali e filosofici», presto sottotito-lata «Federazione delle Forze Francesi». Ora, l’articolo 2 degli statuti del Priorato di Sion spiega che CIRCUIT è la sigla abituale di questo movimento e significa Caval-leria d’Istituzione e Regola Cattolica d’Unione Indipendente e Tradizionalista.

Noteremo ancora, secondo altre fonti, che il Priorato di Sion risalirebbe ai Sicam-bri, una varietà di Franchi, che sarebbe stata legata agli Esseni, setta ebrea anteriore al cristianesimo, tramite Goffredo di Buglione, il condottiero della prima crociata, e i rosacroce. Che i suoi grandi maestri, o «Nautoniers», hanno il compito non solo di proteggere la razza merovingia nata da Dagoberto II, ma anche di diffondere il cri-stianesimo esoterico di Giovanni Battista. Missione per la quale, in 20 secoli, non hanno mostrato molto zelo!

Le Livre des Constitutions, pubblicato a Ginevra, nomina fra i «Nautoniers» Nico-las Flamel, Leonardo da Vinci, Newton, Victor Hugo, Claude Debussy, Jean Cocteau. 54 Patrick Mensior, L’extraordinaire secret des prétres de Rennes-le-Château, Les 3 Spirales, Corps 2001, p. 126.

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Per finire col grande maestro attuale: il nostro famoso Pierre Plantard. Questa successione di stravaganze avrebbe infine convinto Gérard de Sède di esse-

re stato raggirato dai suoi informatori. Dunque pubblicò, nel 1988 per le edizioni Ro-bert Laffont, Rennes-le-Château, sottotitolato: Le dossier, les impostures, les phanta-smes, les hypothèses. Libro nel quale regola i conti col signor Plantard e smonta mi-nuziosamente i meccanismi intellettuali della frode. Ci accontenteremo dunque, su questo punto particolare, di rinviare il lettore a questa interessante opera.

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I tesori del Razès

La tradizione popolare e locale, ma anche le deduzioni dei ricercatori, attribuiscono l’improvvisa fortuna dell’abate Saunière alla scoperta di un tesoro. E bisogna ammet-tere che nessun’altra ipotesi elaborata - traffico di messe, donazioni di ricchi peniten-ti, ricatto per le rivelazioni dinastiche o religiose - regge al vaglio. La scoperta di que-sto tesoro, poi la necessità di trasportarlo discretamente, di depositarlo, in seguito di monetizzarlo, è ancora ciò che spiega con minori difficoltà certe abitudini e pratiche del nostro curato.

D’altronde, abbiamo visto che la leggenda si è presto impossessata delle attitudini di Béranger Saunière, non esitando a esagerare. Così, una sorella di latte di Marie Denarnaud certifica di aver visto alcuni lingotti d’oro disposti su una mensola nella cantina di Villa Betania. Ma vi immaginate il curato di Rennes-le-Château, così di-screto, così abile, lasciare in questo modo le sue ricchezze in vista di chiunque venis-se? Se, contrariamente all’abate Gélis, si pratica la più generosa ospitalità, non si ten-gono i propri fondi in casa.

Comunque, due autori raccontano una strana storia: Maurice Guinguand (L’or des Templiers) e Jean Blum (Rennes-le-Château, Wisigoths, Cathares, Templiers)55. Se-condo loro, un notaio di Quillan, l’avvocato Joseph Gabriel Gayda, avrebbe preso contatto con Béranger Saunière nel 1885, affinché lo aiutasse a decifrare alcuni do-cumenti in latino o in basso latino. Questi scritti li avrebbero messi sulla pista di un tesoro. Cercandolo, i due uomini furono sorpresi, il 24 ottobre 1885, da una valanga: Saunière si salvò solo per miracolo, mentre il suo compagno fu ucciso sul colpo. Poi-ché questi due autori non citano alcuna prova a sostegno di ciò che avanzano, è lecito pensare che questo incidente fu inventato in seguito, quando la reputazione di cerca-tore di tesori dell’abate era ben radicata. Ricordiamo che il curato di Rennes-le-Château divenne ricco solo dieci anni più tardi.

Ora, quale tesoro si poteva sperare di trovare nei dintorni di Rennes-le-Château? Diciamo che, in primo luogo, la località è abitata da moltissimo tempo, poiché nel

1880 vi si scoprì un cimitero neolitico che risale al II millennio prima di Cristo. I Gal-li, che in Francia sono arrivati - relativamente - tardi, occuparono la regione per di-versi secoli. Senza dubbio, furono loro a scoprire le proprietà termali e terapeutiche delle sue acque. Così, si sono scoperte le vestigia di un tempio celtico a Rennes-les-Bains. All’epoca della dominazione romana, questa località divenne una stazione di cura molto apprezzata dai patrizi della Gallia narbonese. Ma è senza dubbio nel pe-riodo delle grandi invasioni che la regione acquisì il massimo della sua importanza e prosperità.

In effetti, dopo aver saccheggiato Roma sotto Alarico nel 410, i Visigoti si diresse-ro verso la Provenza e la Linguadoca, e vi si stabilirono. Molto rapidamente, a suon 55 Maurice Guinguand et Beatrice Lanne, L’or des Templiers, Laffont, Paris 1973. Jean Blum, Rennes-le-Château, Wisigoths, Cathares, Templiers, Ed. du Rocher, Monaco-Paris 2003 [N.d.T.].

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di trattati estorti agli imperatori fantoccio di un Impero d’Occidente moribondo, co-stituirono un regno «alleato» la cui capitale fu Tolosa e che si estese su tutta l’Aquitania dell’epoca, cioè fino all’Auvergne e alla Loira. Non contenti di essersi così assicurati la maggior parte della Gallia, non tardarono a valicare i Pirenei e a conquistare tutta la penisola iberica, con la sola eccezione della Galizia e dei Paesi Baschi. Era l’epoca in cui l’imperatrice Gallia Placidia sposava, probabilmente per amore, il successore di Alarico, Ataulfo, e in cui questi giocava al protettore del «po-tere» romano.

Non si sa quale località occupasse allora il sito di Rennes-le-Château, ma è certo che al tempo doveva essere un centro molto potente (si è parlato di 30 mila abitanti, un numero considerevole per l’epoca), con cinta muraria e dominata da una possente fortezza, che forse occupava la collina dell’attuale villaggio. Rennes-les-Bains allora era semplicemente i «Bagni di Rennes»: il sobborgo residenziale dove i cittadini fa-coltosi venivano a rilassarsi e curarsi. Furono proprio i Visigoti a dare un nome alla città: Rhedae. In gotico, questo termine significa «carro», forse un’allusione al cer-chio di carri che formavano durante le soste per fini difensivi. Ciò sottolinea l’importanza strategica della località, che dominava le strade che mettevano in comu-nicazione le valli dell’Aude e dell’Ariège, dunque l’accesso alle Corbières e ai Pire-nei e, più in generale, a una buona parte dei passi fra la Gallia e l’Iberia.

Importanza che si potè verificare all’epoca della catastrofe di Vouillé, nel 507, quando i Visigoti furono schiacciati dai Franchi di Clovis. Tolosa cadde in mano al vincitore e la corte visigota si rifugiò a Rhedae. Senza dubbio, i Visigoti pensavano di ottenere presto una rivincita, forse con l’appoggio dei loro cugini Ostrogoti che occu-pavano l’Italia. È il motivo per cui Rhedae rimase la loro capitale a nord della catena pirenaica, congiuntamente a Toledo a sud. L’importanza della città era tale, all’epoca, che diede il nome a tutta la regione: il Rhedesium, che divenne più tardi il Razès.

Ma il regno ostrogoto cadde sotto i colpi di Giustiniano e di Belisario, la pressione dei Franchi divenne irresistibile, obbligando il regno visigota ad acquartierarsi in Spagna. La città di Rhedae, che non perse la sua importanza, fu conquistata dagli A-rabi intorno al 720, prima di essere riconquistata dai Carolingi. Nel 790, Carlo Magno ne fece il capoluogo della contea del Razès e la pose sotto l’autorità dei vescovi di Narbonne.

Il declino non arrivò che con lo smembramento dell’impero carolingio. Rhedae fu distrutta una prima volta nel 1170 dal re Alfonso II di Aragona. Nel 1210, nel corso della crociata degli Albigesi, la città cadde nelle mani di Simone di Montfort. Infine, nel 1362, al tempo delle Grandi Compagnie, i terribili fanti aragonesi di Enrico di Trastamare annientarono completamente ciò che restava della città. Sopravvisse solo il piccolo villaggio di Rennes-le-Château.

Questa breve sintesi fa già sorgere una prima domanda: nel corso delle sue pere-grinazioni attraverso la campagna, Béranger Saunière non avrà fortuitamente inciam-pato in un tesoro nascosto da un patrizio dell’antica Rhedae? Anche se oggi le vesti-gia di questo agglomerato sono state cancellate così bene che si possono riconoscere solo con una fotografia aerea, un tale colpo di fortuna non è impossibile. Gérard de Sède, citando lo storico Louis Fédié, descrive così questa metropoli:

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La città si sviluppava su una superficie che può essere comparata a quella che rico-pre la città di Carcassonne all’interno della cinta dei viali. Era circondata da una doppia cinta muraria e bordeggiata a sud da un precipizio che ne rendeva impossi-bile l’accesso. Sul lato ovest, era collegata da una ripida rampa a una fortezza che occupava l’area del villaggio attuale e che si chiamava Castrum di Rhedae. Sul lato a Levante, l’unico abbordabile, aveva di fronte a sé un’immensa pianura. [...] Una seconda fortezza, della quale non restano vestigia, si ergeva a sud a una distanza di cinquecento metri circa dai bastioni. Questa fortezza era costruita su un mammel-lone di marna rossa che significa «gran castello» [...] La città di Rhedae possedeva due chiese, una dedicata al patrono san Giovanni Battista, l’altra sotto l’invocazione della Santa Vergine. Un convento di monaci che, secondo la tradi-zione, era munito di mezzi difensivi, si ergeva nei pressi dell’ingresso della città, sul lato a Levante [...] A Rhedae si contavano quattordici banchi di macelleria. La cittadella di Rhedae era divisa in tre quartieri, che ancora esistono nel villaggio at-tuale. Il primo, chiamato Castrum Valens, a Levante, oggi si chiama «Castello di Balent». Il secondo, posto a mezzogiorno, si chiamava Castrum Salassum e lo si chiama «Salasso». Infine, il terzo, indicato col nome di Capella, si chiama il «Ca-pello» e vi si notano le vestigia di un’antica chiesa.56

In epoca visigota, si parla di 30 mila abitanti per questo agglomerato. Ancora sotto

Carlo Magno, il poeta Teodolfo la compara per importanza a Carcassonne e Narbon-ne. Doveva certamente accogliere persone opulente. Alcune scoperte vanno in questo senso: molto prima di Saunière, si era scoperto sull’altopiano di Rennes un lingotto di una ventina di chili fatto da un amalgama di monete arabe agglomerate. Poi, nel 1860 fu scoperto un altro lingotto d’oro, questa volta del peso di 50 chili, ricoperto da un materiale bituminoso. Venne scoperto da un agricoltore chiamato Rougé, nel luogo detto «Charbonnières», nei pressi del Bézu. Undici anni dopo la morte di Saunière, nel 1928, in una capanna in rovina che costeggia il ruscello di Couleurs, nei pressi di Rennes-le-Château, si scoprì una statuetta in oro massiccio, in parte fusa, ma di cui si distinguevano ancora i piedi. Gérard de Sède a questo proposito aggiunge: «Questo ritrovamento va rapportato alla scoperta di un crogiolo che reca ancora delle tracce d’oro fuso nella casa natale di Saunière, a Montazels»57.

Ma la supposta importanza di questo tesoro - si parla di 15-24 milioni di franchi in oro, solo per le spese del singolare curato! - porta a chiedersi se non si trattasse molto semplicemente del Tesoro Antico visigota? Sembra che questa nazione avesse un te-soro di Stato composto da due parti ben distinte. Il tesoro reale propriamente detto, composto dai tributi e dai gioielli dei re; e, d’altra parte, il Tesoro Antico, che era la proprietà di tutti i Visigoti. Era stato formato nel corso degli anni dal bottino accumu-

56 Gérard de Sède, Rennes-le-Château, le dossier, les impostures, les phantasmes, les hypothèses, Laffont, Paris 1988, p. 88.57 Gérard de Sède, Le trésor maudit de Rennes-le-Château, J’ai lu, Paris 1972, p. 53.

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lato dal popolo nel corso delle sue migrazioni conquistatrici. Nemmeno il re aveva il diritto di intaccarlo, a meno che fosse stata in gioco l’esistenza stessa della nazione. In breve, giocava il ruolo della «Riserva federale» o dell’oro della Banca di Francia. Questo bottino doveva essere piuttosto consistente, poiché la città di Roma, nel 408, dovette pagare un riscatto di 5000 libbre d’oro e 30.000 libbre d’argento (la libbra romana pesava 323 grammi), 4000 tuniche di seta, 3000 pelli e 3000 libbre di spezie per veder levare l’assedio dei Visigoti... cosa che non impedì loro, due anni più tardi, condotti dal re Alarico, di impadronirsi della città e di saccheggiarla orrendamente nel corso del sacco che sarebbe durato sei giorni.

In questa occasione, i Visigoti si impadronirono del tesoro del Tempio di Gerusa-lemme saccheggiato da Tito e di cui certi elementi, come il candelabro d’oro che pesa un talento, furono effettivamente portati a Roma? Lo afferma lo storico Procopio.

Ora, questo tesoro potè essere depositato a Rennes-le-Château o nei dintorni? Non è impossibile. Nel 507 Clovis si impadronì di Tolosa, capitale visigota, e del tesoro che vi si trovava: cioè senza dubbio del tesoro reale. L’inventario del bottino, fatto da un Franco, Fredegario, non menziona alcun elemento che poteva provenire da Roma o da Gerusalemme. Quando, dopo poco più di due secoli, gli Arabi si impadronirono di Toledo, anche in quel caso l’inventario, effettuato questa volta da El Macin, non rivela alcun tesoro romano o ebreo. Il Tesoro Antico era stato depositato al riparo del-le possenti muraglie di Rhedae? E possibile.

Per contro, l’ipotesi primitiva di Corbu, che ci è pervenuta tramite Robert Char-roux, dev’essere abbandonata: Bianche di Castiglia non ha mai avuto la bislacca idea di deporre il tesoro della Corona di Francia in un recesso del suo regno e in un’area ancora turbata dalla crociata degli Albigesi. Del resto, su nessun documento di cui di-sponiamo figurano, come pretende l’erede di Marie Denarnaud, il sigillo e la firma di Bianche di Castiglia.

Ora, si trattava del Tesoro degli Albigesi? A priori sembra sorprendente: i «Perfet-ti» catari si caratterizzavano per il disprezzo dei beni terreni, disprezzo spinto fino al suicidio per inanità. Dunque, è difficile immaginare la Chiesa catara accumulare un tesoro materiale. Il solo indizio suscettibile di deporre a favore di ciò è la relativa prossimità geografica di Montségur (Ariège) e di Rhedae (Aude). Ma, ancora una volta, non sembra plausibile che i circa 44 irriducibili, che preferirono il rogo all’abiura, si siano preoccupati di far nascondere un tesoro.

La pista templare pare altrimenti seria. Nel 1262, il re d’Aragona Giacomo I divise il suo regno: il primogenito ricevette per testamento l’Aragona e la Catalogna; il se-condo, le Baleari, la Cerdagne e il Roussillon, che si chiamò regno di Maiorca. Come si può immaginare, il nuovo re di Aragona non volle accettare lo smembramento del suo regno e ne seguì una guerra fratricida, nel corso della quale il partito maiorchino fu infine sconfitto. Il re di Maiorca, come spesso accadeva, aveva affidato il suo teso-ro ai Templari che, secondo ogni verosimiglianza, l’avevano depositato nella loro

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Commanderia58 del Bézu. Infatti, questa non era situata in terra aragonese, bensì sotto la signoria di Rennes. È almeno l’ipotesi che difende un altro curato, l’abate Maurice-René Mazière nelle «Mémoires de la Société des Arts et Sciences de Carcassonne», e bisogna convenire che è verosimile. Ora, cosa ne fu del tesoro? Bisogna ammetterlo: se ne sono perse le tracce.

Il mattino del 13 ottobre 1307, cioè poco dopo gli eventi aragonesi, tutti i Templari del regno di Francia furono arrestati per ordine del re Filippo il Bello. Tutti tranne quelli del Bézu. E quando, tre anni dopo, il ciambellano Enguerrand de Marigny per-corse la Francia per sequestrare le riserve di denaro che appartenevano ai Templari, non trovò assolutamente niente nella commanderia del Bézu. Si sa che in quegli anni 13 Templari del Roussillon scomparvero misteriosamente. Avevano la missione di nascondere le ricchezze del loro Ordine? Rispondere a questa domanda è impossibile. Ma se, per ipotesi, l’avessero fatto, non potevano aver portato molto lontano un oro bramato da due re.

Un incidente curioso, che si produsse nel 1340 proprio nel Bézu, obbliga a porsi diverse domande. Quell’anno, gli agenti della maniscalcheria reale vi arrivarono per arrestare i cavalieri Guilhelm Catala e Pierre de Palajan de Coustaussa, così come le nobildonne Agnès Mayssène de Caderone e Brunissende de Gureyo. In effetti erano certi che avessero «a più riprese, nel Bézu e altrove, fuso e battuto moneta falsa». Gli imputati, lungi da farsi prendere, assassinarono il capo degli agenti del re, Guillaume Servin, e fuggirono. Ora, Brunissende de Gureyo non era altri che la sposa del signo-re di Rennes-le-Château, Pierre Voisin. E Guilhelm Catala, il nipote naturale di Be-nedetto XII, il papa regnante. Con parentele tanto altolocate, non stupisce che i col-pevoli siano stati graziati quattro anni più tardi. È vero che eravamo alla vigilia della battaglia di Crécy e che il re Filippo VI di Valois aveva ben altre gatte da pelare.

Questo fatto di cronaca ci interessa perché: «Battere moneta falsa a quell’epoca po-teva avere due significati diversi: o mettere in circolazione una moneta di bassa lega, più povera in metallo di quanto esigessero le leggi, oppure battere una moneta di buona lega senza avere il diritto di emetterla»59.

Nella prima ipotesi, si tratta molto semplicemente di una svalutazione. Al contra-rio, pare che i nostri quattro frodatori abbiano commesso il secondo reato: è intorno all’inizio del XIV secolo che battere moneta diventa privilegio esclusivo reale o papa-le. Ma, in questo caso, da dove proviene l’oro utilizzato per queste emissioni fraudo-lente? Non si può non pensare al tesoro maiorchino, al tesoro templare, al tesoro del Bézu o come lo si vorrà chiamare.

Conviene aggiungere al dossier che, nel 1156, l’ordine dei Templari si era dato un nuovo Gran Maestro. Si chiamava Bertrand di Blanchefort, una famiglia molto im-

58 Manteniamo la dicitura commanderia per indicare i conventi dei Templari, talvolta fortificati e peculiari dal punto di vista amministrativo rispetto alle strutture analoghe afferenti agli altri Ordini. Tali strutture erano dirette da un commendatore o, nel caso in cui fossero definiti precettorie, da un praeceptor. 58 De Sède, Le trésor maudit cit, p. 87.

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portante del Razès che aveva già fatto dono di diversi feudi a questa milizia di mona-ci-guerrieri, fra cui quello di Esperaza. Quanto alla casata di Hautpoul, era una fra le famiglie più illustri della Linguadoca. Sin dal 1422 si alleò con i Voisin, signori di Rennes-le-Château. Ed è nel 1732 che François d’Hautpoul, uno dei loro rampolli, sposò Marie di Nègre d’Ables, della quale conosciamo la celebre pietra tombale. Dunque si può ammettere che, se mai è esistito un tesoro nel Bézu o altrove, questa dama si trovava in buona posizione per conoscerlo.

Un ultimo dettaglio: un giorno, un amico di Béranger Saunière, il curato di Cam-pagne-sur-Aude, Antoine Beaux, gli avrebbe detto in tono scherzoso:

«Mio caro, a vedervi condurre un tale stile di vita, si direbbe che abbiate trovato un tesoro.» Il curato di Rennes-le-Château gli rispose: «Me l’hanno indicato, ci ho messo le mani sopra, l’ho preparato e lo tengo stretto».60

Una leggenda? Checché ne sia, non fornì alcuna precisazione, né al suo amico né a

nessun altro.

60 Citato in De Sède, Le trésor maudit cit., p. 53.

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SECONDA PARTE

ALCUNE IPOTESI

L’abate Saunière alla ricerca del Graal? Quel che sappiamo con certezza è che l’abate Saunière si è adoperato molto per

cancellare le iscrizioni presenti sulle lapidi della tomba della marchesa Marie di Nè-gre d’Ables, sposa di François d’Hautpoul, marchese di Blanchefort, antico signore di Rennes. La nobildonna aveva reso l’anima a Dio poco prima della Rivoluzione e il suo confessore, il curato Antoine Bigou, aveva composto l’epitaffio.

Ma, per nostra grande fortuna, una di esse è stata riprodotta sul «Bulletin de la So-ciété d’études scientifiques de l’Aude» (t. XVII, anno 1906). Dunque, conosciamo con certezza l’epitaffio della marchesa. È assai curioso e, l’abbiamo visto, è logico chiedersi se Saunière sia riuscito a ricavarne un significato nascosto. E se, dopo aver trovato un senso a questa iscrizione - o una conferma alla sua ipotesi -, abbia cercato di impedire ad altri di ripercorrere la pista. Mettiamoci dunque al suo posto e deci-friamo questo epitaffio. Gli errori di ortografia e altre anomalie intenzionali di scrittu-ra serviranno a decodificare il messaggio.

Su questa iscrizione troviamo CT al posto di CI. Teniamo la I. NOBLe. Teniamo LE. Otteniamo ILE. Il nome M/ARIE è spezzato. Teniamo MA. NEGRE. Teniamo RE. Otteniamo MARE. DARLES in luogo di D’ABLES. Mettiamo l’apostrofo. Otteniamo ARLES. DHAUPOUL: manca l’apostrofo e la t. Teniamo HAU. De, con la e minuscola. Teniamo DE. Otteniamo sia «haut de», «le alture di», sia il più verosimile AUDE. SEPT si presenta con una p minuscola e sfalsata. Leggiamo SET, o piuttosto

SETE. La data di morte (MCDCOLXXXI) presenta un’anomalia, la O non esiste nei nu-

meri romani. Leggiamo COL. Altra apparente bizzarria: il termine CATIN, non molto elogiativo per una nobile

marchesa. Senza dubbio fu questa parola a mettere la pulce nell’orecchio all’abate Saunière.

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E se si trattasse di un’abbreviazione per catinum? Per il piatto dell’ultimo pasto di Gesù, i Vangeli di Matteo e Marco impiegano entrambi la parola greca tryblion, che san Girolamo, nella sua Vulgata, traduce col latino... catinum61 Ora, chi conosce i classici ricorderà immediatamente che, con questa parola, ci si può riferire al Graal. Sin da prima del 1200, Robert de Boron, nel suo Joseph62, fa del Graal il piatto nel quale Gesù ha consumato da Simone il suo ultimo pasto con gli Apostoli, altrimenti detto il piatto dell’Ultima Cena. E in L’estoire del Saint Graal (1220 circa), è ancora questione della scodella dell’Ultima Cena, che raccolse anche il sangue di Gesù du-rante la crocifissione63.

Allora tornano alla mente diverse leggende cristiane, quelle che ci si diverte a leg-gere senza credervi troppo.

L’A ATE SAUNIÈRE ALLA RICERCA DEL GRAAL? B125 Sfuggendo alle persecuzioni, Giuseppe di Arimatea, Maria Maddalena e sua sorella

Marta sarebbero fuggiti via mare, raggiungendo presto la Provenza. Avrebbero porta-to con sé il Graal, cioè il piatto nel quale Gesù mangiò l’agnello pasquale. Secondo la leggenda, Giuseppe di Arimatea, gettato senza cibo in una segreta, sarebbe sopravvis-suto grazie all’apparizione, rinnovata ogni notte, di un angelo che lo nutriva con l’aiuto del Graal.

Nella Legenda aurea di Jacopo da Varagine (XIII secolo)64, leggiamo anche che Maria Maddalena, Lazzaro, Marta e ancora altri cristiani, gettati per mare dai pagani, finirono per approdare a Marsiglia. Per intercessione di Maria Maddalena, una giova-ne donna morta di parto, il cui bambino era vivo e continuava a poppare al seno della madre, resuscitò ottenendo così la conversione degli abitanti del luogo. Poi Maria Maddalena e i suoi discepoli si recarono ad Aix, prima di ritirarsi in una grotta della vicina montagna, preparata dagli angeli, e restarvi per trent’anni.

Lì non c’era né un corso d’acqua, né un albero; ciò significava che Gesù voleva nutrire la santa col solo cibo celeste, senza accordarle alcun piacere terreno. Ma tutti i giorni gli angeli la elevavano in aria, dove per un’ora udiva la loro musica; dopo di che, saziata da questo delizioso pasto, ridiscendeva nella sua grotta, senza avere la benché minima necessità di alimenti corporei.65

Secondo la leggenda, la grotta non era visibile a tutti. Un eremita, «al quale il Si-gnore aprì gli occhi», un giorno vide gli angeli entrare nella grotta, prendere la Santa, sollevarla in aria e portarla a terra dopo un’ora. Volendo vederci chiaro, il prete si mi-se a correre verso il luogo in cui era apparsa, ma appena si avvicinò, tutte le sue membra furono paralizzate. Ne recuperò l’uso per allontanarsene, ma appena volle 61 Michel Roquebert, Les Cathares et le Graal, Privat, Toulouse 1994, pp. 73-74. [Trad. it. I catari. Eresia, crociata, inquisizione dall’XI al XIV secolo, San Paolo, Cinisello Balsamo 2003, N.d.T.]62 Robert de Boron, Joseph d’Arimathie (1180-1199 ca.), a cura di R. O’Gorman, Pontificai Institu-te of Medieval Studies, Toronto 1995 [N.d.T.].63 L’estoire del Saint Graal, a cura di J.-P. Ponceau, Champion, Paris 1997, 2 voll. [N.d.T.].64 «Jacopo da Varagine, Legenda aurea, a cura di A. e L. Vitale Brovarone, Einaudi, Torino 1995 [N.d.T.].65 Id., XCV ,3

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avvicinarsi di nuovo, le sue gambe si rifiutarono. «Allora comprese che lì c’era un mistero sacro, che superava l’esperienza umana.»

D’altronde notiamo che, secondo un’altra fonte, una stella avrebbe guidato Maria Maddalena fino a quella famosa grotta, che si troverebbe a est della Camargue.

Ora, esiste un’altra versione che riguarda Maria Maddalena, ma che ci porta dalla Camargue al Languedoc-Roussillon. Afferma che Maria Maddalena sarebbe approda-ta in un luogo chiamato «Mas della Maddalena», a est di Perpignan66. Da lì si sarebbe diretta ai piedi del Canigou oppure verso il massiccio delle Corbières.

Ora, Rennes-le-Château si trova a ovest delle Corbières... Sommando tutti questi elementi, cioè la parola catinum iscritta sulla tomba della

marchesa di Blanchefort alle leggende di Giuseppe di Arimatea, che avrebbe portato il Graal in Provenza, e di Maria Maddalena, la cui grotta avrebbe potuto trovarsi nelle Corbières, sicuramente Béranger Saunière ha cominciato a sognare: il Graal non si troverà mica nei dintorni di Rennes-le-Château?

Allora raccoglie le parole del rebus: isola, mare, arles, aude, sete, colle e infine ca-tinum. Tutto si chiarisce nella sua mente. Il percorso del Graal! Portato dal vicino O-riente da alcuni pellegrini, il Graal ha prima raggiunto un’isola sul mare (mare, in la-tino), è passato dalle città di Arles e Sète, ha costeggiato il fiume Aude67 e venne na-scosto nella grotta di un colle nei dintorni di Rennes-le-Château.

E Béranger Saunière si precipitò febbrilmente su una mappa che rappresentasse dettagliatamente anche i più piccoli recessi del Corbières, Razès e Carcassès...

66 Mas è il nome della tipica fattoria provenzale [N.d.T].67 Quando la marchesa di Blanchefort era in vita, il dipartimento dell’Aude non esisteva ancora.

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L’abate Saunière sulla pista della pietra filosofale? Che Béranger Saunière sia stato obnubilato da Maria Maddalena è provato dalle

sue azioni e dai suoi gesti. I Vangeli nominano tre donne di nome Maria (Maria di Betania, Maria di Magdala e la peccatrice pentita), ma spesso le leggende cristiane posteriori videro i loro personaggi intersecarsi, se non confondersi in una sola perso-na: Maria Maddalena. Ora, il nostro abate ha costruito una villa sontuosa, che chiamò Betania, e una torre, Magdala. E nella chiesa di Rennes-le-Château, che fece restaura-re, Saunière aggiunse numerose rappresentazioni della Santa: vetrate che rappresen-tano la peccatrice pentita, diverse stazioni della Via Crucis, bassorilievi dell’altare nonché statue all’interno e all’esterno della chiesa.

Fra le sue carte personali si ritrovò un singolare documento: un collage composto da due illustrazioni tratte da un giornale. La parte superiore rappresenta tre angeli che portano in cielo un bambino con in mano una candela accesa e un oggetto rotondo, del quale ci occuperemo.

Gli angeli che rapiscono in cielo una persona non ricordano forse la leggenda di Maria Maddalena?

Questa devozione si comprende facilmente, se si pensa che l’abate Saunière cercò senza dubbio a lungo la grotta che si riteneva conservasse le reliquie della Santa e un tesoro spirituale: il catinum. In effetti, le grotte e i colli non mancano affatto in quella regione. Un autentico rompicapo si pose rapidamente all’abate. In quale direzione o-rientare le ricerche? Al di là della foresta di Rialsesse, verso est, sul colle del Paradi-so? Alla sorgente della Sals, sul colle della Fage? Sul colle del Linas, a meno di cin-que chilometri a sud-est di Rennes, non lontano dal picco di Bugarach? Sul colle di San Luigi? Oppure a sud, al di là della foresta dei Fanges, sul colle Camperié, nei pressi di Axat? Terribile dilemma. Prospettiva di lunghe passeggiate a piedi in una natura selvaggia, in cui ogni cespuglio, ogni cavità di roccia può nascondere un cuni-colo sotterraneo sconosciuto.

Malgrado la volontà di ferro dell’abate Saunière, le sue prime ricerche probabil-mente furono non solo infruttuose, ma scoraggianti. Poiché rapidamente si rese conto che col poteva anche essere un’abbreviazione per la città di Collioure, sulla Còte Vermeille, sul Mediterraneo. In questo caso, non solo le sue ricerche nei dintorni di Rennes sarebbero state vane, ma il contesto indicherebbe allora tutto un altro orien-tamento. Il Graal è stato portato a Collioure e nascosto? Oppure imbarcato verso una destinazione sconosciuta? O ancora, tutto al contrario, Maria Maddalena approdò sul-la Còte Vermeille e seguì il cammino inverso, verso la Camargue? Dopo tutto, un racconto agiografico situa il luogo in cui si fermò Maria Maddalena «al centro delle porte dell’inferno». Poiché nella mitologia greca Cerbero era il cane a guardia dell’Ade, si potrebbe essere tentati di vedervi, con J.-P Camus e A. Douzet68, 68 Jean-Philippe Camus, L’énigme de Rennes-le-Château enfin résolue, «L’Inconnu», n. 275, agosto 1999; André Douzet, Nouvelle lumière sur Rennes-le-Château, Aquarius, Genève 1998.

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un’allusione ai numerosi luoghi chiamati «Cerbère» sulla costa del Roussillon, come Capo Cerbère.

Non sapendo privilegiare una pista piuttosto che un’altra, Béranger Saunière esa-minò come ultima risorsa le misteriose iscrizioni della seconda lapide della tomba della marchesa di Blanchefort.

Rettangolare, posta ai piedi della prima, è ornata, fra altre bizzarrie, da un disegno, da lettere greche e latine, da una freccia, da un numero in cifre romane.

Dunque, cosa può significare l’iscrizione cellis arcis reddis regis. Bisogna tradur-re, come propose Gérard de Sède, con «“A Rennes reale, nelle cantine della fortezza” se la si legge orizzontalmente. Oppure, se la si traduce verticalmente: “Restituisci tramite le cantine, governi con le casseforti”»?

Altri ricercatori pensano che in realtà reddis evochi Rennes-le-Château, tramite la sua antica denominazione Rhedae. Probabilmente Béranger Saunière giunse alla me-desima conclusione. Ma proseguì le ricerche nella stessa direzione, contrariamente agli esegeti moderni. Se reddis significa Rennes-le-Château, regis, cellis, arcis do-vranno anch’essi evocare nomi di luoghi. E Saunière si rimise a esaminare la carta geografica del Razès e dei suoi immediati dintorni. Qui nota subito che potrebbe far coincidere regis (re) con Saint-Louis, una località a sud-est di Rennes-le-Château, Arcis con Arques, una città a nord-est di Rennes e cellis con Saint-Martin-Lys, una borgata a sud-ovest di Rennes, giocando sull’omofonia lis-Lys.

Ma cosa dobbiamo dedurre da questo rebus? Ora, sulla lapide è raffigurata una freccia che attraversa questi comuni. E Béranger fa lo stesso, tracciando sulla mappa una diagonale fra Rennes-le-Château e Saint-Louis e un’altra fra Arques e Saint-Martin-Lys.

Esse si incrociano nei pressi del Bézu. Il Bézu: guarda un po’, pensa il nostro aba-te. Lì non c’era un’importante commanderia templare, nel Medioevo? Ed ecco che si rimette a esaminare gli altri enigmi cifrati della lapide, le famose iscrizioni verticali.

Bisogna leggerle in latino o in greco? Comincia col latino: et in arcadia ego (Io sono stato in Arcadia). L’Arcadia? Un quadro del pittore Poussin si chiama così e rappresenta una scena

campestre con alcuni pastori. Un’antica leggenda gli ritornò in mente, secondo la quale gli abitanti d’Arcadia un tempo sarebbero stati alberi prima di diventare uomi-ni... Ma che rapporto c’era? Riflette, esamina di nuovo l’iscrizione e scopre che la di-sposizione delle lettere è assai curiosa, oltre a essere inframmezzate da sigle. No, leg-gerla così è troppo semplice... Riesamina il testo. Bisogna leggere et in arx, in greco? Arch, arché... Archè, sinonimo di antico, vecchio, di ciò che era all’origine. Il senso non è evidente... Forse bisogna leggere Arca? Un attimo, i suoi pensieri sono traspor-tati in un turbinio in cui si intrecciano eccitazione, reminiscenze storiche e passi bi-blici. La presa di Gerusalemme da parte di Tito, nell’anno 70... Il tesoro del Tempio di Salomone riportato a Roma, forse con l’Arca dell’Alleanza... Roma devastata dal re visigota Alarico, nel 410... I Visigoti, che in seguito si stabiliscono da

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Il collage ritrovato nel diario di Béranger Saunière

una parte e dall’altra dei Pirenei e di cui Rhedae, l’attuale Rennes-le-Château, fu pro-prio una delle piazzeforti...

Alla ricerca di una conferma, Saunière comincia a leggere l’iscrizione in latino: et in pax. Vi aggiunge apx, poiché una sigla, posta lì, invita a raddoppiare la vocale. Ma cosa può voler dire apx? apice?

et in pax apx Quella parola pace gli pare fuori luogo in quel contesto. Allora si ricorda della necessità di utilizzare il calembour, l’eufonia, per compren-

dere un messaggio cifrato. E fa l’accostamento: pax = paix = pech69.Ora, il Pech Cardou innalza i suoi 800 metri di altitudine a nord di Rennes-les-

Bains. E, in questo caso, da pax apx risulta axa, un’astuzia dell’incisore per indicare la

città di Axat, a sud di Rennes-le-Château. Allora Saunière collega sulla sua mappa il Pech Cardou alla città di Axat. La linea

69 Naturalmente il gioco fonetico non si può mantenere in italiano. I significati sono i seguenti: Pax = Pace = Pech [N.d.T.].

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incrocia esattamente le altre due diagonali all’altezza del Bézu. Questa volta non si possono più avere dubbi. Sono proprio il Bézu e i suoi immediati dintorni a costituire l’epicentro del messaggio nascosto.

Certo, è nei pressi del Bézu che bisogna cercare, ma cercare cosa? Il Graal? L’Arca dell’Alleanza? Per vederci chiaro, Saunière si appresta a decifrare l’altra iscrizione verticale. Vi si trova di nuovo una sigla con la vocale da ripetere. Da cui risulta: ad aia ego.

Sono nei pressi di Aia. Aia? Al momento la frase gli risulta incomprensibile. Poi si ricorda di aver già letto quel

nome da qualche parte: Aia. Intraprende delle ricerche. Presto finiscono. Aia era la capitale della Colchide! È in questa città che Giasone, accompagnato dagli Argonauti, andò a conquistare il vello d’oro.

Secondo la leggenda greca, Crisomallo era un ariete dal vello d’oro che sapeva parlare e volare. Fu sacrificato a Zeus, poi il suo vello venne sospeso a una quercia nel bosco di Ares, sorvegliato da un drago, nei pressi di questa città antica. Giasone riuscì a impadronirsene grazie all’aiuto di Medea, poi lo riportò in Grecia.

Ma ciò che interessò soprattutto il nostro abate è che i Bizantini e alcuni alchimisti del Medioevo assimilavano il vello d’oro alla pietra filosofale...

Béranger Saunière era disorientato, sempre più perplesso. Qual era dunque il segre-to del Bézu? Il tesoro dei Templari o del regno di Maiorca che l’Ordine custodiva? Il Graal? L’Arca dell’Alleanza riportata dai Visigoti? La pietra filosofale?

C’era un solo modo per saperlo. Saunière ne era consapevole: bisognava verificare sul posto.

Forse fu in questo momento che il suo inconscio gli impresse nella memoria quel singolare disegno raffigurato sulla lapide. Cos’era?... Un ragno? Una piovra? Aggrot-ta le sopracciglia, s’interroga. Non ci sarà qualche pericolo?

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I misteri della grotta Nella prima parte di questo libro abbiamo deliberatamente orientato il nostro studio

su Rennes-le-Château secondo un realismo severo, puntando il dito sulle incoerenze degli uni, le elucubrazioni degli altri; realismo che alcuni giudicheranno eccessivo, altri ancora troppo cauto.

Tuttavia, bisogna riconoscere che l’ottica realistica dell’affaire Saunière è lungi dal rispondere in modo soddisfacente a tutti gli interrogativi. In questo caso, piuttosto che lasciare nell’ombra le zone inesplorate dal nostro materialismo quotidiano o fare atto di cattiva fede sussurrando che qui non c’è nessun mistero, o ancora affermando che si tratta solo di invenzioni di mistificatori, non è meglio invertire la rotta verso il rea-lismo fantastico, anche se non comprendiamo l’enigma nella sua totalità?

E quello che abbiamo cominciato a fare all’inizio di questa seconda parte. Sin dalla prima pagina, abbiamo potuto renderci conto che Béranger Saunière era alla ricerca di un segreto ben nascosto, di un tesoro non necessariamente materiale. Saunière è riuscito ad avvicinarlo, a servirsene. È diventato ricco. E questa ricchezza, inspiegabi-le per un modesto curato di campagna, resta la migliore garanzia dell’esistenza di un mistero che circonda il personaggio.

Certo, la scoperta di un tesoro materiale come quello dei Templari o dei maiorchini spiegherebbe la sua improvvisa fortuna. Ma allora perché nasconderlo? Perché dissi-mulare il fatto che ne sia stato lo scopritore? Per timore che il clero e il vescovado fa-cessero man bassa del tesoro? Ma avrebbe benissimo potuto servirsi di un prestano-me. D’altronde, lo fece con la sua governante, poiché tutta la sua fortuna era intestata a lei. Timore di dividere con lo Stato? L’abate Saunière, un Arpagone che non deside-ra condividere ad alcun prezzo la sua fortuna? Eppure non pare essere stato quel ge-nere d’uomo, poiché distribuiva il suo denaro a tutto spiano. Dunque, apparentemente c’era ancora qualcosa, la cui conoscenza doveva essere divulgata solo agli iniziati o a una cerchia assai ristretta.

Si può rilevare un’altra incoerenza in questa questione: l’elevato numero di perso-ne apparentemente al corrente dell’esistenza del tesoro, che non ne hanno approfitta-to. Citiamo solo quelli che da secoli erano i signori del luogo, l’abate Bigou, che compose l’epitaffio della marchesa di Blanchefort, l’abate Boudet, il cui apparente delirio artistico-linguistico ruotava anch’esso intorno a un sito geografico ben deter-minato del Razès... La difficoltà di accesso al sito potrebbe essere una risposta.

«C’è il rischio di rompersi un gamba», insinua Boudet nel suo libro. Tuttavia, que-sto genere di dettaglio non ha mai scoraggiato i cacciatori di tesori.

Consideriamo il caso Boudet, appunto. Perché questo eminente abate si preoccupò tanto per configurare il paesaggio dei dintorni di Rennes secondo il suo capriccio e per redigere un libro incomprensibile? All’epoca è al corrente dell’esi stenza e della localizzazione del tesoro? È probabile, poiché proprio come Saunière ha potuto deci-

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La stele decifrata frare le iscrizioni della tomba nel cimitero di Rennes-le-Château. Il suo libro, in foma di rebus, fa pensareche vi si sia andato anche molto vicino. Pertanto Boudet, in questa caverna di Alì Babà, non si è riempito le tasche. Qualcosa l’ha trattenuto, lo ha dis-suaso a proseguire? E con filosofia si è accontentato di trasmettere l’informazione ai posteri, nella sua maniera molto particolare?

Certo, esaminato superficialmente, il dossier potrebbe escludere Boudet dalla co-noscenza del segreto di Rennes (l’abbiamo visto nella prima parte), ma questo argo-mento non vale affatto per i suoi predecessori, Bigou e i signori di Rennes, che dove-vano essere al corrente, poiché hanno confidato l’informazione a Saunière, tramite le lapidi della tomba. Ora, detentori del segreto di questa fortuna, essi non hanno mai brillato per munificenza nel loro tenore di vita. Perché? Perché non si sono serviti dei milioni racchiusi in una grotta dei dintorni del Bézu, se la spiegazione del tesoro clas-sico è la sola e unica proposta per l’enigma?

A meno che laggiù non ci sia un altro pericolo. Boudet non parla forse di un «orro-re che fa diventare bianchi i capelli»? Nella leggenda, già la grotta di Maria Madda-

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lena era connessa a forze oscure: visibili solo a certi prescelti, gli angeli vi circolava-no, facendo levitare la Santa. Dunque, cosa accadeva di così terribile nella grotta del Bézu?

Secondo Gérard de Sède, il numero 17 svolge un ruolo fondamentale nell’enigma di Rennes-le-Château. Lo si ritrova in diversi luoghi chiave e in particolare nella chiesa di Rennes-le-Château, ove è presente una statua di sant’Antonio eremita. Con la vetrata aperta sul muro opposto, i raggi del sole si adagiano esattamente su questa statua, proprio il giorno in cui è festeggiato sant’Antonio eremita, cioè il 17 gennaio.

Se l’abate Saunière si interessava a tal punto della leggenda di questo Santo, non era forse perché doveva avere un rapporto con ciò che aveva trovato? O il luogo in cui l’aveva cercato? Ricordiamo dunque brevemente la sua vita, che ci fu riferita da sant’Anastasio.

Antonio dovette resistere a innumerevoli tentazioni da parte dei demoni. Il diavolo gli apparve un giorno sotto forma di bambino nero. Un’altra volta, quando si trovava in una tomba in Egitto, Antonio venne bistrattato da una folla di demoni, al punto che lo si credette morto. Però vi tornò. I demoni riapparvero sotto forma di diversi anima-li feroci e ricominciarono a dilaniarlo con i denti, le corna e gli artigli. Allora, im-provvisamente una luce meravigliosa riempì la cripta e mise in fuga tutti i demoni. E Antonio guarì subito. In un altro luogo del deserto, trovò un grande disco d’argento, che svanì in fumo. In seguito trovò un’enorme massa d’oro, ma la evitò e fuggì su una montagna.

Quali convergenze trovò Béranger Saunière con la vita di sant’Antonio eremita che l’abbiano impressionato al punto da farne una figura centrale del proprio rebus? Pos-siamo scegliere fra il luogo sotterraneo, l’attacco soprannaturale, la luce meravigliosa (il sole che illumina la sua statua nella chiesa, il 17 gennaio, non è sicuramente estra-neo a quest’aspetto della leggenda), il diavolo raffigurato come un bambino nero, il disco d’argento, il mucchio d’oro.

Che il posto in cui trovò il suo tesoro fosse un luogo sotterraneo è provato, fra gli altri indizi, da quella grotta che lui stesso costruì a fianco della chiesa. Il bambino ne-ro si ritrova nel gruppo che compone la prima stazione della Via Crucis. Porta un vassoio bianco. E al suo fianco si trova... un ariete d’oro.

Da questa prospettiva, Saunière ci suggerisce simbolicamente che l’oro di Rennes è l’oro alchemico? Questa ipotesi fornirebbe una spiegazione - certo fantastica - a molte incoerenze di questo dossier. La scoperta da parte sua della polvere di proie-zione70 o della pietra filosofale spiegherebbe le passeggiate attraverso la campagna dell’Aude, con lo zaino riempito di sassi71. Era alla ricerca di pietre in grado di rea-lizzare questa operazione? Una pietra suscettibile di essere trasmutata in oro? Gli an-tichi alchimisti utilizzavano spesso la galena, un solfuro naturale del piombo. Ora, la

70 La polvere di proiezione permette la «trasmutatio» del piombo o di altri metalli in oro. Cfr. Nico-las Flamel, Il segreto della polvere di proiezione, e Giorgio Aurach de Argentina, Prezioso dono di Dio, a cura di S. Andreani, Edizioni Mediterranee, Roma 1983 [N.d.T.].71 Si veda anche Fabrice Kircher e Dominique Becker, Le secret des origines, Ramuel, Villeselve 2003.

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galena, questo minerale del piombo, si trova a profusione nel Razès e nei dintorni. La montagna del Cardou, vicino a Rennes, è anche ricca di giacimenti di ferro e piombo.

Con gli scarti dei suoi esperimenti costruì la grotta a fianco del presbiterio? Non va escluso. Alcuni luoghi della sua tenuta erano vietati a tutti i visitatori. E la sorella di latte di Marie Denarnaud raccontò di aver visto un giorno, nella cantina di Villa Be-tania, alcuni lingotti d’oro allineati su una mensola.

Fabbricava l’oro man mano che ne aveva bisogno? Poi si spostava, talvolta molto lontano d’altronde, da gioiellieri e banchieri - mai gli stessi, per non attirare l’attenzione - per cambiare i suoi lingotti in moneta sonante? Già nel 1340, la fami-glia dei signori di Rennes fu accusata di fabbricare oro... nel Bézu, appunto. E nel 1860, sempre nei pressi del Bézu, Rougé scoprì un lingotto d’oro di 50 chili. Sono molte le coincidenze...

Saunière stesso un giorno lo confessò? Al suo amico Antoine Beaux, curato di Campagne-sur-Aude, che gli chiedeva se avesse trovato un tesoro, Saunière avrebbe risposto in occitano: «Me l’han donat, l’hay panat, l’hay parat é bé le téni» («Me l’hanno indicato, ci ho messo sopra le mani, l’ho preparato e lo tengo stretto.»).

Poiché l’hay parat indica un’operazione preparatoria o finale che si fa subire a una materia prima, Saunière vuol far capire - in modo indiretto - che procedeva a un lavo-ro alchemico?

Ma tutti coloro che hanno studiato anche superficialmente l’alchimia sanno perfet-tamente che non è così semplice portare a termine questo processo o anche definire la Materia Prima alchemica. La pietra filosofale, o lapis alchemico, fu talvolta confusa col Graal da alcuni iniziati. Secondo Wolfram von Eschenbach e il suo Parzival (re-datto intorno al 1210), il Graal non era forse una pietra72? Il suo lapis exillis, pietra caduta dal cielo e abbandonata da esseri «risaliti verso le stelle», si ritrova nel voca-bolario alchemico sotto diverse forme.

Béranger Saunière incappò in una pietra favolosa in quella enigmatica grotta? A parer nostro, trovò piuttosto qualcosa che gli assomigliava. In effetti, sia Saunière che Boudet o gli antichi signori del Razès, sembrano tutti essere stati obnubilati dalle... teste.

Sul quadro che lui stesso eseguì, che rappresenta Maria Maddalena in estasi nella grotta, ai suoi piedi è raffigurato un cranio umano. La testa di morto riappare su una statua di Maria Maddalena, non solo nella chiesa ma anche nella cappella privata che l’abate Saunière si era fatto costruire a Villa Betania.

Un altro quadro, appeso nella chiesa di Rennes-les-Bains - una tela donata alla fine del XVIII secolo dal marchese Paul-François-Vincent di Fleury di Blanchefort - rap-presenta una grotta nella quale, fra gli altri dettagli, è raffigurato un vassoio sul quale riposa una specie di boccia. E sopra il piatto incombe un enorme ragno.

Questa boccia si ritrova nella mano sinistra del bambino innalzato al cielo dagli angeli, rappresentato nel collage scoperto fra le carte dell’abate Saunière.

Nel suo famoso libro sul cromlech di Rennes, Henri Boudet parla di una «testa che medita» (IV, 3). Accostamento casuale? Ma questo caro abate fu pure così ossessio-

72 Wolfram von Eschenbach, Parzival, a cura di L. Mancinelli, TEA, Milano 1993 [N.d.T.].

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nato dalle teste quanto il suo confratello di Rennes-le-Château: non decapitò forse il menhir antropomorfo del Pla de las Brugos (situato nella pianura che separa le due Rennes), per portarne la testa nel suo presbiterio e murarla?

Certo, questo interesse per le teste potrebbe essere in relazione col culto di Maria Maddalena. La leggenda delle sante Maria in Camargue non narra forse che portaro-no la testa di Giacomo il Maggiore, figlio di Maria Salomè, e quelle dei «tre innocen-ti»? Saunière trovò una reliquia simile nella grotta? Ancora una volta, la soluzione non ci sembra così prosaica. Perché non dobbiamo dimenticare il mito del Graal.

Nella ricerca del gallese Peredur, il Graal si presenta come un grande piatto sul quale la testa di un uomo è immersa nel proprio sangue. Ora, il piatto, sormontato da un oggetto rotondo, si ritrova dipinto sulla tela della chiesa di Rennes-ies-Bains... Al-tro elemento che va in questo senso: le iscrizioni sulla tomba del cimitero di Rennes-le-Château. In particolare, recavano le parole catin (per catinum) e col. Ora, col signi-fica anche collo, dunque... testa. La stele verticale pare dunque evocare anch’essa una testa sul piatto. La statua di san Giovanni Battista nella chiesa di Rennes-le-Château fu senza dubbio eretta con lo stesso obiettivo: evidenziare una decapitazione. Ricor-diamo che il suo capo fu troncato e portato su un piatto a Erode Antipa.

Inoltre, queste precisazioni non devono farci dimenticare il luogo in cui indubbia-mente Saunière trovò il tesoro: una caverna, certo, ma nel Bézu, vicino a una com-manderia templare. E il Bafometto al quale si riteneva rendessero culto i Templari era anch’esso... una testa. Ma cominciamo col fornire qualche ragguaglio storico in meri-to a quest’oggetto favoloso. Molto prima dell’arresto dei Templari francesi da parte di Filippo il Bello nell’ottobre 1307, il biterrois73 Esquin de Floyran aveva accusato i Templari davanti al re Giacomo II di Aragona, poi davanti al re di Francia, di adorare un idolo. Generalmente descritto come una testa senza corpo, talvolta barbuta, il Ba-fometto avrebbe come origine favolosa un atto di necrofilia. Ecco la deposizione di Antonius Sycus da Vercelli, notaio dei Templari in Siria per quarant’anni, resa in pre-senza di due vescovi:

In merito all’articolo che menziona la testa, a Sidone ho sentito raccontare più vol-te ciò che segue. Un certo nobile di quella città avrebbe amato una certa nobildon-na armena; non la conobbe mai quando era viva, ma quando morì, la violò segre-tamente nella tomba, la notte stessa del dì in cui era stata seppellita. Compiuto l’atto, sentì una voce che gli diceva: «Torna quando il tempo del parto sarà venuto, poiché allora troverai una testa, figlia del tuo gesto». Giunto il tempo, il suddetto cavaliere ritornò nella tomba e trovò una testa umana fra le gambe della donna seppellita. La voce si fece nuovamente sentire e gli disse: «Abbi cura di questa te-sta, poiché da essa ti verrà ogni bene». Se è azzardato l’accostamento fra questa leggenda e quella del miracolo

dell’intercessione di Maria Maddalena, che riguarda la giovane deceduta che conti-

73 L’aggettivo si riferisce alla zona della Bassa Linguadoca comprendente, appunto, Béziers e il Bi-terrois [N.d.T.].

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nuava a nutrire il suo bambino, per contro constatiamo che le teste favolose abbonda-no nelle varie mitologie: la testa della Gorgone brandita da Perseo, che pietrifica quelli che raggiunge con lo sguardo; la testa di Orfeo, profetica; la testa di Bran, nelle leggende celtiche... e questa potrebbe benissimo derivarne, come afferma con qualche valido argomento Salomon Reinach74.

Laddove se ne distingue, è per i suoi poteri occulti, che superano ampiamente quel-li dei suoi predecessori. Una testimonianza, riferita dal cavaliere Ugo de Faure, ci in-forma che dopo la caduta di Acri si trovava a Cipro; qui sentì raccontare da un cava-liere, balivo della città di Limassol, che un nobile aveva amato una ragazza di Mara-clée a Tripoli. Non potendo possederla in vita, la fece esumare dopo la sua morte, eb-be un rapporto con lei e in seguito le tagliò la testa. Una voce l’avvertì di conservare con cura quella testa, che aveva il potere di annientare e distruggere tutto ciò che guardava. La coprì e la depose in un cofanetto. Poco dopo, in lotta coi Greci che ri-siedevano a Cipro e nelle isole vicine, si servì di questa testa contro le città e i campi dei Greci. Gli bastava mostrarla per annientare i nemici. Un giorno, mentre navigava verso Costantinopoli col progetto di distruggerla, la sua vecchia nutrice rubò la chia-ve del cofanetto per vedere cosa conteneva e ne tirò fuori la testa: immediatamente, una terribile tempesta si levò e la nave fu sommersa; solo qualche marinaio potè sal-varsi e raccontare cos’era avvenuto. Dopo questo evento, si diceva che in quel brac-cio di mare non ci fossero più pesci.

Certo, Ugo de Faure non aveva sentito dire che questa testa era appartenuta in se-guito ai Templari, ma i prodigi che le furono attribuiti la avvicinano al Bafometto templare, ugualmente miracoloso, come precisa l’articulo super quibus inquiretur contra ordinem Templi:

Che i cavalieri nelle diverse province avessero degli idoli, cioè delle teste, alcune a tre facce e altre con una sola; altri possedevano un cranio umano. Questi idoli, o questo idolo, erano adorati [...]. I cavalieri dicevano che questa testa poteva salvar-li, renderli ricchi, che fa fiorire gli alberi e germogliare le messi; i cavalieri cinge-vano o toccavano con funicelle una delle teste di quegli idoli e in seguito si cinge-vano con questa funicella, sia sopra la camicia che sulla pelle.

74 Salomon Reinach, La tète magique des Templiers, in Cultes, mythes et religions, a cura di H. Du-chène, Laffont, Paris 1996. [Una silloge simile in italiano è Orpheus: Storia generale delle religio-ni, Sandron, Palermo 1912, N.d.T.]

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La creatura di Manabi

È provato che esistessero riproduzioni di questo fantastico Bafometto. Una perqui-sizione fatta al Tempio di Parigi, nel 1310, scoprì una testa in metallo che conteneva alcune reliquie. Recava il numero LVIII in cifre romane. Su una delle lapidi della tomba Blanchefort figura la cifra LIXLIXL. Il numero della testa del Bafometto del Bézu?

Giunti a questo punto, dobbiamo porre la domanda: erano tutti matti? E gli autori di quest’opera cominciano anch’essi a «vaneggiare»? Domande legittime. E dire che non siamo ancora al termine delle nostre assurdità... Torniamo al problema iniziale: la grotta.

In effetti, la grotta disegnata sulla tomba di Rennes-le-Château ci chiama in causa. L’incisore avrebbe potuto fare un gioco di parole con octopus, invece ha disegnato la bestia, l’unica immagine in questo grande rebus il cui epicentro è nel Bézu. Cosa può significare questa rappresentazione? Indica una grotta sottomarina? Simbolizza il demone dell’acqua, nemico della vita, il cui ruolo è di impedire l’apparizione della vita sulla terra? O il combattimento fra il sole e le acque? O, più prosaicamente, la re-sistenza, la tenacia? Un’unità di Marsovini dell’ultima guerra aveva come emblema una piovra appigliata a un’ancora e per motto «Non mollare»; o, ancora, un Guardia-no della Soglia di questa grotta il cui ingresso si darebbe solo nella Quarta Dimensio-ne?

Esaminiamo con attenzione la bestia. Fra i suoi tentacoli sono raffigurati alcuni puntini neri. Sono spore? Questo dettaglio si ritrova sul bassorilievo di Manabi, un’isola al largo della costa equatoriale. Rappresenta una creatura composita, armata di artigli e con la testa di un cefalopode. Fra i suoi tentacoli sono incise le stesse pic-cole bocce misteriose. Secondo Michel Meurger75, questo bassorilievo, segnatamente 75 Michel Meurger, Lovecraft et la S.-F. (I), Encrage, Amiens 1991.

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pubblicato da Saville nel 190776 e in «Nature» (2 agosto 1924), avrebbe ispirato lo scrittore americano di fantasy H.R Lovecraft: la creatura di Manabi sarebbe il model-lo del suo Cthulhu.

Una creatura cthulhuiana infesterebbe quindi il Razès? Sarebbe oggetto di un cul-to? Poiché la piovra è una figura rappresentata comunemente in Scandinavia dalle o-rigini fino all’epoca moderna, l’abate Saunière faceva parte di una società segreta «thuleana»77? Ricordiamo che, come il dio scandinavo Odino, Saunière era guercio e ignoriamo in quale circostanza perse l’occhio; iniziazione odinica, quindi?

Come potete notare, scivoliamo dolcemente verso l’abisso... Riprendiamo fiato. Alcuni autori pensano che il PS. e la piovra sulla tomba siano

stati aggiunti posteriormente per accreditare la pista del Priorato di Sion. Possiamo ribaltare questo argomento. L’idea del Priorato di Sion potè nascere in Plantard anche esaminando la lapide.

D’altronde, è necessario ricordare che il piatto ornato, dipinto sulla tela della chie-sa di Rennes-les-Bains, risalente al XVIII secolo, è sorvegliato da un ragno. E le zampe di un ragno possono confondersi, in un disegno approssimativo, con i tentacoli di un octopode... Dunque, la piovra incisa è autentica.

Questa piovra è l’immagine di un pericolo, di un guardiano temibile. Come il ra-gno che sorveglia il catinum. Bisogna dedurne che quelli che sono penetrati nella te-mibile grotta hanno dovuto confrontarsi con una creatura fantastica? Un essere una volta descritto come un cefalopode, un’altra come un ragno, una bestia impossibile da esaminare in dettaglio, poiché provoca la fuga del curioso? Ma Saunière non evoca affatto una creatura così singolare. Il suo guardiano del tesoro sembra essere stato un demone molto classico e antropomorfo, se bisogna giudicarlo dai riferimenti ritrovati nella sua chiesa: il bambino nero e il diavolo che sostiene la fonte battesimale, all’ingresso della chiesa.

Piovra, ragno, diavolo... il guardiano di questa famosa grotta è decisamente poli-morfo. Ma forse le rare persone che la visitarono scorsero realmente questo spettaco-lo; non dobbiamo escluderlo.

D’altronde si può fornire una spiegazione affatto logica e razionale di questo e-nigma. Per custodire il loro tesoro, i Templari utilizzarono evidentemente una grotta che offriva certe garanzie di segretezza. In ogni grotta è in agguato un pericolo, invi-sibile e strisciante, mortale tanto per il gitante solitario quanto per il gruppo di esplo-ratori esperti: le falde di gas tossici. Diverse tragedie, negli ultimi anni, ci ricordano ogni volta questo pericolo. Vapori di gas neurotossici emanano dalle profondità della grotta del Bézu? Questo guardiano invisibile spiegherebbe le visioni, così diverse e terrificanti, dei suoi rari visitatori, la confusione regnante sulla natura reale del suo contenuto, così come il fatto che i Templari abbiano giudicato ideale questo nascon-diglio per nascondere un inestimabile tesoro. 76 Marshall H. Saville, The Antiquites of Manabi. Ecuador. 1/Preliminary Report, Irvin Press, New York 1907, pp. 66-67 e illustrazione n. 38.77 Antico nome della Scandinavia, mitico punto geografico all’estremo Settentrione. Cfr. Seneca, Medea, 375 [N.d.T.].

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Un tempo era una pratica corrente. Così, nell’antica Hierapolis, in Frigia, c’era un tempio di Apollo sotto il quale scendeva un corridoio sotterraneo, costeggiato da una sorgente di acqua calda che esalava vapori mortali. Era impossibile passare senza pe-ricolo sopra questo baratro: ogni essere che arrivava nei suoi paraggi moriva. Tutti eccetto gli iniziati, poiché solo quelli «posseduti dalla divinità» potevano raggiungere il fondo78.

Si può trovare una cassaforte migliore di una tale trappola della natura?

78 Damascio, La vita del filosofo Isidoro, in Fozio, Biblioteca [codex 242], a cura di N. Wilson, A-delphi, Milano 1992 [N.d.T.].

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Il crittogramma del pescatore stolto A un certo punto delle sue riflessioni, l’abate Saunière si è sicuramente chiesto se

non doveva invertire il percorso. E se Maria Maddalena e i suoi compagni di sventura fossero sbarcati a Capo Cerbère? Il loro tragitto sarebbe dunque stato da Collioure verso un’isola, passando per l’Aude, Sète, Arles, giungendo poi in Camargue, ove la loro leggenda prese corpo. A meno che non si trattasse del tesoro dei Templari, eva-cuato in fretta dalla Linguadoca all’epoca delle guerre catare. In questo caso, i soldati dal bianco mantello l’avrebbero strappato a una grotta di montagna, prima di imbar-carlo sul fiume Aude, raggiungere il Mediterraneo, fare tappa a Sète e ad Arles, infine nasconderlo su un’isola nei pressi della Camargue? In questo caso, cercarlo nel Razès sarebbe stato vano!

Fu forse addirittura nascosto in una grotta sottomarina? Il ricordo della piovra os-sessionava la sua memoria. Questa piovra rappresentava il calamaro, tanto apprezzato nella cucina mediterranea? Ma lo intrigava un’altra cosa: il periplo seguito dal tesoro. Tutte le tappe erano connesse all’elemento acquatico: il fiume, le città costiere, il ma-re, l’isola, la piovra. Questo dettaglio aveva un’importanza? Qual è dunque la natura di questo tesoro, visto che necessita della precauzione di trasferirlo per via fluviale, poi marittima, infine nasconderlo in un contesto acquatico?

Béranger Saunière indagò sul posto? Checché ne sia, a un certo momento della sua vita schizzò sulla carta un singolare rebus. I ricercatori posteriori lo chiameranno «crittogramma del pescatore stolto». Si compone di lettere che non hanno alcun signi-ficato e di parole coerenti. Queste ultime formano quattro frasi:

PESCATORE STOLTO ALLA FOCE DEL RODANO, IL SUO PESCE SULLA GRATICOLA DUE VOLTE TORNÒ. UN ASTUTO ARRIVÒ E LO MANGIÒ. NON GLI RESTÒ CHE LA LISCA. UN ANGELO VEGLIAVA E NE FECE UN PETTINE D’ORO. B.S. (B.S. sta per Béranger Saunière).

Il crittogramma Il pescatore è una evidente allusione al re del Graal, che stava pescando quando in-

contrò per la prima volta Parsifal. E significativo che l’abate Saunière situi l’azione

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alla foce del Rodano. Cercò là il Graal? Le altre allusioni sono più oscure. Si riferisce a un profittatore che depreda il reale

possessore del «tesoro»? Quanto al pettine, potrebbe evocare la lunga capigliatura dei Galli o ancora i Misteri di Temi79. E la metamorfosi della lisca in pettine d’oro, un’immagine delle trasmutazioni alchemiche.

Restano le lettere che non hanno alcun senso apparente. In quanto a esse, una prima constatazione s’impone: si trovano poche vocali e un

florilegio di X Y Z. Sopprimiamo queste ultime dal testo, così come le V La lingua francese le utilizza poco e queste consonanti sono presenti solo per sviare il lettore. Così otteniamo:

ENS NUM GLN RF HEN MFP U FL DR H RCU TIT KTN Q CUR HOT SKR MSTI J P C KP FKA A prima vista, totalmente incomprensibile. Ma se vuole essere compreso, il codice

di un crittogramma dev’essere semplice. E, nella fattispecie, Saunière non utilizza forse la stile telegrafico? In questo caso, come nelle parole crociate quando ci manca-no delle lettere, o nel caso della decifrazione degli annunci su alcuni giornali, è suffi-ciente trovare le lettere mancanti, ma foneticamente.

Utilizzando questo sistema, esistono almeno quattro livelli di lettura. Forniamo un esempio.

ENS: abbreviazione per insegnamento NUM: numerario? Numa? Numida? GLN: galena RF: rifà HAN: Henri MFP: mi ha fatto parte U: un FL: filo DR: d’oro H: che ha RCU: ricevuto TIT: Titus? Tito Livio? Titurel? Tityos? Titano? Tithoes? KTN: catinum Q: che CUR: curato HOT: Hautpoul SKR: euskara MSTI: mistico J: io P: penso? C: è KP: cappella?

79 Cfr. Clemente Alessandrino, Proprepticos logos, II, 22, 5. [Il protrettico, Il pedagogo, a cura di M.G. Bianco, Utet, Torino 1971, N.d.T.]

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FKA: Vacca per Vaccarès Questa griglia di lettura ci fornisce diverse indicazioni. Sulla provenienza del suo

denaro (insegnamento numerario): l’oro alchemico (galena rifatta). Possedeva queste informazioni grazie a un certo personaggio del quale non congettureremo il cognome (Henri mi ha confidato).

Allora si pone un primo interrogativo. Quale può essere questo misterioso filo d’oro che ha ricevuto questa non meno enigmatica persona il cui patronimo comincia con Tit...? Parla di Titurel, avo di Anfortas, evocato da Wolfram von Eschenbach, co-sì come da diverse leggende provenzali80? Quel Titurel che ricevette in Gallia il santo Graal dalla mano degli angeli? Oppure Tithoes81?

Questo Tithoes ha il vantaggio di essere evocato dall’abate Boudet nel suo famoso libro: «Erodoto fa del labirinto egiziano l’opera di dodici re, mentre Plinio pensa che Tithoes solo deve rivendicarne la gloria»82.

Che si abbia bisogno di un filo per non perdersi in un labirinto è evidente. Dunque, a priori, qui è questione di Tithoes. Il labirinto appare nei Misteri antichi, sia egiziani che greci.

D’altronde, tutto il libro di Boudet trabocca di allusioni ai Misteri di Eleusi. Continuiamo la nostra lettura: un filo d’oro che ha ricevuto tithoes (è il) catinum.A un primo sguardo, questo passaggio può sembrare incomprensibile. Il catinum, il

Graal, è sempre raffigurato sotto forma di coppa, piatto, pietra, ma mai filo, foss’anche d’oro. Abbiamo buone ragioni per pensare che Saunière qui faccia allu-sione a una variante di quei Misteri antichi, di cui i Templari, in contatto con l’Oriente, avrebbero perpetuato la tradizione. Il filo d’oro potrebbe dunque essere non solo il mezzo che permette l’uscita dal dedalo, ma anche la funicella che cingeva la testa del Bafometto e di cui ogni templare iniziato portava una riproduzione. In quest’ottica, la grotta del Bézu, con le sue ramificazioni labirintiche, i cunicoli, i peri-coli inerenti, avrebbe benissimo potuto servire a Misteri templari, copiati da quelli dell’Antichità.

Proseguiamo la nostra esplorazione del crittogramma: ... catinum che (il) curato di hautpoul (considerava) l’euskara mistica.Il curato di Hautpoul forse è l’abate Bigou, che impostò le lapidi mortuarie della

marchesa di Blanchefort. L’euskara mistica indica una variante locale di queste ceri-monie misteriche, che mettono in scena i devoti baschi.

Nei Misteri antichi, si svelava agli iniziati uno hiérôn, un oggetto sacro, ineffabile, che assumeva la forma vaga di una pietra, di una palla di terra o di lana o, se si prefe-risce, di una testa... o anche di una mela. È questo hiérôn a essere il lapis alchemico, oggetto delle più formidabili metamorfosi. E almeno ciò che l’erudito audace può de-

80 Wolfram von Eschenbach, Titurel, a cura di M. Dallapiazza, Pratiche, Parma 1994, con testo te-desco a fronte [N.d.T.].81 Secondo Plinio il Vecchio, Thitoes avrebbe commissionato, insieme al re Petesuchus, un labirin-to che si trovava nei pressi di Eracleopoli [N.d.T.].82 Henri Boudet, La vraie langue celtique et le cromleck de Rennes-les-Bains, C. Lacour, Nìmes 1999, III, 1.

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durre dai testi antichi e dalle raccolte alchemiche... L’abate Saunière trovò una meraviglia simile nella grotta del Bézu o solamente un

mucchio d’oro? Il seguito del messaggio sembra indicare un’altra località per quest’oggetto sacro: io penso (che) sia (la) cappella? (di) vacca (rès).

Probabilmente FKA indica Vaccarès, ma KP potrebbe indicare una cappella? Con-sultiamo la carta geografica Michelin n. 340, che ci fornisce una mappa della Camar-gue. Lì si trova lo stagno di Vaccarès e la sua riserva naturale, ma nessuna cappella. Al contrario, sulle sue rive, contornate da paludi e risaie, vi è un luogo chiamato: Ca-pelière. KP, Capelière...

All’istante, una spiegazione meno fantastica, più prosaica, sorge dalle brume ocra di Rennes-le-Château. Capelière, il cappello, con la sua radice latina caput, indica proprio una... testa.

I crani e le altre teste che infiorano la storia di Rennes sono altrettante indicazioni per indicare Capelière all’iniziato? Il tesoro di Béranger Saunière si trova in quel luo-go?

Con questa nuova possibile localizzazione, la parola mare, rilevata sulla stele ver-ticale, riveste un altro significato: mare può effettivamente essere sinonimo di stagno. Dunque, potrebbe certamente indicare quello di Vaccarès.

Checché ne sia, ora possiamo trascrivere una delle versioni del crittogramma nella sua totalità:

Insegnamento numerario: galena rifatta. Henri me lo ha confidato: un filo d’oro che ha ricevuto Tithoes (è il) catinum, che (il) curato di Hautpoul (considerava) l’euskara mistica. Penso (che) sia (la) Capelière (a) Vaccarès.

Un secondo livello di lettura del crittogramma conferma questi dati. Perché Saunière utilizzò questa formulazione bizzarra: «insegnamento numera-

rio»? Avrebbe potuto evocare l’oro o l’argento. Per esempio: OZZR o AZGYT. Molto semplicemente perché NUM può anche significare Numa, uno dei primi re

di Roma. E in questo caso dobbiamo leggere insegnamento di Numa. In relazione a quest’ultimo, troviamo HRCU per Ercole, così come TIT per Tito

Livio. Al richiamo di questo patronimo - Numa - viene necessariamente in mente la leg-

genda dello scudo volante, ma non è necessariamente questo aneddoto che l’abate Saunière voleva farci rilevare. Rileggiamo dunque Tito Livio, il prolifico storico lati-no del I secolo a. C:

Numa investì anche dodici preti salieni in onore di Marte Gravidus e assegnò loro, in qualità d’insegna, la tunica ricamata; inoltre dovevano indossare, per proteggersi il petto, placche di bronzo e corazze cadute dal cielo chiamate ancilia e attraversa-re la città cantando inni ed eseguendo una danza rituale su un ritmo a tre tempi.83

La parola chiave di questo passo dell’opera di Tito Livio è «salieni». Ora, con que-

83 Storia romana, I, 20.

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sto nome non sono indicati solo i sacerdoti romani del dio Marte, ma anche una tribù celta. E questi Salieni o Saluvii, secondo Strabone, occupavano un territorio che si e-stendeva dalla Provenza occidentale, cioè la Camargue, fino ai paraggi di Marsiglia, e comprendente la campagna di Aix, le Alpilles e il vertice del delta del Rodano.

Focalizzandosi sui Salieni, l’abate Saunière non voleva forse attirare la nostra at-tenzione, una volta di più, sulla Camargue?

Per stabilire una relazione fra i Salieni ed Ercole, è sufficiente leggere Macrobio (Saturnales, III, 12, 7-9). D’altra parte, non dimentichiamo che Ercole è l’eroe di pa-recchie leggende provenzali. Si narra, fra l’altro, che attraversando la Provenza, Erco-le proibì alle popolazioni locali di praticare sacrifici umani; argomento che fu anche oggetto di una lunga trattazione nel libro dell’abate Boudet (VII, 3). I Salieni proven-zali praticavano d’altra parte un culto della testa. Nei loro santuari - particolarmente numerosi nella futura regione di Narbonne - non si può non essere colpiti dalla profu-sione di sculture e di incisioni di teste con gli occhi chiusi. Inoltre sono stati trovati crani mummificati, recintati o chiusi in urne o cofanetti. I Celti utilizzavano il cranio delle loro vittime per cerimonie occulte nei loro luoghi sacri; un esempio famoso, ci-tato da Tito Livio, è quello del console romano L. Postumius, ucciso nella foresta di Litana dai Boemi nel 216 a.C.

Insomma, questa storia è affascinante... La testa ha la tendenza a spostarsi dal Ra-zès verso la Provenza, terreno fertile per miti e leggende. Wolfram von Eschenbach d’altronde non si è sbagliato: la sua storia del Graal non è forse tratta da Kyot, un po-eta provenzale84?

Oggi chi sono i guardiani del Graal? In effetti, intorno a questo tesoro si disegna una nebulosa che riesce perfettamente ad ammantarsi di mistero. Chi instilla qualche briciola di verità in una indeterminatezza artistica, come queste pergamene che ritra-scrivono brani dei Vangeli che evocano le spighe di grano? Ora, la summa dei Misteri antichi era la presentazione agli epopti di una spiga di grano mietuta in silenzio (cfr. anche Boudet, IV, 3).

Altrettanto avviene con questa fissazione per i Merovingi-Tutta una letteratura «rennese», che concerne una genealogia parallela dei re di Francia, Dagoberto II, il Priorato di Sion... è nata così, verosimilmente a partire da indicazioni dispensate con parsimonia. Senza dubbio, una persona ben informata ha sussurrato un giorno all’orecchio di un interessato una frase del genere: «La chiave del tesoro sono i Me-rovingi». E l’altro, incapace di comprendere l’allusione, armato di questa sola indica-zione, ha cominciato a costruire il proprio mito, quello del re perduto. Ora, quando si evoca Clovis o Meroveo, si parla di Franchi... salieni.

Che alcuni informatori, di tanto in tanto, lascino filtrare qualche indizio, è provato da un’opera di Jules Verne intitolata Clovis Dardentor85. Il soggetto di questo roman-zo è la ricerca di un tesoro nascosto in Nord Africa, nei pressi di Orano. Si nota subi-to un gioco di parole: oro in. Ma di quale oro si tratta, in realtà? L’anagramma del pa-

84 Gli studiosi hanno identificato Kyot con Guiot de Provins, monaco templare [N.d.T].85 Jules Verne, Clovis Dardentor, U.G.E., Paris 1979. [Trad. it. I viaggi straordinari di Jules Verne, Mursia, Milano 1966 e sgg., vol. XXXIII, N.d.T]

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tronimo del protagonista, Dardentor, ce lo rivela: d’oro ardente. Si tratta dunque dell’oro alchemico. Il nome, Clovis, ci riporta ai Salieni. D’altra parte, Jules Verne soprannomina Orano la «Gouharan degli Arabi». Che fa subito pensare alla frazione di Gourg d’Auran, nel Comune di Quillan. I protagonisti si ritrovano d’altronde al «Vecchio Castello», nel quartiere della «Bianca»: qui non è evidente l’allusione al castello di Blanchefort? Vicino a Mers el-Kebir, l’autore situa una piccola stazione termale chiamata il «Bagno della regina». Ora, si sa che l’antico nome di Rennes-les-Bains era «Bagni di Rennes» e una delle fonti si chiama effettivamente «Bagno della regina». E per orientare definitivamente l’iniziato verso il Razès, ci basterà conoscere il nome del capitano della nave che ha preso in carico la spedizione: Bugarach. Ora, il picco del Bugarach svetta a meno di cinque chilometri da Rennes-le-Chàteau...

Jules Verne evoca il Graal anche quando commette errori volontari destinati ad at-tirare la nostra attenzione su di essi.

Non scrive forse Kralfalla invece di Khrafalla? È recidivo con Sidi-Kraled al posto di Sidi-Khaled. Non mette così l’accento sull’omofonia Kral-Graal?

Michel Lamy86, che si è adoperato per mettere in luce tutti gli enigmi dissimulati in Clovis Dardentor, suggerisce che bisogna cercarne la chiave proprio a ridosso della Fontana Salée, sul luogo di un’antica cappella, al Passo del Capéla, dunque a est di Rennes-les-Bains. Curiosamente, con Capéla ritroviamo il nostro KP...

L’abate Gélis ebbe a che fare con questi misteriosi informatori prima o dopo il suo arricchimento? Due domande che resteranno senza risposta definitiva. Invitiamo tut-tavia i cacciatori di tesori alla più grande prudenza. Le autentiche noie cominciano spesso quando lo sguardo si posa infine sull’oggetto del desiderio.

Che dire, per concludere, su questo misterioso affaire di Rennes-le-Château oltre a quanto è stato già detto? Molto è stato attribuito all’abate Saunière e ben poco è stato provato. Molte piste sono state ingarbugliate a volontà. Altre non sono state esplorate. Se fosse stato alla ricerca del Graal, non dimentichiamo che quest’ultimo, secondo la leggenda, sceglie il suo custode tramite un mezzo favoloso.

Anche la figura di Marie Denarnaud fu spesso confinata nell’ombra, mentre in primo piano emergeva il ruolo dell’abate. Non ci ricorda un poco queste Vergini del Graal, le uniche che avevano il diritto di portare l’oggetto sacro? Ma per quest’ultimo dettaglio, cari lettori, non vi indicheremo mai se da parte nostra si tratta di una sem-plice boutade o del riflesso della verità...

86 Michel Lamy, Jules Verne, initié et initiateur, Payot, Paris 1984.

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TERZA PARTE

APPENDICI

La lapide di Coumesourde

Inclusa da Gérard de Sède nel dossier di Rennes-le-Château, questa pietra incisa fu scoperta nel 1928 da Ernest Cros nel luogo chiamato Coumesourde. Gérard de Sède ci consegna una rappresentazione recto/verso ma, nelle carte personali di Ernest Cros, figurano solo le iscrizioni di una delle due facce. Le lettere CEIL BEIL e la cifra MCCXCII sono note solo grazie a Gérard de Sède.

La pietra di Coumesourde

Per quanto la sua autenticità sia stata contestata, il senso di questa iscrizione mo-

stra che il suo redattore parla dei Misteri templari. SAE(ta) SIS(to) IN MEDIO LINEA UBI M(edio) SECAT LINEA PARVA P(erin) S(tringo) PRAE(cinctus) CUM. Traducendo in modo non letterale, otteniamo: Trattandosi del filo, quando la metà è tagliata, il piccolo cordone serve da cintura,

per serrare molto forte. Le iscrizioni PS. e PRAE-CUM si ritrovano anche sulla lapide orizzontale della

tomba di Rennes-le-Château. Sono collegate da una freccia a due punte e la piovra è raffigurata proprio sotto. Anche in questa occasione, l’allusione si fa chiara.

P.S. = perinstringo: serrare molto forte PRAE = praecinctio: azione di cingere le reni CUM: quando, con...

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Il senso è evidente: Quando (i tentacoli della piovra) ti cingono le reni, serrano fortemente.

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Boudet e i Misteri di Eleusi

Contrariamente a ciò che scrivono numerosi eruditi che hanno letto La vraie lan-gue celtique et le cromlech de Rennes-les-Bains, l’opera dell’abate Henri Boudet non indica affatto la pista di un qualunque tesoro. In compenso, l’ellenista contemporaneo non potrà che essere sorpreso di trovarvi numerose allusioni ai Misteri antichi e, in particolare, a quelli di Eleusi. Per il neofita della cultura classica, non possiamo che consigliare la lettura dei saggi di Paul Foucart87 e Victor Magnien88 su quest’aspetto della religiosità del paganesimo antico. Ma, al fine di fornire al lettore un’idea delle corrispondenze di questa cerimonia religiosa dell’Antichità, che durò circa 2000 anni, con gli scritti e le illustrazioni cifrate di Henri Boudet, la descriveremo qui di seguito, con a fronte il testo di Boudet.

Parleremo solo dei Grandi Misteri, che avevano luogo in settembre-ottobre. Erano preceduti in primavera dai Piccoli Misteri, destinati a dare un’idea all’impetrante del-le cerimonie successive.

Il 13 Boedromion, gli Ateniesi inviavano una scorta a Eleusi, piccolo borgo dell’Attica, per proteggere gli oggetti sacri, gli Mera. Il 14 il corteo, composto fra gli altri dal clero, partiva da Eleusi, passava dai laghi Rheitoi, per il ponte sul Cefiso, poi arrivava al sobborgo del Fico Sacro, a due chilometri dalla porta del Dipylon, dove la processione faceva una sosta. Era la sacerdotessa di Atena, dea patrona della città, ad accoglierli. Gli Mera erano scortati all’Eleusinion di Atene.

Per essere scortati in tutta sicurezza, gli oggetti sacri erano posti in ceste caricate su un carro trainato da buoi. Il corteo imboccava un pericoloso sentiero sul fianco della montagna, poi attraversava un ponte sul lago Rheitos. Questo ponte, ci indica un de-creto ateniese del 421 a.C, per ragioni cultuali aveva una larghezza ben precisa.

Allo stesso modo, nel passo consacrato a «La strada per i carri», Boudet (VIII, 1) scrive: «Si arrivava al villaggio gallese per la strada tracciata ai piedi della montagna del Cardou. [...] Questo cammino possedeva una larghezza determinata, come c’insegna il nome del colle di Bazel».

Si veda anche Boudet, VII, 1: Inoltre, l’estrema inclinazione dei pendii di montagna doveva ispirare un certo ti-more ai colti membri del Neimheid [...] Ci si è anche chiesto come e in che modo avrebbero potuto viaggiare sul carro, inoltrandosi in quella gola quasi inaccessibi-le. Hanno lasciato ai loro discendenti il ricordo esatto dei loro pensieri e del loro imbarazzo momentaneo, chiamando questa montagna Cardou - to cart, viaggiare su un carro, - how, come? in che modo? - car-thow. Anche per il clero di Eleusi questa preoccupazione era costante. Se il carro si fosse

87 Paul Foucart, Les Mystères d’Éleusis, Picard, 1914 (Pardès, 1992).88 Victor Magnien, Les Mystères d’Éleusis, Payot, Paris 1929. [Trad. it. I Misteri di Eleusi, Edizioni di Ar, Padova 1996, N.d.T.]

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ribaltato, se gli oggetti sacri fossero caduti, sarebbe stato giudicato un presagio fune-sto e avrebbe incupito tutto il cerimoniale.

Prima della costruzione del ponte, il corteo imboccava un pericoloso sentiero sul fianco della montagna, che poi diveniva paludoso. Anche Boudet (III, 3) parla di un cammino attraverso un acquitrino, ove si è importunati da insetti ronzanti.

Il 15 Boedromion, giorno chiamato Agurmos, gli iniziati si radunavano nel Poekile, vicino all’Eleusinion. Lo si chiamava anche Prorresis, poiché in quel giorno si inter-diceva ad alcuni l’accesso ai Misteri.

Secondo Foucart89, che si fonda sugli scritti di Plutarco (Vita di Alessandro, 31; Vi-ta di Camillo, 19), la festa cominciava con la luna piena. Ora, Boudet (IV, 4) insiste molto sul tramonto, il levarsi e il tramontare della luna, precisando che l’uomo presta orecchio alle grida. Ora, in quei giorni la folla e i sicofanti denunciavano ed espelle-vano cristiani, barbari e criminali di sangue, che non avevano il diritto di intrufolarsi nei loro ranghi.

Il 16 Boedromion, «Alade mystai!», i candidati all’iniziazione lavavano un maiali-no nel mare prima di procedere al suo sacrificio. Boudet (VIII, 3) evoca la caccia al cinghiale, un cinghiale inseguito, catturato vivo e caricato sulle spalle, come fece Er-cole, che portò quello d’Erimanto a Micene.

Il 17 e 18 Boedromion aveva luogo la festa degli Epidauri; una processione portava le statue delle dee Demetra e Persefone nell’Asklepieion. Arriva il 19, giorno della partenza per Eleusi. Alla testa del corteo si trova la statua di Iacchos; dietro, le ceste sacre contenenti gli Mera, solidamente inquadrate dal collegio sacerdotale, dagli efe-bi, seguiti dai membri delle differenti genos, poi dal popolo. All’uscita da Atene, il corteo imboccava la Via Sacra.

L’espressione Via Sacra si trova testualmente in Boudet (VII, 7), in una nota a piè pagina.

Su questa Via Sacra, che conduceva da Atene a Eleusi, il corteo si fermava all’abaton dei Titopatreion, nel borgo del Fico Sacro in cui si onorava Phytalos. Ar-rivava al ponte sul Cefiso, dove scoppiavano gli scherni di rito. Poi il corteo si ferma-va all’Aphrodision e, uscendo dalla gola, passava il ponte del lago Rheitos. Arrivati al palazzo di Crocone, i partecipanti alla festa si ornavano una gamba e il braccio dal la-to opposto con foglie di zafferano. Dopo questa pausa, il corteo forse si fermava nuo-vamente, sulla tomba di Eumolpo, che si trovava non lontano da lì; infine giungeva a Eleusi, dopo il tramonto. Durante tutto il tragitto regnava un’atmosfera di festa, pun-teggiata da canti, inni, danze.

Questa giornata è evocata da Boudet (IV, 3): «Il mattino (goï za), camminare con facilità. Mezzogiorno (eghuerdi), momento in cui cessa la crescita della luce solare e in cui comincia il suo decrescere. La sera (arratxa) correre in fretta verso casa. Mez-zanotte (gaûherdi), andare verso l’ora, il momento del giorno».

Si scandiva il nome di Iacchos (cfr. Aristofane, Le rane) e, nell’abate Boudet, è «il famoso grido EGUINANE» (VII, 9) a risuonare.

Boudet (IV, 3) parla a due riprese di un brusio che si ode nell’aria. Questa fase dei

89 Foucart, Les Mystères d’Éleusis cit, p. 308.

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Misteri va senza dubbio messa in relazione con ciò che rivela Euripide nella sua tra-gedia Ione (vv. 1074 e sgg.), nonché con una particolarità di quest’angolo del Razès che non è sfuggita a Michel Lamy90.

I futuri iniziati erano armati prima di entrare nel santuario? Domanda spinosa. Sì, se dobbiamo credere a Elio Spartiano (Vita di Adriano, 13). Sappiamo anche, tramite Elio Lampridio, che nei Misteri di Mitra i preti facevano paura ai futuri iniziati mi-nacciandoli con la spada: d’altronde l’imperatore Commodo commise un autentico omicidio, mentre la scena doveva essere solo mimata.

Boudet (IV, 3) sembra evocare la questione: «Spillo: ichkilin. [...] to itch, pungere, - to kill, uccidere, - to inn, alloggiare in un

albergo.» Si veda anche hiltzia: «Presentare la spada dalla parte dell’elsa» (IV, 3). Dopo qualche ora di riposo, la giornata del 20 Boedromion cominciava con tutta

probabilità con le purificazioni. Seguiva una lettura di miti fondamentali in un «libro di pietra» e da una cerimonia in cui «il bambino del focolare» rivestiva un ruolo pri-mordiale. Un’altra cerimonia metteva verosimilmente l’iniziato in contatto con un serpente, poi, rivestito da un velo che gli copriva la testa, con un piede toccava un vello di ariete - se esaminiamo con attenzione una scena dell’urna Lovatelli, che de-scrive una parte delle cerimonie misteriche91.

Questo vello, il dio Còdion dei Misteri, è in rapporto con la leggenda degli Argo-nauti, alla quale Boudet accenna in VIII, 2. In IV, 3, parla di issare le vele e raggiun-gere il Mar Nero: un altro riferimento al viaggio di Giasone e degli Argonauti. Il ter-mine greco mêlon riunisce due significati: ariete o... mela. Senza dubbio è questa la ragione della strizzata d’occhio dell’abate Boudet: in effetti, parla del vello d’oro in un paragrafo consacrato al cibo dei Celti e all’appetito di Ercole. Quanto alle mele d’oro del giardino delle Esperidi, assimilabili al vello d’oro della Colchide - d’altronde, entrambi sorvegliati da un drago, un serpente mostruoso -, Boudet li evo-ca in III, 1.

Sul vaso Lovatelli, la testa dell’iniziato è coperta da un velo. Due allusioni di Bou-det sembrano relative a questa scena. In III, 1, parla di mettere un cappuccio e in II, 4, Boudet evoca una «coperta di lana bianca gettata sulle loro teste come un velo».

La cerimonia successiva mimerà la teogamia di Zeus e Demetra, per mezzo dello ierofante e della sacerdotessa di Demetra (cfr. Tertulliano, Ad Gentes, 11, 7).

Questa fase dei Misteri non è direttamente evocata dall’abate Boudet, nemmeno in modo cifrato, ma... si distingue un personaggio itifallico in un disegno che illustra il libro (si veda 1’«Appendice 3»).

Durante la mattinata, si procedeva anche a sacrificare alcuni bovidi. Fatto confer-mato dall’abate Boudet (VII, 9): «Allora si immolavano delle vittime (due tori bian-chi) pregando...».

Probabilmente seguivano i lavacri purificatori. In seguito, gli iniziati dovevano

90 Michel Lamy, Jules Verne, initié et initiateur, Payot, Paris 1984, p. 141.91 L’urna, risalente al primo periodo dell’età imperiale, fu descritta da Ersilia Lovatelli nel 1879. È conservata al Museo Nazionale Romano di Roma [N.d.T.].

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raggiungere nudi il luogo della loro illuminazione (cfr. Plotino e lo scoliaste delle Nuvole di Aristofane, v. 498). Qui ricevevano dei vestiti nuovi. Guidati dai preti, gli iniziati raggiungevano in seguito la sala del telesterion. Il cerimoniale d’accesso alla terrazza era complicato. Gli iniziati erano suddivisi in diversi gruppi ed entravano da porte differenti. Si deambulava, disposti in lunghe file, fra le colonne, secondo uno schema che faceva assomigliare il rito al passaggio in un labirinto (cfr. Platone, Fe-done, 108a).

Beninteso, un lungo passaggio sui labirinti figura nell’opera di Boudet (IV, 3): «Capanna, etchôla. Una selva di teste sotto lo stesso tetto - head, testa, shoal, una selva, una truppa.»

Poi agli iniziati veniva servita una bevanda, il kykéon. Boudet (IV, 3): «to sot, ine-betirsi a forza di bere».

Questa pozione era a base di allucinogeni? Secondo un’equipe di ricercatori anglo-sassoni, in effetti le visioni dell’iniziato ai Misteri avrebbero un’origine tossicologica: la bevanda offerta agli iniziati sarebbe stata contaminata dalla segale cornuta, un fun-go parassita che può provocare disordini sia fisici che neuropsichici92.

Questa teoria, piuttosto recente - e d’altronde discussa - sembra paradossalmente confermata dalle allusioni di Henri Boudet. In V, 2, con la definizione del termine Kaïrolo, suggerisce che la spiga di grano è la chiave. Nel medesimo paragrafo, si par-la di «assaggiare» e di «grano guasto».

Siamo dunque giunti alla sera del 20, cioè al 21 Boedromion: la notte della prima iniziazione. È richiesto l’assoluto silenzio, lo ierofante si reca nel sancta sanctorum – l’anactoron - che si trova al centro della sala. Lo ierofante pronuncia parole che agli spettatori sembrano incoerenti.

Boudet: «ciangottio incoerente, confuso» (II, 3); proferimento dei «nomi divini» nella loro lingua primitiva (V, 3).

Improvvisamente, le porte che nascondono l’anactoron si spalancano. Gli iniziati più vicini forse distinguono alcuni hiera celati nel sancta sanctorum: pigna, rombo, bambole articolate, palla, ossicino, ruota, mele, specchio, gomitolo di lana. Ma tutti scorgono una piccola distesa d’acqua, una vasca al centro della quale troneggia, su un treppiede, un oggetto del quale gli iniziati non riconoscono la natura (Boudet, II, 3: «galleggiare sull’acqua»): lo hiérôn è di pietra? di terra? È rotondo come una palla, una mela?... Come una testa? (Boudet, IV, 3: «Una testa che medita»). Forse è di forma cangiante? Alcuni lo vedono oblungo come un onphalos, appuntito come un fallo. Ma tutta l’attenzione dell’iniziato è ora attirata da una luce che sembra proveni-re dall’opaion, l’apertura sul tetto, e scivolare nell’anactoron (Boudet, IV, 3: «il lam-po che è certo di nuocere»). Una luce sorge dall’anactoron, è il preludio all’estasi dell’iniziato (la «fiaccola», il «primo raggio che cade», quel «raggio che abbacina» dell’abate Boudet, nelle sue Osservazioni preliminari). Hyé! Kyé! urla lo ierofante (Ippolito, Philosophumena). L’illuminazione coglie l’iniziato, le visioni si susseguo-no.

92 L’ipotesi è stata elaborata per la prima volta da Albert Hofmann. Cfr. I Misteri di Eleusi, Stampa Alternativa, Roma 1993 [N.d.T.].

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Gli pare che l’acqua s’intorbidi, si agiti; si alza il vento, un profumo piacevole rag-giunge le sue narici. Sulla superficie dell’acqua appare un animale. La visione di un acquitrino, del borboros (Boudet, IV, 3: «palude, un luogo acquitrinoso»). L’echeion è risuonato, le apparizioni divine si muovono, appare la forma vaga di un bambino raggiante (Boudet, II, 1 e II, 4: «Il bambino che ancora non è nato»; «irradiare»). Poi l’iniziato sprofonda nella luce divina... (Boudet, III, 1: «bagliore, luce»; II, 5: «fulgo-re di potenza divina»; IV, 3: «accecarsi, l’occhio si chiude come a causa di una bot-ta»).

L’iniziato si risveglierà dopo essere caduto in un sonno letargico. Si ricorda giusto queste parole dello ierofante: «L’augusta Brimo ha partorito un bambino sacro, Bri-mos!».

Solo qualche confuso ricordo ossessionerà la memoria dell’iniziato e soprattutto non lo lascerà mai più quella indescrivibile impressione di aver raggiunto la beatitu-dine, la felicità.

Dioniso era particolarmente onorato durante i Misteri. Nella mitologia, una volta che sua madre morì, Zeus prese l’embrione e lo cucì alla sua coscia. Boudet lo evoca in II, 4, a proposito di Abramo: «È nella composizione celtica di questo nome, ham, gamba, che è trasformata in heam, il bambino che non è ancora nato...».

La difficoltà di ricordarsi ciò che avveniva nei Misteri faceva onorare particolar-mente Mnemosyne (Memoria) da parte del clero e, al momento delle iniziazioni orfi-che, si veniva a conoscenza del cammino che porta verso la dimora degli dei dopo la morte. Le lamelle d’oro orfiche, scoperte in alcune tombe di iniziati, sono guide dell’aldilà, in cui è indicata la strada da percorrere. Si veda Boudet, V, 2, a proposito di Condate: «[...] Poiché si imparavano a memoria le scienze comunicate dai Druidi, - to con, imparare a memoria, - death, la morte e i suoi conseguenze».

Quella notte del 21 Boedromion lascerà traccia non solo nella psiche dei testimoni, ma anche sui loro corpi, in particolare con guarigioni di malati (rifarsi, fra gli altri, all’epigramma di Antifilo guarito dalla cecità). Si veda Boudet (VII, 7) e le guarigio-ni, soprattutto oculari, operate dalla fontana di Nostra Signora di Marceille.

Il giorno del 21 Boedromion era consacrato all’iniziazione di secondo grado: l’epoptèia. Era riservata a chi aveva ricevuto la prima iniziazione da almeno un anno. Venivano evocate alcune leggende, si procedeva allo smembramento e alla ricompo-sizione simbolica di Dioniso, per mezzo di una bambola articolata, si proclamava con solennità: «Ho digiunato, ho bevuto il kykéon, ho prelevato dalla cista; dopo il mio lavoro, ho deposto nel kalathos, poi dal kalathos alla cista»93.

Il 21 sera, dunque il 22 Boedromion, quelli che «vogliono vedere» vengono riuniti. Durante questa cerimonia, si procede nuovamente all’apertura dell’anactoron. Varie visioni colpiscono gli iniziati. Lo hiérôn sembra subire una metamorfosi. Da minerale diventa vegetale. Un albero appare agli occhi degli epopti (Clemente Alessandrino, Stromata, V, 11; Aristofane, Gli uccelli). Poi sembra che un uccello sorvoli questa massa apparentemente luminosa, fluida, pulsante (Porfirio, Sull’astinenza, IV, 16; A-ristofane, Gli uccelli). E l’ingresso nel mondo degli dei. Appare un serpente, sembra

93 Clemente Alessandrino, Protrettico, II, 21 [N.d.T.].

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cacciare l’uccello e, in cima all’albero, appare una coppa (Nonno di Panopoli, Dioni-siache, XL, 469 e sgg.). Se l’anactoron non è che luce, d’altro canto la penombra cir-conda gli epopti. Strane forme si muovono nelle tenebre. Erinni? Piovono colpi, le carni vengono straziate. Paralizzati, non sanno come reagire (Luciano di Samosata, Il tragitto, o il tiranno; Aristofane, Gli uccelli; Achille Tazio, V, 23).

Boudet sembra evocare tutto ciò: «Tormentare, spossare, correre a destra e a man-ca (Agar); spossare, tormentare, causare dolore (Rachele)» (II, 4); «Le tenebre. Placa-re il brusio, i latrati, i belati» (le Erinni talvolta sono paragonate a cani dell’Ade) (IV, 3); ancora: «Rompersi l’osso della gamba, pianti; gridare d’orrore alla vista del nemi-co» (IV, 3).

Questa aggressione invisibile termina bruscamente così com’era iniziata. Appare lo ierofante. Sembra in trance, posseduto, diventa medium (Giamblico, De mysteriis, III, 6 e Boudet, II, 2: «il potere, la facoltà di possedere un uomo per grazia di Dio».) Un sottile filo di lana sembra uscire dalla sua bocca (Boudet, IV, 3: «Trama di lana»). A poco a poco si trasforma in una massa informe: si distinguono un braccio, una gamba, una testa. L’ectoplasma prende forma. Talvolta la sua natura può essere difficile da determinare (Proclo, Teologia, «Commentario alla Repubblica di Platone»). Le appa-rizioni si susseguono a una cadenza accelerata. Si muovono con sempre maggiore ra-pidità. È la ronda degli dei (Damascio, Trattato dei primi principi). Poi giunge il culmine dell’iniziazione: lo ierofante presenta una spiga mietuta in silenzio (Ippolito, Philosophumena). Una spiga assai speciale.

Boudet (IV, 3) parla della presentazione dell’immagine della spiga; in II, 5, di mie-tere e falciare. Una spiga di grano che Boudet confonde col menhir (V, 2): «Il menhir, a causa della sua forma aguzza e appuntita, rappresentava l’alimento di prima neces-sità, il grano - main, principale, - ear, spiga di grano».

Secondo Tertulliano (Adversus Valentinianos, 1), questa spina di grano è un’allegoria del fallo. Boudet sembra dello stesso parere, poiché una delle figure di-scernibili in un disegno del suo libro rappresenta un uomo con il sesso eretto; e il ses-so sarebbe un menhir (si veda l’iconografia).

Inebetito, alla fine l’iniziato uscirà dal telesterion con le idee confuse, sconcertato e con il corpo segnato dal marchio dell’epoptèia.

Si veda Boudet: «Gioire, salvi, fuori pericolo» (II, 4); «Avere i capelli bianchi» (IV, 3); «La conoscenza del segno della maledizione divina» (II, 2), dunque il mar-chio.

Per il marchio dell’epoptèia, si consulti Clemente Alessandrino (Protrettico, XII, 120, 1; Stromata, V, 11: «I tre giorni potrebbero anche essere il Mistero del marchio, poiché il marchio è il segno per mezzo del quale l’autentico dio si fa riconoscere»). O ancora Tertulliano (Contra Valentinianos, 1) e Gregorio di Nazianzo (Orazioni, XL, 45).

Agli iniziati era proibito rivelare i segreti dei Misteri, pena la morte. Boudet: «Fare attenzione alle istruzioni» (IV, 3); «Parlare un certo gergo all’esterno» (IV, 4) (era possibile parlarne sotto forma allusiva o ellittica, si veda Platone); «Stare attenti, fare attenzione» (V, 2).

Beninteso, esistono altre correlazioni. Ma, in mancanza di testi, iscrizioni, scene

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raffigurate, ci è difficile fare un paragone. Così, l’interpretazione boudetiana di Beze-leel - «bezel, castone di un anello, - to lay, mettere, proiettare, - to ell, misurare» - sembra corrispondere a un’operazione ben precisa.

Per Boudet, éguigané significherebbe grano germogliato. Lo Iacchos dei Misteri corrisponderebbe dunque, secondo Boudet, al fallo di Dioniso.

In II, 1, evoca a più riprese il Noûs divino. In realtà parla del Noûs degli gnostici? Quegli gnostici che, d’altronde, presero a prestito numerosi elementi cultuali dai Mi-steri antichi (cfr. Ippolito, Philosophumena).

D’altra parte, in II, 5, Boudet insiste pesantemente su un cibo straordinario che so-stituisce il grano: la manna; in relazione al menhir, il dolmen. In alcuni Misteri, è probabile che gli impetranti scorgano o assaggino un cibo speciale. Per esempio, nei Misteri di Mitra, il dio nasceva da un masso che si trovava sulla sponda di un fiume, all’ombra di un albero sacro. La sua testa era ricoperta da un berretto frigio. Armato di coltello, recava inoltre una fiaccola che rischiarava le tenebre. Si arrampicava sull’albero, poi si nutriva dei suoi frutti, prima di confezionarsi una veste con le sue foglie.

Come si nota, esiste proprio un enigma Henri Boudet. Non è legato a un tesoro, ma piuttosto alle sue conoscenze assai approfondite dei Misteri antichi. Da dove, da chi le aveva apprese? Sono queste le domande che è necessario porsi...

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Alcuni disegni assai singolari

Non è solo negli scritti dell’abate Boudet che vengono espresse sorprendenti cono-scenze. Anche le illustrazioni del libro celano numerosi aspetti singolari.

La sua mappa della «Rennes celtica», per esempio, nasconde infatti un volto, una testa (si veda l’iconografia). Il Bafometto? Oppure il Neimheidh: «[...] Questa miste-riosa figura che plana sulle nostre origini»? (La vraie langue celtique, I, 5)

Un’altra illustrazione del libro è il lembo di roccia che dovrebbe trovarsi sulla riva sinistra della Sals, di fronte a Borde-Neuve. Vi si possono trovare le immagini del Pan mitologico, creatura antropomorfa dalla testa caprina i cui piedi erano ornati da zoccoli. Zoccoli che ritroviamo in questa illustrazione.

Le visioni indotte durante i Misteri antichi spesso erano relative a creature fantasti-che. Paradossalmente, si ritrova anche la figura di un leone che tira fuori la lingua. Tuttavia, un passo degli Oracoli caldaici, conservato da Psello, ci permette di com-prendere che in uno dei riti magici dell’Antichità: «[...] Vedrai tutto a forma di leone; allora la volta celeste non appare, gli astri non brillano, la luce lunare resta nascosta, la terra non si regge e tutto è rischiarato dalla folgore»94.

Tutte queste figure boudetiane rimandano infatti ai Misteri antichi pagani. Per e-sempio, l’ostrica si ritrova in un celebre paragone platonico. Nel Fedro, il filosofo a-teniese scrive:

La bellezza brillava allora in tutta luce, quando nella beata schiera ne godevamo la beatifica visione, noi al seguito di Giove, altri di un altro dio, ed eravamo iniziati a quella iniziazione che si può ben dire la più beatifica di tutte; e la celebravamo in-tegri e inesperti dei mali che in seguito ci avrebbero atteso, in misterica contempla-zione di integre e semplici, immobili e venerabili forme, immersi in una luce pura, noi stessi puri e privi di questa tomba che ora ci portiamo in giro col nome di cor-po, imprigionati in esso come un’ostrica.95

In un’altra illustrazione del libro, si ritrova un cranio, un uccello, una persona che

si sporge da un masso o che esce da esso (Agdistis? Mitra Persiana?), di cui si scorge il volto, il berretto e una mano. Nel quadro delle apparizioni fantastiche, si può anche distinguere ciò che oggi chiamiamo OVNI, così come una creatura dal profilo gallico, che agli specialisti ricorderà un tipo di «extraterrestre», quello col «profilo aquili-no»96.

94 Oracoli caldaici, frammento 147, Libreria romana, Roma 1992 [N.d.T.]. 95 Platone, Fedro, 249d-250c. [Trad. it. Opere, Laterza, Roma-Bari 1967, vol. I, p. 759, N.d.T.] 96 Gildas Bourdais, OVNIS. La levée progressive du segret, Jean-Michel Grandsire, Agnières 2001.

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Béranger Saunière

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La chiesa di Rennes-le-Château fu consacrata a Maria Maddalena nel 1059.

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La volta celeste della chiesa di Rennes-le-Château.

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In alto: l'iscrizione che sormonta il portone d'ingresso: «Terribilis est locus iste». Sopra: il Monte delle Beatitudini con l'iscrizione:

«Venite a me, voi che soffrite, che siete prostrati, e vi recherò sollievo».

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Qui e nelle pagine seguenti: «Tutto un popolo di statue truccate come mimi, colte in posture insolite, che ne urlano di tutti i colori

e fissano sul visitatore il loro insostenibile sguardo vitreo...».

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Qui e nelle pagine seguenti: alcune Stazioni della Via Crucis.

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